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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di FEBBRAIO 2012

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aggiornamento al 27.02.2012

aggiornamento al 20.02.2012

aggiornamento al 16.02.2012

aggiornamento al 13.02.2012

aggiornamento al 10.02.2012

aggiornamento al 09.02.2012

aggiornamento al 06.02.2012

aggiornamento al 02.02.2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 27.02.2012

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IN EVIDENZA

INCARICHI PROFESSIONALI: Sul risarcimento del danno per illegittimo affidamento di incarico all'esterno dell'ente pubblico.
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Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta.
Il “dies a quo”, dunque, è quello in cui si è verificato il “fatto dannoso” e tale data è stata identificata dalla giurisprudenza in quella in cui si è verificato il danno quale componente del fatto.
---------------
Per la generalità degli enti pubblici opera l'art. 7, c. 6, del dlgs 30.03.2001, n. 165 (già D.lgs. 03.02.1993, n. 29), che consente alle amministrazioni pubbliche di conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza e per esigenze cui non possano far fronte con le risorse interne.
La giurisprudenza amministrativa ha evidenziato come il conferimento d’incarichi a soggetti esterni all'amministrazione abbia costituito, e costituisca tuttora, una fattispecie ricorrente in tema di responsabilità amministrativa. E’ possibile cogliere, nella giurisprudenza della Corte dei conti, princìpi e criteri direttivi in grado di orientare utilmente l'interprete e l'operatore, pur nella varietà e complessità delle situazioni concrete.
I su detti principi e criteri da seguire, a proposito dell’attribuzione d’incarichi, sono, in linea di massima:
a) il conferimento dell'incarico deve essere legato a problemi che richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze;
b) l'incarico deve caratterizzarsi in quanto non implicante svolgimento di attività continuativa ma anzi la soluzione di specifiche problematiche già individuate al momento del conferimento dell'incarico del quale debbono costituire l'oggetto;
c) l'incarico deve presentare le caratteristiche della specificità e della temporaneità;
d) l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare fittiziamente compiti istituzionali e ruoli organici dell'ente;
e) il compenso connesso all'incarico deve essere proporzionale all'attività svolta e non liquidato in maniera forfetaria;
f) la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata;
g) l'incarico non deve essere generico od indeterminato;
h) i criteri di conferimento non debbono essere generici; ne consegue l'illegittimità e la sussistenza di un danno erariale a fronte di un incarico assolutamente generico e non motivato.

Ciascuno dei requisiti sopra indicati –lettere da a) ad h)- è essenziale ai fini della liceità dell’incarico, per cui l’accertamento del difetto di uno solo dei presupposti sopra indicati è sufficiente a qualificarlo come illecito; in proposito si ritiene utile sottolineare che il fine dell'art. 7 dlgs 165/2001 è quello di escludere che sia affidato, con incarichi, l’espletamento di normali attività che potrebbero essere svolte dal personale interno.
La disciplina in esso dettata vuole evitare, dunque, che si possa verificare uno spreco di risorse dell’ente pubblico, mascherando per consulenza un’attività che può essere svolta da personale interno dell’Amministrazione, già da quest’ultima retribuito.
La Pubblica Amministrazione, in conformità al dettato di cui all’art. 97 della Costituzione, deve infatti uniformare i propri comportamenti ai criteri di legalità, economicità, efficienza ed imparzialità dei quali per ius receptum, diviene corollario il principio secondo cui la stessa, nell’assolvimento dei propri compiti istituzionali, deve avvalersi prioritariamente delle proprie strutture organizzative e del personale che vi è preposto.

Va in proposito premesso che, ai sensi dell'art. 1, comma 2, della legge 14.1.1994 n. 20 (come successivamente modificato dalla legge 20.12.1996 n. 639), il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta.
Il “dies a quo”, dunque, è quello in cui si è verificato il “fatto dannoso” e tale data è stata identificata dalla giurisprudenza in quella in cui si è verificato il danno quale componente del fatto.
---------------
Ritiene questo Collegio opportuno, preliminarmente e sinteticamente, illustrare la normativa e la stessa giurisprudenza, in tema di conferimento d’incarichi di collaborazione da parte di pubbliche amministrazioni.
In passato, le norme non disciplinavano in via generale la fattispecie, se non per casi particolari: cfr. l'art. 380 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3 - T.U. sugli impiegati civili dello Stato, che disciplinava gli incarichi conferiti dai ministri a professori universitari ed esperti di analoga qualificazione. Altre normative specifiche vietavano, in determinate ipotesi, il conferimento d’incarichi esterni: si citano, al riguardo, l'art. 1 del D.P.R. 28.05.1981, n. 247; l'art. 1 del d.l. 26.11.1981, n. 678, conv. con legge 26.01.1982, n. 12, sul blocco degli organici delle USL; infine, l'art. 14, comma 8, della legge 20.05.1985, n. 207, recante la disciplina transitoria per l'inquadramento del personale non di ruolo delle USL.
Le riforme recenti -tanto quelle riguardanti gli enti locali, quanto le norme generali sull'organizzazione dei pubblici uffici- si sono preoccupate, opportunamente, di disciplinare la fattispecie, con la fissazione di regole e principi che peraltro già da diversi anni avevano trovato ampia considerazione nella giurisprudenza contabile.
La prima disposizione di legge in materia, in ordine di tempo, è stata dettata per gli enti locali dall'art. 51 della legge 08.06.1990, n. 142, come modificato dalla legge 15.05.1997, n. 127; la norma è stata poi trasfusa nell’art. 110 del T.U. n. 267/2000.
Per la generalità degli enti pubblici, opera invece l'art. 7, c. 6, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (già D.lgs. 03.02.1993, n. 29), che consente alle amministrazioni pubbliche di conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza e per esigenze cui non possano far fronte con le risorse interne. Differenti sono le regole per il conferimento degli incarichi da parte dei Ministri, definite con il regolamento approvato con D.P.R. 18.04.1994, n. 338.
La crescita del fenomeno e l’utilizzo improprio delle collaborazioni negli ultimi anni, hanno portato il legislatore, in sede di legge finanziaria -v. gli artt. 34 della legge 27.12.2002, n. 289 e 3 della legge 24.12.2003, n. 350- ad intervenire in materia con disposizioni restrittive ai fini del contenimento della spesa; sempre al medesimo scopo di contenere le relative spese, l’articolo 1, commi 9 e 11, del d.l. 12.07.2004, n. 168, convertito con legge 30.07.2004, n. 191, poneva un limite alla spesa per gli incarichi per le regioni, le province e i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, prevedendo altresì che l’affidamento d’incarichi, in assenza dei presupposti stabiliti dall’articolo 1, comma 9, “… costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale”.
In ordine a tale normativa è intervenuta la circolare della Funzione pubblica n. 4 del 15.07.2004, nella quale si afferma (in piena sintonia con la giurisprudenza della Corte dei conti nella materia, puntualmente richiamata) che la possibilità di ricorrere a rapporti di collaborazione sussiste solo per prestazioni di elevata professionalità, contraddistinte da una elevata autonomia nel loro svolgimento, tale da caratterizzarle quali prestazioni di lavoro autonomo; l’affidamento dell’incarico a terzi può dunque avvenire solo nell’ipotesi in cui l’amministrazione non sia in grado di far fronte ad una particolare e temporanea esigenza con le risorse professionali presenti in quel momento al suo interno.
Per completezza, può poi precisarsi che le disposizioni dei commi 9 e 11 dell’articolo 1 della legge n. 191/2004 hanno cessato di essere in vigore il 31.12.2004 e sono state sostituite, a decorrere dall'01.01.2005, dall’articolo 1, commi 11 e 42, della legge 30.12.2004, n. 311 (legge finanziaria 2005), il cui contenuto è stato peraltro illustrato dalle SS.RR. della Corte dei conti, con deliberazione n. 6/2005, “Linee di indirizzo e criteri interpretativi sulle disposizioni della legge 30.12.2004, n. 311 (finanziaria 2005) in materia di affidamento d’incarichi di studio o di ricerca ovvero di consulenza (art. 1, commi 11 e 42)”.
Più in particolare, il comma 11 dispone che il conferimento dell’incarico deve essere adeguatamente motivato ed “… è possibile soltanto nei casi previsti dalla legge ovvero nelle ipotesi di eventi straordinari”. Le amministrazioni statali, gli enti pubblici nazionali non economici e le regioni possono quindi conferire incarichi esterni solo nei casi previsti dalla legge nazionale o dalle leggi regionali, salvi gli eventi straordinari. La norma ha poi confermato il limite della spesa per il conferimento degli incarichi esterni, determinandolo nell’importo erogato per lo stesso oggetto nel 2004.
Il D.L. n. 223/2006, conv. con L. n. 248/2006 e la legge finanziaria n. 244/2007 per l’anno 2008 (legge 24.12.2007, n. 244, art. 3, commi da 54 a 57 e 76), con diverse disposizioni, hanno da ultimo definito ulteriormente il già articolato regime delle collaborazioni esterne nella P.A., consolidando la tendenza a limitare il ricorso a tali tipologie contrattuali ad ipotesi eccezionali e, indirettamente, costituendo i presupposti per una riduzione della spesa correlata, con apposita modifica del testo dell’art. 7 D.Lgs. n. 165/2001. I principi recati da tali ultime normative –che sostanzialmente confermano quelli già in vigore– sono stati oggetto anch’essi di apposita deliberazione 24.04.2008 n. 6/2008 della Corte dei conti, Sez. autonomie, che ha precisato i criteri interpretativi.
Per quel che riguarda invece la posizione della giurisprudenza, va evidenziato come il conferimento d’incarichi a soggetti esterni all'amministrazione abbia costituito, e costituisca tuttora, una fattispecie ricorrente in tema di responsabilità amministrativa. E’ possibile cogliere, nella giurisprudenza della Corte dei conti, princìpi e criteri direttivi in grado di orientare utilmente l'interprete e l'operatore, pur nella varietà e complessità delle situazioni concrete.
I su detti principi e criteri da seguire, a proposito dell’attribuzione d’incarichi, sono, in linea di massima:
a) il conferimento dell'incarico deve essere legato a problemi che richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze;
b) l'incarico deve caratterizzarsi in quanto non implicante svolgimento di attività continuativa ma anzi la soluzione di specifiche problematiche già individuate al momento del conferimento dell'incarico del quale debbono costituire l'oggetto;
c) l'incarico deve presentare le caratteristiche della specificità e della temporaneità;
d) l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare fittiziamente compiti istituzionali e ruoli organici dell'ente;
e) il compenso connesso all'incarico deve essere proporzionale all'attività svolta e non liquidato in maniera forfetaria;
f) la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata;
g) l'incarico non deve essere generico od indeterminato;
h) i criteri di conferimento non debbono essere generici; ne consegue l'illegittimità e la sussistenza di un danno erariale a fronte di un incarico assolutamente generico e non motivato.
Si possono citare in proposito, ex multis, Corte dei conti, Sez. I, 02.09.2008, n. 393, 17.09.2007, n. 248 e 31.05.2005, n. 187; Sez. II, 11.06.2001, n. 208; Sez. III, 06.02.2006, n. 74 e 13.04.2005 n. 183; Sez. sic. appello, 02.04.2002, n. 46 e 01.08.2000, n. 100; Sez. riun. 12.06.1998, n. 27. Anche la Sezione controllo enti di questa Corte, già nella deliberazione 22.07.1994, n. 33, aveva rappresentato la necessità di evitare che l’affidamento d’incarichi a terzi si traducesse in forme atipiche di assunzione, con la conseguente elusione delle disposizioni sul reclutamento e delle norme in materia di contenimento della spesa.
La posizione della giurisprudenza contabile, sopra illustrata, è stata tenuta presente sia dal Legislatore sia dalla stessa Funzione Pubblica, in sede di adeguamento e interpretazione della normativa successivamente intervenuta nella materia (cfr., in identici termini, Corte dei conti, Sez. Prima Centrale Appello sent. n. 145/2009).
Ciascuno dei requisiti sopra indicati –lettere da a) ad h)- è essenziale ai fini della liceità dell’incarico, per cui l’accertamento del difetto di uno solo dei presupposti sopra indicati è sufficiente a qualificarlo come illecito; in proposito si ritiene utile sottolineare che il fine del citato art. 7 è quello di escludere che sia affidato, con incarichi, l’espletamento di normali attività che potrebbero essere svolte dal personale interno.
La disciplina in esso dettata vuole evitare, dunque, che si possa verificare uno spreco di risorse dell’ente pubblico, mascherando per consulenza un’attività che può essere svolta da personale interno dell’Amministrazione, già da quest’ultima retribuito (Corte dei conti, Sez. Lazio, 18.08.2009, n. 1660).
La Pubblica Amministrazione, in conformità al dettato di cui all’art. 97 della Costituzione, deve infatti uniformare i propri comportamenti ai criteri di legalità, economicità, efficienza ed imparzialità dei quali per ius receptum, diviene corollario il principio secondo cui la stessa, nell’assolvimento dei propri compiti istituzionali, deve avvalersi prioritariamente delle proprie strutture organizzative e del personale che vi è preposto (Corte dei conti, Sez. Sardegna, 18.09.2008, n. 1831; Corte dei conti, Sez. Lazio, 12.05.2008, n. 787).
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Tanto premesso, il Collegio osserva che l’esame della documentazione depositata sia dalla Procura sia dalla difesa a sostegno delle rispettive tesi, evidenzia che le prestazioni lavorative richieste al p.i.e. ..., dedotte in contratto, ineriscono ad attività di carattere squisitamente tecnico-gestionale. Sul punto non vi è contestazione perché la difesa espressamente (pag. 10 e segg. della memoria difensiva) afferma che “Nel corso del rapporto con l’Amministrazione comunale di Laglio, ... predispose tutti gli atti di gestione e le determinazioni dell’Ufficio tecnico di poi emanate dal Sindaco in qualità di responsabile del servizio, avvalendosi dell’attività istruttoria dell’arch. ... e svolgendo pure autonomamente attività di istruttoria delle pratiche, anche oltre l’impegno orario (12 ore settimanali) convenuto nell’incarico professionale”. A ciò segue un elenco, documentato, dei “procedimenti più significativi e complessi seguiti interamente dal solo ...” [lettere da a) sino a q) della memoria]. Ciò posto, si respinge -perché ininfluente- la richiesta di prova testimoniale al riguardo.
Altra specifica connotazione della prestazione lavorativa del ... è stata la continuità: dall’iniziale previsione di mesi sei si è passati, con le delibere di proroga indicate in narrativa, a ben oltre tre anni di attività espletata. Tali rilevazioni fattuali, ad avviso del Collegio, valgono ad escludere che la fattispecie concreta rientri sia nella previsione normativa ex art. 90 d.lgs. n. 267/2000, poiché i compiti svolti non attengono alle funzioni di indirizzo e controllo previsti dalla norma indicata, sia nella previsione normativa di cui all’art. 110 d.lgs. n. 267/2000, perché per un verso la norma citata prevede, tra l’altro, che i contratti a tempo determinato di funzionari dell’area direttiva, di dirigenti e alte specializzazioni possano essere stipulati “solo in assenza di professionalità analoghe presenti all’interno dell’ente” (nell’amministrazione comunale era presente, come detto, l’arch. ...) e, per altro verso, la temporaneità ed i limiti del rapporto normativamente previsto non possono essere elusi, come avviene nella fattispecie considerata in ragione delle proroghe del termine del contratto inizialmente stipulato, e determinare un sostanziale incardinamento del ... nel personale dell’amministrazione comunale.
Il difetto dei requisiti sopra indicati, essenziali per legittimare l’affidamento di attività istituzionale, è da solo sufficiente a qualificare come illecito l’incarico affidato al ....
Anche se tali osservazioni hanno rilievo assorbente ed esimono dall’esame analitico degli altri profili d’illegittimità e illiceità di affidamento dell’incarico di cui trattasi, il Collegio –considerando il contenuto effettivo dell’incarico e della durata dello stesso- ritiene di puntualizzare che la fattispecie concreta si connota, in buona sostanza, come incardinamento del p.i.e. ... nella struttura amministrativa, con elusione della normazione vigente in materia e violazione dei princìpi e delle regole che attengono all’imparzialità e buon andamento della P.A.
In merito all’elemento soggettivo dell’illecito, il Collegio ritiene che si tratti di colpa grave, considerate le chiarissime previsioni normative concernenti i requisiti di legittimità del conferimento d’incarichi all’esterno, violate nel caso di specie.
Il profilo d’illiceità accertato incide anche sulla valutazione dei vantaggi comunque conseguiti, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, L. n. 20/1994 in base al quale “nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’Amministrazione o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità”.
Occorre verificare e valutare se il medesimo fatto generatore del danno ha anche determinato un vantaggio in relazione ai comportamenti tenuti; accertamento dell’effettività dell’utilitas conseguita; rispondenza della stessa utilitas ai fini istituzionali dell’Amministrazione che li riceve (Corte dei conti, Sez. Lazio, 12.05.2008, n. 787). Il Collegio, in proposito, osserva che l’incarico di cui trattasi ha rivestito carattere d’illiceità, tra l’altro, per il carattere ordinario e continuato dei compiti svolti e, pertanto, l’Ente danneggiato non ha tratto alcuna utilità in ragione della non compiuta utilizzazione e valorizzazione delle professionalità interne, per cui, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, della legge 14.01.1994, n. 20, non si può ridurre o elidere il danno accertato: ciò in quanto nel giudizio di responsabilità non possono essere invocati, come fa la difesa, a titolo di esimenti elementi e circostanze che attengono alla gestione globale dell'ente o struttura amministrativa (cfr., in termini sostanzialmente identici, Corte dei conti, Sez. Giur. Lomb. Sent. n. 648/2009 e Sez. Terza Centrale Appello sent. n. 3/2003).
Nondimeno si ravvisano, nella vicenda in esame, elementi (difficoltà strutturali e operative del Comune, segnatamente dell’Ufficio Tecnico a causa di insufficienza di personale) i quali, pur non potendo costituire esimenti di responsabilità, sono, tuttavia, idonei a giustificare l'esercizio del potere riduttivo attribuito al Giudice contabile e, pertanto, il danno addebitabile non sarà rivalutato. (art. 52 TUCL n. 1214 del 1934)
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 24.01.2012 n. 26 - link a www.corteconti.it).

     Ancora oggi, troppo spesso si abusa nel conferire incarichi di ogni sorta all'esterno della pubblica amministrazione, con conseguente depauperamento delle finanze pubbliche. E ciò si verifica, da parte dei funzionari con potere gestionale di spesa, soprattutto (e non solo) per "compiacere" il Sindaco o l'assessore del caso (avendo, in contropartita, la tranquillità di mantenere lo scranno di responsabile di servizio/settore con l'annessa lauta retribuzione di posizione e di risultato a fine anno). E già, perché se non "collaborano" si trovano defenestrati dall'oggi al domani ...
     Ma a questi funzionari che scientemente non rispettano la legge, gettando il discredito sull'Istituzione cui appartengono e su tutti gli altri dipendenti che -entrando a lavorare nella pubblica amministrazione- convintamente hanno fatto solenne promessa secondo la formula "
Prometto di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi dello Stato, di adempiere ai doveri del mio ufficio nell'interesse dell'Amministrazione per il pubblico bene", auguriamo di cuore che la Corte dei Conti -quanto prima e men che se lo aspettano- suoni loro il citofono di casa ... auguri !!!
27.02.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

NOVITA' NEL SITO

Inseriti nel sito i seguenti nuovi DOSSIER: ● agibilità; ● decadenza p.d.c..

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Benessere individuale: lo stress da lavoro e le sue conseguenze (CGIL-FP di Bergamo, nota 22.02.2012).

PUBBLICO IMPIEGO: Benessere organizzativo: valorizzare le persone per valorizzare l'organizzazione (CGIL-FP di Bergamo, nota 20.02.2012).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: realizzazione di cabine elettriche per la connessione di nuove utenze alla rete elettrica (ANCE Bergamo, circolare 24.02.2012 n. 61).

APPALTI: Oggetto: Intervento sostitutivo della stazione appaltante - art. 4 D.P.R. n. 207/2010 (ANCE Bergamo, circolare 24.02.2012 n. 56).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Art. 16, comma 17, del decreto legge 13.08.2011, n. 138, convertito dalla legge 14.09.2011, n. 148, concernente la riduzione del numero dei consiglieri e degli assessori comunali per i comuni fino a 10.000 abitanti (Prefettura di Bergamo, circolare 21.02.2012 n. 2/2012).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Da Legambiente il Regolamento Edilizio Nazionale, con esempi concreti di edilizia sostenibile.
Rendere più sostenibile l'edilizia italiana è possibile semplicemente “guardando e copiando bene” dai Comuni più virtuosi nell'innovazione energetica e ambientale.
E’ quanto sostiene Legambiente che invita tutte le amministrazioni comunali ad adottare un regolamento edilizio che contenga il meglio di tutti i regolamenti comunali italiani.
Al riguardo Legambiente ha pubblicato il Regolamento edilizio nazionale dell’edilizia sostenibile, che tratta i seguenti argomenti:
● isolamento termico;
● prestazione dei serramenti;
● integrazione delle fonti rinnovabili;
● utilizzo delle tecnologie per l'efficienza energetica e contabilizzazione individuale del calore;
● orientamento e schermatura degli edifici;
● materiali da costruzione;
● risparmio idrico e recupero delle acque meteoriche,
● isolamento acustico;
● permeabilità dei suoli;
● certificazione energetica.
Il documento è utile a tutti i tecnici e ai progettisti, in quanto propone spunti interessanti di edilizia sostenibile (link a www.acca.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: L. Bellagamba, L’assoluta autocertificabilità del DURC - Ultimo aggiornamento: la “genialata” dell’INAIL (23.02.2012 - link a www.linobellagamba.it).

LAVORI PUBBLICI: L. Bellagamba, Leasing in costruendo e concessione fredda: la non convincente ricostruzione giuridica di Corte dei Conti, sez. reg. controllo Emilia Romagna, deliberazione 19.01.2012, n. 5 - Il consiglio pratico ai sindaci alle prese con il fotovoltaico (22.02.2012 - link a www.linobellagamba.it).

ENTI LOCALI - URBANISTICA: S. Abbate, Il piano delle alienazioni degli immobili comunali e il prodigio della moltiplicazione dei pani e dei pesci (link a http://venetoius.myblog.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L.R. Lombardia n. 1/2012: tabella di comparazione con la L. 241/1990 (link a www.studiospallino.it).

APPALTI: A. Concas, Le caratteristiche del contratto di appalto (link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: R. Chiarella, Governo del territorio e jus aedificandi - Il problema dei trasferimenti di volumetria (link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. Scognamiglio, Laboratorio sui reati in materia urbanistica e di tutela del paesaggio - Questioni attuali in materia di reati edilizi e di condoni (24.10.2011 - link a www.lexambiente.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI - VARI: D.L. 29.12.2011, n. 216 - Proroga di termini previsti da disposizioni legislative - Testo del decreto-legge comprendente le modificazioni apportate dalla Camera dei deputati e dal Senato della Repubblica in attesa di pubblicazione sulla G.U..

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 21.02.2012, "Pubblicazione dei testi coordinati del regolamento regionale n. 4/2008 e del titolo X della l.r 31/2008" (comunicato regionale 14.02.2012 n. 19).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 20.02.2012, "Determinazioni generali in merito alla caratterizzazione delle emissioni gassose in atmosfera derivanti da attività a forte impatto odorigeno" (deliberazione G.R. 15.02.2012 n. 3018).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 20.02.2012, "Approvazione proposta definitiva ridelimitazione dei comprensori di bonifica e irrigazione ai sensi degli artt. 78 e 79-bis della l.r. 31/2008" (deliberazione G.R. 08.02.2012 n. 2994).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U.U.E. 28.01.2012 n. L 26/1 "DIRETTIVA 2011/92/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 13.12.2011 concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati" (link a http://eur-lex.europa.eu).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Commissione giudicatrice, variazione dopo l'apertura delle buste?
Domanda.
Nelle gare d'appalto può procedersi alla modifica della struttura della Commissione giudicatrice (con l'aggiunta di due Commissari esterni rispetto ai tre componenti originari) in un momento successivo all'apertura delle buste contenenti le offerte tecniche?
Risposta.
Una modifica di tal fatta deve ritenersi illegittima. Invero, la variazione della consistenza numerica dell'organo, ove intervenga in un momento in cui i membri originari avevano già potuto prendere conoscenza dei contenuti delle offerte tecniche presentate dai concorrenti, si pone in contrasto con l'esigenza di trasparenza e la garanzia di continuità delle operazioni valutative che impongono di individuare in detto discrimine temporale il limite invalicabile oltre il quale non può essere variata la consistenza numerica della Commissione.
L'alterazione della composizione numerica dell'organo collegiale si presta al rischio di alterazione del giudizio in corso di formazione e di formazione di maggioranze precostituite, in guisa da cagionare un vulnus ai principi di trasparenza, imparzialità e continuità dell'azione amministrativa (20.02.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Contaminazione del suolo.
Domanda.
I risultati dell'indagine preliminare sulla contaminazione di un terreno di mia proprietà hanno dato, in un valore, esito diverso rispetto a quello rilevato dall'amministrazione. Posso chiedere la ripetizione di detto esame?
Risposta.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Umbria, sezione I, con la sentenza del 24.07.2010, n. 416, ha affermato che ove i risultati dell'indagine preliminare sulla contaminazione, ottenuti con una procedura corretta e secondo quanto previsto dall'allegato II, della parte IV del titolo V, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, attestino l'esistenza dei presupposti per l'obbligo di presentare il piano di caratterizzazione del sito inquinato, non è necessario procedere ad un riesame dell'indagine. Se così si procedesse, per i giudici amministrativi umbri, si concederebbe al responsabile dell'evento inquinante una sorta di seconda chance.
Seconda chance che verrebbe a tradursi in una disapplicazione del principio comunitario «chi inquina, paga» e della disciplina nazionale che ne ha stabilito tempi e modalità attuative. Senza escludere, altresì, un aggravamento del rischio danno per l'ambiente. Infatti, per il predetto Tribunale regionale amministrativo, nella fattispecie esaminata, non è controversa l'applicazione dell'articolo 242 del citato decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, sia per quanto riguarda il superamento delle concentrazioni di soglia di contaminazione (Csc), anche per un solo parametro, sia per quanto riguarda le conseguenze, che si materializzano nell'obbligo di presentazione del piano di caratterizzazione del sito.
La Corte di cassazione, penale, con la sentenza del 30.10.2007, n. 40191, ha precisato che la provincia «qualora accerti l'avvenuto superamento delle anzidette concentrazioni anche per un solo parametro deve darne immediata notizia al comune e alle province competenti per territorio con la descrizione delle misure adottate e nei successivi 30 giorni deve presentare alle Amministrazioni e alla regione competente il piano di caratterizzazione con i requisiti di cui all'allegato n. 2_» (articolo ItaliaOggi Sette del 20.02.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Persona non colpevole.
Domanda.
Pure non essendo responsabile dell'inquinamento di un terreno di mia proprietà, mi devo accollare i costi della bonifica?
Risposta.
L'articolo 242, comma 1, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, prevede che il proprietario di un terreno che scopre una contaminazione del predetto terreno, a lui non imputabile, deve dare comunicazione della scoperta della contaminazione storica, a rischio di aggravamento.
Lo stesso soggetto alla luce del disposto del citato articolo 242, comma 11, è obbligato ad attivare la procedura di bonifica di un sito contaminato di sua proprietà, senza che sussista un rischio di aggravamento, se la contaminazione è avvenuta prima dell'entrata in vigore del suddetto decreto legislativo 03.04.2006, n. 152.
L'articolo 245 del predetto del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, afferma che «il proprietario o il gestore dell'area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento delle concentrazioni di soglia di contaminazione (Csc) deve darne comunicazione_ e attuare le misure di prevenzione».
La normativa, quindi, richiede l'avvio della procedura anche da parte dei soggetti non responsabili, che sono i proprietari dell'area o che hanno su di essa un controllo diretto.
Alla luce di quanto sopra, nonostante il principio «chi inquina, paga», il proprietario incolpevole dell'area o il gestore della stessa, deve comunicare la scoperta di contaminazioni, anche storiche, e deve mettere in atto le misure di prevenzione, e, se necessario, eseguire anche la caratterizzazione dell'area. Però, in casi di interventi eccessivamente onerosi, il soggetto non responsabile dell'inquinamento dell'area non può essere obbligato a concludere gli interventi programmati, atteso che tale obbligo rimane in capo al responsabile della contaminazione, o, in subordine, dell'amministrazione pubblica. L'amministrazione, in un secondo momento, ha il diritto di rivalersi sull'area o chiedere il rimborso delle spese sostenute al proprietario dell'area, anche se incolpevole, nei limiti del valore di mercato dell'area, una volta che la stessa sia stata bonificata.
È da dire che l'articolo 245, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, riconosce al proprietario, o ad altro soggetto interessato, la facoltà, e non l'obbligo, di intervenire, in qualunque momento, volontariamente, per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell'ambito del sito di proprietà o di disponibilità.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Toscana, sezione II, con la sentenza del 22.06.2010, n. 2035, ha affermato che, una volta avviato il procedimento ex articolo 9, del decreto ministeriale 25.10.1999, n. 471, ora sostituito dal su citato articolo 245, l'interessato non può fermarsi alla sola messa in sicurezza e alla redazione del piano di caratterizzazione, ma deve concludere l'intero procedimento, al fine di dare luogo alla bonifica ed al ripristino ambientale già configurate nel piano di caratterizzazione (articolo ItaliaOggi Sette del 20.02.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti in terreno dato in locazione.
Domanda.
In qualità di proprietario locatore, sono responsabile dell'abbandono e deposito incontrollato di rifiuti nel terreno, dato in locazione, nonostante le cautele adottate?
Risposta.
Il codice dell'ambiente, varato con il decreto legislativo n. 152, del 03.04.2006, all'articolo 192, prevede che chiunque abbandoni rifiuti nel suolo e nel sottosuolo è tenuto a procedere alla loro rimozione, al loro avvio al recupero o allo smaltimento ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area. Ai predetti la violazione deve essere imputabile a titolo di dolo o di colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con essi, dai soggetti preposti al controllo. «Il sindaco, aggiunge il predetto articolo, dispone, con ordinanza, le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate».
Il Consiglio di stato, sezione V, con la sentenza n. 4614, del 16.07.2010, ha affermato che, in tema di rifiuti, non è previsto, a differenza di quanto disposto per la bonifica dei siti inquinati, alcun onere reale a carico del proprietario, che possa giustificate l'emanazione di ordinanze amministrative direttamente nei suoi confronti. Pertanto, nei casi di specie, deve essere accertata la colpa del proprietario del sito interessato o di qualunque altro soggetto che si trovi con l'area in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli e, di conseguenza, da imporgli di esercitare la funzione d protezione e custodia del luogo, al fine di evitare che l'area medesima posa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti, nocivi per la salvaguardia dell'ambiente. È da puntualizzare che il requisito della colpa può consistere anche nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un'efficacia custodia del sito interessato.
La Corte di cassazione civile, sezione III, con la sentenza del 22.03.2011, n. 6525, ha affermato che se il proprietario locatore sia a conoscenza della presenza di rifiuti sul suo fondo e non abbia posto in essere tutte le facoltà e tutti i poteri contrattuali e giudiziali esercitabili nei confronti dei conduttori dell'area per esigere la cessazione della situazione illecita, è responsabile, in solido con i conduttori, della violazione dell'obbligo di attivazione rappresentato dal dovere di provvedere alla rimozione ed al ripristino dello stato dei luoghi (articolo ItaliaOggi Sette del 20.02.2012).

NEWS

ENTI LOCALI - VARIIl dl milleproroghe convertito in legge. Rinvii per catasto e inesigibilità.
Prorogati i termini per presentare le domande di variazione catastale dei fabbricati rurali strumentali e le comunicazioni d'inesigibilità dei ruoli agli enti creditori da parte di concessionari e agenti della riscossione.
L'art. 29 del milleproroghe (dl 216/2011, convertito ieri in legge dalla Camera con 336 voti a favore, 61 contrari e 13 astensioni dopo il voto di fiducia), sposta più avanti il termine per presentare le istanze per ottenere il cambio di categoria catastale da parte degli agricoltori, fissato prima al 30/09/2011 e poi al 31 marzo, e considera regolari le domande di variazione presentate entro il 30/06/2012. Inoltre, consente a agenti della riscossione e ex concessionari-esattori di comunicare ai creditori l'inesigibilità delle somme entro il 31/12/2013 per tutti i ruoli consegnati fino al 31/12/2010.
Prima di quest'ultimo intervento normativo, il termine per l'adempimento era il 30/09/2012 per tutti i ruoli consegnati fino al 30/9/2009. Arriva dunque la proroga anche per la presentazione delle domande d'inesigibilità dei ruoli agli enti creditori che in passato hanno riscosso le entrate tramite cartella di pagamento. Equitalia e gli ex concessionari potranno comunicare ai creditori l'inesigibilità delle somme entro il 31/12/2013 per tutti i ruoli consegnati fino al 31/12/2010. Tuttavia, l'art. 29 concede un ulteriore rinvio sia per la presentazione delle comunicazioni sia per effettuare i controlli da parte degli enti creditori. Il termine ordinario triennale per i controlli da parte delle amministrazioni interessate decorre dall'01/01/2014.
Per quanto riguarda i fabbricati rurali (si veda ItaliaOggi di ieri) prorogato al 30 giugno il termine per la presentazione delle domande di variazione catastale all'agenzia del Territorio, al fine di ottenere l'esenzione sui fabbricati rurali strumentali fino al 2011 e il trattamento agevolato dal 2012, con applicazione dell'aliquota ridotta al 2 per mille. Sono considerate regolari anche le domande presentate dopo la scadenza del termine originario, che era inizialmente il 30/09/2011.
La richiesta di variazione va presentata solo dai titolari di fabbricati strumentali. Sono interessati alle variazioni i titolari di immobili strumentali, vale a dire quelli utilizzati per la manipolazione, trasformazione e vendita dei prodotti agricoli (articolo ItaliaOggi del 24.02.2012).

EDILIZIA PRIVATAGuida anti incendi per impianti fotovoltaici.
Arriva una nuova guida per l'installazione degli impianti fotovoltaici nelle attività soggette ai controlli di prevenzione incendi. A predisporla un apposito gruppo di lavoro, costituito da esperti del settore elettrico e approvata recentemente dal Comitato centrale tecnico scientifico per la prevenzione incendi (Ccts).
Con la
nota 07.02.2012 n. 1324 di prot. il Ministero dell'interno, dipartimento Vigili del Fuoco, ha inviato alle direzioni regionali e ai comandi dei Vigili del fuoco la nuova guida per l'installazione degli impianti fotovoltaici nelle attività soggette ai controlli di prevenzione incendi. La guida recepisce i contenuti del dpr 151/2011. E tiene conto delle varie problematiche emerse in sede periferica a seguito delle installazioni di impianti fotovoltaici.
Va detto che gli impianti fotovoltaici non rientrano fra le attività soggette ai controlli di prevenzione incendi, ma l'installazione degli stessi in funzione delle caratteristiche elettriche/costruttive e/o delle relative modalità di posa in opera, può comportare un aggravio del preesistente livello di rischio di incendio. L'aggravio potrebbe concretizzarsi, per il fabbricato servito, in termini di:
- interferenza con il sistema di ventilazione dei prodotti della combustione (ostruzione parziale/totale di traslucidi, impedimenti apertura evacuatori);
- ostacolo alle operazioni di raffreddamento/estinzione difetti combustibili; rischio di propagazione delle fiamme all'esterno o verso I'interno del fabbricato (presenza di condutture sulla copertura di un fabbricato suddiviso in più compartimenti);
- modifica della velocità di propagazione di un incendio in un fabbricato monocompartimento). Rientrano, nel campo di applicazione della seguente guida, gli impianti con tensione in corrente continua (c.c.) non superiore a 1500 V. La guida esamina dettagliatamente:
- i requisiti tecnici (ai fini della prevenzione incendi gli impianti FV dovranno essere progettati, realizzati e manutenuti a regola d'arte;
- verifiche (periodicamente e a ogni trasformazione, ampliamento o modifica dell'impianto dovranno essere eseguite e documentate le verifiche);
- segnaletica di sicurezza (l'area in cui è ubicato il generatore e i suoi accessori, qualora accessibile, dovrà essere segnalata con apposita cartellonistica conforme al dlgs 81/2008);
- salvaguardia degli operatori Vigili del fuoco (è stata presa in considerazione l'installazione di dispositivi di sezionamento per gruppi di moduli, azionabili a distanza, ma ad oggi non se ne richiede l'obbligatorietà in quanto non è nota l'affidabilità nel tempo, né è stata emanata una normativa specifica che ne disciplini la realizzazione, l'utilizzo e la certificazione);
- impianti esistenti (gli impianti fotovoltaici, posti in funzione prima dell'entrata in vigore della guida 2012 e a servizio di un'attività soggetta ai controlli di prevenzione incendi, richiedono, unicamente, gli adempimenti previsti dal comma 6 dell'art. 4 del dpr 151/2011) (articolo ItaliaOggi del 24.02.2012).

ATTI AMMINISTRATIVIDecertificazione. Stop ai certificati inutili. Per tutte le p.a. accesso telematico al registro delle imprese.
Stop ai certificati inutili e via libera alla tanto attesa e mai realizzata interconnessione degli archivi delle pubbliche amministrazioni.

Questo il duplice effetto che cittadini e imprese si attendono dalla Legge di stabilità 2012 secondo la quale, dal 1° gennaio di quest'anno, i certificati rilasciati dalla pubblica amministrazione relativi a stati, qualità personali e fatti sono validi ed utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Secondo la norma, le pubbliche amministrazioni d'ora in poi devono acquisire d'ufficio i dati in possesso delle altre pubbliche amministrazioni, senza chiederli all'interessato.
Basterà un'altra legge, dopo tanti tentativi infruttuosi o solo parzialmente riusciti, a mandare in soffitta la figura del cittadino-postino che recapita le informazioni che lo riguardano da un ente a un altro? Le premesse ci sono ma, come il recente passato dimostra, per rendere efficaci le norme di semplificazione è indispensabile puntare sulle tecnologie della rete, richiamandole sempre come il canale obbligato da utilizzare.
Negli ultimi anni l'alleanza tra legislatore e nuove tecnologie è stata determinante nel semplificare il rapporto tra pubblica amministrazione e imprese, come dimostra l'esperienza delle camere di commercio. Anche in questo caso, gli enti camerali hanno risposto al dettato normativo in chiave tecnologica. A seguito delle nuove norme, infatti, esse saranno destinatarie di un crescente numero di richieste di accessi da parte delle altre pubbliche amministrazioni ai propri archivi, primo fra tutti il Registro delle imprese.
Per favorire l'operatività degli uffici, Unioncamere -di concerto con InfoCamere, la società consortile di informatica delle camere di commercio italiane- ha avviato un'iniziativa per realizzare un unico sito web dal quale ogni amministrazione interessata potrà attingere senza oneri alle informazioni necessarie. Due gli obiettivi. Da un lato, le Camere potranno assolvere agli adempimenti in modo automatizzato ed omogeneo sul territorio. Dall'altro, le pubbliche amministrazioni potranno contare su una medesima modalità di accesso ai dati camerali, semplificando e velocizzando le proprie attività di verifica. Resta esclusa la sola richiesta del certificato antimafia. Le p.a. interessate dovranno rivolgersi alla prefettura, quale amministrazione certificante.
Nei casi in cui le informazioni camerali on-line non siano sufficienti, attraverso il sito le amministrazioni potranno comunque inoltrare specifiche richieste di ulteriori informazioni. Le funzionalità del nuovo portale saranno pienamente operative entro il mese di aprile. Le nuove norme sono invece già operative dal 1° gennaio per le attività degli Sportelli unici delle attività produttive (Suap). Tutte le pratiche ad essi indirizzate, infatti, possono essere inoltrate senza che l'imprenditore debba allegare la certificazione di iscrizione alla Camera di commercio. Attraverso il portale www.impresainungiorno.gov.it, infatti, i Suap possono consultare il Registro Imprese per acquisire direttamente le informazioni desiderate.
Il servizio –sempre realizzato da InfoCamere- si chiama SU-RI ed è disponibile senza oneri per il comune interessato (articolo ItaliaOggi del 24.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Cosa accade quando il consigliere è colpito da sentenza non definitiva. Condanne, iter obbligato. Il consiglio convalida, la prefettura sospende.
Quesito: è possibile convalidare l'elezione di un consigliere comunale condannato con sentenza non definitiva, confermata in appello, alla pena della reclusione di anni 2 per un delitto non colposo (art. 323 c.p.), a seguito della quale lo stesso è stato già sospeso dalla carica di consigliere provinciale? Nel caso specifico, è applicabile l'art. 59, comma 1, lett. b) del Tuoel, considerato che la condanna in appello è intervenuta non dopo, ma prima dell'elezione?
Negli articoli 58 e 59 del dlgs 18.08.2000,n. 267, il legislatore ha distinto diverse tipologie di intervento a seconda che l'amministratore subisca determinate condanne di natura penale prima o dopo l'elezione. In particolare, il legislatore all'art. 58, nell'individuare le diverse cause ostative alla candidatura, ha posto sullo stesso piano le varie fattispecie delittuose, richiedendo in ogni caso una sentenza definitiva, sia per quelle di maggior allarme sociale sia per quelle di (relativo) minor allarme sociale.
Diversamente, l'art. 59, nel dettare una serie di cause che danno luogo alla sospensione di diritto, ha effettuato un'espressa distinzione, richiedendo un maggior grado di accertamento nel caso di reati di impatto sociale minore rispetto ai reati tipici degli amministratori o ai reati di associazione criminosa. In questo secondo caso, infatti, è sufficiente una condanna non definitiva e, quindi anche la sola condanna di primo grado, mentre per i primi la sospensione opera a seguito di sentenza di primo grado confermata in appello. Così ricostruito il modus operandi, risulta evidente che il legislatore ha ritenuto di effettuare, in primo luogo, un distinguo tra la fase relativa alle candidature, antecedente quindi alle elezioni, per la quale richiede l'assenza di determinati pregiudizi di natura penale da parte dell'amministratore, e la fase successiva alle elezioni, per la quale prevede la sospensione di diritto al verificarsi di altre fattispecie.
Da quanto sopra esposto, risulta ora chiaro che, a norma dell'art. 58 del Tuoel, costituiscono cause ostative alla candidatura solo le condanne definitive elencate nello stesso articolo, in ordine alle quali il consiglio svolge l'esame previsto dall'art. 41 Tuoel ai fini della proclamazione degli eletti, nella prima seduta di convocazione e prima di deliberare su qualsiasi altro oggetto. Viceversa, le ipotesi elencate nell'art. 59 del Tuoel non costituiscono cause di incandidabilità ma ipotesi in cui un amministratore è sospeso di diritto dalla carica ricoperta per effetto di una ricognizione sulla loro sussistenza, demandata all'esame del prefetto (comma 4 dello stesso articolo) e avente natura costitutiva.
Solo a seguito di passaggio in giudicato della sentenza di condanna o dalla data in cui diviene definitivo il provvedimento che applica la misura di prevenzione, il successivo comma 6 del citato art. 59 dispone la decadenza di diritto dalla carica elettiva locale. La stessa causa di sospensione rileva sia sulla carica di consigliere provinciale sia sulla carica di consigliere comunale, traendo origine i relativi provvedimenti di sospensione dalla medesima condanna penale, portata a conoscenza dei rispettivi enti di riferimento.
La giurisprudenza ha, infatti, affermato che la sospensione di diritto dalla carica di consigliere comunale, a seguito di sentenza di condanna non definitiva per uno dei delitti previsti dall'art. 59, comma 1, del dlgs 18.08.2000, n. 267, non decorre dalla pubblicazione della sentenza di condanna, ma dalla comunicazione del provvedimento di sospensione emesso dal prefetto al consiglio comunale; ciò sulla base dell'interpretazione letterale e della «ratio» della disposizione, anche alla luce dei successivi commi 3 (cessazione degli effetti della sospensione per decorso del tempo) e 4 dello stesso art. 59, secondo cui l'intervento del prefetto non è meramente dichiarativo, ma costitutivo dell'efficacia della sospensione (Cass. civ., Sez. I, sent. n. n. 16052 dell'08/07/2009).
In merito all'applicabilità dell'art. 59 del Tuoel al caso di specie, in quanto la condanna in appello è intervenuta non dopo, ma prima dell'elezione, la sospensione di diritto, che consegue ope legis, riveste natura cautelare, per essere un'inibizione provvisoria dall'esercizio delle pubbliche funzioni, ancorata al solo presupposto di una doppia condanna; tale misura cautelare è vincolata al solo presupposto della sentenza di condanna di secondo grado, a nulla rilevando che la sentenza di primo grado sia intervenuta prima o dopo l'elezione.
In conclusione, nel caso in esame, sussistendo una sentenza non definitiva confermata in appello alla pena di due anni di reclusione per un delitto non colposo (ipotesi contemplata all'art. 59, comma 1, lett. b), del Tuoel), il consiglio comunale dovrà procedere alla convalida dell'eletto alla quale seguirà la comunicazione, da parte della prefettura, del provvedimento di sospensione di diritto dalla carica del consigliere interessato, in applicazione della norma sopra richiamata (articolo ItaliaOggi del 24.02.2012).

PUBBLICO IMPIEGOPensione ridotta per lo statale part-time. Il taglio corrisponde alla quota di lavoro effettuata.
Nell'ipotesi in cui i dipendenti pubblici abbiano trasformato il loro rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time, con prestazione effettiva dell'attività lavorativa in misura superiore al 50% del tempo pieno (e dunque con riduzione dell'orario di lavoro in misura percentuale inferiore al 50%), la pensione di anzianità liquidata dovrà essere decurtata in misura inversamente proporzionale alla prescelta percentuale di riduzione dell'orario di lavoro. In particolare, dovrà essere decurtata in misura esattamente corrispondente alla percentuale di lavoro effettivamente prestato, anche se ne derivi una decurtazione del trattamento pensionistico superiore al 50 per cento.
Lo ha stabilito la Cassazione con sentenza n. 30662/2011, in seguito a ricorso proposto dall'Inps di cui è stata data notizia con messaggio 3202/2012.
Con altre sentenze, 25800 e 27041/2011, illustrate con messaggio 3203/2012, si informa che la Suprema corte ha stabilito che sono di carattere speciale le norme nei commi 185 e 187 dell'articolo 1 della legge 662/1996 e nel Dm 331/1997, che danno la possibilità nel pubblico impiego di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a parziale con contestuale percezione della pensione di anzianità al 60° anno di età. Tali norme permettono ai dipendenti pubblici, in deroga al regime generale di non cumulabilità, di cumulare parzialmente la pensione di anzianità e il reddito da lavoro dipendente.
Dalla natura speciale, eccezionale e derogatoria di dette norme rispetto al regime generale vigente all'epoca della loro emanazione discende la loro non derogabilità ad opera delle successive disposizioni di carattere generale, introdotte dall'art. 72 della legge 388/2000 e dall'art. 44 della legge 289/2002 (articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2012).

APPALTIFuori dall'appalto per debiti certi ed esigibili.
Le gravi violazioni fiscali che consentono l'esclusione dagli appalti devono riferirsi a debiti certi, scaduti ed esigibili.
È quanto prevede la bozza del decreto legge sulle semplificazioni tributarie esaminata dal preconsiglio dei ministri e attualmente in fase di aggiustamento tecnico presso gli uffici ministeriali competenti, con l'ennesima modifica alla disciplina delle cause di esclusione dagli appalti pubblici.
Si prevede infatti che all'articolo 38 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, sia inserita, dopo il comma 1, lettera g), una ulteriore lettera «g-bis» in cui si precisa il concetto di «grave violazione definitivamente accertata». La proposta contenuta nella bozza del decreto legge stabilisce che costituiscono violazioni gravi definitivamente accertate quelle relative all'obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse che possano essere definiti «certi, scaduti ed esigibili». Solo a tali condizioni che devono, almeno stando al tenore della proposta normativa, essere presenti contemporaneamente, scatta la causa di esclusione. La nuova norma stabilisce che siano fatti salvi i comportamenti già adottati dagli uffici in coerenza con la previsione contenuta alla precedente lettera g-bis).
La norma del provvedimento messo a punto dagli uffici del Mineconomia, guidato da Mario Monti, pur nel suo intento di rendere più chiara la fattispecie di cui alla lettera g) dell'articolo 38, sembra, almeno in questa formulazione, poco chiara. Infatti, per quel che riguarda la «gravità» della violazione, il comma 4 dello stesso articolo 38 già offre elementi chiari e certi. In base alla norma vigente al comma 4, infatti, si intendevano per violazioni gravi quelle che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse per un importo superiore al valore previsto dall'articolo 48-bis, comma 1 e 2-bis, del dpr 29.09.1973, n. 602.
Si tratta del valore di 10.000 euro anche se il citato comma 2-bis prevede che con decreto di natura non regolamentare il ministro dell'economia possa elevarlo fino al doppio, o diminuirlo.
In questo caso, invece, la nuova norma sembra incidere più sulla natura dei debiti per imposte e tasse che, appunto, devono essere «certi, scaduti ed esigibili», ma non sul concetto di gravità della violazione per il quale opera sempre il comma 4 dell'articolo 38 del codice.
Il dubbio derivante da una potenziale sovrapposizione delle due norme, con il superamento del quarto comma dell'articolo 38 potrebbe rimanere. Bizzarro è poi il riferimento agli «uffici», nozione più da circolare ministeriale che non da codice dei contratti pubblici dove si richiamano sempre le stazioni appaltanti e a queste ultime ci si rivolge (articolo ItaliaOggi del 22.02.2012).

ENTI LOCALI - VARIL'Imu perde tutte le agevolazioni dell'Ici.
Soppressione di tutte le esenzioni e agevolazioni Ici, anche se previste in leggi speciali, non espressamente richiamate dalla disciplina Imu, riconoscimento dei benefici fiscali per gli immobili posseduti dai comuni, contrasto alle residenze fittizie per limitare il trattamento agevolato per le abitazioni principali e riduzioni d'imposta per i fabbricati inagibili o inabitabili.
Sono alcune delle modifiche apportate alla disciplina della nuova imposta locale contenute nel dl fiscale, le cui disposizioni limitano l'obbligo di presentare la dichiarazione Imu solo per gli immobili il cui presupposto per l'applicazione dell'imposta è sorto nel 2012.
Stretta sulle agevolazioni - Le norme sulla nuova imposta locale riconoscono solo alcuni benefici fiscali previsti dal dlgs 504/1992. Viene ribadito il criterio interpretativo che si ricava dalla relazione tecnica al dl Monti (201/2011) e cioè che per inquadrare le agevolazioni occorre tener conto non solo delle disposizioni espressamente abrogate, ma anche di quelle non richiamate. Quindi, soppresse esenzioni e riduzioni d'imposta previste dalla disciplina Ici non espressamente richiamate.
Immobili comunali - In seguito alle modiche apportate dal nuovo decreto, i comuni non sono tenuti a pagare l'Imu per gli immobili di cui sono proprietari o titolari di altri diritti reali di godimento quando la loro superficie insiste interamente o prevalentemente sul proprio territorio. In questi casi viene chiarito che il comune non è tenuto a versare la quota di imposta riservata allo Stato.
Inoltre, è stata ripristinata la «vecchia» esenzione riconosciuta dalla normativa Ici per gli immobili siti sul territorio di altri comuni a condizione che siano destinati a compiti istituzionali (sede o ufficio dell'ente).
Abitazione principale - Il dl fiscale tende a contrastare le residenze fittizie e limita il trattamento agevolato all'immobile dove il contribuente e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. L'agevolazione, infatti, si applica a un solo fabbricato, e relative pertinenze, nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale.
Fabbricati inagibili o inabitabili - A differenza di quanto già previsto dall'articolo 8 del decreto legislativo 504/1992, anziché concedere una riduzione d'imposta del 50% per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili, e di fatto non utilizzati, la norma del dl fiscale prevede per questi immobili una riduzione del 50% della base imponibile, limitatamente al periodo dell'anno durante il quale sussistono queste condizioni.
Lo stato di precarietà dell'immobile deve essere accertato dall'ufficio tecnico comunale con perizia a carico del proprietario, il quale è tenuto ad allegare alla dichiarazione la documentazione comprovante lo stato del fabbricato. In alternativa, il contribuente può presentare un'autocertificazione. Viene attribuito ai comuni il potere di disciplinare con regolamento le caratteristiche di fatiscenza sopravvenuta del fabbricato, non superabile con interventi di manutenzione.
Dichiarazione Imu - I contribuenti devono presentare la dichiarazione entro il 30 giugno dell'anno successivo a quello in cui è sorto il presupposto impositivo. Per questo adempimento deve essere utilizzato il modello approvato con decreto ministeriale. Nel provvedimento dovranno essere indicati anche i casi in cui va assolto l'obbligo. Quindi, la dichiarazione Ici vale anche per l'Imu. I contribuenti che hanno già assolto all'obbligo non sono tenuti a presentare una nuova dichiarazione, nonostante si tratti di un tributo diverso.
Come per l'Ici, il contribuente non è tenuto a presentare la dichiarazione Imu se gli elementi rilevanti ai fini dell'imposta sono acquisibili dai comuni attraverso la consultazione della banca dati catastale. L'adempimento è invece richiesto quando: l'immobile viene concesso in locazione finanziaria, un terreno agricolo diventa area edificabile o, viceversa, l'area diviene edificabile in seguito alla demolizione di un fabbricato.
Pertanto, va dichiarato qualsiasi atto costitutivo, modificativo o traslativo del diritto che abbia avuto a oggetto un'area fabbricabile. Non a caso vengono richiamate dal dl fiscale le disposizioni contenute nell'articolo 37, comma 55, del decreto legge 223/2006 che ha abrogato parzialmente l'obbligo (articolo ItaliaOggi del 22.02.2012).

VARIPatente allungata. La scadenza va fino al compleanno. Il decreto semplificazioni crea qualche problema.
Patente di guida a scadenza allungata in base alla data di nascita del titolare.
È questo lo scenario che sembra prospettarsi a seguito alle dichiarazioni del ministro per la semplificazione in merito alle disposizioni operative conseguenti all'entrata in vigore del decreto legge n. 5 del 09.02.2012.
Il provvedimento ha infatti disposto che i documenti di identità e di riconoscimento di cui all'art. 1, comma 1, lett. c), d) ed e), del decreto del dpr n. 445/2000 sono rilasciati o rinnovati con validità prolungata fino alla data del compleanno del titolare immediatamente successiva alla loro scadenza naturale. In pratica si tratta dei documenti rilasciati o rinnovati dopo il 10.02.2012, data di entrata in vigore del decreto legge. Prestando attenzione a quanto è stato dichiarato dal governo (e pubblicato sul portale della funzione pubblica), si può desumere che la patente sia stata volutamente inclusa fra i documenti che, almeno nelle intenzioni dell'esecutivo, scadranno di validità nel giorno del compleanno del titolare. Il tenore letterale dell'art. 7 del decreto legge n. 5/2012 lascia però spazio a forti dubbi e perplessità.
È pur vero che, secondo la definizione che viene data dal dpr 445/2000 è documento di riconoscimento «ogni documento munito di fotografia del titolare e rilasciato, su supporto cartaceo, magnetico o informatico, da una pubblica amministrazione italiana o di altri stati, che consenta l'identificazione personale del titolare», compresa la patente, come peraltro ben evidenziato dal ministero dell'interno con il parere prot. n. 300/A/1/35762/109/16 del 13.12.2004. Però, l'eventuale allungamento fino alla data del compleanno della scadenza di validità che, stando al tenore letterale dell'art. 7, comma 1, riguarderebbe appunto anche le patenti, fa sorgere importanti criticità, in considerazione delle norme speciali nazionali e delle disposizioni comunitarie attualmente vigenti in materia di rilascio e conferma di validità delle licenze di guida.
L'art. 126 del codice della strada fissa in modo netto e preciso la durata di validità delle varie categorie di patente, prevedendo sanzioni pecuniarie e accessorie per chi circola con il documento di guida scaduto. Limitando l'esame alle licenze delle categorie più diffuse, cioè A e B, queste sono valide dieci anni fino al compimento di 50 anni d'età, 5 anni oltre 50 anni d'età e tre anni per gli ultrasettantenni. Ai fini del rilascio, della conferma di validità o di revisione entrano in gioco le varie disposizioni del codice della strada che prevedono prove d'esame teoriche e pratiche e/o accertamenti dei requisiti psicofisici, conferendo così alla patente la funzione principale di attestare l'abilitazione alla guida. Senza considerare, poi, che la stessa patente può maturare diverse scadenze per le differenti categorie di cui il titolare entra in possesso, rendendo quindi problematico concretizzare l'ipotesi di allineare le varie scadenze.
E che sorte avrebbero le scadenze della carta di qualificazione del conducente, collegata alla patente e rilasciata agli autotrasportatori, e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori? Ma, oltre alla specialità delle norme del decreto legislativo n. 285/1992, ulteriori dubbi sull'applicabilità alle licenze di guida dell'art. 7, comma 1, del decreto legge semplificazioni sorgono dalla considerazione che la materia è disciplinata dettagliatamente dalla normativa comunitaria, di volta in volta recepita dall'ordinamento interno.
L'iniziale facoltà d'imporre liberamente le disposizioni nazionali in materia di durata di validità, originariamente consentita dalla direttiva 91/439/Ce del 29.07.1991 del consiglio, è stata superata dalla direttiva 2006/126/Ce del 20.12.2006 del parlamento europeo e del consiglio, che ha fissato limiti precisi per la durata della licenza di guida, derogabili solo previa consultazione della commissione. Tali vincoli temporali sono stati definiti concretamente dal decreto legislativo di attuazione n. 59 del 18.04.2011, che, fra l'altro, introduce modifiche dell'art. 126 del codice della strada con disposizioni applicabili dal 19.01.2013 con riferimento anche a nuove categorie di patente.
Esemplificando la casistica che si configurerebbe dopo l'entrata in vigore «operativa» del decreto legge semplificazioni nell'ipotesi che l'allungamento della scadenza fino alla data del compleanno riguardasse anche le abilitazioni alla guida, se una patente di categoria B venisse rilasciata l'01.04.2012 a un ventenne che compie gli anni il 15 marzo, la licenza di guida scadrebbe non dopo 10 anni, ma dopo quasi 11 anni, cioè il 15.03.2023. Ciò in palese contraddizione con le scadenze previste dal codice stradale e, fra pochi mesi, dal decreto legislativo n. 59/2011.
Un chiarimento, a questo punto, è auspicabile che arrivi dal parlamento durante l'esame del disegno di legge per la conversione del decreto legge n. 5/2012 (articolo ItaliaOggi del 21.02.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Semplificazioni. Cosa cambia per gli spazi realizzati in base alla legge 122/1989. Ok alla vendita separata per i box auto «Tognoli». Il parcheggio dovrà però restare pertinenziale.
Liberalizzazione anche per i parcheggi. Il decreto Semplificazioni (Dl 09.02.2012, n. 5) innova la disciplina inerente il divieto di vendere i cosiddetti "parcheggi Tognoli" su area privata: per questa tipologia di posti auto, dal 10.02.2012 la proprietà può essere trasferita a patto che il parcheggio oggetto della cessione sia contestualmente destinato a pertinenza di un'altra unità immobiliare collocata nello stesso Comune.
Le tipologie.
Per comprendere appieno la novità legislativa, occorre preventivamente compiere un excursus sulle possibili tipologie di parcheggio con le quali si può avere a che fare. Il catalogo può essere così riassunto:
- parcheggi della "legge ponte": sono gli spazi destinati a parcheggio di cui debbono essere obbligatoriamente dotate le costruzioni realizzate dopo l'entrata in vigore della legge 06.08.1967, n. 765 (la cosiddetta legge ponte, perché fece da "ponte" tra la legge urbanistica fondamentale, e cioè la legge 1150/1942, e la cosiddetta legge Bucalossi, vale a dire la legge 10/1977). La legge 765/1967 introdusse l'articolo 41-sexies della legge 1150/1942, secondo il quale, considerando la sua attuale versione, «nelle nuove costruzioni e anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore a un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione»;
- parcheggi della legge Tognoli su area privata: sono disciplinati dall'articolo 9, comma 1, legge 24.03.1989, n. 122 (nota come legge Tognoli, dal cognome del suo fautore), secondo il quale negli edifici –sia di proprietà individuale che di proprietà condominiale– si possono realizzare parcheggi, da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, nel sottosuolo del fabbricato, nei locali siti al piano terreno del fabbricato nonché nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato;
- parcheggi della legge Tognoli su area pubblica: sono i parcheggi disciplinati dall'articolo 9, comma 4, legge 122/1989, secondo il quale i Comuni possono prevedere, nell'ambito del programma urbano dei parcheggi (Pup), la realizzazione di posti auto, su aree comunali o nel sottosuolo delle stesse, da destinare a pertinenza di immobili privati, concedendo il diritto di superficie dell'area pubblica ai privati interessati, a imprese, società o cooperative di costruzione (tutti soggetti che, una volta realizzati i box, li cedono a coloro che possono destinarli a pertinenza di proprie unità immobiliari);
- parcheggi diversi da quelli sopra elencati.
La «circolazione».
È indispensabile tenere distinte le prime tre categorie dalla quarta, in quanto i parcheggi di quest'ultimo tipo non soffrono vincoli in ordine alla loro vendibilità, mentre le prime tre categorie hanno pesanti limitazioni.
I parcheggi della legge ponte, a fronte di un tortuoso iter legislativo e giurisprudenziale –culminato nella legge 28.11.2005, n. 246– sono di libera trasferibilità, ma sono comunque gravati da un vincolo urbanistico di destinazione a parcheggio. Resta poi aperto il tema se l'asservimento obbligatorio di questi spazi al servizio dell'edificio di cui essi fanno parte, qualora realizzatosi prima del 16.12.2005 (giorno di entrata in vigore della legge 246/2005) dispieghi ancor oggi il suo effetto (si veda l'articolo in basso nella pagina).
La semplificazione.
È solo sui parcheggi della legge Tognoli che incide dunque il Dl Semplificazioni del 2012, in vigore dal 10.02.scorso. In precedenza, sia i parcheggi "Tognoli-privati" sia i parcheggi "Tognoli-pubblici" erano accomunati dalla previsione secondo la quale «essi non possono essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale. I relativi atti di cessione sono nulli» (articolo 9, comma 5, legge 122/1989). Con il Dl Semplificazioni si ha una divaricazione:
- la proprietà dei parcheggi "Tognoli-privati" «può essere trasferita, anche in deroga a quanto previsto nel titolo edilizio che ha legittimato la costruzione e nei successivi atti convenzionali» a condizione che vi sia una «contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso comune»;
- il regime dei parcheggi "Tognoli-pubblici" rimane invece invariato: essi non sono trasferibili se non insieme alla unità immobiliare a cui sono destinati quali pertinenze. Se dunque il parcheggio fosse venduto senza l'appartamento o se l'appartamento fosse trasferito con esclusione del parcheggio, il contratto di compravendita sarebbe nullo (articolo Il Sole 24 Ore del 20.02.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti. Limitazioni su più livelli al lavoro flessibile.
Le limitazioni al lavoro flessibile sono la spina nel fianco della gestione del personale degli enti locali per il 2012. La legge di stabilità ha incluso Comuni e Province tra le amministrazioni che possono avvalersi di contratti a tempo determinato, con convenzioni e contratti "co.co.co." nel limite del 50% della spesa sostenuta nel 2009.
L'articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010 ha altresì previsto che la stessa percentuale si applichi anche ai contratti di formazione e lavoro, di somministrazione, ai tirocini formativi e al lavoro accessorio. Così il legislatore ha spazzato via i dubbi sollevati con la delibera 46/2011 dalla Corte dei conti (Sezioni riunite).
La questione principale risiede piuttosto nel fatto che negli enti locali esistono forme lavorative che non sempre si riescono a incasellare tra i contratti di lavoro previsti all'articolo 36 del Dlgs 165/2001. Gli operatori, quindi, hanno sottoposto alcune questioni alle Sezioni regionali della Corte dei conti, consentendo di farsi un'idea più precisa, anche se i pareri discordanti non mancano.
Il Dlgs 267/2000 prevede due tipologie lavorative tipiche per le amministrazioni locali. L'articolo 90 disciplina le assunzioni a tempo determinato in staff degli organi politici, ma senza prevedere limitazioni. Non a caso i magistrati contabili della Campania e delle Marche hanno ritenuto che tali assunzioni rientrino nel limite del 50% della spesa sostenuta nel 2009. La stessa sorte sembrano avere gli incarichi a contratto sia in dotazione che in extra-dotazione organica di cui all'articolo 110. Per le due tipologie si trovano vincoli ben precisi, ma per la Corte dei conti della Toscana (deliberazione 6/2012) anche tali incarichi sono inclusi nel campo di applicazione dell'articolo 9, comma 28.
Vi è poi la possibilità di stipulare contratti di lavoro a tempo determinato per le assunzioni stagionali di forze di polizia locale, finanziate con i proventi del Codice della strada. Anche tali forme, che non rientrano tra le spese di personale, vanno tagliate del 50% della spesa del 2009? Ecco due pareri contrastanti: la Corte dei conti della Lombardia (deliberazione 21/2012) precisa che gli enti dovranno programmare il piano delle assunzioni con le forme di lavoro flessibile anche con riferimento alle assunzioni stagionali, mentre i magistrati della Toscana (deliberazione 10/2012) ritengono tali assunzioni escluse dal campo di applicazione del l'articolo 9, comma 28.
Va pure chiarito che cosa il legislatore intenda per «convenzioni». Potrebbero infatti rientrare nel campo di applicazione della norma l'utilizzo di personale di altre amministrazioni ex articolo 14 del Ccnl 2004. Anche se non ci sono interpretazioni specifiche sull'argomento, la Corte dei conti della Campania (deliberazione 497/2011) ha fatto rientrare nel limite del 50% le situazioni di comando in entrata, tipologia analoga alle convenzioni di cui sopra.
Inoltre, a sorpresa, i giudici toscani hanno escluso dal limite le prestazioni di cui al comma 557 della finanziaria 2005, che concede, ma solo a Comuni sotto i 5mila abitanti e Unioni, di avvalersi di attività lavorativa dei dipendenti di altre amministrazioni. Due pareri in contrasto anche sugli enti che non hanno sostenuto spese per lavoro flessibile nel 2009 o nel triennio 2007/2009. Per i giudici della Lombardia (deliberazione 29/2012) sono consentite le assunzioni determinate da un'assoluta necessità di far fronte a un servizio essenziale: la spesa sarà il parametro finanziario per gli anni successivi. La scelta non è condivisa dalla Corte dei conti della Toscana (deliberazione 14/2009) (articolo Il Sole 24 Ore del 20.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

SEGRETARI COMUNALI: Compensi. La Corte d'appello di Firenze inverte il trend giurisprudenziale. Segretari comunali, stop alla doppia maggiorazione.
IL PUNTO/ Se non si riesce a provare che l'onere è più «pesante», prevale la posizione di Aran, Funzione pubblica e Ragioneria dello Stato.

Come ogni telenovela che si rispetti, la querelle relativa al rapporto tra maggiorazione della retribuzione di posizione dei segretari comunali (il cui scopo è quello di retribuire funzioni aggiuntive rispetto a quelle base del segretario) e la maggiorazione retributiva dovuta al "riallineamento stipendiale" (vale a dire il cosiddetto "galleggiamento", il cui scopo è quello di assicurare al segretario una retribuzione almeno pari a quella del dirigente apicale) si arricchisce di nuove puntate con relativi colpi di scena.
Esattamente due anni fa (si veda in proposito quanto scritto dal Sole 24 Ore del 15.02.2010) veniva riportata la notizia che il Tribunale di Pistoia –contrariamente agli orientamenti espressi dall'Aran, dalla Ragioneria generale dello Stato e dalla Funzione pubblica– aveva affermato per sentenza che i due istituti in oggetto non si influenzavano fra di loro (con la conseguenza che essi si sommavano e non si riassorbivano).
Questa sentenza è poi stata seguita da una giurisprudenza di merito conforme (Tribunali della Spezia, di Rimini, dell'Aquila, di Mantova), con la sola eccezione che era costituita dal Tribunale di Milano.
Recentemente, la Corte d'appello di Firenze, con sentenza 1160/2011, rigettando la domanda avanzata in primo grado dall'ex segretario generale della Provincia di Pistoia, ha affermato che la percentuale delle maggiorazioni, riconosciuta dall'ente in caso di incarichi aggiuntivi, non può essere applicata sulla retribuzione di posizione già adeguata all'indennità percepita dal dirigente maggiormente retribuito dell'ente per effetto del riallineamento stipendiale, qualora il segretario non abbia fornito in giudizio la prova sul fatto che l'incarico aggiuntivo rappresenti e abbia rappresentato un onere maggiore di quanto non lo sia in una diversa realtà dove l'incarico aggiuntivo non sia stato affidato.
In mancanza di tale prova, peraltro piuttosto difficile da produrre, la regola invocata dal lavoratore non può essere applicata, non essendo stata fornita la dimostrazione di un pregiudizio concreto rapportato alla natura e all'impegno dell'incarico aggiuntivo rispetto all'incarico base.
Con una decisione che per certi aspetti si può considerare a metà strada fra le posizioni dell'Aran/Ragioneria generale dello Stato e quelle delle organizzazioni sindacali, il giudice di secondo grado ha finito per spostare la questione: si passa, cioè, da un piano strettamente interpretativo –come era stato sempre prospettato da entrambe le parti del contenzioso fino a quel momento– a un piano più concreto, che attiene in sostanza all'aspetto probatorio.
Al di là del merito della questione, questo ulteriore episodio ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, che ogni sentenza fa storia a sé, e –oltre a ragionare sulle più corrette interpretazioni delle norme (per le quali probabilmente è opportuno conformarsi alle indicazioni dell'Aran o della Ragioneria generale dello Stato)– occorre che l'ente abbia la sensibilità di gestire il rapporto di lavoro in modo equo e corretto, nel rispetto sia del lavoratore che degli interessi della pubblica amministrazione (articolo Il Sole 24 Ore del 20.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oli usati, la gestione pesa meno. Entro agosto l'autorizzazione unica per pmi a basso impatto.  Il dl semplificazioni alleggerisce movimentazione rifiuti da attività agricola e rigenerazione.
Movimentazione tra fondi dei rifiuti da attività agricola senza oneri burocratici, attività di rigenerazione degli oli usati autorizzabile in deroga ai parametri chimici, autorizzazione ambientale unica per le piccole e medie imprese. Sono sostanziose le novità ambientali previste dal decreto semplificazioni (il dl 09.02.2012, n. 5).
Rifiuti da attività agricole. Il dl 5/2012 (pubblicato sul S.o. alla G.U. del 09.02.2012 n. 33) prevede deroghe al regime burocratico previsto dalla normativa sui rifiuti in relazione al trasporto effettuato nell'ambito dell'attività agricola finalizzato al loro «deposito temporaneo».
Fin dal 10.02.2012, infatti, in base alla novella recata dal nuovo decreto legge all'articolo 193 del dlgs 152/2006 (cd. «Codice Ambientale») non sono più giuridicamente considerate «trasporto di rifiuti» (con il conseguente venir meno degli obblighi di tenuta del formulario di trasporto e del tracciamento telematico Sistri, ove previsto): la movimentazione dei rifiuti effettuata da una azienda agricola tra fondi appartenenti alla medesima, anche percorrendo la via pubblica, purché la distanza tra i fondi non sia superiore a un chilometro e il trasferimento sia finalizzato al deposito temporaneo; la movimentazione dei rifiuti effettuata da un imprenditore agricolo (come individuato dall'articolo 2135 del codice civile) dai propri fondi al sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola di cui è socio, purché (ancora) tale movimentazione sia finalizzata al raggiungimento del deposito temporaneo.
Oli usati. Sempre dal 10.02.2012, data di entrata in vigore del nuovo dl 5/2012, scatta l'alleggerimento della gestione degli oli usati in deroga all'originario regime disegnato dal dlgs 152/2006 e dal dm 392/1996. In base al dl semplificazioni, infatti, le Autorità competenti potranno autorizzare momentaneamente (per la precisione, fino all'emanazione del nuovo dm in materia che sostituirà il citato regolamento del 1996) le operazioni di rigenerazione degli oli usati anche in deroga al rispetto dei parametri chimici previsti dall'allegato A del dm 392/1996, purché siano comunque rispettati i valori massimi di Pcb/Pct (ossia di policlorobifenili e policlorotrifenili, inquinanti altamente tossici) dallo stesso allegato indicati.
Autorizzazione unica ambientale. A partire dalla prossima estate, invece, le piccole e medie imprese potranno essere legittimate a emettere inquinanti in base a una «autorizzazione unica ambientale» che sostituirà ogni atto di comunicazione, notifica e autorizzazione prevista dalla vigente legislazione ambientale. La semplificazione burocratica prevista a monte dal dl 5/2011 sarà resa operativa a valle mediante un decreto del presidente della repubblica che dovrà essere emanato entro il 10.08.2012 (ossia, sei mesi dall'entrata in vigore del dl 5/2012).
L'articolazione del procedimento amministrativo sotteso all'autorizzazione dovrà essere proporzionata alle dimensioni delle imprese, all'oggetto della loro attività e agli interessi pubblici da bilanciare. Potranno accedere all'«autorizzazione unica», che non dovrà comportare maggiori oneri per i soggetti interessati, le Pmi non rientranti nell'attuale disciplina dell'«autorizzazione integrata ambientale», disciplina prevista dal dlgs 152/2006 (ed espressamente fatta salva dal dl in parola) che condivide con la «new entry» la filosofia dell'«atto unico» (raccogliendo in un singolo provvedimento la legittimazione a emettere inquinanti e gestire rifiuti) ma dalla quale differisce per essere destinata ad attività industriali ad elevato impatto ambientale (quelle citate nell'allegato VIII alla parte seconda del «Codice ambientale») e per la complessità dell'iter amministrativo.
Scarico in mare di materiali di escavo. In base al nuovo dl semplificazioni, infine, lo scarico in mare di materiali di escavo di fondali marini o salmastri o di terreni litoranei emersi potrà essere consentito dietro semplice autorizzazione della regione (o, per gli interventi in aree ricadenti in aree protette nazionali, del Minambiente). Ciò in quanto, mediante la diretta riformulazione del «Codice ambientale», il dl 5/2012 ha eliminato quale condizione indefettibile per l'immersione in mare del materiale in parola la dimostrata impossibilità (tecnica o economica) di procedere a loro (diverso) utilizzo in recuperi o smaltimenti alternativi, potrà invece.
Saranno poi le regioni (salvo per i nuovi manufatti oggetto di valutazione di impatto ambientale) le autorità competenti al rilascio dell'autorizzazione per l'immersione in mare (ma al solo fine di riutilizzo) di materiali altri materiali, quali gli inerti, i materiali geologici inorganici ed i manufatti, sempre che ne sia dimostrata la compatibilità e l'innocuità ambientale.
Altre semplificazioni ambientali. Gli alleggerimenti recati dal nuovo dl 5/2012 si affiancano alle semplificazioni in materia ambientale parallelamente introdotte dal dpr 227/2011. Il provvedimento, pubblicato sulla G.U. del 03/02/2012 n. 28 (si veda ItaliaOggi Sette del 13/02/2012) prevede infatti a partire dal 18.02.2012 un regime light per le autorizzazioni relative allo scarico delle acque ed alle emissioni sonore prodotte da Pmi a basso impatto ambientale.
E ciò attraverso l'assimilazione alle acque reflue «domestiche» degli scarichi prodotti da dette piccole e medie imprese e la possibilità di presentare in autodichiarazione la «documentazione di impatto acustico», obbligo (quest'ultimo) dal quale lo stesso dpr 227/2011 esonera le pmi a bassa rumorosità (articolo ItaliaOggi Sette del 20.02.2012).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI: Identikit del revisore legale. Per la regione serve laurea e lunga esperienza.  Le caratteristiche professionali messe nero su bianco dalla Corte dei conti.
La Corte dei conti traccia l'identikit del revisore legale presso le regioni. Questo professionista dovrà essere in possesso di un diploma di laurea in scienze economiche o giuridiche, un'anzianità di almeno dieci anni di iscrizione nel registro dei revisori contabili o nell'Albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.
Un'esperienza comprovata nel settore degli enti territoriali avendo svolto, per almeno cinque anni, un incarico di revisore dei conti presso province o comuni di almeno 50 mila abitanti, oppure presso enti del servizio sanitario nazionale, università pubbliche o aziende di trasporto pubblico locale, ovvero lo svolgimento di incarichi (sempre almeno quinquennali) presso i predetti enti con la qualifica di responsabile dei servizi finanziari. A questa esperienza deve essere affiancato il possesso di almeno dieci crediti formativi in materia di contabilità pubblica, ottenuti attraverso percorsi di formazione e aggiornamento qualificati.

A tracciare l'identikit la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti che l'ha messo nero su bianco nella deliberazione 15.02.2012 n. 3 diffusa ieri sul proprio sito internet istituzionale, in ossequio alle disposizioni contenute all'articolo 14, comma 1, lett. e), della manovra-bis di Ferragosto 2011. Norma che, introducendo novità in materia di controlli interni sulle amministrazioni regionali e comunali, ai fini di un più efficace coordinamento della finanza pubblica, prevede, in ambito regionale, la nomina di un collegio dei revisori dei conti «quale organo di vigilanza sulla regolarità contabile, finanziaria ed economica della gestione dell'ente», i cui nominativi devono essere estratti a sorte da un apposito elenco.
Gli iscritti in tale elenco devono possedere i requisiti previsti dai principi contabili internazionali, avere la qualifica di revisori legali di cui al decreto legislativo 27.01.2010, n. 39, ed essere in possesso di specifica qualificazione professionale in materia di contabilità pubblica e gestione economica e finanziaria anche degli enti territoriali, secondo i criteri individuati dalla Corte dei conti.
Per la Corte, svolgere la funzione di revisore all'interno delle regioni, assume una valenza di primo ordine nel panorama delle professionalità che caratterizzano l'attività dei revisori contabili. Sotto questo profilo, pertanto, i criteri delineati dalla Corte non possono non prescindere da un'appropriata formazione ed esperienza professionale, particolarmente tecnicistica e specializzata in materia di revisione dei conti, che costituisce il primo presupposto per il corretto svolgimento dei controlli e la credibilità dei relativi risultati.
A questo si aggiunga il possesso di un adeguato livello di competenza professionale specifica anche nelle materie della contabilità pubblica e della gestione economico-finanziaria degli enti pubblici territoriali. Requisito, questo, essenziale per la correttezza, la qualità ed il pregio dell'attività di revisione degli Collegi, i quali, così operando «favoriranno l'attività degli amministratori regionali con forme di supporto collaborativo». Vi è un ulteriore profilo contenuto nella riforma, che deve garantire il principio di terzietà del revisore. Ecco perché la norma sottrae al consiglio la possibilità di scelta del collegio e lo demanda alla previa iscrizione in un costituendo elenco.
Da ciò, appare scontato che tra i requisiti per l'iscrizione e l'eventuale successiva scelta del revisore devono essere presenti i requisiti di «onorabilità, professionalità ed indipendenza») ex articolo 21 del dlgs n.123/2011.
Riassumendo, occorrerà il possesso del diploma di laurea in materie economiche, aziendali o giuridiche e il superamento del tirocinio triennale presso un revisore abilitato (ivi incluso il superamento dell'esame di idoneità professionale), un'anzianità di almeno dieci anni di iscrizione nel registro dei revisori contabili, ovvero nell'Albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili, (comunque cumulabili), una qualificata esperienza gestionale nel settore degli enti territoriali con lo svolgimento, per almeno cinque anni, di incarichi di revisore dei conti presso enti territoriali di dimensioni medio-grandi o presso enti del servizio sanitario, università pubbliche o aziende di trasporto pubblico locale. In alternativa, potrà considerarsi lo svolgimento di incarichi di responsabile dei servizi economici e finanziari (articolo ItaliaOggi del 21.02.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ostacolo. Obbligo di concorso. No all'ingresso in Comune degli assunti dalle società.
La reinternalizzazione non salva i dipendenti assunti direttamente dalla società.
La costituzione di aziende in house da parte degli enti locali ha comportato, nel corso degli anni, l'instaurazione di numerosi contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato. Trattandosi di datori di lavoro privati, le assunzioni non erano soggette a formalità particolari, rimanendo, quindi, fuori da qualsiasi vincolo e, soprattutto, dal concorso pubblico. Qualora si decidesse di riprendersi il servizio, si pone il problema dei dipendenti della società che dovrebbero transitare nella dotazione del Comune.
Non si può negare che, secondo l'articolo 31 del Dlgs 165/2001, che richiama la normativa civilistica (nello specifico, l'articolo 2112 del Codice civile), in caso di trasferimento d'azienda è prevista una specifica tutela per i dipendenti in servizio.
La Corte dei conti a sezioni riunite, interpellata sul tema, con la delibera 03.02.2012 n. 4 ha ritenuto che il vincolo costituzionale dell'accesso alle dipendenze della pubblica amministrazione non possa prescindere dal concorso pubblico (articolo 97 della Costituzione). Nello specifico, il tema risultava più complesso, in quanto la società aveva posto in essere una selezione, riservata, però, ai lavoratori socialmente utili in applicazione di una legge regionale specifica. Tutto inutile, in quanto il concorso non era aperto al pubblico, ma limitato a questi lavoratori.
Varie sono le fattispecie che possono interessare il personale dell'azienda partecipata, oggetto di reinternalizzazione. Un primo gruppo è rappresentato dagli ex dipendenti dell'ente locale, che sono transitati dal Comune alla società per effetto del trasferimento dei servizi. Questa tipologia di lavoratori ha comunque sostenuto un concorso pubblico per accedere ai ruoli dell'amministrazione comunale. Sono i soggetti che rischiano meno, in quanto l'ostacolo concorso sembra superato. La seconda categoria è composta dai dipendenti assunti direttamente dalla società partecipata, senza alcuna procedura ad evidenza pubblica. Questi non hanno nessun appiglio a cui attaccarsi per salvare la loro posizione.
Sono, quindi, i soggetti maggiormente a rischio. Per loro non resta che la risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo. Ma il giudice del lavoro sarà dello stesso parere? Infine, la categoria di mezzo: i dipendenti che sono stati assunti direttamente dalle aziende partecipate, avendo, però, superato una selezione che rispetti i principi dell'articolo 35 del Dlgs 165/2011. Quale sarà il loro destino? Nel parere della Corte dei conti non risulta chiaro e, di conseguenza, è vivamente consigliato un comportamento molto prudente: considerarli dipendenti pubblici appare rischioso.
La conclusione può essere una sola: i vincoli in materia di riduzione progressiva della spesa di personale, i problemi sul patto di stabilità, il vincolo sul rapporto fra spesa di personale e spesa corrente, i nuovi ingressi sottoposti al 20% e, non ultima, la sorte dei dipendenti assunti dalla società rendono praticamente impossibile la reinternalizzazione.
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Tre figure
01 | EX DIPENDENTI
Gli ex dipendenti dell'ente locale, transitati dal Comune alla società partecipata per effetto del trasferimento dei servizi, che hanno comunque sostenuto un concorso pubblico per accedere ai ruoli dell'amministrazione comunale
02 | «SELEZIONATI»
I dipendenti che sono stati assunti direttamente dalle aziende partecipate, avendo, però, superato una selezione che è stata nel rispetto dei principi dell'articolo 35 del Dlgs 165/2011
03 | NON «SELEZIONATI»
I dipendenti assunti direttamente dalla società partecipata, senza alcuna procedura ad evidenza pubblica (articolo Il Sole 24 Ore del 20.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Aziende. Interpretazione restrittiva da parte dei magistrati contabili, che però invocano l'intervento risolutivo del legislatore sulla questione. Personale, tetto omnibus alle partecipate.
I giudici bocciano la deroga al vincolo sulla spesa anche a fronte di un incremento di efficienza
LA CONSEGUENZA/ Le norme sul contenimento degli oneri vanno rispettate in ogni caso e questo sbarra la porta alle ipotesi di reinternalizzazione.

Perfino la Corte dei conti, massimo organo della magistratura contabile, ha ammesso che la normativa in tema di società partecipate dagli enti locali è talmente contorta da invocare l'intervento del legislatore.
Dopo anni nei quali ci si è dedicati all'esternalizzazione dei servizi ritenendo che l'utilizzo degli strumenti propri dell'imprenditore privato garantisse la gestione dei servizi più efficiente, efficace ed economica, oggi tutto sta cambiando, tanto è vero che della questione si sono dovute occupare le Sezioni riunite di controllo (
deliberazioni 02.02.2012 n. 3 e 03.02.2012 n. 4). L'argomento è di quelli scottanti: si possono derogare le norme che impongono la riduzione della spesa di personale, se la reinternalizzazione garantisce, carte alla mano, risultati ancora migliori di quelli conseguiti dalla partecipata, in forza del principio costituzionale del buon andamento della Pa? È proprio su questa domanda che la Corte, conscia degli effetti sulla finanza pubblica, si barrica dietro una interpretazione restrittiva.
Il paradosso: le norme in tema di contenimento della spesa pubblica, seppur limitate al personale, devono essere in ogni caso rispettate, anche quando per fare questo si devono sacrificare le famose tre "e" (efficienza, efficacia ed economicità, ovvero il buon andamento della Pa di cui all'articolo 97 della Costituzione). Ma come puntellare il tutto dal punto di vista giuridico? Semplice: basta affermare che esistono più concetti di efficienza. Da una parte quello contenuto nella legge 241/1990 sul procedimento amministrativo e dall'altra quello elaborato dalla dottrina aziendalistica. Secondo la Corte, il primo persegue l'obiettivo di delimitare l'eccesso di potere, per cui, nelle scelte, non si deve far riferimento alle sole spese di personale, ma alla gestione e all'azione amministrativa nel suo complesso. Proprio con quest'ultima affermazione, si giunge al paradosso che vede riportato il problema nell'alveo della dottrina aziendalistica, per la quale le tre "e" sono correlate alla struttura complessiva dei costi e dei ricavi, considerati a 360 gradi.
Nell'ambito delle incongruenze e criticità del quadro normativo complessivo, la Corte sembra aver perso anche quei pochi punti fermi che aveva maturato nel corso del tempo. Parlando della spesa di personale dell'ente e delle società partecipate, auspica il consolidamento, anche se tale operazione dovrebbe essere limitata ai casi in cui, a fronte della esternalizzazione, l'amministrazione non ha proceduto alla riduzione della pianta organica e del fondo per le risorse decentrate. Non si comprende come si possa rimettere l'operazione alla buona volontà degli enti, usando sempre i verbi al condizionale, quando innumerevoli pareri della stessa Corte impongono tale comportamento.
Ad ogni modo, perché limitarsi ai casi in cui nessun taglio è stato fatto su dotazione e risorse e nel limite della stessa riduzione? O, meglio ancora, quali possono essere questi casi, considerato che si tratta di un vero e proprio obbligo di legge? Ma la libertà di azione delle amministrazioni sembra non essere limitata a questo ambito. Anche nel caso in cui si voglia procedere al consolidamento, i magistrati contabili sostanzialmente disconoscono la precedente deliberazione 14/2011 della sezione Autonomie, affermando che, allo stato dell'arte, nessuno conosce esattamente le modalità di calcolo della spesa di personale di enti e società partecipate, ma sicuramente vanno escluse le partecipazioni indirette.
Eppure la soluzione del problema potrebbe essere relativamente semplice. Da un lato è la gara la cartina di tornasole delle tre "e", e dall'altro, per evitare inefficienze, è necessario consolidare le partecipate per tutti i costi inerenti alle esternalizzazioni, applicando i principi elaborati dalla dottrina aziendalistica. In ogni caso, per ora, non è importante la migliore gestione dei servizi, ma è fondamentale non aumentare la spesa di personale (articolo Il Sole 24 Ore del 20.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA... Se nella fattispecie che prevede la riduzione o esonero dal contributo di costruzione “per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti”, vi rientra anche l’intervento per la realizzazione di una scuola di formazione professionale posto in essere da una Fondazione di diritto privato.
... Se nella fattispecie che prevede la riduzione o esonero dal contributo di costruzione “per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”, vi rientra anche un’opera anche quando questa non è stata prevista né negli strumenti di programmazione finanziaria, né negli strumenti urbanistici specificatamente quale opera di "urbanizzazione secondaria”.

Il Sindaco del Comune di Calcio ha posto alla Sezione un quesito concernente l’interpretazione dell’art. 17 del D.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia) che sotto la rubrica “riduzione o esonero dal contributo di costruzione”, al comma 3, lett. c), stabilisce che il contributo di costruzione non è dovuto <<per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici>>.
In particolare formula un duplice quesito.
Nel primo
si chiede se nella fattispecie che prevede la riduzione o esonero dal contributo di costruzione “per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti”, vi rientra anche l’intervento per la realizzazione di una scuola di formazione professionale posto in essere da una Fondazione di diritto privato.
Con il secondo quesito si chiede se nella fattispecie che prevede la riduzione o esonero dal contributo di costruzione “per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”, vi rientra anche un’opera anche quando questa non è stata prevista né negli strumenti di programmazione finanziaria, né negli strumenti urbanistici specificatamente quale opera di "urbanizzazione secondaria”.
In via preliminare la Sezione precisa che la decisione se applicare o meno l’esonero del pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, con riferimento all’intervento edilizio indicato, attiene al merito dell’azione amministrativa e rientra, ovviamente, nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità dell’ente che potrà orientare la sua decisione in base alle conclusioni contenute nel parere della Sezione.
Per una maggior comprensione della questione ermeneutica posta è opportuno ricordare che la norma richiamata disciplina due fattispecie di esonero dal contributo di costruzione: 1) “gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti” (fattispecie a cui è riconducibile il primo quesito); 2) “le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici” (fattispecie a cui è riconducibile il secondo quesito).
Principi a cui l’amministrazione comunale si deve attenere per la soluzione del 1° quesito.
Come ha già avuto modo di precisare questa Sezione (Lombardia/783/2009/PAR del 09.10.2009; Lombardia/91/PAR/2011 del 21.02.2011), con riferimento alla prima fattispecie, la norma prescrive la sussistenza di due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di esonero dal contributo di costruzione, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di carattere soggettivo. Per effetto del primo la costruzione deve riguardare “opere pubbliche o d’interesse generale”; per effetto del secondo le opere devono essere eseguite da “un ente istituzionalmente competente”.
In particolare, il primo requisito è stato esplicitato nel senso che deve trattarsi di opere che, quantunque non destinate direttamente a scopi propri della P.A., siano comunque idonee a soddisfare i bisogni della collettività, di per se stesse –poiché destinate ad uso pubblico o collettivo– o in quanto strumentali rispetto ad opere pubbliche o comunque perché immediatamente collegate con le funzioni di pubblico servizio espletate dall’ente (cfr. in tal senso ex plurimis: C.d.S., sez. IV, 10.05.2005, n. 2226; C.d.S., sez. V, 06.05.2003 n. 5315; C.d.S., sez. V, 25.06.2002, n. 6618).
Con riferimento all’altro requisito (soggettivo), la giurisprudenza amministrativa ha più volte chiarito che la dizione deve riferirsi, oltre che agli enti pubblici in senso proprio, anche ai soggetti che agiscono per conto di enti pubblici, ricomprendendo, pertanto, “i concessionari di opere pubbliche o analoghe figure organizzatorie, caratterizzate da un vincolo tra il soggetto abilitato ad operare nell’interesse pubblico ed il materiale esecutore della costruzione, in modo tale che l’attività edilizia sia compiuta da un soggetto che curi istituzionalmente la realizzazione di opere d’interesse generale per il perseguimento delle specifiche finalità cui le opere stesse sono destinate” (in tal senso cfr. ex plurimis: C.d.S. , sez. VI, 09.09.2008, n. 4296; sez. V, 11.01.2006, n. 51; sez. IV, 10.05.2005, n. 2226).
La ratio della norma contenuta nell’art. 17 del D.P.R. n. 380/2001 è duplice. Da un lato, è sicuramente quella d’incentivare l’esecuzione di opere da cui la collettività possa trarre utilità. Dall’altro lato, è anche quella di assicurare una ricaduta del beneficio dello sgravio a vantaggio della collettività, posto che l’esonero dal contributo si traduce in un abbattimento dei costi, a cui corrisponde, in definitiva, un minore aggravio di oneri per il contribuente. In altre parole, l'imposizione del contributo di costruzione ai soggetti che agiscono nell'istituzionale attuazione del pubblico interesse sarebbe altrimenti intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi del pagamento di esso.
Pertanto, alla luce di tale ratio della disposizione, la giurisprudenza amministrativa ha generalmente accolto un’interpretazione che ricomprende, nell’ambito di applicabilità della norma, oltre agli enti pubblici in senso proprio, anche “quelle figure soggettive che non agiscono per esclusivo scopo lucrativo ovvero che accompagnano al lucro un collegamento giuridicamente rilevante con l'amministrazione, sì da rafforzare il legame istituzionale con l'azione del soggetto pubblico per la cura degli interessi della collettività” (in tal senso ex plurimis: C.d.S., sez. V, 20.10.2004, n. 6818; C.d.S., sez. IV, 12.07.2005, n. 3744).
Nel quesito posto dall’Amministrazione comunale si precisa che la Fondazione Ikaros ha chiesto al Comune di Calcio permesso di costruire per la realizzazione di un nuovo edificio scolastico; tuttavia, detta Fondazione non realizza l’opera "per conto" del Comune (la fondazione, in realtà, godrà di un contributo regionale, ma esso determinerà un vincolo di destinazione dell’edificio limitato nel tempo a soli 10 anni).
Per contro, la Fondazione argomenta la propria richiesta di esonero dal pagamento del contributo di costruzione osservando che in ordine al requisito soggettivo la fondazione medesima <<beneficia per la realizzazione delle opere dell'erogazione di un contributo da parte della Regione Lombardia che vincola l'edificio in costruzione a sede del "polo formativo" per 10 anni>>, nonché è disponibile <<ad inserire in una convenzione una previsione che contempli, in caso di cambio di destinazione d'uso dopo la scadenza decennale del vincolo regionale o in caso di modifiche statuarie dell'oggetto sociale, il versamento dei contributi di costruzione al Comune>>.
Quanto alla sussistenza del presupposto oggettivo indicato dalla fattispecie normativa in esame, non può disconoscersi che l’opera di realizzazione di un nuovo edifico scolastico sia collegata senz’altro ad una finalità di interesse pubblico generale.
Con riferimento al requisito soggettivo, invece, appare opportuno richiamare le considerazioni più articolate già formulate da questa Sezione nei citati pareri (Lombardia/783/2009/PAR del 09.10.2009; Lombardia/91/PAR/2011 del 21.02.2011).
Si è detto sopra dell’orientamento della giurisprudenza amministrativa che, da un lato, ha interpretato estensivamente la dizione “enti istituzionalmente competenti”, ricomprendendovi, oltre agli enti pubblici in senso proprio, anche altre “figure organizzatorie” che “curino istituzionalmente la realizzazione di opere d’interesse generale per il perseguimento delle specifiche finalità cui le opere stesse sono destinate”; dall’altro lato, ha ricondotto tale espressione prevalentemente alla figura del concessionario. Ciò in ragione della considerazione che gli elementi che connotano l’instaurazione e lo svolgimento del rapporto di concessione sono in grado di garantire di per sé quell’immediato legame istituzionale con l’azione dell’Amministrazione per la cura degli interessi della collettività, che si ritiene presupposto indefettibile per l’applicazione dell’esonero contributivo.
In quest’ottica, è stata esclusa l’applicabilità della norma in questione a soggetti privati che esercitino un’attività lucrativa di impresa indipendentemente dalla rilevanza sociale dell’attività stessa (cfr. C.d.S., sez. V, 21.01.1997, n. 69); nonché a soggetti privati che, seppur non perseguenti fini di lucro, realizzino opere destinate a rimanere nella piena disponibilità del privati esecutori in quanto non vincolate in alcun modo al mantenimento della finalità pubblica (cfr. C.d.S., sez. V, 11.01.2006, n. 51).
Peraltro, questa Corte ritiene opportuno non tralasciare la considerazione dell’attuale sviluppo dell’ordinamento della Repubblica e delle modalità di svolgimento dell’azione amministrativa.
Infatti, da un lato, la riforma del Titolo V della Costituzione, operata con la Legge costituzionale 18.10.2001, n. 3, ha inserito espressamente il principio di sussidiarietà, cosiddetto “orizzontale”, nell’ambito delle regole di organizzazione e di esercizio delle funzioni pubbliche, prevedendo all’art. 118, ultimo comma, che “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Dall’altro lato, anche a causa dell'influenza del diritto comunitario, sono sempre più frequenti le forme di collaborazione tra soggetto pubblico e soggetto privato, nonché i casi in cui al soggetto privato sono affidati obiettivi di interesse pubblico.
In sostanza si assiste al passaggio da una configurazione della distribuzione del potere pubblico essenzialmente in via gerarchica ed in via autoritativa ad una distribuzione per così dire “a rete”, estesa anche ad altri soggetti dell’ordinamento che non sono enti pubblici in senso proprio, con la conseguenza che le funzioni pubbliche non necessariamente vengono esercitate mediante esplicazione di poteri autoritativi, ben potendo svolgersi attraverso forme e moduli procedimentali di tipo privatistico.
In quest’ottica si rende opportuna, a parere di questa Corte, un’interpretazione evolutiva e teleologicamente orientata del concetto di “ente istituzionalmente competente” previsto all'art. 17 del D.P.R. n. 380/2001 (anche al di là delle figure dei concessionari).
Sulla scorta di queste affermazioni di principio, dunque, spetta all’amministrazione valutare in concreto (ovvero, alla luce dello statuto della fondazione, dell’attività da essa svolta e della contribuzione che riceve dalla Regione) se la fondazione Ikarus possa o meno essere qualificato come “ente istituzionalmente competente” previsto all'art. 17 del D.P.R. n. 380/2001.
Principi a cui l’amministrazione comunale si deve attenere per la soluzione del 2° quesito.
Nell’istanza di parere l’amministrazione comunale precisa che <<la Fondazione aveva presentato al Comune, durante il procedimento di approvazione del nuovo PGT, apposita richiesta finalizzata all'individuazione, per un' area di proprietà, della destinazione urbanistica "attrezzature per l'istruzione", con l'intento di realizzare l'intervento di che trattasi. Il Comune in sede di approvazione ha accolto tale richiesta, sicuramente per rispondere ad un interesse generale ma nei propri strumenti di programmazione tra cui il Programma delle Opere Pubbliche, la relazione previsionale e programmatica, le schede di cui al Piano dei Servizi del PGT non ha previsto la realizzazione di tale intervento, né in via diretta, né tramite concessione, né tramite figura organizzativa similare>>.
Anche con riferimento alla seconda fattispecie prevista dall’art. 17, comma 3, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, questa Sezione ha espresso le proprie considerazioni nei citati pareri Lombardia/783/2009/PAR del 09.10.2009 e, più recentemente, Lombardia/91/PAR/2011 del 21.02.2011. In particolare, è stato ricordato che secondo giurisprudenza amministrativa consolidata questa seconda fattispecie di esonero dal contributo di costruzione ricorre quando l’opera non solo è conforme agli strumenti urbanistici, bensì è anche espressamente contemplata come tale nello strumento urbanistico medesimo poiché la norma, testualmente, utilizza l’espressione "opere di urbanizzazione eseguite in attuazione di strumenti urbanistici" (in tal senso C.d.S., sez. V, 10.05.1999, n. 536; C.d.S., sez. V, 21.01.1997, n. 69; C.d.S., sez. V, 01.06.1992, n. 489).
In altre parole, affinché possa trovare applicazione la disposizione invocata non è sufficiente la generica sussumibilità degli interventi nell’ambito delle opere di urbanizzazione; infatti, non tutte le opere di urbanizzazione sono esenti dal contributo concessorio, ma solo quelle eseguite “in attuazione di strumenti urbanistici”. La ratio della “gratuità” in termini di contributi di costruzione è <<quella di incentivare solo la dotazione di quelle infrastrutture che danno ordinata e coerente attuazione alle previsioni urbanistiche espressamente previste dall’Autorità comunale. Pertanto affinché possa qualificarsi un intervento come “opera di urbanizzazione eseguita in attuazione di strumenti urbanistici” è necessario che, oltre a potersi qualificare opera di urbanizzazione, sia specificamente indicata nello strumento urbanistico, corrispondendo ad una precisa indicazione dello stesso>> (TAR LOMBARDIA - Sez. Brescia- n. 163/2005).
Chiariti i principi di carattere generale a cui l’interprete deve rifarsi in sede di applicazione della seconda fattispecie tipizzata dalla lettera c) dell’art. 17 del D.P.R. n. 380/2001, spetta all’amministrazione comunale compiere le valutazioni del caso concreto (Corte dei Conti. Sez. controllo Lombardia, parere 18.01.2012 n. 5).

PUBBLICO IMPIEGOL'esercizio non autorizzato di incarichi da parte del dipendente pubblico non rientra nella giurisdizione contabile.
... pur volendo considerare in modo autonomo l’obbligo di refusione a carico del lavoratore al servizio di una p.a. (anziché obbligazione subordinata, com’è in effetti), la giurisdizione contabile dovrebbe essere esclusa, trattandosi di un obbligo che scaturisce dall’esercizio di un’attività lavorativa extraistituzionale, mentre i presupposti per radicare la giurisdizione della Corte dei conti si fondano sul verificarsi di un danno erariale, cagionato da un soggetto vincolato da un rapporto di servizio, inteso anche in senso lato, con la p.a., e sulla circostanza che il danno sia stato determinato nell'esercizio delle funzioni alle quali il dipendente è stato preposto.

Ancora in via pregiudiziale, deve essere esclusa la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti sulla seconda posta di danno contestata dalla Procura attrice, riguardante la violazione dell’art. 53, co. 7, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, in relazione all’illecito svolgimento, da parte della Sig.ra ..., di due stabili rapporti lavorativi non autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Il relativo danno è stato quantificato in misura pari alle somme che la convenuta ha ricevuto dai soggetti terzi, a remunerazione del lavoro extraistituzionale (euro 57.000,00 +12.950,00 = euro 69.950,00).
L’art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165/2001, stabilisce che <<I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti>>.
Dal testo letterale della norma (il compenso <<deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore>>) si evince che dalla violazione dell’obbligo di esclusività scaturisce un obbligo di corresponsione di somme di denaro che è posto, in primis, nei confronti del soggetto erogante e, in via subordinata, a carico del dipendente di una p.a.
Tale circostanza è significativa della natura esclusivamente privatistica dell’obbligazione di refusione, trattandosi del soddisfacimento di un interesse meramente lavoristico. Ciò vale a dire che la violazione del dovere di esclusività dà luogo ad un credito del datore di lavoro nei confronti dei soggetti obbligati (ente erogante e lavoratore), che non può in alcun modo ricondursi all’esercizio di funzioni pubblicistiche, come già ritenuto da questa Corte in analoghe fattispecie (Sez. Trentino-Alto Adige, Trento, 15.12.2010, n. 66; id., 03.12.2009, n. 55).
Ma, pur volendo considerare in modo autonomo l’obbligo di refusione a carico del lavoratore al servizio di una p.a. (anziché obbligazione subordinata, com’è in effetti), la giurisdizione contabile dovrebbe essere esclusa, trattandosi di un obbligo che scaturisce dall’esercizio di un’attività lavorativa extraistituzionale, mentre i presupposti per radicare la giurisdizione della Corte dei conti si fondano sul verificarsi di un danno erariale, cagionato da un soggetto vincolato da un rapporto di servizio, inteso anche in senso lato, con la p.a., e sulla circostanza che il danno sia stato determinato nell'esercizio delle funzioni alle quali il dipendente è stato preposto.
In un caso analogo di generica trasgressione di obblighi incombenti dal lavoratore (controversia avente ad oggetto l'accertamento dei canoni dovuti dal pubblico dipendente per il godimento dell'alloggio di servizio), le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ravvisato un inadempimento contrattuale, integrante la violazione degli obblighi connessi al rapporto di pubblico impiego, ma non anche un’attività posta in essere dal dipendente pubblico <<nell'esercizio delle sue funzioni>>, affermando che <<la relativa controversia non può che essere demandata al solo giudice avente giurisdizione sul rapporto di impiego, e, per l'effetto, al giudice del lavoro>> (Cass., sez. un., 30.04.2008, n. 10870/ord.).
In senso conforme, il giudice di legittimità ha ritenuto che <<il regime delle incompatibilità>> è materia <<sottratta alla disciplina propria dell'attività amministrativa, ed inclusa nell'ambito dei comportamenti di gestione del rapporto di lavoro>> (Cass., sez. lav., 26.03.2010, n. 7343). Correlativamente, il giudice amministrativo ha ritenuto la giurisdizione del giudice ordinario, come giudice del rapporto di lavoro, in una controversia volta all'annullamento del diniego opposto dalla p.a. di appartenenza alla richiesta di svolgere un incarico extraistituzionale formulata da un dipendente, ai sensi dell'art. 63 d.lgs. n. 165/2001 (Cons. St., sez. IV, 07.06.2004, n. 3618).
L’esatta collocazione dell’istituto in esame proviene dalla Corte Costituzionale (sentenza 11.06.2001, n. 189), secondo cui l’obbligo di esclusività è uno dei canoni fondamentali del rapporto di impiego pubblico, del quale costituisce indice rivelatore, come la predeterminazione dell’orario di lavoro e della retribuzione, l'inserimento del prestatore di lavoro nell'organizzazione amministrativa e la subordinazione gerarchica (v. TAR Toscana, 11.09.2008, n. 1910; Cons. St., Sez. V, 01.12.1999, n. 2022; id., 03.05.1995, n. 681).
Nella mera violazione dell’obbligo di esclusività non è, quindi, ravvisabile il nesso di occasionalità necessaria tra danno alla amministrazione ed esercizio delle funzioni nell’ambito del rapporto di servizio, che è il generale presupposto della responsabilità amministrativa e della giurisdizione di questa Corte, ai sensi degli artt. 82 e 83, R.D. 18.11.1923, n. 2440 e degli artt. 13 e 52, R.D. 12.07.1934, n. 1214.
Ciò pur considerando l’ottica ulteriormente espansiva della giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità amministrativa, secondo cui la giurisdizione attribuita alla Corte dei conti <<presuppone che il soggetto, legato all'amministrazione da un rapporto di impiego (o di servizio), debba rispondere del danno da lui causato nell'esercizio di un'attività illecita connessa con detto rapporto, tale dovendosi considerare non solo quella costituente svolgimento diretto della funzione propria del rapporto d'impiego (o di servizio), ma anche quella rivestente carattere strumentale per l'esercizio della medesima funzione, sempre che detta attività rinvenga nel rapporto l'occasione necessaria del suo manifestarsi>> (Cass., sez. un., 02.12.2008, n. 28540; id., sez. un., 25.11.2008, n. 28048; id. sez. un., 22.02.2002, n. 2628).
Questa giurisprudenza di legittimità si trova citata in altra pronuncia della Corte di cassazione (02.11.2011, n. 22688/ord.), menzionata dal P.M. in udienza che, pur facendo riferimento al predetto univoco indirizzo che estende la competenza del giudice contabile alla cognizione dell’attività strumentale all'esercizio della funzione pubblica <<sempre che detta attività rinvenga nel rapporto l'occasione necessaria del suo manifestarsi>>, ha risolto in senso opposto il regolamento preventivo di giurisdizione, senza spiegare le ragioni per le quali, nelle conclusioni, ha inteso discostarsi dall’indirizzo precedentemente richiamato. In relazione a ciò, il Collegio non condivide l’avviso dell’Organo requirente circa la presenza di un evidente revirement del giudice di legittimità sulla questione di cui è causa.
In buona sostanza, il discrimine tra giurisdizione della Corte dei conti, in materia di danno erariale, e quella del giudice del rapporto di lavoro, resta confermato nel verificarsi di un inadempimento riconducibile, rispettivamente, all’esercizio di una funzione pubblica (sia pure nel senso dell’occasionalità necessaria), oppure alle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro tra un dipendente e l’amministrazione di appartenenza.
In particolare, la giurisdizione del giudice del lavoro si radica nei casi di alterazione del sinallagma contrattuale (assenze ingiustificate, per riscossione di retribuzioni non dovute), allorché il dipendente pubblico venga in rilievo come semplice debitore, alla stregua di un qualsiasi lavoratore privato inadempiente e, in quanto tale, soggetto alle normali sanzioni ed azioni civilistiche dell’ente di appartenenza. Attualmente, la materia è posta sotto la stretta sorveglianza del datore di lavoro pubblico: il Dipartimento della funzione pubblica presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (Ispettorato per la funzione pubblica) può disporre verifiche, operando d'intesa con i Servizi ispettivi di finanza pubblica del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato (art. 53, co. 16-bis, d.lgs. n. 165/2001, comma aggiunto dall’art. 47, d.l. 25.06.2008, n. 112, e poi così sostituito dall’art. 52, co. 1, lett. b), d.lgs. 27.10.2009, n. 150).
Si aggiunge che, in precedenza, l’art. 6, d.l. 28.03.1997, n. 79, convertito dalla l. 28.05.1997, n. 140, prevedeva sanzioni pecuniarie a carico <<dei soggetti pubblici e privati che non abbiano ottemperato>> agli obblighi previsti dalla disciplina del lavoro a tempo parziale e <<che si avvalgano di prestazioni di lavoro autonomo o subordinato rese dai dipendenti pubblici in violazione dell'articolo 1, commi 56, 58, 60 e 61, della legge 23.12.1996, n. 662, ovvero senza autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza>>. Ciò a ulteriore riprova dell’estraneità della materia alla responsabilità amministrativo-contabile del dipendente pubblico, fatto salvo un eventuale danno erariale <<da mancata entrata>> per la cui configurabilità, ad avviso della Sez. Puglia, 30.10.2008, n. 821, <<non sarebbe, comunque, sufficiente che il dipendente percettore abbia omesso di riversare in favore dell’Amministrazione di appartenenza il compenso percepito, ma occorrerebbe, altresì, che il diritto di quest’ultima ad esigerne il riversamento si sia estinto in modo non satisfattivo ovvero ne sia divenuto impossibile l’esercizio, per insolvibilità del debitore o altrimenti>>.
Il Pubblico Ministero, dopo aver affermato, nell’atto di citazione, che la violazione dell’obbligo di esclusività è da ritenersi illecita e, quindi, foriera di danno erariale, ha specificato, in udienza, che vi è danno per la semplice ragione che tutte le energie lavorative devono essere spese per il datore di lavoro in favore del quale l’obbligo è posto. Al riguardo, l’Organo requirente ha citato la sentenza della Sezione Emilia-Romagna (25.10.2007, n. 818), che muovendo dalle stesse premesse, è pervenuta ad una decisione di condanna, nei confronti del Direttore generale dell’INAIL, per aver consentito lo svolgimento, da parte dei medici dipendenti dell’Istituto, di attività libero-professionale extra-muraria in costanza di rapporto a tempo pieno, senza che gli stessi avessero optato per il rapporto a tempo definito, economicamente meno favorevole.
Il Collegio ritiene che la richiamata pronuncia sia coerente con le precedenti osservazioni, in relazione alla evidente diversità del caso di specie rispetto a quello deciso dal giudice bolognese che, correttamente, ha qualificato come danno erariale l’avvenuta corresponsione, da parte dell’Istituto, di un maggior trattamento economico (corrispondente a una prestazione a tempo pieno anziché part-time), a nulla rilevando i compensi percepiti dai dipendenti pubblici nell’ambito dell’attività extra-muraria, che sarebbero, invece, assimilabili a quelli oggetto di contestazione in questa sede.
Per tutte le suesposte considerazioni, il Collegio esclude la provvista di giurisdizione della Corte dei conti sull’obbligo di refusione, da parte della convenuta, delle somme ricevute dai soggetti terzi per il lavoro extraistituzionale, quantificate in euro 69.950,00.
Nel merito, sussistono tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa (il rapporto di servizio, la colpa grave, il danno erariale) in relazione alle altre voci di danno: 1) il danno diretto per violazione del c.d. vincolo sinallagmatico tra salario e prestazione lavorativa; 2) il danno all’immagine e al prestigio dell’ente di appartenenza causato dal comportamento delittuoso della dipendente.
Con riguardo al primo profilo di danno, la Procura assume che il comportamento della Sig.ra ..., come ricostruito nel corso dell’indagine penale, è stato caratterizzato dalla costante distrazione di energie lavorative da destinare alle incombenze d’ufficio in favore della realizzazione di fattispecie penalmente rilevanti ai danni della medesima amministrazione, per cui una porzione del trattamento salariale è risultata indebitamente corrisposta.
In relazione alla commissione di tali illeciti (tra cui la sistematica e ripetuta intromissione illecita nel sistema RE.GE., la rivelazione di segreti d’ufficio, il favoreggiamento personale e la corruzione propria), la Sig.ra ... chiedeva di essere ammessa al c.d. patteggiamento e il Tribunale di Milano, Sezione Giudice per le indagini preliminari, applicava nei suoi confronti la pena di anni 1 e mesi 7 di reclusione (sentenza n. 1582/2009).
In merito all’efficacia, nel giudizio di responsabilità amministrativo- contabile, della sentenza di patteggiamento, si rammenta che essa, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., viene pronunciata <<sulla base degli atti>> se <<non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell’articolo 129>>. In materia, esiste una giurisprudenza consolidata della Corte dei conti, secondo cui l’inesistenza -a fronte della sostanziale identità tra il fatto di reato e quello dannoso- di un giudicato penale di condanna, non preclude al giudice contabile di trarre elementi di convincimento dalle risultanze emergenti dal fascicolo penale, da apprezzare unitamente ad altri concordanti fattori indizianti (cfr., ex multis, sez. Lombardia, 22.05.2009, n. 384; id., 15.05.2009, n. 353; sez. Abruzzo, 12.11.2003, n. 601; sez. II, 09.10.2003, n. 285/A; sez. I, 06.06.2003, n. 187/A; sez. III, 16.10.2001, n. 274/A; sez. I, 03.05.2001, n. 106/A; sez. I, 14.03.2001, n. 55/A; sez. Lombardia, 15.12.1999, n. 1551; sez. Emilia Romagna, 10.11.1997, n. 555; SS.RR. 02.10.1997, n. 68/A; sez. I, 21.12.1995, n. 34).
Tale orientamento è stato avallato dal giudice di legittimità (Cass., sez. lav., 21.03.2003, n. 4193), secondo cui la condanna a pena patteggiata <<costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale avrebbe prestato fede a tale ammissione>>. In tal senso, il giudice contabile fa applicazione del principio del libero convincimento, conservando la facoltà di decidere in modo difforme da quanto statuito con sentenza di patteggiamento, in quanto la stessa <<assume particolare valore probatorio vincibile solo attraverso specifiche prove contrarie>> (C. conti, sez. I, 06.06.2003, n. 187/A, cit.).
Ciò conferma la solidità dell’accertamento contenuto nella sentenza emessa ex art. 444 c.p.p. che può ben costituire un importante strumento probatorio utilizzabile nei giudizi civili o amministrativi di danno, ancorché di efficacia non vincolante (cfr. sez. Lombardia, 12.02.2007, n. 106; id., 29.09.2005, n. 571).
Nella specie, il Collegio non ha motivo di porre in discussione i fatti oggetto della sentenza penale di patteggiamento, tanto più considerando le ampie ammissioni della convenuta nella fase istruttoria del processo penale e, quindi, ritiene provati i riferiti episodi di accesso abusivo ai sistemi informativi, di corruzione propria, di rivelazione di segreti d’ufficio, di favoreggiamento personale e di falso ideologico. Parimenti, deve essere ritenuta la sussistenza del requisito soggettivo del dolo, trattandosi di fatti di reato caratterizzati dall’intenzionalità di ledere il bene giuridico protetto.
Il danno è stato quantificato dalla Procura in via equitativa (art. 1226 c.c.) in una somma pari al 20 % del salario percepito nel corso dell’anno 2008 (periodo, individuato in sede penale, nel quale sono stati commessi gli illeciti), per un ammontare pari ad euro 3.735,60 (18.678 x 20%).
Il Collegio considera fondata detta posta risarcitoria ritenendo che, in presenza della commissione di numerosi illeciti correlati alle funzioni pubbliche ricoperte, una parte dello stipendio percepito dalla convenuta si ponga al di fuori della <<causa obbligandi>> per la quale è stato erogato, con conseguente danno all’amministrazione della giustizia.
È così ravvisabile la violazione dei canoni della <<lealtà>> e della <<salvaguardia>> insiti nel principio di buona fede che presiede all’esecuzione dei rapporti contrattuali, tra cui quello di lavoro, ex art. 1375 c.c., nonché la lesione dell’obbligo di diligenza statuito dall’art. 1176 c.c.
Ma, soprattutto, si è verificato un parziale inadempimento dell’obbligazione lavorativa, poiché la convenuta, durante l’orario di servizio, risulta aver indirizzato le proprie energie a favore di terzi, con evidenti profili negativi sulla funzionalità del servizio. Ciò integra la fattispecie del danno da disservizio, nella quale deve ritenersi assorbita la voce di danno contestata dalla Procura (cfr. sez. Lombardia, 01.08.2003, n. 990). Va, infatti, considerata la particolarità del rapporto di lavoro svolto dalla convenuta (dipendente pubblico inquadrata presso la Procura della Repubblica di Milano in qualità di operatore giudiziario ed assegnata all’Ufficio arrestati), la quale, mediante le descritte azioni criminose, si è posto in una posizione di estraneità rispetto alla pubblica funzione, sicché l’inosservanza dei doveri del pubblico dipendente si è tradotta in una diminuzione di efficienza dell’apparato pubblico, con ricadute negative per l’utenza (cfr. sez. Lombardia, 19.01.2011, n. 42; id., 23.02.2009, n. 74).
In merito alla quantificazione del nocumento in esame, il Collegio accoglie parzialmente la richiesta della Procura, in considerazione della prestazione lavorativa della Sig.ra ..., valutata positivamente nel periodo contestato (anno 2008), con attribuzione, a titolo di <<misurazione della prestazione>>, del giudizio di <<più che adeguata>>. Pertanto, ritiene di commisurare il danno da disservizio nella misura del 10 % della retribuzione di riferimento, pari alla metà di quanto richiesto in citazione (euro 1.867,80).
Con riferimento alla terza voce di danno, essa consiste nel grave nocumento arrecato al prestigio, all’immagine ed alla personalità pubblica dell’amministrazione a seguito dell’illecita condotta tenuta dalla convenuta. Infatti, ogni azione dannosa compiuta dal pubblico dipendente in violazione dell’art. 97 Cost. (in dispregio delle funzioni e delle responsabilità dei funzionari pubblici) <<si traduce in un’alterazione dell’identità della pubblica amministrazione e, più ancora, nell’apparire di una sua immagine negativa in quanto struttura organizzata confusamente, gestita in maniera inefficiente, non responsabile e non responsabilizzata>> (C. conti, sez. riun., 23.04.2003, n. 10/QM). Il torto subito dalla p.a. è nella specie particolarmente evidente, trattandosi di azioni illecite commesse da un pubblico ufficiale operante nel settore della giustizia.
Al riguardo, il Collegio richiama la costante giurisprudenza, anche di questa Sezione (ex multis, 28.10.2010, n. 626), che ha accolto una definizione di danno all’immagine da iscrivere nella categoria del danno non patrimoniale, individuando la norma violata dalla convenuta nell’art. 2059 c.c. anziché nell’art. 2043 c.c.. Con particolare riferimento all’assolvimento dell’onere probatorio, ricorda la pronuncia di questa Corte conti, sez. riun., 18.01.2011, n. 1/QM, secondo cui il danno all’immagine, anche se qualificato come danno-conseguenza, è sempre costituito dalla lesione (all’immagine dell’ente) e mai si identifica con le spese necessarie al suo ripristino (come già affermato dalla citata sentenza n. 10/2003/QM).
In ogni caso, il Collegio condivide l’avviso della Procura, secondo cui la riparazione del danno all’immagine patito dalla persona giuridica debba essere liquidato in via equitativa ex art. 1226 c.c., assumendo quali ragionevoli indicatori, volti a prevenire giudizi arbitrari, la qualifica della convenuta (operatore giudiziario inquadrata presso la Procura della Repubblica di Milano), la gravità oggettiva del fatto (caratterizzato da una disinvolta strumentalizzazione a fini privati di attribuzioni e funzioni pubblicistiche), la diffusività dell’episodio nella collettività, per la negativa impressione suscitata nell’opinione pubblica locale e anche all’interno dell’ente di appartenenza, oltre all’amplificazione del fatto da parte dei mass-media, il c.d. clamor fori.
In relazione a tali parametri, il Collegio considera insufficiente l’importo contestato dalla Procura regionale (peraltro commisurato a diversi criteri), ma accoglie integralmente la richiesta di condanna, in aderenza al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c.
In conclusione, è accolta la richiesta di condanna della convenuta al pagamento della somma complessiva di euro 23.973,48, di cui euro 1.867,80 a titolo di danno da disservizio ed euro 22.105,68 per il danno all’immagine (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 27.01.2012 n. 31 - link a www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIndennità, cresce l'ansia negli enti. Anci: comuni in buona fede. Sbloccare il decreto ministeriale. La decisione shock della Corte conti rischia di aprire la strada a una raffica di contenziosi.
Per gli enti locali i tagli ai costi della politica non sono mai cessati. La riduzione del 10% dei gettoni di presenza e delle indennità di funzione di sindaci, presidenti di provincia, assessori e consiglieri, introdotta dalla Finanziaria 2006 (legge 266/2005), e che i comuni credevano terminata il 31.12.2008, in realtà è ancora in vigore e lo è sempre stata.
Così hanno deciso le sezioni riunite della Corte dei conti con la delibera 12.01.2012 n. 1 (si veda ItaliaOggi del 17/01/2012) gettando nel panico i sindaci.
La decisione smentisce seccamente precedenti pronunce di alcune sezioni regionali di controllo e della sezione autonomie, secondo le quali, invece, quel taglio avrebbe avuto effetto limitatamente all'anno 2006 o tutt'al più si sarebbe prodotto al massimo fino a fine 2008.
Le conseguenze di questa pronuncia potrebbero essere molto pesanti per gli enti che si trovano in una sorta di vicolo cieco: chiedere indietro ai propri amministratori il surplus di indennità e gettoni erogato in eccesso in questi anni in tutta buona fede, con il rischio di esporsi a una raffica di contenziosi, oppure non far nulla, ma rischiare l'imputazione per danno erariale.
L'Anci non ci sta e, pur rispettando, come si conviene, la decisione dei massimi giudici contabili, affida a una nota tutta la sua «preoccupazione» per un'interpretazione «che era stata da tempo superata anche dai suoi pochi sostenitori» dopo le pronunce favorevoli agli enti locali della sezione autonomie e delle sezioni di controllo dell'Emilia Romagna e della Lombardia. L'associazione guidata da Graziano Delrio tiene a sottolineare la trasparenza della condotta dei comuni che in questi anni hanno operato «secondo la legge e attenendosi alle interpretazioni ufficiali espresse dagli organi della Corte conti» fino all'ultima rivoluzionaria pronuncia.
E, proprio per dimostrare di non volersi sottrarre ai tagli, l'Anci chiede al governo un intervento decisivo: l'approvazione, attesa invano dal 2010, del decreto ministeriale che, in attuazione del decreto Tremonti (dl 78/2010), avrebbe dovuto ridurre le indennità in misura proporzionale alla fascia di popolazione. «Il testo è ormai da troppo tempo in itinere», lamenta l'Anci, «e potrebbe restituire certezza alla materia». In effetti, la mancata emanazione del dm è proprio il nodo cruciale, perché in assenza del regolamento e nella convinzione che la decurtazione stabilita dalla Finanziaria 2006 fosse «a termine», i sindaci dall'01.01.2009 in avanti hanno ritenuto che i vecchi tagli non fossero più in vigore e quelli nuovi non ancora operativi. Ma ricapitoliamo i termini del problema.
La tesi delle sezioni unite. Le sezioni riunite dunque escludono che la norma «incriminata» (articolo 1, comma 54, della 266/2005 ai sensi della quale «per esigenze di coordinamento della finanza pubblica, sono rideterminati in riduzione nella misura del 10 per cento rispetto all'ammontare risultante alla data del 30.09.2005» gli emolumenti spettanti a sindaci, presidenti di provincia, assessori e consiglieri) fosse «a tempo determinato». Il motivo è semplice: la disposizione, secondo i giudici contabili non contiene un limite all'arco temporale della sua efficacia, mentre le esigenze di contenimento della spesa pubblica e, in particolare, dei costi della politica hanno natura continuativa e non circoscritta nel tempo.
La stretta operata dalla legge n. 266/2005, secondo le sezioni unite, va dunque considerata «ancora vigente in quanto ha prodotto un effetto incisivo sul calcolo delle indennità che perdura ancora e non può essere prospettata la possibilità di riespandere i valori delle indennità così come erano prima della Finanziaria 2006».
La tesi dell'Anci. Nella nota l'Associazione dei comuni ripercorre tutte le precedenti decisioni che in questi anni hanno indotto i sindaci a credere che il taglio del 10% fosse solo temporaneo. Da quelle più estreme come il parere della Corte conti Toscana secondo cui il taglio avrebbe avuto effetto solo per il 2006 (opinione, tiene a sottolineare l'Anci, «non condivisa da molte amministrazioni comunali che avevano compreso e accettato con spirito solidale la necessità di un sacrificio triennale») a quelle più soft delle sezioni regionali di Emilia Romagna e Lombardia secondo cui il taglio sarebbe durato 3 anni a partire dal 2006 e dunque sarebbe cessato il 31.12.2008. Con la conseguenza che dopo tale data, scrivevano i giudici lombardi, «occorre ripristinare i compensi ai livelli anteriori a quelli fissati dalla legge n. 266/2005».
A corroborare l'idea che i tagli fossero cessati a partire dal 2009, secondo l'Anci, c'ha poi pensato il legislatore che col dl 78/2010 ha istituito nuovamente la decurtazione lasciando che fosse un successivo decreto a calibrarla a seconda della consistenza demografica dell'ente in misura variabile dal 3 al 10%. Peccato però che questo dm, elaborato già un anno fa e approvato il 2 febbraio scorso dalla Conferenza stato-città, si sia arenato per una serie di eccezioni sollevate dal Consiglio di stato.
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Un pasticcio frutto di 12 anni di ritardi.
La mancanza della determinazione normativa certa dell'ammontare di indennità di funzione e gettoni di presenza spettanti agli amministratori locali è la causa principale dello scompiglio creato dalla delibera 12.01.2012 n. 1 delle sezioni riunite della Corte dei conti.
È da 12 anni, dal 2000, anno nel quale venne emanato il primo ed ultimo sino ad oggi decreto ministeriale di determinazione degli importi di gettoni e indennità, che manca una disciplina che stabilisca in modo certo e sicuro gli ammontari degli emolumenti per gli amministratori locali.
In questo lunghissimo lasso di tempo c'è stato modo di creare una confusione estrema.
In un primo tempo, nonostante la legge inizialmente lo consentisse, Viminale e magistratura contabile si dissero contrari al passaggio dai gettoni di presenza alle indennità anche per i consiglieri.
E la norma venne abolita.
Poi, verso la metà degli anni 2000 si cominciò a porre in maniera sistematica la questione dei «costi della politica» e, dunque, con l'articolo 1, comma 54, della legge 266/2005 si ridussero i compensi per gli amministratori del 10%.
Ancora, la normativa ha creato una confusione estrema sulla questione della cumulabilità di indennità nel caso in cui lo stesso soggetto conducesse incarichi di amministratore presso enti diversi. Adesso, le sezioni riunite richiamano l'attenzione sulla circostanza che il taglio del 10% disposto nel 2005 non avesse un'operatività limitata nel tempo, trattandosi, invece, di norma «strutturale», ancora operante, sì da indurre, adesso, le amministrazioni a rivedere i conti delle spese per indennità e gettoni sostenute dal 2007 in poi, allo scopo di chiedere indietro quanto indebitamente versato o compensare le spese. Col rischio di un contenzioso infinito.
È, tuttavia, necessario rilevare che questo stato di confusione e la possibile sgradevole stura a vertenze sulle conseguenze della decisione delle sezioni riunite deriva dalla funzione sostanzialmente suppletiva che, indirettamente, è stata assegnata alla magistratura contabile, a causa dell'inerzia prolungata del ministero, che si è ben guardato dall'aggiornare il decreto ministeriale 119/2000, nonostante la legge ne avesse imposto l'aggiornamento ogni tre anni.
A rendere ancora più intricata la situazione, si aggiunge anche l'inottemperanza alle disposizioni dell'articolo 5, comma 7, della legge 122/2010, ai sensi del quale il Viminale, entro 120 giorni dall'entrata in vigore della norma, avrebbe dovuto diminuire gli importi di indennità e gettoni, per un periodo non inferiore a tre anni, in percentuali variabili a seconda delle dimensioni i della tipologia degli enti.
L'assenza assoluta di una regolamentazione certa, stabile ed aggiornata rende possibili interventi interpretativi, come quelli della magistratura contabile, in grado di cambiare le carte e modificare anche letture delle norme considerate consolidate.
L'unico modo per evitare imbarazzi alle amministrazioni locali, chiamate adesso ad attuare le indicazioni delle sezioni riunite, e l'insorgere di un contenzioso poco comprensibile in una fase come questa, nella quale i «costi della politica» sono ritenuti sempre meno sopportabili e giustificabili, sarebbe fare presto ed emanare il decreto ministeriale, grande assente da oltre due lustri (articolo ItaliaOggi dell'11.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Spesa di personale/spesa corrente.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Calabria, con il parere 18.11.2011 n. 525, risponde a diversi quesiti volti a conoscere come calcolare, per determinate fattispecie, la spesa di personale rilevante ai fini del conteggio del rapporto con la spesa corrente, ai sensi dell'art. 76, comma 7, della legge n. 133/2008.
Questi gli avvisi della Corte:
- "... la spesa relativa agli emolumenti in favore di LSU/LPU, in quanto totalmente finanziata dalla Regione Calabria e in quanto riguardante lavoratori non dipendenti dell'ente, può essere esclusa dal computo delle spese di personale rilevante ai fini dell'art. 76, c.7, della legge 133/2008 ......è comunque necessario che la Regione abbia almeno impegnato le somme corrispondenti .... e che non sussista, al momento del mancato computo, l'obbligo del Comune di stabilizzare, anche in un momento successivo, il personale LSU/LPU. .....Deve essere computata (invece) da parte del Comune: la spesa finanziata da ente esterno al Comune (es. Regione) per LSU/LPU stabilizzati dal Comune ....; l'eventuale parte di spesa, a carico del bilancio comunale, riferita a LSU/LPU non stabilizzati o comunque non dipendenti del Comune ma utilizzati dal Comune stesso nella misura in cui tale spesa comporta un aggravio per le finanze dell'ente ....";
- "non deve essere computata tra le spese di personale di cui all'art. 76, c. 7, della legge 133/2008, la spesa relativa al Segretario comunale, nel caso di convenzione di segreteria, per la parte rimborsata dagli altri enti. .... La spesa per il Segretario in convenzione dovrà pertanto essere computata .... da ciascun Comune in base al riparto della spesa prevista nella convenzione di segreteria";
- "...la quota dei diritti di rogito attribuita al Segretario comunale rogante non deve essere computata tra le spese di personale" (tratto da www.publika.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATALa recinzione di un'area realizzata con installazioni permanenti e' subordinata al rilascio del permesso di costruire.
Ai sensi dell’art. 10, 1° co. del T.U. n. 380/2001, l’intervento di recinzione d'un fondo rustico, realizzato con istallazioni permanenti costituisce senza dubbio un intervento di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio ed era subordinata a permesso di costruire, in quanto rientrava tra gli “interventi di nuova costruzione” di cui all’art. 3, comma 1°, lett. e.7), che, per l’appunto, ricomprende senza distinzioni “… la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo in edificato. …”.
La giurisprudenza ha concordemente affermato che la recinzione d'un fondo rustico, realizzata (come nel caso in esame) con istallazioni permanenti, costituisce una trasformazione permanente del territorio, a prescindere dalla realizzazione di volumetrie di qualunque natura; si tratta, invero, di un intervento funzionale ad un permanente utilizzo commerciale dell'area (e non ad uno scopo contingente, temporaneo o occasionale) che, in quanto tale, contraddice ed impedisce definitivamente la vocazione agricola impressa dallo strumento urbanistico e implica un notevole incremento nella zona del carico urbanistico (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 30.04.2009, n. 2768; Cons. Stato, sez. V, 31.12.2008, n. 6756; Consiglio Stato, sez. IV, 01.10.2007, n. 5035; Cons. Stato, sez. IV, 22.12.2005, n. 7343; Consiglio Stato, sez. V, 11.11.2004, n. 7324; Consiglio Stato, sez. V, 15.06.2000, n. 3320; Cassazione Penale III, 09/06/1982).
Del tutto erroneamente nel caso di specie la società appellante ricollega la qualificazione giuridica del suo intervento all’asserita minimalità del profilo strutturale. Ad avviso del Consiglio di Stato a parte che le opere erano comunque consistite nella realizzazione di un muretto in calcestruzzo con l’apposizione di una griglia zincata, con livellamento del terreno e spargimento di inerti su di un’area di notevole dimensione, tale aspetto è comunque del tutto inconferente e recessivo rispetto a quello funzionale privilegiato dal legislatore.
Nel caso di recinzione di un’area, quello che rileva giuridicamente non è solo la modificazione della condizione materiale e della conformazione naturale del suolo, ma anche e soprattutto l’utilizzo permanente dell'area in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia (cfr.: Cons. Stato, sez. V, 31/01/2001, n. 343; Cons. Stato, sez. V, 20/12/1999, n. 2125; Cons. Stato, sez. V, 01/03/1993, n. 319; Cass. pen., sez. III, 24/10/1997, n. 10709; Cass. pen., Sez. VI, 24/07/1997, n. 8520) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2012 n. 976 
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EDILIZIA PRIVATADecadenza del permesso di costruire: solo l'insorgenza di cause di forza maggiore possono fondare l'istanza di proroga del termine di durata del permesso di costruire.
In linea di principio, alla luce della predetta disposizione è dunque esatto (cfr. infra multa: Consiglio Stato, sez. IV, 10.08.2007, n. 4423; Consiglio Stato, sez. IV, 18.06.2008, n. 3030) che la pronuncia di decadenza del permesso di costruire:
1) è espressione di un potere strettamente vincolato;
2) ha una natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell'inerzia del titolare ovvero della sopravvenienza di un nuovo piano regolatore;
3) pertanto ha decorrenza ex tunc.
Il termine di durata del permesso edilizio, infatti, non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo, al contrario, sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa amministrazione che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l’impossibilità del rispetto del termine; e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un “factum principis” ovvero l’insorgenza di una causa di forza maggiore (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 15.07.2008, n. 3527; Consiglio Stato, sez. IV, 08.02.2008, n. 434) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2012 n. 974 
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APPALTI SERVIZI: Le tabelle ministeriali relative ai costi medi della manodopera non assumono valore di parametro assoluto ed inderogabile ma svolgono una funzione indicativa ben suscettibile di scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali svolte dall'offerente che, evidenziando una particolare organizzazione aziendale, può giustificare la sostenibilità di costi inferiori.
La giurisprudenza ha da tempo chiarito che le tabelle ministeriali relative ai costi medi della manodopera non assumono valore di parametro assoluto ed inderogabile ma svolgono una funzione indicativa ben suscettibile di scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali svolte dall'offerente che, evidenziando una particolare organizzazione aziendale, può giustificare la sostenibilità di costi inferiori (TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 12.11.2010, n. 7246) (TAR Liguria Sez. II, 20.04.2011, n. 645) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.02.2012 n. 600 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nel caso in cui la valutazione sull’offerta sospetta di anomalia si traduca in un giudizio di congruità, non è necessario che il provvedimento finale sia sorretto da una motivazione articolata che descriva le singole giustificazioni corredandole con apprezzamenti ulteriori, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni presentate dall’impresa.
E’ stato altresì affermato che, nel caso in cui la valutazione sull’offerta sospetta di anomalia si traduca in un giudizio di congruità, non è necessario che il provvedimento finale sia sorretto da una motivazione articolata che descriva le singole giustificazioni corredandole con apprezzamenti ulteriori, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni presentate dall’impresa (TAR Liguria Sez. II, 20.04.2011, n. 645) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.02.2012 n. 600 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINella valutazione della componente tecnica dell'offerta economicamente più vantaggiosa da parte di una commissione di gara, l'attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica è consentita quando il numero delle sottovoci, con i relativi punteggi, entro i quali ripartire i parametri di valutazione di cui alle singole voci, sia sufficientemente analitico da delimitare il giudizio della commissione nell'ambito di un minimo e di un massimo, rendendo così evidente l'iter logico seguito nel valutare i singoli progetti sotto il profilo tecnico, in applicazione di puntuali criteri predeterminati, essendo altrimenti necessaria una puntuale motivazione del punteggio attribuito.
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La prova della perdita della chance non è ancorata alla dimostrazione di una percentuale di probabilità di successo, essendo sufficiente che il danneggiato dimostri, anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate, che, qualora la selezione fra i concorrenti si fosse svolta in modo corretto, vi sarebbe stata una ragionevole probabilità di successo e provi, conseguentemente, la realizzazione in concreto almeno di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta.
La giurisprudenza ha talvolta individuato come indice della sussistenza di una concreta chance di successo il fatto che il ricorrente si sia classificato al secondo posto conseguendo un punteggio assai prossimo a quello attribuito all’impresa aggiudicataria, oppure la circostanza che alla gara abbiano partecipato un numero ristretto di imprese (riconoscendo in tal caso al concorrente leso una percentuale di successo proporzionale al numero dei concorrenti ammessi).
Tali metodi di prova della chance sono, tuttavia, di recente stati censurati dalla Corte di Cassazione la quale ha stabilito che il giudice, a tal fine, non può accontentarsi di un dato meramente statistico che parifichi astrattamente le posizioni di tutti i candidati, ma deve apprezzare in concreto ogni elemento di valutazione e di prova dei titoli da essi posseduti al fine di verificare quali fossero, in concreto, le probabilità che ciascuno aveva di conseguire la vittoria.

Sul punto occorre ricordare che nella valutazione della componente tecnica dell'offerta economicamente più vantaggiosa da parte di una commissione di gara, l'attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica è consentita quando il numero delle sottovoci, con i relativi punteggi, entro i quali ripartire i parametri di valutazione di cui alle singole voci, sia sufficientemente analitico da delimitare il giudizio della commissione nell'ambito di un minimo e di un massimo, rendendo così evidente l'iter logico seguito nel valutare i singoli progetti sotto il profilo tecnico, in applicazione di puntuali criteri predeterminati, essendo altrimenti necessaria una puntuale motivazione del punteggio attribuito (cfr., tra le più recenti, Cons. Stato, III, 11.03.2011, n. 1583; V, 03.12.2010 n. 8410 e 29.12.2009, n. 8833).
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La prova della perdita della chance non è, peraltro, ancorata alla dimostrazione di una percentuale di probabilità di successo, essendo sufficiente che il danneggiato dimostri, anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate, che, qualora la selezione fra i concorrenti si fosse svolta in modo corretto, vi sarebbe stata una ragionevole probabilità di successo e provi, conseguentemente, la realizzazione in concreto almeno di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta (fra le tante Cons. Stato Sez. VI, 03.11.2010. n. 7744).
La giurisprudenza ha talvolta individuato come indice della sussistenza di una concreta chance di successo il fatto che il ricorrente si sia classificato al secondo posto conseguendo un punteggio assai prossimo a quello attribuito all’impresa aggiudicataria, oppure la circostanza che alla gara abbiano partecipato un numero ristretto di imprese (riconoscendo in tal caso al concorrente leso una percentuale di successo proporzionale al numero dei concorrenti ammessi).
Tali metodi di prova della chance sono, tuttavia, di recente stati censurati dalla Corte di Cassazione la quale ha stabilito che il giudice, a tal fine, non può accontentarsi di un dato meramente statistico che parifichi astrattamente le posizioni di tutti i candidati, ma deve apprezzare in concreto ogni elemento di valutazione e di prova dei titoli da essi posseduti al fine di verificare quali fossero, in concreto, le probabilità che ciascuno aveva di conseguire la vittoria (Cassazione civile sez. lav. 03.03.2010 n. 5119; in termini analoghi Cons. Stato, VI, 7744/2010 cit.; in senso meno rigoroso si veda, tuttavia, Cons. Stato Sez. VI, 16/09/2011 n. 5168)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.02.2012 n. 599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICirca la valutazione della anomalia effettuata dal responsabile del procedimento anziché dalla Commissione di gara nominata per la valutazione delle offerte, la giurisprudenza ha affermato che qualora il responsabile del procedimento sia dotato di adeguate competenze tecniche non è necessario l’intervento della Commissione.
Infondata è anche la censura con cui l’Impresa lamenta che la valutazione della anomalia sia stata effettuata dal responsabile del procedimento anziché dalla Commissione nominata per la valutazione delle offerte.
Sul punto il Collegio deve osservare che l’indirizzo giurisprudenziale invocato dalla ricorrente non è univoco.
Si è affermato, infatti, che qualora il responsabile del procedimento sia dotato di adeguate competenze tecniche non è necessario l’intervento della Commissione (TAR Brescia, sez. II, 17.05.2011, n. 732; TAR Roma, sez. III, 21.01.2011 n. 643).
Nella fattispecie concreta, peraltro, non si vede come una commissione composta da solo personale medico (a parte il funzionario dell’Ufficio approvvigionamenti) avrebbe potuto effettuare le valutazioni di tipo economico - aziendale necessarie per stabilire la congruità dell’offerta presentata dal Consorzio; mentre, al contrario, il RUP (in qualità di responsabile dell’Ufficio approvvigionamenti) non solo rivestiva un ruolo professionale appropriato al compito svolto, ma ha altresì dimostrato di essere in grado di effettuare con la dovuta perizia l’esame di congruità dell’offerta (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.02.2012 n. 594 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn ogni ipotesi di responsabilità della p.a. per i danni causati per l'illegittimo esercizio (o mancato esercizio) dell'attività amministrativa, spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo, perché tale principio attiene allo svolgimento dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti. Se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subito e della sua entità, è comunque ineludibile l'obbligo di allegare circostanze di fatto precise.
Al riguardo, il Collegio non può che rammentare l’orientamento costante della giurisprudenza amministrativa secondo cui, in ogni ipotesi di responsabilità della p.a. per i danni causati per l'illegittimo esercizio (o mancato esercizio) dell'attività amministrativa, spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo, perché tale principio attiene allo svolgimento dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti. Se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subito e della sua entità, è comunque ineludibile l'obbligo di allegare circostanze di fatto precise (da ultimo, cfr. Consiglio Stato, sez. V, 28.02.2011, n. 1271) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.02.2012 n. 592 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa totale demolizione -vieppiù se intenzionale- dei manufatti oggetto della domanda di condono, prima della sua definizione mediante formale rilascio del titolo edilizio in sanatoria, comporta la improcedibilità della relativa istanza, in quanto volta al “mantenimento” -per di più in virtù di una normativa eccezionale- di un manufatto non più esistente.
Né rileva la giurisprudenza che consente la ristrutturazione di manufatti diruti, in quanto essa presuppone comunque la loro legittimità originaria.
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Il rilascio della sanatoria è provvedimento formale non sostituibile con atto di comunicazione avente contenuto decisionale diverso (nel caso di specie, di comunicazione del parere favorevole agli effetti paesaggistici).

La totale demolizione -vieppiù se intenzionale (doc. 1 delle produzioni 28.11.2011 di parte comunale)- dei manufatti oggetto della domanda di condono, prima della sua definizione mediante formale rilascio del titolo edilizio in sanatoria, comporta la improcedibilità della relativa istanza, in quanto volta al “mantenimento” -per di più in virtù di una normativa eccezionale- di un manufatto non più esistente.
Né rileva la giurisprudenza che consente la ristrutturazione di manufatti diruti (cfr. TAR Veneto, II, 25.10.1999, n. 1747, citata a p. 10 del ricorso introduttivo), in quanto essa presuppone comunque la loro legittimità originaria.
Per il resto, è insegnamento ricevuto (TAR Puglia-Lecce, I, 04.07.2008, n. 2052) che il rilascio della sanatoria è provvedimento formale non sostituibile con atto di comunicazione avente contenuto decisionale diverso (nel caso di specie, di comunicazione del parere favorevole agli effetti paesaggistici) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 23.02.2012 n. 324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La pubblicità delle sedute di gara risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili "ex post" una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato.
L'apertura in pubblico delle offerte tecniche costituisce quindi corretta interpretazione dei principi comunitari e di diritto interno sopra ricordati in materia di trasparenza e di pubblicità nelle gare per i pubblici appalti e, come tale, meritevole di essere confermata e ribadita anche con specifico riferimento all'apertura della busta contente l'offerta tecnica.
Tale operazione, infatti, come l'analoga per la documentazione amministrativa e per l'offerta economica, costituisce passaggio essenziale e determinante dell'esito della procedura concorsuale, e quindi richiede di essere presidiata dalle medesime garanzie, a tutela degli interessi privati e pubblici coinvolti dal procedimento.
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Nel caso di aggiudicazione secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, le offerte economiche devono restare segrete per evitare che gli elementi di valutazione aventi carattere automatico, quali il prezzo, possano influenzare la valutazione degli elementi discrezionali. Conseguentemente, ove dovesse esistere siffatta commistione, sarebbe violata la regola della par condicio espressamente sancita dall'art. 2 del codice dei contratti pubblici.

Come è noto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è recentemente espressa nel senso che “la pubblicità delle sedute di gara risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili "ex post" una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato.
L'apertura in pubblico delle offerte tecniche costituisce quindi corretta interpretazione dei principi comunitari e di diritto interno sopra ricordati in materia di trasparenza e di pubblicità nelle gare per i pubblici appalti e, come tale, meritevole di essere confermata e ribadita anche con specifico riferimento all'apertura della busta contente l'offerta tecnica. Tale operazione, infatti, come l'analoga per la documentazione amministrativa e per l'offerta economica, costituisce passaggio essenziale e determinante dell'esito della procedura concorsuale, e quindi richiede di essere presidiata dalle medesime garanzie, a tutela degli interessi privati e pubblici coinvolti dal procedimento
” (Cons. di St., Ad. Plen., 28.07.2011, n. 13).
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Per costante giurisprudenza, “nel caso di aggiudicazione secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, le offerte economiche devono restare segrete per evitare che gli elementi di valutazione aventi carattere automatico, quali il prezzo, possano influenzare la valutazione degli elementi discrezionali. Conseguentemente, ove dovesse esistere siffatta commistione, sarebbe violata la regola della par condicio espressamente sancita dall'art. 2 del codice dei contratti pubblici" (Cons. Stato, III, 11.03.2011, n. 1582; id., VI, 12.12.2002, n. 6795) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 23.02.2012 n. 322 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINelle gare pubbliche devono essere evitati inutili appesantimenti e deve essere garantito il massimo grado di partecipazione dei concorrenti nel rispetto della par condicio.
L'esclusione da una gara pubblica può essere disposta ogniqualvolta il concorrente abbia violato previsioni poste a tutela degli interessi sostanziali dell'amministrazione o a protezione della par condicio tra i concorrenti. La carenza essenziale del contenuto o delle modalità di presentazione che giustifica l'esclusione deve riferirsi all'offerta, incidendo oggettivamente sulle componenti del suo contenuto ovvero sulle produzioni documentali a suo corredo, in rispondenza ad un interesse sostanziale della stazione appaltante (Cons. Stato Sez. V, 11.12.2007, n. 6410).
Come già affermato in precedenti da cui il Collegio non intende discostarsi (Cons. St. Sez. V, 28.02.2011, n. 245; 12.07.2004, n. 5049; Sez. VI, 08.03.2010, n. 1305), la necessità di evitare inutili appesantimenti nonché di garantire in massimo grado la partecipazione dei concorrenti, nel rispetto della par condicio, costituisce metodo operativo ed interpretativo irrinunciabile, sicché deve respingersi un’interpretazione della clausola del bando impositiva, a pena di esclusione, di una duplicazione di documenti descrittivi attinenti ai medesimi elementi (nella specie, due relazioni aventi in comune informazioni sull’esecuzione del progetto; una relazione e le schede tecniche sui medesimi profili qualitativi) e ritenersi legittimo l’operato della Commissione che ha considerato esaustiva la documentazione presentata, in quanto completa di tutti gli elementi richiesti dalla legge di gara, ed insussistenti i presupposti per l’applicazione della sanzione espulsiva (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.02.2012 n. 933
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIDecide il giudice ordinario sulle controversie per la risoluzione del contratto ovvero l’accertamento del diritto dell’appaltatore a proseguire il rapporto con l’amministrazione committente.
Le controversie aventi ad oggetto la risoluzione del contratto ovvero l’accertamento del diritto dell’appaltatore a proseguire il rapporto con l’amministrazione committente rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, cui spetta “di verificare la conformità alla normativa positiva delle regole attraverso cui i contraenti hanno disciplinato i loro contrapposti interessi e delle relative condotte attuative” (Cons. St. VI, 17.03.2010, n. 1554).
Per giurisprudenza consolidata (Cass. SS.UU. n. 21928/2008, n. 6068/2009), costituiscono eccezione al principio generale della devoluzione al g.o. delle controversie correlate ad un rapporto contrattuale già costituito solo le ipotesi di esercizio da parte della p.a. appaltante di un potere valutativo discrezionale dei requisiti del contraente, di natura pubblicistica, quale, ad esempio, quello conferito dall’art. 11 del d.P.R. n. 252 del 1998 allo scopo di impedire il mantenimento di rapporti contrattuali con imprese sospettate di collegamenti con la criminalità organizzata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.02.2012 n. 932 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl Consiglio di Stato chiarisce il riparto di giurisdizione tra il Tribunale Superiore delle Acque e il giudice amministrativo in materia di acque pubbliche.
Nel giudizio in esame un Comune presentava domanda di concessione alla regione di una piccola derivazione dal fiume, per uso idroelettrico. La regione respingeva la richiesta con provvedimento che veniva impugnato dal Comune innanzi al giudice amministrativo che dichiarava il proprio difetto di giurisdizione. Avverso tale decisione ha proposto appello il comune che con la sentenza in esame e' stato rigettato sul presupposto che gli atti che regolano la materia delle “Acque pubbliche” non vanno considerati in astratto, ma con riferimento alla possibilità di influire, comunque, sulla loro regolamentazione (C.S. V n. 6942/2010).
Le Sezioni Unite hanno riaffermato che la giurisdizione di legittimità in unico grado attribuita al Tribunale superiore delle acque pubbliche con riferimento ai "ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall'amministrazione in materia di acque pubbliche", sussiste quando i provvedimenti amministrativi impugnati incidano direttamente sul regime delle acque pubbliche, nel senso che concorrano, in concreto, a disciplinare la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche o a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse od a stabilire o modificarne la localizzazione o a influire nella loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti (cfr. Cass., Sez. Un., n. 27528/2008 e 10848/2009).
Ed inoltre, hanno osservato che "l'incidenza diretta del provvedimento amministrativo sul regime delle acque pubbliche, che radica la giurisdizione di legittimità del Tribunale superiore delle acque pubbliche, è configurabile non solo quando l'atto provenga da organo amministrativo preposto alla cura di pubblici interessi in tale materia e costituisca manifestazione dei poteri attributi a tale organo per vigilare o disporre in ordine agli usi delle acque, ma anche quando l'atto, ancorché proveniente da organi dell'amministrazione non preposti alla cura degli interessi del settore, finisca, tuttavia, con l'incidere immediatamente sull'uso delle acque pubbliche, in quanto interferisca con i provvedimenti relativi a tale uso, autorizzando, impedendo o modificando i lavori relativi” (Cassazione civile, sez. un., 26.07.2002, n. 11126).
Da quanto sopra consegue che ha incidenza diretta sul regime delle acque il provvedimento con il quale l'organismo competente si pronuncia con proprio decreto sull'assoggettamento di un progetto di opera idrica (nella specie un progetto per il quale si chiede una concessione di derivazione) alla relativa procedura, in quanto tale provvedimento postula l'esame nel merito dell'opera o dell'intervento, chiaramente incidente sulla consistenza dell'opera e sulle modalità di gestione della stessa, e ne può condizionare la effettiva realizzazione o le modalità di gestione.
Pertanto, ove l'oggetto del progetto esaminato nella procedura di screening sia un'opera idraulica, l'impugnazione del decreto emesso dal Responsabile della struttura competente, per la sua ricaduta immediata sul regime delle acque pubbliche, va ricondotta alla giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche (cfr. C.S. V n. 3678/2009) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.02.2012 n. 928
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URBANISTICAIl piano di lottizzazione fissa la volumetria massima edificabile su ciascun lotto, ma ben può essere realizzata in alcuni lotti volumetria inferiore o nessuna volumetria.
Il piano di lottizzazione, in quanto strumento attuativo del piano regolatore contiene la disciplina di dettaglio del piano regolatore, gli indici volumetrici consentiti, la superficie del lotto minimo, la destinazione dei fabbricati, il tracciato delle strade e la individuazione delle aree destinate a standards.
Il disegno di insieme si completa con la indicazione dei lotti destinati all’edificazione dei fabbricati e dell’ingombro massimo consentito in ciascun lotto. Quanto alla sagoma, alla dislocazione dei fabbricati sui lotti, all’allineamento, essa è in genere meramente indicativa, fermo restando che nella edificazione vanno, comunque, rispettate le distanze e gli altri limiti stabiliti nelle norme tecniche di attuazione che completano il piano di lottizzazione. Infatti, il piano di lottizzazione, sia esso di iniziativa pubblica che privata, ha lo scopo di asservire un’area non urbanizzata all’edificazione consentendo la realizzazione contestuale delle opere di urbanizzazione e dei fabbricati per uso privato.
Va da sé che il piano di lottizzazione fissa la volumetria massima edificabile su ciascun lotto, ma ben può essere realizzata volumetria inferiore o nessuna volumetria, sicché è ben possibile che alcuni lotti non vengano affatto edificati (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.02.2012 n. 927
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' da escludersi nel procedimento di rilascio di titoli edilizi che possano reputarsi controinteressati aventi diritto alla comunicazione dell’art. 7 della legge 241/1990 i proprietari frontisti o confinanti.
La giurisprudenza amministrativa esclude che, nel procedimento di rilascio di titoli edilizi, possano reputarsi controinteressati aventi diritto alla comunicazione dell’art. 7 della legge 241/1990, i proprietari frontisti o confinanti (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 22.07.2010, n. 3253; TRGA Trentino Alto-Adige, 14.10.2010, n. 194; TAR Liguria, sez. I, 10.07.2009, n. 1736 e TAR Veneto, sez. II, 09.02.2007, n. 365) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.02.2012 n. 581 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 15 del DPR 380/2001 consente la proroga dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori previsti nel permesso di costruire, esclusivamente <<per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso>>.
La norma, che ricalca quella dell’art. 4 della legge 10/1977 (oggi parzialmente abrogato), è intesa dalla giurisprudenza nel senso che è illegittimo il provvedimento dell'Amministrazione comunale di declaratoria di decadenza del permesso di costruire (già concessione edilizia), allorché sussistano impedimenti assoluti all'esecuzione dei lavori segnalati o comunque conosciuti all'Amministrazione e l'impedimento non sia riferibile alla condotta del concessionario, per cui è tale da costituire quella causa di forza maggiore che sospende il decorso dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui al titolo edilizio previsti dalla legge.

In primo luogo, occorre ricordare che l’art. 15 del DPR 380/2001 consente la proroga dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori previsti nel permesso di costruire, esclusivamente <<per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso>>.
La norma, che ricalca quella dell’art. 4 della legge 10/1977 (oggi parzialmente abrogato), è intesa dalla giurisprudenza nel senso che è illegittimo il provvedimento dell'Amministrazione comunale di declaratoria di decadenza del permesso di costruire (già concessione edilizia), allorché sussistano impedimenti assoluti all'esecuzione dei lavori segnalati o comunque conosciuti all'Amministrazione e l'impedimento non sia riferibile alla condotta del concessionario, per cui è tale da costituire quella causa di forza maggiore che sospende il decorso dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui al titolo edilizio previsti dalla legge (cfr. fra le tante, TAR Lazio, sez. II-quater, 07.06.2010, n. 15939, con la giurisprudenza ivi richiamata).
Nel caso di specie, la richiesta di proroga è stata giustificata dai ricorrenti attraverso il richiamo sia alla situazione di crisi del settore dell’edilizia, sia alla controversia che oppone i ricorrenti stessi al il Comune di Milano e relativa alla determinazione del contributo concessorio inerente al permesso di costruire di cui alla presente causa (cfr. docc. 18 e 19 dei ricorrenti per le istanze di proroga).
Orbene, reputa il Collegio che nessuna delle due circostanze suindicate possa costituire un “fatto sopravvenuto”, idoneo a giustificare la proroga ai sensi dell’art. 15 del Testo Unico dell’edilizia.
La crisi del settore edile, collegata alla difficile congiuntura economica italiana, appare una circostanza estremamente generica, non idonea di per sé ad impedire in maniera assoluta la possibilità di edificazione legata al permesso di costruire ottenuto dagli esponenti.
D’altronde, se il mero richiamo alla situazione economica generale –e a quella del settore edile in particolare- potesse costituire una oggettiva ragione per la proroga dei termini dei titoli edilizi, si potrebbe giungere alla paradossale conclusione che in relazione a qualsivoglia intervento potrebbero essere disposte proroghe, nell’attesa di un -non ben precisato ed identificato- momento di ripresa economica generale.
In ordine all’altra ragione posta a fondamento della domanda di proroga, effettivamente è in corso un contenzioso fra i ricorrenti ed il Comune di Milano, legato all’esatta determinazione dei contributi concessori relativi al permesso di costruire di cui è causa, n. 137/2008.
Il ricorso promosso dagli esponenti per l’esatta determinazione del contributo suddetto è stato respinto dal TAR Lombardia, sez. II, con sentenza n. 4455/2009, che ha così confermato la correttezza della quantificazione del contributo effettuata dall’Amministrazione nel permesso di costruire (cfr. doc. 20 dei ricorrenti per il testo della sentenza).
Contro tale sentenza è stato proposto appello al Consiglio di Stato, tuttora pendente, senza domanda di sospensione dell’efficacia della sentenza (cfr. il documento dei ricorrenti, allegato ai motivi aggiunti depositati il 17.06.2011), sicché quest’ultima deve ritenersi produttiva dei propri effetti giuridici.
Tuttavia, non si comprende perché l’esistenza del contenzioso di cui è causa –attualmente in grado d’appello- possa costituire una circostanza oggettivamente ostativa alla realizzazione dell’intervento edilizio, che può comunque essere effettuato, in attesa della definitiva determinazione del contributo concessorio.
Le ragioni per la proroga addotte degli esponenti attengono –a ben vedere- a valutazioni di opportunità e di convenienza economica dell’intervento, ma non costituiscono assoluti impedimenti ad edificare.
Il provvedimento comunale impugnato coi motivi aggiunti (cfr. doc. 4 del resistente), dà atto di quanto sopra esposto, con motivazione congrua ed analitica, indubbiamente più ampia ed esaustiva rispetto alla scarna motivazione del primo diniego di proroga, gravato col ricorso principale.
Neppure può ritenersi violata, da parte del Comune, l’ordinanza cautelare della Sezione n. 1250/2009, la quale aveva fatto salvo il potere dell’Amministrazione di pronunciarsi nuovamente –ancorché motivatamente– sull’istanza di proroga (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.02.2012 n. 580 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' da escludere la necessità di un titolo abilitativo per le recinzioni semplicemente infisse al suolo e come tali facilmente amovibili, essendo al contrario necessario un titolo edilizio per le recinzioni inserite in strutture in cemento o in calcestruzzo collocate sul suolo.
Come risulta dal provvedimento impugnato e dal verbale del 05.12.2002, la recinzione è costituita da una rete metallica, tesa tra paletti in acciaio semplicemente infissi nel terreno e la giurisprudenza amministrativa esclude la necessità di un titolo abilitativo per le recinzioni semplicemente infisse al suolo e come tali facilmente amovibili, essendo al contrario necessario un titolo edilizio per le recinzioni inserite in strutture in cemento o in calcestruzzo collocate sul suolo (cfr., fra le tante, TAR Campania, Napoli, sez. VII, 03.11.2010, n. 22291, con la giurisprudenza ivi richiamata).
L’ordinanza impugnata deve quindi essere annullata in parte qua, laddove ingiunge di demolire la recinzione di cui è causa, individuata nel verbale dei tecnici comunali del 05.12.2002 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.02.2012 n. 577 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIl dipendente pubblico per ottenere il pagamento dell'indennità di buonuscita deve fare causa all'Inpdap e non all'Amministrazione di appartenenza.
Per consolidata giurisprudenza l'Amministrazione di appartenenza non ha legittimazione passiva nel ricorso proposto da un pubblico dipendente nei confronti dell'Inpdap per il pagamento dell'indennità di buonuscita e i suoi accessori, non rivestendo alcun ruolo con rilevanza esterna nel relativo procedimento (Cons. Stato, Sez. VI, 06.09.2010, n. 6465; v. anche Sez. VI, 31.01.2006, n. 329 e 21.06.2007, n. 3365 nonché TAR Veneto, Sez. III, 12.05.2008, n. 1290 e TAR Em-Rom, Sez. I, 31.05.2004, n. 932).
Ciò alla stregua del convincimento per cui l’Inpadp, che, a norma dell’art. 4, d.lg. n. 479 del 1994, è succeduto all’Ente nazionale di previdenza e assistenza dei dipendenti statali (ENPAS) nella totalità dei relativi rapporti giuridici, deve ritenersi l’unico soggetto legittimato passivo nei giudizi promossi, come nel caso in esame, in materia di indennità di buonuscita (TAR Campania, Na, Sez. I, 19.12.2007, n. 16433).
Questa Sezione, inoltre, ha già proprio evidenziato che nei giudizi proposti da pubblici dipendenti aventi per oggetto l'indennità di buonuscita l'unico soggetto legittimato passivo è l'Inpdap, trattandosi del soggetto tenuto, ai sensi dell'art. 25 T.U. 29.12.1973 n. 1032, alla liquidazione dell'indennità e al pagamento della somma, e non anche l'Amministrazione di appartenenza, che non riveste alcun ruolo con rilevanza esterna nel relativo procedimento (TAR Lazio, Sez. III, 06.12.2006, n. 13916) (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 20.02.2012 n. 1695 
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APPALTIIl partecipante escluso dalla gara non può contestarne gli esiti.
Il Consiglio di Stato, così come di recente ribadito anche nella sentenza dell’Adunanza Plenaria 07.04.2011, n. 4 e specificato dalla Sezione in più occasioni (cfr. sentenze 10.09.2010, n. 6546; 13.09.2005, n. 4692; 21.11.2007, n. 5925; 29.12.2009, n. 8969), anche se di regola è sufficiente l’interesse strumentale del partecipante ad una gara pubblica di appalto ad ottenere la riedizione della gara stessa, deve in ogni caso ritenersi che un tale interesse non sussista in capo al soggetto legittimamente escluso dato che tale soggetto, per effetto dell’esclusione, rimane privo non soltanto del titolo legittimante a partecipare alla gara ma anche a contestarne gli esiti e la legittimità delle scansioni procedimentali.
Il suo interesse protetto invero, da qualificare interesse di mero fatto, non è diverso da quello di qualsiasi operatore del settore che, non avendo partecipato alla gara, non ha titolo ad impugnare gli atti, pur essendo titolare di un interesse di mero fatto alla caducazione dell’intera selezione, al fine di poter presentare la propria offerta in ipotesi di riedizione della nuova gara.
Anzi, la citata sentenza dell’Adunanza Plenaria 07.04.2011, n. 4 ha ribadito ancora con forza che nelle procedure pubbliche di affidamento dei contratti, la legittimazione al ricorso è correlata a una situazione differenziata, in modo certo, come risultato della partecipazione alla stessa procedura oggetto di contestazione, salvi i casi nei quali il ricorrente contesti, in radice, la scelta della stazione appaltante di indire la procedura, oppure, in qualità di operatore economico di settore, l'affidamento diretto o senza gara, oppure ancora una clausola del bando per sé escludente, in relazione alla illegittima previsione di determinati requisiti di qualificazione, situazioni che non ricorrono nella specie.
In tale contesto, osserva la Plenaria, la mancata partecipazione alla gara, ostativa all’ammissibilità del ricorso, è del tutto equiparabile alla situazione di chi ne sia stato legittimamente escluso (o non abbia impugnato la propria esclusione) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.02.2012 n. 892 
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APPALTITemperamenti al principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche: possibilità di recesso di una impresa dell'A.T.I. dopo l'aggiudicazione.
Nel caso in esame il legale partecipante di una impresa componente della'A.T.I. ha prodotto nel procedimento di gara la dichiarazione di non aver riportato condanna penale irrevocabile che, come invece è risultato dalla documentazione depositata in giudizio (certificato del casellario giudiziario), non è veritiera; la società componente dell’A.T.I. partecipante alla gara ha, quindi, manifestato il recesso dalla costituzione dell’A.T.I. appena successivamente al provvedimento di aggiudicazione provvisoria col quale è stato disposto l’accertamento dei requisiti generali di accesso alla procedura e prima della verifica degli stessi.
Pertanto, in conformità al principio secondo il quale il divieto di modifica soggettiva opera sicuramente allorquando interviene, come nella specie, per eludere la legge di gara e, in particolare, per evitare una sanzione in capo al componente dell’A.T.I. che viene meno per effetto dell’operazione riduttiva, la revoca dell’aggiudicazione provvisoria è da ritenersi del tutto legittima (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 16.02.2010, n. 842). Infatti, il principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche mira a garantire una conoscenza piena da parte delle Amministrazioni aggiudicatrici dei soggetti che intendono contrarre con le Amministrazioni stesse, consentendo una verifica preliminare e compiuta dei requisiti di idoneità morale, tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria dei concorrenti, verifica che non deve essere resa vana in corso di gara con modificazioni di alcun genere (Consiglio di Stato, sez. V, 07.04.2006, n. 1903; Consiglio di Stato, sez. V, 30.08.2006, n. 5081).
La tesi tradizionalmente rigorista è stata effettivamente rimessa in discussione da altro filone giurisprudenziale secondo cui sarebbe possibile, dopo l’aggiudicazione, il recesso di una o più imprese dell’A.T.I., se quelle rimanenti siano in possesso dei requisiti di qualificazione per le prestazioni oggetto dell’appalto: infatti, il divieto legislativo riguarderebbe solo l’aggiunta o la sostituzione di componenti, non anche il venir meno, senza sostituzione, di taluno (Consiglio di Stato, sez. IV, 23.07.2007, n. 4101). Ciò in quanto il divieto di modificazione soggettiva non ha l'obiettivo di precludere sempre e comunque il recesso dal raggruppamento in costanza di procedura di gara, poiché il rigore di detta disposizione va temperato in ragione dello scopo che persegue, che è quello di consentire alla stazione appaltante, in primo luogo, di verificare il possesso dei requisiti da parte dei soggetti che partecipano alla gara e, correlativamente, di precludere modificazioni soggettive, sopraggiunte ai controlli, e dunque, in grado di impedire le suddette verifiche preliminari.
Tale essendo, dunque, la funzione di detta disposizione è evidente come le uniche modifiche soggettive elusive del dettato legislativo siano quelle che portano all'aggiunta o alla sostituzione delle imprese partecipanti e non anche quelle che conducono al recesso di una delle imprese del raggruppamento; in tal caso, infatti, le esigenze succitate non risultano affatto frustrate poiché l'Amministrazione, al momento del mutamento soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di moralità dell'impresa o delle imprese che restano, sicché i rischi che il divieto mira ad impedire non possono verificarsi (Consiglio di Stato, sez. VI, 13.05.2009, n. 2964).
Tuttavia, come è evidente dal tenore letterale delle decisioni appartenenti a tale filone, il rigore dell’orientamento tradizionale è attenuato soltanto se l'Amministrazione, al momento del mutamento soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di moralità dell'impresa o delle imprese, il che non si verifica nel caso di specie, in cui il recesso è avvenuto prima dell’espletamento dei controlli; dunque, impedendo di fatto che si potesse applicare una sanzione all’operatore economico partecipante.
In tal modo è evidente che si verifica una violazione della par condicio dei concorrenti, atteso che, nel caso di specie, il recesso è avvenuto per eludere la legge di gara e, in particolare, per evitare una sanzione di esclusione dalla gara per difetto dei requisiti in capo al componente dell’A.T.I., che viene meno per effetto dell’operazione riduttiva. Ancora di recente, peraltro, questa Sezione ha ribadito che il recesso di una impresa componente di un raggruppamento nel corso della procedura di gara non vale a sanare ex post una situazione di preclusione all’ammissione alla procedura sussistente al momento dell’offerta in ragione della sussistenza di cause di esclusione riguardanti il soggetto recedente (Consiglio di Stato, sez. V, 28.09.2011, n. 5406).
Relativamente al capo della sentenza del TAR relativo alla falsa dichiarazione, il Consiglio di Stato ha rilevato l’indiscutibile sussistenza di una falsa dichiarazione resa dal legale rappresentante del soggetto receduto dall’associazione, atteso che lo stesso risulta condannato, con sentenza irrevocabile della Corte di Appello, alla pena della reclusione di anni 1 e mesi 5 ed alla multa di lire 500.000 per reati riconducibili all’affidabilità morale (agevolazione all’esercizio della prostituzione); tale precedente non è stato dichiarato in sede di partecipazione a gara, nella quale dunque è stata resa una falsa dichiarazione in ordine all’incensuratezza, rilevante per la partecipazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.02.2012 n. 888 
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PUBBLICO IMPIEGOLa legittimità del provvedimento di liquidazione dell'indennità di buonuscita va valutata in base alla normativa vigente al momento della sua emanazione.
Il provvedimento con cui la pubblica amministrazione dispone il collocamento a riposo di un proprio dipendente è atto conclusivo del rapporto di impiego, attinente allo status ed alla stessa qualità di dipendente del soggetto interessato, con natura autoritativa dell’atto non dissimile da quella dell’inquadramento; la legittimità di tale provvedimento e di quelli strettamente consequenziali (come la liquidazione dell’indennità di buonuscita) deve quindi essere valutata in base alla normativa vigente alla data della relativa emanazione, senza che disposizioni legislative, successivamente intervenute, possano incidere sul trattamento già definito (con ogni questione di esatta quantificazione o riliquidazione della pensione rimessa alla giurisdizione della Corte dei Conti, fatte salve pretese strettamente connesse al rapporto di impiego intercorso o riferite all’indennità di buonuscita, in ogni caso con applicazione del noto principio “tempus regit actum”: cfr. Cons. St., sez. VI, 18.12.2007, n. 6514).
Qualsiasi nuova normativa, pertanto, deve considerarsi normalmente applicabile solo ai trattamenti, anche a carattere continuativo, da definire dopo la relativa entrata in vigore, a meno di dichiarato effetto retroattivo della normativa stessa, dovendo trovare applicazione l’art. 11, comma 1, disp. prelim. al codice civile, secondo cui la legge non dispone che per l’avvenire (cfr. anche, per il principio Cons. St., sez. VI, 22.10.2002, n. 5794, 29.07.2004, n. 5354 e 5339, 29.09.2010, n. 7187, 02.03.2011, n. 1303, 29.03.2011, n. 1900; Cass. civ., sez. III, 24.03.2010,n. 7119) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.02.2012 n. 849 
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APPALTIL'annotazione nel casellario informatico dell'avvenuta esclusione di un'impresa da pubbliche gare per aver reso false dichiarazioni può essere disposta dall'Autorità di Vigilanza solo a seguito di un procedimento in contraddittorio con l'interessato.
L’orientamento costante del giudice amministrativo (cfr. Tar Lazio III nn. 11068 e 11090/2009 e n. 6640/2010) ritiene che l'annotazione nel casellario informatico dell'avvenuta esclusione di un'impresa da pubbliche gare per aver reso false dichiarazioni abbia un autonomo contenuto lesivo, in base alla espressa previsione dell'art. 38, lettera h), del d.lgs. n° 163 del 12-04-2006.
Costituendo la annotazione una autonoma sanzione disposta dalla Autorità di Vigilanza accanto alle misure previste dall'art. 6, comma 11, e dall'articolo 48, può essere legittimamente adottata solo a seguito di un procedimento che assicuri il contraddittorio dell'interessato e la valutazione da parte dell'Autorità del presupposto per procedere all'annotazione, in particolare, in relazione alla falsità delle dichiarazioni (TAR Lazio, III, sentenza n. 11068 del 2009).
Tale orientamento giurisprudenziale ha trovato conferma nella nuova disciplina dell’art. 38 introdotta con il d.l. n° 70 del 13-05-2011, peraltro non applicabile al caso di specie, che al nuovo comma 1-ter dell’art. 38 ha previsto: “In caso di presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione, nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalto, la stazione appaltante ne dà segnalazione all’Autorità che, se ritiene che siano state rese con dolo o colpa grave in considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione, dispone l’iscrizione nel casellario informatico ai fini dell’esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1, lettera h), per un periodo di un anno, decorso il quale l’iscrizione è cancellata e perde comunque efficacia” (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 16.02.2012 n. 1642 
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APPALTISanzioni all'impresa che in sede di gara pubblica rende dichiarazioni false.
La controversia posta all'attenzione del giudice amministrativo investe la corretta applicazione o meno nei confronti di una società dell’art. 48, comma 1, del d.lgs. 163/2006, il quale così dispone: “Le stazioni appaltanti, prima di procedere all’apertura delle buste delle offerte presentate, richiedono ad un numero di offerenti non inferiore al 10 per cento delle offerte presentate, arrotondato all’unità superiore, scelti con sorteggio pubblico, di comprovare, entro dieci giorni dalla data delle richiesta medesima, il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, eventualmente richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione indicata in detto bando o nella lettera di invito. Quando tale prova non sia fornita, ovvero non confermi le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell’offerta, le stazioni appaltanti procedono all’esclusione del concorrente dalla gara, all’escussione della relativa cauzione provvisoria e alla segnalazione del fatto all’Autorità per i provvedimenti di cui all’art. 6, comma 11. L’Autorità dispone, altresì, la sospensione da uno a dodici mesi dalla partecipazione alle procedure di affidamento”.
Come più volte affermato dalla giurisprudenza, si tratta di una previsione connotata da carattere sanzionatorio, ossia di una prescrizione che –in quanto diretta a salvaguardare, in primo luogo, il “rispetto dell’ampio patto d’integrità cui si vincola chi partecipa a gare pubbliche” ed, in secondo luogo, “la serietà e l’affidabilità dell’offerta”– necessariamente presuppone un comportamento non corretto da parte dell’operatore economico, in spregio dell’impegno dal medesimo assunto ad osservare le regole della procedura di gara, delle quali ha contezza (cfr., tra le altre, Corte Cost., 13.07.2011, n. 211; C.d.S., Sez. V, 01.10.2010, n. 7263). In altri termini, la previsione in esame mira a garantire che nel settore operino soggetti rispettosi delle regole che lo disciplinano, essendo inequivocabilmente diretta a sanzionare eventuali dichiarazioni false rese in sede di gara (cfr., tra le altre, TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, Sez. I, 08.04.2011, n. 191).
La sua ratio va, pertanto, coerentemente individuata nel contemperamento del principio del libero accesso alle gare con la garanzia che vi partecipino imprese “affidabili”, perseguendo la finalità di responsabilizzare i partecipanti e di escludere da subito i soggetti privi delle richieste qualità economico-imprenditoriali volute dal bando, i quali, per il solo fatto di essersi posti in condizione di partecipare, pur non avendone titolo, rappresentano un indiscusso fattore di disturbo ed alterazione della procedura di gara (cfr., TAR Liguria, Sez. II, 16.02.2011, n. 280; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 07.06.2010, n. 12713).
In definitiva, si tratta di una previsione che –proprio per la ratio che la connota– necessariamente implica “dichiarazioni formalmente infedeli”, ossia può trovare applicazione esclusivamente nell’ipotesi in cui vengano riscontrate dichiarazioni “false”, le quali, tra l’altro, debbono essere caratterizzate da dolo o mala fede o, comunque, non essere riconducibili ad una semplice erronea percezione della realtà (cfr., tra le altre, TAR Lazio, Roma, Sez. III, 26.10.2009, n. 10429; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 06.03.2009, n. 2341) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 16.02.2012 n. 1639 
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APPALTIRagioni di pubblico interesse possono legittimare l'Amministrazione a non procedere all'aggiudicazione della gara.
In materia di contratti della P.A., il potere di non procedere alla aggiudicazione (definitiva o provvisoria) di una gara ben può trovare fondamento, in via generale, in specifiche ragioni di pubblico interesse (Consiglio di Stato, Sezione III, n. 6039 del 15.11.2011, Sezione VI, n. 1554 del 17.03.2010) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 16.02.2012 n. 833 
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ESPROPRIAZIONEModalità di comunicazione dell'avvio del procedimento nelle procedure espropriative coinvolgenti un rilevante numero di proprietari di aree.
Il coinvolgimento nella procedura espropriativa di un rilevante numero di proprietari consente all'Amministrazione espropriante di sostituire la comunicazione personale di avvio del procedimento con le forme di pubblicità alternative consentite dall'art. 8, comma 3, l. 07.08.1990 n. 241, purché i destinatari di tale comunicazione siano effettivamente messi in grado di percepire la portata per essi lesiva del provvedimento, con la puntuale indicazione delle particelle espropriate (Consiglio Stato , sez. IV, 15.01.2009, n. 151).
L'amministrazione, trovandosi in presenza di un procedimento che non riguardava più soltanto pochi destinatari, ma oltre cinquanta soggetti intestatari di particelle interessate dai lavori, ha utilizzato il modello di pubblicità alternativa del procedimento di massa previsto dalla legge ("allorché il numero dei destinatari sia superiore a 50"): il che è rispettoso dell'indirizzo giurisprudenziale secondo il quale l'atto con il quale viene dichiarata, anche implicitamente, la pubblica utilità, l'indifferibilità e l'urgenza di un'opera deve necessariamente essere preceduto dalla comunicazione dell'avvio del procedimento, ai sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241, indirizzato individualmente ai proprietari delle aree incise dall'opera, ma è fatta salva la pubblicità "di massa" ove il numero dei destinatari sia tale da non rendere possibile la comunicazione "ad personam" (Consiglio Stato , sez. IV, 22.06.2006, n. 3885) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.02.2012 n. 819 
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APPALTISanzioni conseguenti all'esclusione dalla gara pubblica: finalità dell'istituto della cauzione provvisoria.
L’istituto della cauzione provvisoria si profila come garanzia del rispetto dell'ampio patto d'integrità cui si vincola chi partecipa a gare pubbliche, ed il suo incameramento, sussistendone i presupposti, risulta coerente con tale finalità, avendo esso la funzione di garantire la serietà e l'affidabilità dell'offerta, sanzionando la violazione dell'obbligo di diligenza gravante sull'offerente, mediante l'anticipata liquidazione dei danni subiti dalla stazione appaltante. E ciò tenuto conto del fatto che, con la domanda di partecipazione alla gara, l’operatore economico sottoscrive e si impegna ad osservare le regole della relativa procedura, delle quali ha, dunque, contezza.
Come ha osservato la Corte Costituzionale (sent. 13.07.2011 n. 211), l’incameramento della cauzione provvisoria costituisce una scelta del legislatore ordinario, scelta che, considerate la natura e le finalità della detta cauzione, non può essere giudicata frutto di un uso distorto ed arbitrario della discrezionalità allo stesso spettante e contrastante con il canone della ragionevolezza.
Allo stesso modo, sempre secondo la Corte, i provvedimenti dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, anch’essi previsti dall’art. 48, mirano a garantire che nel settore operino soggetti rispettosi delle regole che lo disciplinano e, quindi, sono diretti a sanzionare la condotta dell'offerente per finalità ulteriori e diverse rispetto a quelle cui è preordinato l'incameramento della cauzione provvisoria, il quale ultimo è caratterizzato da una funzione differente da quella che connota detti provvedimenti, con conseguente incomparabilità di dette situazioni.
L’esclusione dalla gara costituisce, dunque, il presupposto perché si faccia luogo alle due ipotesi sanzionatorie previste dall’art. 48, comma 1, di modo che, mentre l’impresa ben può dolersi della legittimità dell’esclusione, in relazione alle ragioni che la giustificano, al contrario non costituisce oggetto di sindacato giurisdizionale –sotto il profilo dell’eccesso di potere- la successiva determinazione dell’amministrazione di incameramento della cauzione e di segnalazione all’Autorità garante, posto che esse, come la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare (Cons. Stato, sez. V, 01.10.2010 n. 7263), costituiscono conseguenze del tutto automatiche del provvedimento di esclusione, come tali non suscettibili di alcuna valutazione discrezionale da parte dell’amministrazione, con riguardo ai singoli casi concreti e/o alle ragioni poste a giustificazione dell'esclusione medesima.
In sostanza, ai fini dell'applicazione delle sanzioni previste, il presupposto determinante (e dunque assorbente) è rappresentato dall'esclusione. Ciò che è quindi possibile censurare, innanzi al giudice amministrativo, è la legittimità dell’esclusione, non –una volta che questa sia intervenuta (e sia ritenuta legittima)– l’adozione dei conseguenti atti di incameramento della cauzione e di segnalazione, essendo questi conseguenze automatiche, previste ex lege. Ovviamente, laddove l’esclusione disposta venisse ritenuta illegittima, difetterebbe il presupposto per l’adozione degli atti di incameramento e segnalazione, che risulterebbero illegittimi in via derivata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.02.2012 n. 810
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Conseguenze in caso di assunzioni effettuate da un ente locale in violazione di legge.
Ai sensi dell’art. 5, comma 18, della legge 08.01.1979, n. 3, per la instaurazione di un valido rapporto di impiego con un ente locale è necessaria la partecipazione ad un concorso pubblico o ad una prova selettiva pubblica, adempimento che, nel caso sottoposto all'esame del Consiglio di Stato, risulta del tutto assente.
In caso di non configurabilità del rapporto di pubblico impiego, propria della fattispecie in esame, come in caso di nullità del rapporto, in presenza di assunzioni effettuate in violazione di legge può comunque ricorrere il diritto degli interessati ad ottenere le prestazioni contributive e previdenziali, quando sia provata l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato di fatto, rispetto al quale gli indici rivelatori del pubblico impiego assumono soltanto funzione di astratta qualificazione, ai fini della determinazione della disciplina economica e previdenziale relativa alle prestazioni lavorative in essere (C.d.S., Ad. Plen., 29.02.1992, n. 1 e 2; C.d.S., Ad. Plen., 05.03.1992, n. 5 e 6; C.d.S., Sez. V, 15.03.2005, n. 6342).
L’esame, finalizzato a verificare l’applicabilità dell’art. 2126 c.c., comma 2, anche in presenza, come nel caso di specie, di un rapporto di lavoro definito contra legem, in quanto contrario a norme imperative, deve avere quindi, necessariamente ad oggetto l’accertamento degli indici rilevatori e sintomatici del rapporto di lavoro subordinato. Tali indici, individuati dalla giurisprudenza nel tipo di attività svolta, diretta al raggiungimento di una finalità propria dell’Amministrazione, nella posizione di subordinazione gerarchica assunta dal lavoratore, nell’obbligo di rispettare un rigido orario giornaliero, nella continuità della prestazione resa e nell’incardinamento dello stesso lavoratore nella struttura amministrativa, come correttamente ritenuto dai giudici di primo grado, non si riscontrano nei casi qui oggetto di esame.
In particolare l’attività svolta dalle appellanti non rientra sempre nei compiti disimpegnati direttamente dal Comune, potendo essa essere affidata, come sovente accade, a ditte esterne attraverso gare d’appalto e il potere di sorveglianza riconosciuto all’Amministrazione è funzionale solo ad accertare che il servizio sia regolarmente effettuato, cioè è un potere relativo alla posizione contrattuale attiva dell’Amministrazione stessa come creditrice di una prestazione di servizio continuativa, e non indica l’assunzione della veste di datore in assenza di un contesto significativo di fatti eccedenti la mera naturale esplicazione di tale prestazione di servizio nell’ambito di un appalto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.02.2012 n. 801
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APPALTI SERVIZI: Sul criterio di corrispondenza tra quota di qualificazione, quota di partecipazione e quota di esecuzione (anche) negli appalti di servizi.
Le quote di partecipazione all'ATI e le parti del servizio da eseguire devono essere indicate già in sede di offerta, anche in assenza di una espressa previsione del bando o della lettera d'invito, e la singola impresa componente dell'ATI deve aver la qualifica, ovvero i requisiti di ammissione, in misura corrispondente alla quota di partecipazione, il tutto a garanzia della stazione appaltante e del buon esito del programma contrattuale nella fase di esecuzione.
Dalla mancata osservanza di tale obbligo -che discende dall'art. 37, commi 4 e 13, del Codice dei contratti e che trova applicazione anche ai raggruppamenti di tipo orizzontale- deriva la conseguenza che l'offerta contrattuale, che provenga da un'associazione di più imprese in termini che non assicurino la predetta, effettiva, corrispondenza, è inammissibile, perché comporta l'esecuzione della prestazione da parte di un'impresa priva (almeno in parte) di qualificazione in una misura simmetrica alla quota di prestazione ad essa devoluta dall'accordo associativo ovvero dall'impegno delle parti a concludere l'accordo stesso (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 16.02.2012 n. 793 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTISono invalide le operazioni di gara se, per inosservanza di norme precauzionali, i plichi sono rimasti esposti al rischio di manomissione.
La giurisprudenza amministrativa è ormai consolidata nel ritenere che la commissione di gara non possa legittimamente operare il riesame della documentazione, al di fuori della contestualità temporale in cui le operazioni per legge (art. 71 R.D. 827/1924) devono svolgersi, per riscontrare “ora per allora” la carenza (ovvero al contrario la presenza) di documentazione prodotta (o non prodotta) dai partecipanti alla gara, al fine di escludere (ovvero di riammettere) taluno dei concorrenti, se non fornendo piena prova delle modalità, adeguatamente sicure, con cui sia stata medio tempore conservata la documentazione di gara, così da escludere ogni dubbio sulla sua alterazione, o anche solo alterabilità (si veda, in tal senso, C.G.A. 22.11.2001, n. 604; C.G.A. 27.05.1997, n. 107; C.G.A. 19.10.2005, n. 693, C.G.A. n. 35/2006; si veda anche in proposito CdS, V, n. 8155/2010; n. 2791/2003; n. 661/2000 e TAR CT n. 2284/2008).
Nella specie, rileva il giudice che risulta provato per tabulas che i plichi con la documentazione sono stati depositati senza cautele idonee a garantirne l'integrità e la perfetta conservazione. In presenza di tale circostanza la successiva riapertura delle operazioni di riscontro della documentazione stessa e la conseguente esclusione dell’Ati con mandante la ricorrente, sono illegittime in quanto la perfetta conservazione dei plichi con le offerte e la documentazione delle imprese partecipanti è uno degli elementi sintomatici della segretezza delle stesse e della par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il rispetto dei principi, consacrati dall'art. 97 cost., di buon andamento e imparzialità cui deve conformarsi l'azione amministrativa.(C.d.S., V, 20.03.2008, n. 1219).
Nei casi come quello che ne occupa, viene del resto in considerazione una fattispecie di pericolo. È sufficiente cioè che dalle risultanze processuali emerga che, per inosservanza di norme precauzionali, la documentazione di gara sia rimasta esposta al rischio di manomissione per ritenere invalide le operazioni di gara, senza che a carico dell'impresa interessata possa configurarsi un onere -del resto impossibile da adempiere- di provare un concreto evento di danno (vedi CdS, V, n. 3203/2010) (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 14.02.2012 n. 1487
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EDILIZIA PRIVATA: Il divieto di costruire ad una certa distanza dalla sede autostradale ha natura assoluta. Lo stesso, cioè, ha una giustificazione che non ammette prova contraria.
La sussistenza del divieto vale anche nel caso in cui il vincolo sopravvenga alla realizzazione della costruzione e nel caso in cui il sedime autostradale si trovi a un livello diverso da quello della realizzanda costruzione. Di talché le distanze previste dalla normativa vanno rispettate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale. Ovvero anche nel caso, invero speculare, di costruzioni realizzate ad un livello superiore rispetto al sedime autostradale.
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L’art. 4 d.m. 01.04.1968 n. 1404 si limita ad imporre il divieto di edificazione senza ulteriormente specificare, onde deve ritenersi l’irrilevanza del carattere frontistante alla strada dell’ampliamento.

Il ricorso in esame è rivolto avverso il parere negativo rilasciato dalla società Autostrade relativamente alla deroga al rispetto delle distanze autostradali per la ristrutturazione di un immobile.
Con il primo motivo i ricorrenti, dopo avere evidenziato come il vincolo di inedificabilità sia funzionale al perseguimento di interessi e utilità pubbliche, hanno lamentato l’illegittimità del provvedimento impugnato in quanto, per la conformazione dei luoghi e le caratteristiche dell’area ove è previsto l’intervento edilizio, non sarebbe ravvisabile, nella specie, alcun interesse o utilità pubblica nel rispetto del vincolo.
Il motivo è infondato: il divieto di costruire ad una certa distanza dalla sede autostradale ha natura assoluta (da ultimo Cass. civ. II 22.11.2010 n. 22422). Lo stesso, cioè, ha una giustificazione che non ammette prova contraria.
La sussistenza del divieto vale anche nel caso in cui il vincolo sopravvenga alla realizzazione della costruzione e nel caso in cui il sedime autostradale si trovi a un livello diverso da quello della realizzanda costruzione. Di talché le distanze previste dalla normativa vanno rispettate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale (Cass., II, 01.06.1995, n. 6118; Cons. di St., IV, 18.10.2002, n. 5716; id., 25.09.2002, n. 4927; TAR Campania-Salerno, II, 09.04.2009, n. 1383). Ovvero anche nel caso, invero speculare, di costruzioni realizzate ad un livello superiore rispetto al sedime autostradale (Cass. civ. II 03.02.2005 n. 2164).
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Con il secondo motivo i ricorrenti invocano il disposto dell’art. 26, comma 2, del d.p.r. 495/1992 recante regolamento di esecuzione del codice della strada sostenendo che il divieto di costruzione vale esclusivamente riguardo alle costruzioni che fronteggiano la strada e non già gli ampliamenti non fronteggianti la strada per essere, ad esempio, che come nel caso di specie .
Il motivo è infondato.
Il complesso normativo che regole le distanze dalle strade è ancora costituito dal d.m. 01.04.1968 n. 1404 per effetto della norma transitoria contenuta all’art. 234, comma 5, cds che recita: “Le norme di cui agli articoli 16, 17 e 18 si applicano successivamente alla delimitazione dei centri abitati prevista dall'articolo 4 ed alla classificazione delle strade prevista dall'articolo 2, comma 2. Fino all'attuazione di tali adempimenti si applicano le previgenti disposizioni in materia”.
Poiché il decreto ministeriale previsto dall’art. 2, comma 8, non è stato mai emanato, con conseguente impossibilità di classificazione delle strade, per effetto del disposto della norma transitoria di cui all’art. 234, comma 5, cds è ancora applicabile il complesso normativo previgente cioè per quanto qui interessa il d.m. 01.04.1968 n. 1404.
La misura della fascia di rispetto autostradale così come disciplinata dall'art. 26 del regolamento di attuazione del codice della strada e dall'art. 16, comma 3, c. strad., in base al disposto dell'art. 234, comma 5, del codice, si applica "successivamente alla delimitazione dei centri abitati prevista dall'art. 4 ed alla classificazione delle strade prevista dall'art. 2, comma 2. Fino all'attuazione di tali adempimenti si applicano le previgenti disposizioni in materia". La classificazione delle strade in conformità alle indicazioni di cui all'art. 2, comma 2, è demandata ad un decreto del Ministro delle infrastrutture, non emanato, con conseguente inapplicabilità della norme richiamate (TAR Toscana Firenze, sez. III, 12.07.2010, n. 2449).
Orbene l’art. 4 d.m. 01.04.1968 n. 1404 si limita ad imporre il divieto di edificazione senza ulteriormente specificare, onde deve ritenersi l’irrilevanza del carattere frontistante alla strada dell’ampliamento
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 13.02.2012 n. 281 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa pendenza del ricorso giurisdizionale avverso l'ordinanza di demolizione non impedisce all'Ente Locale di procedere negli adempimenti per l'acquisizione al patrimonio comunale dell'immobile abusivo.
Il giudice amministrativo nel procedimento in esame è chiamato ha valutare la legittimità del provvedimento emesso dal Comune, con il quale dato atto dell’avvenuta acquisizione al patrimonio dell’ente locale dei beni ivi indicati, ha disposto la trascrizione del provvedimento nei registri immobiliari, l’immissione in possesso e lo sgombero dei beni. Il ricorrente, quindi, si duole che il provvedimento impugnato abbia disposto gli adempimenti strumentali rispetto all’acquisizione perfezionatasi in conseguenza dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione a suo tempo impugnata con ricorso respinto dal Tribunale con sentenza appellata davanti al Consiglio di Stato.
Il Giudice ha rigettato le doglianze formulate dal ricorrente richiamando l’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 che prevede l’acquisizione del bene al patrimonio comunale quale conseguenza ex lege dell’inottemperanza per 90 giorni del responsabile dell’abuso in ordine all’esecuzione dell’ordinanza di demolizione. Da tale norma consegue ad avviso del giudice l’automaticità dell’effetto acquisitivo che, appunto, induce a ritenere irrilevanti le circostanze prospettate nel ricorso (quali la pendenza del gravame avverso l’ordinanza di demolizione, l’entità e la destinazione del manufatto abusivo, l’utilità per l’ente comunale) in quanto non previste dall’art. 31 d.p.r. n. 380/01 come condizionanti l’acquisizione stessa (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 10.02.2012 n. 1355
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCambio al vertice dell’ente “pilotato” da politico: è abuso d’ufficio. La Cassazione annulla con rinvio una sentenza di assoluzione di un politico/presidente di un ente locale sospettato di aver sostituito un dirigente con un suo “fedelissimo".
Il politico che fa dimettere un dirigente di un ente per far posto a un suo fedelissimo commette il reato di abuso d’ufficio.
Lo afferma la sesta sezione penale della Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con sentenza 08.02.2012 n. 4933.
Il politico, presidente di un ente locale siciliano, è infatti sospettato di aver posto in essere atti di “moral suasion” affinché un manager dirigente al vertice di un ente controllato si dimettesse lasciando così il posto ad un suo fedelissimo, il quale lo avrebbe certamente favorito nell’aumentare il proprio bacino di voti all’interno della struttura in questione. Tali atti sarebbero consistiti nell’aver tagliato e bloccato unilateralmente i fondi destinati all’ente, in modo da indurre alle dimissioni l’incolpevole dirigente.
Tuttavia il politico in questione era stato assolto dall’accusa di abuso d’ufficio “perché il fatto non costituisce reato”; infatti la sentenza che esclude la sua responsabilità non considera le testimonianze secondo cui, dopo il “pilotato” cambio al vertice dell’ente, i finanziamenti pubblici sarebbero tornati ad affluire verso l’istituto. Secondo il giudice d’appello l’imputato non avrebbe interferito sulla sospensione dei pagamenti né avrebbe influito sulle dimissioni rassegnate dal dirigente.
Ma la Cassazione è di tutt’altro avviso e, accogliendo il ricorso del procuratore generale presso la Corte d’appello di Palermo, ordina il rinnovo del giudizio.
Secondo la Suprema Corte, nel valutare la colpevolezza o meno del politico amministratore, il giudice del rinvio dovrà prendere “in esame tutte le prove legittimamente acquisite al processo” e valutarle “secondo le regole della logica”. Tutto si gioca nell’accertare i tre fatti topici oggetto di prova: 1) se l’imputato ha dato ordine di sospendere i pagamenti in favore dell’ente; 2) se il manager ha presentato le dimissioni per effetto dell’ordine abusivo impartito dall’imputato; 3) se l’imputato ha agito per soddisfare un interesse privato. Per la Suprema Corte, qualora questi fatti fossero provati, ci si troverebbe in presenza del reato di concussione.
Da qui, l’annullamento della sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello (link a www.leggioggi.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione del permesso di costruire, ove se ne contesti il contenuto specifico, la conoscenza dello stesso da parte del proprietario limitrofo può intendersi acquisita quando le opere abbiano raggiunto uno stadio ed una consistenza tali da renderne chiara l’illegittimità e la lesività per le posizioni soggettive del confinante.
Secondo costante giurisprudenza, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione del permesso di costruire, ove se ne contesti il contenuto specifico, la conoscenza dello stesso da parte del proprietario limitrofo può intendersi acquisita quando le opere abbiano raggiunto uno stadio ed una consistenza tali da renderne chiara l’illegittimità e la lesività per le posizioni soggettive del confinante (in termini, tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 31.07.2008, n. 3849; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 01.12.2008, n. 20723; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2010, n. 192) (TAR Umbria, sentenza 02.02.2012 n. 34 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Per "ristrutturazione urbanistica” sono da intendere quegli interventi rivolti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio, urbano o rurale, con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modifica e/o lo spostamento dell’area di sedime e la modificazione del disegno dei lotti.
Al contrario, per “ristrutturazione edilizia” si intendono gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare a un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, inclusa anche la integrale demolizione e ricostruzione del fabbricato purché senza modifiche di volumetria, area di sedime e sagoma.

In qualche occasione la giurisprudenza, anche di questo Tribunale Amministrativo, ha qualificato tale tipo di ristrutturazione come “ristrutturazione urbanistica”, a descrivere quegli interventi rivolti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio, urbano o rurale, con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modifica e/o lo spostamento dell’area di sedime e la modificazione del disegno dei lotti.
Al contrario, per “ristrutturazione edilizia” si intendono gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare a un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, inclusa anche la integrale demolizione e ricostruzione del fabbricato purché senza modifiche di volumetria, area di sedime e sagoma (in termini TAR Umbria, 01.07.2010, n. 396; 13.01.2011, n. 3)
(TAR Umbria, sentenza 02.02.2012 n. 33 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La regola che governa l’azione amministrativa è quella del tempus regit actum e, dunque, la legittimità di un provvedimento va verificata alla stregua delle norme applicabili al momento dell’adozione del provvedimento.
La regola che governa l’azione amministrativa, come noto, è quella del tempus regit actum, e dunque la legittimità di un provvedimento va verificata alla stregua delle norme applicabili al momento dell’adozione del provvedimento (in termini, tra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 29.03.2011, n. 1900; Sez. VI, 02.03.2011, n. 1303; indirettamente anche Cons. Stato, Ad. Plen., 24.05.2011, n. 9) (TAR Umbria, sentenza 02.02.2012 n. 33 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVORO: Il committente privato è sempre responsabile della morte in cantiere di un lavoratore?
Durante l'esecuzione di un contratto d'opera si è verificato un incidente che ha provocato la morte di un lavoratore a seguito della caduta dalla copertura di un immobile di proprietà del committente.
La Corte di Appello di Catania confermando quanto previsto dal Tribunale di primo grado, condanna i proprietari, in qualità di committenti, per omicidio colposo dovuto al mancato adempimento degli obblighi normativi in materia di prevenzione e sicurezza.
Gli imputati ricorrono in Cassazione. Quest’ultima sottolinea che:
● la responsabilità del committente, espressamente prevista dal D.Lgs. 626/1994 prima e dal D.Lgs. 81/2008 poi, non è automatica, ma è necessario individuare l'effettiva incidenza della condotta dello stesso;
● il “dovere di sicurezza” è riferibile sia al datore di lavoro che al committente;
● vanno considerate tutte le circostanze specifiche e le condizioni al contorno che hanno caratterizzato l’infortunio.
Pertanto, la Corte Suprema annulla la sentenza del Tribunale di prime cure perché non hanno effettuato opportune valutazioni circa le capacità tecniche e organizzative della ditta e considerato che l’incidente era avvenuto a lavori ultimati.
Pertanto annulla la Sentenza e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello per nuovo giudizio (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 30.01.2012 n. 3563 - commento tratto da e link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATALa “vicinitas” non può ex se radicare la legittimazione al ricorso, in assenza di prove in ordine ai pregiudizi derivanti dal rilascio del titolo edilizio a terzi.
La Sezione ha avuto modo di statuire, in una significativa decisione (n. 8364 del 30/11/2010 ) che la “vicinitas” non può ex se radicare la legittimazione al ricorso, in assenza di prove in ordine ai pregiudizi derivanti dal rilascio del titolo edilizio a terzi, ma non è questo il caso che ci occupa.
In quella sede, invero, oggetto dell’impugnativa principale era uno strumento urbanistico attuativo che disciplinava una vasta area ai fini del recupero della stessa, senza che da ciò potesse derivare detrimento ai vicini, ma nella fattispecie all’esame, avuto riguardo allo stato dei luoghi e alla natura degli atti in rilievo, non può escludersi il carattere lesivo dei provvedimenti impugnati.
Più specificatamente, anche in relazione al contenuto delle censure prospettate (violazione delle prescrizioni regolatrici delle distanze nell’edificazione ex Dm n. 1444/1968) vi è nella specie un rapporto di contiguità spaziale tra il suolo oggetto di trasformazione e quello su cui insistono le proprietà immobiliari dei ricorrenti (stabile collegamento) che si coniuga con una situazione differenziata suscettibile di essere incisa dal rilascio del titolo di assenso edilizio (in tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, 24/09/2004 n. 6255)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.01.2012 n. 420 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa distanza minima di 10 metri tra fabbricati imposta dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 costituisce limite inderogabile che prevale sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali e che la norma sopra indicata si applica anche alle sopraelevazioni.
Ai fini della verifica del rispetto delle distanze tra edificio sono computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti di edificio quali scale, terrazze e corpi avanzati.
Invero, a voler tralasciare il fatto che nella specie le terrazze prese in considerazione sembrano costituire una soluzione architettonica volta a consentire il passaggio di luce ed aria proprio al fine di evitare intercapedini igienicamente dannose, rimane nella vicenda all’esame applicabile la deroga prevista dall’ultimo comma dell’art. 9 del citato D.M. secondo cui “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piano particolareggiato con previsioni planovolumetriche”, evenienza, questa, che ricorre nel caso di specie in cui viene in rilievo una variante urbanistica ad un piano particolareggiato con previsioni plano-volumetriche.

Sono noti alla Sezione gli orientamenti giurisprudenziali secondo i quali la distanza minima di 10 metri tra fabbricati imposta dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 costituisce limite inderogabile che prevale sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali (Cons. Stato, Sez. IV 02/11/2010 n. 7731) e che la norma sopra indicata si applica anche alle sopraelevazioni (Corte Costituzionale 19/05/2011 n. 173).
Parimenti questa Sezione ha avuto modo di affermare che ai fini della verifica del rispetto delle distanze tra edificio sono computabili, rientrando nel concetto civilistico di costruzione, le parti di edificio quali scale, terrazze e corpi avanzati (decisione 27/10/2010 n. 424; idem, 30/06/2005 n. 3539) ma le critiche formulate dalla parte appellante (che prende a riferimento della misurazione le terrazze) non paiono cogliere nel segno.
Invero, a voler tralasciare il fatto che nella specie le terrazze prese in considerazione sembrano costituire una soluzione architettonica volta a consentire il passaggio di luce ed aria proprio al fine di evitare intercapedini igienicamente dannose, rimane nella vicenda all’esame applicabile la deroga prevista dall’ultimo comma dell’art. 9 del citato D.M. (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 02/11/2010 n. 7731) secondo cui “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piano particolareggiato con previsioni planovolumetriche”, evenienza, questa che ricorre nel caso di specie in cui viene in rilievo una variante urbanistica ad un piano particolareggiato con previsioni plano-volumetriche
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.01.2012 n. 420 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Resterebbe soltanto salva, secondo un orientamento (comunque di frequente contestato), l’ipotesi in cui, per il protrarsi e il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e il protrarsi della inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, ipotesi questa sola, in relazione alla quale potrebbe ravvisarsi un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche alla entità e alla tipologia dell’abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Ma, al riguardo, questo Tribunale ha da tempo affermato che, in ogni caso, la tutela dell’affidamento del privato deve essere subordinata al rigoroso accertamento dei suoi presupposti giustificativi; in sostanza, quanto meno:
- il lasso di tempo trascorso dalla realizzazione dell’opera senza che l’amministrazione sia intervenuta in alcun modo, deve essere considerevole, ed è onere dell’interessato farlo constare in modo ragionevolmente certo (non soltanto mediante riferimenti documentali, diretti o indiretti, ma anche sulla base di considerazioni concernenti elementi oggettivi, quali le tipologie e modalità realizzative, i materiali impiegati, lo stato di conservazione, etc.);
- la presenza dell’opera realizzata in assenza del titolo edilizio necessario, deve essere stata ritenuta, anche implicitamente, regolare dalla stessa Amministrazione in occasione dell’esame di precedenti pratiche edilizie, di attività di vigilanza sul territorio, o di altre attività amministrative.

E’ consolidato l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (cfr. tra le altre, Cons. Stato, V, 11.01.2011, n. 79; IV, 31.08.2010, n. 3955).
Resterebbe soltanto salva, secondo un orientamento (comunque di frequente contestato), l’ipotesi in cui, per il protrarsi e il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e il protrarsi della inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, ipotesi questa sola, in relazione alla quale potrebbe ravvisarsi un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche alla entità e alla tipologia dell’abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (cfr., Cons. Stato, IV, 06.06.2008, n. 2705).
E’ a questo orientamento che evidentemente si appella il ricorrente.
Ma, al riguardo, questo Tribunale ha da tempo affermato (cfr., sentt. 21.01.2010, n. 23; 18.08.2009, n. 492; 18.03.2008, nn. 102 e 103) che, in ogni caso, la tutela dell’affidamento del privato deve essere subordinata al rigoroso accertamento dei suoi presupposti giustificativi; in sostanza, quanto meno:
- il lasso di tempo trascorso dalla realizzazione dell’opera senza che l’amministrazione sia intervenuta in alcun modo, deve essere considerevole, ed è onere dell’interessato farlo constare in modo ragionevolmente certo (non soltanto mediante riferimenti documentali, diretti o indiretti, ma anche sulla base di considerazioni concernenti elementi oggettivi, quali le tipologie e modalità realizzative, i materiali impiegati, lo stato di conservazione, etc.);
- la presenza dell’opera realizzata in assenza del titolo edilizio necessario, deve essere stata ritenuta, anche implicitamente, regolare dalla stessa Amministrazione in occasione dell’esame di precedenti pratiche edilizie, di attività di vigilanza sul territorio, o di altre attività amministrative (TAR Umbria, sentenza 27.01.2012 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non costituisce violazione degli art. 7 e ss., l. n. 241/1990 l'omessa comunicazione formale, da parte della Soprintendenza, dell'avvio del procedimento di controllo di legittimità e di eventuale annullamento del parere ambientale rilasciato ex art. 32, l. n. 47/1985, laddove il soggetto istante sia a conoscenza che, nel contesto della procedura di condono da egli stesso avviata, il predetto parere ambientale é stato doverosamente trasmesso dall'ente subdelegato (nel caso, la Provincia) alla Soprintendenza per il seguito di competenza, e sia, dunque, in grado di esercitare, in concreto, le sue facoltà partecipative nell'ambito di tale procedimento di controllo.
Secondo costante giurisprudenza del tribunale adito non costituisce violazione degli art. 7 e ss., l. n. 241/1990 l'omessa comunicazione formale, da parte della Soprintendenza, dell'avvio del procedimento di controllo di legittimità e di eventuale annullamento del parere ambientale rilasciato ex art. 32, l. n. 47/1985, laddove il soggetto istante sia a conoscenza che, nel contesto della procedura di condono da egli stesso avviata, il predetto parere ambientale é stato doverosamente trasmesso dall'ente subdelegato (nel caso, la Provincia) alla Soprintendenza per il seguito di competenza, e sia, dunque, in grado di esercitare, in concreto, le sue facoltà partecipative nell'ambito di tale procedimento di controllo (TAR Umbria Perugia, 03.02.2009, n. 35) (TAR Umbria, sentenza 27.01.2012 n. 14 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: E' da escludere l’obbligo giuridico dei ricorrenti alla rimozione dei rifiuti a carico dei proprietari del terreno indipendentemente da ogni altra indagine sulla condotta commissiva dolosa o colposa circa l'abbandono degli stessi.
Il Collegio ha inoltre escluso l’esistenza di un obbligo sul proprietario del terreno in quanto abbia omesso di recintarlo adeguatamente ovvero abbia omesso di vigilare diligentemente affinché i rifiuti non fossero abbandonati e/o depositati sul suo terreno. Ai sensi dell’art. 841 c.c., la chiusura di un fondo costituisce una facoltà e non un obbligo del proprietario.
Nella diligenza ordinaria, inoltre, non possono certamente rientrare comportamenti inesigibili come sarebbero quelli del costante e continuativo controllo dei terreni da parte dei rispettivi proprietari affinché, non vengano ivi abbandonati rifiuti di vario genere. Diversamente opinando, si dovrebbe pensare a un'ipotesi di responsabilità oggettiva del proprietario che il nostro ordinamento, a parte la norma eccezionale dell'art. 2049 c.c., notoriamente ripudia, sotto il profilo sia privatistico sia pubblicistico.
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In tema di abbandono di rifiuti, la costante giurisprudenza prevede la corresponsabilità solidale del proprietario o dei titolari di diritti personali o reali di godimento sull'area ove gli stessi sono stati abusivamente abbandonati o depositati, solo in quanto la violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa: comprendendo qualunque soggetto che si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente.

Secondo la giurisprudenza del tribunale adito, confermata in linea con quella del giudice d’appello, è da escludere l’obbligo giuridico dei ricorrenti alla rimozione dei rifiuti a carico dei proprietari del terreno indipendentemente da ogni altra indagine sulla condotta commissiva dolosa o colposa circa l'abbandono degli stessi (TAR Umbria 17.04.2003 n. 290; 10.03.2000 n. 253; TAR Campania-Napoli 19.03.2004 n. 3042; TAR Trentino Alto Adige-Trento 06.12.2003 n. 292; TAR Toscana Sez. II 07.06.2001 n. 1034).
Il Collegio ha inoltre escluso l’esistenza di un obbligo sul proprietario del terreno in quanto abbia omesso di recintarlo adeguatamente ovvero abbia omesso di vigilare diligentemente affinché i rifiuti non fossero abbandonati e/o depositati sul suo terreno. Ai sensi dell’art. 841 c.c., la chiusura di un fondo costituisce una facoltà e non un obbligo del proprietario.
Nella diligenza ordinaria, inoltre, non possono certamente rientrare comportamenti inesigibili come sarebbero quelli del costante e continuativo controllo dei terreni da parte dei rispettivi proprietari affinché, non vengano ivi abbandonati rifiuti di vario genere. Diversamente opinando, si dovrebbe pensare a un'ipotesi di responsabilità oggettiva del proprietario che il nostro ordinamento, a parte la norma eccezionale dell'art. 2049 c.c., notoriamente ripudia, sotto il profilo sia privatistico sia pubblicistico.
Inesigibilità che, nella specie, è ravvisabile nella stessa qualità che caratterizzava la relazione dei ricorrenti con il terreno all’epoca in cui, probabilmente, si sono svolti i fatti. Di costoro, il sig. ... era curatore del fallimento della società “S.E.M. Società Edilizia moderna s.p.a.” conduttrice del terreno e la sig.ra ... acquirente dello stesso iure successionis: entrambi non erano nella condizione di disporre del bene come è necessario per esercitare lo jus prohibendi di accedere all’immobile, la cui omissione si imputa in ultima analisi nel provvedimento impugnato.
In tema di abbandono di rifiuti, la costante giurisprudenza (Cons. St., sez. V, 16/07/2010, n. 4614) prevede la corresponsabilità solidale del proprietario o dei titolari di diritti personali o reali di godimento sull'area ove gli stessi sono stati abusivamente abbandonati o depositati, solo in quanto la violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa: comprendendo qualunque soggetto che si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente.
Nel provvedimento impugnato nulla si afferma in merito a tale rapporto di contiguità fra i ricorrenti e il fondo assoggettato a suo tempo al sequestro penale perché adibito a discarica: l’unico indizio è quello della sua appartenenza al sig. ... padre della ricorrente ... e titolare delle società di cui l’altro ricorrente, sig. ... era il curatore fallimentare.
Circostanza quest’ultima inidonea a raffigurare una responsabilità anche indiretta dei ricorrenti e la destinazione del terreno a discarica.
Poiché nel contesto della disciplina applicata dal Comune resistente non era consentito imporre agli interessati un obbligo giuridico di rimozione dei rifiuti, il ricorso deve essere accolto con il conseguente annullamento dell'ordinanza impugnata.
La presente pronuncia di annullamento, mentre esclude che i ricorrenti debbano sopportare il costo della rimozione dei rifiuti, non esclude che, come del resto già precisato in altre sentenze di questo Tribunale (TAR Umbria n. 301 del 21.05.2002 e 17.04.2003 n. 290), che lo stesso Comune possa ordinare ai propri agenti ad introdursi nella proprietà privata al fine di prelevare i rifiuti, asportarli e provvedere alla ripulitura straordinaria del sito.
Trattandosi di area privata, a parte gli obblighi di ordinaria e straordinaria manutenzione sicuramente gravanti sul proprietario del fondo, una tale intromissione autoritativa "extra ordinem" per la rimozione di rifiuti abbandonati da terzi può e deve essere attuata dal Comune nell'esercizio dei suoi specifici poteri a tutela dell'igiene, del decoro e della salute pubblica (TAR Umbria, sentenza 27.01.2012 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’autorizzazione alla installazione di impianti pubblicitari è subordinata alla valutazione in ordine alla sua compatibilità con il diverso interesse pubblico generale alla ordinata regolamentazione degli spazi pubblicitari (che non possono essere indiscriminatamente lasciati alla libera iniziativa privata), e, quindi, costituisce oggetto di una specifica disciplina, non sovrapponibile o confondibile con quella edilizia.
Il Comune è chiamato ad esercitare, al riguardo, un potere discrezionale, in quanto titolare sia delle funzioni relative alla sicurezza della circolazione (ciò che comporta la titolarità del potere autorizzatorio dell'installazione di impianti pubblicitari, nel rispetto delle prescrizioni del Codice della Strada), sia di quelle relative all'uso del proprio territorio, anche sotto l’aspetto dei monumenti, dell'estetica cittadina e del paesaggio, ben potendo individuare limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie, in connessione ad esigenze di pubblico interesse.
Siffatto potere, inerente la ponderazione comparativa degli interessi coinvolti, quali, da un lato, quelli pubblici e, dall’altro, quello privato, alla libertà di iniziativa economica -di cui l'attività pubblicitaria rappresenta estrinsecazione- si esprime, innanzitutto, nella potestà pianificatoria e, dunque, nella potestà regolamentare, attraverso la quale il Comune disciplina le modalità dello svolgimento della pubblicità, la tipologia e quantità degli impianti pubblicitari e le modalità per ottenere l'autorizzazione all'installazione di questi, senza violare l’art. 41 Cost., ma, anzi, ponendosi nell'ambito semantico della “utilità sociale” e nel contesto di valori costituzionali equiordinati, quali quello alla difesa dell'ambiente e delle valenze estetiche del patrimonio culturale della Nazione, riconducibili all’art. 9 della Costituzione.
Inoltre, nei casi in cui viene richiesta l’affissione di impianti pubblicitari direttamente su suolo pubblico, l’Amministrazione -nella cui disponibilità, oltretutto, si trova il suolo stesso- è tenuta ad espletare una valutazione complessiva, non limitata soltanto alla mera compatibilità dell’impianto pubblicitario con l’interesse pubblico (come nell’ipotesi in cui il suolo si trovi nella disponibilità dell’interessato), ma estesa anche alla verifica che, attraverso detto uso privato della risorsa pubblica, si realizzino quegli interessi collettivi, di cui l’Amministrazione stessa è portatrice.
Invero, in questi casi, viene richiesto un esame più approfondito e attento, che si articola nell’ambito di un procedimento destinato a sfociare in un provvedimento non già meramente autorizzatorio, ma di natura concessoria, il cui rilascio presuppone la canalizzazione dell’attività privata nell’alveo del pubblico interesse, e non solo la non incompatibilità dell’una rispetto all’altro.
In altri termini, l’installazione di mezzi pubblicitari su suolo pubblico postula un provvedimento di concessione dell’uso del medesimo, non bastando a tale scopo il solo provvedimento autorizzatorio, poiché, mentre il procedimento autorizzatorio si esaurisce nel sopra menzionato giudizio di "non incompatibilità" dell’attività privata con l’interesse pubblico, il procedimento concessorio involve la valutazione della conformità di tale attività con il pubblico interesse.
Ne segue che, quando l’esposizione degli impianti di pubblicità avviene su suolo pubblico, l’occupazione del predetto suolo fa sì che non si possa in alcun modo prescindere dalla citata valutazione di conformità, la cui complessità non consente che si possa formare tacitamente il provvedimento finale concessorio, in quanto involve l’esercizio di una potestà discrezionale, escludente l’applicabilità del regime del silenzio-assenso.
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Si deve ritenere che non sussiste un rapporto di tipo derogatorio fra la normativa edilizia, oggi compendiata nel D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e la normativa per le pubbliche affissioni di cui al D.Lgs. 15.11.1993, n. 507, giacché trattasi di discipline differenti, avente differenti contenuti e finalità, che concorrono nella valutazione della medesima fattispecie ai fini della tutela di interessi pubblici diversi nonché ai fini della definizione di differenti procedimenti amministrativi.
Ed invero, la normativa edilizia trova applicazione in tutte le ipotesi in cui si configura un mutamento del territorio nel suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico che sotto quello edilizio ed entro questi limiti pertanto assume rilevanza la violazione dei regolamenti edilizi.
Conseguentemente, nelle ipotesi in cui la sistemazione di una insegna o di una tabella (cosiddetta tabellone) pubblicitaria o di ogni altro genere quando, per le sue consistenti dimensioni, comporti un rilevante mutamento territoriale, è richiesto l’assenso mediante “permesso di costruire” e mediante semplice s.c.i.a. negli altri casi, in coerenza con le previsioni della normativa edilizia di cui agli artt. 2, 6 e 7 del D.P.R. n. 380 del 2001 e succ. mod..
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La violazione della normativa antisismica di cui alla legge 02.02.1974 n. 64, posta a tutela della pubblica incolumità nelle zone dichiarate sismiche, non può essere derogata dalla normativa speciale di cui al D.Lgs. 15.11.1993, n. 507 e trova applicazione, omnicomprensivamente, ai sensi dell'art. 3, co. 1, a "tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità", a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture: anzi, proprio l'impiego, come nel caso di specie, di elementi strutturali meno solidi e duraturi di quelli in cemento ed assimilati, rende vieppiù necessari i controlli e le cautele prescritte ai fini preventivi in questione.

... parte ricorrente deduce, in sintesi, che l’attività di installazione di impianti pubblicitari non sarebbe soggetta alla normativa in materia edilizia e, in ogni caso, nella specie, non inciderebbe sull’assetto del territorio, trattandosi di impianto soggetto ad uso precario e temporaneo, benché munito di idonea struttura di sostegno.
Il D.Lgs. 15.11.1993 n. 507, recante revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, con l’art. 3, stabilisce che il Comune è tenuto ad adottare apposito regolamento per l'applicazione dell'imposta, con il quale deve disciplinare "le modalità di effettuazione della pubblicità e può stabilire limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie in relazione ad esigenze di pubblico interesse" (II° comma) e "in ogni caso determinare la tipologia e la quantità degli impianti pubblicitari, le modalità per ottenere il provvedimento per l'installazione ..." (III° comma).
L'installazione di impianti pubblicitari è attività "contingentata", non sussumibile nella disciplina di cui all’art. 19 della legge n. 241 del 1990, in base alla quale l'atto di consenso, cui sia subordinato l'esercizio di un'attività privata, s'intende sostituito dalla denuncia di inizio di attività da parte dell'interessato alla pubblica amministrazione competente, sempre che il suo rilascio "dipenda esclusivamente dall'accertamento dei presupposti e dei requisiti di legge, senza l'esperimento di prove a ciò destinate che comportino valutazioni tecniche discrezionali, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo".
Ed invero, l’autorizzazione alla installazione di impianti pubblicitari è subordinata alla valutazione in ordine alla sua compatibilità con il diverso interesse pubblico generale alla ordinata regolamentazione degli spazi pubblicitari (che non possono essere indiscriminatamente lasciati alla libera iniziativa privata), e, quindi, costituisce oggetto di una specifica disciplina, non sovrapponibile o confondibile con quella edilizia.
Il Comune è chiamato ad esercitare, al riguardo, un potere discrezionale, in quanto titolare sia delle funzioni relative alla sicurezza della circolazione (ciò che comporta la titolarità del potere autorizzatorio dell'installazione di impianti pubblicitari, nel rispetto delle prescrizioni del Codice della Strada), sia di quelle relative all'uso del proprio territorio, anche sotto l’aspetto dei monumenti, dell'estetica cittadina e del paesaggio, ben potendo individuare limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie, in connessione ad esigenze di pubblico interesse (ex plurimis: TAR Lombardia- Brescia, Sez. I, 28.02.2008 n. 174).
Siffatto potere, inerente la ponderazione comparativa degli interessi coinvolti, quali, da un lato, quelli pubblici e, dall’altro, quello privato, alla libertà di iniziativa economica -di cui l'attività pubblicitaria rappresenta estrinsecazione- si esprime, innanzitutto, nella potestà pianificatoria e, dunque, nella potestà regolamentare, attraverso la quale il Comune disciplina le modalità dello svolgimento della pubblicità, la tipologia e quantità degli impianti pubblicitari e le modalità per ottenere l'autorizzazione all'installazione di questi, senza violare l’art. 41 Cost., ma, anzi, ponendosi nell'ambito semantico della “utilità sociale” e nel contesto di valori costituzionali equiordinati, quali quello alla difesa dell'ambiente e delle valenze estetiche del patrimonio culturale della Nazione, riconducibili all’art. 9 della Costituzione (conf.: Corte Cost. sent. 17.07.2002 n. 355).
Inoltre, nei casi in cui viene richiesta l’affissione di impianti pubblicitari direttamente su suolo pubblico, l’Amministrazione -nella cui disponibilità, oltretutto, si trova il suolo stesso- è tenuta ad espletare una valutazione complessiva, non limitata soltanto alla mera compatibilità dell’impianto pubblicitario con l’interesse pubblico (come nell’ipotesi in cui il suolo si trovi nella disponibilità dell’interessato), ma estesa anche alla verifica che, attraverso detto uso privato della risorsa pubblica, si realizzino quegli interessi collettivi, di cui l’Amministrazione stessa è portatrice.
Invero, in questi casi, viene richiesto un esame più approfondito e attento, che si articola nell’ambito di un procedimento destinato a sfociare in un provvedimento non già meramente autorizzatorio, ma di natura concessoria, il cui rilascio presuppone la canalizzazione dell’attività privata nell’alveo del pubblico interesse, e non solo la non incompatibilità dell’una rispetto all’altro.
In altri termini, l’installazione di mezzi pubblicitari su suolo pubblico postula un provvedimento di concessione dell’uso del medesimo, non bastando a tale scopo il solo provvedimento autorizzatorio, poiché, mentre il procedimento autorizzatorio si esaurisce nel sopra menzionato giudizio di "non incompatibilità" dell’attività privata con l’interesse pubblico, il procedimento concessorio involve la valutazione della conformità di tale attività con il pubblico interesse.
Ne segue che, quando –come nel caso di specie– l’esposizione degli impianti di pubblicità avviene su suolo pubblico, l’occupazione del predetto suolo fa sì che non si possa in alcun modo prescindere dalla citata valutazione di conformità, la cui complessità non consente che si possa formare tacitamente il provvedimento finale concessorio (TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 26.07.2005, n. 3421), in quanto involve l’esercizio di una potestà discrezionale, escludente l’applicabilità del regime del silenzio-assenso (conf.: Corte Cost. 27.07.1995 n. 408).
In coerenza con i principi rivenienti dall’art. 41 Cost., non può neanche prescindere dalla tutela del catalogo dei diritti e delle libertà della persona, costituzionalmente garantiti, che delineano lo "status civitatis" comune all'intera Repubblica italiana.
A quest'ultimo ambito vanno certamente ricondotte le disposizioni, sostanzialmente afferenti alla materia urbanistica ed edilizia (indipendentemente dalla collocazione formale) che, al fine di garantire la generale salubrità degli ambienti di vita e di lavoro (ferme restando le discipline relative a specifiche attività e di tutela dei lavoratori), impongono condizioni minime per l'abitabilità ed agibilità degli edifici e rapporti minimi di aerazione ed illuminazione dei locali, quali requisiti di sicurezza per la loro utilizzazione, che non consentono che i manufatti pubblicitari possano oscurare le facciate degli edifici munite di porte e finestre.
In tale ottica, si deve ritenere che non sussiste un rapporto di tipo derogatorio fra la normativa edilizia, oggi compendiata nel D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e la normativa per le pubbliche affissioni di cui al D.Lgs. 15.11.1993, n. 507, giacché trattasi di discipline differenti, avente differenti contenuti e finalità, che concorrono nella valutazione della medesima fattispecie ai fini della tutela di interessi pubblici diversi nonché ai fini della definizione di differenti procedimenti amministrativi.
Ed invero, la normativa edilizia trova applicazione in tutte le ipotesi in cui si configura un mutamento del territorio nel suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico che sotto quello edilizio ed entro questi limiti pertanto assume rilevanza la violazione dei regolamenti edilizi.
Conseguentemente, nelle ipotesi in cui la sistemazione di una insegna o di una tabella (cosiddetta tabellone) pubblicitaria o di ogni altro genere quando, per le sue consistenti dimensioni, comporti un rilevante mutamento territoriale, è richiesto l’assenso mediante “permesso di costruire” e mediante semplice s.c.i.a. negli altri casi, in coerenza con le previsioni della normativa edilizia di cui agli artt. 2, 6 e 7 del D.P.R. n. 380 del 2001 e succ. mod..
Analogamente, la violazione della normativa antisismica di cui alla legge 02.02.1974 n. 64, posta a tutela della pubblica incolumità nelle zone dichiarate sismiche, non può essere derogata dalla normativa speciale di cui al D.Lgs. 15.11.1993, n. 507 e trova applicazione, omnicomprensivamente, ai sensi dell'art. 3, co. 1, a "tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità", a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture: anzi, proprio l'impiego, come nel caso di specie, di elementi strutturali meno solidi e duraturi di quelli in cemento ed assimilati, rende vieppiù necessari i controlli e le cautele prescritte ai fini preventivi in questione.
Del resto, la normativa sismica ha una portata ben più amia rispetto a quella di cui alla legge 05.11.1971 n. 1086, concernente i soli casi inerenti opere in conglomerato cementizio armato.
Orbene, trattandosi, nel caso di specie, di affissione di impianti pubblicitari direttamente su suolo pubblico, l’Amministrazione è tenuta ad espletare una valutazione complessiva, non limitata soltanto alla mera compatibilità dell’impianto pubblicitario con l’interesse pubblico (come nell’ipotesi in cui il suolo si trovi nella disponibilità dell’interessato), ma estesa anche alla verifica che, attraverso detto uso privato del suolo pubblico possa determinare la realizzazione di interessi collettivi, per cui il cui rilascio dell’atto concessorio presuppone la canalizzazione dell’attività privata nell’alveo del pubblico interesse, e non solo un mero giudizio di compatibilità fra i contrapposti interessi (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 26.01.2012 n. 58 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Sentenza della Cassazione sull'utilizzo degli spazi. Vietato pregiudicarne la destinazione. Parti comuni, di tutti e nessuno. Ogni condomino deve poter godere dei beni in condivisione.
Ciascun condomino può usare le parti comuni dell'edificio nel modo che ritenga più opportuno, ma a condizione che l'utilizzo concreto delle stesse non ne pregiudichi la naturale destinazione e consenta anche agli altri comproprietari di godere del bene.
Lo ha ribadito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 23.01.2012 n. 869 nella quale gli ermellini hanno ritenuto legittimo l'utilizzo di una parte del cortile condominiale per l'apposizione di tavoli e sedie da bar.
La decisione della Suprema corte. Nel caso in questione la società proprietaria di alcuni locali siti al piano terra di un edificio condominiale e adibiti a bar dall'azienda conduttrice aveva impugnato dinanzi al giudice di pace la deliberazione assembleare con cui il condominio, revocando uno specifico permesso assentito in passato, aveva vietato ai gestori dell'esercizio commerciale di continuare a occupare il cortile con tavoli e sedie destinati alla clientela. Il giudice di pace aveva respinto l'impugnazione, giudicandola infondata. Il ricorso in appello aveva invece portato il tribunale a capovolgere la situazione, dichiarando l'illegittimità della delibera condominiale. Di qui il ricorso in Cassazione da parte del condominio, che aveva nuovamente contestato l'utilizzo improprio del cortile da parte dei gestori del bar, giudicato tale da comportare l'impossibilità per gli altri comproprietari di farne parimenti uso, oltre a presentare due ulteriori motivi di doglianza.
Con il primo motivo, infatti, il condominio aveva nuovamente lamentato l'errata presentazione del ricorso al giudice di pace invece che al tribunale del luogo in cui era situato l'immobile, evidenziando quindi un problema di competenza. Invero, come già stabilito dai giudici di merito e ribadito dalla Suprema corte, nel caso di specie, pur essendo stata impugnata una delibera assembleare, l'oggetto del contendere era rappresentato dalle modalità di utilizzo di un bene comune, ovvero del cortile condominiale. Si tratta di un tipo di controversia che rientra pacificamente nella previsione di cui all'art. 7, comma 3, n. 2, del codice di procedura civile, che appunto assegna alla competenza funzionale del giudice di pace questo tipo di liti (come confermato, in una fattispecie analoga, dalla stessa Cassazione con sentenza n. 7295 del 28/06/1995).
Con il secondo motivo di ricorso, invece, il condominio aveva riproposto un'eccezione di carenza di legittimazione attiva in capo alla società proprietaria dei locali condominiali, sul presupposto che, essendo gli stessi stati concessi in locazione a un soggetto terzo, soltanto quest'ultimo avrebbe potuto legittimamente impugnare la deliberazione assembleare.
Anche in questo caso la Suprema corte ha però avuto gioco facile nel ribadire che, stante la previsione di cui all'art. 1337 c.c., in merito al potere di impugnativa della volontà dell'assemblea, l'unico caso nel quale è ammessa la legittimazione attiva del conduttore è quello relativo al servizio di riscaldamento condominiale (e, per analogia, a quello per il condizionamento dell'aria, se comune), come già chiarito dai medesimi giudici di legittimità con una precedente sentenza del 1993 (n. 8755 del 18 agosto).
Quindi, giungendo al terzo motivo di ricorso, relativo all'utilizzo improprio del cortile condominiale da parte dei conduttori dei locali siti al piano terreno, la seconda sezione civile della Cassazione, vista anche la mancanza di specificità del motivo, così come articolato dal condominio ricorrente, si è limitata a ribadire il principio di diritto tradizionale di cui all'art. 1102 c.c., norma dettata dal legislatore in materia di comunione ma applicabile anche in materia condominiale giusto lo specifico rimando di cui all'art. 1139 c.c.
In particolare, i giudici di legittimità hanno ritenuto che la collocazione di tavoli e sedie per i clienti in una porzione limitata del cortile condominiale rappresenti un uso proprio del bene comune, di per sé non tale da impedire il pari uso del medesimo da parte degli altri comproprietari, salve sempre le specificità del singolo caso concreto.
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I limiti della legge e quelli del regolamento interno.
L'uso delle parti comuni da parte di un condomino può avvenire in modo particolare e diverso da quello praticato dagli altri condomini purché siano rispettati non solo i limiti previsti dalla legge ma anche quelli indicati nel regolamento di condominio, documento che spesso è ignorato o poco conosciuto dai comproprietari.
I limiti di legge. Il condomino per legge non può utilizzare parti comuni in modo tale da rendere impossibile o, comunque, alterarne in modo apprezzabile la funzione originaria. È chiaro, ad esempio, che è ammissibile collocare nel pianerottolo uno zerbino o una pianta ornamentale, mentre è illecito occupare detto spazio con scarpiere o oggetti ornamentali di dimensioni tali da pregiudicare l'accesso al vano scale o all'ascensore o costringere i vicini a disagevoli movimenti in caso di trasloco.
Il singolo condomino, non può pregiudicare né la stabilità dell'edificio né il suo decoro architettonico ma, entro questi rigorosi limiti, può certamente modificare lievemente i muri perimetrali. In ogni caso l'alterazione della destinazione della cosa comune può essere provocata non solo dal mutamento della funzione, come nei casi sopraddetti, ma anche dal suo deterioramento.
I limiti del regolamento di condominio. L'utilizzazione da parte del singolo condomino delle cose comuni è legittima purché non alteri la destinazione del bene e non impedisca agli altri condomini di farne un pari uso secondo il loro diritto: tale regime legale delle cose comuni può essere sottoposto a una diversa o più rigorosa disciplina da parte del regolamento di condominio.
Così, ad esempio, se il regolamento proibisce il parcheggio nel cortile, destinato a spazio giochi, non è possibile nemmeno una breve sosta in detta area.
In ogni caso è possibile che una disposizione del regolamento condominiale vieti qualsiasi modifica delle cose comuni nell'interesse del singolo condomino senza la preventiva autorizzazione.
Tale norma, che prevede un limite all'uso delle parti comuni più rigoroso rispetto alla legge, ha carattere contrattuale e, se predisposta dall'originario costruttore dell'edificio, deve essere accettata dai condomini nei rispettivi atti di acquisto ovvero con atti separati; se invece è deliberata dall'assemblea, la relativa deliberazione deve essere approvata all'unanimità, cioè da tutti i condomini, nessuno escluso (articolo ItaliaOggi Sette del 20.02.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: Procedimento amministrativo. P.A., no al silenzio-rifiuto de relato.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria ha precisato e ben chiarito che
le regole di correttezza e buona amministrazione, cui è tenuta la Pubblica Amministrazione, trovano applicazione anche nel caso del silenzio rifiuto che si realizza ogni qualvolta l'Amministrazione non assume provvedimenti espressi riscontrando l'istanza del cittadino. Nel caso di specie non è valso richiamo ad altro procedimento, in essere presso la stessa Amministrazione e connesso col primo per il quale vi era stato riscontro, a giustificare e legittimare il silenzio serbato dalla Amministrazione su quel procedimento. Il silenzio rifiuto è ormai codificato ed oggetto di possibili contenziosi innanzi al Giudice Amministrativo.
Una chiara esemplificazione di ciò è offerta dal TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, con la sentenza 17.01.2012 n. 32.
La questione dedotta in giudizio è il silenzio (inquadrabile come silenzio-rifiuto da parte della Pubblica Amministrazione, nel caso di specie il Dipartimento Ambiente della Regione), serbato su una richiesta di privato finalizzata all'ottenimento di un'Autorizzazione Ambientale Integrata per un progetto di ampliamento di una piattaforma di smaltimento rifiuti non pericolosi con selezione dei rifiuti urbani, nonché altre lavorazioni.
Non alcun riscontro, né alcun esito vi è stato sulla detta richiesta da parte dell'Amministrazione competente.
Chiarisce parte ricorrente di essere in possesso di decreto di compatibilità ambientale per il suddetto progetto, ottenuto ad esito e conclusione di procedimento di VIA, sin dall'anno 2007 e per il quale è in corso, presso l'Ente Regione, procedimento per la concessione della proroga dell'efficacia da tre a cinque anni.
L'Ente Regione si è costituita per resistere in giudizio adducendo a sostegno e giustificazione del proprio operato che vi era stata nota di comunicazione al richiedente, sui motivi ostativi al rilascio della proroga, quindi tale situazione avrebbe escluso l'esame del procedimento di ampliamento della piattaforma.
Il Collegio, a tal proposito, ha precisato, dissentendo dalle difese di parte resistente, affermando che due diversi procedimenti devono avere due diverse istruttorie e due procedimenti espressi di conclusione.
Tanto, preliminarmente, precisato la Sezione è passata all'esame approfondito sul contenuto del merito del ricorso ed ha evidenziato quanto segue: - anche in assenza di disposizioni normative l'obbligo di far conoscere al cittadino istante il contenuto e le ragioni delle proprie determinazioni sussiste in tutti i casi in cui, in relazione alla correttezza ed alla buona amministrazione, sorge per il privato una legittima aspettativa (a sostegno dell'assunto la sentenza cita il Consiglio di Stato -Sezione Quinta- Dec. n. 1331 del 22.11.1991).
Il Giudicante, poi, si è soffermato sul principio giuridico del silenzio - rifiuto della Pubblica Amministrazione nel "rito speciale" disciplinato dall'art. 117 del c.p.a., che è una procedura finalizzata ad accertare se il silenzio della Pubblica Amministrazione infrange l'obbligo di adottare il provvedimento esplicito.
Scopo, quindi, della previsione di legge è quello di assicurare al privato una decisione nel merito di quanto dallo stesso chiesto e non l'inerzia, l'inattività e l'incertezza della Pubblica Amministrazione.
La Sentenza è ricca in questo caso di citazione di precedenti giurisdizionali che sono:
- Consiglio di Stato - Sezione Sesta - Dec. n. 3279 del 10.06.2003;
- Consiglio di Stato - Sezione Quinta - Dec. n. 6528 del 12.10.2004;
- Consiglio di Stato - Sezione Quinta - Dec. n. 1913 del 26.04.2005;
- Consiglio di Stato - Sezione Quinta - Dec. n. 457 del 05.02.2007.
Alla luce di quanto avanti riepilogato il Giudicante ha ritenuto l'illegittimità dell'inerzia della Amministrazione regionale che sull'istanza di ampliamento della piattaforma non ha espresso alcun provvedimento, né ha realizzato comunicazione circa l'attività istruttoria, precisando che non può ascriversi alcuna valenza ad atti di altro procedimento, come asserito da parte resistente.
Il Tribunale Amministrativo Regionale ha quindi accolto il ricorso ed oltre a statuire la declaratoria dell'illegittimità del silenzio serbato dalla Pubblica Amministrazione ha, inoltre, imposto l'obbligo, ordinando alla Regione soccombente, di provvedere sull'istanza di parte ricorrente nel termine di trenta giorni dalla notifica della sentenza, a mezzo determinazione del Dirigente Responsabile del Dipartimento interessato (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon basta la mancanza del certificato di agibilità per consentire al Comune di disporre la chiusura di un locale commerciale.
Sulla mancanza del certificato di cui all’art. 24 del DPR n. 380/2001 -la cui funzione è quella di comprovare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati- il giudice amministrativo nella sentenza in esame ha richiamato l'orientamento secondo cui prima di disporre la chiusura dei locali commerciali, il Comune deve completare speditamente la procedura intesa al rilascio del certificato di agibilità e, solo ove l’esito favorevole di questo si sia rivelato impossibile, può e deve disporre la cessazione dell’attività.
Ciò, non già per la ragione formale della mancanza del certificato, bensì per quella sostanziale dell'impossibilità di conseguirlo per la carenza dei presupposti oggettivi (TAR Campania Napoli, sez. III, 18.01.2011, n. 275) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 16.01.2012 n. 189
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Abusi edilizi - Obbligo della P.A. di adottare provvedimenti repressivi anche a distanza di tempo - Permane.
2. Abusi edilizi - Potere sanzionatorio della P.A. in seguito ad esaurimento del potere inibitorio - Permane - Silenzio della P.A. su istanza tesa a provocare intervento repressivo a fronte di lavori abusivi conclamati tali - Illegittimità.

1. A seguito dell'accertamento di episodi di abusivismo la P.A. è obbligata ad adottare i provvedimenti repressivi previsti dall'ordinamento, mantenendo intatto nel tempo il potere sanzionatorio per verificare che i fatti denunciati e le opere eseguite siano conformi alle fattispecie regolamentari esistenti (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 986/2011).
2. La P.A., pur dopo l'esaurimento del potere inibitorio, può sempre comunque intervenire per sanzionare l'esistenza di opere abusivamente realizzate ed ordinare in proposito ciò che ritiene legittimo ed opportuno per la risistemazione della fattispecie -a seconda dei casi, ordine di demolizione, pagamento di sanzione pecuniaria, richiesta di permesso di costruire, ecc.- (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 513/2008): deve, pertanto, ritenersi impugnabile il silenzio-inadempimento serbato dalla P.A. comunale su un'istanza tesa a provocare un intervento repressivo, a fronte di lavori abusivi eseguiti da proprietari confinanti e conclamati tali a seguito della revoca in autotutela del permesso di costruire in precedenza rilasciato dall'amministrazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.11.2011 n. 2899 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Ricorso giurisdizionale - Legittimazione attiva - Comune - Ente esponenziale di interessi della collettività - Sussiste - Condizioni.
2. Ricorso giurisdizionale - Legittimazione attiva - Comune - Ente esponenziale di interessi della collettività - In caso di vicinanza di impianto di consistenti dimensioni preposto alla produzione di energia elettrica in Comune finitimo - Legittimazione ad agire - Sussiste.
3. Ricorso giurisdizionale - Legittimazione attiva - Comune - Ente esponenziale di interessi della collettività - Condizioni - Mera utilità ipotetica ed eventuale - Legittimazione ad agire - Non sussiste - Vicinitas - E' insufficiente.

1. La legittimazione a ricorrere avverso provvedimenti di altra P.A. spetta al Comune, quale ente esponenziale della comunità municipale, in tutti i casi in cui agisca a tutela di interessi collettivi, purché si tratti di interesse differenziato e qualificato, che ruota attorno all'incidenza sul territorio comunale dei provvedimenti impugnati.
E ciò, con l'ulteriore precisazione che, nel caso in cui la legittimazione sia ancorata alla vicinitas ed il Comune agisca in via surrogatoria degli interessi dei cittadini residenti nel proprio territorio, la legittimazione del Comune, dovendo modellarsi su quella ordinariamente spettante ai soggetti surrogati, postula la prospettazione di concrete ripercussioni sul territorio, in relazione alle quali i ricorrenti sono in posizione qualificata (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 492/2002, n. 98/2002; TAR Milano, sent. n. 383/2011, n. 90/2011; Cons. di Stato, sent. n. 1548/2008, n. 6657/2002).
2. La vicinanza di un impianto di consistenti dimensioni preposto alla produzione di energia elettrica, radica in capo al comune finitimo la legittimazione ad agire, poiché essa non può essere subordinata alla produzione di una prova puntuale della concreta pericolosità dell'impianto, reputandosi sufficiente la prospettazione delle temute ripercussioni su un territorio comunale collocato nelle immediate vicinanze della centrale da realizzare (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 3263/2004; TAR Roma, sent. n. 5481/2005; TAR Bari, sent. n. 1098/2003).
3. Nel caso in cui l'utilità che il Comune aspiri a conseguire dall'annullamento di piani attuativi di altro Comune finitimo sia meramente ipotetica ed eventuale -e da tali piani non derivi la localizzazione di opere che possano avere ripercussioni negative sul Comune ricorrente- non è sufficiente la condizione della vicinitas per configurare in capo al Comune la legittimazione ad agire.
Nel caso di specie, non sono stati ritenuti sufficienti a configurare la legittimazione ad agire in capo al Comune ricorrente le future implicazioni derivanti dai piani attuativi del comune finitimo, consistenti nell'inevitabile incremento di popolazione producibile dagli stessi, destinata a riversarsi anche sulle proprie strade, sui propri parchi o sulle scuole convenzionate tra i Comuni viciniori (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 9537/2010, n. 5244/2009; TAR Venezia, n. 265/2011; TAR Brescia, sent. n. 2238/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.11.2011 n. 2898 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Abuso edilizio - Onere della prova - A carico dell'autore - Sussiste - Ratio.
2. Abuso edilizio - Onere della prova - Autodichiarazione allegata alla domanda di condono edilizio - Natura - Principio di prova.
3. Abuso edilizio - Ingiunzione di demolizione - Soggetti passivi - Ingiunzione verso il proprietario non autore dell'abuso - Legittimità.

1. In materia di ripartizione dell'onere della prova, rispetto al profilo specifico della data di realizzazione delle opere da sanare, l'onere grava sul richiedente la sanatoria: ciò, perché, mentre la P.A. non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria può, invece, fornire qualche documentazione da cui si desuma che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data predetta, come ad es. fatture, ricevute, bolle di consegna, relative all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto dei materiali.
Pertanto, colui che ha commesso l'abuso non può trasferire il suddetto onere in capo alla P.A. qualora non sia in grado di fornire elementi e documenti atti a sostenere la richiesta legittima di condono edilizio (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 752/2011; TAR Milano, sent. n. 1003/2011, n. 94/2011, n. 980/2005).
2. In materia di ripartizione dell'onere della prova, rispetto al profilo specifico della data di realizzazione delle opere da sanare, l'autodichiarazione del privato allegata alla domanda di condono edilizio, attestante la ultimazione delle opere abusive entro la data prevista dalla legge, non presenta valenza probatoria privilegiata, bensì costituisce esclusivamente un principio di prova, destinato a cedere in presenza di più consistenti elementi probatori in possesso della P.A. (cfr. TAR Milano, sent. n. 1003/2011).
3. L'ordine di demolizione del manufatto abusivo è legittimamente adottato nei confronti del proprietario dell'immobile indipendentemente dall'essere egli stato anche autore dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di far valere, sul piano civile, la responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, del proprio dante causa (cfr. Cassaz. Pen., sent. n. 39322/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.11.2011 n. 2829 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: 1. Ricorso amministrativo - Legittimazione e interesse a ricorrere - Ricorso avverso piani attuativi - Condizioni - Pregiudizio specifico e interesse concreto, attuale ed immediato - Necessità.
2. Ricorso amministrativo - Legittimazione e interesse a ricorrere - Ricorso avverso provvedimenti in materia edilizia - Possibilità di ricorrere per "chiunque" - Condizioni - Situazione di stabile collegamento con la zona interessata dal provvedimento - Necessità.
3. Ricorso amministrativo - Legittimazione e interesse a ricorrere - Ricorso avverso piani urbanistici - Condizioni - Vicinitas - Non sufficienza - Effettività del danno - Necessità.

1. In materia di impugnazione di piani attuativi, la sussistenza della legitimatio ad causam postula la prospettazione di concrete ripercussioni sul territorio, in relazione alle quali il ricorrente deve porsi in una posizione qualificata: infatti, la legittimazione e l'interesse ad agire devono attenere ad una situazione personale e differenziata, nonché ad un interesse concreto, attuale ed immediato di cui il ricorrente deve essere portatore diretto (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 486/2011).
2. La possibilità riconosciuta a "chiunque" di ricorrere avverso i provvedimenti in materia edilizia, ex art. 31, comma 9, Legge n. 1150/1942, come modificato dall'art. 10, L. 06.08.1967 n. 765, deve essere intesa nel senso di consentire l'impugnativa soltanto a chi si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona, data dalla residenza, dal possesso o detenzione di immobili o da altro titolo di collegamento con l'ambito territoriale interessato (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 1189/2010, n. 9301/2009).
3. Ai fini della legittimazione all'impugnazione di piani urbanistici, anche attuativi, è necessario che l'esponente fornisca la prova non solo della vicinanza del proprio fondo a quello oggetto del piano, ma anche dell'effettività del danno derivante dall'intervento urbanistico; quanto all'incisività dell'intervento, essa non può di per sé, in mancanza di altri elementi, assurgere a prova del concreto nocumento a carico degli esponenti (cfr. TAR Milano, sent. n. 90/2011, n. 1551/2008; Cons. di Stato, sent. n. 1548/2008) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.11.2011 n. 2824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: 1. Opere strategiche - Normativa applicabile - E' disciplina speciale - Differenze dal procedimento ordinario - Possibilità di partecipazione di soggetti privati - Non sussiste.
2. Opere pubbliche - Valutazione di impatto ambientale - Finalità - Realizzazione della migliore mediazione possibile tra le esigenze funzionali dell'opera e l'impatto che la sua esecuzione effettivamente produce.
3. Opere strategiche - Valutazione di impatto ambientale - Oggetto della valutazione - Progetto preliminare - Conseguenze.
4. Opere strategiche - Valutazione di impatto ambientale - Necessità di nuovo procedimento di V.I.A. in sede di progetto definitivo - Non sussiste.

1. Il procedimento delle opere strategiche, disciplinato dalla normativa speciale -in particolare art. 3, D.Lgs. n. 190/2002 dettato in attuazione della Legge 443/2001 per la realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici di interesse nazionale, norma poi abrogata dall'art. 256, D.Lgs. 12.04.2006- diverge significativamente dall'ordinario procedimento, in quanto non è prevista alcuna forma di partecipazione dei soggetti privati; le maggiori differenze attengono, poi, al progetto preliminare, che (i) deve evidenziare tutta una serie di elementi oltre a quanto previsto nell'art. 16 della legge quadro, (ii) non è sottoposto a conferenza di servizi, (iii) comporta l'accertamento della compatibilità ambientale, (iv) viene a comportare un assoggettamento di tutti gli immobili in cui è localizzata l'opera al vincolo preordinato all'esproprio ai sensi dell'art. 10 D.P.R. 327/2001, con variazione automatica degli strumenti urbanistici vigenti.
2. La valutazione dell'impatto ambientale, quale prevista nelle indicate direttive comunitarie n. 337/85 CEE e n. 11/97/CE e dalla normativa interna di relativo recepimento, è specificamente finalizzata all'individuazione, descrizione e quantificazione degli effetti che un determinato progetto, opera o attività potrebbero avere sull'ambiente: la procedura tende ad accertare la sostenibilità ambientale degli interventi, verificando, per il singolo progetto, il suo inserimento ottimale nel territorio e realizzando la migliore mediazione possibile tra le esigenze funzionali dell'opera e l'impatto che la sua esecuzione effettivamente produce.
3. Per le opere strategiche la VIA si svolge sul progetto preliminare e non su quello definitivo: è, quindi, nel primo livello di progettazione che devono essere individuati gli elementi che possono avere una incidenza negativa sull'ambiente, in modo da poter adeguare il progetto definitivo. Il tutto, al fine di prevenire il danno ambientale, con il passaggio da un sistema di ripristino, a valle, del danno medesimo ad un sistema di previsione-prevenzione, a monte, dello stesso nella gestione del territorio e delle risorse naturali.
4. Poiché per le infrastrutture strategiche la procedura V.I.A. viene effettuata sul progetto preliminare, in sede di progetto definitivo la Commissione competente deve limitarsi a verificare che il progetto definitivo abbia rispettato le prescrizioni contenute nel parere di compatibilità ambientale, ma non viene previsto in alcun caso un nuovo procedimento di V.I.A. (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.11.2011 n. 2822 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Legittimazione ad agire delle associazioni ambientaliste - Presupposti - Possibilità di fare valere profili di illegittimità non attinenti al profilo ambientale - Non sussiste.
Le associazioni ambientali sono legittimate ad impugnare atti amministrativi ritenuti illegittimi e lesivi degli interessi sostanziali degli associati, incidenti sull'ambiente, per profili relativi a questi ultimi aspetti: pertanto, non solo il provvedimento da esse impugnato deve avere una diretta e immediata rilevanza ambientale, ma devono essere dedotte censure che concernono l'assetto normativo di tutela dell'ambiente o la violazione di norme poste a salvaguardia dell'ambiente.
Ciò porta ad escludere la possibilità per una associazione ambientale, già titolare di una legittimazione ex lege per la tutela dell'ambiente, di poter fare valere profili di illegittimità degli atti impugnati che non attengono appunto al profilo ambientale (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.11.2011 n. 2822 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Conflitto di interessi degli amministratori locali - Dovere di astensione - Quando è configurabile - Stretta correlazione fra la previsione urbanistica e lo specifico e particolare interesse dell'amministratore o del suo parente o affine - Necessità.
Ai sensi dell'art. 78, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, Testo Unico degli Enti Locali, gli amministratori locali -nel caso di specie i consiglieri comunali- devono astenersi dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado: tuttavia, ai fini dell'astensione, si ritiene debba essere provata una stretta correlazione fra la previsione urbanistica e lo specifico e particolare interesse dell'amministratore o del suo parente o affine, per cui meri vantaggi indirettamente ottenibili dalla deliberazione non rappresentano un ostacolo alla partecipazione ed alla votazione da parte dell'amministratore stesso.
Tale interpretazione restrittiva dell'art. 78 è giustificata con la necessità di evitare, soprattutto nei piccoli comuni, la sostanziale paralisi dell'azione amministrativa che deriverebbe da un'interpretazione esageratamente formalistica del summenzionato obbligo di astensione (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 3663/2011, 133/2011, 6875/2010; TAR Milano, sent. n. 4750/2009; TAR Catanzaro, sent. n. 1386/2004) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.11.2011 n. 2821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Decreto di occupazione d'urgenza a seguito di dichiarazione di urgenza ed indifferibilità dell'opera - Motivazione - Non necessita.
In caso di intervenuta dichiarazione di urgenza ed indifferibilità dell'opera, il decreto di occupazione d'urgenza dei fondi oggetto della procedura espropriativa si pone quale ordinaria conseguenza, non necessitando quindi di specifica ed analitica motivazione, avendo la P.A., in un precedente atto della procedura espropriativa, già individuato le ragioni di urgenza (cfr. TAR Catanzaro, sent. n. 312/2011; TAR Milano, sent. n. 101/2011) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.11.2011 n. 2821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ricorso amministrativo - Legittimazione e interesse a ricorrere - Vicinitas - Insufficienza - Pregiudizio specifico - Necessità.
La vicinitas può legittimare un ricorso solo qualora per effetto della realizzazione della contestata costruzione la situazione, anche urbanistica, dei luoghi assuma caratteristiche tali da configurare una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto edilizio ed urbanistico, che il ricorrente intende invece conservare: l'esistenza della vicinitas abilita, dunque, il soggetto ad agire per il ripristino delle norme edilizie ed urbanistiche che assume violate, a condizione che vi sia un interesse al mantenimento del preesistente assetto edilizio (cfr. TAR Milano, sent. n. 1244/2011, 90/2011; TAR Trento, sent. n. 80/2011) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.11.2011 n. 2811 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Parti comuni - Area dell'appartamento a piano terra - Non è parte comune - Area di sedime sottostante l'edificio condominiale - E' parte comune.
In materia di condominio e parti comuni, la parte comune del condominio non è l'area dell'appartamento del piano terra, bensì l'area di terreno sita in profondità su cui posano le fondamenta dell'immobile, cioè l'area di sedime sottostante l'edificio condominiale (cfr. Corte d'Appello, Roma, sent. n. 3354/2008; Cass. Civ., sent. n. 6921/2001) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 22.11.2011 n. 2811 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso agli atti - Pareri o relazioni legali riservati - Possibilità di accesso - Soltanto se posti alla base del provvedimento finale.
I pareri legali o le relazioni legali riservate sono suscettibili di accesso soltanto se posti alla base del provvedimento finale, costituendone parte integrante della motivazione: in caso contrario sono sottratti all'accesso atti (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 3812/2011 e n. 2163/2004; TAR Catania, sent. n. 658/2011; TAR Napoli, sent. n. 5264/2007) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.11.2011 n. 2788 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: 1. Gara d'appalto - Requisiti di partecipazione - Potere di riesame - Non fa venire meno - Avvicendarsi delle fasi .
2. Gara d'appalto - Annullamento aggiudicazione - Intervento in autotutela - Ammesso.

1. L'avvicendarsi delle diverse fasi della gara non preclude alla stazione appaltante il potere di riesaminare anche in un momento successivo a quello della verifica dei requisiti di partecipazione la documentazione allegata all'offerta per disporre l'esclusione di un'impresa concorrente che ne fosse priva.
2. La giurisprudenza amministrativa ammette addirittura l'intervento della p.a. in via di autotutela anche dopo la conclusione della gara con l'annullamento dell'aggiudicazione. Per conseguenza l'esercizio del potere di verifica delle offerte non può essere in alcun modo impedito quando la gara è in corso e non si sono ancora formate posizioni consolidate in relazione al conseguimento della commessa (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 10.11.2011 n. 2715 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Diritto di accesso - Legittimazione - Riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti e che se ne possano eventualmente avvalere per la tutela di una posizione soggettiva legittimante.
2. Diritto di accesso - Prevale sulle esigenze di riservatezza del terzo qualora venga in rilievo la cura o la difesa di interessi giuridici del richiedente.

1. Il diritto di accesso ai documenti amministrativi è posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità della P.A. e trova applicazione in ogni tipologia di attività della P.A. Occorre, peraltro, ricordare che il principio della trasparenza amministrativa accolto dal nostro ordinamento non è affatto assoluto e incondizionato, ma subisce alcuni temperamenti, basati, fra l'altro, sulla limitazione dei soggetti attivi del diritto di accesso, questione quest'ultima che involge i profili della legittimazione sostanziale ed dell'interesse ad agire.
In particolare, anche se il diritto di accesso è volto ad assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e a favorirne lo svolgimento imparziale, rimane fermo che l'accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti stessi, direttamente o indirettamente si rivolgono, e che se ne possano eventualmente avvalere per la tutela di una posizione soggettiva legittimante. Quest'ultima è costituita da una "situazione giuridicamente rilevante" (comprensiva anche degli interessi diffusi) e dal collegamento qualificato tra questa posizione sostanziale e la documentazione di cui si pretende la conoscenza.
L'interesse, per la cui tutela è attribuito il diritto di accesso, tuttavia, è nozione diversa e più ampia rispetto all'interesse all'impugnativa così che la legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto" (ex plurimis, cfr. Consiglio di Stato 27.10.2006 n. 6440).
E' bene specificare che la posizione legittimante, anche se non deve assumere necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o dell'interesse legittimo, deve essere però giuridicamente tutelata non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa. Deve ritenersi, a questa stregua, che l'art. 22, co. 1, lett. b), l. n. 241/1990, quando parla di "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso", si riferisca alla sussumibilità della pretesa concreta in una fattispecie normativa, secondo una valutazione prognostica e secondo un rapporto di chiara percepibilità.
La previsione non fa invece riferimento a ipotesi in cui la pretesa vantata non è a prima lettura riconducibile ad una previsione normativa, ma potrebbe esservi ricondotta in virtù di una particolare interpretazione che potrebbe essere affermata in un giudizio sulla pretesa (recentemente, a questo proposito, cfr. C. Stato, sez. VI, 18.09.2009 n. 5625).
2. La giurisprudenza ha ripetutamente chiarito (cfr. ad es. Cons. Stato V, 07.09.2004, n. 5873; id. VI, 16.02.2005, n. 504 Tar Lombardia Milano, III, 16.05.2007, n. 4458) che il diritto di accesso ai documenti amministrativi prevale sulle esigenze di riservatezza del terzo ogniqualvolta l'accesso venga in rilievo per la cura o la difesa di interessi giuridici del richiedente (art. 22, comma 7, l. 241/1990).
In tale solco si è giunti ad affermare (v. Cons. Stato, Sez. V, 14.11.2006, n. 6681) la sussistenza del diritto di accesso anche a dati particolarmente sensibili, quali la documentazione medica attinente alla salute mentale di taluni soggetti, allorché preordinato alla tutela giudiziale di interessi di pari dignità costituzionalmente tutelati (ad esempio, nel caso di azione di scioglimento del vincolo matrimoniale).
Il regolamento dell'INPS n. 1951/1994 ove contrastante con il principio appena formulato, è illegittimo e va disapplicato (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 24.10.2011 n. 2531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Domanda risarcitoria nel processo amministrativo - Dimostrazione del an e del quantum sofferto.
Per costante giurisprudenza, chi propone la domanda risarcitoria nel processo amministrativo deve dimostrare non solo l'an ma anche il quantum del danno sofferto, atteso che, in applicazione del principio della vicinanza della prova, i poteri istruttori officiosi del giudice possono essere attivati solo nelle controversie che hanno per specifico oggetto l'esercizio del potere amministrativo, al fine ovviare alla disuguaglianza delle parti nel procedimento amministrativo e all'impossibilità della parte privata di disporre di materiale probatorio di cui l'amministrazione ha esclusivo possesso.
Quando invece viene proposta la domanda risarcitoria, parte privata e amministrazione si pongono sullo stesso piano; ne consegue che la prima è sempre in grado di produrre in giudizio le prove a sostegno delle istanze formulate, in quanto trattasi di elementi afferenti alla propria sfera di controllo: deve quindi trovare piena applicazione l'art. 2967, comma primo, del codice civile in base al quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (cfr. ex multis Consiglio Stato , sez. VI, 18.03.2011, n. 1672) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 24.10.2011 n. 2527 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione paesaggistica - Idonea motivazione - Specifiche valutazioni in ordine alla condivisibilità delle affernazioni contenute nell'elaborato tecnico.
Il potere di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica non può essere esercitato tenendo conto solo della documentazione progettuale acquisita, ma deve essere accompagnato da una idonea motivazione dalla quale risulti che l'autorità sia del tutto consapevole delle peculiarità dell'area e dell'incidenza che su di essa determinerebbe la realizzazione delle opere previste.
Non è, quindi sufficiente il mero riferimento alla relazione del progettista occorrendo che l'Autorità di tutela del vincolo esterni le specifiche valutazioni in ordine alla condivisibilità delle affermazioni contenute nell'elaborato tecnico (Cons. Stato, VI, 23/02/2011 n. 1141) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 13.10.2011 n. 2428 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANella Regione Lombardia, l’installazione di stazioni radio base di telefonia cellulare di potenza inferiore a 300 Watt, vista la previsione dell’art. 4, comma 7°, della legge regionale 11/2001, non richiede specifica regolamentazione urbanistica, per cui sono illegittime le disposizioni pianificatorie o regolamentari comunali che introducono divieti o limitazione di installazione per simili impianti, anche solo su talune porzioni del territorio comunale.
Sicché, la norma regolamentare comunale del tipo "tralicci e pali di sostegno degli impianti per la telefonia cellulare dovranno essere collocati a cinque metri dal confine e/o comunque ad un distanza dal confine non inferiore alla metà dell’altezza del palo
" deve interpretarsi nel senso che la previsione di distanze minime degli impianti dal confine non valgono per le stazioni di potenza inferiore a 300 Watt, per le ragioni suindicate.
Parimenti insussistente, in base a quanto sopra esposto, è la presunta violazione dell’art. 9 del DM 1444/1968, che non pare in ogni caso applicabile alla presente fattispecie, visto che lo stesso riguarda le distanze fra <<fabbricati>> e non si ritiene che il traliccio di cui è causa rientri in tale nozione.

Con il primo motivo, si denuncia la violazione dell’art. 80 del Regolamento edilizio del Comune di Nova Milanese, in forza del quale (comma 3, lett. b), tralicci e pali di sostegno degli impianti per la telefonia cellulare dovranno essere collocati a cinque metri dal confine e/o comunque ad un distanza dal confine non inferiore alla metà dell’altezza del palo.
Nel caso di specie, essendo il palo alto 32,5 metri, la distanza dovrebbe essere di circa 16 metri, mentre il traliccio di cui è causa, a detta dell’esponente, si troverebbe a soli 2,5 metri dal confine. Da qui la lamentata violazione dell’art. 80 del Regolamento comunale.
Il motivo è infondato, in quanto non appare corretta l’interpretazione dell’art. 80 del Regolamento sostenuta dalla società istante.
Infatti, il comma 1 del citato art. 80, fa espressamente salva l’applicazione di una serie di fonti normative di rango primario –e quindi sovraordinate al Regolamento– fra cui il D.Lgs. 259/2003 e la legge della Regione Lombardia n. 11/2001.
L’interpretazione che la giurisprudenza, anche di questa Sezione, offre delle disposizioni legislative suindicate è nel senso che, nella Regione Lombardia, l’installazione di stazioni radio base di telefonia cellulare di potenza inferiore a 300 Watt (come quella di cui è causa), vista la previsione dell’art. 4, comma 7°, della legge citata regionale 11/2001, non richiede specifica regolamentazione urbanistica, per cui sono illegittime le disposizioni pianificatorie o regolamentari comunali che introducono divieti o limitazione di installazione per simili impianti, anche solo su talune porzioni del territorio comunale (cfr. TAR Lombardia, sez. IV, 02.07.2008, n. 2845, con la giurisprudenza ivi richiamata).
Ciò premesso, la previsione del comma 3 dell’art. 80, di cui la società ricorrente lamenta l’illegittimità, deve interpretarsi, come correttamente fatto dall’Amministrazione resistente, nel senso che la previsione di distanze minime degli impianti dal confine non valgono per le stazioni di potenza inferiore a 300 Watt, per le ragioni suindicate.
Parimenti insussistente, in base a quanto sopra esposto, è la presunta violazione dell’art. 9 del DM 1444/1968, che non pare in ogni caso applicabile alla presente fattispecie, visto che lo stesso riguarda le distanze fra <<fabbricati>> e non si ritiene che il traliccio di cui è causa rientri in tale nozione (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 23.01.2009 n. 210).

AGGIORNAMENTO AL 20.02.2012

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DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: L. Spallino, Procedimento amministrativo: la Lombardia licenzia la nuova legge regionale (link a http://studiospallino.blogspot.com).
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Sull'argomento, si veda anche la nota web esplicativa della Regione Lombardia.

APPALTI: A. Galbiati, Centrale di committenza: il Senato approva l'emendamento ANCI (link a http://studiospallino.blogspot.com).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOTirocini formativi e art. 9, comma 28, D.L. 78/2010.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Toscana, con il parere 14.02.2012 n. 14 esamina il rapporto tra i tirocini formativi e le disposizioni limitative di spesa previste dall'art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010 ed il particolare caso in cui l'ente, nel 2009, non abbia sostenuto spese per le medesime finalità.
La Corte ritiene quanto segue:
- "... il carattere generale della locuzione 'altri rapporti formativi' utilizzata dal legislatore sembra condurre ad un'interpretazione del concetto in senso ampio che possa ricomprendere al suo interno qualunque forma di rapporto con intento formativo che comporti una spesa a carico dell'ente pubblico; difatti l'obiettivo della norma di cui all'art. 9 .... è quello di ridurre le spese a carico degli enti pubblici destinatari. Nella fattispecie in esame il tirocinio formativo, pur non costituendo un rapporto di lavoro vero e proprio, instaura un rapporto tra l'amministrazione e il tirocinante dal quale derivano specifici obblighi e diritti e che, aldilà della tipologia contrattuale o convenzionale adoperata per la sua nascita, instaura una relazione che può considerarsi rientrante nel concetto di rapporto formativo in senso ampio."
Sulla specifica ipotesi di assenza di spesa (allo stesso titolo) nell'anno 2009, ritiene non si possa analogicamente estendere l'orientamento espresso dalla Corte stessa (Sezione Regionale Lombardia deliberazione n. 227/2010) in tema di incarichi che ha ritenuto possibile il conferimento, purché adeguatamente motivato.
La Corte Toscana, esprime diverso avviso nella fattispecie in argomento, alla luce delle seguenti considerazioni:
- "Nell'operare un confronto in relazione alle norme che disciplinano i due istituti (incarichi esterni e rapporti formativi), il collegio ritiene che i presupposti per l'utilizzo dei medesimi sono differenti: infatti, mentre il ricorso ad un incarico esterno è una facoltà conferita all'amministrazione per esigenze cui non può far fronte con personale in servizio in presenza di alta specializzazione, dell'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane interne, nonché di una serie di altri requisiti, l'utilizzo di personale con forme flessibili (quali i rapporti formativi) non risponde all'esigenza di realizzare competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente (art. 7 D.Lgs. 165/2001 e ss.mm. disciplinanti il conferimento di incarichi esterni)";
- "Se la deliberazione della Sezione Lombardia invita a non interpretare la norma limitativa di cui all'art. 6 della L. 122/2010 quale impeditiva del ricorso ad incarichi esterni sul presupposto che l'esistenza dei presupposti di stretta necessità, sia di carattere soggettivo sia di tipo oggettivo, giustificano il ricorso ad una professionalità esterna, lo stesso non può dirsi in tema di ricorso a forme flessibili di lavoro (tra le quali rientrano i rapporti formativi) poiché i principi delle norme in materia di pubblico impiego, oltre a richiedere una riduzione della relativa spesa, tendono pacificamente a disincentivare il ricorso a forme flessibili nel lavoro pubblico limitandole a casi temporanei ed eccezionali. Su tali presupposti deve rispondersi negativamente alla possibilità di sostenere una spesa per un rapporto formativo in violazione ai requisiti stabiliti dall'art. 9, comma 28, della L. 122/2010" (tratto da www.publika.it).

UTILITA'

LAVORI PUBBLICI: Le varianti in corso d'opera ai lavori pubblici.
Quest’opera ha l’obiettivo di dare una risposta ai dubbi interpretativi e applicativi dovuti alla continua evoluzione della normativa in materia di varianti in corso d’opera nella disciplina dei lavori pubblici.
Frutto del lavoro congiunto del Settore Attività di supporto tecnico giuridico e amministrativo (Direzione Opere Pubbliche, Difesa del Suolo, Economia Montana e foreste) e del Settore Attività legislativa per la qualità della normazione (Direzione Affari Istituzionali ed Avvocatura), essa deriva dall’esperienza maturata nell’ambito della Struttura tecnica regionale per l’espressione dei pareri di cui all’art. 18 della l.r. n. 18/1984 (gennaio 2012 - tratto da www.regione.piemonte.it).

ENTI LOCALIPiccoli Comuni, i modelli di convenzione quadro per le gestioni associate (13.02.2012 - link a www.anci.lombardia.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Regione Lombardia, Progetto di legge “MISURE PER LA CRESCITA, LO SVILUPPO E L’OCCUPAZIONE.
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La Giunta Regionale della Lombardia, venerdì 10.02.2012, ha approvato il Progetto di Legge n. 0146 "MISURE PER LA CRESCITA, LO SVILUPPO E L'OCCUPAZIONE".
Ora il progetto di legge inizierà l’iter nella commissione competente prima di approdare in Consiglio Regionale.
Di particolare interesse risultano essere i seguenti articoli:
● Art. 16 - (Modifiche all’articolo 10 della l.r. 21/2008 in tema di sale cinematografiche);
● Art. 17 - (Disciplina dei titoli edilizi di cui all’articolo 27, comma 1, lettera d), della l. r. 11.03.2005, n. 12 "Legge per il governo del territorio" a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011);
● Art. 18 - (Disposizioni in materia di semplificazione urbanistico-edilizia);
● Art. 21 - (Istituzione del fondo per la prevenzione del rischio idrogeologico);
● Art. 22 - (Modifiche agli articoli 29 e 30 della l.r. 26/2003 “Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche”. Programma energetico ambientale regionale (PEAR) e obiettivi in materia di fonti rinnovabili “FER”);
● Art. 23 - (Inserimento dell’articolo 9-bis nella l.r. 24/2006. Disposizioni in materia di efficienza energetica in edilizia);
● Art. 24 - (Modifiche al Titolo III della l.r. 26/2003 - Infrastrutture per la distribuzione di energia elettrica);
● Art. 26 - (Sostituzione dell’articolo 31 della l.r. 7/2010. Competenze regionali in materia di oli minerali);
● Art. 27 - (Modifiche all’articolo 10 della l.r. 11.12.2006, n. 24 "Norme per la prevenzione e la riduzione delle emissioni in atmosfera a tutela della salute e dell'ambiente". Sistemi geotermici a bassa entalpia a circuito aperto con prelievo di acqua dal sottosuolo);
● Art. 28 - (Inserimento dell’articolo 21-bis nella l.r. 26/2003. Incentivi per la bonifica di siti contaminati);
● Art. 29 - (Inserimento dell’articolo 8-bis nella l.r. 24/2006. Misure di semplificazione per le autorizzazioni alle emissioni in atmosfera);
● Art. 31 - (Modifiche all’articolo 11 della l.r. 24/2006. Impianti a biomassa);
● TITOLO V - Interventi per il governo del sottosuolo e per la diffusione sul territorio regionale della banda ultra-larga (artt. 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44);
● Art. 55 - (Appalti per favorire l’accesso alle micro, piccole e medie imprese).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - CONSIGLIERI COMUNALIOggetto: legge 26.03.2010, n. 42 di conversione del decreto-legge 25.01.2010, n. 2 recante: "Interventi urgenti concernenti enti locali e regioni". Numero consiglieri e assessori comunali e provinciali (Ministero dell'Interno, nota 18.02.2012 n. 2915 di prot.).
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Elezioni amministrative: la circolare del Viminale. Ora meno poltrone. Assessori e consiglieri, tagli del 20%.
Il taglio del 20% del numero degli assessori e consiglieri comunali e provinciali, disposto dal dl n. 2/2010, scattato dallo scorso anno, decorre in occasione del primo rinnovo del consiglio. Il numero di assessori, in particolare, non potrà superare un quarto del numero dei rispettivi consiglieri e in nessun caso superare il numero massimo di 12 previsto dal Tuel.
È quanto ricorda la nota 18.02.2012 n. 2915 di prot. emanata ieri dal Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero dell'Interno che ha ritenuto opportuno mettere nero su bianco le novità introdotte dalla norma sopra richiamata (a motivo dei numerosi quesiti pervenuti da amministrazioni locali interessate dalle prossime elezioni amministrative).
Ai fini del taglio da operare sull'attuale consistenza numerica della giunta e del consiglio, il Viminale ha rilevato che l'entità della riduzione è determinata con arrotondamento all'unità superiore (nei casi in cui le risultanze del calcolo diano luogo ad una cifra decimale) e che, in tale conteggio, non devono essere computati il sindaco e il presidente della provincia. A tal fine, il Viminale ha allegato alla circolare apposite tabelle riepilogative con le nuove composizioni di giunte e consigli, in relazione alla popolazione residente.
Il Viminale ha precisato inoltre che per gli enti che vanno a rinnovo dal 2011 e per gli anni a seguire, il numero massimo degli assessori comunali e provinciali deve essere rideterminato in misura pari ad un quarto del numero dei consiglieri del comune e della provincia. In questi casi, si computano sia il sindaco che il presidente, sempre arrotondando all'unità superiore. In ogni caso, per effetto dell'articolo 47, comma 1, del Tuel, tale numero non potrà superare le dodici unità.
Qualche esempio. Una città con popolazione superiore a 100 mila abitanti che sino ad oggi ha mantenuto quaranta consiglieri comunali, a decorrere dalle prossime consultazioni elettorali ne dovrà eleggere 32. Le città con più di 250 mila abitanti, sino ad oggi con 46 consiglieri, ne dovranno eleggere 36. In entrambi i casi, da questo computo deve essere escluso il sindaco.
Per quanto riguarda le province, quelle con popolazione superiore a 300 mila abitanti, oggi con 30 consiglieri provinciali, scenderanno a 24, mentre quelle con popolazione superiore a 700 mila abitanti con 36 consiglieri, ne dovranno eleggere 28, presidente escluso. Per quanto riguarda gli assessori, le tabelle allegate rilevano come, per comuni con più di 500 mila abitanti, da 12 si scende a 11, comuni con più di 250 mila abitanti scendono a 10 comuni con più di 100 mila abitanti potranno eleggere massimo nove assessori.
In provincia gli assessori dovranno essere al massimo un quarto dei consiglieri: una provincia con più di 1,4 milioni di abitanti non potrà avere più di 10 assessori. Otto quelle con popolazione superiore a 700 mila abitanti e 7 quelle con popolazione superiore a 300 mila abitanti (articolo ItaliaOggi del 18.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: OGGETTO: Trasmissione telematica delle certificazioni di malattia all’Inps. Ulteriori servizi per la consultazione degli attestati di malattia (INPS, circolare 16.02.2012 n. 23).
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Dall'Inps un sms a chi è malato. Messaggio sul cellulare per comunicare l'attestazione medica. Nota dell'Istituto previdenziale spiega le nuove implementazioni al sistema online dei certificati.
A letto con la febbre? Il primo a dirti che sei ammalato sarà l'Inps. Con un messaggino al cellulare, infatti, l'istituto comunicherà ai lavoratori il numero di protocollo del loro certificato di malattia inviato online dal medico curante.
La novità è annunciata dall'Inps nella circolare 16.02.2012 n. 23 di ieri, con cui, inoltre, informa di avere esteso agli intermediari (consulenti ecc.) la possibilità di consultare gli attestati di malattia tramite Pec o su internet (www.inps.it).
Malattia via sms. Si tratta di un nuovo servizio, spiega l'Inps, che consente al lavoratore di richiedere che il numero di protocollo dei propri certificati di malattia sia inviato via Sms ad un numero telefonico da lui indicato. In questo modo, dunque, al lavoratore è semplificata la successiva ricerca del proprio attestato di malattia che, eventualmente, dovrà consegnare al proprio datore di lavoro.
Il servizio può essere attivato tramite due procedure: per i cittadini in possesso di Pin, selezionando la nuova funzionalità introdotta nel menu della consultazione dei certificati di malattia; per chi non è dotato di Pin inviando richiesta tramite posta elettronica certificata rilasciata (www.postacertificata.gov.it). La richiesta deve essere inoltrata all'indirizzo Pec di un ufficio territoriale Inps indicando i propri dati anagrafici completi di codice fiscale e del numero telefonico per ricevere l'sms.
Intermediari aziende private. Altra novità, spiega l'Inps, è l'estensione agli intermediari della possibilità, già concessa ai datori di lavoro, di consultare gli attestati di malattia attraverso il: sistema di invio dell'attestato con Pec; o il sistema di accesso con Pin. Nel primo caso (Pec), la richiesta di utilizzo del servizio deve essere inoltrata all'indirizzo di posta elettronica certificata di un ufficio territoriale Inps tra quelli con cui le aziende rappresentate dall'intermediario hanno rapporti di adempimenti contributivi.
La richiesta, che va inviata utilizzando lo stesso indirizzo di Pec al quale dovranno essere trasmessi gli attestati di malattia dei lavoratori, deve contenere i dati anagrafici dell'intermediario, completi di codice fiscale, e l'elenco delle matricole aziendali per le quali si richiede il servizio. Nel caso di richiesta di consultazione tramite il sistema di accesso con Pin, l'Inps spiega che le attestazioni di malattia dei certificati trasmessi dal medico curante sono disponibili direttamente sul portale dell'Inps (servizi online).
Entrambi i predetti sistemi, precisa l'Inps, sono resi disponibili agli intermediari muniti di delega generale, da parte del datore di lavoro, allo svolgimento di tutti gli adempimenti in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale nei confronti dell'Inps e che abbiano comunicato l'esistenza di tale delega all'istituto. Nel caso in cui, invece, gli intermediari siano anche titolari di un rapporto di lavoro dipendente, presso un'azienda diversa da quella rappresentata, e vengano delegati dal proprio datore di lavoro alla consultazione degli attestati di malattia dei dipendenti di tale azienda, è necessaria apposita delega personale da parte dello stesso datore di lavoro.
Infine, i delegati abilitati alla consultazione degli attestati di malattia e i soggetti abilitati (delegati aziendali e intermediari) alla ricezione dell'attestato di malattia via Pec sono tenuti a dare tempestiva comunicazione della cessazione o della sospensione dell'attività in modo tale che l'Inps possa provvedere alla revoca dell'abilitazione.
Intermediari del settore agricolo. I predetti servizi previsti per le aziende private, spiega ancora l'Inps, sono estensi anche ai datori di lavoro agricoli e agli intermediari che hanno ottenuto l'autorizzazione a svolgere gli adempimenti per conto delle aziende agricole, con riferimento ala consultazione degli attestati di malattia degli operai con rapporto di lavoro a tempo indeterminato (cosiddetti Oti).
Intermediari di amministrazioni pubbliche. Infine, l'Inps spiega che anche gli intermediari delle pa possono presentare richiesta di accesso ai servizi tramite Pin e di invio degli attestati con Pec inoltrando richiesta corredata di delega, a una sede Inps (articolo ItaliaOggi del 17.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: Oggetto: art. 4, commi 2 e 3, D.P.R. n. 207/2010, recante "Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163" - intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di inadempienza (Ministero del Lavoro ed elle Politiche Sociali, circolare circolare 16.02.2012 n. 3/2012).
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Durc negativo, addio corrispettivo. Bloccati i pagamenti alle imprese con debiti contributivi. Il ministero spiega l'intervento sostitutivo delle stazioni appaltanti a favore di Inps, Inail e Casse edili.
Intervento sostitutivo anche per parziali scoperture. La stazione appaltante, infatti, può utilizzare le somme dovute all'impresa appaltatrice anche per colmare solo parte delle inadempienze evidenziate dal documento di regolarità contributiva (Durc).
Lo precisa, tra l'altro, il ministero del lavoro nella circolare 16.02.2012 n. 3/2012 fornendo indicazioni operative all'articolo 4, commi 2 e 3, del dpr n. 207/2010 (regolamento di esecuzione ed attuazione del dlgs n. 163/2006), a seguito dell'incontro con gli enti e le autorità di vigilanza sui contratti pubblici.
Intervento sostitutivo. Il citato articolo 4 del dpr n. 207/2010 ha introdotto un particolare meccanismo attraverso il quale, in presenza di un Durc che evidenzi delle irregolarità nei versamenti dovuti agli istituti previdenziali (Inps e Inail) e/o alle casse edili, le stazioni appaltanti si sostituiscono al debitore principale (le imprese che detengono i lavori in appalto) versando, in tutto o in parte, direttamente ai predetti istituti e casse le somme dovute in forza del contratto di appalto.
Quando opera il meccanismo. Il predetto meccanismo (cosiddetto «intervento sostitutivo»), spiega il ministero, oltre a operare quando il debito delle stazioni appaltanti nei confronti degli appaltatori «copre» interamente quanto dovuto agli istituti e alle casse edili, opera anche quando lo stesso debito sia in grado solo in parte di «colmare» le inadempienze evidenziate nel Durc.
In tal caso, aggiunge il ministero, le somme dovute dalla stazione appaltante all'appaltatore andranno ripartite tra gli istituti e casse edili interessate (la normativa non dà indicazioni di sorta sui criteri di precedenza nella soddisfazione dei crediti). In particolare, la ripartizione andrà eseguita in proporzione dei crediti vantati da ciascun istituto e cassa edile come evidenziati nel Durc o comunicati dagli stessi istituti e cassa edili, a seguito di richiesta della stazione appaltante.
Preavviso di pagamento. Al fine di coordinare eventuali e contestuali interventi sostitutivi da parte di più stazioni appaltanti (possibilità che può verificarsi, per esempio, per una stessa impresa che ha in corso più appalti), il ministero stabilisce che le stazioni appaltanti, prima di procedere ai versamenti nei confronti degli istituti e casse edili, provvedano a preannunciare agli stessi l'intenzione della sostituzione.
Il «preavviso di pagamento», spiega il ministero, consentirà di «rimodulare» i crediti laddove un'altra stazione appaltante sia intervenuta «ripianando» anche solo in parte le posizioni dell'appaltatore nei confronti di Inps, Inail e Casse edili.
Imprese subappaltatrici. Il ministero ancora precisa che l'intervento sostitutivo opera anche in relazione a eventuali posizioni debitorie da parte di subappaltatori. In questi casi, peraltro, nell'ambito degli appalti pubblici, esiste anche il vincolo della cosiddetta «responsabilità solidale» tra appaltatore e subappaltatore.
Pertanto, secondo il ministero l'intervento sostitutivo deve aversi solo nelle ipotesi di somme residue ed a seguito dell'eventuale intervento sostitutivo attivato per irregolarità del Durc dell'appaltatore, e non può eccedere il valore del debito che l'appaltatore ha nei confronti del subappaltatore alla data di emissione del Durc irregolare.
Infine, il ministero precisa che nel caso in cui l'irregolarità riguardi solo il subappaltatore e l'importo dovuto a quest'ultimo risulti insufficiente a «coprire» l'irregolarità attestata dal Durc, l'intervento sostitutivo, ancorché i debiti contributivi del subappaltatore siano soddisfatti solo in parte, svincola il pagamento nei confronti dell'appaltatore.
Verifica irregolarità fiscale. L'ultima precisazione del ministero spiega che l'intervento sostitutivo non interferisce con l'obbligo della verifica delle irregolarità fiscali, cui sono tenute al rispetto le amministrazioni pubbliche in caso di pagamento di importi superiori ai 10 mila euro (articolo 48-bis del dpr n. 602/1973) (articolo ItaliaOggi del 18.02.2012).

APPALTI: Oggetto: D.L. n. 5/2012 (c.d. Decreto semplificazioni) - novità in materia di lavoro e legislazione sociale - primi chiarimenti interpretativi per il personale ispettivo (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, circolare 16.02.2012 n. 2/2012).
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Sanzioni civili senza solidarietà. Negli appalti risponde solo il responsabile della violazione. Nota del ministero del lavoro sul dl semplificazioni. Da aprile le Asl decidono sulle gravidanze difficili.
La responsabilità solidale negli appalti è esclusa per le sanzioni civili; di esse, risponde soltanto il responsabile dell'inadempimento. Inoltre in merito al trattamento di fine rapporto (tfr), la solidarietà opera solo per le quote maturate dai lavoratori nel periodo di vigenza dell'appalto.
È il ministero del lavoro a precisarlo nella circolare 16.02.2012 n. 2/2012, fornendo le prime istruzioni al dl n. 5/2012 (decreto semplificazioni), in vigore dal 10 febbraio, nelle more della conversione in legge. Riguardo all'interdizione anticipata dal lavoro per gravidanza difficile, il ministero stabilisce che il previsto passaggio di competenza, dalle attuali direzioni territoriali (ex dpl) alle Asl, decorrerà dal 1° aprile.
Responsabilità solidale. Due le novità principali a modifica della disciplina sulla responsabilità solidale negli appalti, che vincola committenti, appaltatori e subappaltatori a rispondere solidalmente per gli adempimenti fiscali, contributi e retributivi dei lavoratori impiegati nell'appalto. La prima concerne il tfr: la solidarietà, stabilisce il decreto semplificazioni, comprende «le quote» del trattamento di fine rapporto in relazione al periodo d'esecuzione del contratto di appalto.
La novità, spiega il ministero, elimina ogni ipotesi interpretativa volta ad addebitare al responsabile in solido l'intero ammontare del tfr dovuto al lavoratore dell'appaltatore/subappaltatore che, durante il periodo di svolgimento dell'appalto, abbia maturato il diritto al trattamento. La seconda novità esclude dall'ambito della responsabilità solidale «qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell'inadempimento».
In pratica, spiega il ministero, viene eliminata l'interpretazione fornita dallo stesso ministero nell'interpello n. 3/2010 (si veda ItaliaOggi del 10.04.2010) che invece riteneva sussistere la solidarietà anche per tali sanzioni in quanto aventi natura risarcitoria.
Libro unico del lavoro (Lul). Il dl n. 5/2012, spiega il ministero, introduce semplificazioni volte a tradurre in disposizioni normative alcune indicazioni interpretative fornite dallo stesso ministero in relazione al regime sanzionatorio. In particolare, definisce le due nozioni di omessa e di infedele registrazione (si veda tabella) con ripercussioni sull'applicazione delle sanzioni per violazioni in materia di Lul.
Co più facili nei pubblici esercizi. Il dl semplificazioni, spiega ancora il ministero, corregge una sovrapposizione di norme relative agli obblighi di comunicazione di assunzione (Co) nei settori del turismo e dei pubblici esercizi. In base alle nuove disposizioni, le assunzioni possono essere comunicate anche incomplete di tutti i dati del lavoratore e del datore di lavoro, anche a prescindere dall'esistenza di un motivo di urgenza, salvo provvedere all'integrazione entro tre (e non cinque) giorni.
La cig stoppa la riserva disabili. In presenza di crisi aziendale, ossia per le imprese interessate da interventi di integrazione salariale, è previsto lo stop temporaneo degli obblighi del collocamento obbligatorio (assunzione disabili), a richiesta del datore di lavoro. Nel caso di imprese aventi unità produttive ubicate in più province, spiega il ministero, il decreto semplificazioni stabilisce che le predette richieste vadano presentate direttamente al ministero del lavoro. L'ufficio competente è la direzione generale per il lavoro (ex direzione mercato del lavoro).
Interdizione per gravidanza difficile. Infine, il decreto semplificazioni devolve alle Asl, in via esclusiva, tutta la procedura di interdizione anticipata dal lavoro per «gravi complicanze della gravidanza o di persistenti forme morbose», compresa l'adozione del provvedimento finale di astensione, oggi di competenza delle direzioni territoriali del lavoro. Il ministero stabilisce che tale passaggio di competenza avverrà a far data dal 1° aprile.
A tal fine le dpl dovranno istruire esclusivamente le richieste di astensione definibili entro il 31 marzo, rimettendo alle Asl l'istruttoria delle domande destinate a essere definite con provvedimenti da emanarsi dal 1° aprile (articolo ItaliaOggi del 17.02.2012).

INCARICHI PROGETTUALIOggetto: Riforma delle professioni - Informativa n. 3 (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, nota 31.01.2012 n. U-nd/407/2012 di prot.).
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Riforma delle professioni e abolizione delle tariffe professionali. Arrivano i chiarimenti del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.
Il Decreto Liberalizzazioni, in attesa di opportuna legge di conversione, ha apportato alcune novità al regime delle professioni (v. art. “Decreto Legge liberalizzazioni: tante le novità per imprese, professionisti, pubbliche amministrazioni, banche e cittadini”), tra cui:
● abolizione delle tariffe professionali;
● obbligo di preventivazione;
● obbligo di copertura assicurativa.
Il CNI (Consiglio Nazionale degli Ingegneri) ha pubblicato una circolare finalizzata a fornire indicazioni sulle nuove disposizioni normative agli ingegneri iscritti agli albi professionali.
Il CNI sottolinea che il nuovo Decreto non cancella l’art. 2233 del codice civile: resta pertanto inalterato il principio della misura del compenso anche in relazione al decoro della professione. Inoltre, non sono cancellate le funzioni degli Ordini provinciali nel rilascio dei pareri sulle parcelle.
Nella circolare vengono fornite anche indicazioni circa le modalità di pattuizione del compenso e preventivazione (commento tratto da www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: applicazione dell’art. 19-bis della l.r. 23 del 2004, relativo alla “Tolleranza costruttiva” (Regione Emilia Romagna, nota 27.12.2011 n. 312129 di prot.).
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Anche se la nota inerisce ad una legge legge regionale, la stessa offre ugualmente spunti di riflessione in ordine al disposto similare di cui all’art. 5, comma 2, lett. a), legge n. 106/2011 (introduttivo del comma 2-ter dell’art. 34 del DPR 380 del 2001 il quale così dispone: "
2-ter. Ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali.").

NEWS

ENTI LOCALIPATTO DI STABILITA' 2012/ Le indicazioni contenute nella circolare della Ragioneria. Giro di vite sulle pratiche elusive. Gli amministratori pagano dieci volte l'indennità di carica.
Il Mef affila le armi contro i «furbetti» del Patto, enfatizzando il ruolo delle misure antielusive e rafforzando le sanzioni nei confronti degli enti inadempienti. Potenziati anche i controlli sulle giacenze di tesoreria. Strada in salita per il Patto regionalizzato, la cui piena attuazione si scontra con l'irragionevolezza dei termini per le compensazioni fra gli obiettivi di province e comuni, anche se un ordine del giorno approvato dal Senato impegna il Governo a definire una tempistica più distesa.
Con la circolare 14.02.2012 n. 5 (si veda ItaliaOggi di ieri), la Ragioneria generale dello stato ha fornito agli enti locali i primi chiarimenti sul Patto di stabilità interno 2012-2014, quale disciplinato dagli artt. da 30 a 32 della legge n. 183/2011 (legge di stabilità 2012).
Le regole del Patto. Nessuna sorpresa per quanto concerne l'individuazione degli enti soggetti e le regole di calcolo degli obiettivi. Per il 2012, sono soggetti al Patto le province e i comuni con più di 5.000 abitanti, mentre a decorrere dall'anno prossimo entreranno anche i comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti. Dal 2013, poi, il Patto sarà esteso anche ad aziende speciali ed istituzioni, mentre per le società in house in sono in arrivo regole ad hoc. Dal 2014, infine, dovrebbero essere assoggettate anche le unioni obbligatorie per i comuni fino a 1.000 abitanti, ma la legge di conversione del decreto milleproroghe dovrebbe rinviare questa scadenza, di fatto procrastinandola al 2015.
Gli obiettivi saranno differenziati per gli enti virtuosi (che potranno limitarsi a raggiungere un saldo più basso, anche se non necessariamente pari a 0) e per gli altri enti. Questi ultimi dovranno realizzare un saldo positivo pari o superiore al valore determinato applicando alla spesa corrente media 2006-2008 (calcolata in termini di impegni a partire dai dati di consuntivo) un moltiplicatore che sarà fissato da un successivo decreto dello stesso Mef all'interno di una forchetta.
Per le province, la percentuale non potrà essere, per il 2012, inferiore al 16,5% e superiore al 16,9% e dal 2013 inferiore al 19,7% e superiore al 20,1%. Per i comuni, i valori minimi e massimi sono, per il 2012, 15,6 e 16% e dal 2013 15,4 e 15,8%. Il livello a cui si collocherà l'asticella dipenderà dal numero e dal peso degli enti virtuosi, i cui sconti saranno «pagati» dagli altri enti con la maggiorazione (entro il tetto dello 0,4%) del rispettivo coefficiente di calcolo. Dall'obiettivo così calcolato, potranno essere detratti i tagli previsti dal dl 78/2010, ma non quelli ulteriori imposti dal dl 201/2011.
La grammatica del Patto continua a essere la competenza mista, che considera accertamenti e impegni per la parte corrente del bilancio, riscossioni e pagamenti per le entrate e le spese in conto capitale, al netto delle voci escluse che la circolare elenca puntualmente: riscossioni e concessioni di crediti, risorse connesse alla dichiarazione di stato d'emergenza ed all'organizzazione dei grandi eventi, interventi finanziati dall'Ue (al netto dei cofinanziamenti), censimento, risorse destinate ai comuni dissestati della provincia de L'Aquila, Efsa di Parma, federalismo demaniale e (solo per il 2013-2014) investimenti infrastrutturali.
Misure antielusive e sanzioni. La parte certamente più interessante e innovativa della circolare è quella concernente le misure antielusive previste dall'art. 31, commi 30 e 31, della legge n. 183/2011. Il comma 30 dispone la nullità dei contratti di servizio e degli altri atti posti in essere per aggirare le regole del Patto. Il comma 31, invece, introduce sanzioni pecuniarie a carico degli amministratori e dei responsabili del servizio economico-finanziario che hanno posto in essere gli atti elusivi: ai primi le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti possono chiedere fino a dieci volte l'indennità di carica percepita al momento di commissione dell'elusione, ai secondi fino a tre mensilità di stipendio. Secondo la circolare, si configura una fattispecie elusiva del Patto ogni qualvolta siano attuati comportamenti che, pur legittimi, risultino intenzionalmente e strumentalmente finalizzati ad aggirare i vincoli di finanza pubblica.
Ne consegue che risulta fondamentale la finalità economico-amministrativa del provvedimento adottato (e la relativa motivazione). La circolare offre, al riguardo, un interessante analisi casistica. Innanzitutto, l'elusione è spesso realizzata attraverso l'utilizzo dello strumento societario, ad esempio quando spese valide ai fini del Patto sono poste al di fuori del bilancio dell'ente per trovare evidenza in quello delle società da esso partecipate. Frequenti anche i casi di evidente sottostima dei costi dei contratti di servizio tra l'ente e le sue diramazioni societarie e para-societarie, nonché l'illegittima traslazione di pagamenti dall'ente a società esterne partecipate, realizzate attraverso un utilizzo improprio delle concessioni e riscossioni di crediti. Altre comuni modalità di elusione sono rappresentate dall'impropria imputazione di poste in sezioni di bilancio, come le «partite di giro», dalla sovrastima delle entrate correnti e dal ricorso ad accertamenti di entrate fittizie.
La circolare cita, ancora, l'imputazione delle spese di competenza di un esercizio finanziario ai bilanci dell'esercizio o degli esercizi successivi, ovvero quali oneri straordinari della gestione corrente (debiti fuori bilancio). Infine, sono da ritenersi elusive, nell'ambito delle valorizzazioni dei beni immobiliari, anche le operazioni poste in essere dagli enti locali con le società partecipate per reperire risorse finanziarie senza giungere ad una effettiva vendita del patrimonio.
Tali pratiche sono oggetto di un doppio controllo: da un lato, le verifiche della Corte dei conti, che possono estendersi all'esame della natura sostanziale delle entrate e delle spese escluse dai vincoli in applicazione del principio generale di prevalenza della sostanza sulla forma; dall'altro, quelle che la Rgs provvede ad effettuare, tramite i servizi ispettivi di finanza pubblica, per accertare la regolarità della gestione amministrativo-contabile delle amministrazioni pubbliche.
Pesanti le sanzioni per gli enti inadempienti, che potranno essere irrogate anche a distanza di tempo, qualora la violazione emerga successivamente all'anno seguente a quello cui essa si riferisce. Chi non rispetta il Patto incappa, innanzitutto, nella decurtazione del fondo sperimentale di riequilibrio (o dei trasferimenti, per gli enti locali siciliani e sardi) fino al 3% delle entrate correnti registrate nell'ultimo consuntivo; in caso di incapienza, dei predetti fondi l'ente è tenuto a versare le somme residue, presso la competente sezione di tesoreria provinciale dello Stato. Le altre sanzioni sono il blocco totale delle assunzioni, il divieto di ricorrere all'indebitamento e l'obbligo di contenere gli impegni di spese correnti entro la media dell'ultimo triennio.
Infine, per gli amministratori in carica nell'esercizio in cui è avvenuta la violazione del Patto, è previsto il taglio delle indennità e dei gettoni di presenza, che dovranno essere ridotti del 30% rispetto all'ammontare risultante alla data del 30.06.2010; la circolare precisa che tale riduzione si applica agli importi effettivamente erogati nel 2010 e quindi comprensivi anche della eventuale riduzione del 30% operata in caso di mancato rispetto del Patto negli anni precedenti. Le sanzioni sono ridotte a favore della provincia e del comune di Milano, nel caso in cui la violazione dipenda dagli oneri derivanti dall'organizzazione dell'Expo 2015.
Tesoreria. È stata riproposta la norma che autorizza il Mef ad adottare misure di contenimento dei prelevamenti effettuati dagli enti locali sui conti di tesoreria statale, qualora si registrino scostamenti rispetto agli obiettivi del Patto. Tale misura, tuttavia, assume tutt'altra valenza rispetto al passato, alla luce del previsto (dal recente dl 1/2012) ritorno al vecchio regime «accentrato» di tesoreria unica.
Patto regionalizzato. Per il 2012 sono confermate le disposizioni in materia di Patto regionalizzato verticale ed orizzontale grazie alle quali le province e i comuni soggetti possono beneficiare di maggiori spazi finanziari ceduti, rispettivamente, dalla regione e dagli altri enti locali. La tempistica dei due strumenti è, però, disallineata: mentre per il Patto verticale potrà essere attuato entro il 31 ottobre, per il quello orizzontale la dead line è fissata al 30 giugno, termine evidentemente irrealistico se si pensa che esso coincide con la scadenza per l'approvazione dei preventivi fissata dalla legge di conversione del milleproroghe.
Va, però, segnalato che un ordine del giorno votato dal Senato nel corso dei lavori relativi a quest'ultimo provvedimento impegna il governo a ridefinire il timing, spostando i predetti termini, rispettivamente, al 30 novembre ed al 31 ottobre.
A partire dal 2013, invece, è prevista l'introduzione del cd Patto regionale integrato, in base al quale le regioni potranno concordare con lo Stato le modalità di raggiungimento dei propri obiettivi e di quelli degli enti locali del proprio territorio (articolo ItaliaOggi del 17.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOAumenti solo se si lavora di più. Compiti aggiuntivi giustificano incrementi per i dirigenti. L'effetto del combinato disposto delle previsioni sui tetti dettate dal decreto 78 del 2010.
La retribuzione di posizione dei dirigenti e dei titolari di posizione organizzativa non può aumentare, tranne che siano loro affidati compiti aggiuntivi. Un aumento può venire probabilmente sulla retribuzione di risultato dalla utilizzazione di una quota dei risparmi derivanti dai piani di razionalizzazione e riorganizzazione.
È questo l'effetto determinato dal «combinato disposto» delle previsioni dettate dal dl n. 78/2010 sul tetto al trattamento economico individuale e del divieto di aumentare la misura di questa indennità in caso di cambio o di conferma del dirigente, nonché della possibilità prevista dal dl n. 98/2011 di aumentare i fondi per la contrattazione decentrata con le risorse derivanti dalla concretizzazione dei piani di risparmio. Da ricordare inoltre che il legislatore ha disposto il divieto di aumentare i fondi per la contrattazione decentrata integrativa, sia dei dirigenti che dei dipendenti, con il che si determina una ulteriore limitazione della possibilità di accrescere il salario accessorio di dirigenti e posizioni organizzative.
Quindi, i vertici delle amministrazioni pubbliche non possono contare sulla possibilità di aumentare il proprio trattamento economico, visto che per il triennio 2011/2013 è stato anche stabilito il blocco della contrattazione collettiva e, quindi, degli stipendi. E l'unica possibilità di aumento si ha con la realizzazione degli obiettivi di risparmio fissati dall'ente ed a condizione che quest'ultimo destini una quota, non superiore al 50%, alla incentivazione del personale e dei dirigenti.
Per il triennio 2011/2013 l'articolo 9 del dl n. 78/2010 dispone che il trattamento economico individuale dei dipendenti pubblici non possa aumentare rispetto all'anno 2010. Questo vincolo riguarda non solo lo stipendio, ma anche le forme di salario accessorio che hanno un carattere non occasionale, che non sono strettamente collegate ad attività svolte e che non sono collegate a modifiche delle mansioni. Per cui, come è stato chiarito dalla Ragioneria generale dello stato, la indennità di posizione sia dei dirigenti che dei titolari di posizione organizzativa non può essere modificata in aumento.
Le eccezioni sono costituite dalla variazione dei compiti assegnati alle figure di vertice delle amministrazioni, variazioni che devono determinare un aumento delle responsabilità. Il che, di regola, non può che determinare diminuzioni del trattamento accessorio dei dirigenti e dei titolari di posizione organizzativa che hanno avuto una riduzione delle responsabilità. In conseguenza di questa disposizione una modifica della «pesatura» delle posizioni dirigenziali e predirigenziali con aumento del salario accessorio in presenza di una invarianza dei compiti assegnati non è da ritenere come legittima. Per i dirigenti questo divieto assume un carattere che deve essere considerato come permanente e non limitato esclusivamente al triennio 2011/2013.
Occorre inoltre considerare che, sulla base della lettura delle previsioni contrattuali date dall'Aran e dalla sezione giurisdizionale della Corte dei conti della Campania, la remunerazione del conferimento ad interim di incarichi ai dirigenti può essere remunerata solamente con un aumento della retribuzione di risultato e non con l'incremento di quella di posizione.
Oltre all'aumento dei compiti, un aumento del salario accessorio dei dirigenti e delle posizioni organizzative può probabilmente arrivare dai risparmi derivanti dalla concretizzazione dei piani di razionalizzazione e riorganizzazione, sulla base delle previsioni di cui all'articolo 16 del dl n. 98/2011. Ricordiamo che questa norma consente agli enti di destinare non più della metà dei proventi derivanti dalla concretizzazione dei piani di risparmio alla incentivazione del personale, riservando il 50% di questi aumenti alle fasce di merito, che per il resto sono state rinviate al nuovo contratto nazionale. La disposizione non prevede espressamente la possibilità di destinare queste risorse anche alla incentivazione dei dirigenti e dei titolari di posizione organizzativa; ma il dettato normativo sembra consentirlo nella forma dell'incremento del fondo per la contrattazione decentrata e, quindi, della indennità di risultato.
Occorre comunque che questa possibilità sia chiarita e sia, inoltre, precisato se negli enti senza i dirigenti queste risorse possano incrementare anche la retribuzione di posizione dei responsabili (articolo ItaliaOggi del 17.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Una serie di risposte sui rapporti tra amministrazione e assessore-socio. Incompatibilità esclusa. Se non c'è un contratto tra ditta e comune.
Un assessore comunale al commercio e alle attività produttive ha preso parte a due delibere di giunta nelle quali si è disposto, nella prima, la concessione di un contributo a favore di una parrocchia del cui consiglio per gli affari economici egli è componente; nella seconda, l'assegnazione di una quota parte degli oneri di urbanizzazione secondaria ad un ente di cui lo stesso è presidente e legale rappresentante. Inoltre l'ente locale ha affidato un'attività concernente beni di proprietà del comune ad una ditta, costituita da una società di persone, all'interno della quale l'assessore è un «socio non addetto alle lavorazioni». In tali casi esiste l'ipotesi d'incompatibilità ex art. 63, comma 1, nn. 1 e 2 dlgs 267/2000? Nelle prime due circostanze rappresentate è ravvisabile la violazione del dovere di astensione di cui all'art. 78 del Tuoel?
Quanto alla prima delibera, se l'assessore non riveste alcuna carica di amministratore, bensì è componente del consiglio per gli affari economici della parrocchia, che ha solo funzioni consultive, per tale ipotesi non sono rinvenibili profili di incompatibilità, per carenza del requisito soggettivo previsto dal citato art. 63, comma 1, n. 2 Tuoel.
Inoltre non è stato violato il dovere di astensione da parte dell'amministratore locale a prender parte alla discussione e alla votazione delle delibere riguardanti la parrocchia, in quanto il dovere di astensione di cui al citato comma 2 dell'art. 78 fa riferimento esclusivamente alle delibere riguardanti interessi propri o di parenti e affini sino al quarto grado, né la parrocchia può essere ricompresa fra le aziende comunali amministrate o soggette all'amministrazione o vigilanza del comune.
Quanto al secondo quesito, se l'ente in questione non è soggetto a vigilanza da parte del comune e questo contribuisce alla sovvenzione dell'ente con una percentuale inferiore al 10% delle entrate complessive, non si può configurare un'ipotesi d'incompatibilità ai sensi dell'art. 63, comma 1, n. 1 del dlgs 267/2000.
In merito, poi, alla violazione dell'obbligo di astensione di cui al comma 2 dell'art. 78 -anche qualora si assuma che la delibera non riguarda interessi propri dell'amministratore e il suo voto favorevole sia comunque irrilevante nell'adozione della delibera, in quanto adottata all'unanimità dalla giunta comunale- si osserva che la norma citata mira a prevenire il conflitto d'interessi ed è finalizzata a salvaguardare il buon andamento e l'imparzialità dell'attività dell'ente locale, che ricorre ogniqualvolta vi sia una correlazione immediata e diretta tra la situazione personale del titolare della carica pubblica e l'oggetto specifico della deliberazione (intesa come attività volitiva a rilevanza esterna).
A tal proposito la sentenza 7050 – IV sez. del 04/11/2003, del Consiglio di stato ha evidenziato che la regola dell'astensione dell'amministratore deve trovare applicazione in tutti i casi in cui egli, per ragioni di ordine obiettivo, non si trovi in posizione di assoluta serenità rispetto alla decisione da adottare. Lo stesso Consesso ha successivamente ribadito che «_ la regola che vuole l'astensione dei soggetti interessati è di carattere generale e tende a evitare che, partecipando gli stessi alla discussione e all'approvazione del provvedimento, essi possano condizionare nel complesso la formazione della volontà dell'assemblea, concorrendo a determinare un assetto complessivo dello stesso provvedimento non coerente con la volontà che sarebbe scaturita senza la loro presenza_» (Cfr. C. d. S., IV, sent. 21.06.2007, n. 3385, cit.).
Rileva in materia, inoltre, in ogni caso, la personale responsabilità politica e deontologica dei soggetti interessati, tenuti tutti, come i pubblici amministratori, ad adottare comportamenti improntati all'imparzialità e al principio di buona amministrazione, in virtù di quanto espressamente dispone il 1° comma del richiamato art. 78 del T.u. In ordine al terzo caso prospettato non è ravvisabile l'ipotesi d'incompatibilità di cui all'art. 63, comma 1, n. 2 del dlgs 267/2000, in quanto non sussiste un rapporto contrattuale particolare tra la ditta e il comune.
L'art. 63, comma 1, n. 2 del dlgs 267/2000 stabilisce che non può ricoprire cariche elettive locali colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento abbia parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune. La fattispecie contrattuale rappresentata, pertanto, non configura un rapporto di «durata», cioè non sussiste nell'ipotesi in questione il requisito previsto dalla disposizione normativa che consiste nella partecipazione, diretta o indiretta, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune.
Sono, inoltre, irrilevanti tanto la circostanza che l'amministratore in questione sia un socio non partecipante all'attività lavorativa dell'impresa, quanto la circostanza che la società sia una società di persone, circostanza che assumerebbe rilievo in presenza di un contratto di appalto o di servizi (articolo ItaliaOggi del 17.02.2012).

ENTI LOCALI: Nuovo patto, premiati i virtuosi. Obiettivi differenziati e gioco a somma zero per gli sconti. La circolare della Ragioneria generale dello stato sui vincoli della nuova legge di stabilità.
Patto di stabilità con un occhio di riguardo per gli enti virtuosi. Vincoli di bilancio meno stringenti per le amministrazioni con più autonomia finanziaria, bilanci equilibrati e buona capacità di riscuotere le proprie entrate. E dal prossimo anno, regole di finanza pubblica applicate anche ai comuni tra 1.001 e 5 mila abitanti e alle aziende speciali.
Con la circolare 14.02.2012 n. 5, diramata ieri, la Ragioneria generale dello stato ha fornito le indicazioni operative di inizio anno, che tengono conto della nuova disciplina del Patto contenuta nella legge di stabilità 2012. Alle province, il Patto chiede 1.200 mln di euro per il 2012 e 1.300 mln a partire dal 2013, mentre i comuni sono chiamati a contribuire, rispettivamente, per 4.200 e 4.500 mln.
Gli obiettivi 2012 sono stati alleggeriti grazie ai proventi della Robin Hood tax (150 mln per le province e 520 per i comuni) e al fondo di cui all'art. 20, comma 3, del dl 98/2011 (20 mln alle province e 65 ai comuni), ma l'effetto di tali misure è già incorporato nei coefficienti per il calcolo. Non sono più previsti sconti generalizzati. Buone notizie solo per gli enti (sono circa 70) coinvolti nella sperimentazione dei nuovi sistemi contabili, che potranno spartirsi una torta da 20 mln, ma soprattutto per quelli che saranno identificati come virtuosi.
Enti virtuosi. È questa la novità più significativa. Agli enti che verranno collocati nella prima classe di merito (in origine ne erano previste 4, poi ridotte a 2) sarà richiesto uno sforzo più modesto. La selezione sarà operata da un decreto del Mef sulla base dei 4 parametri previsti dall'art. 20, comma 2, del dl 98/2011 sopravvissuti alla novella operata dalla legge 183/2011, ovvero: 1) rispetto del Patto; 2) autonomia finanziaria; 3) equilibrio di parte corrente; 4) rapporto tra riscossioni e accertamenti delle entrate di parte corrente.
Obiettivi differenziati. Il meccanismo di calcolo degli obiettivi, che continuano a essere declinati in termini di competenza mista (accertamenti e impegni per la parte corrente, riscossioni e pagamenti per la il conto capitale), è stato costruito per tenere conto della presenza di due classi di enti.
Poiché i virtuosi non sono ancora stati individuati, è stato necessario prevedere due sottofasi. Nella prima, che scatta subito, si determineranno i target per gli enti; successivamente, si procederà a differenziarli, migliorando quelli dei virtuosi e peggiorando quelli dei non virtuosi. Il gioco deve essere a somma zero e il peso degli sconti riservati ai primi sarà a carico dei secondi.
Nella prima sottofase, si assume come parametro di riferimento la spesa corrente media in termini di impegni registrata nel triennio 2006-2008. Applicando a tale valore (desunto dai consuntivi), il prescritto coefficiente si ottiene l'obiettivo. Per le province, il coefficiente è pari al 16,5% per il 2012 e al 19,7% dal 2013, mentre per i comuni è fissato, rispettivamente, al 15,6 e al 15,4%.
La seconda sottofase scatterà con l'individuazione degli enti virtuosi, che potranno limitarsi a raggiungere un saldo obiettivo pari a 0 o a un valore leggermente superiore (comunque più basso di quello imposto agli altri): la legge 183/2011, infatti, ha previsto che la maggiorazione dei coefficienti di calcolo degli obiettivi dei non virtuosi, necessaria per compensare gli sconti ai virtuosi, non possa superare lo 0,4%. Le percentuali, pertanto, potranno arrivare fino al 16,9% ed al 20,1% per le province e al 16% e 15,8 per i comuni.
Poiché il bilancio di previsione deve essere coerente con il Patto fin dalla sua approvazione, la circolare suggerisce a tutti gli enti di utilizzare prudenzialmente, nelle more dell'individuazione dei virtuosi, i coefficienti maggiorati previsti per i non virtuosi, apportando in seguito le opportune rettifiche.
Sterilizzazione dei tagli. Ai fini del calcolo degli obiettivi, i non virtuosi potranno portare in detrazione rispetto al prodotto del coefficiente di calcolo e della spesa corrente media 2006-2008 il taglio previsto (inizialmente a valere sui trasferimenti erariali e ora a carico del fondo sperimentale di riequilibrio) dall'art. 14 del dl 78/2010. Il relativo riparto sarà definito con dm e nelle more gli enti possono agevolmente stimare il taglio aggiuntivo 2012 applicando al taglio 2011 il coefficiente 66,67%.
La circolare tace sul trattamento degli ulteriori tagli previsti dal dl 201/2011 (pari a 415 milioni per le province e a 1.450 milioni per i comuni). Il Mef, rispondendo ai quesiti di alcuni enti, ha precisato che tali importi non possono essere sottratti dagli obiettivi del Patto, con evidente, ulteriore penalizzazione per gli enti.
Enti soggetti. Per il 2012 sono assoggettati al Patto le province e i comuni con più di 5 mila abitanti, mentre a decorrere dall'anno prossimo entreranno anche i comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5 mila abitanti, i quali, peraltro, già da quest'anno devono tenere conto dei relativi vincoli in sede di predisposizione del bilancio pluriennale.
Dal 2013 il Patto sarà esteso anche ad aziende speciali e istituzioni, mentre per le società in house il Mef dovrà definire regole ad hoc. Dal 2014, infine, dovrebbero essere assoggettate anche le unioni obbligatorie per i comuni con meno di 1.000 abitanti. Ma la partita legata alla riforma di cui all'art. 16 del dl 138/2011, quasi certamente sarà rinviata ai supplementari dal Milleproroghe (articolo ItaliaOggi del 16.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

CONSIGLIERI COMUNALIAmbito, modalità e limiti alla revoca degli assessori degli enti territoriali.
La questione di diritto sottesa al gravame in trattazione consiste nello stabilire la natura, l’ambito ed i confini del potere di revoca degli assessori da parte dei vertici delle amministrazioni territoriali, le garanzie esigibili dai revocandi, ed i limiti del sindacato esercitabile su tali atti da parte del giudice amministrativo.
Su tutti questi punti il Consiglio di Stato nella sentenza in esame non si è discostata dal consolidato compendio dei principi elaborati dalla giurisprudenza (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 25.08.2011, n. 4905; sez. V, 27.07.2011, n. 4502; sez. V, 27.04.2010, n. 2357; sez. V, 12.10.2009, n. 6253; sez. V, 27.08.2009, n. 4378/ord.; sez. V, 15.07.2009, n. 3646/ord.; sez. V, n. 21.01.2009, n. 280), secondo cui:
a) gli atti di nomina e revoca degli assessori degli enti territoriali non hanno natura politica in quanto non sono liberi nella scelta dei fini essendo sostanzialmente rivolti al miglioramento della compagine di ausilio al vertice dell’ente e sottoposti alle eventuali specifiche prescrizioni dettate dalle fonti primarie e secondarie (in particolare gli statuti degli enti medesimi);
b) la valutazione degli interessi coinvolti nel procedimento di revoca di un assessore è rimessa in via esclusiva al titolare politico dell’amministrazione, cui competono in via autonoma la scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi per l’amministrazione dell’ente nell’interesse della comunità locale;
c) il merito delle opzioni politiche sottese alla scelta operata dal vertice istituzionale sono rimesse unicamente alla valutazione dell’organo consiliare di controllo;
d) attesa la natura ampiamente discrezionale del provvedimento di revoca dell’incarico di assessore, la relativa motivazione può basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico-amministrativa rimesse in via esclusiva al vertice dell’ente, in quanto aventi ad oggetto un incarico fiduciario; pertanto la motivazione dell’atto di revoca può anche rimandare esclusivamente a valutazioni di opportunità politica;
e) il sindaco ha l’onere formale di comunicare al consiglio comunale la decisione di revocare un assessore ex art. 46 cit., visto che è soltanto quest’ultimo organo che potrebbe opporsi (tramite una mozione di sfiducia) all’atto di revoca;
f) il procedimento di revoca dell’incarico assessorile deve essere semplificato al massimo per consentire una immediata soluzione della crisi politica nell’ambito del governo dell’ente territoriale, pertanto l’inizio di tale procedimento non deve essere comunicato all’interessato, ai sensi dell’art. 7, l. n. 241 del 1990, restando del tutto indifferente acquisire la sua opinione;
g) nella materia in questione il giudice amministrativo è sfornito del sindacato di merito tassativamente previsto dalla legge per altre ipotesi (cfr. art. 134 cod. proc. amm.) ed il suo controllo sull’esercizio della funzione pubblica è condizionato dal connotato latamente politico della scelta che, pertanto, è insindacabile in sede di legittimità se non per profili puramente formali concernenti:
   I) la violazione di specifiche disposizione normative dettate per la nomina e la revoca degli assessori;
   II) la manifesta abnormità e discriminatorietà del provvedimento oggetto di impugnativa.
Facendo applicazione dei suesposti principi al caso di specie il Consiglio di Stato ha ritenuto che il riferimento del sindaco alle mutate esigenze programmatiche, ovvero a fattori squisitamente politici, integra adeguata motivazione della revoca e che il ricorrente non ha provato, pur essendone onerato ai sensi dell’art. 2697, co. 1, c.c. (ora art. 64, co. 1, cod. proc. amm.), il carattere discriminatorio della revoca (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.02.2012 n. 803 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl giudice nel processo avverso gli atti di gara non può sostituirsi alla stazione appaltante nella valutazione sul merito dell'offerta presentata dai partecipanti salvo il caso di macroscopici errori.
Nel processo avverso gli atti di gara pubblica non è consentito al giudice amministrativo sostituirsi alla stazione appaltante nella valutazione sul merito dell'offerta presentata dall'impresa partecipante, con una illegittima invasione degli spazi riservati all'Amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 28.03.2011, n. 1862).
L'ambito del controllo giurisdizionale in detta materia non può, dunque, essere esteso al merito amministrativo, benché ciò non voglia dire che le scelte effettuate dall'Amministrazione siano sottratte anche al controllo di legittimità, cioè alla verifica che le medesime siano conformi alle norme ed ai principi che regolano l'esercizio della discrezionalità, e non siano invece il frutto di valutazioni macroscopicamente incoerenti o irragionevoli, così da comportare un vizio della funzione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16.02.2009, n. 837) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.02.2012 n. 799 
- massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConcessione edilizia in sanatoria su area sottoposta a vincolo ambientale-paesaggistico: il parere dell'organo preposto alla tutela del vincolo non e' immediatamente impugnabile ma solo unitamente al provvedimento finale.
Diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice ad avviso del Consiglio di Stato la concessione edilizia in sanatoria in ordine ad un manufatto realizzato su area sottoposta a vincolo ambientale–paesaggistico presuppone, a termini dell’art. 32 della Legge n. 47 del 28.02.1985, il parere dell’organo preposto alla tutela del vincolo e i provvedimenti successivamente adottati costituiscono atti necessari e non superflui.
Il parere dell'organo preposto non ha natura provvedimentale e non è l’atto conclusivo del procedimento attivato con la istanza di permesso di costruire o di sanatoria edilizia presentate all’amministrazione comunale, ma è un atto di natura endoprocedimentale che ha effetti sulla determinazione conclusiva del procedimento, di spettanza dell’autorità adita. Il parere, quantunque vincolante, non è immediatamente lesivo e non è, in quanto tale, suscettibile di impugnazione autonoma in via giurisdizionale, ma bensì lo è unitamente al provvedimento finale concretamente lesivo della sfera giuridica del richiedente (Cons. Stato, sez. V, n. 4412/2005; n. 480/2004; n. 1511/2000; sez. VI, n. 114/1998).
In conclusione, il parere dell’organo preposto alla tutela del vincolo, reso ai sensi dell’art. 3 della legge n. 47/1985 per le opere edilizie abusive ricadenti appunto su aree sottoposte a vincolo è obbligatorio, ma l’atto che incide sulla sfera giuridica del richiedente è il provvedimento concessorio o negatorio della sanatoria richiesta (C. Stato, Sezione VI, 24.09.1996, n. 1248) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.02.2012 n. 794
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APPALTI SERVIZI: Negli appalti di servizi e' inammissibile l'offerta contrattuale se le quote di partecipazione all’ATI e le parti del servizio da eseguire non sono indicate già in sede di offerta e la singola impresa componente dell’ATI non abbia la qualifica, ovvero i requisiti di ammissione, in misura corrispondente alla quota di partecipazione.
Il Consiglio di Stato interviene nuovamente sulla dibattuta questione concernente il criterio di corrispondenza tra quota di qualificazione, quota di partecipazione e quota di esecuzione (anche) negli appalti di servizi (v. sentenze 11.05.2011 n. 2804 e 15.07.2011 n. 4323) nel senso di richiedere che le quote di partecipazione all’ATI e le parti del servizio da eseguire siano indicate già in sede di offerta, anche in assenza di una espressa previsione del bando o della lettera d’invito, e che la singola impresa componente dell’ATI abbia la qualifica, ovvero i requisiti di ammissione, in misura corrispondente alla quota di partecipazione, il tutto a garanzia della stazione appaltante e del buon esito del programma contrattuale nella fase di esecuzione.
Dalla mancata osservanza di tale obbligo –che, si è affermato, discende dall’art. 37, commi 4 e 13, del Codice dei contratti e che trova applicazione anche ai raggruppamenti di tipo orizzontale- deriva la conseguenza che l’offerta contrattuale, che provenga da un’associazione di più imprese in termini che non assicurino la predetta, effettiva, corrispondenza, è inammissibile, perché comporta l’esecuzione della prestazione da parte di un’impresa priva (almeno in parte) di qualificazione in una misura simmetrica alla quota di prestazione ad essa devoluta dall’accordo associativo ovvero dall’impegno delle parti a concludere l’accordo stesso (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 16.02.2012 n. 793 
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VARI: CASSAZIONE/ No alla duplicazione in azienda. Imprenditori in cella se copiano i software.
Rischia il carcere l'imprenditore che compra un software con una sola licenza e poi lo copia per installarlo sulle macchine aziendali. Vìola la legge sul diritto d'autore anche un solo back up.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione -Sez. III penale- che, con la sentenza 15.02.2012 n. 5879, ha reso definitiva la condanna a quattro mesi (e 1.000 euro di multa) pronunciata dalla Corte d'Appello di Bologna a carico di un imprenditore.
L'uomo aveva acquistato un programma Microsoft con una sola licenza e poi lo aveva copiato per installarlo su tutte le macchine aziendali.
Per questo erano scattate la accuse a suo carico: violazione delle norme poste a tutela del diritto d'autore.
Contro la doppia conforme di merito lui ha presentato ricorso in Cassazione ma senza successo. La terza sezione penale lo ha dichiarato inammissibile.
In particolare ad avviso degli Ermellini, la ricostruzione del fatto operata dalla Corte bolognese conduce a ritenere che l'imprenditore abbia acquistato una sola copia di ciascuno dei nove programmi informatici prodotti dalla «Microsoft Co» e di ciascun originale abbia poi effettuato plurime copie che ha installato su più computer della sua azienda.
In particolare, la sentenza di primo grado, che i giudici di appello richiamano in punto di fatto e che la Cassazione ha esaminato «attesa la continuità fra le due decisioni di condanna», afferma che sui fatti contestati e asseverati dai risultati peritali l'imputato ha reso piena ammissione, con la conseguenza che, alla luce delle conclusioni della sentenza di appello, «tali profili debbono essere considerati fuori discussione e si rende palesemente infondata la prospettazione difensiva contenuta nel secondo motivo di ricorso sia con riferimento alla sola copia di “back up” sia con riferimento ad asserite deficienze dell'accertamento tecnico».
Dunque correttamente i giudici di merito hanno escluso che la contestazione attribuisca rilievo alla presenza o meno del marchio Siae e hanno ritenuto che «la condotta illecita contestata e accertata consista esclusivamente nella illecita duplicazione dei programmi al fine di essere utilizzati su plurimi apparecchi; si tratta di violazione prevista dalla prima parte del primo comma dell'arti 71-bis della legge 22.04.1941, n. 633».
Anche la Procura generale della Suprema corte, nell'udienza tenutasi al Palazzaccio lo scorso 19 dicembre, ha chiesto la conferma della condanna (articolo ItaliaOggi del 16.02.2012).

ATTI AMMINISTRATIVIIn materia ambientale la legittimazione a ricorrere spetta anche alle persone fisiche.
Ad avviso del Consiglio di Stato in materia ambientale va riconosciuta la legittimazione a ricorrere anche delle persone fisiche in quanto ciò si palesa in linea con l’orientamento della giurisprudenza secondo cui la legittimazione in materia ambientale va riconosciuta in base al criterio della “prossimità dei luoghi interessati”, ovvero della sussistenza di uno “stabile collegamento” con la zona interessata dalla realizzazione dell’opera (cfr. da ultimo Cons. St. VI, 16.09.2011, n. 5192) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 15.02.2012 n. 784 
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PUBBLICO IMPIEGOIl dipendente pubblico non può rivendicare la retribuzione di prestazioni poste in essere senza autorizzazione in surplus rispetto all'orario di lavoro seppur effettuate per apprezzabili scopi.
Con riferimento alla domanda diretta al corresponsione di somme per le prestazioni rese in surplus dal dipendente pubblico, il Consiglio di Stato ha affermato che occorre accertare se l’attività svolta in plus orario e/o quale lavoro straordinario avesse a presupposto specifiche ordinanze e/o autorizzazioni in tal senso, posto che le PP.AA., come unanimemente riconosciuto, agiscono, in specie nei rapporti di lavoro, attraverso specifiche valutazioni delle esigenze organizzative e di servizio da constare in atti formali, anche a sanatoria ma sempre motivata, a tutela dell’erario e dello stesso personale, che non può quindi rivendicare la retribuzione di prestazioni poste in essere autonomamente seppure per asseriti apprezzabili scopi.
D’altra parte l’ordinamento, proprio a scanso della paventata responsabilità, offre più strumenti sollecitatori dell’attività amministrativa della P.A., non essendo consentita la “sostituzione” dell’Amministrazione ad opera del dipendente soprattutto se l’organizzazione del servizio riguarda direttamente il dipendente che svolge funzioni apicali.
E' indubbio che le prestazioni in surplus necessitano di un preventivo atto di autorizzazione, quanto meno ai fini della giustificazione della spesa a carico del bilancio dell’Amministrazione, non potendosi erogare somme che non trovino copertura, formale e sostanziale, in un esplicito provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 15.02.2012 n. 783 
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ATTI AMMINISTRATIVINon solo l'Agenzia delle Entrate ma anche il concessionario per la riscossione (ad esempio Equitalia) non possono rifiutare l'accesso del contribuente al ruolo integrale sulla cui base e' stata emessa la cartella di pagamento.
La vicenda attenzionata dal Consiglio di Stato riguarda l'appello proposto da una concessionaria per la riscossione contro la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto da una società volto a far dichiarare il suo diritto all’accesso mediante rilascio di copia, tra l'altro, dell’originale del ruolo che aveva dato luogo all’emissione di una cartella di pagamento.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l'appello affermando che il contribuente vanta un interesse concreto ed attuale all’ostensione di tutti gli atti relativi alle fasi di accertamento, riscossione e versamento, dalla cui conoscenza possano emergere vizi sostanziali procedimentali tali da palesare l’illegittimità totale o parziale della pretesa impositiva (in tal senso, l’art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241 del 1990).
La giurisprudenza ha chiarito che il divieto di accesso agli atti del procedimento tributario, sancito dall'art. 24 l. 07.08.1990 n. 241, va inteso secondo una lettura costituzionalmente orientata, alla stregua della quale l'inaccessibilità agli atti in questione è temporalmente limitata alla sola fase di pendenza del procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento di adozione del provvedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta, sulla base degli elementi reddituali che conducono alla quantificazione del tributo (in tal senso: Cons. Stato, IV, 11.02.2011, n. 925; id., 13.01.2010, n. 53).
Ciò posto nella vicenda in esame il Collegio ha ritenuto che in via di principio un tale interesse sussisteva in capo alla ricorrente in ordine agli atti all’origine dei fatti di causa. Per quanto concerne, in particolare, la richiesta di copia del ruolo integrale, il Collegio ha ritenuto che non si può affermare che un siffatto interesse viene meno per essere stato notificato al contribuente un estratto del ruolo. Al contrario, è dal carattere di ‘estratto’ del documento posto a disposizione del contribuente che emerge l’interesse in capo a questi a disporre del documento integrale, al fine di verificare l’effettiva coincidenza fra le risultanze del ruolo integrale e quelle trasfuse nell’estratto.
Affermare il contrario (ossia, basare il diniego di accesso sull’asserita continenza del meno –l’estratto del ruolo– nel più –il ruolo integrale-) vale a consentire all’Amministrazione finanziaria e all’agente della riscossione di opporre un generalizzato quanto apodittico divieto di accesso, non consentendo in alcun modo al contribuente di fornire la prova contraria, la quale resterebbe comunque nell’esclusiva disponibilità dell’Amministrazione. Infine, il Consiglio di Stato ha rigettato l'eccezione di carenza di legittimazione passiva del concessionario della riscossione nell’ambito delle domande per l’accesso, il quale sarebbe consentito unicamente nei confronti del soggetto che ha formato il ruolo (l’Agenzia delle entrate).
Al contrario, non si può negare che verso l’agente della riscossione la domanda di accesso possa certamente essere formulata, ai sensi dell’articolo 25, comma 2, l. n. 241 del 1990, secondo cui la domanda di accesso deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il documento ovvero (come nel caso in esame) nei confronti di quella che “lo detiene stabilmente” (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.02.2012 n. 766 
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ATTI AMMINISTRATIVIIl decorso del tempo non fa venir meno il potere di intervento della P.A. con atti che incidono sulle posizioni di legittimo affidamento del privato purché venga assolto l'obbligo di specifica motivazione.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha rilevato come i poteri dell’Amministrazione volti alla cura di interessi di rilievo pubblico non vengono meno col decorso del tempo.
La giurisprudenza ha affermato l’obbligo di corredare di specifica motivazione l’atto che incide a notevole distanza di tempo su una situazione di legittimo affidamento del privato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.02.2012 n. 755 
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PUBBLICO IMPIEGOSvolgimento di mansioni superiori: individuazione del differente trattamento, anche ai fini retributivi, del dipendente pubblico rispetto al dipendente privato.
Il prevalente indirizzo giurisprudenziale esclude la corresponsione del trattamento economico, corrispondente a funzioni superiori alla qualifica di appartenenza, in assenza di esplicite disposizioni normative al riguardo.
La questione sottoposta all’esame del Collegio concerne infatti la nota problematica dello svolgimento di funzioni superiori, rispetto a quelle proprie della qualifica di appartenenza: questione da tempo oggetto di contenzioso, sotto il duplice profilo del riconoscimento sia del superiore livello professionale di fatto raggiunto, sia del trattamento economico corrispondente alle mansioni svolte.
Sotto il primo profilo, è oggetto di pacifica giurisprudenza l’inammissibilità della pretesa, in quanto riferita ad una posizione lavorativa definita con provvedimento autoritativo di inquadramento, quale atto di carattere auto-organizzatorio contestabile entro gli ordinari termini di decadenza, con correlativa posizione di interesse legittimo non suscettibile di azione di accertamento (Cons. St., Ad .Plen. 20.03.1989, n. 8 e successiva giurisprudenza pacifica; cfr., fra le tante, Cons. St., sez. IV, 17.12.1991, n. 1124 e 17.04.1990, n. 279; sez. VI, 10.04.1997, n. 573).
Per quanto riguarda, inoltre, la retribuzione delle mansioni superiori alla qualifica di fatto svolte, il Collegio stesso ritiene condivisibile l’indirizzo giurisprudenziale, largamente prevalente per il periodo che qui interessa, che nega in ordine all’espletamento di dette mansioni – per il periodo di cui trattasi – qualsiasi rilevanza anche economica. (cfr. in tal senso Cons. St., sez. IV, 29.01.1993, n. 119, 22.02.1993, n. 203, 14.05.1993, n. 536, 30.06.1993, nn. 646, 647 e 648; 13.06.1994, nn. 492 e 493; sez. V, 23.11.1994, n. 1362, 18.01.1995, n. 89, 22.03.1995, n. 452, 30.04.1997, n. 429, 17.05.1997, n. 515, nonché Ad. Plen. 18.11.1999, n. 22).
In rapporto a quanto sopra, sembra opportuno sottolineare come il quadro normativo di riferimento vedesse -quale principio generale, per i rapporti di lavoro instaurati presso pubbliche amministrazioni- l’affermazione di un vero e proprio diritto del dipendente stesso all’esercizio delle funzioni, inerenti alla qualifica formalmente rivestita (art. 31, c.1, D.P.R. n. 3/1957), con ben precise regole per il passaggio a qualifiche funzionali diverse, essendo oggetto di consolidata giurisprudenza -anche prima di esplicitazioni legislative al riguardo- che sia l’immissione nei ruoli dell’Amministrazione, sia il successivo sviluppo della carriera debbano avvenire per concorso, tenuto conto della peculiarità ed indisponibilità degli interessi, inerenti all’attività dei pubblici funzionari (cfr. al riguardo Cons. St., sez. V, 30.04.1997, n. 429).
Il trattamento economico dei dipendenti in questione, inoltre, è correlato ad una capacità di diritto pubblico e non di diritto comune dell’Ente datore di lavoro, con conseguente inderogabilità del medesimo, di modo che il pagamento spettante a titolo di retribuzione può avvenire solo nei modi e con l’entità previsti dalla legge, tenuto conto degli atti di inquadramento nelle qualifiche (Cons. St., sez. V, 09.04.1994, n. 272; 18.01.1995, n. 89 e 17.05.1997, n. 515).
Può essere dunque individuato, in base alle argomentazioni sinora svolte, uno dei più significativi punti di diversificazione fra lavoratori, che operino presso un soggetto pubblico o privato, essendo applicabile solo nei confronti di quest’ultimo l’art. 2103 cod. civ. - nel testo sostituito dall’art. 13 L. 20.05.1970, n. 300, ritenuto inestensibile al rapporto di pubblico impiego (Cons. St. sez. V, 11.01.1985, n. 12 e 10.06.1982, n. 521; sez. VI, 07.07.1981, n. 392, Corte Cost. ord. 23.12.1987, n. 601; Cons. St., sez. VI, 31.03.1987, n. 217; Cons. St., sez. V, 05.10.1987, n. 604, 02.12.1987, n. 937; 10.06.1982, n. 52 e 07.07.1981, n. 392). Detta diversificazione trova ragione profonda nella sostanziale assenza per gli apparati pubblici del rischio di impresa e comunque in una specifica scelta legislativa.
Nemmeno appare invocabile nella materia di cui trattasi l’art. 36 della Costituzione, sia per assenza di un diritto soggettivo in rapporto agli atti con cui l’Amministrazione ha proceduto all’organizzazione dei propri uffici, predisponendo la pianta organica ed operando i relativi inquadramenti (Cons. St. sez. V, 11.01.1985, n. 12), sia perché detta norma costituzionale pone solo un parametro di riscontro, per verificare che in sede legislativa o regolamentare non siano state operate discriminazioni fra lavoratori, e non sorregge anche la pretesa ad una retribuzione superiore rispetto a quella normativamente spettante (Cons.St., Ad. Plen. 05.05.1978, n. 16 e 04.11.1977, n. 17; Cons. St. sez. IV, 15.10.1990, n. 768; sez. V, 22.03.1995, n. 452; 24.05.1996, n. 587; 30.04.1997, n. 429; 17.05.1997, n. 515), sia infine perché la retribuzione è collegata non solo alla “quantità”, ma anche alla “qualità” del lavoro svolto: requisito, quest’ultimo, che non può essere presunto senza alcun nesso con la riconosciuta idoneità allo svolgimento di una certa prestazione lavorativa.
Rilevano a quest’ultimo riguardo numerose pronunce della Corte dei Conti (cfr. C.d.C., sez. II, 23.01.1991, n. 58 e 09.10.1989, n. 242), secondo le quali l’assunzione, da parte di pubblici dipendenti, di mansioni superiori alla qualifica comporterebbe un danno erariale, non potendo ritenersi utili, per l’Amministrazione, prestazioni lavorative rese in maniera difforme da quella prevista dall’ordinamento (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.02.2012 n. 748
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ATTI AMMINISTRATIVILa violazione dei principi comunitari non e' un motivo di nullità del provvedimento amministrativo.
La violazione del diritto comunitario implica solo un vizio di legittimità, con conseguente annullabilità dell'atto amministrativo.
L’art. 21-septies l. 07.08.1990, n. 241, introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15, ha posto un numero chiuso di ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo e non vi rientra la violazione del diritto comunitario (Cons. Stato, VI, 31.03.2011, n. 1983; 22.11.2006, n. 6831; 31.05.2008, n. 2623) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.02.2012 n. 750
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ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATALa motivazione degli atti amministrativi costituisce, per pacifica giurisprudenza, uno strumento di verifica del rispetto dei limiti della discrezionalità, anche allo scopo, costituzionalmente garantito, di far conoscere agli interessati le ragioni che impongono le restrizioni delle rispettive sfere giuridiche o che ne impediscono l'ampliamento. È, quindi, attraverso la motivazione che si rende possibile il sindacato di legittimità da parte del giudice amministrativo sull’attività funzionale dell’amministrazione.
Consegue da ciò che, ove l'organo competente per il rilascio del permesso di costruire si discosti, sia pure in parte, dalle risultanze dell'istruttoria condotta da altri organi o uffici (nella specie, dal parere favorevole rilasciato dall’Ufficio edilizia privata, nella persona del responsabile del procedimento), lo stesso deve indicare nella motivazione del provvedimento le ragioni della mancata adesione a quanto rappresentato dall’ufficio dotato di competenza specifica in materia.

Ai sensi dell’art. 3 della legge n. 241/1990: <<1. Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l'organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato, … 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria>>.
La motivazione degli atti amministrativi costituisce, per pacifica giurisprudenza, uno strumento di verifica del rispetto dei limiti della discrezionalità, anche allo scopo, costituzionalmente garantito, di far conoscere agli interessati le ragioni che impongono le restrizioni delle rispettive sfere giuridiche o che ne impediscono l'ampliamento. È, quindi, attraverso la motivazione che si rende possibile il sindacato di legittimità da parte del giudice amministrativo sull’attività funzionale dell’amministrazione.
Consegue da ciò che, ove l'organo competente per il rilascio del permesso di costruire si discosti, sia pure in parte, dalle risultanze dell'istruttoria condotta da altri organi o uffici (nella specie, dal parere favorevole rilasciato dall’Ufficio edilizia privata, nella persona del responsabile del procedimento), lo stesso deve indicare nella motivazione del provvedimento le ragioni della mancata adesione a quanto rappresentato dall’ufficio dotato di competenza specifica in materia (cfr. in caso analogo, TAR Sicilia Palermo, sez. II, 13.02.2001, n. 206).
E’ pur vero che, nel caso in esame, accanto al parere favorevole dell’ufficio edilizia privata è stato richiamato anche quello sfavorevole della commissione edilizia, ma proprio quest’ultimo si è rivelato inidoneo a rappresentare le ragioni della contrarietà del progetto in contestazione a “quegli interessi pubblici dei quali le norme del regolamento edilizio sono espressione” (cfr. Consiglio di Stato IV, 04.10.2011, n. 5443, riportata nella memoria di parte resistente. Nella cit. decisione, in effetti, è stato ritenuto legittimo l’operato dell’amministrazione proprio sul presupposto che la stessa non avesse negato il titolo edilizio per “questioni prettamente estetiche”, avendo fatto legittima applicazione di norme del regolamento edilizio).
Nel caso in esame, invece, il contenuto del predetto parere (del 30.06.2011) –in disparte i profili di contraddittorietà lamentati dalla società rispetto a quanto in precedenza (nel parere del 05.05.2011) rappresentato a proposito della eliminazione della copertura a falde– non consente di comprendere quali siano le norme tecniche violate dall’intervento in questione (cfr. da ultimo TAR Trentino Alto Adige Trento, sez. I, 24.11.2010, n. 226, per cui: <<Il giudizio che la Commissione Edilizia Comunale è chiamata ad esprimere sul rispetto dei criteri di tutela ambientale non si traduce nell'espressione di una discrezionalità amministrativa, in quanto non è diretto ad una ponderazione degli interessi finalizzata alla scelta della soluzione più satisfattiva dell'interesse pubblico dell'Amministrazione, ma in una valutazione di carattere sostanzialmente tecnico, che ricorre quando l'Amministrazione, per provvedere su un determinato oggetto, deve applicare norme tecniche cui una norma giuridica conferisce rilevanza diretta o indiretta>>; cfr. altresì, TAR Liguria Genova, sez. I, 20.04.2010, n. 1834, per cui: <<È illegittimo il diniego di sanatoria di opere di chiusura parziale di una tettoia, in mancanza di una puntuale motivazione sul giudizio estetico negativo che deve fare riferimento a precisi aspetti previsti e disciplinati dalla normativa edilizia o paesaggistica>>).
Sicché, anche a prescindere dal tenore letterale dell’atto finale, nel caso che qui occupa non è possibile, neanche attraverso l’esame dei documenti elaborati in fase istruttoria, ricavare elementi sufficienti ed univoci dai quali inferire le concrete ragioni e l'iter motivazionale della determinazione assunta (cfr. Consiglio di stato, sez. V, 20.05.2010, n. 3190).
Ne consegue che, l’amministrazione dovrà rideterminarsi sulla domanda di permesso di costruire presentata dalla società, previa acquisizione di un nuovo parere da parte della competente commissione edilizia, che tenga conto dei criteri contenuti nel Regolamento edilizio comunale.
Indi, l’organo deputato all’adozione del provvedimento finale dovrà motivare le ragioni della propria determinazione, specie ove la stessa si discosti dalle risultanze dell’istruttoria, secondo quanto in precedenza evidenziato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.02.2012 n. 543 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATALa legittimazione a ricorrere avverso i provvedimenti in materia edilizia richiede una situazione di stabile collegamento (cd. vicinitas) con la zona, data dalla residenza, dal possesso o detenzione di immobili o da altro titolo di collegamento con l'ambito territoriale interessato.
Tale situazione, quindi, deve essere necessariamente intesa non come stretta contiguità, bensì come stabile e significativo collegamento, da verificare caso per caso, del ricorrente con la zona il cui ambiente s'intende proteggere.

Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, la legittimazione a ricorrere avverso i provvedimenti in materia edilizia richiede una situazione di stabile collegamento (cd. vicinitas) con la zona, data dalla residenza, dal possesso o detenzione di immobili o da altro titolo di collegamento con l'ambito territoriale interessato.
Tale situazione, quindi, deve essere necessariamente intesa non come stretta contiguità, bensì come stabile e significativo collegamento, da verificare caso per caso, del ricorrente con la zona il cui ambiente s'intende proteggere (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 31.03.2011, n. 1979) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.02.2012 n. 537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl decorso del termine annuale di decadenza del titolo edilizio presuppone l'efficacia del titolo stesso, con l'effetto che la sospensione, disposta dal Comune, arresta al contempo la possibilità dell'interessato di porre in essere una legittima attività edilizia ed il procedere del tempo assegnato per darvi inizio.
... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 67840 dell’01.08.1991 del Sindaco di Salerno, che ha decretato la decadenza della concessione edilizia commissariale n. 191/1989, ...
...
Assume rilievo viziante, con assorbimento di ogni altra censura, quanto articolato dal ricorrente al secondo motivo di ricorso a proposito della insussistenza del presupposto dell’impugnato provvedimento, ovverosia l’inerzia del titolare della concessione edilizia. Invero, come può agevolmente desumersi dalla narrazione dei fatti di causa, il lasso temporale di un anno per l’inizio dei lavori assentiti mediante titolo edilizio a norma dell’art. 31, comma 11, della l.n. 1150/1942, è stato interessato nel caso di specie da taluni provvedimenti interdittivi emessi dal Comune di Salerno che hanno impedito il naturale inizio dei lavori, peraltro oggetto di comunicazione da parte del ricorrente già in data 7 agosto 1989.
Invero il Sindaco di Salerno ha disposto in data 07.09.1989 la sospensione dei lavori, con ordinanza n. 229, mentre, in data 03.12.1990, è stato effettuato il sequestro del cantiere ad opera della Polizia Municipale.
La giurisprudenza (TAR Toscana Firenze, sez. III, 12.07.2010, n. 2447) ha avuto modo di affermare, del tutto condivisibilmente, che “il decorso del termine annuale di decadenza del titolo edilizio presuppone l'efficacia del titolo stesso, con l'effetto che la sospensione, disposta dal Comune, arresta al contempo la possibilità dell'interessato di porre in essere una legittima attività edilizia ed il procedere del tempo assegnato per darvi inizio” (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 10.02.2012 n. 188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Ingegneri junior abilitati a progettare nelle zone sismiche.
Il Consiglio di stato abilita gli ingegneri e gli architetti junior a operare «in proprio senza collaborare o concorrere con alcuno». Seppure in alcune precise attività.
Con la recente sentenza 09.02.2012 n. 686, infatti, i giudici di Palazzo Spada -Sez. IV- stabiliscono che gli iscritti alla sezione B dell'Albo hanno autonoma capacità progettuale e che questa è estesa alle zone sismiche purché, certo, si operi nell'ambito «di costruzioni civili semplici e con l'utilizzo di metodologie standardizzate». La vicenda prende il via da un progetto di un'abitazione rurale presentato da un ingegnere junior a un comune e al Servizio Sismico della Regione. Il prospetto non era stato autorizzato perché le amministrazioni competenti avevano ritenuto che la progettazione in zona sismica non rientrasse nella sua competenza.
Così l'ingegnere, con il sostegno del Sind.In.Ar 3, il Sindacato nazionale ingegneri juniores e architetti juniores, aveva fatto ricorso al Tar. Il Tribunale regionale, però, ricorrendo in un difetto di forma, aveva rigettato il ricorso. Il Cds seppure partendo dagli stessi principi contenuti nel provvedimento in questione e ricordando le competenze contenute nel dpr 328/01 rispettivamente degli iscritti alle sezioni A e B, sottolinea che l'elencazione delle attività attribuite agli iscritti ai diversi settori delle due sezioni ha il solo scopo di ripartire le competenze, esplicitando quelle maggiormente caratterizzanti la professione.
I giudici di Palazzo Spada, dunque, nella sentenza concordano sull'assenza, nelle norme che disciplinano l'attività degli juniores, di qualsivoglia preclusione alle costruzioni in area sismica e dicono, pur riconoscendo la specificità della progettazione in area sismica, che è necessaria una valutazione caso per caso dei progetti in zona sismica, che tenga conto in concreto dell'opera prevista, delle metodologie di calcolo utilizzate, e che potrà essere tanto più rigida quanto maggiore sia il rischio sismico in cui l'area è classificata.
E in questo caso, dice la sentenza, tale valutazione è del tutto mancata. I giudici di ultimo grado, quindi, hanno accolto l'appello e annullato il diniego obbligando l'amministrazione a ripronunciarsi sul progetto (articolo ItaliaOggi del 16.02.2012).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza della clausola di concessione edilizia che impone l’inizio dei lavori entro un anno dal rilascio e della clausola che subordina l’inizio dei lavori comportanti “la mutazione dei suoli nella loro natura ivi compreso il naturale deflusso delle acque superficiali” all’ottenimento del n.o. idrogeologico, l’unica interpretazione che permette di evitare l’intrinseca illogicità del provvedimento è quella di ritenere che il termine di un anno sia sospeso sino al rilascio del n.o. idrogeologico.
Sicché è illegittimo il provvedimento del comune che ha dichiarato la decadenza della concessione edilizia nel presupposto che i lavori non siano stati iniziati nel termine di un anno dal suo rilascio e ingiunto alla ricorrente il ripristino dello stato dei luoghi.

... per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione dell’ordinanza n. 40 del 09.05.2005 recante decadenza della concessione edilizia n. 348 del 23.04.2001 e intimazione al ripristino dello stato dei luoghi e di ogni altro atto e/o provvedimento presupposto, connesso e /o consequenziale e per la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni.
...Il Collegio condivide le argomentazioni della ricorrente in punto di interpretazione coordinata e sistematica della clausole della concessione edilizia nel senso che, in presenza della clausola che imponeva l’inizio dei lavori entro un anno dal rilascio e della clausola che subordinava l’inizio dei lavori comportanti “la mutazione dei suoli nella loro natura ivi compreso il naturale deflusso delle acque superficiali” all’ottenimento del n.o. idrogeologico, l’unica interpretazione che permette di evitare l’intrinseca illogicità del provvedimento è quella di ritenere che il termine di un anno fosse sospeso sino al rilascio del n.o. idrogeologico.
In questa prospettiva sarebbe inutile chiedersi se a impedire la decadenza fossero sufficienti i lavori compatibili con il punto 4, a) della concessione il cui inizio è stato comunicato dalla ricorrente sin dal 24.04.2001, tanto più che non è chiarito in cosa questi lavori consistessero e francamente appare dubitabile che fossero possibili lavori non incidenti sul naturale deflusso delle acque (anche l’eliminazione della vegetazione e il semplice scavo per le fondazioni incide sul deflusso delle acque).
E’ più corretto ritenere che la concessione implicasse per la Monte Ducale l’onere di attivarsi per ottenere il n.o. idrogeologico, coltivando il relativo procedimento, e che per il periodo di pendenza di tale procedimento il termine di inizio dei lavori fosse sospeso; né potrebbe sostenersi che in capo alla ricorrente gravasse l’onere di compulsare la provincia di Latina attraverso atti di diffida et similia e l’instaurazione del giudizio sul silenzio, dato che l’obbligo di concludere il procedimento effettivamente discende dalla legge che le amministrazioni sono obbligate a rispettare e dall’amministrato può pretendersi solo la normale diligenza nel coltivare il procedimento (cosa che non risulta che la Monte Ducale non abbia fatto) (TAR Lazio-Latina, sentenza 09.02.2012 n. 104 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOSe la traccia è errata candidato subito all'orale.
Se la traccia del concorso verte su argomenti non compresi nel programma esplicitato nel bando, il concorso è da rifare. E nel frattempo, il candidato bocciato allo scritto sulla base della traccia errata, va ammesso alle prove orali.
È quanto si evince dalla sentenza 08.02.2012 n. 54 del TAR Basilicata.
La questione riguardava un concorso promosso da un ente a partecipazione interamente pubblica, la Società energetica lucana, che aveva indetto un concorso per il reclutamento di un ingegnere.
Alla selezione si erano presentati solo dieci aspiranti, tra cui il ricorrente, che però non aveva superato le prove scritte. Di qui l'esperimento dell'azione giudiziale e l'ammissione con riserva alle prove orali del ricorrente in via d'urgenza. Già in sede cautelare, infatti, il collegio aveva ritenuto che la non ammissione del ricorrente alle prove orali fosse immotivata (ordinanza sospensiva 251/2010).
E adesso il Tar, in sede di giudizio di ottemperanza, ha spiegato il perché. Secondo i giudici amministrativi, ferma la discrezionalità tecnica della commissione d'esame, nel caso di specie l'illegittimità rilevava fin dall'origine. La traccia, infatti, non era conforme al programma indicato nel bando, perché verteva su argomenti non compresi in tale programma. Di qui la conferma dell'ammissione alle prove scritte.
Quanto agli effetti della sentenza, il collegio ha spiegato che essi non vanno oltre l'ammissione alle prove. E ciò vale anche se il candidato ammesso con riserva abbia superato le prove. L'assunzione vera e propria, infatti, potrà avvenire solo dopo che la sentenza sarà passata in giudicato. Perché alle sentenze del giudice amministrativo si applica l'articolo 366 del codice civile (effetto espansivo esterno).
E quindi c'è sempre il rischio che nei successivi gradi di giudizio possa intervenire una riforma della sentenza di primo grado in senso sfavorevole al ricorrente. Riforma che, qualora dovesse verificarsi, estenderebbe i suoi effetti anche ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza di I grado. In ciò vanificando anche le prove d'esame già effettuate dal ricorrente.
A nulla rilevando la valutazione positiva delle prove concorsuali svolte in esecuzione della pronuncia di primo grado «trattandosi di provvedimento destinato a venir meno in virtù della riforma della sentenza» (articolo ItaliaOggi del 17.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZI: E' consentita la partecipazione dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali alla prima gara svolta per l'affidamento del medesimo servizio anche in presenza di altri affidamenti in corso (art. 23-bis, c. 9, del d.l. n. 112/2008).
In caso di società affidatarie dirette di più servizi pubblici locali, il legislatore (art. 23-bis, c. 9, del d.l. n. 112/2008) non ha imposto la cessazione di tali affidamenti come condizione per partecipare alla "prima gara", ma si è limitato a consentire tale partecipazione a condizione, appunto, che fosse la "prima gara svolta per l'affidamento, mediante procedura competitiva ad evidenza pubblica, dello specifico servizio già a loro affidato". Deve ritenersi maggiormente coerente con la ratio della disciplina all'epoca vigente l'interpretazione, secondo cui la partecipazione alla prima gara per l'affidamento dello stesso servizio già affidato è possibile anche in presenza di altri affidamenti in corso, comunque destinati a nuove anticipate scadenze.
Una diversa interpretazione condurrebbe a ritenere che le società affidatarie dirette di più servizi non possano partecipare alle nuove gare, anche se gli affidamenti stanno progressivamente scadendo, finché tale condizione non si realizzi per tutti gli affidamenti, rispetto ai quali è anche dubitabile che le società possano unilateralmente sciogliersi dai vincoli contrattuali (solo il vigente art. 4 del d.l. n. 138/2011 ha previsto, come condizione per la partecipazione degli affidatari diretti alle nuove gare, che "sia stata indetta la procedura competitiva ad evidenza pubblica per il nuovo affidamento del servizio o, almeno, sia stata adottata la decisione di procedere al nuovo affidamento attraverso la predetta procedura") (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.02.2012 n. 640 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il certificato di agibilità non assume alcun rilievo sotto il profilo urbanistico edilizio, assolvendo all'esclusiva funzione di controllo sanitario-urbanistico rispetto alla concessione edilizia a monte rilasciata e con opere concluse.
Sicché, il ricorso proposto avverso quest’ultimo non è ammissibile in quanto il rilascio del certificato di agibilità non può causare alcun effetto lesivo nei confronti del ricorrente (avendo tale certificato l'esclusiva funzione di accertare la rispondenza di quanto concretamente realizzato rispetto alla normativa esistente in epoca ante 1967, nonché ad accertare il rispetto delle condizioni igienico-sanitarie).

L’impugnazione avverso il certificato di agibilità contrasta altresì con l'orientamento giurisprudenziale che ha rilevato come il certificato di agibilità non assuma “alcun rilievo sotto il profilo urbanistico edilizio, assolvendo all'esclusiva funzione di controllo sanitario-urbanistico rispetto alla concessione edilizia a monte rilasciata e con opere concluse” (TAR Sardegna Cagliari, 26.11.2002, n. 1699)
Da ciò ne discende che il ricorso, proposto avverso quest’ultimo non sia ammissibile, in quanto il rilascio del certificato di agibilità non può causare alcun effetto lesivo nei confronti del ricorrente (avendo tale certificato l'esclusiva funzione di accertare la rispondenza di quanto concretamente realizzato rispetto alla normativa esistente in epoca ante 1967, nonché ad accertare il rispetto delle condizioni igienico-sanitarie).
Peraltro, l'assenza di legittimazione, in capo al terzo, ad impugnare il certificato di agibilità è stata affermata dalla giurisprudenza addirittura in relazione alla mancata osservanza, all'interno degli edifici, dei requisiti di carattere igienico-sanitario necessari per il rilascio del certificato, in quanto ritenuto provvedimento non lesivo di alcun interesse di terzi (cfr. Tar Lombardia, sez. Brescia, 26-05-1992, n. 498) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 26.01.2012 n. 146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI  - INCARICHI PROFESSIONALI: Delibera della Giunta comunale con cui si affida un incarico professionale. Illegittimità per omesso esperimento di una procedura di evidenza pubblica e per incompetenza dell’esecutivo comunale.
E’ illegittima una deliberazione con la quale la Giunta comunale ha affidato ad un ingegnere, in via diretta, l’incarico professionale per la realizzazione del piano strutturale comunale; detto provvedimento, infatti, da una parte, in ossequio ai principi generali di concorrenza "per il mercato", avrebbe dovuto essere adottato dall’ente locale rispettando le regole che presiedono allo svolgimento delle procedure di evidenza pubblica e, dall’altra, è illegittimo per incompetenza della Giunta in quanto, pur trattandosi di una attività di gestione, gli atti del procedimento sono stati adottati non dall’organo burocratico ma dall’organo politico, con conseguente violazione dell’art. 107 del D.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico sull’ordinamento degli enti locali) (massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,  sentenza 31.12.2011 n. 1680 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Potere della commissione giudicatrice di introdurre elementi di specificazione dei criteri generali di valutazione delle offerte e fissare il metodo di attribuzione dei punteggi.
Nel caso di gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la commissione giudicatrice può introdurre elementi di specificazione e integrazione dei criteri generali di valutazione delle offerte già indicati nel bando di gara o nella lettera d'invito, oppure fissare sottocriteri di adattamento di tali criteri o regole specifiche sulle modalità di valutazione, a condizione però che vi provveda prima dell'apertura delle buste recanti le offerte stesse e che non introduca nuovi elementi di valutazione non previsti dal bando (1). In particolare, è ammissibile che la commissione di gara, prima dell'apertura dei plichi contenenti le offerte, specifichi i criteri motivazionali previsti dal bando (2).
Nel caso di gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, può ritenersi ammesso che la commissione di gara fissi la metodologia di attribuzione dei punteggi, per rendere più trasparente il proprio apprezzamento, a garanzia della par condicio dei concorrenti; la mancata fissazione dei criteri motivazionali, d'altra parte, non inficia l'operato della medesima commissione, ove quest'ultima fornisca comunque un'argomentata motivazione circa i giudizi formulati.
Il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, disciplinato dalla normativa comunitaria e nazionale, non presuppone inderogabilmente una puntualizzazione dei criteri di valutazione delle offerte a tal punto dettagliati da predeterminare in maniera rigida e stringente il giudizio sulle singole voci, quasi a trasformarsi, anche in rapporto alla valutazione del merito tecnico, in un criterio automatico di selezione; invero, l'art. 83, del D.L.vo n. 163 del 2006 impone alla stazione appaltante di valutare le offerte secondo parametri attinenti all'oggetto dell'appalto sotto il profilo quantitativo (prezzo, costo di utilizzazione, redditività, data di consegna, termine di esecuzione) e sotto il profilo qualitativo (qualità, pregio tecnico, caratteristiche estetiche, funzionali ed ambientali, servizio successivo, assistenza tecnica).
Nel caso di gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per ciò che concerne l'esame dell'aspetto qualitativo, la stazione appaltante, onde identificare in concreto l'offerta economicamente più vantaggiosa, può considerare ogni singolo elemento offerto, valutandone ogni concreta ed effettiva caratteristica e qualità con diretta incidenza ed utilità rispetto a quello da aggiudicarsi, trattandosi pur sempre dell'aspetto qualitativo dell'offerta e dovendosi scegliere quella concretamente più vantaggiosa per la p.a. (3).
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(1) Corte di Giust., sez. II, 24.11.2005, C-331/04, secondo cui la commissione di gara può integrare e specificare i criteri di bando, con il solo limite di non poter introdurre nuovi criteri di qualificazione, né modificare i limiti di punteggio massimo e minimo stabiliti nel bando.
(2) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 13.07.2010 n. 4502; sez. V, 16.06.2010 n. 3806; sez. VI, 17.05.2010 n. 3052; sez. VI, 11.03.2010 n. 1443; sez. V, 15.02.2010 n. 810
(3) Cons. Stato, sez. VI, 15.09.2011, n. 5157; sez. V, 08.09.2008, n. 4271; 11.05.2010, n. 2826
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 13.12.2011 n. 1281 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: CONSIGLIO DI STATO/ Concessioni edilizie. Il costo di costruzione segue l'immobile.
Il costo di costruzione? Segue l'immobile, non le persone. Chi chiede la concessione edilizia ma poi la cede a un terzo non può essere «inseguito» come debitore dal Comune per il pagamento dell'onere: è escluso, infatti, che si configuri una responsabilità solidale tra chi ha soltanto chiesto il titolo abilitativo e chi lo ha concretamente utilizzato.
È quanto emerge dalla sentenza 30.11.2011 n. 6333 della V Sez. del Consiglio di stato.
Si conclude con la netta sconfitta dell'ente locale la controversia che riguarda un'area edificabile in un comune brianzolo.
Ha sbagliato l'amministrazione per anni a «perseguitare» il cittadino chiedendogli il versamento di una somma in realtà non dovuta (la vicenda, fra l'altro, ha origine quasi trentacinque anni orsono). In base all'articolo 3 della legge 10/1977 la concessione edilizia comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione e al costo di costruzione.
Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il costo di costruzione è una prestazione patrimoniale di natura impositiva e trova la sua ratio nell'incremento patrimoniale che il titolare del permesso di costruire consegue in dipendenza dell'intervento edilizio: la condizione di esigibilità, quindi, è la sussistenza di un titolo abilitativo valido ed efficace e la concreta fruizione del titolo da parte del concessionario, vale a dire la circostanza che la costruzione risulti effettivamente realizzata; deve pertanto essere escluso che chi ha chiesto la voltura della concessione edilizia a un terzo subito dopo l'ottenimento possa essere ritenuto soggetto obbligato per legge al versamento del contributo commisurato al costo di costruzione: il cittadino del comune brianzolo, nella specie, non ha nemmeno ritirato il titolo.
Deve infine essere smentita anche l'ipotesi di una responsabilità solidale successiva alla voltura della concessione: la solidarietà, infatti, si configura quando più debitori sono per legge o per titolo obbligati tutti per la stessa prestazione (articolo 1292 Cc), sicché non c'è solidarietà se manca in uno dei soggetti, pur astrattamente collegati al rapporto, la qualità di debitore.
Nel nostro caso è l'effettiva fruizione del titolo edilizio che rappresenta il fatto costitutivo della fonte dell'obbligazione pecuniaria: chi non ha utilizzato il titolo non assume neppure la qualifica di soggetto coobbligato e, dunque, non è tenuto al pagamento (articolo ItaliaOggi del 16.02.2012).

EDILIZIA PRIVATA 1. Abusi edilizi - Obbligo della P.A. di adottare provvedimenti repressivi anche a distanza di tempo - Permane.
2. Abusi edilizi - Potere sanzionatorio della P.A. in seguito ad esaurimento del potere inibitorio - Permane - Silenzio della P.A. su istanza tesa a provocare intervento repressivo a fronte di lavori abusivi conclamati tali - Illegittimità.

1. A seguito dell'accertamento di episodi di abusivismo la P.A. è obbligata ad adottare i provvedimenti repressivi previsti dall'ordinamento, mantenendo intatto nel tempo il potere sanzionatorio per verificare che i fatti denunciati e le opere eseguite siano conformi alle fattispecie regolamentari esistenti (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 986/2011).
2. La P.A., pur dopo l'esaurimento del potere inibitorio, può sempre comunque intervenire per sanzionare l'esistenza di opere abusivamente realizzate ed ordinare in proposito ciò che ritiene legittimo ed opportuno per la risistemazione della fattispecie -a seconda dei casi, ordine di demolizione, pagamento di sanzione pecuniaria, richiesta di permesso di costruire, ecc.- (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 513/2008): deve, pertanto, ritenersi impugnabile il silenzio-inadempimento serbato dalla P.A. comunale su un'istanza tesa a provocare un intervento repressivo, a fronte di lavori abusivi eseguiti da proprietari confinanti e conclamati tali a seguito della revoca in autotutela del permesso di costruire in precedenza rilasciato dall'amministrazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.11.2011 n. 2899 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Ricorso giurisdizionale - Legittimazione attiva - Comune - Ente esponenziale di interessi della collettività - Sussiste - Condizioni.
2. Ricorso giurisdizionale - Legittimazione attiva - Comune - Ente esponenziale di interessi della collettività - In caso di vicinanza di impianto di consistenti dimensioni preposto alla produzione di energia elettrica in Comune finitimo - Legittimazione ad agire - Sussiste.
3. Ricorso giurisdizionale - Legittimazione attiva - Comune - Ente esponenziale di interessi della collettività - Condizioni - Mera utilità ipotetica ed eventuale - Legittimazione ad agire - Non sussiste - Vicinitas - E' insufficiente.

1. La legittimazione a ricorrere avverso provvedimenti di altra P.A. spetta al Comune, quale ente esponenziale della comunità municipale, in tutti i casi in cui agisca a tutela di interessi collettivi, purché si tratti di interesse differenziato e qualificato, che ruota attorno all'incidenza sul territorio comunale dei provvedimenti impugnati.
E ciò, con l'ulteriore precisazione che, nel caso in cui la legittimazione sia ancorata alla vicinitas ed il Comune agisca in via surrogatoria degli interessi dei cittadini residenti nel proprio territorio, la legittimazione del Comune, dovendo modellarsi su quella ordinariamente spettante ai soggetti surrogati, postula la prospettazione di concrete ripercussioni sul territorio, in relazione alle quali i ricorrenti sono in posizione qualificata (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 492/2002, n. 98/2002; TAR Milano, sent. n. 383/2011, n. 90/2011; Cons. di Stato, sent. n. 1548/2008, n. 6657/2002).
2. La vicinanza di un impianto di consistenti dimensioni preposto alla produzione di energia elettrica, radica in capo al comune finitimo la legittimazione ad agire, poiché essa non può essere subordinata alla produzione di una prova puntuale della concreta pericolosità dell'impianto, reputandosi sufficiente la prospettazione delle temute ripercussioni su un territorio comunale collocato nelle immediate vicinanze della centrale da realizzare (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 3263/2004; TAR Roma, sent. n. 5481/2005; TAR Bari, sent. n. 1098/2003).
3. Nel caso in cui l'utilità che il Comune aspiri a conseguire dall'annullamento di piani attuativi di altro Comune finitimo sia meramente ipotetica ed eventuale -e da tali piani non derivi la localizzazione di opere che possano avere ripercussioni negative sul Comune ricorrente- non è sufficiente la condizione della vicinitas per configurare in capo al Comune la legittimazione ad agire.
Nel caso di specie, non sono stati ritenuti sufficienti a configurare la legittimazione ad agire in capo al Comune ricorrente le future implicazioni derivanti dai piani attuativi del comune finitimo, consistenti nell'inevitabile incremento di popolazione producibile dagli stessi, destinata a riversarsi anche sulle proprie strade, sui propri parchi o sulle scuole convenzionate tra i Comuni viciniori (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 9537/2010, n. 5244/2009; TAR Venezia, n. 265/2011; TAR Brescia, sent. n. 2238/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.11.2011 n. 2898 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Abuso edilizio - Onere della prova - A carico dell'autore - Sussiste - Ratio.
2. Abuso edilizio - Onere della prova - Autodichiarazione allegata alla domanda di condono edilizio - Natura - Principio di prova.
3. Abuso edilizio - Ingiunzione di demolizione - Soggetti passivi - Ingiunzione verso il proprietario non autore dell'abuso - Legittimità.

1. In materia di ripartizione dell'onere della prova, rispetto al profilo specifico della data di realizzazione delle opere da sanare, l'onere grava sul richiedente la sanatoria: ciò, perché, mentre la P.A. non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria può, invece, fornire qualche documentazione da cui si desuma che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data predetta, come ad es. fatture, ricevute, bolle di consegna, relative all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto dei materiali.
Pertanto, colui che ha commesso l'abuso non può trasferire il suddetto onere in capo alla P.A. qualora non sia in grado di fornire elementi e documenti atti a sostenere la richiesta legittima di condono edilizio (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 752/2011; TAR Milano, sent. n. 1003/2011, n. 94/2011, n. 980/2005).
2. In materia di ripartizione dell'onere della prova, rispetto al profilo specifico della data di realizzazione delle opere da sanare, l'autodichiarazione del privato allegata alla domanda di condono edilizio, attestante la ultimazione delle opere abusive entro la data prevista dalla legge, non presenta valenza probatoria privilegiata, bensì costituisce esclusivamente un principio di prova, destinato a cedere in presenza di più consistenti elementi probatori in possesso della P.A. (cfr. TAR Milano, sent. n. 1003/2011).
3. L'ordine di demolizione del manufatto abusivo è legittimamente adottato nei confronti del proprietario dell'immobile indipendentemente dall'essere egli stato anche autore dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di far valere, sul piano civile, la responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, del proprio dante causa (cfr. Cassaz. Pen., sent. n. 39322/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2011 n. 2829 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA1. Ricorso amministrativo - Legittimazione e interesse a ricorrere - Ricorso avverso piani attuativi - Condizioni - Pregiudizio specifico e interesse concreto, attuale ed immediato - Necessità.
2. Ricorso amministrativo - Legittimazione e interesse a ricorrere - Ricorso avverso provvedimenti in materia edilizia - Possibilità di ricorrere per "chiunque" - Condizioni - Situazione di stabile collegamento con la zona interessata dal provvedimento - Necessità.
3. Ricorso amministrativo - Legittimazione e interesse a ricorrere - Ricorso avverso piani urbanistici - Condizioni - Vicinitas - Non sufficienza - Effettività del danno - Necessità.

1. In materia di impugnazione di piani attuativi, la sussistenza della legitimatio ad causam postula la prospettazione di concrete ripercussioni sul territorio, in relazione alle quali il ricorrente deve porsi in una posizione qualificata: infatti, la legittimazione e l'interesse ad agire devono attenere ad una situazione personale e differenziata, nonché ad un interesse concreto, attuale ed immediato di cui il ricorrente deve essere portatore diretto (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 486/2011).
2. La possibilità riconosciuta a "chiunque" di ricorrere avverso i provvedimenti in materia edilizia, ex art. 31, comma 9, Legge n. 1150/1942, come modificato dall'art. 10, L. 06.08.1967 n. 765, deve essere intesa nel senso di consentire l'impugnativa soltanto a chi si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona, data dalla residenza, dal possesso o detenzione di immobili o da altro titolo di collegamento con l'ambito territoriale interessato (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 1189/2010, n. 9301/2009).
3. Ai fini della legittimazione all'impugnazione di piani urbanistici, anche attuativi, è necessario che l'esponente fornisca la prova non solo della vicinanza del proprio fondo a quello oggetto del piano, ma anche dell'effettività del danno derivante dall'intervento urbanistico; quanto all'incisività dell'intervento, essa non può di per sé, in mancanza di altri elementi, assurgere a prova del concreto nocumento a carico degli esponenti (cfr. TAR Milano, sent. n. 90/2011, n. 1551/2008; Cons. di Stato, sent. n. 1548/2008) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2011 n. 2824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI1. Opere strategiche - Normativa applicabile - E' disciplina speciale - Differenze dal procedimento ordinario - Possibilità di partecipazione di soggetti privati - Non sussiste.
2. Opere pubbliche - Valutazione di impatto ambientale - Finalità - Realizzazione della migliore mediazione possibile tra le esigenze funzionali dell'opera e l'impatto che la sua esecuzione effettivamente produce.
3. Opere strategiche - Valutazione di impatto ambientale - Oggetto della valutazione - Progetto preliminare - Conseguenze.
4. Opere strategiche - Valutazione di impatto ambientale - Necessità di nuovo procedimento di V.I.A. in sede di progetto definitivo - Non sussiste.

1. Il procedimento delle opere strategiche, disciplinato dalla normativa speciale -in particolare art. 3, D.Lgs. n. 190/2002 dettato in attuazione della Legge 443/2001 per la realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici di interesse nazionale, norma poi abrogata dall'art. 256, D.Lgs. 12.04.2006- diverge significativamente dall'ordinario procedimento, in quanto non è prevista alcuna forma di partecipazione dei soggetti privati; le maggiori differenze attengono, poi, al progetto preliminare, che (i) deve evidenziare tutta una serie di elementi oltre a quanto previsto nell'art. 16 della legge quadro, (ii) non è sottoposto a conferenza di servizi, (iii) comporta l'accertamento della compatibilità ambientale, (iv) viene a comportare un assoggettamento di tutti gli immobili in cui è localizzata l'opera al vincolo preordinato all'esproprio ai sensi dell'art. 10 D.P.R. 327/2001, con variazione automatica degli strumenti urbanistici vigenti.
2. La valutazione dell'impatto ambientale, quale prevista nelle indicate direttive comunitarie n. 337/85 CEE e n. 11/97/CE e dalla normativa interna di relativo recepimento, è specificamente finalizzata all'individuazione, descrizione e quantificazione degli effetti che un determinato progetto, opera o attività potrebbero avere sull'ambiente: la procedura tende ad accertare la sostenibilità ambientale degli interventi, verificando, per il singolo progetto, il suo inserimento ottimale nel territorio e realizzando la migliore mediazione possibile tra le esigenze funzionali dell'opera e l'impatto che la sua esecuzione effettivamente produce.
3. Per le opere strategiche la VIA si svolge sul progetto preliminare e non su quello definitivo: è, quindi, nel primo livello di progettazione che devono essere individuati gli elementi che possono avere una incidenza negativa sull'ambiente, in modo da poter adeguare il progetto definitivo.
Il tutto, al fine di prevenire il danno ambientale, con il passaggio da un sistema di ripristino, a valle, del danno medesimo ad un sistema di previsione-prevenzione, a monte, dello stesso nella gestione del territorio e delle risorse naturali.
4. Poiché per le infrastrutture strategiche la procedura V.I.A. viene effettuata sul progetto preliminare, in sede di progetto definitivo la Commissione competente deve limitarsi a verificare che il progetto definitivo abbia rispettato le prescrizioni contenute nel parere di compatibilità ambientale, ma non viene previsto in alcun caso un nuovo procedimento di V.I.A. (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2011 n. 2822 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI1. Legittimazione ad agire delle associazioni ambientaliste - Presupposti - Possibilità di fare valere profili di illegittimità non attinenti al profilo ambientale - Non sussiste.
2. Ricorso per motivi aggiunti - Deposito tempestivo di atti in giudizio - Termine di impugnazione - Decorrenza - Alla scadenza del termine previsto per il deposito.
1. Le associazioni ambientali sono legittimate ad impugnare atti amministrativi ritenuti illegittimi e lesivi degli interessi sostanziali degli associati, incidenti sull'ambiente, per profili relativi a questi ultimi aspetti: pertanto, non solo il provvedimento da esse impugnato deve avere una diretta e immediata rilevanza ambientale, ma devono essere dedotte censure che concernono l'assetto normativo di tutela dell'ambiente o la violazione di norme poste a salvaguardia dell'ambiente. Ciò porta ad escludere la possibilità per una associazione ambientale, già titolare di una legittimazione ex lege per la tutela dell'ambiente, di poter fare valere profili di illegittimità degli atti impugnati che non attengono appunto al profilo ambientale.
2. Nel caso di deposito di documenti in giudizio entro i termini ordinatori, essendo configurabile un onere del ricorrente di accertare in segreteria l'eventuale deposito, il termine per la proposizione di motivi aggiunti decorre dalla data del deposito stesso (cfr. TAR Perugia, sent. n. 199/2009; TAR Brescia, sent. n. 687/2006) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2011 n. 2822 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIConflitto di interessi degli amministratori locali - Dovere di astensione - Quando è configurabile - Stretta correlazione fra la previsione urbanistica e lo specifico e particolare interesse dell'amministratore o del suo parente o affine - Necessità.
Ai sensi dell'art. 78, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, Testo Unico degli Enti Locali, gli amministratori locali -nel caso di specie i consiglieri comunali- devono astenersi dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado: tuttavia, ai fini dell'astensione, si ritiene debba essere provata una stretta correlazione fra la previsione urbanistica e lo specifico e particolare interesse dell'amministratore o del suo parente o affine, per cui meri vantaggi indirettamente ottenibili dalla deliberazione non rappresentano un ostacolo alla partecipazione ed alla votazione da parte dell'amministratore stesso.
Tale interpretazione restrittiva dell'art. 78 è giustificata con la necessità di evitare, soprattutto nei piccoli comuni, la sostanziale paralisi dell'azione amministrativa che deriverebbe da un'interpretazione esageratamente formalistica del summenzionato obbligo di astensione (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 3663/2011, 133/2011, 6875/2010; TAR Milano, sent. n. 4750/2009; TAR Catanzaro, sent. n. 1386/2004) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2011 n. 2821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEDecreto di occupazione d'urgenza a seguito di dichiarazione di urgenza ed indifferibilità dell'opera - Motivazione - Non necessita.
In caso di intervenuta dichiarazione di urgenza ed indifferibilità dell'opera, il decreto di occupazione d'urgenza dei fondi oggetto della procedura espropriativa si pone quale ordinaria conseguenza, non necessitando quindi di specifica ed analitica motivazione, avendo la P.A., in un precedente atto della procedura espropriativa, già individuato le ragioni di urgenza (cfr. TAR Catanzaro, sent. n. 312/2011; TAR Milano, sent. n. 101/2011) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2011 n. 2821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATARicorso amministrativo - Legittimazione e interesse a ricorrere - Vicinitas - Insufficienza - Pregiudizio specifico - Necessità.
La vicinitas può legittimare un ricorso solo qualora per effetto della realizzazione della contestata costruzione la situazione, anche urbanistica, dei luoghi assuma caratteristiche tali da configurare una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto edilizio ed urbanistico, che il ricorrente intende invece conservare: l'esistenza della vicinitas abilita, dunque, il soggetto ad agire per il ripristino delle norme edilizie ed urbanistiche che assume violate, a condizione che vi sia un interesse al mantenimento del preesistente assetto edilizio (cfr. TAR Milano, sent. n. 1244/2011, 90/2011; TAR Trento, sent. n. 80/2011) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2011 n. 2811 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOParti comuni - Area dell'appartamento a piano terra - Non è parte comune - Area di sedime sottostante l'edificio condominiale - E' parte comune.
In materia di condominio e parti comuni, la parte comune del condominio non è l'area dell'appartamento del piano terra, bensì l'area di terreno sita in profondità su cui posano le fondamenta dell'immobile, cioè l'area di sedime sottostante l'edificio condominiale (cfr. Corte d'Appello, Roma, sent. n. 3354/2008; Cass. Civ., sent. n. 6921/2001) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2011 n. 2811 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso agli atti - Pareri o relazioni legali riservati - Possibilità di accesso - Soltanto se posti alla base del provvedimento finale.
I pareri legali o le relazioni legali riservate sono suscettibili di accesso soltanto se posti alla base del provvedimento finale, costituendone parte integrante della motivazione: in caso contrario sono sottratti all'accesso atti (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 3812/2011 e n. 2163/2004; TAR Catania, sent. n. 658/2011; TAR Napoli, sent. n. 5264/2007) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.11.2011 n. 2788 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Fascia di rispetto cimiteriale - Divieto di edificazione - Art. 338, R.D. n. 1265/1934 - Applicabilità - Non sussiste.
2. Fascia di rispetto cimiteriale - Vincolo di inedificabilità - Peculiarità.
1. Laddove la disciplina urbanistica di zona vieti qualunque edificazione all'interno della fascia di rispetto cimiteriale, non è possibile applicare la previsione dell'art. 338, R.D. n. 1265/1934, essendosi comunque in presenza di un organismo che integra una "nuova costruzione", ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e), D.P.R. n. 380/2001.
2. Il vincolo di inedificabilità derivante dalla fascia di rispetto cimiteriale deve dirsi peculiare rispetto ad analoghi vincoli, attesa la necessità di salvaguardare, tra l'altro, la tranquillità e il decoro dei luoghi di sepoltura (cd. pietas dei defunti) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2011 n. 2734 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Piscina - Contrasto con le prescrizioni di zona - Vincolo pertinenziale - Non sussiste.
Non si configura vincolo pertinenziale tra l'abitazione (cosa principale) e la piscina (pertinenza) in caso di contrasto di quest'ultima con le prescrizioni urbanistiche di zona (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2011 n. 2734 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire - Interventi relativi a manufatti interrati - Trasformazione durevole dell'area di pertinenza - Necessità del permesso di costruire - Sussiste.
Rappresentano interventi soggetti a permesso di costruire non soltanto quelli relativi a manufatti che si elevino al di sopra del suolo, ma anche quelli in tutto o in parte interrati, ove gli stessi siano volti a trasformare in modo durevole l'area di pertinenza (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2011 n. 2734 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire - Variante - Mutamento delle caratteristiche di utilizzazione dell'opera - Variante essenziale - Sussiste.
Una variante al permesso di costruire che dà luogo a un mutamento delle caratteristiche di utilizzazione dell'opera, quali quelle intercorrenti tra una piscina e un laghetto ornamentale, è riconducibile alla nozione di "variante essenziale", in toto equiparabile a un intervento di nuova costruzione, di cui all'art. 32, comma 1), lett. d), D.P.R. n. 380/2001 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2011 n. 2734 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione - Misura dell'area da acquisire - Carattere meramente indicativo - Sussiste - Art. 31, D.P.R. n. 380/2001 - Procedimento sanzionatorio - Corretta determinazione della misura.
La misura dell'area da acquisire contenuta nell'ordine di demolizione deve reputarsi meramente indicativa, in quanto la corretta determinazione potrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione, allorché sarà avviato, nell'ambito del procedimento sanzionatorio di cui all'art. 31, D.P.R. n. 380/2001, un sub-procedimento specificamente finalizzato alla precisa individuazione delle aree da acquisire gratuitamente, ai sensi del comma (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2011 n. 2734 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso agli atti - Procedimento di localizzazione di impianto - V.I.A. - Atti privi di valore provvedimentale - Carenza di interesse - Inammissibilità.
Nonostante l'ampiezza attribuita all'istituto dell'accesso agli atti (riconosciuto a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica), lo stesso non può, per abnormità della richiesta, mettere in crisi l'organizzazione dell'Ente, dovendosi ritenere, in merito al procedimento di localizzazione di una centrale di cogenerazione che potrebbe essere realizzata su un'area limitrofa ad insediamenti residenziali della ricorrente, non sussistente un interesse ad accedere agli ulteriori atti, privi di valore provvedimentale, connessi al decreto conclusivo del procedimento di valutazione d'impatto ambientale (V.I.A.) conosciuto con l'accesso (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.11.2011 n. 2661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPermesso di costruire - Impugnazione - Decorrenza del termine dalla data di inizio lavori - Non sussiste - Decorrenza del termine dalla piena conoscenza della lesività dell'opera - Sussiste.
Poiché il dies a quo del ricorso per l'annullamento prende a decorrere solo dal momento della piena conoscenza dell'adozione dell'atto lesivo, in materia edilizia la decorrenza del termine non può essere fatta coincidere con la data in cui i lavori hanno avuto inizio, in quanto il termine inizia a decorrere quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo e alla disciplina urbanistica (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.11.2011 n. 2660 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACondono edilizio - Immobile appartenente a più proprietari - Pluralità di domande di permesso di costruire in sanatoria - Limite del 20% della volumetria originaria ex L.R. n. 13/2009 - Necessità di computo con riferimento alle singole domande di sanatoria - Sussiste.
Nel caso di immobile appartenente a più proprietari che abbiano presentato separate domande di permesso di costruire in sanatoria, il limite massimo del 20% della volumetria della costruzione originaria previsto dalla L.R. n. 13/2009 deve essere computato con riferimento alle singole domande di sanatoria presentate da soggetti differenti (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.11.2011 n. 2660 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. D.I.A. - Ordine di sospensione lavori - Sopravvenuta carenza di interesse - Art. 34 c.p.a. - Interesse a un risarcimento del danno - Prospettazione - Improcedibilità.
2. D.I.A. - Annullamento di titolo edilizio - Contrasto con valori paesaggistici - Carenza di motivazione - Illegittimità.

1. Sebbene l'art. 34, c. 3, c.p.a. rimetta, nel caso di sopravvenuta carenza di interesse, al giudice di accertare "l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori", laddove tale interesse non sia stato concretizzato dalla ricorrente tramite la presentazione formale di una specifica domanda (la quale è proponibile entro il termine di cui all'art. 30, c. 5, c.p.a.) non si può affermare che competa al Giudice rilevare ex officio l'ipotetica presenza di un interesse la cui azionabilità è ancora in potere della parte interessata, né è sufficiente la semplice segnalazione in tal senso della parte per evitare che il ricorso sia dichiarato improcedibile.
2. L'annullamento di un titolo edilizio fondato proprio sul contrasto con i valori paesaggistici non può apoditticamente affermare che la realizzazione del progetto pregiudica i valori ambientali e paesaggistici, ma deve basarsi sulla esistenza di circostanze di fatto o di elementi specifici, che nel caso di specie dovrebbero essere stati individuati dalla competente Commissione del Paesaggio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.11.2011 n. 2656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIImpugnazione atti amministrativi - Motivazione del provvedimento - Pluralità di motivi - Legittimità di un solo motivo - Salvezza del provvedimento - Sussiste - Infondatezza del ricorso - Sussiste.
In caso di impugnazione giurisdizionale di atti amministrativi fondati su una pluralità di considerazioni motivazionali, ciascuna delle quali di per sé idonea a supportare la parte dispositiva del provvedimento, è sufficiente che una sola resista al vaglio giurisdizionale perché il provvedimento resti indenne e il ricorso venga dichiarato infondato (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.11.2011 n. 2655 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Piano di Recupero - Proprietario limitrofo - Limitazione della veduta - Interesse a ricorrere - Mancanza di danno - Sussiste.
2. Piano di Recupero - Violazione distanza tra gli edifici - Intervento di ristrutturazione - Art. 9 d.m. n. 1444/1968 - Sopraelevazione - Illegittimità.

1. Sussiste l'interesse a ricorrere avverso l'approvazione di un Piano di Recupero in capo al proprietario limitrofo che, lamentando la lesione dell'interesse a godere della veduta, dimostri la titolarità di una costruzione in area limitrofa a quella dell'esecuzione dei lavori, anche se non abbia fornito la prova che questi ultimi abbiano cagionato un danno.
2. Tutti gli interventi edilizi che comportino l'ampliamento di edifici all'esterno della sagoma esistente sono soggetti alla disciplina delle distanze tra gli edifici, in quanto l'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, pur riferendosi alla realizzazione di nuovi edifici è applicabile anche agli interventi di sopraelevazione e, dunque, anche alle ristrutturazioni, quando comportano un incremento dell'altezza del fabbricato, risultando conseguentemente illegittima l'approvazione del progetto di Piano di Recupero che autorizza tale ristrutturazione in violazione delle distanze minime tra gli edifici (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.11.2011 n. 2654 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Cambio di destinazione d'uso in violazione del P.R.G. - Sanzione Amministrativa - Valore degli immobili - Perizia di stima - Discrezionalità tecnica - Legittimità.
2. Cambio di destinazione d'uso in violazione del P.R.G. - Sanzione Amministrativa - Valore degli immobili - Osservatorio del Mercato Immobiliare - Organismo pubblico - Legittimità.

1. Non sussistendo radicale diversità tra la destinazione commerciale e quella terziaria, risulta legittima la perizia di stima del valore degli immobili effettuata dell'Agenzia del Territorio che, essendo espressione di discrezionalità tecnica è censurabile soltanto in caso di evidenti errori o macroscopiche illogicità, non riscontrabili nel caso di specie, risultando conseguente legittima la sanzione amministrativa impugnata.
2. Non è viziata da difetto di motivazione la perizia di stima del valore degli immobili dell'Agenzia del Territorio che richiama i dati dell'Osservatorio del Mercato Immobiliare, senza sottoporli ad adeguata valutazione, in quanto l'Osservatorio è un organismo pubblico, istituito presso l'Amministrazione Finanziaria ai fini di agevolare l'attività di stima degli immobili svolta dall'Agenzia del Territorio le cui valutazioni, seppure non vincolanti, hanno carattere di ufficialità (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.11.2011 n. 2649 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Valutazioni tecniche dell'Agenzia del Territorio - Censurabilità - Solo in caso di evidenti errori o macroscopiche illogicità.
Le valutazioni tecniche espresse dall'Agenzia del Territorio in ordine alla stima di un immobile del rappresentano manifestazione di discrezionalità tecnica, censurabile soltanto in caso di evidenti errori o macroscopiche illogicità (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.11.2011 n. 2648 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rilascio del certificato di agibilità/abitabilità - Artt. 24 e 25, D.P.R. n. 380/2001 - Sanzione pecuniaria ex art. 53, L.R. 12/2005 - Autonomia dei procedimenti - Sussiste - Ritardo nel rilascio del certificato - Illegittimità del provvedimento sanzionatorio - Non sussiste.
Il procedimento di rilascio del certificato di agibilità/abitabilità, di cui agli artt. 24 e 25, D.P.R. n. 380/2001, e il procedimento di irrogazione della sanzione pecuniaria di cui all'art. 53, L.R. 12/2005, appaiono autonomi e distinti fra loro, per cui l'eventuale ritardo nel rilascio del certificato stesso può dare luogo alla responsabilità risarcitoria dell'Amministrazione, ma non incide sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.11.2011 n. 2648 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Condono edilizio - Zone soggette a vincolo idrogeologico - Art. 32, comma 27, D.L. n. 269/2003 - Sanabilità - Non sussiste.
2. Condono edilizio - Zone soggette a vincolo idrogeologico - Mancato accertamento di compatibilità dell'immobile con le ragioni del vincolo - Discrezionalità della P.A. - Non sussiste.
3. Condono edilizio - Riscossione dell'I.C.I. sull'immobile abusivo - Ammissione di regolarità dell'opera - Non sussiste.

1. A norma dell'art. 32, comma 27, D.L. n. 269/2003, gli abusi edilizi realizzati in zone soggette a vincolo idrogeologico non sono in alcun caso sanabili, non potendo limitarsi l'applicazione della norma soltanto ai casi di contrasto urbanistico e non anche a quelle di rilievo meramente edilizio.
2. Deve ritenersi corretto l'operato dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo che non abbia svolto accertamenti sulle caratteristiche dell'immobile oggetto dell'istanza di condono che insiste in area sottoposta a vincolo idrogeologico, al fine di valutare la sua eventuale compatibilità con le ragioni del vincolo stesso, non disponendo, al riguardo, l'amministrazione di alcun margine di discrezionalità.
3. La riscossione dell'I.C.I. sull'immobile abusivo da parte del Comune non rappresenta ammissione, neppure implicita, di regolarità dell'opera realizzata, a fronte dell'illecito permanente rappresentato dalla persistenza nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio, che preserva il potere-dovere dell'Amministrazione di intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.11.2011 n. 2618 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ordinanze contingibili e urgenti - Necessità di una situazione di effettivo pericolo di danno grave e imminente per l'incolumità pubblica non ordinariamente fronteggiabile - Sussiste - Necessità di approfondita istruttoria e motivazione - Sussiste.
Il potere sindacale di emanare ordinanze contingibili e urgenti, tali da prescindere anche dalle comunicazioni preventive di avvio del procedimento ex art. 7 e ss., L. n. 241/1990, richiede l'imprescindibile sussistenza di una situazione di effettivo pericolo di danno grave e imminente per l'incolumità pubblica, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva, debitamente motivato a seguito di adeguata e approfondita istruttoria (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.10.2011 n. 2579 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADenuncia di inizio attività - Impugnazione del terzo - Necessità di proporre azione ex art 29 cod. proc. amm. - Sussiste - Decorrenza del termine decadenziale dalla piena conoscenza dell'atto lesivo - Sussiste.
Il terzo leso da una d.i.a. deve esperire un'azione impugnatoria ex art 29 cod. proc. amm., da proporre nell'ordinario termine decadenziale, decorrente dal momento della piena conoscenza dell'atto lesivo, e quindi, in edilizia, quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.10.2011 n. 2482 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAViolazione delle distanze e della disciplina urbanistica - Proprietari confinanti - Legittimazione al ricorso - Sussiste -Rilevanza del possibile futuro utilizzo dell'area - Non sussiste.
Il criterio della "vicinitas" e il danno concreto risentito dai confinanti dalla realizzazione dell'opera in ritenuta violazione delle distanze e della disciplina urbanistica integrano la legittimazione al ricorso e l'interesse concreto ed attuale all'impugnativa, mentre non ha alcun rilievo il possibile futuro utilizzo dell'area (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.10.2011 n. 2482 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAImpianto di autolavaggio - Realizzazione - Rappresenta nuova costruzione ex art. 3, comma 1, lett. e.5), D.P.R. n. 380/2001.
La realizzazione di un impianto di autolavaggio ricade nel novero degli interventi di nuova costruzione di cui all'art. 3 comma 1, lett. e.5), D.P.R. n. 380/2001, trattandosi di manufatto stabilmente infisso al suolo e dotato di allacciamenti fognari, elettrici e idrici (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.10.2011 n. 2482 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICADelibera C.I.P.E. di approvazione progetto urbanistico - Ente rappresentativo di interessi diffusi - art. 13 e 18 L. n. 349/1986 - Provvedimento ad efficacia territoriale limitata - Articolazione territoriale - Carenza di legittimazione - Sussiste.
La rappresentanza degli interessi diffusi in materia ambientale è appannaggio esclusivo delle associazioni riconosciute ex artt. 13 e 18 L. n. 349/1986, e non già delle loro articolazioni territoriali, le quali possono, al massimo, essere dotate di una legittimazione processuale a rappresentare l'Associazione nazionale laddove lo statuto lo consenta, ma alle quali non può essere riconosciuta una legittimazione ad agire in proprio neppure se prevista nello statuto e neppure per l'impugnazione di un provvedimento ad efficacia territoriale limitata (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.10.2011 n. 2481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Opere in difformità dal progetto - Ordinanza di demolizione - Interesse ad agire in capo al proprietario o al soggetto legittimato all'utilizzo delle opere - Sussiste - Interesse ad agire in capo all'impresa costruttrice o al progettista - Non sussiste.
2. Opere in difformità dal progetto - Parziale difformità - Esclusione per difformità non eccedenti il 2 per cento delle misure progettuali - Art. 5, comma 2, lettera a) n. 5), D.L. n. 70/2011 - Art. 34, comma 2-ter, D.P.R. n. 380/2001 - Applicabilità alle singole unità immobiliari - Sussiste - Possibilità di interpretazione estensiva - Non sussiste.

1. L'interesse all'impugnazione delle ordinanze di demolizione deve essere riconosciuto al proprietario e a chi abbia un titolo legittimo all'utilizzo delle opere medesime, e riceva dunque un nocumento dalla loro demolizione, mentre altri soggetti, quali l'impresa costruttrice e il progettista, non hanno alcun interesse giuridicamente rilevante.
2. La disposizione dell'art. 5, comma 2, lettera a) n. 5), D.L. n. 70/2011, introduttivo del comma 2-ter dell'art. 34, D.P.R. n. 380/2001, che esclude la parziale difformità in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali, stante la natura eccezionale e derogatoria al regime sanzionatorio, non può avere una interpretazione estensiva (e cioè considerare il "surplus" come riferito al complesso intero), ma può essere applicata solo alle singole unità immobiliari (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.10.2011 n. 2479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA1. Piano di Recupero - Permesso di costruire - Nullità sopravvenuta - Impossibilità dell'oggetto - Legittimità.
2. Piano di Recupero - Permesso di costruire - Qualificazione dell'interevento - Ristrutturazione edilizia - Divieto di demolizione - Vincolo conformativo delle N.T.A. al P.R.G. - Sopralzo - Legittimità.
1. Nel caso di accertata sopravvenuta impossibilità, per fatto imputabile alla ricorrente, di realizzare il progetto di cui al permesso di costruire rilasciato, l'Amministrazione può legittimamente rivedere la pianificazione attuativa dell'area interessata dall'interevento e, prendendo atto del venire meno di un elemento essenziale del titolo abilitativo, comminare la nullità dell'atto amministrativo privo degli elementi essenziali ai sensi dell'art. 21-septies L. n. 241/1990, segnatamente del permesso di costruire affetto da nullità per sopravvenuta impossibilità dell'oggetto.
Di conseguenza risulta legittima la declaratoria di parziale nullità del permesso di costruire impugnata, a prescindere dal nomen juris di revoca parziale attribuito dall'Amministrazione al momento dell'adozione.
2. L'intervento edilizio autorizzato, benché definito "ristrutturazione" (in ragione dalla possibilità di effettuare un sopralzo dell'edificio) non include la possibilità di demolizione (e ricostruzione) nel caso in cui le previsioni delle N.T.A. al P.R.G. pongano il vincolo di consentire il solo restauro di parte dell'immobile, norme di grado prevalente rispetto a quelle del Piano di Recupero e conformanti il permesso di costruire.
Con la conseguenza che, demolita la parte di edificio da restaurare, elemento qualificante del progetto approvato nel Piano di Recupero e, quindi del permesso di costruire rilasciato in attuazione del Piano stesso, l'Amministrazione ha legittimamente preso atto del venire meno, sia pure in parte, dell'oggetto stesso dell'intervento edilizio, rappresentato proprio dal recupero, mediante intervento di restauro conservativo, dell'immobile (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.10.2011 n. 2478 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAD.I.A. - Ordine inibitorio - Termine perentorio - Perfezionamento del processo decisionale pubblico - Successiva effettiva conoscenza - Irrilevanza - Legittimità.
Il rispetto del termine perentorio di trenta giorni per l'adozione del provvedimento inibitorio dei lavori di una D.I.A. riguarda il perfezionamento del momento decisionale pubblico, e, tutt'al più, la sua spedizione, mentre la notifica, ossia la materiale conoscenza dell'ordine da parte del privato, può ragionevolmente avvenire, in considerazione degli ordinari tempi tecnici, anche successivamente a tale termine (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.10.2011 n. 2478 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Condono edilizio - Domanda di permesso di costruire in sanatoria - Art. 36, D.P.R. n. 380/2001 - Obbligo per la P.A. di adottare un nuovo provvedimento sulla domanda - Sussiste - Inefficacia dell'ingiunzione di demolizione - Sussiste.
2. Abuso edilizio - Ordinanza di demolizione - Onere di analitica descrizione degli abusi - Sussiste.
1. La presentazione di domanda di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 pone in capo all'Amministrazione l'obbligo di adottare un nuovo provvedimento sulla domanda medesima, con perdita di efficacia della pregressa ingiunzione di demolizione.
2. Sussiste in capo alla P.A. un onere di analitica descrizione degli abusi compiuti, da indicarsi nell'ordine di demolizione, atteso che vi è differenza della disciplina sanzionatoria, in base agli artt. 31 e 37, D.P.R. n. 380/2001, tra gli illeciti riconducibili alla realizzazione di nuove costruzioni, e quelli consistenti in modifiche agli edifici esistenti, modifiche che -in base alle regole generali- non sono soggette necessariamente a permesso di costruire, ma anche a semplice denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 22, commi 1° e 2° del D.P.R. n. 380/2001 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.10.2011 n. 2467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Condono edilizio - Art. 32, D.L. n. 269/2003 - Condizioni - Pagamento oneri - Onere di pagamento dell'intera somma dovuta - Sussiste.
2. Condono edilizio - Art. 32, comma 40, D.L. n. 269/2003 - Incremento percentuale - Applicabilità agli oneri concessori relativi all'intervento edilizio - Non sussiste - Applicabilità ai diritti ed oneri correlati alla istruttoria della domanda - Sussiste.

1. Qualora il richiedente la sanatoria ai sensi del D.L. n. 269/2003 intenda giovarsi della fattispecie di silenzio-assenso di cui all'art. 32 del medesimo decreto, avrà l'onere di provvedere al pagamento dell'intera somma dovuta a titolo di oneri di urbanizzazione, salvo il conguaglio eventualmente esigibile dal Comune, non essendo sufficiente il pagamento del solo acconto dei suddetti oneri.
2. L'incremento percentuale di cui all'art. 32, comma 40, D.L. n. 269/2003, è applicabile non agli oneri concessori relativi all'intervento edilizio, ma ai diritti ed oneri correlati alla istruttoria delle domande finalizzate al rilascio del titolo abilitativo; diritti ed oneri che il Comune ha facoltà di incrementare in relazione al maggior impiego di risorse (personale e mezzi) che qualsiasi sanatoria -implicante un afflusso eccezionale di istanze da istruire ed evadere in aggiunta all'attività ordinaria- notoriamente richiede (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.10.2011 n. 2426 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAMutamento di destinazione d'uso - Variazione degli standard - Configurabilità come nuova costruzione - Sussiste.
Il mutamento di destinazione d'uso da locali senza permanenza di persone in locali abitabili rientra nel concetto di nuova costruzione, che riguarda non soltanto la realizzazione di un manufatto su area libera, ma include ogni intervento di ristrutturazione che renda un manufatto oggettivamente diverso da quella preesistente. Detta oggettiva diversità sussiste ogniqualvolta si abbia un mutamento di destinazione d'uso che implichi la variazione degli standard, poiché detta destinazione d'uso rappresenta in elemento determinante della tipologia del manufatto (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.10.2011 n. 2426 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Domanda di permesso di costruire in sanatoria - Ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi - Rigetto dell'istanza di compatibilità paesaggistica - Aumento della s.l.p. e del volume - Non sussiste - Illegittimità.
2. Domanda di permesso di costruire in sanatoria - Ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi - Rigetto dell'istanza di compatibilità paesaggistica - Parere favorevole della Soprintendenza - Art. 181, comma 1-quater, d.lgs. n. 42/2004 - Illegittimità.

1. Nel caso in cui oggetto della sanatoria siano delle strutture di protezione dagli agenti atmosferici, facilmente rimuovibili, anzi più correttamente agevolmente apribili e richiudibili (segnatamente degli ombrelloni), che non appaiono idonei a determinare una durevole trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, non risultano creati nuove ed effettive superficie utili e/o volumi, ostativi, come tali, all'accoglimento della domanda di compatibilità paesaggistica.
2. Risulta illegittimo il rigetto dell'istanza di compatibilità paesaggistica comunale impugnato nell'ipotesi in cui, in seguito al preventivo parere positivo rilasciato dalla Soprintendenza, vincolante ai sensi dell'art. 181, comma 1-quater, d.lgs. n. 42/2004, il Comune se ne sia discostato senza addurre alcuna specifica motivazione sul punto (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.10.2011 n. 2469 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAAdozione di P.R.G. - Destinazione urbanistica di un'area - Legittimo affidamento - Precedente variante urbanistica - Piano di Lottizzazione - Concessioni in sanatoria - Non sussiste.
In occasione dell'adozione del P.R.G. non sussiste una fondata aspettativa sulla destinazione di un'area, reclamata da parte ricorrente, né facendo leva su una precedente variante generale al P.R.G., mai attuata in quanto il Piano di lottizzazione collegato alla stessa si è fermato alla fase di mero progetto (inidoneo a far sorgere in capo all'esponente una situazione giuridica di fondata aspettativa), né in ragione dei condoni edilizi nel tempo conseguiti.
In particolare, il rilascio di una concessione in sanatoria rappresenta l'espressione di un potere vincolato alla verifica dei presupposti normativamente richiesti, disancorato da una visione urbanistica complessiva dell'area di riferimento e, quindi, inidoneo a condizionare le scelte spettanti all'Amministrazione nell'esercizio di pianificazione del territorio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.10.2011 n. 2379 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Fascia di rispetto dell'argine trasversale di un fiume -Vincolo di inedificabilità - Art. 96, comma f), R.D. 25.07.1904 n. 523 e s.m.i. - Provvedimento inteso alla salvaguardia del vincolo - Giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche - Sussiste.
2. Fascia di rispetto dell'argine trasversale di un fiume -Vincolo di inedificabilità - Art. 96, comma f), R.D. 25.07.1904 n. 523 e s.m.i. - Rilevanza della conformazione del corpo superficiario - Non sussiste.

1. Compete al Tribunale superiore delle acque pubbliche e non agli organi ordinari della giustizia amministrativa la cognizione delle controversie aventi per oggetto la domanda di annullamento di provvedimenti adottati da un Comune per la salvaguardia del vincolo di inedificabilità assoluta della fascia di rispetto dell'argine trasversale di un fiume ex art. 96, comma f), R.D. 25.07.1904 n. 523 e s.m.i..
2. La disciplina delle acque pubbliche di cui all'art. 96, comma f), R.D. 25.07.1904 n. 523 e s.m.i., che impone un vincolo di inedificabilità entro la fascia di rispetto fluviale, ne impone inderogabilmente la tutela, senza che residuino margini per attribuire rilievo alla conformazione del corpo superficiario (e, quindi, al fatto che esso si presenti con argini o sponde, con tombinatura o senza), atteso che, per il rispetto della fascia, è vietata qualsiasi costruzione e, persino, qualunque deposito di terre o di altre materie, a distanza di metri dieci dal corso d'acqua (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.10.2011 n. 2378 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione - Opere abusive - Precarietà - Utilizzazione duratura - Legittimità.
L'esclusione dal regine del permesso di costruire sussiste soltanto per i manufatti di assoluta ed evidente precarietà, desumibile dall'uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici e cronologicamente delimitati, sicché tale precarietà va esclusa quando si tratta di opere oggetto di duratura utilizzazione, risultando, di conseguenza, legittimamente adottato l'ordine di demolizione comunale impugnato (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.10.2011 n. 2377 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione - Art. 133, comma 1, lett. f), D. Lgs. n. 104/2010 - Giurisdizione del G.A. - Sussiste.
2. Contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione - Opere pubbliche - Art. 17, comma 3, lett. c), D.P.R. n. 380/2001 - Esonero - Legame tra soggetti realizzatori e finalità pubbliche - Deve sussistere ab initio.
3. Contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione - Opere pubbliche - Art. 19, D.P.R. n. 380/2001 - Determinazione del contributo - Qualificabilità della destinazione a sede universitaria come industriale - Non sussiste.

1. Le controversie sull'an e/o sul quantum del contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, vertendo sull'accertamento della consistenza delle rispettive posizioni di credito (di natura, quindi, paritetica), sono riconducibili alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo come oggi descritta dall'art. 133, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 104/2010.
2. Ai fini dell'esonero dal pagamento del contributo di costruzione previsto dall'art. 17, comma 3, lett. c), T.U. dell'edilizia, in relazione agli impianti, attrezzature ed opere pubbliche o di interesse generale realizzate "dagli Enti istituzionalmente competenti" (in modo da assicurare che il vantaggio dell'esenzione sia riversato a favore della collettività), non è possibile recuperare ex post il legame tra soggetti realizzatori e finalità pubbliche, che deve contraddistinguere l'intervento edilizio ab initio.
3. Ai fini della determinazione del contributo di costruzione per opere o impianti non destinati alla residenza ex art. 19, D.P.R. n. 380/2001, la destinazione a sede universitaria non può essere catalogata come destinazione industriale ai sensi del comma 1 di detta norma, atteso che tale disposizione coniuga l'attività industriale volta alla prestazione di servizi a quella volta alla trasformazione di beni, impedendo una lettura della prima avulsa dalla seconda, onde in presenza di costruzioni o impianti destinati allo svolgimento di servizi, soccorre la previsione del comma 2 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.10.2011 n. 2376 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICADisposizioni contenute nel PRG e nei piani attutivi - Prescrizioni che, in via immediata, stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata - Onere di immediata impugnativa - Sussiste.
In tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio per gli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute nel piano regolatore, nei piani attuativi o in altro strumento generale individuato dalla normativa statale e regionale, si impone un onere di immediata impugnativa avverso le prescrizioni che, in via immediata, stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata, nel cui ambito rientrano le norme di c.d. "zonizzazione", di destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici, di localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo: ciò, a causa dell'immediato effetto conformativo dello ius aedificandi che ne deriva (cfr. TAR Milano, sent. n. 845/2010; Cons. di Stato, sent. n. 5258/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.09.2011 n. 2305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAMutamento di destinazione d'uso - Oneri di urbanizzazione - Supplemento di contributo urbanistico - In caso di aumento del carico urbanistico - Legittimità.
In caso di mutamento della destinazione d'uso dell'immobile -nel caso di specie da residenza a studio medico- che comporti un incremento del carico urbanistico è legittima la richiesta della P.A. circa la corresponsione di un supplemento del contributo pari alla differenza tra il contributo previsto per la nuova destinazione e quello relativo alla precedente (cfr. TAR Milano, sent. n. 2989/2006, 1115/2005, 1100/2005, 145/2005) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.09.2011 n. 2236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANuova costruzione - Nozione - In caso di mutamento di destinazione d'uso con variazione degli standard - Sussiste.
La realizzazione di un nuovo insediamento non consegue necessariamente ad una nuova edificazione, ben potendo configurarsi anche ove venga mutata la destinazione d'uso di edificio già esistente -nel caso di specie creazione di insediamento non residenziale derivante da insediamento residenziale- (cfr. TAR Milano, sent. n 1069/2011) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.09.2011 n. 2236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. Art. 11, L.R. n. 12/2005 - Perequazione urbanistica - Riduzione delle volumetrie realizzabili rispetto alla disciplina urbanistica previgente - Possibilità.
2. Art. 11, L.R. n. 12/2005 - Perequazione urbanistica - Previsione del meccanismo perequativo solo per alcuni ambiti di trasformazione - Possibilità.

1. La norma di cui all'art. 11, comma 2, L.R. n. 12/2005, nel disporre che la P.A. -ove attribuisca alle aree del territorio comunale un identico indice di edificabilità territoriale, inferiore a quello minimo fondiario, differenziato per parti del territorio comunale- disciplini il rapporto con la volumetria degli edifici esistenti, in relazione ai vari tipi di intervento previsti, non pone affatto un obbligo di conservare la volumetria esistente: infatti, l'art. 11 prevede, espressamente, la conferma delle volumetrie degli edifici esistenti solo "se mantenuti".
La P.A., dunque, specie laddove -come nel caso di specie- muti la destinazione delle aree, ben può ridurre le volumetrie realizzabili rispetto a quanto previsto dalla disciplina urbanistica previgente.
2. E' legittima la decisione della P.A. di non estendere il meccanismo perequativo all'intero territorio comunale e prevederlo solo per alcuni ambiti di trasformazione: infatti, l'art. 11, L.R. n. 12/2005 -nel disporre che la P.A. possa attribuire un identico indice di edificabilità territoriale, inferiore a quello minimo fondiario, differenziato per parti del territorio comunale a tutte le aree del territorio comunale, con eccezione delle aree destinate all'agricoltura e di quelle non soggette a trasformazione urbanistica- attribuisce una facoltà alla P.A., facoltà che non deve essere necessariamente esercitata sull'intero territorio comunale (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.09.2011 n. 2233 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Restauro e risanamento conservativo - Presupposti.
2. Restauro e risanamento conservativo - Nozione - Finalità.
1. Ai sensi dell'art. 3, lett. c), D.P.R. n. 380/2001, gli interventi di restauro e risanamento conservativo presuppongono la conservazione di elementi, anche strutturali, degli edifici, che siano comunque preesistenti, ovvero l'inserimento di elementi nuovi, che abbiano tuttavia carattere accessorio (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 577/2001; TAR Napoli, sent. n. 27997/2010, n. 20563/2008; TAR, sent. n. 654/2005).
2. Possono qualificarsi come interventi di restauro e risanamento conservativo solo quegli interventi sistematici i quali, pur con rinnovo di elementi costitutivi dell'edificio preesistente, ne conservano tipologia, forma e struttura: la finalità specifica degli interventi di risanamento e restauro -che è appunto quella di rinnovare l'edificio in modo sistematico e globale- va, difatti, perseguita nel rispetto dei suoi elementi essenziali dal punto di vista tipologico, formale e strutturale (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 2981/2008) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASerre bioclimatiche - L.R. n. 39/2004 - Non computabilità ai fini volumetrici in quanto volumi tecnici - Possibilità di ulteriori deroghe rispetto allo strumento urbanistico per aspetti differenti da quello volumetrico - Non sussiste.
La L.R. n. 39/2004 -le cui disposizioni prevalgono sui regolamenti e sulle altre norme comunali- dispone che le serre bioclimatiche, laddove abbiano determinati requisiti, sono considerate volumi tecnici e non sono, quindi, computabili ai fini volumetrici: la legge consente perciò una deroga alla normativa urbanistica comunale solamente per quanto riguarda la qualificazione quale volume tecnico delle serre, ma non una deroga generalizzata alle previsioni dettate dallo strumento urbanistico per regolare aspetti differenti da quello volumetrico (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI1. Provvedimento amministrativo - Motivi autonomi - Legittimità di un solo motivo - Annullabilità in sede giurisdizionale - Inconfigurabilità.
2. Procedimento amministrativo - Potere di autotutela - Principio della non doverosità dell'esercizio del potere di autotutela - Conseguenze.
1. In presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, è sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi, per escludere che l'atto possa essere annullato in sede giurisdizionale (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 3259/2006; TAR Milano, sent. n. 2191/2011, n. 92/2011, n. 89/2011, n. 2210/2010, n. 1730/2010, n. 269/2010, n. 22/2010, n. 4647/2009).
2. Per il principio della non doverosità dell'esercizio del potere di autotutela, la mera presentazione di un'istanza di riesame e di ulteriori elementi istruttori non obbliga la P.A. a rivedere i propri provvedimenti inibitori (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADenuncia di inizio attività - In caso di assenza delle condizioni richieste ex lege - Ordine di non effettuare il previsto intervento - Necessità - Mera sospensione dell'attività - Inconfigurabilità.
Ai sensi dell'art. 23, D.P.R. n. 380/2001, laddove la P.A. riscontri l'assenza di una o più delle condizioni stabilite in materia di D.I.A., deve notificare all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento ed il procedimento deve concludersi entro il termine perentorio previsto dalla legge, mentre non è consentito alla P.A. limitarsi a sospendere l'attività edilizia (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIProvvedimento amministrativo - Motivi autonomi - Legittimità di un solo motivo - Annullabilità in sede giurisdizionale - Inconfigurabilità.
In presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, è sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi, per escludere che l'atto possa essere annullato in sede giurisdizionale (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 3259/2006; TAR Milano, sent. n. 92/2011, n. 89/2011, n. 2210/2010, n. 1730/2010, n. 269/2010, n. 22/2010, n. 4647/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. Programma Integrato di Intervento - Valutazione della Provincia di incompatibilità del p.i.i. rispetto al p.t.c.p. basata su prescrizioni prive di carattere prescrittivo ai sensi dell'art. 18, L.R. n. 12/2005 - Discrezionalità del Comune di aderire alla valutazione - Sussiste.
2. Programma Integrato di Intervento - Valutazione della Provincia di incompatibilità del p.i.i. rispetto al p.t.c.p. - Obbligo del Comune di motivare la propria adesione alle valutazioni della Provincia - Non sussiste.

1. Anche nel caso in cui la Provincia abbia posto a base della propria valutazione di incompatibilità di un p.i.i. con il p.t.c.p. prescrizioni prive di carattere prescrittivo ai sensi dell'art. 18, L.R. n. 12/2005, rientra -comunque- tra i poteri discrezionali del Comune decidere di aderire alla valutazione provinciale, non avendo, lo stesso, alcun obbligo di discostarsene.
2. Nel caso in cui il Comune aderisca alle valutazioni di non compatibilità e di incidenza ambientale negativa di un p.i.i. rispetto al p.t.c.p., facendo proprie tutte le ragioni poste alla base del parere provinciale, non sussiste alcun onere aggravato di motivazione in capo al Comune: infatti, tale motivazione è necessaria solo qualora l'amministrazione comunale abbia inteso discostarsi da quanto affermato dal parere espresso dalla Provincia ed abbia, quindi, ritenuto di approvare un programma integrato di intervento nonostante la molteplicità di aspetti di incompatibilità con il piano territoriale di coordinamento provinciale e nonostante la valutazione di incidenza ambientale negativa (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAutorizzazione paesaggistica - Non necessità dell'autorizzazione - Solo in caso di interventi inerenti l'esercizio di attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi né dell'assetto idrogeologico del territorio.
Alla luce della disciplina prevista dall'art. 152, lett. b), D.Lgs. n. 490/1999, trasfusa nel D.Lgs. n. 42/2004, all'art. 149, lett. b), continua ad essere esclusa la necessità dell'autorizzazione prescritta dagli artt. 146, 147 e 159 unicamente per gli interventi inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l'assetto idrogeologico del territorio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2190 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOpera edilizia precaria che non necessiti di titolo edilizio - Presupposti - Temporaneità della funzione - Fattispecie.
La precarietà di un manufatto, la cui realizzazione non necessita di titolo edilizio, non comportando una trasformazione del territorio, non dipende dalla sua facile removibilità, ma dalla temporaneità della funzione, in relazione ad esigenze di natura contingente: la precarietà va, pertanto, esclusa quando -come nel caso di specie, in cui le canaline sono esistenti ormai da molti anni e sono stabilmente destinate a servizio della strada- si tratti di un'opera destinata a dare un'utilità prolungata nel tempo (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 3029/2009 e n. 2705/2008; Cass. Pen., sent. n. 22054/2009; TAR Milano, sent. n. 3266/2010 e n. 3253/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2190 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Quantificazione oneri concessori - Possibilità del privato di versare la maggiore somma da lui quantificata - Sussiste - Possibilità di revisione dell'importo per volontà unilaterale del privato - Non sussiste - Ratio.
2. Concessione di costruzione - Contributi - Pagamento - Ritardo - Escussione fideiussione - Obbligo della P.A. - Non sussiste - Ratio.
3. Concessione di costruzione - Contributi - Diritto di credito della P.A. - Termine di prescrizione decennale.
4. Concessione di costruzione - Contributi - Pagamento - Ritardo o omissione - Sanzioni pecuniarie - Termine di prescrizione quinquennale.
5. Concessione di costruzione - Contributi - Pagamento - Omissione - Sanzioni pecuniarie - Termine di prescrizione quinquennale - Dies a quo.
6. Oblazione e oneri concessori - Controversie in tema di corretta quantificazione - Attengono a diritti soggettivi delle parti - Configurabilità del vizio di difetto di motivazione - Non sussiste - Ratio.

1. Qualora si verta in tema di diritti disponibili, la parte promittente può liberamente assumere impegni patrimoniali a prescindere da un obbligo normativo o, comunque, più onerosi rispetto a quelli astrattamente previsti dalla legge (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 4015/2005, n. 1209/1999; TAR Milano, sent. n. 196/2010): in particolare, a fronte di un atto con cui il privato ha quantificato l'ammontare del contributo dovuto per il rilascio di un permesso di costruire ed ha assunto con la P.A. l'impegno a versare la somma così quantificata, non è, quindi, consentito alla parte promittente porre unilateralmente in discussione, in un momento successivo, quanto da essa stessa dichiarato e sottrarsi ad obblighi liberamente assunti, a meno che faccia valere una causa di invalidità o un motivo di risoluzione dell'accordo.
2. A fronte del ritardato pagamento degli oneri concessori, la P.A. non ha un obbligo di attivarsi nei confronti del garante per il recupero di quanto dovuto (cfr. TAR, Milano, sent. n. 4405/2009, n. 4306/2009; Cons. di Stato, sent. n. 4419/2007, n. 6345/2005; TAR Salerno, sent.n. 1936/2008).
Infatti, la fideiussione che accompagna la rateizzazione del pagamento degli oneri di urbanizzazione non ha la finalità di agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì costituisce una garanzia personale prestata unicamente nell'interesse della P.A., sulla quale non incombe, quindi, alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore; la garanzia sussidiaria serve a scongiurare che il Comune possa irrimediabilmente perdere una entrata di diritto pubblico, ma non alleggerisce affatto la posizione del soggetto tenuto al pagamento, né attenua i doveri di diligenza sullo stesso incombenti, né estingue di per sé l'obbligazione principale (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 6345/2005).
3. Il diritto di credito della P.A. comunale avente ad oggetto il pagamento del contributo dovuto per il rilascio della concessione edilizia è soggetto all'ordinario termine decennale di prescrizione, decorrente dalla data di rilascio della concessione edilizia (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 2686/2008, n. 4302/2000).
4. Le sanzioni pecuniarie previste all'art. 42, D.P.R. n. 380/2001 per i casi di ritardato o omesso versamento del contributo di costruzione sono soggette -in mancanza di una diversa disciplina legale- al termine di prescrizione di cinque anni stabilito dall'art. 28, Legge n. 689/1981 (cfr. Cass. Civ., sent. n. 23633/2006; TAR Cagliari, sent. n. 70/2008; TAR, Salerno, sent. n. 647/2005; TAR Catanzaro, sent. n. 1514/2001; TAR Catania, sent. n. 701/2006).
5. In caso di omesso pagamento del contributo, il dies a quo del termine di prescrizione quinquennale va individuato nella scadenza del termine di 240 giorni successivi alla data prevista per il pagamento del contributo (cfr. TAR Potenza, sent. n. 141/2008).
6. Le controversie relative all'an ed al quantum delle somme dovute a titolo di oblazione e di oneri concessori, riservate dalla legge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, riguardano diritti soggettivi delle parti, rispetto alle quali non è configurabile il vizio di difetto di motivazione: infatti, le operazioni di corretta quantificazione dell'oblazione e degli atti concessori si esauriscono in una mera operazione materiale che, se errata, può comportare soltanto la violazione dei criteri fissati dalla normativa ovvero dalla P.A. con norme di natura regolamentare e, quindi, la sussistenza del solo vizio di violazione di legge, potendo l'interessato, sulla base dei predetti criteri generali, contestare l'erroneità della quantificazione operata dalla P.A., evidenziando ad esempio l'erroneità dei calcoli ovvero dei presupposti di fatto o di diritto (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 4217/2000; TAR Milano, sent. n. 97/2011 e n. 4455/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2189 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Distanze - Pareti finestrate e edifici antistanti - Art. 9, D.M. n. 1444 del 1968 - Inderogabilità.
2. Distanze - Aggetti che estendano il volume edificatorio - Applicabilità normativa sulle distanze legali - Necessità.

1. La distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti prevista dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 6909/2005; TAR Milano, sent. n. 1419/2011).
2. Gli aggetti presenti sull'edificio che estendano il volume edificatorio non possono considerarsi meri elementi decorativi: al contrario, essi costituiscono corpo di fabbrica e vanno, pertanto, conteggiati nel calcolo della distanza (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2187 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. Valutazione ambientale strategica - Ambito di applicazione - Applicabilità ai piani urbanistici conformi alla strumentazione urbanistica comunale - Possibilità - Condizioni.
2. Valutazione ambientale strategica - Ambito di applicazione - Applicabilità a tutti i piani e programmi di cui alla direttiva 2001/42/CEE.

1. E' conforme alla normativa in materia di valutazione ambientale strategica la previsione di sottoporre anche i piani urbanistici di particolare complessità e impatto, pur se conformi alla strumentazione urbanistica comunale, a procedura di v.a.s. e di verifica di esclusione (il Collegio si discosta dall'orientamento di cui alla sentenza del 26.11.2009, n. 5171, con cui si affermava la non necessità della valutazione ambientale strategica quando lo strumento attuativo non fosse in variante allo strumento urbanistico generale): infatti, né la definizione di piani e programmi contenuta nell'art. 5, D.Lgs. n. 152/2006, né le previsioni di cui agli artt. 6 e 7 dello stesso decreto consentono di escludere dalla valutazione ambientale strategica i piani urbanistici che non comportino variante al piano regolatore generale, laddove possano avere significativi impatti sull'ambiente e sul patrimonio culturale.
2. L'art. 4, comma 2, della L.R. 12/2005, se da un lato prevede l'obbligo di sottoposizione alla v.a.s. del piano territoriale regionale, dei piani territoriali regionali d'area e dei piani territoriali di coordinamento provinciali, del documento di piano di cui all'articolo 8, nonché le varianti agli stessi, dall'altro non detta un'elencazione tassativa delle tipologie di piano sottoposte a valutazione ambientale strategica, che, come previsto dallo stesso articolo al comma 1, sono tutti "i piani e programmi di cui alla direttiva 2001/42/CEE", tra i quali rientrano anche i piani conformi allo strumento urbanistico (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2186 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Realizzazione di veranda chiusa sui lati - Trasformazione edilizio-urbanistica - Sussiste - Permesso costruire - Necessità.
2. Manutenzione ordinaria - Presupposti - Possibilità di ampliamento - Non sussiste.
1. E' necessario un titolo edilizio per la realizzazione di una veranda, chiusa sui lati, in quanto essa costituisce una trasformazione urbanistico-edilizia del preesistente manufatto idonea a creare nuovo volume.
2. La manutenzione ordinaria presuppone opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici, e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti, senza che possa essere ammesso alcun ampliamento (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOrdinanza di demolizione di opere abusive - Atto vincolato che non richiede una motivazione diversa dall'accertamento dell'abuso - Esigenza di tutela dell'affidamento - Non sussiste.
Il provvedimento di demolizione, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 2497/2011; TAR Milano, sent. n. 1729/2011 e n. 702/2008) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. Piano di lottizzazione - Scadenza del termine di attuazione - Potere-dovere della P.A. di dare nuovo assetto urbanistico alla parti non realizzate - Sussiste.
2. Piano integrato di recupero - Interesse al ricorso - Vicinitas - Insufficienza a sostenere l'interesse - Necessità di dimostrare la specificità della lesione rispetto all'area di proprietà o ad altri interessi del ricorrente - Sussiste.

1. In presenza di un piano di lottizzazione scaduto per decorrenza del termine decennale, la P.A. non perde il potere di rilasciare provvedimenti funzionali al completamento del piano stesso, ferma restando la disciplina urbanistico-edilizia dell'area da esso dettata che, anche per la parte rimasta inattuata, continua a trovare applicazione fino all'approvazione di un nuovo piano urbanistico (cfr. TAR Milano, sent. 1001/2010).
2. In materia di interventi di recupero urbanistico derivanti da un P.I.R., il criterio della vicinitas, seppur idoneo a supportare la legittimazione al ricorso, non esaurisce gli ulteriori profili dell'interesse concreto all'impugnazione, costituito dalla lesione effettiva e documentata delle facoltà dominicali del ricorrente (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 9537/2010; TAR Milano, sent. n. 1244/2011) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAImpianto di radiodiffusione sonora - Scostamento dai parametri di emissione autorizzati - Controllo degli Ispettorati Territoriali del Ministero - Provvedimento sanzionatorio definitivo - In assenza di comunicazione di avvio del procedimento - Illegittimità.
In materia di impianti di radiodiffusione, in presenza di uno scostamento dai parametri tecnici di emissione autorizzati, l'attività di controllo degli organi ministeriali a ciò preposti si esplica, non già con l'adozione di provvedimenti sanzionatori definitivi, bensì mediante la diffida al ripristino delle modalità di esercizio dell'impianto in conformità del titolo, accompagnata dalla disattivazione dell'impianto sino al predetto ripristino.
Nel caso di specie, l'Ispettorato Territoriale del Ministero ha illegittimamente adottato un provvedimento definitivo, non preceduto dall'avviso di avvio del procedimento e non riconducibile all'attività di controllo di spettanza degli organi periferici del Ministero, cui pertiene, semmai, il potere di diffida (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIGiustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Interesse a ricorrere - Presupposti - Soddisfacimento interesse sostanziale del ricorrente - E' sufficiente.
L'interesse al ricorso non si concentra unicamente sul risultato formale dell'annullamento dell'atto, ma include fra le sue componenti anche l'affidamento in ordine alle attività che, in esecuzione del giudicato, la P.A. è tenuta o facultata a svolgere e dalle quali potrà derivare il soddisfacimento dell'interesse sostanziale (cfr. Cons. di Stato, Ad. Pl., sent. n. 4/1970; TAR Milano, sent. n. 4605/2009): nel caso di specie, è stato ritenuto sussistente l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento dell'atto impugnato, laddove quest'ultimo risulta idoneo a legittimare l'adeguamento dell'immobile alla destinazione a carrozzeria, risultando tale destinazione pregiudizievole al diritto di proprietà dell'istante (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIndustria insalubre - Localizzazione in centro abitato - Possibilità - Presupposti - Verifica compatibilità con salute dei residenti.
Ai sensi dell'art. 216, comma 5, R.D. 1265/1934 è consentita la permanenza di un'industria insalubre di prima classe nell'abitato, allorché sia provato che il suo esercizio, per le speciali cautele introdotte, non rechi danno alla salute dei residenti: pertanto, l'insediamento di un'attività insalubre nell'ambito di centri abitati o di aree paesaggisticamente sensibili non è vietato in assoluto, essendo subordinato alla verifica di compatibilità dell'impianto con il contesto di riferimento (cfr. TAR Brescia, sent. n. 420/2010 e n. 671/2008) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Ricorso giurisdizionale - Ricorso avverso atti abilitativi dell'edificazione - Termine per l'impugnazione - Decorrenza dalla data di palesamento ed oggettiva apprezzabilità della lesione del bene della vita protetto - Fattispecie.
2. Atto amministrativo - Atti presupposti - Vizi - Invalidità del titolo edilizio originario - Effetto caducante delle varianti leggere - Sussiste - Effetto caducante delle varianti essenziali - Non sussiste.

1. La decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli a favore dei quali l'atto è rilasciato, dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto: ciò si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 18/2011).
Nel caso di specie, è da escludere che possano avere rilievo determinante gli elementi forniti dalla controinteressata in ordine all'esposizione del cartello di cantiere con l'indicazione dell'intervento di recupero autorizzato, in quanto gli stessi non consentivano alla ricorrente di rendersi conto dell'entità dell'opera, né, quindi, della sua incidenza sui suoi interessi protetti.
2. Non sempre all'annullamento del titolo edilizio originario consegue necessariamente l'insanabile invalidità derivata del secondo titolo edilizio: difatti, mentre l'annullamento di una concessione sortisce sicuramente l'effetto della caducazione delle "varianti leggere", ossia, quelle non essenziali e quelle in corso d'opera, poiché prive di una loro autonomia dispositiva, non altrettanto si verifica, invece, nel caso della cd. "variante essenziale", poiché in quest'ultima l'entità qualitativa e quantitativa delle modifiche apportate al primitivo assenso segna indubbiamente una cesura nel rapporto di continuità fra i titoli edilizi succedutisi nel tempo (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 1023/2005) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2149 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIntervento di recupero abitativo di sottotetto - Presupposti - Preesistenza del volume sottotetto, praticabilità e abitabilità originarie - Necessità.
Presupposto per il recupero abitativo dei sottotetti, è che sia identificabile come già esistente un volume sottotetto passibile di recupero, cioè di riutilizzo a fini abitativi: ciò richiede che il sottotetto abbia, in partenza, dimensioni tali da essere praticabile e da poter essere abitabile, sia pure con gli aggiustamenti che occorrono per raggiungere i requisiti minimi di abitabilità - altezza media ponderale m. 2.40, ex art. 63, ultimo comma, L.R. n. 12/2005.
Diversamente, l'intervento si risolverebbe non già nel recupero di un piano sottotetto, ma nella realizzazione di un piano aggiuntivo, che eccede i caratteri della ristrutturazione per integrare un intervento di nuova costruzione (cfr. TAR Milano, sent. n. 970/2010; Cons. di Stato, sent. n. 2767/2005) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2149 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: 1. Ricorso giurisdizionale - Interesse a ricorrere - Progettista - Interesse legittimo differenziato - Non sussiste - Intervento ad adiuvandum - Possibilità.
2. Ricorso giurisdizionale - Interesse a ricorrere - Progettista - Interesse legittimo differenziato - Interesse morale - Non sussiste - Fattispecie.

1. E' esclusa in capo al progettista la titolarità di un interesse legittimo differenziato che gli consenta l'impugnazione di provvedimenti relativi ad interventi edilizi, potendo semmai il progettista stesso proporre intervento "ad adiuvandum" nel giudizio promosso dal committente proprietario (cfr. TAR Milano, sent. n. 484/2011 e 265/2011; TAR Parma, sent. n. 61/2010; TAR Firenze, sent. n. 986/2009; TAR Catania, sent. n. 523/2001, Cons. di Stato, sent. n. 1250/2001).
2. Non sussiste un interesse, neppure morale, in capo al professionista progettista, all'impugnazione del diniego di intervento edilizio, richiesto da un terzo e respinto dal comune, anche nel caso in cui si trattasse di errore di rappresentazione progettuale, in quanto tale diniego inciderebbe sullo "ius aedificandi" e non sull'esercizio della professione del progettista, né sulle sue qualità e il suo prestigio, che non possono reputarsi chiamate in causa da un rilievo tecnico operato dall'amministrazione per uno scopo del tutto diverso, cioè il perseguimento del corretto uso del territorio (cfr. TAR Milano, sent. n. 484/2011; TAR Firenze, sent. n. 986/2009).
Nel caso di specie, la circostanza che la demolizione sia stata disposta per una difformità nella realizzazione dell'intervento, non fa sorgere in capo al direttore dei lavori una posizione qualificata, dal momento che l'eventuale annullamento dell'atto produrrebbe effetti solo sulla sfera giuridica del proprietario, mentre nulla toglierebbe o aggiungerebbe alle doti professionali del direttore lavori (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2148 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. Art. 26, comma 3-ter, L.R. 12/2005 - Interpretazione - Piano attuativo in variante - Procedura in corso - Configurabilità.
2. Pianificazione territoriale - Scelta dello strumento attuativo - E' attività discrezionale della P.A. - Scelta di ricorrere ad una variante - Sindacato di legittimità - Inconfigurabilità.

1. L'art. 26, comma 3-ter, L.R. 12/2005 si riferisce esclusivamente ai procedimenti di variante urbanistica e non include i piani attuativi, essendo la ratio della norma quella di limitare il ricorso alle varianti, nella fase di predisposizione del PGT: pertanto, possono essere portate a conclusione le varianti il cui procedimento sia ancora in corso al termine previsto.
2. Poiché rientra nella più ampia discrezionalità della P.A. la scelta sullo strumento procedimentale con cui attuare la pianificazione, nonché i tempi di attuazione, ne deriva che la scelta di ricorrere ad una variante non può essere censurata in sede di legittimità (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2147 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Abusi edilizi - Ordinanza di demolizione - E' atto vincolato - Demolizione o sanzione pecuniaria - Scelta - E' fase successiva alla diffida a demolire.
2. Abusi edilizi - Ordinanza di demolizione - E' atto vincolato - Necessità di motivazione - Non sussiste.
3. Abusi edilizi - Tutela dell'affidamento - In presenza di certificato di abitabilità - Inconfigurabilità.

1. Da una corretta interpretazione dell'art. 34, D.P.R. n. 380/2001 si desume che nella fase della contestazione dell'abuso la P.A. non può far altro che ordinarne la demolizione, mentre l'applicazione della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione costituisce una misura destinata ad operare in un momento successivo all'adozione dell'ordine di demolizione, nel caso in cui risulti che non sia possibile darvi esecuzione (cfr. TAR Milano, sent. n. 5264/2007; TAR Napoli, sent. n. 5244/2008; TAR Roma, sent. n. 3327/2007; TAR Brescia, sent. n. 2213/2002).
2. L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendosi ammettere alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.
3. Nessuna posizione di affidamento qualificato può derivare dal certificato di abitabilità, che costituisce un'attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente, assolvendo in tal modo funzioni ben diverse da quelle relative alla certificazione della conformità urbanistica ed edilizia dell'opera (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nuovo titolo edilizio - Impugnazione diretta di terzo - Presupposti - Vicinitas e utilità dell'annullamento.
In materia edilizia, secondo l'orientamento tradizionale della c.d. vicinitas, va riconosciuta la sussistenza della legittimazione del terzo per il fatto stesso che egli si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalla costruzione, collegamento che radica una posizione di interesse differenziato rispetto a quella posseduta dal quisque de populo.
Tuttavia, per l'individuazione della posizione legittimante del terzo rispetto al rilascio di un nuovo titolo edilizio, il criterio della vicinitas non può totalmente prescindere dalla valutazione anche dell'utilità che il ricorrente ricava dall'annullamento del titolo edilizio (cfr. Cons. di Stato., sent. n. 2565/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE1. Occupazione temporanea di terreno limitrofo alle aree di realizzazione dell'opera pubblica - Finalità - Decorrenza del periodo autorizzato - Restituzione del terreno previo ripristino status quo ante - Necessità.
2. Occupazione temporanea di terreno limitrofo alle aree di realizzazione dell'opera pubblica - Indipendenza del procedimento di occupazione temporanea rispetto alla procedura espropriativa - Sussiste - Conseguenze.
3. Occupazione temporanea di terreno limitrofo alle aree di realizzazione dell'opera pubblica - Proroga dei termini per il completamento delle opere - Proroga dei termini dell'occupazione - Art. 20, Legge n. 865/1971 - Legittimità.

1. L'occupazione temporanea è un procedimento destinato a consentire l'uso di terreni di proprietà privata per scopi connessi all'esecuzione di un'opera dichiarata di pubblica utilità realizzata su altra proprietà e quindi limitato nel tempo: pertanto, decorso il periodo di tempo autorizzato (ovvero, se ciò avviene in un momento anteriore, venuta meno l'esigenza per effetto dell'avvenuta esecuzione dell'opera) il terreno così occupato e destinato agli specifici usi espressamente previsti nel provvedimento autorizzatorio deve essere restituito nella disponibilità del proprietario, previo ripristino dello status quo ante, ovvero indennizzo degli eventuali danni cagionati.
2. Per sua stessa natura il procedimento di occupazione temporanea è pienamente autonomo ed indipendente da un'eventuale procedura espropriativa: può verificarsi, infatti, come è avvenuto nel caso in esame, che l'occupazione temporanea si sia resa necessaria pur in assenza di qualsiasi procedura espropriativa, essendo prevista, la realizzazione dell'opera, interamente su altre proprietà: pertanto, il proprietario dei terreni occupati temporaneamente è legittimato a censurare i correlati provvedimenti solo con riferimento a profili di illegittimità propri degli stessi e limitati al loro specifico oggetto.
3. L'art. 20, Legge n. 865/1971, nel prevedere che l'occupazione può essere protratta fino a cinque anni dalla data di immissione in possesso, non esclude la prorogabilità del termine quando siano contestualmente prorogati i termini per il completamento delle opere e delle espropriazioni: pertanto, in caso di occupazione d'urgenza strumentale al completamento dei lavori e delle espropriazione relativi ad altre proprietà, la proroga dei termini relativi ai lavori ed agli espropri è atta a legittimare anche la proroga dell'occupazione d'urgenza, giacché non avrebbe senso differire il termine finale di completamento dei lavori se non si potesse prolungare l'occupazione (cfr. TAR Milano, sent. n. 4406/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2135 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. Valutazione ambientale strategica - Necessità - Quando sussiste - Ratio.
2. Valutazione ambientale strategica - Differenze dalla valutazione di impatto ambientale - Conseguenze.

1. La valutazione ambientale strategica è necessaria per il piano territoriale regionale, i piani territoriali regionali d'area e i piani territoriali di coordinamento provinciali, il documento di piano di cui all'articolo 8, L.R. 12/2005, nonché per le varianti agli stessi, con esclusione degli atti che non costituiscono variante al PRG: tale scelta trova una giustificazione nella funzione e nella natura della stessa VAS, che costituisce un atto di valutazione interno al procedimento di pianificazione, cioè una valutazione degli effetti ambientali conseguenti all'esecuzione delle previsioni ivi contenute.
2. Dal momento che la VAS si colloca al livello di macroterritorio, tendente ad esaminare gli impatti strategici delle scelte di pianificazione, essa si differenza della VIA, che opera a livello di uno specifico progetto: pertanto, va esclusa la necessità di una valutazione strategica qualora lo strumento attuativo non abbia modificato la disciplina di pianificazione e programmazione (cfr. TAR Milano, sent. n. 5171/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 16.02.2012

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Spettabile redazione sito PTPL,
vorrei segnalare un’eccezionale opportunità contenuta in una delle c.d. “manovre Monti” è più precisamente una norma contenuta nella Legge 22.12.2011 n. 214 ...
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- responsabile UT comune del bergamasco).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Le acque paesaggisticamente vincolate (spunto di riflessione all’indomani della emanazione della deliberazione della Giunta Regionale della Lombardia 22/12/2011, n. IX/2727 – Sospetta illegittimità costituzionale in parte qua) (link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Albanese, Antenne e disponibilità di aree gravate da uso civico (link a www.lexambiente.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni a tempo determinato ex art. 90 TUEL e art. 9, comma 28, D.L. 78/2010.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Marche, con il parere 10.02.2012 n. 6, si occupa del limite di spesa applicabile al personale da assumere a tempo determinato in posizione di staff al Sindaco.
Le conclusioni del parere sono le seguenti:
"La Sezione esprime l'avviso che, ai sensi dell'art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010, come modificato dall'art. 4, comma 102, lett. "b", della legge 183/2011, costituisca, per gli enti locali, principio generale ai fini della finanza pubblica il vincolo di avvalersi di personale a tempo determinato nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009".
Nelle argomentazioni la Corte ricorda le condizioni legittimanti le possibilità assunzionali (cui devono aggiungersi il rispetto del limite di spesa di personale di cui all'art. 1, commi 557 o 562, della legge n. 296/2006 ed il rispetto del patto di stabilità interno per gli enti soggetti), ovvero:
- la programmazione triennale ed il piano annuale delle assunzioni
- un rapporto inferiore al 50% tra spese di personale e spese correnti
- gli adempimenti in materia di rideterminazione della pianta organica
- l'adozione ed il rispetto del piano triennale delle azioni positive tendenti ad assicurare la pari opportunità tra uomini e donne
- la ricognizione annuale di eventuali eccedenze di personale
per le immissioni in ruolo, inoltre:
- gli adempimenti in materia di previa verifica di personale in mobilità (tratto da www.publika.it).

ENTI LOCALI: Calcolo spesa di personale/spesa corrente e stabilizzazione LSU/LPU.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Calabria, con il parere 26.01.2012 n. 3, risponde a diversi quesiti su quanto in oggetto formulati dal Comune di Cardeto (ente con popolazione inferiore a 5000 abitanti).
Dal parere della Corte si evince quanto segue:
- il rapporto del 50% tra spesa del personale e spesa corrente si applica a decorrere dal 01.01.2012, mentre per tutto il 2011 il rapporto è stato del 40% (fino al 31.12.2010 era invece il 50%)
- nel conteggio previsto dall'art. 76, comma 7, della legge n. 133/2008 (spesa di personale/spesa corrente) vanno comprese le spese per il personale utilizzato in comando o in convenzione, vanno escluse quelle per il personale comandato o assegnato ad altro ente in convenzione
- il divieto di assunzione di cui al precitato art. 76, comma 7, si applica anche al personale LSU - LPU da stabilizzare; la norma limitativa della facoltà di assumere va applicata anche a queste tipologie contrattuali, seppur in presenza di un contributo regionale a favore del Comune
- i lavoratori LSU - LPU che dovessero venire stabilizzati diventerebbero comunque a tutti gli effetti pubblici dipendenti e quindi graverebbero il bilancio dell'ente stabilizzatore contribuendo a determinare l'ammontare delle spese complessive del personale da includere nel parametro di cui all'art. 76, comma 7, della legge n. 133/2008 seppure in presenza di una forma di cofinanziamento della Regione (tratto da www.publika.it).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Vincolo paesaggistico.
Domanda.
Il potere che il ministero dei beni culturali e ambientali ha di imporre il vincolo paesaggistico, ai sensi dell'articolo 138 del decreto legislativo 22.01.2004, numero 42, è autonomo rispetto a quello che ha la regione in sede di pianificazione urbanistica?
Risposta.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar) Lazio, Roma, sezione II-quater, con la sentenza numero 33709, del 22.11.2010, ha affermato, in tema di vincolo paesaggistico e autorizzazione paesaggistica, ha puntualizzato che la potestà del Ministero dei beni culturali e ambientali di imporre il vincolo paesaggistico, ai sensi dell'articolo 138 del decreto legislativo 22.01.2004, numero 42, è del tutto autonoma rispetto a quella che ha la Regione in sede di pianificazione urbanistica. Il suo esercizio, pertanto, non viene a costituire una indebita interferenza nella pianificazione urbanistica.
Detta potestà, per i giudici amministrativi, alla luce del citato decreto legislativo numero 42, del 2004, così come modificato dal decreto legislativo 26.03.2008, numero 63, deve essere esercitata quando il ministero, sulla base di valutazioni assolutamente discrezionali, ritenga che possa essere a rischio l'interesse costituzionalmente affidato allo stato.
Aggiungono, poi i giudici laziali; che la potestà suddetta di imporre il vincolo paesaggistico ai sensi dell'articolo 138 del decreto legislativo 22.01.2004, numero 42, comprende anche il potere di indicare le norme d'uso dei singoli beni e gli indirizzi finalizzati alla conservazione dei valori espressi dall'insieme dei beni stessi;
che i vincoli suddetti possono essere apposti pure al solo fine di prevenire l'aggravamento della situazione allo stato esistente, nonché al fine di perseguire il possibile recupero delle aree interessate.
Il lettore può consultare, pure, la sentenza del Tribunale regionale amministrativo (Tar) Lombardia, Milano, sezione, VI, del 28.10.2010, numero 7148, nonché la sentenza del Tribunale regionale amministrativo (Tar) Lazio, Roma, sezione II-quater, numero 36581, del 14.12.2010 (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2012).

URBANISTICA: Valutazione ambientale strategica.
Domanda.
In qualità di proprietario del terreno interessato da strumento urbanistico, posso vantare un interesse strumentale all'impugnazione di uno strumento urbanistico al fine di una riedizione del potere amministrativo pianificatorio, che abbia come risultato finale un provvedimento a me più favorevole?
Risposta.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar) Lombardia, Milano, Sezione II, con la sentenza numero 188, del 27.01.2010, aveva riconosciuto al ricorrente portatore di un interesse strumentale all'impugnazione di uno strumento urbanistico al fine di una riedizione del potere amministrativo pianificatorio detto interesse strumentale. Detta decisione teneva presente il precedente pronunciamento del Consiglio di stato, sezione V, espresso con la sentenza del 15.11.2001, numero 5839.
Ora, il Consiglio di stato, sezione IV, con la sentenza del 12.01.2011, numero 133, dopo avere evidenziato che la Valutazione ambientale strategica (Vas) non è configurata come un procedimento o un sub procedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ha affermato che è legittima, e anzi quasi fisiologica l'evenienza che l'Autorità competente alla Valutazione ambientale strategica (Vas) sia identificata in un organo o ufficio interno alla stessa Autorità procedente.
I Supremi giudici amministrativi, hanno affermato, poi, che l'interesse cosiddetto strumentale all'impugnazione di uno strumento urbanistico sussiste soltanto se sussistono specifici vizi in ordine alle determinazioni che riguardano il regime dei suoli di proprietà del privato ricorrente. Pertanto, per il Consiglio di stato, il cosiddetto interesse strumentale «non può fondarsi sul generico interesse ad una migliore pianificazione del proprio suolo, che in quanto tale non si differenzia dall'eguale interesse che il quisque de populo potrebbe nutrire».
«In altri termini, aggiungono i Supremi giudici, l'utilità comunque rappresentata dal possibile vantaggio che astrattamente il ricorrente potrebbe ottenere per effetto della riedizione dell'attività amministrativa non è ex se indicativa della titolarità di una posizione di interesse giuridicamente qualificata e differenziata, idonea, a legittimare la tutela giurisdizionale». Il lettore può consultare, anche, la sentenza del Consiglio di stato, Sezione IV, del 13.07.2010, numero 4546 (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2012).

URBANISTICA: Diritto all'ambiente salubre.
Domanda.
In quanto residente in un determinato ambito territoriale, ho diritto a impugnare un piano territoriale che violi il mio diritto all'ambiente salubre?
Risposta.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar), Trento, sezione I, con la sentenza del 09.12.2010, numero 230, ha riconosciuto, a coloro che risiedono in un determinato ambito territoriale, la titolarità dell'interesse legittimo rispetto all'azione di programmazione territoriale.
Scrivono i giudici trentini: «Al riguardo, è sufficiente rammentare l'insegnamento giurisprudenziale al quale questo tribunale ha da tempo aderito, secondo cui, in materia urbanistica, l'ordinamento riconosce una posizione qualificata e differenziata a tutti coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento (residenza, possesso o detenzione di immobili, o altro titolo di qualificata frequentazione) con la zona interessata dall'operazione contestata». (Le proprie sentenze, richiamate dai giudici di Trento, sono la numero 8, del 25.03.2009, e la numero 262, del 21.10.2009).
È necessario, però, che vi sia una «specifica lesione di posizioni giuridiche soggettive differenziate che distingua la sfera del ricorrente rispetto alla collettività indistinta». Questo stabile collegamento con la zona interessata dal nuovo intervento «non postula necessariamente l'adiacenza fra gli immobili, essendo sufficiente la semplice prossimità, senza che sia necessario dimostrare ulteriormente la sussistenza di un interesse qualificato alla tutela giurisdizionale», come affermato dal consiglio di stato, sezione IV, con la sentenza del 16.03.2010, numero 1535.
Pertanto, sono legittimati all'impugnazione tutti coloro che possono lamentare una alterazione pregiudizievole del preesistente assetto urbanistico ed edilizio causa della realizzazione dell'intervento controverso, come sostenuto dal consiglio di stato, sezione IV, con la sentenza del 10.04.2008, numero 1548. E non è necessario «richiedere la prova di un danno specifico, essendo insito nella violazione edilizia il danno a tutti i membri di quella collettività», come bene sottolineato dal consiglio di stato, sezione VI, con la sentenza numero 400, dell'01.02.2010 (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2012).

NEWS

APPALTIPiccoli Comuni. Centrali uniche di committenza - Gli acquisti unificati slittano a marzo 2013.
La proroga generalizzata agli obblighi di Unione e associazione per i Comuni fino a 5mila abitanti imbarca al Senato un nuovo capitolo: slitta a fine marzo 2013, grazie a un emendamento approvato ieri in commissione, l'obbligo per i piccoli enti di creare centrali uniche per l'acquisizione di lavori, servizi e forniture.
Il rinvio nasce per evidenti problemi di coordinamento con la cura delle Unioni e associazioni obbligatorie scritta nella manovra estiva, e rinviata di nove mesi dai correttivi al Milleproroghe approvati alla Camera. Il tema è quello sollevato dall'articolo 16 del Dl 138/2011, che imporrebbe agli enti fino a mille abitanti di confluire in Unioni (di almeno 5mila residenti, 3mila in montagna) per gestire tutte le attività, e a quelli fra mille e 5mila di dare vita a gestioni associate (di almeno 10mila abitanti) per le funzioni fondamentali.
Dopo il primo passaggio parlamentare del Milleproroghe, la partita è stata spostata al 2013, e gli amministratori locali contano di sfruttare i tempi supplementari per rivedere a fondo tutta la disciplina. In questo quadro, mantenere l'obbligo di centrale unica a partire da marzo avrebbe significato introdurre un vincolo parziale mentre la cornice generale era saltata (articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOSemplificazioni. Effetto combinato tra le norme sugli iter conclusi oltre i termini e la riforma Brunetta.
Il ritardo «licenzia» il dirigente. La valutazione negativa per due anni può far scattare la sanzione.

Il decreto legge sulle semplificazioni pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» di giovedì mette in campo una serie di nuove tutele nei confronti del cittadino che presenta una istanza alla Pubblica Amministrazione.
Dall'introduzione del potere sostitutivo del dirigente individuato dall'amministrazione, o in mancanza, predefinito dal legislatore stesso, il cittadino allo scadere del termine per l'emanazione del provvedimento di suo interesse può investire direttamente il sostituto e ottenere quanto gli necessita, con un minimo di attesa ulteriore comunque pari a non oltre la metà del tempo fissato dalla legge o dal regolamento dell'amministrazione. Al verificarsi di un tale ritardo maturano in primo luogo gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa del dirigente o del funzionario che avrebbe dovuto provvedervi, e scatta la segnalazione alla Corte dei Conti che potrà condannare il lavoratore a risarcire un danno al suo ente di appartenenza.
Il ritardo o l'assenza del provvedimento finale costituisce anche elemento di valutazione negativa della prestazione del dirigente o del funzionario per l'anno in cui esso si verifica, e può comportare una riduzione dell'indennità di risultato; si tratta in queste ipotesi di responsabilità «dirigenziale» che si aggiunge alla responsabilità amministrativa.
In casi estremi si può verificare per l'interessato una valutazione talmente negativa da determinare, qualora si ripeta per almeno due anni, anche non consecutivi, una valutazione di insufficiente rendimento: un'eventualità che rende il dirigente suscettibile di licenziamento disciplinare, come previsto dal decreto Brunetta (nel nuovo articolo 55-quater, comma 2, Dlgs 165/2001). Dal ritardo o dall'omissione del provvedimento richiesto dal cittadino, anche prima del decreto semplificazione e sviluppo, sorgeva a dire il vero in capo al dirigente o al funzionario responsabile anche una responsabilità di natura disciplinare.
Occorre però distinguere il comportamento del lavoratore che ha semplicemente ritardato nell'emanare un atto dovuto dall'ipotesi in cui il ritardo o l'omissione abbia anche comportato per il cittadino un danno ingiusto. Nella prima ipotesi la responsabilità disciplinare deriva dal comportamento scarsamente diligente nell'esecuzione dei suoi compiti e nella trattazione ordinata delle pratiche che potrà comportare dal minimo del richiamo verbale al massimo della multa fino a quattro ore di retribuzione.
Qualora invece il cittadino investa il giudice civile, richiedendo un risarcimento alla Pa per il danno subito, al dirigente o al funzionario potrà venire contestata una diversa figura di responsabilità disciplinare. Anch'essa é stata introdotta dal decreto Brunetta, tra le ipotesi di «responsabilità per comportamento pregiudizievole per l'amministrazione» (articolo 55-sexies, comma 1, Dlgs 165/2001). Questa ipotesi di responsabilità disciplinare tuttavia richiede una sentenza favorevole al cittadino, che accerti il fatto che si sia verificato ai suoi danni un danno quale diretta conseguenza del ritardo o dell'omissione nell'emettere il provvedimento richiesto.
Come previsto dall'articolo 2-bis della legge 241/1990, modificata dalla legge 69/2009, il ritardo o l'omissione devono essere frutto di dolo o colpa, anche lieve, del dipendente pubblico. Richiede pertanto che il giudice si esprima in tal senso, avuto riguardo al comportamento complessivo del lavoratore e alle eventuali attenuanti dovute, ad esempio, a carenze organizzative a lui non imputabili.
L'entità del risarcimento riconosciuto con sentenza a favore del cittadino determina infine la gravità della sanzione disciplinare applicabile in queste ipotesi. Sanzione che varia da un minimo di tre giorni a un massimo di tre mesi di sospensione dal servizio e dalla retribuzione per il dirigente o funzionario responsabile del ritardo. Questo può tuttora costituire un problema, tenuto conto degli attuali tempi medi della giustizia, che rendono di fatto inefficace il meccanismo.
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L'incrocio delle regole
01 | LE SANZIONI
In caso di procedimenti conclusi in ritardo rispetto ai tempi fissati da leggi o regolamenti, può maturare per il dirigente o funzionario responsabile la responsabilità amministrativa, e scatta la segnalazione alla Corte dei conti che in caso di danno può stabilire la necessità di un risarcimento a favore dell'ente
02 | LA VALUTAZIONE
L'esistenza di procedimenti che arrivano in ritardo alla conclusione viene considerata obbligatoriamente nella valutazione della performance del dirigente responsabile
03 | LE CONSEGUENZE
La prima conseguenza diretta è di tipo economico, perché una valutazione negativa può ridurre fino ad annullare la retribuzione di risultato riconosciuta al dirigente
04 | RIFORMA BRUNETTA
L'entità dell'eventuale danno arrecato all'ente, invece, può determinare in capo al dirigente una sanzione aggiuntiva da tre giorni a tre mesi di sospensione dal servizio e dalla retribuzione. Nei casi più gravi, una valutazione negativa protratta per due anni può portare al licenziamento disciplinare (articolo Il Sole 24 Ore del 13.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI SERVIZIA rischio caos il calendario dei servizi pubblici.
TEMPI SERRATI/ Il Governo deve fissare le regole per i Comuni entro la fine di marzo e la Regione individua gli «ambiti» a maggio.

Il susseguirsi di interventi normativi sui servizi pubblici locali non contribuisce certo a fare chiarezza e a dare stabilità agli operatori, che si trovano sempre più sospesi tra novità e rinvii.
Da questo punto di vista il Dl sulle liberalizzazioni non rappresenta, purtroppo, un'eccezione: crea non poche incertezze e costringe i diversi attori istituzionali a un tour de force che rischia di portare a scelte poco ponderate e di rendere comunque inevitabile un'ennesima proroga di scadenze piuttosto che la definitiva messa a regime del sistema.
In ogni caso l'articolo 3-bis introdotto nel Dl 138/2011, che introduce una nuova forma di «ambiti ottimali» la cui definizione è affidata alle Regioni, richiede di essere interpretato con attenzione. Si noti, anzitutto, che qui non si applicano le esclusioni previste al comma 34 dell'articolo successivo. Pertanto il 3-bis e riguarda anche i settori non ricompresi nell'articolo 4 (energia elettrica, gas, farmacie e, parzialmente, l'idrico).
Per contro, la richiesta che le Regioni «organizzino lo svolgimento dei servizi pubblici locali in ambiti o bacini territoriali ottimali» (di dimensione almeno provinciale) non intende che tutti i servizi debbano essere gestiti a livello di ambito, ma solo quelli che la Regione giudicherà tali e quindi, probabilmente, quelli già così regolamentati: rifiuti, trasporto locale, acqua, eccetera Altrimenti, rischieremmo di assistere alla nascita di società cimiteriali di ambito e ad altre amenità del genere, vanificando l'autonomia, costituzionalmente garantita, dei Comuni.
Un'interpretazione omnicomprensiva di servizio pubblico andrebbe in contraddizione con le norme, compreso lo stesso articolo 3-bis, comma 2, che prevedono invece la possibilità dei Comuni di procedere ad affidamenti di servizi pubblici locali.
Cerchiamo di capire, infine, quali sono i «momenti chiave» del processo immaginato dagli articoli 3-bis e 4 in materia di servizi locali.
Il primo passo spetterà al Governo che, entro il 31 marzo, deve scrivere un decreto in cui illustrare con quali criteri i Comuni devono «individuare i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e universale, verificano la realizzabilità di una gestione concorrenziale» e, se del caso, decidono di attribuire il diritto di esclusiva su certi servizi (articolo 4, comma 1) ed emanare in proposito una delibera quadro (comma 2).
Il secondo spetta invece alla Regione che, in base all'articolo 3-bis, comma 1, dovrà individuare i servizi per i quali sia opportuna una dimensione almeno provinciale dell'ambito di affidamento e, quindi, emanare delle norme in proposito. Le Regioni dovranno fare tutto ciò entro il 30 giugno. Se questo non accade, sarà il Governo a intervenire con l'esercizio di un potere sostitutivo (ma che, immaginiamo, richiederà un po' di tempo per potersi dispiegare).
A seguito di ciò dovrà iniziare il lavoro di istruzione e di deliberazione dei Comuni che, preso atto del decreto governativo e di quanto regolamentato dalle Regioni, potranno formulare le loro scelte. I Comuni con oltre 10mila abitanti dovranno però richiedere, in base all'articolo 4, comma 3, il parere obbligatorio (ma non vincolante) dell'Autorità Garante per la Concorrenza che, a sua volta, si pronuncerà entro 60 giorni di tempo. Fatto questo, ci dovranno essere le gare per l'affidamento del servizio o con doppio oggetto, con i tempi che ne derivano.
Tutto ciò è realisticamente realizzabile? In effetti si ipotizza una tempistica non proprio compatibile con la prevista decadenza al 31.12.2012 degli affidamenti in house. E bene ha fatto il legislatore a introdurre un nuovo comma 32-ter all'articolo 4, che prevede una sorta di proroga di fatto degli affidamenti in essere, fino alla conclusione di questo laborioso iter burocratico (articolo Il Sole 24 Ore del 13.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIAppalti. Le nuove procedure. Nel contratto di disponibilità il pubblico si lega al privato.
L'ACCORDO/ Con l'intesa l'affidatario mette l'opera a disposizione dell'amministrazione in cambio di canoni, contributi o prezzo di trasferimento.

Il pacchetto normativo contenuto nei decreti sulle liberalizzazioni e sulle semplificazioni ha prodotto molte innovazioni nel Codice dei contratti pubblici, sia procedurali sia relative a nuove soluzioni per definire i rapporti tra stazioni appaltanti e appaltatori.
La nuova configurazione dell'appalto riguarda soprattutto i lavori pubblici, per i quali l'articolo 52 del Dl 1/2012 ha previsto una revisione dell'articolo 93 del Codice, che consente l'aggregazione dei livelli progettuali (preliminare con definitivo e definitivo con esecutivo), a condizione che sia garantita la completezza degli elementi descrittivi e tecnici. Anche l'approvazione del progetto può essere ottimizzata in rapporto all'aggregazione dei livelli, con una scelta di maggior dettaglio.
Questi aspetti incidono anche sulla programmazione, per la quale le nuove disposizioni richiedono che per i lavori sotto al milione di euro di valore sia elaborato almeno uno studio di fattibilità, e per i lavori di importo superiore almeno un progetto preliminare.
Alcune fasi della gestione della procedura selettiva sono state semplificate, con riferimento ai controlli sui requisiti di ordine generale e di capacità (economico-finanziaria e tecnico-professionale), rafforzando le previsioni del Codice sulla banca dati nazionale degli appalti. Questa sarà l'unica fonte di verifica dei requisiti dal 2013, secondo un processo regolato dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici. Il riscontro di requisiti secondo le modalità tradizionali, con la collaborazione degli operatori economici concorrenti sarà possibile solo per le informazioni non presenti nella banca dati nazionale.
Un'importante innovazione riguarda anche il procedimento gestito dall'Avcp per l'esclusione dalle gare di un'impresa che abbia reso false dichiarazioni in sede di gara: l'interdizione di un anno è ora riconfigurata come termine massimo deciso dalla stessa Autorità in rapporto alla gravità della situazione rilevata (ad esempio potendo differenziare se la falsa dichiarazione deriva da dolo o da colpa grave).
La selezione dell'appaltatore può condurre ora a nuove forme di relazione con l'amministrazione, maggiormente improntate alla valorizzazione della partnership pubblico-privato.
In tale prospettiva assume rilevanza l'innovazione dell'articolo 44 del Dl 1/2012, con la disciplina del «contratto di disponibilità». In questo rapporto sono affidate, a rischio e a spesa dell'affidatario, la costruzione e la messa a disposizione a favore dell'amministrazione aggiudicatrice di un'opera di proprietà privata destinata all'esercizio di un pubblico servizio, a fronte di un corrispettivo.
Per «messa a disposizione» la norma intende l'onere assunto a proprio rischio dall'affidatario di assicurare all'amministrazione la costante fruibilità dell'opera, nel rispetto dei parametri di funzionalità previsti dal contratto, garantendo la manutenzione e la risoluzione di tutti gli eventuali vizi, anche sopravvenuti.
La disponibilità dell'opera è retribuibile con tre forme diverse, che vanno dal semplice canone al riconoscimento di un contributo in corso d'opera, sino alla corresponsione di un prezzo di trasferimento.
La sostanziale innovazione rispetto a soluzioni di partnership già presenti nel codice (ad esempio locazione finanziaria o project financing) è rinvenibile nella previsione per cui nel contratto l'affidatario assume il rischio della costruzione (comprensivo della progettazione e dello sviluppo della gara) e della gestione tecnica dell'opera per il periodo di messa a disposizione dell'amministrazione aggiudicatrice.
La finalità realizzativa di opere con elevato livello qualitativo comporta l'utilizzo del metodo dell'offerta economicamente più vantaggiosa per la valutazione delle offerte, mentre sul piano operativo la norma prevede che gli oneri connessi agli eventuali espropri siano considerati nel quadro economico degli investimenti e finanziati nell'ambito del contratto di disponibilità (articolo Il Sole 24 Ore del 13.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAScarichi e rumori, sconti alle pmi. Assimilazione tra acque reflue industriali e quelle domestiche. Autorizzazioni semplificate: autocertificazione invece della documentazione di impatto acustico.
Dal 18 febbraio le piccole e medie imprese a ridotto impatto ambientale potranno godere di un regime autorizzatorio «light» per scarichi idrici e inquinamento acustico.
Ad aprire alle pmi le porte delle semplificazioni burocratiche ambientali è il dpr 227/2011, emanato in attuazione del dl 78/2010 (il noto decreto legge in materia di competitività). Il provvedimento, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 03.02.2012 n. 28 e in vigore dal successivo giorno 18, incide (derogandola) sulla disciplina ordinaria contenuta nel dlgs 152/2006 (cd. «Codice ambientale») in materia di acque reflue industriali e sulla disciplina dettata dalla legge 447/1995 in materia di inquinamento acustico.
Acque industriali «come» domestiche. Attraverso l'assimilazione ex lege di alcune acque reflue industriali alle acque reflue domestiche, il nuovo dpr 227/2011 consente ai titolari dei relativi insediamenti produttivi di ottenere il permesso allo scarico in base al più leggero iter burocratico speciale stabilito dalle regioni in attuazione del «Codice ambientale» (istruttoria semplificata e rinnovo tacito) in luogo del più severo regime ordinario stabilito dal dlgs 152/2006 (autorizzazione dietro presentazione di analitica documentazione, da rinnovare poi ogni quattro anni dietro nuova domanda presentata un anno prima della scadenza).
Per godere delle semplificazione le pmi dovranno soddisfano contemporaneamente due condizioni. La prima è quella di avere acque reflue che rispettano comunque i limiti massimi di inquinanti previsti dall'articolo 101 del dlgs 152/2006.
La seconda è quella di avere acque reflue che rientrano in almeno una delle tre categorie previste dal nuovo dpr 227/2011, ossia: acque reflue che prima di ogni trattamento depurativo presentano livelli inquinanti rientranti nei parametri disegnati dal nuovo dpr 227/2011; acque reflue che derivano da attività di servizi igienici, cucine e mense; acque reflue che provengono da una delle 35 attività elencate dallo stesso decreto (tra cui: alberghiere, ristorative, ricreative, turistiche, sportive, artigianali, di vendita al dettaglio, agroalimentari, ospedaliere, di intermediazione assicurativa).
Rinnovi «soft» per scarichi. Oltre ai vantaggi dell'assimilazione, le pmi titolari di scarichi industriali non contenenti sostanze pericolose e non soggetti a modifiche quali/quantitative (come volume delle acque, sostanze in esse contenute) potranno ottenere il rinnovo della relativa autorizzazione presentando solo sei mesi prima della scadenza (in luogo dell'anno previsto dal regime ordinario del dlgs 152/2006) una semplice istanza recante, in autodichiarazione ex dpr 445/2000, i dati precisati dal nuovo dpr 227/2011 (e ciò in luogo della nuova e ordinaria domanda prevista di «default» dal dlgs 152/2006).
Deroghe all'impatto acustico. Le attività commerciali e artigianali definite «a bassa rumorosità» dal nuovo dpr 227/2011, attività coincidenti in linea di massima con le tipologie produttive più sopra descritte (con l'eccezione di quelle ristorative e ricreative con impianti di diffusione sonora, qui escluse) non dovranno più presentare alle pubbliche autorità la «documentazione di impatto acustico» prevista dall'articolo 8 della legge 447/1995.
La stessa «documentazione di impatto acustico» potrà invece essere prodotta in semplice autocertificazione da parte delle pmi commerciali e artigiane che non superano comunque i limiti di emissione stabiliti dalla classificazione acustica comunale (e, ove non effettuata, rispettose comunque dei previsti dal dpcm 14.11.1997).
Competenza dello «Sportello unico». Il dpr 227/2011 prevede infine la convergenza delle procedure amministrative relative alle descritte autorizzazioni in materia di acque e rumore presso lo «Sportello unico per le attività produttive», l'ufficio istituito dal dpr 160/2010 e meglio noto con l'acronimo «Suap» (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2012).

GIURISPRUDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOrganizzazione degli uffici e dei sevizi degli enti locali: limiti alla scelte politiche nella riorganizzazione dell'Ufficio legale degli enti pubblici.
L’Amministrazione pubblica gode, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione, di un ampio margine di auto-organizzazione degli uffici e del personale, il che è stato ulteriormente ribadito dalla legge n. 127 del 1997 che, nel modificare l’art. 51 della legge n. 142 del 1990, ha modificato la competenza ad adottare il regolamento degli uffici e dei servizi, attribuendolo (unico fra tutti i regolamenti) alla Giunta, proprio per porre in evidenza che la organizzazione degli uffici degli enti locali è vicenda operativa intrinsecamente collegata con il potere operativo e non può sottostare alle discussioni di un’approvazione assembleare. Ma se ciò è vero, come è indubitabile, è anche vero che l’esercizio in concreto di tale discrezionalità non è senza limiti, altrimenti essa si tramuterebbe in una incondizionata licenza, senza alcun limite e senza alcuna possibilità di controllo.
Pertanto, pur nella notevole discrezionalità che caratterizza la materia, essa incontra due limiti: uno è quello della ragionevolezza, nel senso che, qualora si dovessero riscontrare patenti violazione dell’ordine logico e si dovesse individuare una organizzazione che non si presenta rispettosa dei principi di cui all’art. 97 Cost., allora l’esame del provvedimento di macro-organizzazione diventa non solo necessario, ma addirittura indispensabile; l’altro limite, si potrebbe dire, naturalmente, è quello del rispetto delle statuizioni esistenti e, in particolare, nel caso che interessa in questa sede, delle guarentigie attribuite a determinate categorie di soggetti operanti nell’ambito della pubblica amministrazione.
Nel caso di specie il Consiglio di Stato ha rilevato come la normativa attualmente vigente (con particolare riferimento, oltre alla natura dell’attività tipica di un ufficio legale, ricavabile dal principi generali dell’ordinamento giuridico, dall’art. 3 del r.d. n. 1578 del 1933 e dall’art. 15, comma 2, della legge n. 70 del 1975) prevede che gli uffici legali degli enti pubblici devono godere di autonomia e di indipendenza, per cui, al di là delle scelte politiche, la parte squisitamente tecnica non può essere sottoposta né a condizionamenti, né a valutazioni che possano in qualche modo svilirne il modo di essere. Indubbiamente, l’Ufficio legale è sempre un ufficio dell’Amministrazione e non può sottrarsi alle indicazioni degli organi di vertice, nel senso di agire al di fuori di quelle indicazioni, ma tali indicazioni non possono mai intaccare la visione autonoma delle vicende che sono sottoposte alla sua cognizione.
Mentre nella vicenda che interessa la presente fattispecie, il Consiglio di Stato ha rilevato come si sia assistito, non tanto all’allontanamento, del dirigente dell’Avvocatura, per il quale non vi è giurisdizione del giudice amministrativo, ma soprattutto allo smembramento dell’Ufficio, che finisce di essere un vero e proprio ufficio legale, sia per la sottoposizione al coordinamento e alla sovrintendenza del direttore generale, sia per la sottrazione dei pareri legali (affidati addirittura ad un ufficio archivio e protocollo), sia per la sottrazione del contenzioso in materia di controversie di lavoro, affidato al settore risorse umane, e sia, ancora, per l’affidamento all’ufficio legale in materia di costituzione in giudizio, di un mero parere amministrativo, mentre la tecnicità dell’ufficio prevederebbe invece un parere di natura tecnico-giuridica.
Da ciò consegue a dire del Collegio che il provvedimento di macro-organizzazione posto in essere nel caso di specie dalla Provincia di Salerno, oltre a violare le guarentigie dell’Ufficio legale, si prospetta anche particolarmente perplesso, in ordine al raggiungimento degli interessi pubblici che sono collegati con un’attività di tipo giuridico e non può, conseguentemente, essere considerato legittimo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.02.2012 n. 730 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICICaratteri distintivi che consentono di qualificare una strada come "strada pubblica" o "strada privata sottoposta a servitù di passaggio pubblico".
La giurisprudenza insegna che costituisce una strada pubblica quel tratto viario che non è cieco, ma assume una esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di persone: C.d.S., V, 07.12.2010, n. 8624; che il connotato di interclusione dell'area servita esclude che vi possa sorgere un uso stradale in favore di una collettività indeterminata, e fa invece concludere per un'utilità limitata ai soli proprietari frontisti: C.d.S., V, 18.12.2006, n. 7601; che un'area privata può ritenersi assoggettata ad uso pubblico di passaggio quando l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato; oppure quando vi sia stato, con la cosiddetta dicatio ad patriam, l'asservimento del bene da parte del proprietario all'uso pubblico, analogamente, di una comunità indeterminata di soggetti considerati sempre uti cives, di talché il bene stesso viene ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale: Cassazione civile, sez. II, 21.05.2001, n. 6924; che ai fini della dicatio ad patriam occorre pur sempre il requisito dell’idoneità intrinseca del bene a soddisfare un’esigenza comune della collettività dei consociati uti cives: Cass. Civ., II, 13.02.2006, n. 3075.
In coerenza con gli enunciati appena esposti, la giurisprudenza afferma in definitiva che, perché un'area privata possa ritenersi sottoposta ad una servitù pubblica di passaggio, è necessario, oltre all'intrinseca idoneità del bene, che l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse.
Ne consegue che deve escludersi l'uso pubblico quando il passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere ad essi per esigenze connesse alla loro privata utilizzazione (Cass. Civ., II, 23.05.1995, n. 5637), oppure, infine, rispetto a strade destinate al servizio di un determinato edificio o complesso di edifici (Cass. civ., I, 22.06.1985, n. 3761) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.02.2012 n. 728 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL'aggiudicazione definitiva della gara può, ove previsto dal bando, essere comunicata via fax ed il relativo rapporto di trasmissione via fax è strumento idoneo a far decorrere i termini di impugnativa.
In base alla più recente normativa (d.p.r. 28.12.2000, n. 445) il fax è strumento ordinario di comunicazione di atti e documenti, in quanto soddisfa sia la forma scritta che la fonte di provenienza. In forza dell’art. 43, comma 6, un fax deve presumersi giunto al destinatario quando il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta regolarmente. In materia di procedure ad evidenza pubblica, l’art. 77 del d. lgv. n. 163 del 2006 stabilisce che è in facoltà delle stazioni appaltanti e degli operatori economici inviare le comunicazioni via telefax, purché di ciò si dia comunicazione nel bando o nell’invito.
Sulla scorta della normativa citata, la giurisprudenza ha ritenuto che il rapporto di trasmissione via fax è strumento idoneo a garantire con sufficiente certezza l’effettività della comunicazione e, quindi, a far decorrere i termini di impugnativa, senza che il soggetto che ha trasmesso il fax debba fornire ulteriore prova oltre quella risultante dal rapporto di trasmissione che indichi le regolari avvenute trasmissione e ricezione. Grava, invece, sul ricevente che assume la mancata ricezione fornirne la prova contraria (Cons. Stato, sez. V, 18.08.2010, n. 5845; 24.04.2002, n. 2202).
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.02.2012 n. 722 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIPrincipi giurisprudenziali consolidati in tema di verifica della anomalia della offerta.
Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato procede nella rassegna di principi ormai acquisiti dalla giurisprudenza rilevando:
- che le valutazioni della stazione appaltante circa la verifica della anomalia dell’offerta sono espressione di discrezionalità amministrativa non sindacabile in sede giurisdizionale se non in presenza di una manifesta illogicità (cfr. Cons. St. V, 21.01.2009, n. 278);
- che quando si tratti di giudizio favorevole (in tema di anomalia della offerta) esso non richiede di regola una motivazione puntuale ed analitica, anche perché le giustificazioni presentate possono costituire motivazione “per relationem” del provvedimento (cfr. Cons. St. V, 11.07.2008, n. 3481);
- che in ogni caso il giudizio di verifica della congruità di un’offerta che si assume anomala ha natura globale e sintetica, sì che l’attendibilità della offerta va valutata nella sua globalità (cfr. Cons. St. V, 12.06.2009, n. 3762);
- che conseguentemente l’esito della gara può essere travolto dalla pronuncia del giudice amministrativo solo quando il giudizio negativo sul piano della attendibilità riguardi voci che, per la loro rilevanza ed incidenza complessiva, rendano l’intera operazione economica non plausibile (cfr. Cons. St. V, 28.10.2010, n. 7631) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 14.02.2012 n. 710 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: E' necessaria la querela di falso per contestare il verbale di sopralluogo redatto dagli agenti e tecnici comunali attestante l'esistenza di manufatti abusivi in quanto essendo un atto pubblico esso fa piena prova fino a querela di falso delle circostanze di fatto in esse accertate sia relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status quo ante.
In materia di edilizia ed urbanistica, è sufficientemente motivato il provvedimento che, a fronte di un abuso edilizio, ne ordina la demolizione con richiamo al verbale di sopralluogo dei tecnici comunali dato che, com’è noto, il provvedimento sanzionatorio in materia edilizia ha natura del tutto vincolata giacché è conseguente ad un accertamento tecnico della consistenza delle opere abusive realizzate.
Il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del comune a seguito di sopralluogo, attestante l'esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse accertate sia relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status quo ante. In sostanza il verbale ben può rilevare la presenza di interventi edilizi su strutture preesistenti che modificano la situazione di fatto notoriamente in essere in precedenza, ovvero quella risultante da atti comunali, dagli atti catastali, dai registri della proprietà, ecc. ecc..
Pertanto, in difetto della predetta querela di falso del verbale, esattamente il TAR -anche in assenza di costituzione del Comune- ha posto a base della decisione il predetto verbale. Ma anche a voler prescindere dal rilievo che precede, si deve rilevare che, contrariamente a quanto mostrano di intendere le ricorrenti, trovava integrale applicazione anche nel processo amministrativo la disciplina contenuta nell'art. 2697 c.c. (corrispondente, ora, all'art. 64, comma 1, d.lgs. n. 104/2010) secondo la quale spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti (cfr. Consiglio Stato , sez. IV, 11.02.2011, n. 924; Consiglio Stato, sez. IV, 27.01.2011, n. 618). Ciò implica che chi agisce in giudizio debba comunque fornire gli elementi probatori a favore delle proprie tesi.
Nel giudizio di impugnazione dell’ordinanza repressiva di un abuso edilizio è onere del privato quindi fornire la prova dello "status quo ante", in quanto la p.a. non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio. Chi realizza interventi, ritenuti abusivi, su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare rigorosamente, se intende evitare le misure repressive di legge, lo stato della preesistenza, proprio in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c. (arg. ex Consiglio Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8298).
In tali casi, il privato dispone, ed è normalmente in grado di esibire, la documentazione idonea al fine di fornire utili elementi di valutazione quali ad es. o ancora anche fotografie con data certa dell’immobile; estratti delle planimetri catastali; il progetto originario e i suoi allegati, ecc.. Le ricorrenti, a dimostrazione dell’assenza dell’abuso, avrebbero cioè dovuto allegare gli elementi di prova (fotografie, documenti di proprietà, certificazioni catastali, titoli edilizi, ecc.) idonei a smentire i presupposti di fatto dell’ordinanza.
Pertanto, ad avviso del Consiglio di Stato erroneamente le ricorrenti –a fronte di un verbale a fede privilegiata– pretenderebbero che, con un’inammissibile integrazione dell’atto, l’Amministrazione provasse giudizialmente i fatti posti a base della sua azione, perché ciò si risolverebbe in un’inammissibile assoluta inversione dell'onere della prova. L’amministrazione infatti non ha un dovere di costituirsi necessariamente in giudizio impugnatorio, per cui il privato che contesta la legittimità del provvedimento deve comunque allegare al gravame gli elementi probatori in grado di contrastare le conclusioni ed i presupposti dell’atto impugnato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.02.2012 n. 703 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Pubblica in bacheca comunale l’atto amministrativo contenente le infermità del dipendente: sì al risarcimento per diffusione di dati sensibili.
Così ha stabilito la I Sez. civile della Corte di Cassazione, pronunciandosi, con sentenza 13.02.2012 n. 2034, sul risarcimento dei danni non patrimoniali, riconosciuti nel precedente grado di giudizio ad un dipendente del Comune, cui gli era stata negata la dipendenza da causa di servizio per una patologia da cui era affetto.
Il dichiarato danno non patrimoniale, conseguente alla lesione del proprio diritto alla riservatezza, sopraggiungeva dal momento in cui la responsabile dell’area direzionale del Comune, che appunto aveva negato il riconoscimento, riportava nell’atto amministrativo diagnosi, cure, natura ed effetti della patologia e ne disponeva la pubblicazione nell’Albo Pretorio del Comune per 15 giorni.
La Corte di cassazione ha ribadito l’illiceità del comportamento per violazione dell’art. 2 della Costituzione e delle disposizioni di cui al D.Lgs. 193/2003 (Codice della privacy), cioè per illegittima divulgazione dei dati personali e sensibili riguardanti la salute.
In particolare, la pubblica amministrazione ha violato il principio di pertinenza e di non eccedenza, principio secondo cui commette un illecito se effettua il trattamento di un dato che risulti eccedente le finalità pubbliche da soddisfare. Nella fattispecie, il trattamento dei dati sensibili è risultato eccedente la funzione pubblica (quella della pubblicazione dell’atto).
La pubblicazione della determinazione amministrativa, infatti, era avvenuta in modo tale per cui chiunque avrebbe potuto leggerne la motivazione e apprendere le informazioni sulla salute del soggetto interessato. Di conseguenza, un ulteriore pregiudizio derivava proprio dalla specifica preoccupazione dell’attore della possibile lettura dell’atto amministrativo da parte di un numero indeterminato di soggetti, e dunque dal fatto di non sapere quali e quante persone avevano in realtà conosciuto la propria situazione di salute.
D’altronde le stesse motivazione dell’atto si sarebbero potute egualmente esprimere adottando una differente modalità di notificazione o più semplicemente sarebbe, bastato per tutelare il soggetto interessato, l’utilizzo di “omissis”.
Debole è apparsa la difesa della responsabile dell’area direzionale del Comune, la quale, oltre a sosteneva che il pregiudizio arrecato non fosse stato minimamente provato, ma solo supposto, ribatteva che gli incaricati dell’affissione all’albo degli atti comunali avevano sì affisso la determinazione, ma in parte sovrapposta ad altra deliberazione, per cui in concreto non sarebbe stato possibile al pubblico accertare il contenuto della motivazione contenente la pretesa violazione del diritto alla riservatezza (tratto da www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La congruità del termine assegnato dall'Ente Locale per l'esecuzione della demolizione va valutato con esclusivo riferimento alla tipologia delle opere da rimuovere.
Nella vicenda in esame i ricorrenti hanno prospettano l’incongruità del termine di trenta giorni assegnato dal Comune per l’esecuzione della demolizione delle opere abusive in quanto lo stesso sarebbe inferiore al termine previsto per l’impugnativa giurisdizionale e, comunque, non consentirebbe loro di reperire un’idonea situazione alloggiativa.
Il Giudice ha ritenuto il motivo in esame infondato in quanto, a suo dire, la congruità del termine va valutata con esclusivo riferimento alla natura dell’adempimento da espletare e, quindi, alla tipologia delle opere da rimuovere senza alcuna rilevanza del periodo di tempo previsto per l’impugnazione (che, altrimenti, interferirebbe con l’esecutività dei provvedimenti amministrativi stabilita dalla legge) e delle necessità abitative dei ricorrenti, le quali ultime costituiscono circostanze di fatto non valutabili ai fini dell’individuazione del termine per la demolizione (TAR Campania, Napoli sentenza n. 3530/09) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 10.02.2012 n. 1373 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Il Sindaco e il Presidente della Provincia hanno la rappresentanza in giudizio dell'Ente Locale senza necessità di preventiva autorizzazione salvo diversa previsione statutaria.
Negli enti locali, nella vigenza della legge n. 142/1990, il potere di autorizzazione a stare in giudizio era di competenza della Giunta Comunale e il potere di conferire la procura del Sindaco (Cass. civ., sez. I, 21.12.2002 n. 18224 e 10.09.2003 n.13218).
Dopo l’entrata in vigore del Testo Unico Enti Locali (d.lgs. n. 267/2000), la giurisprudenza ha affermato che la rappresentanza in giudizio dell’ente locale spetta al Sindaco o al Presidente della Provincia, senza necessità di preventiva autorizzazione a stare in giudizio, e ciò salvo diversa previsione dello Statuto, il quale può sia prevedere la necessità della persistenza dell’autorizzazione, attribuendone il relativo potere, sia affidare la rappresentanza dell’ente ad un dirigente, o anche al dirigente dell’ufficio legale, con riferimento all’intero contenzioso (Cass. Sez. Un., 27.06.2005 n. 13710; Cons. St., sez. V, 07.09.2007 n. 4721; Cass. civ., sez. I, 13.01.2010 n. 387; sez. III, 05.08.2010 n. 18158) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.02.2012 n. 701 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Anche il tempo è un bene della vita per il cittadino ed il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica.
Per ogni ipotesi di responsabilità della p.a. per i danni causati per l’illegittimo esercizio (o, come nel caso di specie, mancato esercizio) dell’attività amministrativa, spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo perché tale principio attiene allo svolgimento dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti; se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subito e della sua entità, è comunque ineludibile l'obbligo di allegare circostanze di fatto precise e quando il soggetto onerato della allegazione e della prova dei fatti non vi adempie non può darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone l'impossibilità di provare l'ammontare preciso del pregiudizio subito, né può essere invocata una consulenza tecnica d’ufficio, diretta a supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del privato.
L''onere probatorio può ritenersi assolto allorché il ricorrente indichi, a fronte di un danno certo nella sua verificazione, taluni criteri di quantificazione dello stesso, salvo il potere del giudice di vagliarne la condivisibilità attraverso l'apporto tecnico del consulente o, comunque, quando il ricorrente fornisca un principio di prova della sussistenza e quantificazione del danno.

Nel caso di specie, ricorre l’ipotesi in cui il privato invoca la tutela risarcitoria per i danni conseguenti al ritardo con cui l'amministrazione ha adottato un provvedimento a lui favorevole, ma emanato appunto con ritardo rispetto al termine previsto per quel determinato procedimento.
Il ritardo procedimentale ha, quindi, determinato un ritardo nell’attribuzione del c.d. "bene della vita", costituito nel caso di specie dalla possibilità di avviare la costruzione e l’esercizio di un impianto fotovoltaico.
In questi casi la giurisprudenza è pacifica nell’ammettere il risarcimento del danno da ritardo (a condizione ovviamente che tale danno sussista e venga provato) e l’intervenuto art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge n. 69/2009, conferma e rafforza la tutela risarcitoria del privato nei confronti dei ritardi delle p.a., stabilendo che le pubbliche amministrazioni e i soggetti equiparati sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.
Secondo la giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato (sentenza 28.02.2011 n. 1271) la norma presuppone che anche il tempo è un bene della vita per il cittadino e che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento, è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica (Cons. Giust. Amm. reg. Sic., 04.11.2010 n. 1368, che, traendo argomenti dal citato art. 2-bis, ha aggiunto che il danno sussisterebbe anche se il procedimento autorizzatorio non si fosse ancora concluso e finanche se l’esito fosse stato in ipotesi negativo).
Nel caso di specie, non rileva la questione della risarcibilità del danno da ritardo in caso di non spettanza del c.d. "bene della vita" e della compatibilità dei principi affermati dalla decisione dell’Adunanza plenaria n. 7/2005 con il nuovo art. 2-bis della legge n. 241/1990, avendo la stessa amministrazione riconosciuto tale spettanza con il (tardivo) rilascio dell’autorizzazione unica di cui all’art. 12 del d.lgs. 387 del 2003.
Si deve, quindi, passare a verificare gli elementi probatori in ordine all’esistenza del danno e al rapporto di causalità con il menzionato ritardo.
Per ogni ipotesi di responsabilità della p.a. per i danni causati per l’illegittimo esercizio (o, come nel caso di specie, mancato esercizio) dell’attività amministrativa, spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo perché tale principio attiene allo svolgimento dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti; se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subito e della sua entità, è comunque ineludibile l'obbligo di allegare circostanze di fatto precise e quando il soggetto onerato della allegazione e della prova dei fatti non vi adempie non può darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone l'impossibilità di provare l'ammontare preciso del pregiudizio subito, né può essere invocata una consulenza tecnica d’ufficio, diretta a supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del privato (Cons. Stato, V, 13.06.2008 n. 2967).
La stessa richiamata giurisprudenza ha anche precisato che l'onere probatorio può ritenersi assolto allorché il ricorrente indichi, a fronte di un danno certo nella sua verificazione, taluni criteri di quantificazione dello stesso, salvo il potere del giudice di vagliarne la condivisibilità attraverso l'apporto tecnico del consulente o, comunque, quando il ricorrente fornisca un principio di prova della sussistenza e quantificazione del danno (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 10.02.2012 n. 111 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Annullamento d’ufficio di un illegittimo provvedimento di inquadramento, non è necessario motivare l’interesse pubblico all’intervento in autotutela.
Il potere di autotutela decisoria in capo all'Amministrazione non ha come unica finalità il mero ripristino della legalità, costituendo una potestà discrezionale che deve contemplare la verifica di determinate condizioni, previste dall'ordinamento e concernenti l'opportunità di correggere l'azione amministrativa svoltasi illegittimamente; l'annullamento è stato, pertanto, connotato dall’art. 21-nonies, comma 1, L. 241/1990 in termini di rinnovata manifestazione, entro un termine ragionevole, della funzione amministrativa. In tale ambito rilevano, oltre all'attualità di un interesse pubblico distinto ed ulteriore rispetto al mero ripristino della legalità violata, anche gli interessi di tutte le parti coinvolte e il tempo trascorso dalla determinazione viziata.
Lo ha puntualizzato il TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 09.02.2012 n. 703.
Deve pertanto ritenersi che il potere di autotutela, quale trova fondamento nel principio costituzionale di buon andamento, impegna la P.A. ad adottare gli atti il più possibile rispondenti ai fini da conseguire ed autorizza quindi anche il riesame degli atti adottati, ove reso opportuno da circostanze sopravvenute ovvero da un diverso apprezzamento della situazione preesistente.
In particolare, in caso di annullamento d’ufficio di un illegittimo provvedimento di inquadramento, in materia di pubblico impiego, non occorre una specifica motivazione sull’interesse pubblico all’intervento in autotutela
in quanto tale interesse è in re ipsa, ed è quello di risparmiare ed evitare spese non giustificate in base alla normativa, il che significa che per procedere all’annullamento d’ufficio di un inquadramento illegittimo è sufficiente l’esigenza di ripristinare la legalità. (cfr. Cons. Stato, VI, n. 1550/2009) (tratto da www.diritto.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Concorso per dirigente tecnico: per la prova orale la Commissione esaminatrice non e' vincolata dal curriculum del partecipante il quale deve essere pronto a rispondere su tutte le materie previste dal Bando.
In base al principio di imparzialità del concorso, i curricula “studiorum” e professionali dei singoli candidati non possono comunque costituire un limite o comunque un vincolo per la Commissione esaminatrice nella formulazione delle prove del colloquio.
Nella sostanza delle cose dunque, chi partecipa ad un concorso per posti di dirigente tecnico, deve essere pronto a rispondere su tutte le materie comunque previste del bando. Del tutto legittimamente qui la Commissione, nell’ambito delle materie della prova orale, ha proceduto ad accertare la specifica qualificazione professionale di coloro che sarebbero stati destinati ad assicurare le funzioni dirigenziali dell’amministrazione (quali i servizi catasto - tecnico erariale - registri immobiliari - gestione immobili dello stato, ecc. ecc.) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.02.2012 n. 694 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Con l'approvazione di un nuovo Piano Regolatore le nuove norme prevalgono e sostituiscono integralmente le precedenti con impossibilita' del Comune di disapplicarle non sussistendo una "ultrattività" del precedente PRG.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame rileva come in linea di principio, in base al principio della successione nel tempo delle norme, con l’approvazione di un nuovo Piano Regolatore, le disposizioni successivamente intervenute sostituiscono integralmente le precedenti prescrizioni del vecchio Piano riguardanti la zona medesima, che vengono del tutto meno per la fondamentale ragione che la pianificazione urbanistica, che ha per sua natura carattere dinamico, ha proprio la finalità di adeguare la disciplina del territorio alle sopravvenute esigenze.
Pertanto, essendo espressione di valutazione all’attualità delle esigenze in ordine all'utilizzazione del territorio, le nuove previsioni del Piano Regolatore: -- hanno un carattere di assoluta prevalenza, -- non possono essere disapplicate dallo stesso Comune, in favore di una "ultrattività" del precedente PRG; -- si sostituiscono integralmente (salvo il caso di una specifica norma transitoria ad hoc) alle precedenti disposizioni le quali non possono comunque conservare alcuna efficacia.
In ogni caso, i proprietari degli immobili, che non possono avere alcuna legittima aspettativa all'immutabilità della pianificazione urbanistica, non possono “scegliersi” la normativa edilizia che disciplina l’edificazione dei propri terreni. Per il noto principio tempus regit actum, la legittimità del rigetto del permesso di costruire deve infatti essere rapportata alla situazione di diritto riscontrabile alla data della relativa emanazione per cui è evidente come, nel caso, l’istanza edilizia doveva essere esaminata alla luce del PRG, (e delle ulteriori sopravvenute misure di salvaguardia) vigenti al momento della sua introduzione.
Né peraltro risulta per il caso sottoposto all'attenzione del Collegio che, relativamente venir meno della fabbricabilità dell’area, l’appellante abbia tempestivamente gravato il sopravvenuto piano regolatore generale e la relativa variante di adeguamento. Sotto il profilo sostanziale dunque l’appellante non aveva alcun titolo giuridico su cui fondare la sua pretesa all’edificazione de qua.
Esattamente l’Amministrazione Comunale ha dunque respinto un’istanza di permesso edilizio fondata dal privato su di un PRG non solo mai diventato efficace, ma anche superato dalla successiva disciplina urbanistica (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.02.2012 n. 693 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Individuazione degli elementi indispensabili per la legittimità della comunicazione di avvio del procedimento di occupazione d'urgenza ai fini espropriativi.
L’avviso di cui all’art. 11 DPR n. 327/2001 deve contenere, per essere legittimo e coerente con il citato articolato normativo oltre che con gli artt. 7 e 8 l. n. 241/1990, l’indicazione delle particelle e dei nominativi, quali indefettibili elementi diretti ad individuare i soggetti espropriandi ed i beni oggetto del procedimento amministrativo, e ciò sia che la comunicazione avvenga personalmente, sia che essa avvenga in forma collettiva mediante avviso pubblico (Cfr. Cons. di Stato, IV, 08/06/2011, n. 3500).
E’ evidente infatti che le modalità di comunicazione, seppur semplificate nella forma e nel numero, devono in ogni caso essere idonee a raggiungere lo scopo della effettiva conoscenza, di guisa che il proprietario inciso sia posto in grado di optare o meno per la partecipazione procedimentale in chiave difensiva (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.02.2012 n. 691 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto di accesso: il proprietario dell'immobile sovrastante l'unita' autorizzata dal Comune al cambio di destinazione d'uso ha diritto di richiedere all'amministrazione il certificato di agibilità di tale unità per la quale e' stata assentita la trasformazione e ove inesistente l’Amministrazione comunale e' tenuta ad attestare la circostanza relativa al mancato rilascio.
Ai sensi delle disposizioni di cui all’art. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990 la richiesta di esercizio dell’accesso può avere ad oggetto i documenti amministrativi formati e detenuti da un soggetto della pubblica amministrazione e presuppone nel richiedente un situazione giuridicamente rilevante ad ottenere l’ostensione di detti documenti.
Secondo un più che consolidato indirizzo giurisprudenziale, la situazione sottesa alla domanda di accesso si configura come un vero e proprio diritto soggettivo meritevole di tutela le quante volte la conoscenza degli atti oggetto della formulata richiesta, fatta eccezione per gli atti normativamente sottratti all’accesso, è strumentale all’esercizio di difesa dei propri interessi in sede giurisdizionale e/o in altra sede e comunque si rivela rilevante ai fini del conseguimento da parte dell’interessato di un bene della vita (ex plurimis, Cons. Stato Sez. VI 27.10.2006 n. 6440 ).
Sotto l’aspetto testé illustrato il Consiglio d Stato ha ritenuto la richiesta di accesso del ricorrente ammissibile, insorgendo la legittimazione del medesimo dall’essere proprietario dell’unità immobiliare sovrastante quella in cui è stato autorizzato il cambio di destinazione d’uso da garage ad ufficio, lì dove dai titoli di assentimento potrebbe derivare una lesione alle posizioni giuridiche soggettive vantate dall’originario ricorrente.
Quanto poi alla questione qui specificatamente sollevata, quella relativa ad una pretesa inesistenza del certificato di agibilità, la richiesta di accesso in via amministrativa del ricorrente e la successiva actio ad exibendum da lui attivata si appalesano ammissibili oltreché fondate nel merito. Invero, relativamente all’oggetto della domanda di accesso, occorre far presente che lo scopo della richiesta presuppone in colui che la produce un situazione di ignoranza nel senso che è normale che il richiedente non sa se detto documento esista o meno. D’altra parte una richiesta fatta in condizioni di ignoranza non può qualificarsi come “impossibile” dal momento che essa è ancorata comunque a dati normativi certi ed inequivocabili che a monte contemplano la presenza di un siffatto documento abilitativo.
In particolare, avuto riguardo alla fattispecie all’esame, l’istanza del ricorrente muove dal presupposto che il documento richiesto è espressamente previsto dalle vigenti disposizioni legislative recate dal Testo Unico sull’edilizia di cui al DPR. n. 380 del 06.06.2001 (ma anche dalla normativa previgente al t.u.) che assoggetta a tale certificazione ogni organismo edilizio destinato ad un utilizzo che comporta la permanenza dell’uomo nelle strutture edilizie autorizzate, al fine di attestare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico (art. 24, 1° comma, del citato DPR). Trattasi, allora, di una certificazione assolutamente necessaria ai fini dell’uso legittimo e conforme dei locali per i quali viene assentito la realizzazione e la trasformazione e della stessa è lecito e doveroso presumerne la esistenza.
Se così è non può parte appellante al fine di inficiare la fondatezza e prima ancora l’ammissibilità della richiesta avanzata dalla parte controinteressata invocare la inesistenza di tale documento, giacché una tale evenienza (peraltro del tutto eventuale) è irrilevante, nel senso che la legittimità dell’esercizio del diritto di accesso va collegata ad un momento precedente alle vicende amministrative con cui soggetto pubblico ha definito o non definito il rapporto giuridico relativo all’agibilità dell’immobile per il quale sono stati rilasciati pure gli altri i titoli ad aedificandum (anche ai soli fini di cambio di destinazione d’uso) e fermo restando che una tale situazione può benissimo non essere conosciuta dall’interessato richiedente l’accesso.
Ovviamente, nell’ipotesi che effettivamente il certificato de quo non sia stato rilasciato, l’Amministrazione comunale avrà cura di attestare in favore dell’appellato la circostanza relativa al mancato rilascio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.02.2012 n. 690 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: I geometri non sono abilitati alla progettazione in aree sismiche salvo che per le “costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate” da valutarsi caso per caso.
Il Consiglio di Stato, nella sentenza in esame ha evidenziato come la giurisprudenza amministrativa, ma anche la Suprema Corte di Cassazione hanno più volte chiarito la particolarità e specificità dell’attività di progettazione direzione di lavori, etc, con riferimento ad opere da erigersi in zona sismica. Si è così pervenuti ad una serie di affermazioni, tutte tra loro legate da un comune filo conduttore, volto a valorizzare la specificità di tale attività.
Si è pertanto affermato che:
- “il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m, r.d. 11.02.1929 n. 274- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione «non modesta» essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. 02.02.1974 n. 64, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri. -Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato nullo, ex art. 2231 c.c., il contratto d'opera stipulato da un geometra, ed avente ad oggetto la trasformazione di un fabbricato artigianale fatiscente in un complesso residenziale-.” (Cassazione civile, sez. II, 08.04.2009, n. 8543);
- “la realizzazione di una struttura in cemento armato dalle notevoli dimensioni (tre piani con fondamenta del tutto nuove), per di più localizzata in una zona sismica, non può farsi rientrare nella nozione di "modeste costruzioni civili", per le quali sono abilitati alla progettazione i geometri a tenore dell'art. 16 r.d. 11.02.1929 n. 274.” (Consiglio Stato, sez. V, 30.10.2003, n. 6747);
- “l'acquisizione della relazione geologica non può essere soggetta a valutazioni discrezionali da parte della p.a., essendo essa obbligatoriamente prevista in ciascuna delle fasi della progettazione in zona sismica.” (Consiglio Stato, sez. VI, 23.09.2009, n. 5666).
Escluso quindi che una costruzione in zona sismica possa considerarsi “modesta”, ed escluso quindi che i geometri siano abilitati alla progettazione in dette aree, non pare al Collegio di potere stabilire (siccome sostanzialmente avvenuto nella decisione di primo grado) una equivalenza tra la qualificazione di “non modestia” affermata dalla giurisprudenza e quella di “semplice” individuata ex lege. Ciò, a tacere d’altro, giungerebbe alla illogica conclusione di sovrapporre la preclusione vigente per i geometri a quella asseritamente attingente le categorie juniores, di fatto equiparando queste ultime a quella dei geometri.
Ciò appare conseguenza non voluta dalla legge, tanto più laddove si consideri che, che, a seguito del Decreto del Ministero delle Infrastrutture 14.01.2008 n. 29581 (recante Approvazione delle nuove norme tecniche per le costruzioni), sostanzialmente non esistono più aree del territorio italiano non classificate quali “zone sismiche”, ma soltanto zone a basso rischio sismico.
Se così è, una affermazione “categoriale” assoluta appare non aderente al dato normativo, finendo con l’introdurre un divieto non espressamente previsto ex lege ed al di fuori da un quadro legislativo e regolamentare (ma anche giurisprudenziale) che autorizzi una simile drastica conclusione. Tanto più che è rimasta incontestata la deduzione degli appellanti secondo cui anche per le costruzioni in area sismica può farsi riferimento a metodologie di calcolo standardizzate.
Traendo le conclusioni da quanto sinora rappresentato, il Collegio ha ritenuto che, non sottacendosi la specificità della progettazione in area sismica, la ricorrenza del criterio legittimante previsto ex lege -“costruzioni civili semplici, con l'uso di metodologie standardizzate”- non possa essere aprioristicamente escluso sempre e comunque, allorché si verta nel campo della progettazione e direzione dei lavori in dette aree, e necessiti di una valutazione caso per caso, che tenga conto in concreto dell’opera prevista, delle metodologie di calcolo utilizzate, e che potrà essere tanto più rigida e “preclusiva”, allorché l’area sia classificata con un maggiore rischio sismico.
Tale valutazione deve specificamente riferirsi, di volta in volta, al singolo progetto presentato, con motivazione che, ancorché sintetica, abbia portata “individualizzante” (sia in ipotesi di favorevole delibazione, ovviamente, che in ipotesi di riscontrata preclusione) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.02.2012 n. 686 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il dies a quo da prendere come riferimento per la decorrenza del termine di impugnazione del bando di gara è, ai sensi dell'art. 66, comma 8, d.lgs. n. 163 del 2006, la data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana.
La mancata partecipazione alla gara d'appalto rende inammissibile il ricorso contro le clausole del bando di gara e le modalità di svolgimento della stessa per carenza di interesse.
Le clausole del bando di gara, che fissano requisiti di partecipazione ritenuti da un concorrente troppo restrittivi, non impediscono materialmente, pure a chi non possieda il requisito contestato, di presentare l'offerta; pertanto chi è interessato a partecipare deve, a pena di inammissibilità del ricorso, presentare l'offerta, salvo impugnare la clausola del bando e l'eventuale atto di esclusione.
Conseguentemente risulta inammissibile per carenza di interesse il ricorso proposto avverso le clausole di un bando di gara, le modalità di svolgimento della stessa ed il criterio di aggiudicazione, da un'impresa che non abbia presentato domanda di partecipazione alla gara pubblica, atteso che il nostro ordinamento non tutela l'interesse oggettivo alla legittimità dell'azione amministrativa, ma piuttosto l'esistenza di una situazione giuridica soggettiva differenziata rispetto a quella delle altre ditte presenti sul mercato e, nella specie, di un interesse legittimo giudizialmente tutelato.

Risulta invece fondata l'eccezione di tardività del ricorso nella parte in cui si impugna il bando di gara, considerato che l'impugnazione è stata proposta oltre il termine di 30 giorni dalla pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, dovendo trovare applicazione nel caso di specie l'articolo 66, comma 8, del decreto legislativo n. 163/2006, secondo cui “Gli effetti giuridici che l'ordinamento connette alla pubblicità in ambito nazionale decorrono dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.” (cfr. TAR Lazio-Roma, sez. II, 09.12.2008, n. 11147, secondo cui il dies a quo da prendere come riferimento per la decorrenza del termine di impugnazione del bando di gara è, ai sensi dell'art. 66, comma 8, d.lgs. n. 163 del 2006, la data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana).
Considerato che il bando d'asta pubblica è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell'01.07.2011 e che il ricorso in esame è stato notificato in data 14.10.2011, il ricorso in esame, in tale parte, risulta ampiamente tardivo, per cui devono essere disattese le contrarie argomentazioni espresse dalla ricorrente nella propria memoria del 19.12.2011, trattandosi altresì di termine di impugnazione stabilito per legge, la cui congruità e ragionevolezza è stata quindi valutata dal legislatore medesimo.
Il ricorso in esame, nella restante parte, risulta invece inammissibile, considerato che la mancata partecipazione alla gara d'appalto rende inammissibile il ricorso contro le clausole del bando di gara e le modalità di svolgimento della stessa per carenza di interesse (TAR Veneto Venezia, sez. I, 28.05.2004, n. 1733).
Le clausole del bando di gara, che fissano requisiti di partecipazione ritenuti da un concorrente troppo restrittivi, non impediscono materialmente, pure a chi non possieda il requisito contestato, di presentare l'offerta; pertanto chi è interessato a partecipare deve, a pena di inammissibilità del ricorso, presentare l'offerta, salvo impugnare la clausola del bando e l'eventuale atto di esclusione (TAR Umbria Perugia, sez. I, 17.12.2009, n. 799).
Conseguentemente risulta inammissibile per carenza di interesse il ricorso proposto avverso le clausole di un bando di gara, le modalità di svolgimento della stessa ed il criterio di aggiudicazione, da un'impresa che non abbia presentato domanda di partecipazione alla gara pubblica, atteso che il nostro ordinamento non tutela l'interesse oggettivo alla legittimità dell'azione amministrativa, ma piuttosto l'esistenza di una situazione giuridica soggettiva differenziata rispetto a quella delle altre ditte presenti sul mercato e, nella specie, di un interesse legittimo giudizialmente tutelato (TAR Campania Napoli, sez. I, 20.06.2006, n. 7088) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 09.02.2012 n. 108 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La pubblica amministrazione, nella predisposizione del bando di gara, esercita un potere attinente al merito amministrativo laddove inserisce disposizioni ulteriori rispetto al contenuto minimo "ex lege" previsto; pertanto, atteso che il sindacato del giudice amministrativo sulle clausole del bando di gara incontra gli stessi limiti sussistenti nei confronti di ogni atto amministrativo, le disposizioni ulteriori inserite nel bando saranno censurabili in sede giurisdizionale allorché appaiano viziate da eccesso di potere, ad esempio per illogicità, irragionevolezza o incongruenza rispetto al fine pubblico della gara.
Non sfugge al Collegio quella giurisprudenza (peraltro più volte recepita da questa Sezione) che afferma che la pubblica amministrazione, nella predisposizione del bando di gara, esercita un potere attinente al merito amministrativo laddove inserisce disposizioni ulteriori rispetto al contenuto minimo "ex lege" previsto; pertanto, atteso che il sindacato del giudice amministrativo sulle clausole del bando di gara incontra gli stessi limiti sussistenti nei confronti di ogni atto amministrativo, le disposizioni ulteriori inserite nel bando saranno censurabili in sede giurisdizionale allorché appaiano viziate da eccesso di potere, ad esempio per illogicità, irragionevolezza o incongruenza rispetto al fine pubblico della gara (ex multis, Consiglio Stato , sez. V, 21.09.2010, n. 7031) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 08.02.2012 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La legittimazione ad agire delle associazioni e/o comitati ambientalisti spetta non solo con riferimento alla tutela degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche con riferimento alla tutela ambientale in senso lato, che implica in quanto tale la possibilità di impugnare atti aventi finalità urbanistica, ove si riconnettano specifici interessi ambientali -debitamente evidenziati in ricorso, a pena di inammissibilità- da tutelare anche in via strumentale ed indiretta attraverso l'annullamento, totale o parziale, dello strumento urbanistico.
Come affermato da questa stessa Sezione (cfr. TAR Sardegna, Sez. II, 06.10.2008, n. 1816), “la legittimazione ad agire delle associazioni e/o comitati ambientalisti spetta non solo con riferimento alla tutela degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche con riferimento alla tutela ambientale in senso lato, che implica in quanto tale la possibilità di impugnare atti aventi finalità urbanistica (nella specie un piano urbanistico comunale), ove si riconnettano specifici interessi ambientali -debitamente evidenziati in ricorso, a pena di inammissibilità- da tutelare anche in via strumentale ed indiretta attraverso l'annullamento, totale o parziale, dello strumento urbanistico”. Fermo restando che in questi casi saranno da ritenere in concreto ammissibili solo censure inerenti profili di illegittimità in qualche modo incidenti sulla tutela degli interessi di natura ambientale rappresentati dall’associazione.
Tale impostazione trova conferma in un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, formatasi in relazione all’art. 18, comma 5, della legge n. 349/1986 (norma sopravvissuta alla novella introdotta dal del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, cfr. art. 318), a mente del quale “Le associazioni individuate in base all'articolo 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi”; la giurisprudenza ha poi valorizzato la portata di tale disposizione normativa, ravvisando il richiesto collegamento con interessi propriamente ambientali nel caso, ad esempio, di atti con cui era stato disposto l’inserimento nel programma triennale comunale di un’opera pubblica lesiva dei valori ambientali (cfr. Cons. Stato, 23.10.2002 n. 5824, che ha ammesso un ricorso di Italia Nostra in quella materia), nonché nel caso di atti che, pur non essendo di “contenuto ambientale in senso stretto”, riguardassero la conservazione e valorizzazione dei beni culturali, dell'ambiente in senso ampio (quale paesaggio urbano, rurale e naturale), dei monumenti e dei centri storici e della qualità della vita, intesi tutti come beni e valori ideali idonei a caratterizzare in modo originale, peculiare ed irripetibile un certo ambito geografico e territoriale rispetto ad ogni altro ambito geografico e territoriale (Consiglio di Stato, Sez. IV, 09.10.2002, n. 5365, sempre con ricorrente Italia Nostra).
Un simile allargamento della sfera d’azione degli enti ambientalistici è stato ritenuto indispensabile per “raggiungere l’effettiva tutela del patrimonio ambientale, culturale, storico e artistico, che sarebbe esposto a gravissimi rischi di sopravvivenza se la legittimazione ad agire fosse circoscritta ai singoli cittadini direttamente e autonomamente lesi da provvedimenti amministrativi” (così Consiglio di Stato, Sez. IV, 02.10.2006, n. 5760, a proposito della impugnazione di una variante al piano regolatore che prevedeva la realizzazione di un nuovo tracciato stradale).
E tale orientamento ha poi trovato definitiva conferma nell’art. 310, comma 1, del d.lgs. n. 152/2004, secondo cui: “I soggetti di cui all'articolo 309, comma 1, [Le regioni, le province autonome e gli enti locali, anche associati, nonché le persone fisiche o giuridiche: n.d.r.] sono legittimati ad agire, secondo i principi generali, per l'annullamento degli atti e dei provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto, nonché avverso il silenzio inadempimento del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell'attivazione, da parte del medesimo Ministro, delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale”.
Pertanto può ritenersi oggi consolidata una “nozione allargata” di interesse ambientale, affidato alle cura degli enti esponenziali, nei termini sopra descritti (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 06.02.2012 n. 91 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il comune non può negare l'autorizzazione paesaggistica su opere conformi agli strumenti urbanistici.
E’ fondata la censura (secondo motivo del ricorso introduttivo del giudizio e terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti portato alla notifica in data 29/12/2010) con cui la ricorrente sostiene che l’intimata Soprintendenza prima e il comune di Olbia poi, non avrebbero potuto, in sede di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, esprimere una valutazione negativa sulla realizzabilità stessa dell’intervento, essendo quest’ultimo conforme agli strumenti urbanistici della zona, a suo tempo approvati anche sotto il profilo paesistico.
In punto di diritto giova ricordare che in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, allorché sia stato già espresso in sede di approvazione degli strumenti urbanistici un giudizio favorevole sulla compatibilità paesistica delle opere ivi previste, la valutazione di compatibilità paesaggistica richiesta ai fini del rilascio dell’autorizzazione dei singoli interventi edilizi rientranti nell’ambito del piano già approvato, è limitata al modo di essere ed alle concrete modalità esecutive del manufatto da realizzare (cfr. TAR Sardegna, II Sez., 06/10/2010 n. 2335; Cons. Stato, VI Sez., 15/03/2010 n. 1491 e 01/10/2008, n. 4726).
Con la precisazione che tanto più puntuale e dettagliato è il giudizio di compatibilità paesaggistica reso in sede di approvazione del piano, tanto più ridotti saranno i margini di ulteriore apprezzamento consentiti con riguardo ai singoli interventi rientranti nel piano stesso; viceversa, a fronte di valutazioni meno dettagliate, se non generiche, rese a monte, si imporrà un più incisivo apprezzamento di coerenza paesaggistica a valle, volto a verificare, dandone adeguatamente conto in sede motivazionale, se con le ragioni di tutela sottese all’apposizione del vincolo siano coerenti quelle modalità realizzative dei singoli interventi edilizi non dettagliatamente prese in considerazione nel giudizio sul piano (cfr citata sent. n. 1491/2010) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 06.02.2012 n. 90 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il termine per l’impugnazione di varianti a contenuto generale degli strumenti di pianificazione territoriale decorre per tutti gli interessati (ivi compresi i proprietari di terreni colpiti da vincoli preordinati all’espropriazione) decorre dalla data della pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione (o sulla Gazzetta Ufficiale) del provvedimento col quale la variante stessa è stata definitivamente approvata.
Hanno natura di varianti a contenuto generale quelle attraverso cui l’amministrazione comunale disciplina ampie zone territoriali o comunque compie scelte pianificatorie in base ad una considerazione globale del territorio.

... a) che in base ad un consolidato indirizzo giurisprudenziale, da cui il Collegio non ritiene di doversi discostare, il termine per l’impugnazione di varianti a contenuto generale degli strumenti di pianificazione territoriale decorre per tutti gli interessati (ivi compresi i proprietari di terreni colpiti da vincoli preordinati all’espropriazione) decorre dalla data della pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione (o sulla Gazzetta Ufficiale) del provvedimento col quale la variante stessa è stata definitivamente approvata (cfr. TAR Sardegna, II Sez., 19/10/2006 n. 2248; Cons. Stato, V Sez., 28/04/2011 n. 2534; IV Sez., 21/05/2010 n. 3233 e 27/07/2007 n. 4198; VI Sez., 10/02/2010 n. 663);
b) che hanno natura di varianti a contenuto generale quelle attraverso cui l’amministrazione comunale disciplina ampie zone territoriali o comunque compie scelte pianificatorie in base ad una considerazione globale del territorio (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 06.02.2012 n. 88 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Per individuare la disciplina da applicare negli appalti misti rileva il carattere accessorio o meno delle prestazioni.
Come ha avuto occasione di rilevare la giurisprudenza (cfr. Cons. St. V, 30.05.2007, n. 2765) negli appalti misti, al fine di individuare la disciplina da applicare non viene in rilievo l’aspetto quantitativo delle prestazioni, ma il carattere accessorio o meno delle prestazioni.
Pertanto nella fattispecie in esame la percentuale più elevata del costo dei lavori non vale a modificare l’oggetto dell’appalto, stante che nell’appalto in esame, destinato essenzialmente alla “fornitura di tutti i componenti…per il corretto e razionale funzionamento del blocco operatorio”, come specificato nel capitolato, hanno un ruolo accessorio rispetto al valore delle forniture essendo strumentali alla installazione di quanto necessario per il funzionamento delle sale operatorie.
E’ dunque del tutto ininfluente sull’inquadramento dell’appalto come fornitura la circostanza che le percentuali di forniture e lavori siano diverse da quelle indicate in via presuntiva dalla stazione appaltante (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 03.02.2012 n. 630 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Differenza tra "nuova costruzione" e "pertinenza".
Ciò che caratterizza una “nuova costruzione”, è il carattere di stabilità e permanenza del manufatto, tale da implicare una trasformazione del territorio.
Quanto al concetto di “pertinenza”, ai sensi e per i fini di cui all’art. 7 d.l. n. 9/1982, conv. in l. n. 92/1982, tale da richiedere non già la concessione edilizia, bensì la mera “autorizzazione”, la giurisprudenza amministrativa ne ha rilevato la differenza da quello di cui all’art. 817 cod. civ., affermando che esso è caratterizzato sia da un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, cioè da un nesso che non consenta, per natura e struttura dell'accessorio, altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole; sia dalle dimensioni ridotte e modeste del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce, per cui soggiace a concessione edilizia la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla "res principalis", indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa (Cons. Stato, sez. II, 12.05.1999 n. 729; sez. V, 23.03.2000 n. 1600).
Nel caso di specie, il Collegio ha ritenuto che il manufatto per cui e' causa non possa essere definito quale “pertinenza”, posto che esso è di notevoli dimensioni (oltre 180 mq. di superficie), è stabilmente collegato al suolo, rappresenta di fatto uno stabile ampliamento dell’immobile cui inerisce ed è tale da comportare una durevole e non irrilevante trasformazione del territorio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.02.2012 n. 615 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Ammissibile in sede di controllo dell'anomalia dell'offerta l'allegazione di elementi giustificativi.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha ritenuto ammissibile, in sede di controllo dell'anomalia dell'offerta, l’allegazione di elementi giustificativi (come, ad esempio, quelli relativi alla prestazione di ‘servizi aggiuntivi’), la cui pertinenza emerga da un oggettivo collegamento economico degli stessi con gli elementi costitutivi dell'offerta (i.e., in definitiva, con l'oggetto del contratto), sì da determinare una connessione la quale, sul piano della produzione del servizio, li collochi come giustificazione all'interno del processo produttivo prefigurato in modo unitario ed in concreto inscindibile (in tal senso: Cons. Stato, VI, 04.08.2008, n. 3896; id., VI, 07.08.2008, n. 3901) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.02.2012 n. 586 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Responsabilità proprietario terreno.
Risponde del reato di gestione non autorizzata di rifiuti il proprietario che conceda in locazione un terreno a terzi per svolgervi un'attività di smaltimento di rifiuti, in quanto incombe sul primo, anche al fine di assicurare la funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.), l'obbligo di verificare che il concessionario sia in possesso dell'autorizzazione per l'attività di gestione dei rifiuti e che questi rispetti le prescrizioni contenute nel titolo abilitativo e quindi almeno sotto il profilo della culpa in vigilando (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.01.2012 n. 3580 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTIAppalti, l'urgenza va motivata. I presupposti per ricorrervi sono di stretta interpretazione. Pronuncia del Tar del Lazio sui termini di utilizzabilità della procedura negoziata senza gara.
Nelle procedure negoziate l'urgenza non deve essere addebitabile alla stazione appaltante e i presupposti per ricorrervi sono di stretta interpretazione e impongono una adeguata motivazione.
È quanto stabilisce, con una articolata pronuncia, il TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater (sentenza 30.01.2012 n. 989) che ha efficacemente riassunto i termini relativi all'utilizzabilità della procedura negoziata senza gara prevista dall'art. 57, comma 2, lett. c), del Codice dei contratti pubblici.
In primo luogo i giudici hanno affermato che il ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara, possibile nella misura strettamente necessaria, quando l'estrema urgenza, risultante da eventi imprevedibili per le stazioni appaltanti, non è compatibile con i termini imposti dalle procedure ordinarie e a condizione che l'estrema urgenza non sia addebitabile alla stazione appaltante, si sostanzia in una vera e propria trattativa privata, rappresenta un'eccezione al principio generale della pubblicità e della massima concorsualità tipica della procedura aperta. Da ciò i giudici fanno discendere che i presupposti fissati dalla legge per la sua ammissibilità devono essere accertati con il massimo rigore e non sono suscettibili di interpretazione estensiva.
In particolare, per quanto riguarda l'urgenza di provvedere, essa non deve essere addebitabile in alcun modo all'amministrazione per carenza di adeguata organizzazione o programmazione ovvero per sua inerzia o responsabilità. Per il Tar del Lazio, infatti, la procedura di evidenza pubblica costituisce un presidio indispensabile a garanzia del corretto dispiegarsi della libertà di concorrenza e della trasparenza dell'operato delle amministrazioni dalla quale si può prescindere, ai sensi dell'art. 57, comma 2, del codice degli appalti solo eccezionalmente.
Dal punto di vista dell'accertamento dei presupposti fissati dalla legge per la sua ammissibilità, il Tar afferma che devono essere accertati con il massimo rigore e non sono suscettibili di interpretazione estensiva. Segue da ciò anche la necessità di motivare congruamente l'esistenza dei presupposti richiesti dal legislatore per derogare alla regola del massimo coinvolgimento degli operatori economici, non essendo sufficiente un mero richiamo, nella delibera di affidamento con la procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando, all'urgenza di provvedere, occorrendo piuttosto una motivazione dettagliata che specifichi i presupposti di fatto dell'urgenza stessa.
Infine la sentenza precisa che l'urgenza di procedere deve essere, oltre che concreta e motivata, anche non addebitabile alla stazione appaltante per carenza di adeguata organizzazione o programmazione ovvero per sua inerzia o responsabilità. Tali presupposti devono sussistere entrambi, con la conseguenza che è sufficiente, a rendere illegittimo il ricorso alla procedura dell'art. 57, comma 2, del codice degli appalti, la mancanza (e la mancata motivazione) dell'urgenza, indipendentemente dall'individuazione del soggetto al quale la stessa sia imputabile (articolo ItaliaOggi del 15.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Non è consentita l'integrazione postuma della motivazione dell'atto amministrativo discrezionale, dovendo la stessa, in considerazione della funzione che gli è propria (esternare le ragioni poste a fondamento della determinazione assunta), precedere e non seguire il provvedimento adottato.
... che in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale non è consentita l'integrazione postuma della motivazione dell'atto amministrativo discrezionale, dovendo la stessa, in considerazione della funzione che gli è propria (esternare le ragioni poste a fondamento della determinazione assunta), precedere e non seguire il provvedimento adottato (cfr. TAR Sardegna, II Sez. 25/11/2011 n. 1132; Cons. Stato, VI Sez. 13/05/2011 n. 2935; 03/03/2010 n. 1241 e 17/10/2008 n. 5044; IV Sez. 24/05/2005 n. 2630) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 27.01.2012 n. 69 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel caso di decesso di un familiare, il diritto a conoscere i dati relativi alle condizioni di salute del de cuius non è disciplinato dalla normativa ereditaria, ma inerendo alla semplice qualità di congiunto, spetta autonomamente a chiunque si trovi in tale relazione di parentela con la persona deceduta.
... che ai sensi dell’art. 9, comma 3, D. Lgs. 30/06/2003 n. 196 i diritti di cui al precedente articolo 7 riferiti a dati personali concernenti persone decedute possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell'interessato o per ragioni familiari meritevoli di protezione;
che, pertanto, nel caso di decesso di un familiare, il diritto a conoscere i dati relativi alle condizioni di salute del de cuius non è disciplinato dalla normativa ereditaria, ma inerendo alla semplice qualità di congiunto, spetta autonomamente a chiunque si trovi in tale relazione di parentela con la persona deceduta (cfr. TAR Lazio – Roma, Sez. III, 30/01/2003 n. 535) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 27.01.2012 n. 67 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il comma 1 dell'art. 38, d.lgs. n. 163 del 2006 ricollega l'esclusione dalla gara al dato sostanziale del mancato possesso dei requisiti indicati, mentre il comma 2 non prevede analoga sanzione per l'ipotesi della mancata o non perspicua dichiarazione: da ciò discende che solo l'insussistenza, in concreto, delle cause di esclusione previste dall'art. 38 comporta, ope legis, l'effetto espulsivo.
Quando, al contrario, il partecipante sia in possesso di tutti i requisiti richiesti e la lex specialis non preveda espressamente la pena dell'esclusione in relazione alla mancata osservanza delle puntuali prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire, facendo generico richiamo all'assenza delle cause impeditive di cui alla normativa in esame, l'omissione o l'incompletezza in ordine a non produce alcun pregiudizio agli interessi presidiati dalla norma, ricorrendo un'ipotesi di mero formalismo come tale insuscettibile, in carenza di una espressa previsione legislativa o —si ripete— della legge di gara, a fondare l'esclusione, le cui ipotesi sono tassative.

Il Collegio ricorda che il comma 1 dell'art. 38, d.lgs. n. 163 del 2006 ricollega l'esclusione dalla gara al dato sostanziale del mancato possesso dei requisiti indicati, mentre il comma 2 non prevede analoga sanzione per l'ipotesi della mancata o non perspicua dichiarazione: da ciò discende che solo l'insussistenza, in concreto, delle cause di esclusione previste dall'art. 38 comporta, ope legis, l'effetto espulsivo.
Quando, al contrario, il partecipante sia in possesso di tutti i requisiti richiesti e la lex specialis non preveda espressamente la pena dell'esclusione in relazione alla mancata osservanza delle puntuali prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire, facendo generico richiamo all'assenza delle cause impeditive di cui alla normativa in esame, l'omissione o l'incompletezza in ordine a non produce alcun pregiudizio agli interessi presidiati dalla norma, ricorrendo un'ipotesi di mero formalismo come tale insuscettibile, in carenza di una espressa previsione legislativa o —si ripete— della legge di gara, a fondare l'esclusione, le cui ipotesi sono tassative (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 27.01.2012 n. 61 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In tema di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi.
La domanda pone, innanzitutto, la questione della prova della quantificazione del danno, sia sotto il profilo del danno emergente che sotto quello del mancato guadagno. La ricorrente chiede, infatti, i “danni legati al mancato percepimento dell’utile derivante dalla esecuzione del contratto, nonché delle spese sostenute per la partecipazione alla procedura”; nonché il danno all’immagine.
Tuttavia, non è allegato alcun elemento di prova, riguardo ai danni asseritamente subiti.
Questo Tribunale, muovendo dal pacifico presupposto che, in tema di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, ricade interamente sul ricorrente l’onere della prova dell’esistenza e della quantificazione del danno (esigenza ribadita dall'art. 124 del c.p.a.: «...il giudice ... dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato»), ha in primo luogo affermato come sia ammissibile sopperire a tale prova (con riferimento al lucro cessante), richiamando l'art. 345 l. 20.03.1865 n. 2248 all. F, «solo qualora il danno sia di ammontare incerto, ovvero, in relazione alla peculiarità del caso concreto, la precisa determinazione di esso sia difficoltosa, in quanto altrimenti il ricorrente potrebbe invocare il potere del giudice di liquidare il danno in via equitativa per sottrarsi al proprio onere probatorio» (così già in sez. I, 09.05.2006, n. 892).
La statuizione è stata compiutamente argomentata con la successiva sentenza di questa Sezione (sez. I, 08.10.2009 n. 1498) nella quale, «ricordato che in base al principio generale sancito dall’art. 2697 c.c, ai fini del risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo, il ricorrente deve fornire in modo rigoroso la prova dell’esistenza del danno, non potendosi invocare il principio acquisitivo perché tale principio attiene allo svolgimento dell’istruttoria e non all’allegazione dei fatti (Cons. Stato, 06.04.2009 n. 2143, Cons. St., sez. V, 13.06.2008, n. 2967; sez. V, 07.05.2008, n. 2080; ad. plen., 30.07.2007, n. 10; sez. VI, 02.03.2004, n. 973)», si ammette «la possibilità di ricorrere alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subito e della sua entità» fermo restando l’obbligo del ricorrente di «allegare circostanze di fatto precise».
In tal senso, e condivisibilmente, è stato richiamato un consistente orientamento del Consiglio di Stato che considera infondata la domanda risarcitoria formulata in maniera del tutto generica, senza alcuna allegazione dei fatti costitutivi (Cons. Stato, 06.04.2009 n. 2143, Cons. Stato, sez. V, 13.06.2008, n. 2967; sez. IV, 04.02.2008, n. 306).
Anche l’individuazione dei presupposti in presenza dei quali è possibile operare la valutazione equitativa dei danni è stata oggetto di esame da parte della Sezione, osservandosi come «pur apparendo certa l’esistenza dei danni lamentati (Cass. Civ., sez. I, 29.07.2009, n. 17677), non si può giungere alla loro liquidazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 del codice civile (quando non ricorra) l’ulteriore presupposto richiesto dalla norma codicistica, costituito dalla relativa impossibilità di fornire la prova del danno da parte del ricorrente ( si veda sul punto Cass. Civ., sez. III, 15.05.2009, n. 11331)» (così sez. I, 30.12.2009, n. 2682; ma, in precedenza, si veda nello stesso senso la citata sez. I, 08.10.2009 n. 1498) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 24.01.2012 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere precarie.
L'opera precaria, sottratta al regime concessorio, è quella oggettivamente finalizzata a soddisfare esigenze improvvise o transeunti e quindi non è destinata a produrre, infatti, quegli effetti sul territorio che la normativa urbanistica e rivolta a regolare.
Ai fini del riscontro del connotato della precarietà e della relativa esclusione della modifica dell'assetto del territorio, non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l'agevole rimovibilità, ma le esigenze temporanee alle quali l'opera eventualmente assolva (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.01.2012 n. 2693 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La violazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 non può ritenersi tale da produrre ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto, essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, che impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo; l'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto per il fatto che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Per giurisprudenza pacifica, la violazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 —che prevede, nei procedimenti ad istanza di parte la comunicazione, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, agli istanti dei motivi che ostano all'accoglimento della domanda— non può ritenersi tale da produrre ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, che impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo; l'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto per il fatto che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (da ultimo: TAR Lazio Roma, sez. III, 14.03.2011, n. 2253) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 23.01.2012 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Infiltrazioni, tutti pagano i danni. Il raccordo scarico-tubi è considerato proprietà comune. La Cassazione fa chiarezza sul riparto delle responsabilità in caso di guasti alle tubazioni.
La braga di raccordo tra l'impianto di scarico condominiale e le tubazioni derivanti dai singoli appartamenti deve considerarsi di proprietà comune ove faccia parte integrante, dal punto di vista funzionale, dell'impianto stesso. Di conseguenza i danni provenienti da eventuali infiltrazioni derivanti dalla braga dovranno essere risarciti al singolo proprietario dalla collettività condominiale (che, a sua volta, potrebbe essere manlevata dalla compagnia con la quale sia stata stipulata una copertura assicurativa del fabbricato).
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella recente ordinanza 19.01.2012 n. 778.
Il provvedimento giudiziale in questione rappresenta dunque un'opportunità per fare maggiore chiarezza sul riparto delle responsabilità in caso di guasti alle tubazioni in condominio.
Il caso concreto. Nel caso in questione il proprietario di un appartamento che aveva ricevuto infiltrazioni di acqua dallo scarico aveva portato in giudizio il condominio per sentirlo condannare al risarcimento dei danni. La sentenza di primo grado aveva dato ragione al condomino sulla base dell'espletata consulenza tecnica d'ufficio, la quale aveva accertato che le lamentate infiltrazioni non derivavano da condotte delle unità immobiliari bensì dalla braga nella quale si innestavano detti condotti per scaricare nell'impianto condominiale.
Nella descrizione della colonna condominiale, la perizia depositata in giudizio aveva chiarito che la stessa non era costituita da un'unica tubazione continua, bensì da una serie di tratti di tubo che, in corrispondenza dei vari piani, risultavano tra loro collegati da un particolare tipo di braga. Fallito anche l'appello, il condominio, lamentando che il giudice di primo grado avesse erroneamente ritenuto condominiale una braga che non era utilizzata dalla collettività (che era invece servita dalla colonna di scarico verticale), ma che serviva unicamente a convogliare nell'impianto comune gli scarichi di provenienza dei singoli appartamenti, aveva quindi presentato ricorso in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. Anche la Cassazione, tuttavia, con l'ordinanza in questione, ha confermato la tesi del proprietario, ritenendo il ricorso infondato. I giudici di legittimità hanno, infatti, evidenziato come il giudice di appello avesse considerato condominiale la braga in questione in relazione alla sua funzione, ritenuta prevalente, di raccordo tra le singole parti e la conduttura verticale di scarico. Infatti, secondo la Suprema corte, in assenza della braga, nel caso di specie non vi sarebbe stato raccordo tra le tubazioni di scarico verticale poste in corrispondenza dei singoli piani dell'edificio condominiale.
In sostanza è stato quindi ritenuto corretto il procedimento logico seguito nel giudizio di secondo grado volto ad assegnare la prevalenza alla specifica conformazione della colonna verticale di scarico della quale faceva parte la braga di collegamento (e senza la quale il funzionamento della colonna stessa sarebbe venuto meno) rispetto alla funzione di collegamento con gli scarichi delle singole unità immobiliari.
Nel caso in questione la seconda sezione civile della Cassazione, pur riconoscendo la validità dei precedenti giurisprudenziali di legittimità citati dal condominio in merito alla natura presuntivamente comune della braga dell'impianto di scarico condominiale, ha quindi ribadito che occorre comunque fare riferimento, caso per caso, all'oggettiva conformazione della colonna di scarico e alla conseguente funzione prevalente svolta dalla braga.
Nel caso di specie, a conferma del collegamento sostanziale tra la braga e l'impianto comune, è stato anche osservato come le lamentate infiltrazioni di acqua si verificassero indipendentemente dall'uso degli scarichi dei singoli appartamenti, rendendo quindi ancora più evidente il fatto che la perdita fosse riferibile a un guasto di tenuta dello scarico verticale nel suo complesso considerato.
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I principi generali. Parti comuni, prevale il criterio dei millesimi.
Le fognature e i canali di scarico sono oggetto di proprietà comune fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli, cioè con esclusione delle condutture che, diramandosi dalle tubazioni condominiali, servono i singoli appartamenti.
Comprendere se una parte della conduttura è comune o di proprietà del singolo condominio è fondamentale quando si verifica la rottura di una tubazione (canale di scarico o tubo di adduzione dell'acqua) e quindi si deve individuare il soggetto responsabile dei danni e obbligato quindi alla conseguente riparazione.
Tubazioni e spese: in generale. Le tubazioni verticali per lo smaltimento delle acque sia chiare che scure rivestono il carattere di beni comuni, in quanto raccogliendo le acque provenienti dai singoli appartamenti presentano l'attitudine all'uso e al godimento collettivo
Di conseguenza sono a carico di tutti i condomini, in proporzione della quota millesimale di proprietà, le spese per le riparazioni alle tubature comuni e per il risarcimento dei danni subiti dal singolo condomino, in quanto l'impianto di scarico fornisce la medesima utilità a tutti i condomini interessati.
Naturalmente tale principio opera anche in relazione alle spese per la costruzione di nuovi canali di scarico e di nuova fognatura, necessari per sostituire il preesistente sistema divenuto obsoleto o nel caso in cui un condomino non utilizzi l'impianto (perché collegato anche a un scarico relativo a un altro edificio). In quest'ultimo caso, se l'appartamento risulta comunque regolarmente collegato all'impianto condominiale e, quindi, quest'ultimo potrebbe essere utilizzato dal condomino, lo stesso non può dirsi esonerato dal partecipare alle spese per guasti (e danni conseguenti), obbligo che trova la sua fonte nel diritto di comproprietà sulla conduttura comune.
Sono invece a carico dei rispettivi proprietari i contributi per le riparazioni effettuate nelle parti in cui le tubazioni si diramano verso i singoli appartamenti.
La braga. Nell'ambito delle tubazioni private si devono fare rientrare anche le braghe, cioè gli elementi di raccordo fra la tubatura orizzontale di pertinenza del singolo appartamento e la tubatura verticale, di pertinenza condominiale, come, per esempio, il tratto obliquo che convoglia le acque del lavandino di proprietà esclusiva alla colonna condominiale.
La braga, quindi, serve soltanto a convogliare gli scarichi di pertinenza del singolo appartamento, a differenza della colonna verticale che, raccogliendo gli scarichi di tutti gli appartamenti, serve all'uso di tutti i condomini.
Tale principio non può valere se, come è avvenuto nel caso esaminato dalla Corte di cassazione nell'ordinanza n. 778/2012, il guasto riguarda lo scarico verticale, nel suo complesso considerato, che si innesta nella braga: in tale ipotesi è evidente la responsabilità del condominio.
Le tubazioni comuni solo ad alcuni condomini. In relazione all'impianto fognario, frequentemente si può verificare un'ipotesi di c.d. condominio parziale, allorquando alla tubazione di scarico siano allacciati solo alcuni condomini.
È evidente allora che in base ai principi generali le spese per tali tratti di tubazione che servono solo un singolo condomino o un gruppo di condomini saranno a carico soltanto dei condomini utilizzatori (e naturalmente il principio vale anche per i danni a terzi).
E non è tenuto a sostenere le spese per l'impianto fognario (e i danni conseguenti alla rottura dei canali di scarico) quel condomino (o quel gruppo di condomini) la cui proprietà, pur inclusa nelle tabelle millesimali, non utilizza la tubazione rotta o non è collegata all'impianto in questione (per esempio cantine, box ecc.).
Lo stesso principio vale ovviamente non solo per gli impianti idraulici di scarico, ma anche per quelli di adduzione dell'acqua, così come di ogni altra utenza (energia elettrica, gas, televisione, citofoni ecc.).
Risulta infine ininfluente che gli impianti in oggetto siano stati un tempo di uso collettivo dell'intero condominio e siano stati solo in seguito utilizzati dal singolo inquilino o da una parte soltanto degli inquilini del condominio: ciò che conta è lo stato dei luoghi al momento in cui si verifica il danno.
Tubatura comune all'interno di una proprietà esclusiva. È possibile che una tubatura passi sotto il pavimento di un locale posto al piano terra, cioè si trovi a passare in una proprietà esclusiva (per esempio un negozio, un magazzino, un'autorimessa ecc.) ma in realtà sia contenuta nella base di appoggio delle strutture dell'edificio condominiale (fondamenta) e assolva la funzione di drenaggio dell'acqua di infiltrazione sotterranea: in tal caso le spese per la sostituzione o manutenzione della tubazione o per i danni conseguenti, anche se a trarre immediato beneficio dalla sostituzione/riparazione sia anzitutto il locale del singolo condomino, gravano su tutti i condomini.
In particolare, ogni spesa per tali tubazioni orizzontali dell'impianto fognario, in assenza di particolari clausole del regolamento di condominio, deve ripartirsi per millesimi e non per quote uguali (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2012).

LAVORI PUBBLICI: La facoltà di produrre certificazione sostituitiva anche per la SOA è ammessa dal sistema normativo (cfr. art. 47 DPR 445 28.12.2000) che disciplina le “autodichiarazioni”, sia dalla giurisprudenza, per facilitare la massima partecipazione alle gare (salva ovviamente la verifica successiva).
Non è corretto ricostruire in termini privatistici il rapporto Soa-Impresa, in quanto l'attestazione di qualità è certificazione a rilevanza pubblica. Le Soa, infatti, e la ratio della disciplina vigente lo dimostra, pur essendo organismi privati, rilasciano «attestazioni» aventi contenuto vincolato e rilievo pubblicistico, nell'esercizio di una funzione pubblicistica di certificazione, che sfocia in una attestazione con valore di atto pubblico. Da ciò discende che non vi è motivo di ritenere che la prescritta certificazione non possa essere effettuata mediante il sistema dell'autocertificazione.
È illegittima l'esclusione di un concorrente da una gara d'appalto di opere pubbliche per la produzione di una dichiarazione sostitutiva al posto dell'attestato Soa del quale riproduce integralmente il contenuto.
Le s.o.a., «pur essendo organismi privati, rilasciano «attestazioni» aventi contenuto vincolato e rilievo pubblicistico, nell'esercizio di una funzione pubblicistica di certificazione (che sfocia in una attestazione con valore di atto pubblico)».Tale certificato possiede la qualificazione di atto (certificatorio) rilasciato da una pubblica amministrazione, secondo la lettera dell'art. 19, d.P.R. n. 445 del 2000, e ciò a fronte di una forma di attestazione della conformità della copia all'originale, quella appunto ex art. 19, cit., consentita da una previsione legislativa che, in linea di principio, trova applicazione anche in carenza di un espresso richiamo da parte del bando e della disciplina di gara in genere, e che è capace di soddisfare l'interesse della stazione appaltante di disporre di adeguata certezza in ordine al possesso dei requisiti tecnici dell'impresa concorrente.
Come già riconosciuto da questo TAR con la sentenza I sez. n. 68 del 27/01/2011:
- “La facoltà di produrre certificazione sostituitiva anche per la SOA è ammessa dal sistema normativo (cfr. art. 47 DPR 445 28.12.2000) che disciplina le “autodichiarazioni”, sia dalla giurisprudenza, per facilitare la massima partecipazione alle gare (salva ovviamente la verifica successiva)".
- “Non è corretto ricostruire in termini privatistici il rapporto Soa-Impresa, in quanto l'attestazione di qualità è certificazione a rilevanza pubblica. Le Soa, infatti, e la ratio della disciplina vigente lo dimostra, pur essendo organismi privati, rilasciano «attestazioni» aventi contenuto vincolato e rilievo pubblicistico, nell'esercizio di una funzione pubblicistica di certificazione, che sfocia in una attestazione con valore di atto pubblico. Da ciò discende che non vi è motivo di ritenere che la prescritta certificazione non possa essere effettuata mediante il sistema dell'autocertificazione.” (cfr. TAR Lazio Roma, sez. III, 15.05. 2007, n. 4374).
- “È illegittima l'esclusione di un concorrente da una gara d'appalto di opere pubbliche per la produzione di una dichiarazione sostitutiva al posto dell'attestato Soa del quale riproduce integralmente il contenuto” (cfr. TAR Sicilia Catania, sez. IV, 23.02.2006, n. 265).
- “Le s.o.a., «pur essendo organismi privati, rilasciano «attestazioni» aventi contenuto vincolato e rilievo pubblicistico, nell'esercizio di una funzione pubblicistica di certificazione (che sfocia in una attestazione con valore di atto pubblico)».Tale certificato possiede la qualificazione di atto (certificatorio) rilasciato da una pubblica amministrazione, secondo la lettera dell'art. 19, d.P.R. n. 445 del 2000, e ciò a fronte di una forma di attestazione della conformità della copia all'originale, quella appunto ex art. 19, cit., consentita da una previsione legislativa che, in linea di principio, trova applicazione anche in carenza di un espresso richiamo da parte del bando e della disciplina di gara in genere, e che è capace di soddisfare l'interesse della stazione appaltante di disporre di adeguata certezza in ordine al possesso dei requisiti tecnici dell'impresa concorrente.” (Consiglio Stato, sez. VI, 19.01.2007, n. 121) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 13.01.2012 n. 28 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In sede di presentazione della documentazione, solo in base al combinato disposto degli art. 19, 19-bis, 38 e 47 d.P.R. 28.12.2000 n. 445 l'imprenditore può dichiarare la conformità di copie di certificati e attestati agli originali custoditi nei propri uffici, possibilità non contemplata dalla l. 04.01.1968 n. 15.
La presentazione della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà equivale, in virtù di un effetto legale tipico, alla esibizione dei documenti dichiarati conformi all'originale in forma autenticata. Pertanto, allorquando il disciplinare di gara relativo all'aggiudicazione di un appalto pubblico richieda, a pena di esclusione, copia autentica dell'atto costitutivo della società consortile, è illegittima l'esclusione della concorrente che abbia presentato dichiarazione sostitutiva relativa al predetto atto, posto che siffatta clausola concerne un documento che, essendo conservato presso il registro delle imprese, rientra tra quelli che possono essere sostituiti da una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, secondo l'art. 19, d.P.R. n. 445 del 2000.

Come già riconosciuto da questo TAR con la sentenza I sez. n. 68 del 27/01/2011:
- “In sede di presentazione della documentazione, solo in base al combinato disposto degli art. 19, 19-bis, 38 e 47 d.P.R. 28.12.2000 n. 445 l'imprenditore può dichiarare la conformità di copie di certificati e attestati agli originali custoditi nei propri uffici, possibilità non contemplata dalla l. 04.01.1968 n. 15" (Consiglio Stato, sez. IV, 10.05.2007, n. 2254).
- “La presentazione della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà equivale, in virtù di un effetto legale tipico, alla esibizione dei documenti dichiarati conformi all'originale in forma autenticata. Pertanto, allorquando il disciplinare di gara relativo all'aggiudicazione di un appalto pubblico richieda, a pena di esclusione, copia autentica dell'atto costitutivo della società consortile, è illegittima l'esclusione della concorrente che abbia presentato dichiarazione sostitutiva relativa al predetto atto, posto che siffatta clausola concerne un documento che, essendo conservato presso il registro delle imprese, rientra tra quelli che possono essere sostituiti da una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, secondo l'art. 19, d.P.R. n. 445 del 2000” (TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 20.01.2009, n. 57) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 13.01.2012 n. 28 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza recante l'ingiunzione a demolire un'opera realizzata in assenza di titolo abilitativo costituisce atto sanzionatorio dovuto, per la cui formazione non è richiesto alcun apporto partecipativo del destinatario.
Deve anzitutto rilevarsi l’infondatezza dell’argomento relativo all'omessa comunicazione dell'avvio del procedimento, non sussistendo alcuna violazione delle regole procedimentali dettate dalla legge n. 241/1990 dal momento che l'ordinanza recante l'ingiunzione a demolire un'opera realizzata in assenza di titolo abilitativo costituisce atto sanzionatorio dovuto, per la cui formazione non è richiesto alcun apporto partecipativo del destinatario (cfr. ex multis "l'ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7 l. n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale sanzione per l'accertamento della inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato della legge; peraltro, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente doveva essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo" - TAR Campania Napoli, sez. IV, 10.12.2007, n. 15871) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 13.01.2012 n. 15 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARITrasporti pericolosi. Pieno solo al distributore: nel bagagliaio tanica da non più di 10 litri.
E' reato trasportare mediante taniche posizionate all'interno di un veicolo una quantità di carburante superiore a quella consentita, di regola, contenuta nel serbatoio normale del veicolo medesimo. Integra il reato previsto dall'art. 40, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 504/1995, il trasporto mediante taniche posizionate all'interno di un veicolo di una quantità di carburante superiore a quella consentita, di regola, contenuta nel serbatoio normale del veicolo medesimo.
Singolare il caso trattato dalla Suprema Corte con la sentenza in esame e relativo al trasporto abusivo di carburante contenuto in alcune taniche posizionate all'interno di un veicolo.
La Corte, in particolare, ha annullato la sentenza con la quale il giudice di merito aveva assolto l'imputato per insussistenza del fatto, affermando il principio di diritto secondo cui è consentito il trasporto a bordo di un veicolo del solo carburante contenuto nel serbatoio normale, laddove, diversamente, il trasporto del carburante in taniche a bordo del veicolo integra l'illecito penale, ove il carburante sia stato sottratto al pagamento dell'accisa prevista dalla legge, punito dal d. lgs. n. 504 del 1995.
Il fatto
La vicenda processuale in questione è abbastanza semplice. Durante un controllo eseguito dalla Guardia di Finanza di un'autovettura privata in ingresso al Confine di Stato di Trieste (Fernetti), veniva accertato che all'interno del veicolo si trovavano tre taniche contenenti 60 litri di gasolio.
I finanzieri, nel ritenere che il gasolio contenuto nelle taniche non fosse destinato ad alimentare il veicolo e ma a fini commerciali, contestava al conducente la violazione dell'art. 40, lett. b), del D.Lgs. n. 504/1995, per essere stato sottratto il carburante al pagamento delle accise previste dalla legge. Il giudice di merito, però, in accoglimento della tesi difensiva, assolveva l'imputato ritenendo, diversamente, che il gasolio fosse destinato ad essere commercializzato.
Il ricorso
La sentenza veniva impugnata dal Pubblico Ministero, censurando in particolare l'interpretazione che della disposizione in esame era stata offerta dal giudice di merito, in quanto il combinato disposto degli artt. 10, 11 e 40, lett. b), del D.Lgs. n. 504/1995 comporta la presunzione «juris et de jure» di destinazione al commercio di quantitativi di prodotti petroliferi trasportati con modalità atipiche, con conseguente errata applicazione della legge da parte del giudice di merito.
La decisione della Cassazione
La tesi della Procura è stata condivisa dagli Ermellini.
Per meglio comprendere le ragioni della scelta della Cassazione è utile procedere ad un inquadramento normativo. Il D.Lgs. 26.10.1995, n. 504 reca il "Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative" (S.O. alla G.U. 29.11.1995, n. 279).
L'art. 10 di tale decreto prevede, in generale, che "Sono soggetti ad accisa i prodotti immessi in consumo in un altro Stato membro che vengono detenuti a scopo commerciale nel territorio dello Stato".
Il comma 2 del medesimo articolo, precisa, poi, che per «detenzione per scopi commerciali» si intende (lett. b) "la detenzione da parte di un privato di prodotti sottoposti ad accisa, dal medesimo acquistati, non per uso proprio, in quantitativi superiori a quelli indicati dall'articolo 11, dallo stesso trasportati e non destinati ad essere forniti a titolo oneroso".
A sua volta, l'art. 11, comma 2, del medesimo decreto stabilisce che "Possono considerarsi acquistati per uso proprio i prodotti acquistati e trasportati da privati entro i seguenti quantitativi:
a) bevande spiritose, 10 litri;
b) prodotti alcolici intermedi, 20 litri;
c) vino, 90 litri, di cui 60 litri, al massimo, di vino spumante;
d) birra, 110 litri;
e) sigarette, 800 pezzi;
f) sigaretti, 400 pezzi;
g) sigari, 200 pezzi;
h) tabacco da fumo, 1 chilogrammo
".
Per quanto concerne, in particolare, il carburante, rileva il comma 4 della norma in questione.
Tale disposizione prevede, infatti, che "I prodotti acquistati, non per uso proprio, e trasportati in quantità superiore ai limiti stabiliti nel comma 2 si considerano acquistati per fini commerciali e per gli stessi devono essere osservate le disposizioni di cui all'articolo 10. Le medesime disposizioni si applicano ai prodotti energetici trasportati dai privati o per loro conto con modalità di trasporto atipico.
È considerato atipico il trasporto del carburante in contenitori diversi dai serbatoi normali, dai contenitori per usi speciali o dall'eventuale bidone di scorta, di capacità non superiore a 10 litri, nonché il trasporto di prodotti energetici liquidi destinati al riscaldamento con mezzi diversi dalle autocisterne utilizzate per conto di operatori professionali
".
Infine, il comma 5 dell'art. 11, precisa che ai fini del comma 4 sono considerati “serbatoi normali” di un autoveicolo quelli permanentemente installati dal costruttore su tutti gli autoveicoli dello stesso tipo e la cui sistemazione permanente consente l'utilizzazione diretta del carburante sia per la trazione dei veicoli che, all'occorrenza, per il funzionamento, durante il trasporto, dei sistemi di refrigerazione o di altri sistemi.
Sono, parimenti, considerati “serbatoi normali” i serbatoi di gas installati su veicoli a motore che consentono l'utilizzazione diretta del gas come carburante, nonché i serbatoi adattati agli altri sistemi di cui possono essere dotati i veicoli e quelli installati permanentemente dal costruttore su tutti i contenitori per usi speciali, dello stesso tipo del contenitore considerato, la cui sistemazione permanente consente l'utilizzazione diretta del carburante per il funzionamento, durante il trasporto, dei sistemi di refrigerazione e degli altri sistemi di cui sono dotati i contenitori per usi speciali.
Ai fini del comma 4 è considerato “contenitore per usi speciali” qualsiasi contenitore munito di dispositivi particolari, adattati ai sistemi di refrigerazione, ossigenazione, isolamento termico o altro.
Alla stregua delle predette disposizioni normative, dunque, ben si giustifica la soluzione adottata dalla Cassazione nel caso in esame.
In particolare, pare evidente che il trasporto di tre taniche contenenti complessivamente 60 litri di gasolio per autotrazione a bordo di un'autovettura, integrasse all'evidenza la violazione dell'art. 40, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 504/1995 -che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa dal doppio al decuplo dell'imposta evasa, non inferiore in ogni caso a 7746 euro, chiunque (omissis) sottrae con qualsiasi mezzo i prodotti energetici, compreso il gas naturale, all'accertamento o al pagamento dell'accisa-, posto che l'eccedenza quantitativa del carburante trasportato ne rendeva «atipico» il trasporto ai sensi del richiamato art. 11, comma 4, con conseguente presunzione della destinazione a fini commerciali del carburante trasportato.
La decisione merita di essere condivisa, tenuto conto della giurisprudenza progressivamente formatasi in materia che, peraltro, ritiene configurabile il reato di sottrazione all'accertamento o al pagamento dell'accisa sugli oli minerali, da chiunque ponga in essere la condotta vietata, atteso che non sono richieste per la sua integrazione né l'immissione in commercio né la destinazione al commercio dei prodotti sottratti al pagamento dell'accisa (Cass., Sez. III, n. 10909 del 15/03/2007, imp. D.P., in Ced Cass., n. 236089).
In precedenza, conforme alla decisione in commento, anche un'altra sentenza (Cass., Sez. III, n. 40982 del 19/11/2001, PM in proc. O.R., in Ced Cass., n. 220305) relativa ad una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto "atipiche" le modalità del trasporto di ca. 132 litri di gasolio da riscaldamento effettuato a mezzo di taniche e non mediante autocisterna utilizzata da operatore professionale, come invece previsto dall'art. 11, comma 3, del decreto legislativo n. 504 del 1995, affermando il principio secondo cui deve ritenersi integrata la violazione in esame nell'ipotesi di trasporto del prodotto effettuato con modalità "atipiche" e senza la prescritta documentazione in quanto gli oli minerali trasportati con tali modalità vanno considerati detenuti per scopo commerciale, e quindi soggetti ancora al pagamento dell'accisa sebbene acquistati in paese comunitario, con presunzione iuris et de iure ai sensi dell'art. 9, comma 3, della Direttiva CEE n. 92/12 e degli artt. 10 e 11, commi 1 e 3 del d.lgs. n. 504/1995 (Corte di Cassazione penale, sentenza 11.01.2012 n. 442 - tratto da www.ipsoa.it).

URBANISTICA: L’art. 35 legge 22.10.1971, n. 865 esprime il principio generale secondo cui il prezzo per la cessione del diritto di superficie sulle aree deve «assicurare la copertura delle spese sostenute dal comune o dal consorzio per l'acquisizione delle aree comprese in ciascun piano approvato a norma della legge 18.04.1962, n. 167 (…)».
Sulla base dell’art. 35 cit., quindi, la determinazione del prezzo a carico del concessionario è modulato sul costo di acquisizione delle aree (oltre che sul costo delle opere di urbanizzazione, elemento che nel caso di specie non rileva), nel quale debbono rientrare tutti gli elementi di costo, compresa la voce dell’indennità di occupazione d’urgenza e i corrispettivi dovuti ai proprietari che hanno concluso accordi transattivi con il Comune, in quanto direttamente riferibili alla acquisizione delle aree oggetto della concessione.

Come si è avuto occasione di rilevare recentemente (TAR Sardegna Cagliari, sez. I, 14.06.2010, n. 1485), l’art. 35 legge 22.10.1971, n. 865 esprime il principio generale secondo cui il prezzo per la cessione del diritto di superficie sulle aree deve «assicurare la copertura delle spese sostenute dal comune o dal consorzio per l'acquisizione delle aree comprese in ciascun piano approvato a norma della legge 18.04.1962, n. 167 (…)» (sulla condivisibile qualificazione di tale norma come espressione di un principio generale si veda anche TAR Toscana, 13.07.2006, n. 3100).
Sulla base dell’art. 35 cit., quindi, la determinazione del prezzo a carico del concessionario è modulato sul costo di acquisizione delle aree (oltre che sul costo delle opere di urbanizzazione, elemento che nel caso di specie non rileva), nel quale debbono rientrare tutti gli elementi di costo, compresa la voce dell’indennità di occupazione d’urgenza e i corrispettivi dovuti ai proprietari che hanno concluso accordi transattivi con il Comune, in quanto direttamente riferibili alla acquisizione delle aree oggetto della concessione.
Come ha statuito di recente il Consiglio di Stato, con argomentazioni condivise dal Collegio e dalla quale non vi è ragione di discostarsi nel caso di specie (cfr. Cons. St. sez. IV 22.07.2010, n. 4815) la prescrizione contenuta nell’art. 35 cit. «non è idonea a rendere immune l’azione dell’ente pubblico dalle sue responsabilità per l’azione illegittima, tant’è che si è espressamente statuito che nell’ipotesi in cui l’acquisizione delle aree da destinare alla realizzazione dei piani di edilizia economica e popolare avvenga “non già attraverso le procedure espropriative di legge, bensì come effetto di un fatto illecito che, da un lato, determina l'acquisto della proprietà del suolo di mano pubblica e, dall'altro, fa sorgere nei proprietari delle aree il diritto al risarcimento del danno per la perdita della proprietà ai sensi dell'art. 2043 c.c., il principio dell’integrale copertura dei costi sostenuti per l'acquisto viene meno, atteso che si è fuori dalla lettera e dalla ratio dell'art. 35 L. 865/1971, non potendosi fare ricadere sui concessionari delle aree e loro aventi causa i maggiori costi determinatisi in forza di una acquisizione delle aree realizzate attraverso un fatto civilisticamente illecito, quale l'occupazione acquisitiva” (Consiglio di Stato, sez. IV, 21.02.2005, n. 577). Il principio dell’integrale copertura dei costi di acquisto delle aree è quindi espressione di una garanzia economica nei confronti dell’ente procedente, ma contiene in sé anche un principio di garanzia giuridica verso il beneficiario, che è tenuto verso il Comune nei soli limiti impostigli dalla legge e dal corretto comportamento dell’amministrazione, legato alla corretta acquisizione delle aree nel rispetto della procedura espropriativa prevista dalla legge.» (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 10.01.2012 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAInteressante pronuncia circa la natura giuridica della conferenza dei servizi (se istruttoria o decisoria) in ambito autorizzazione unica F.E.R. (Fonte Energetica Rinnovabile).
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Circa l'autorizzazione rilasciata da parte della provincia per costruire ed esercire un impianto di cogenerazione alimentato da fonte rinnovabile (biomassa legnosa), non può essere disconosciuta la legittimazione ad agire del comune, sia nella qualità di ente esponenziale degli interessi dei residenti che potrebbero subire danni dalla concreta individuazione delle aree per l'attivazione dell’impianto di cogenerazione, sia nella veste di ente titolare del potere di pianificazione urbanistica, sul quale certamente incide la collocazione dell'impianto medesimo.
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Alla conferenza di servizi disciplinata dall’art. 12 del D.Lgs. 387/2003 va attribuita natura decisoria. A ciò si perviene a seguito dell'analisi normativa che segue.
L'art. 12 del predetto decreto ha previsto il rilascio da parte della regione o della provincia delegata di un’”autorizzazione unica”, che sostituisce tutti i pareri e le autorizzazioni altrimenti necessari e in cui confluiscono, con il meccanismo della conferenza di servizi, anche le valutazioni di carattere paesaggistico e quelle relative all’esistenza di vincoli di carattere storico-artistico.
Sulla natura giuridica di detta conferenza si registrano opinioni non univoche nella giurisprudenza amministrativa, una parte di essa affermandone la natura “istruttoria”, altra, invece, la natura “decisoria”.
La preferenza per l’una o per l’altra opzione interpretativa ha rilevanti conseguenze giuridiche in ordine alle modalità di formazione del consenso e di superamento dell’eventuale dissenso formulato in seno alla conferenza da una o più delle amministrazioni coinvolte.
Com’è noto, alla conferenza “istruttoria” si ricorre nel caso in cui sia opportuno un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo o in più procedimenti amministrativi connessi (art. 14, commi 1 e 3, L. 241/1990); alla conferenza “decisoria”, invece, si ricorre quando l’amministrazione procedente debba acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre pubbliche amministrazione pubbliche e non li ottenga entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta (oppure quando intervenga un espresso dissenso nel predetto termine), ovvero quando l’attività del privato sia subordinata ad atti di consenso, comunque denominati, di competenza di più amministrazioni pubbliche (art. 14 commi 2 e 4, L. 241/1990).
Entrambi gli istituti hanno la finalità di semplificare e velocizzare il procedimento amministrativo, ma con la rilevante differenza che nel primo caso vi è un’unica amministrazione competente a decidere (cosiddetta decisione “monostrutturata”) la quale, però, prima di decidere, può acquisire contestualmente tramite la conferenza di servizi le valutazioni istruttorie delle altre amministrazioni interessate; nel secondo caso, invece, vi sono più amministrazioni competenti ad assentire, sotto distinti profili, il medesimo intervento o la medesima attività, ancorché il rilascio del provvedimento finale sia di competenza di una sola di esse (cosiddetta decisione “pluristrutturata”); e da ciò consegue che nel primo caso l’amministrazione procedente rimane libera di determinare il contenuto del provvedimento conclusivo, dal momento che questo rimane un atto di sua esclusiva competenza, salva la facoltà degli interessati di impugnare il provvedimento conclusivo che si discosti immotivatamente o irragionevolmente da quanto emerso in sede di conferenza di servizi; nel secondo caso, invece, il provvedimento finale deve tenere conto delle posizioni prevalenti espresse in seno alla conferenza di servizi, così come riassunte dal responsabile del procedimento nella determinazione conclusiva della conferenza medesima, e ove poi il dissenso sia espresso da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale o del patrimonio storico-artistico, sono dettate specifiche norme procedurali per il superamento di tale dissenso.
L’art. 12 del D.Lgs. 387/2003 non offre elementi univoci dai quali poter desumere a quale delle due fattispecie il legislatore abbia inteso ricondurre la conferenza di servizi preordinata all’esame di istanze di autorizzazione alla realizzazione di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile, e ciò spiega la contrapposizione interpretativa venutasi a delineare nell’ambito della giurisprudenza amministrativa tra la tesi della conferenza “istruttoria” e quella della conferenza “decisoria”, entrambe sostenute con argomentazioni plausibili e ragionevolmente ancorate al (generico e ambivalente) dato normativo.
Osserva però il collegio che entrambi gli orientamenti si sono formati in epoca antecedente l’introduzione del Decreto Ministeriale 10.09.2010 n. 47987 il quale, nel dettare le linee guida statali per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, offre oggi alcuni elementi testuali in favore della tesi della natura “decisoria” della conferenza di servizi qui in esame.
Si tratta, in particolare, di due disposizioni contenute nella parte III del predetto decreto ministeriale, concernenti la disciplina del procedimento unico di cui all’art. 12 citato:
- la prima è quella contenuta nell’art. 14.6, nella parte in cui si prevede che la conferenza di servizi “si svolge con le modalità di cui agli articoli 14 e seguenti della legge 241 del 1990 e successive modificazioni ed integrazioni”;
- la seconda è quella contenuta nell’art. 15.1, in cui si prevede che “l'autorizzazione unica, conforme alla determinazione motivata di conclusione assunta all'esito dei lavori della conferenza di servizi, sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni coinvolte”.
A ben guardare, entrambe le disposizioni sopra menzionate appaiono compatibili solo con la natura decisoria della conferenza di servizi.
In particolare, il rinvio integrale, senza specificazioni o eccezioni di sorta, alla disciplina di cui agli articoli 14 e seguenti della L. 241/1990 presuppone un implicito riferimento anche alle norme di cui agli artt. 14-ter e 14-quater di detta legge relativamente alle modalità di formazione del consenso tra le amministrazioni partecipanti e agli effetti dell’eventuale dissenso manifestato da una di esse: norme compatibili solo con il carattere polistrutturato della conferenza di servizi “decisoria” e inapplicabili, invece, alle ipotesi di conferenza “istruttoria”, all’esito della quale l’autorità procedente resta libera di determinare il contenuto del provvedimento finale a prescindere da ogni eventuale dissenso delle altre amministrazioni coinvolte: il quale, infatti, laddove espresso, non impone l’adozione di particolari modalità procedimentali per il suo superamento al di fuori della necessità che l’atto conclusivo adottato dall’amministrazione procedente sia adeguatamente motivato in relazione alle risultanze istruttorie acquisite in seno alla conferenza.
Analogamente, la previsione che la conferenza di servizi debba concludersi con una determinazione motivata di conclusione da parte del responsabile del procedimento e che l'autorizzazione unica debba conformarsi a detta determinazione, è anch’essa compatibile solo con la natura decisoria della conferenza di servizi, e così anche la previsione secondo cui l’autorizzazione unica sostituisce ogni autorizzazione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni coinvolte: specificazione che, nel riprodurre l’analoga disposizione contenuta nell’art. 14-ter, comma 9, della L. 241/1990, non avrebbe ragion d’essere se la conferenza di servizi qui in esame avesse natura istruttoria, posto che in tal caso non vi sarebbero più amministrazioni competenti ad assentire, sotto diversi profili, la medesima attività del privato, ma una sola amministrazione titolare in via esclusiva del potere decisorio con facoltà di acquisire, ove ritenuto “opportuno”, le valutazioni istruttorie di altre amministrazioni eventualmente interessate.
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E’ vero che l’art. 12 del D.Lgs. 387/2003 prevede che l’autorizzazione unica “costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico”, ma tale norma va letta secondo canoni di ragionevolezza e alla luce dei principi di (mera) semplificazione procedimentale che la ispirano.
L’autorizzazione unica, infatti, si inserisce nella pianificazione urbanistica e può variare quest’ultima soltanto se, nell’ambito del relativo procedimento, si sia giunti ad una ponderata valutazione circa la coerenza sostanziale dell’autorizzazione unica con le esigenze della pianificazione, con la conseguenza che l’effetto di variante dell’autorizzazione unica è soltanto un meccanismo di semplificazione.
L’effetto di variante dell’autorizzazione unica non significa prevalenza sostanziale di questo procedimento sulle scelte di pianificazione, quasi che la realizzazione di un impianto di cogenerazione potesse stravolgere le linee di programmazione dell’uso del territorio che ciascuna amministrazione correttamente si pone: se così non fosse, se l’eventuale dissenso del Comune sotto il profilo urbanistico potesse essere superato sul semplice rilievo che, in ogni caso, l’autorizzazione unica produce di diritto la variazione delle previsioni urbanistiche ostative alla realizzazione dell’impianto, tanto varrebbe non invitarla neppure, l’Amministrazione Comunale, a partecipare ai lavori della conferenza.
Né si può ritenere che le esigenze connesse all’approvvigionamento energetico da fonte rinnovabile –che sono certamente prioritarie e di rilievo comunitario e che proprio per questo hanno ispirato la semplificazione procedimentale delineata dal legislatore statale nel citato articolo 12 D.Lgs. 387/2003– siano talmente preminenti da legittimare la totale pretermissione delle esigenze di tutela del territorio, dell’ambiente e della salute pubblica connesse alla pianificazione territoriale.
Ciò non significa, peraltro, che l’amministrazione comunale sia titolare di un potenziale potere di “veto” in ordine alla realizzazione dell’impianto: significa soltanto che, nell’ambito della conferenza di servizi decisoria di cui al citato art. 12, l’eventuale dissenso del Comune deve essere preso in adeguata considerazione, attentamente ponderato ed eventualmente superato nella determinazione conclusiva, ma sempre sulla scorta di una motivazione adeguata che dia conto delle posizioni prevalenti emerse in seno alla conferenza e delle ragioni per cui l’insediamento è stato ritenuto, nel confronto dialettico dei vari interessi pubblici, compatibile con le caratteristiche dell’area interessata; una volta che in esito alla conferenza di servizi l’autorità procedente sia pervenuta a siffatta (motivata) conclusione, per il rilascio dell’autorizzazione unica non sarà necessario attivare la complessa procedura di variazione dello strumento urbanistico, ma la stessa autorizzazione unica determinerà di diritto l’effetto di variante urbanistica.

1. Il Comune di Luserna S. Giovanni impugna il provvedimento con cui la Provincia di Torino ha autorizzato l’Azienda Agricola Merlo Guido a costruire ed esercire un impianto di cogenerazione alimentato da fonte rinnovabile (biomassa legnosa) su terreni siti nel territorio del Comune medesimo.
2. Costituendosi in giudizio, l’impresa controinteressata ha eccepito in via preliminare l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione attiva e di interesse a ricorrere.
L’eccezione non può essere condivisa.
Ritiene il collegio che non possa essere disconosciuta la legittimazione ad agire dell’ente ricorrente, sia nella qualità di ente esponenziale degli interessi dei residenti che potrebbero subire danni dalla concreta individuazione delle aree per l'attivazione dell’impianto di cogenerazione, sia nella veste di ente titolare del potere di pianificazione urbanistica, sul quale certamente incide la collocazione dell'impianto medesimo.
Tale legittimazione sussiste a maggior ragione nella fattispecie in esame, nella quale il Comune agisce a tutela dei peculiari interessi pubblici rappresentati in sede procedimentale e asseritamente disattesi dal provvedimento impugnato.
3. Passando all’esame del merito del gravame, è opportuno premettere alcune considerazioni di ordine generale.
3.1. In ossequio a impegni internazionali e comunitari finalizzati alla riduzione dell'inquinamento anche mediante lo sviluppo delle fonti rinnovabili di energia, il legislatore statale, in attuazione di direttiva comunitaria, ha varato il D.Lgs. n. 387/2003, ispirato a principi di semplificazione e accelerazione delle procedure finalizzate alla realizzazione e gestione degli impianti di energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili.
In particolare, l'art. 12 del predetto decreto ha previsto il rilascio da parte della regione o della provincia delegata di un’”autorizzazione unica”, che sostituisce tutti i pareri e le autorizzazioni altrimenti necessari e in cui confluiscono, con il meccanismo della conferenza di servizi, anche le valutazioni di carattere paesaggistico e quelle relative all’esistenza di vincoli di carattere storico-artistico.
3.2. Sulla natura giuridica di detta conferenza si registrano opinioni non univoche nella giurisprudenza amministrativa, una parte di essa affermandone la natura “istruttoria” (TAR Campania Napoli, sez. VII, nn. 9345/2009 e 9367/2009 e 157/2010; Consiglio di Stato sez. VI, n. 3502/2004 e C.G.A. nn. 295/2008 e 763/2008), altra, invece, la natura “decisoria” (Cons. Stato, sez. VI, 22.02.2010, n. 1020; TAR Campania Napoli, sez. V, n. 1479/2010; TAR Sicilia Palermo, sez. II, n. 1539/2009).
La preferenza per l’una o per l’altra opzione interpretativa ha rilevanti conseguenze giuridiche in ordine alle modalità di formazione del consenso e di superamento dell’eventuale dissenso formulato in seno alla conferenza da una o più delle amministrazioni coinvolte.
3.3. Com’è noto, alla conferenza “istruttoria” si ricorre nel caso in cui sia opportuno un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo o in più procedimenti amministrativi connessi (art. 14, commi 1 e 3, L. 241/1990); alla conferenza “decisoria”, invece, si ricorre quando l’amministrazione procedente debba acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre pubbliche amministrazione pubbliche e non li ottenga entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta (oppure quando intervenga un espresso dissenso nel predetto termine), ovvero quando l’attività del privato sia subordinata ad atti di consenso, comunque denominati, di competenza di più amministrazioni pubbliche (art. 14 commi 2 e 4, L. 241/1990).
Entrambi gli istituti hanno la finalità di semplificare e velocizzare il procedimento amministrativo, ma con la rilevante differenza che nel primo caso vi è un’unica amministrazione competente a decidere (cosiddetta decisione “monostrutturata”) la quale, però, prima di decidere, può acquisire contestualmente tramite la conferenza di servizi le valutazioni istruttorie delle altre amministrazioni interessate; nel secondo caso, invece, vi sono più amministrazioni competenti ad assentire, sotto distinti profili, il medesimo intervento o la medesima attività, ancorché il rilascio del provvedimento finale sia di competenza di una sola di esse (cosiddetta decisione “pluristrutturata”); e da ciò consegue che nel primo caso l’amministrazione procedente rimane libera di determinare il contenuto del provvedimento conclusivo, dal momento che questo rimane un atto di sua esclusiva competenza, salva la facoltà degli interessati di impugnare il provvedimento conclusivo che si discosti immotivatamente o irragionevolmente da quanto emerso in sede di conferenza di servizi; nel secondo caso, invece, il provvedimento finale deve tenere conto delle posizioni prevalenti espresse in seno alla conferenza di servizi, così come riassunte dal responsabile del procedimento nella determinazione conclusiva della conferenza medesima, e ove poi il dissenso sia espresso da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale o del patrimonio storico-artistico, sono dettate specifiche norme procedurali per il superamento di tale dissenso.
3.4. L’art. 12 del D.Lgs. 387/2003 non offre elementi univoci dai quali poter desumere a quale delle due fattispecie il legislatore abbia inteso ricondurre la conferenza di servizi preordinata all’esame di istanze di autorizzazione alla realizzazione di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile, e ciò spiega la contrapposizione interpretativa venutasi a delineare nell’ambito della giurisprudenza amministrativa tra la tesi della conferenza “istruttoria” e quella della conferenza “decisoria”, entrambe sostenute con argomentazioni plausibili e ragionevolmente ancorate al (generico e ambivalente) dato normativo.
3.5. Osserva però il collegio che entrambi gli orientamenti si sono formati in epoca antecedente l’introduzione del Decreto Ministeriale 10.09.2010 n. 47987 il quale, nel dettare le linee guida statali per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, offre oggi alcuni elementi testuali in favore della tesi della natura “decisoria” della conferenza di servizi qui in esame.
3.6. Si tratta, in particolare, di due disposizioni contenute nella parte III del predetto decreto ministeriale, concernenti la disciplina del procedimento unico di cui all’art. 12 citato:
- la prima è quella contenuta nell’art. 14.6, nella parte in cui si prevede che la conferenza di servizi “si svolge con le modalità di cui agli articoli 14 e seguenti della legge 241 del 1990 e successive modificazioni ed integrazioni”;
- la seconda è quella contenuta nell’art. 15.1, in cui si prevede che “l'autorizzazione unica, conforme alla determinazione motivata di conclusione assunta all'esito dei lavori della conferenza di servizi, sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni coinvolte”.
3.7. A ben guardare, entrambe le disposizioni sopra menzionate appaiono compatibili solo con la natura decisoria della conferenza di servizi.
3.8. In particolare, il rinvio integrale, senza specificazioni o eccezioni di sorta, alla disciplina di cui agli articoli 14 e seguenti della L. 241/1990 presuppone un implicito riferimento anche alle norme di cui agli artt. 14-ter e 14-quater di detta legge relativamente alle modalità di formazione del consenso tra le amministrazioni partecipanti e agli effetti dell’eventuale dissenso manifestato da una di esse: norme compatibili solo con il carattere polistrutturato della conferenza di servizi “decisoria” e inapplicabili, invece, alle ipotesi di conferenza “istruttoria”, all’esito della quale l’autorità procedente resta libera di determinare il contenuto del provvedimento finale a prescindere da ogni eventuale dissenso delle altre amministrazioni coinvolte: il quale, infatti, laddove espresso, non impone l’adozione di particolari modalità procedimentali per il suo superamento al di fuori della necessità che l’atto conclusivo adottato dall’amministrazione procedente sia adeguatamente motivato in relazione alle risultanze istruttorie acquisite in seno alla conferenza.
3.9 Analogamente, la previsione che la conferenza di servizi debba concludersi con una determinazione motivata di conclusione da parte del responsabile del procedimento e che l'autorizzazione unica debba conformarsi a detta determinazione, è anch’essa compatibile solo con la natura decisoria della conferenza di servizi, e così anche la previsione secondo cui l’autorizzazione unica sostituisce ogni autorizzazione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni coinvolte: specificazione che, nel riprodurre l’analoga disposizione contenuta nell’art. 14-ter, comma 9, della L. 241/1990, non avrebbe ragion d’essere se la conferenza di servizi qui in esame avesse natura istruttoria, posto che in tal caso non vi sarebbero più amministrazioni competenti ad assentire, sotto diversi profili, la medesima attività del privato, ma una sola amministrazione titolare in via esclusiva del potere decisorio con facoltà di acquisire, ove ritenuto “opportuno”, le valutazioni istruttorie di altre amministrazioni eventualmente interessate.
3.10 Alla luce di tali considerazioni, ritiene il collegio -conformemente a quanto affermato dalla più recente e attenta dottrina- che alla conferenza di servizi disciplinata dall’art. 12 del D. Lgs. 387/2003 vada attribuita natura decisoria.
Tale opzione ermeneutica assume rilievo ai fini della decisione del ricorso qui in esame, per le ragioni che saranno qui di seguito evidenziate.
3.11 Tanto premesso, è possibile passare alla disamina dei singoli motivi di ricorso.
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5. Con il secondo motivo, parte ricorrente ha lamentato la violazione dell’art. 12, commi 3, 4 e 4-bis, del D.Lgs. 29.12.2003, n. 387 e dei principi di coordinamento e di buon andamento dell’azione amministrativa, nonché vizi di eccesso di potere per manifesta irragionevolezza e difetto d’istruttoria: secondo parte ricorrente la determinazione impugnata sarebbe illegittima perché affetta da carenza di istruttoria e di motivazione; in particolare, essa difetterebbe di adeguata motivazione:
a) circa la ritenuta compatibilità urbanistica dell’impianto e, soprattutto, circa le ragioni della prevalenza accordata all’interesse pubblico alla realizzazione dell’impianto rispetto ai concorrenti interessi pubblici connessi alla disciplina del territorio e alla tutela della salute pubblica;
b) circa le carenze progettuali sotto il profilo edilizio rilevate dal Comune e dalla stessa Provincia in sede istruttoria e non sanate dall’impresa richiedente (che si è limitata a dichiarare che le integrazioni richieste sarebbero state consegnate soltanto prima dell’inizio dei lavori all’ufficio tecnico comunale), tenuto conto che l’autorizzazione impugnata è stata rilasciata con l’espressa indicazione che la stessa costituisce “titolo a costruire”;
c) circa l’effettiva “disponibilità del suolo” su cui realizzare sia l’impianto di cogenerazione sia la rete di teleriscaldamento, così come prescritto dall’art. 12, comma 4-bis, D.Lgs. 387/2003;
d) infine, circa l’entità delle “emissioni in atmosfera” che saranno prodotte dall’impianto.
5.1. La censura è fondata nei limiti qui di seguito precisati.
5.2.. Quanto alla conformità urbanistica dell’impianto.
In seno alla conferenza di servizi del 28.10.2010, il rappresentante del Comune di Luserna ha fatto presente che il progettato impianto di cogenerazione non risultava conforme con la destinazione urbanistica dell’area oggetto dell’insediamento (classificata come “area per attrezzature di interesse generale comunale e intercomunale, campeggi e attrezzature varie, con destinazione d’uso parco gioco, parcheggio o pozzo acquedotto comunale”), evidenziando che la relativa tabella di zona prescrive che “non sono ammessi interventi se non connessi con la formazione del servizio”.
Nella determinazione conclusiva impugnata nel presente giudizio, la Provincia di Novara ha ritenuto che il rilievo formulato dal rappresentante comunale non costituisse ragione ostativa al rilascio dell’autorizzazione unica dal momento che questa, ai sensi dell’art. 12, comma 3, del D.Lgs. 29.12.2003, n. 387, “costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico”.
Ritiene il collegio che tale motivazione sia del tutto carente.
E’ vero che l’art. 12 del D.Lgs. 387/2003 prevede che l’autorizzazione unica “costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico”, ma tale norma va letta secondo canoni di ragionevolezza e alla luce dei principi di (mera) semplificazione procedimentale che la ispirano.
L’autorizzazione unica, infatti, si inserisce nella pianificazione urbanistica e può variare quest’ultima soltanto se, nell’ambito del relativo procedimento, si sia giunti ad una ponderata valutazione circa la coerenza sostanziale dell’autorizzazione unica con le esigenze della pianificazione, con la conseguenza che l’effetto di variante dell’autorizzazione unica è soltanto un meccanismo di semplificazione.
L’effetto di variante dell’autorizzazione unica non significa prevalenza sostanziale di questo procedimento sulle scelte di pianificazione, quasi che la realizzazione di un impianto di cogenerazione potesse stravolgere le linee di programmazione dell’uso del territorio che ciascuna amministrazione correttamente si pone: se così non fosse, se l’eventuale dissenso del Comune sotto il profilo urbanistico potesse essere superato sul semplice rilievo che, in ogni caso, l’autorizzazione unica produce di diritto la variazione delle previsioni urbanistiche ostative alla realizzazione dell’impianto, tanto varrebbe non invitarla neppure, l’Amministrazione Comunale, a partecipare ai lavori della conferenza.
Né si può ritenere che le esigenze connesse all’approvvigionamento energetico da fonte rinnovabile –che sono certamente prioritarie e di rilievo comunitario e che proprio per questo hanno ispirato la semplificazione procedimentale delineata dal legislatore statale nel citato articolo 12 D.Lgs. 387/2003– siano talmente preminenti da legittimare la totale pretermissione delle esigenze di tutela del territorio, dell’ambiente e della salute pubblica connesse alla pianificazione territoriale.
Ciò non significa, peraltro, che l’amministrazione comunale sia titolare di un potenziale potere di “veto” in ordine alla realizzazione dell’impianto: significa soltanto che, nell’ambito della conferenza di servizi decisoria di cui al citato art. 12, l’eventuale dissenso del Comune deve essere preso in adeguata considerazione, attentamente ponderato ed eventualmente superato nella determinazione conclusiva, ma sempre sulla scorta di una motivazione adeguata che dia conto delle posizioni prevalenti emerse in seno alla conferenza e delle ragioni per cui l’insediamento è stato ritenuto, nel confronto dialettico dei vari interessi pubblici, compatibile con le caratteristiche dell’area interessata; una volta che in esito alla conferenza di servizi l’autorità procedente sia pervenuta a siffatta (motivata) conclusione, per il rilascio dell’autorizzazione unica non sarà necessario attivare la complessa procedura di variazione dello strumento urbanistico, ma la stessa autorizzazione unica determinerà di diritto l’effetto di variante urbanistica.
Nel caso in esame, tale valutazione è mancata del tutto, anche perché la conferenza di servizi non è si è conclusa -come invece avrebbe dovuto, attesa la sua natura decisoria- con la determinazione conclusiva del responsabile del procedimento che desse conto delle posizioni prevalenti emerse in seno alla stessa: di modo che i rilievi istruttori concernenti le caratteristiche dell’area oggetto dell’insediamento, esposti nelle pagine iniziali del verbale della conferenza, sono rimaste oggetto delle valutazioni contrapposte dell’amministrazione provinciale e di quella comunale, senza che tale contrapposizione fosse risolta dal responsabile del procedimento con la formulazione sintetica delle posizioni prevalenti emerse in seno alla stessa, che consentisse in definitiva di comprendere le ragioni dell’autorizzazione conclusiva.
In tal modo, l’effetto di variante automatica dello strumento urbanistico sancito dall’art. 12 è stato utilizzato in modo improprio per aggirare, senza alcuna motivazione, le valutazioni svolte dal Comune in seno alla conferenza di servizi, finendo per vanificare la stessa utilità della partecipazione comunale alla conferenza medesima.
Alla luce di tali considerazioni, ritiene il collegio che la censura in esame sia fondata e vada accolta (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 21.12.2011 n. 1342 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOLa cefalea non impedisce di mandare il certificato. Sentenza del Tar Lazio: legittimo il benservito alla dipendente pubblica.
L'amministrazione dà il benservito al travet specializzato nel «marcare visita». Il bello, o se si vuole il brutto, è che l'impiegata pubblica non comunica tempestivamente le assenze dal servizio: sostiene che la sua malattia le impedisce di prevedere quando sarà assente dal servizio.
E allora giù contestazioni disciplinari, multe e infine il licenziamento: legittimo, stavolta, perché la dipendente dell'ente non può invocare lo stato di necessità che esonera il lavoratore di dare tempestiva comunicazione al datore in caso di malattia. La cefalea, per quanto grave e cronica, non impedisce di alzare il telefono o di mandare il certificato in ufficio.

È quanto emerge dalla sentenza 20.12.2011 n. 9940 della Sez. III-quater del TAR Lazio-Roma.
Dipendente inadempiente.
Inutile per l'impiegata in rotta con l'amministrazione sostenere che il diniego del part-time richiesto al dirigente abbia innescato un meccanismo di contrasto con l'ente, sfociando nella sua recidiva. In effetti la conversione del contratto da tempo pieno a parziale non è affatto dovuta, ma rientra nelle scelte organizzative dell'amministrazione: non giova alla licenziata eccepire che l'ente datore non avrebbe tenuto conto delle precarie condizioni di salute della dipendente; in realtà la signora spesso e volentieri viene meno ai suoi obblighi di comunicazione delle assenze e risulta spesso oggetto di provvedimenti disciplinari: l'incolpata ben avrebbe potuto impugnare le sanzioni di fronte al collegio arbitrale.
La malattia, per quanto seria, non configura un fattore ostativo tale da non consentire l'adempimento degli oneri burocratici in tema di malattia entro i termini del regolamento. Nel frattempo la signora accumula dieci giorni di sospensione dal servizio in due anni: inevitabile il licenziamento con preavviso.
A questo proposito il punto 7 dell'articolo 2 del codice disciplinare dispone che il licenziamento con preavviso può essere disposto «per violazioni di gravità tale da compromettere gravemente il rapporto di fiducia con l'Amministrazione e da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro, tra queste sono da ricomprendersi in ogni caso: a) recidiva, nel biennio, in una mancanza tra quelle previste nel medesimo comma, che abbia comportato l'applicazione della sanzione di dieci giorni di sospensione dal servizio e dalla retribuzione». Inevitabile il recesso dell'ente. Spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi del 15.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTICommissione di gara - Competenza tecnica - Valutazione di adeguatezza - Non implica esperienze specifiche in capo ad ogni commissario - Necessità di una valutazione dell'organo nel suo complesso.
Il giudizio di adeguatezza della Commissione sotto lo specifico profilo della competenza tecnica necessaria, come la giurisprudenza ha avuto modo di rilevare, non implica che ciascun Commissario debba possedere tutte le cognizioni rilevanti in relazione allo specifico oggetto dell'appalto, ma che tale competenza debba risultare dall'insieme delle esperienze di ciascun componente e come tale riferibile all'organo nel suo complesso (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 29.11.2011 n. 2952 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIOfferta economicamente più vantaggiosa - legittimità dell'esclusione delle offerte che non raggiungono un punteggio tecnico minimo (c.d. clausola di sbarramento) - Contraddittorio non necessario se non previsto dalla lex specialis.
Con riferimento all'aggiudicazione con il sistema dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la giurisprudenza ha ritenuto legittime le clausole del bando che prevedono la valutazione dell'offerta economica solo in caso di un punteggio minimo raggiunto dall'offerta, considerata la rilevanza che può avere l'aspetto della qualità tecnica per la amministrazione aggiudicatrice (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 03.03.2004, n. 1040, che ha affermato la legittimità di una clausola di sbarramento, prevista nel capitolato speciale per una gara di appalto per l'aggiudicazione di un servizio all'offerta economicamente più vantaggiosa, che non consente la valutazione del prezzo nel caso di offerte che sotto il profilo qualitativo non raggiungano un punteggio minimo; TAR Lazio, Roma, Sez. III, 26.01.2009, n. 630).
Una volta determinato lo standard cui l'offerta deve conformarsi, il mancato raggiungimento dei livelli minimi prescritti è, infatti, elemento di per sé legittimante l'esclusione del concorrente senza necessità di instaurare alcun confronto in contraddittorio se non previsto dalle norme di gara (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 18.11.2011 n. 2802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: 1. Art. 120, comma 5, c.p.a. - Appalti di servizi - Termine dimidiato a 30 giorni - Applicabilità anche al ricorso incidentale.
2. Art. 17, comma 3, L. 555/1990 - Divieto di partecipazione alle gare in caso di intestazioni fiduciarie - Art. 1, comma 1, DPCM 187/1997 - Obbligo informativo delle intestazioni fiduciarie prima della stipula del contratto - Art. 9, comma 63, L. 415/1998 - Solo obbligo di comunicare l'identità del socio fiduciario per le fiduciarie autorizzate.

1. Ai sensi dell'art. 120, comma 5, c.p.a. è dimidiato il termine per la proposizione di ricorso e motivi aggiunti ai fini dell'impugnazione degli atti concernenti le procedure di affidamento di servizi pubblici: esso è perciò pari a 30 giorni, così sottraendosi all'eccezione introdotta dall'art. 119, comma 2, c.p.a. In giurisprudenza è discusso se il termine dimidiato sia applicabile anche alla proposizione del ricorso incidentale, che non viene espressamente menzionato dall'art. 120, comma 5 (in senso favorevole, Tar Catania n. 1475 del 2011; in senso contrario, Tar Lecce n. 113 del 2011).
Il Tribunale è dell'opinione positiva: da un punto di vista letterale, proprio il confronto con l'art. 119, comma 2, ove sono menzionati "ricorso introduttivo" e "ricorso incidentale" dimostra che la più ampia espressione "ricorso" contenuta senza altra specificazione nell'art. 120, comma 5, è idonea a comprendere l'uno e l'altro.
2. L'art. 17, comma 3, della L. n. 55 del 1990, recante disposizioni in materia di prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale, ha vietato la partecipazione alle gare concernenti opere pubbliche in caso di intestazione fiduciaria: è palese la finalità della norma, la quale intende prevenire l'accesso al remunerativo meccanismo di aggiudicazioni pubbliche di soggetti criminali, mascherati dietro un mandatario (Tribunale civile di Milano, sentenza 13.02.2008).
Sulla base dell'art. 17, comma 3, è stato poi emanato il regolamento ivi previsto con il D.P.C.M. 11.05.1997, n. 187, il cui art. 1, comma 1, ha posto un obbligo informativo a carico delle società aggiudicatarie, "prima della stipula del contratto", concernente le intestazioni fiduciarie, collegato all'onere stabilito dal successivo art. 4, comma 1, di far cessare entro 90 giorni l'intestazione, al fine di poter legalmente contrarre con la P.A. In seguito, l'art. 9, comma 63, della L. n. 415 del 1998 ha allentato il divieto originario, distinguendo la posizione delle fiduciarie autorizzate ai sensi della L. n. 1966 del 1939: in tal caso, permane il solo obbligo di comunicare l'identità del socio fiduciario entro 30 giorni dalla richiesta a tal fine formulata dall'Amministrazione.
In giurisprudenza si è perciò già rilevato che, allo stato, l'art. 17, comma 3, prevede due differenti situazioni: un divieto assoluto di intestazione fiduciaria, che comporta l'immediata esclusione dalla gara; un mero obbligo comunicativo, susseguente all'aggiudicazione e da assolversi, pertanto, a seguito di essa e prima della stipula del contratto, nel rispetto del termine di legge (Cons. Stato, sez. V, n. 4010 del 2002) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 18.11.2011 n. 2797 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Ferie non godute: diritto sopravvive al trasferimento per mobilità.
Il trasferimento per mobilità interna presso una pubblica amministrazione non comporta novazione del rapporto di lavoro.
In tal caso si avrà solo sostituzione del datore di lavoro con la conseguenza che il lavoratore trasferito conserverà ogni suo diritto maturato presso il precedente datore, ivi comprese le ferie non godute.

Così il TRIBUNALE di Brindisi, nella sezione lavoro, con la sentenza 10.11.2011 n. 4190.
Il prestatore di lavoro ha diritto ad usufruire presso la pubblica amministrazione di destinazione, delle ferie maturate e non godute presso quella di provenienza.
Anche la prescrizione è stata interrotta; nella decisione che si annota il Tribunale ha rigettato anche l'eccezione di prescrizione quinquennale sollevata da parte convenuta, poiché la ricorrente ha interrotto la decorrenza del termine, con la presentazione della richiesta del godimento delle ferie.
Vi è anche di più per la prova del diritto alle ferie, ossia la confessione del datore di lavoro; il giudice ha riconosciuto provato il diritto alla ferie anche perché la ricorrente ha dimostrato i fatti costitutivi, mediante produzione del documento con efficacia confessoria (proveniente direttamente dal datore di lavoro) in cui veniva indicato espressamente il periodo maturato dal lavoratore.
Il Tribunale ha, quindi, accolto il ricorso, accertando il diritto del godimento delle ferie maturate e non godute (link a www.altalex.com).

APPALTIDirettiva 2004/18/CE - Art. 68 D.lgs. 163/2006 - Necessità di assicurare una concorrenza effettiva tramite la partecipazione del maggior numero possibile di offerenti - Necessità per le stazioni appaltanti di specificare le proprie esigenze in termini di prestazioni - Sussiste - Art. 68 costituisce norma imperativa e di eterointegrazione.
Il comma 4 dell'art. 68 D.Lgs. n. 163/2006 prevede che "quando si avvalgono della possibilità di fare riferimento alle specifiche di cui al comma 3, lettera a), le stazioni appaltanti non possono respingere un'offerta per il motivo che i prodotti e i servizi offerti non sono conformi alle specifiche alle quali hanno fatto riferimento, se nella propria offerta l'offerente prova in modo ritenuto soddisfacente dalle stazioni appaltanti, con qualsiasi mezzo appropriato, che le soluzioni da lui proposte ottemperano in maniera equivalente ai requisiti definiti dalle specifiche tecniche".
Parimenti, per il successivo comma 7 del medesimo articolo, quando si avvalgono della facoltà, prevista al comma 3, di definire le specifiche tecniche in termini di prestazioni o di requisiti funzionali, le stazioni appaltanti non possono respingere un'offerta di lavori, di prodotti o di servizi conformi ad una norma nazionale che recepisce una norma europea, ad un'omologazione tecnica europea, ad una specifica tecnica comune, ad una norma internazionale o ad un riferimento tecnico elaborato da un organismo europeo di normalizzazione se tali specifiche contemplano le prestazioni o i requisiti funzionali da esse prescritti. Per il successivo comma, in tale ipotesi, nella propria offerta l'offerente è tenuto a provare in modo ritenuto soddisfacente dalle stazioni appaltanti e con qualunque mezzo appropriato, che il lavoro, il prodotto o il servizio conforme alla norma ottempera alle prestazioni o ai requisiti funzionali prescritti.
Il predetto articolato è diretta espressione della normativa comunitaria, che in sede di emanazione della Direttiva 2004/18/CE, posta a base del codice dei contratti, ha significativamente innovato la materia rispetto al passato, sul rilievo che le disposizioni precedentemente applicabili obbligavano i committenti pubblici a far riferimento a taluni strumenti esaustivamente elencati, ma che l'applicazione di tali disposizioni conduceva a situazioni limitative della scelta del committente all'acquisto dei soli prodotti conformi alla norma tecnica. E' pertanto apparso necessario semplificare tali disposizioni, privilegiando un approccio che consenta di assicurare una concorrenza effettiva tramite la partecipazione del maggior numero possibile di offerenti, permettendo ai committenti pubblici anche di specificare le proprie esigenze in termini di prestazioni.
Nella Direttiva pertanto la definizione delle specifiche tecniche tramite rinvio ad una certa normativa è stato posto in termini meramente alternativi rispetto alla facoltà di indicare determinate "prestazioni" o "requisiti funzionali", senza che il richiamo a questi ultimi possa ritenersi eccezionale o derogatorio (v. il nuovo articolo 23, comma 2 secondo cui "le specifiche tecniche devono consentire pari accesso agli offerenti e non devono comportare la creazione di ostacoli ingiustificati all'apertura degli appalti pubblici alla concorrenza").
L'art. 68 del codice dei contratti costituisce, in ogni caso, una norma imperativa, per la quale opera il principio di eterointegrazione, trovando applicazione a prescindere dal suo mancato riferimento nella "lex specialis" (TAR Sicilia Palermo, Sez. I, 15.03.2010 n. 2932). Anche se le norme destinate a disciplinare la gara hanno infatti valore di "lex specialis", le medesime devono essere integrate da quelle imperative, ai sensi dell'art. 1339 c.c. (TAR Campania Napoli, Sez. I, 11.01.2001 n. 116) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 03.11.2011 n. 2633 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGara pubblica - Partecipazione da parte di associazioni di volontariato - Legittimità - Condizioni - Esercizio di un'attività economica.
Con riferimento alla possibilità che le associazioni di volontariato partecipino a gare pubbliche, la Corte di Giustizia CE ha chiarito che le disposizioni della direttiva 2004/18 devono essere interpretate nel senso di consentire a soggetti che non perseguono preminente scopo di lucro, che non dispongono della struttura organizzativa di un'impresa e che non assicurano una presenza regolare sul mercato, di partecipare ad un appalto pubblico di servizi (sentenza 23.12.2009, C 305/08).
In senso conforme si è espresso anche il Consiglio di Stato che, con indirizzo cui si aderisce, ha precisato che "l'assenza di fini di lucro non esclude che le associazioni di volontariato possano esercitare un'attività economica, né rileva la carenza di iscrizione alla Camera di Commercio o al registro delle imprese, che non costituiscono requisito indefettibile di partecipazione alle gare di appalto (Cons. St. 4236/2009) né, nella fattispecie, ciò era espressamente stabilito dalle norme di gara" (Cons. St., Sez. V, 26.08.2010, n. 5956).
Il connotato rilevante ai fini dell'odierna decisione tesa a sancire la legittimità o meno della partecipazione di un'associazione di volontariato, non è, pertanto, la ricorrenza in capo al soggetto di uno "scopo di lucro" ma l'esercizio da parte del partecipante alla gara, di un'attività definibile come "economica": quest'ultima certamente non esclusa in difetto del primo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 03.11.2011 n. 2614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGare pubbliche - Ricorso giurisdizionale - Per l'annullamento dell'aggiudicazione e, in subordine, dell'intera gara - Inammissibilità.
Laddove sia impugnato l'esito di una procedura di gara, non può essere soddisfatta la pretesa del ricorrente di vedere esaminata con precedenza la censura che conduca al conseguimento dell'aggiudicazione e, solo in caso di mancato accoglimento, di ottenere che venga preso in considerazione un motivo di illegittimità riguardante l'intera procedura; ciò in quanto non si può conseguire un'aggiudicazione a seguito di una selezione la cui procedura sia integralmente viziata (cfr., Cons. Stato, sez. V, 07.07.2011, n. 4052; id. 06.04.2009, n. 2143) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 03.11.2011 n. 2607 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOUfficiali di Polizia giudiziaria - Attività di indagine dirette dal P.M. - Rapporto di subordinazione funzionale con l'A.G. - Sussiste - Condotta dell'ufficiale che abbia informato direttamente il P.M. in merito ad eventuali difficoltà organizzative - Legittima - Obbligo dell'ufficiale di informare previamente il proprio dirigente responsabile - Non sussiste.
L'ufficiale di polizia giudiziaria, incaricato dal P.M. di attività di indagine, si trova in un rapporto di subordinazione funzionale con l'Autorità giudiziaria, che si affianca al rapporto di subordinazione gerarchica con il corpo di appartenenza. Per tale ragione, egli è tenuto ad informare il P.M. di ogni difficoltà che possa insorgere nell'espletamento dell'attività delegata e, dunque, anche delle difficoltà organizzative che gli siano state prospettate dai propri dirigenti.
Non ricorre, quindi, alcun profilo di illecito disciplinare nell'ipotesi in cui l'ufficiale abbia reso edotto direttamente P.M. in merito alla situazione organizzativa critica dell'ufficio con riferimento all'indagine in corso (senza, cioè, previamente riferire al proprio dirigente responsabile) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 03.11.2011 n. 2604 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti - Ordinanza di sgombero - Emessa nei confronti del proprietario di un capannone concesso in locazione - Motivazione del provvedimento - Indicazione dei profili di responsabilità del proprietario - Necessaria.
È illegittima l'ordinanza di sgombero di rifiuti emanata nei confronti del proprietario di un capannone concesso in locazione qualora la stessa non rechi alcuna motivazione -né indicazione in fatto- che consenta di attribuire al proprietario un concorso, sia pure per culpa in vigilando, nel comportamento illecito tenuto dal conduttore (Nella specie, l'ordinanza de qua era stata adottata in forza dell'art. 14, D. Lgs. 05.02.1997, n. 22 che prevedeva l'obbligo solidale del proprietario di rimuovere i rifiuti, purché ne sussistesse il dolo o la colpa) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 03.11.2011 n. 2602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Contratti della P.A. - Gara - Offerte - Verifica di anomalia - Termini per il deposito delle giustificazioni - Carattere ordinatorio.
2. Contratti della P.A. - Verifica di anomalia - Obbligo di motivazione analitica - Sussiste solo nel caso in cui la stazione appaltante esprima un giudizio negativo.

1. I termini per il deposito delle giustificazioni richieste in sede di verifica dell'anomalia delle offerte non sono perentori (cfr., TAR Lazio Roma, Sez. III, 09.12.2010 n. 35952).
2. La verifica di anomalia di un'offerta richiede una motivazione analitica solamente nei casi in cui essa non sia giustificata da elementi congrui e che quindi si concluda negativamente per gli interessati.
Nel caso in cui la valutazione si esaurisca in un giudizio di congruità, non è necessario che il provvedimento finale sia sorretto da una motivazione articolata che dia conto delle singole giustificazioni corredandole con apprezzamenti ulteriori, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni, quando esse siano perspicue (cfr., TAR Liguria Genova, sez. II, 20.04.2011, n. 645) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 27.10.2011 n. 2583 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIResponsabilità extracontrattuale - Appalto - Gara - Danno da mancata aggiudicazione - Dimostrazione - Mancato utilizzo dei mezzi e della manodopera per lo svolgimento di altre commesse - Necessaria.
Il danno derivante ad un'impresa dal mancato affidamento di un appalto è quantificabile nella misura dell'utile non conseguito, solo se e in quanto l'impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze (lasciati disponibili) per l'espletamento di altri servizi.
Mentre quando tale dimostrazione non sia stata offerta è da ritenere che l'impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri, analoghi servizi, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità, con conseguente riduzione in via equitativa del danno risarcibile (cfr., Cons. Stato, V, 24.10.2002, n. 5860; Cons. Stato, Sez. VI, 09.11.2006, n. 6607) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 21.10.2011 n. 2524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIContratti della P.A. - Partecipazione alla gara - Art. 48, comma 1, D. Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 - Cauzione provvisoria - Incameramento da parte della P.A. - Finalità.
L'incameramento della cauzione provvisoria da parte dell'Amministrazione, prevista dall'art. 48, comma 1, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, costituisce, in primo luogo, una garanzia del rispetto dell'ampio patto d'integrità cui si vincola chi partecipa a gare pubbliche. In secondo luogo, è congruente rispetto alla funzione di garantire la serietà e l'affidabilità dell'offerta, sanzionando la violazione dell'obbligo di diligenza gravante sull'offerente, mediante l'anticipata liquidazione dei danni subiti dalla stazione appaltante, tenuto conto che l'operatore economico, con la domanda di partecipazione, sottoscrive e si impegna ad osservare le regole della relativa procedura delle quali ha, dunque, contezza.
Inoltre, è preordinato ad assicurare il regolare e rapido espletamento della procedura e la tempestiva liquidazione dei danni prodotti dall'alterazione della stessa a causa della mancanza dei requisiti da parte dell'offerente e, quindi, la norma è strumentale rispetto all'esigenza di garantire l'imparzialità e il buon andamento dell'azione amministrativa (cfr., Corte Cost., 13.07.2011, n. 211; sul punto v. anche, ex multis, TAR Sardegna, sez. I, 17.06.2011, n. 594; TAR Sicilia Palermo, sez. III, 18.03.2011, n. 504) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 21.10.2011 n. 2513 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Contratti della P.A. - Appalto - Gara - Provvedimento di esclusione - Determina una lesione attuale e concreta - Conseguenza - Onere di impugnazione immediato - Sussiste - Anche in pendenza della procedura.
Il provvedimento di esclusione dalla gara disposto nei confronti di un'impresa concorrente determina un definitivo arresto procedimentale a danno dell'interessata e, quindi, una lesione immediata e concreta del proprio interesse, che le impone di ricorrere subito contro di esso, senza attendere l'esito della gara (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 28.09.2011 n. 2314 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Contratti della P.A. - Appalto - Gara - Fase di prequalifica - Finalità.
2. Avvalimento - Onere di documentazione nella fase di prequalifica - In presenza di clausole del bando che prevedano una semplice autodichiarazione - Non sussiste.
3. Contratti della P.A. - Appalto - Gara - Avvalimento - Contratto - Libertà di forme - Sussiste - Ammissibilità di qualunque mezzo di prova idoneo.

1. La fase di prequalifica è finalizzata alla valutazione in merito alla sussistenza o meno dei requisiti tecnici e morali di accesso alla procedura e a far conoscere all'Amministrazione la disponibilità del mercato, per cui il criterio interpretativo delle indicazioni di gara deve essere indirizzato a favorire la più ampia partecipazione alla gara.
2. Non è richiesta, nella fase di prequalifica, la documentazione dei requisiti da parte delle imprese concorrenti, qualora il bando preveda una semplice dichiarazione del loro possesso. (Fattispecie in tema di dichiarazione di avvalimento ex art. 49, comma 2, lett. g), D.Lgs. n. 163/2006) (cfr., Cons. Stato, Sez. IV, ord. 22.07.2008, n. 3886).
3. L'ordinamento non prevede uno schema o un tipo specifico di contratto di avvalimento tra imprese. Questo, perciò, conformemente alla lettera f), del comma 2, dell'art. 49, D.Lgs. n. 163/2006 rientra tra gli atti da presentare a cura dell'impresa concorrente ad una gara pubblica d'appalto, e può rivestire qualunque forma -anche non documentale- ed essere provato in qualunque modo idoneo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.09.2011 n. 2217 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIContratti della P.A. - Appalto di servizi - Bando - Clausola attributiva dello ius variandi alla stazione appaltante - Legittima - Condizioni - Esigenze sopravvenute.
Si deve ritenere legittima, anche negli appalti di servizi, l'apposizione di una clausola del disciplinare che permetta alla stazione appaltante di modificare l'oggetto del contratto, purché non ne venga alterata in modo assoluto la natura.
Nel contempo, per assicurare sul piano del diritto comunitario che la variazione non divenga uno strumento di elusione della libertà di concorrenza affidato all'esclusiva discrezionalità del soggetto pubblico è necessario che lo ius variandi sia impiegato per far fronte ad esigenze sopravvenute alla predisposizione del regolamento di gara (cfr., TAR Lombardia Milano, Sez. I, 14.09.2011, n. 2215) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.09.2011 n. 2214 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIContratti della P.A. - Appalto - Ius variandi della stazione appaltante - Sussiste - Limitazioni.
Sulla base di un bilanciamento degli interessi in gioco deve ritenersi che:
a) alla stazione appaltante pubblica spetta lo ius variandi, purché esso sia contenuto, sulla base della legge o comunque del regolamento di gara, entro limiti quantitativi non manifestamente sproporzionati e perciò stesso contrari al diritto dell'Unione;
b) non si può escludere che, per valutare l'identità tra oggetto della gara e oggetto del contratto, a seguito di variazioni, si debba tener conto anche delle varianti in diminuzione, che a propria volta, per quanto non onerose economicamente, possano mutare il volto reale dell'affidamento alla luce del diritto dell'Unione;
c) la variazione, in conformità al diritto comune, si apprezza sul piano quantitativo, con riguardo agli effetti che essa produce sul corrispettivo pattuito;
d) in ogni caso, non sono ammesse varianti qualitative, pur contenute nei limiti di cui sopra, se si prova che esse stravolgano la natura dell'opera (cfr. art. 1661, comma 2, c.c.), ovvero operino su requisiti contrattuali introdotti nel regolamento di gara dalla stazione appaltante allo scopo di circoscrivere illegittimamente la platea dei concorrenti, e con l'animo di rinunciarvi successivamente;
e) le circostanze che giustificano lo ius variandi debbono manifestarsi successivamente alla predisposizione del regolamento di gara (cfr., TAR Lombardia Milano, Sez. I, 14.09.2011, n. 2215; TAR Lombardia Milano, Sez. I, 14.09.2011, n. 2214) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.09.2011 n. 2213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 13.02.2012

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NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Guida per l'installazione degli impianti fotovoltaici - Edizione anno 2012 (Ministero dell'Interno, nota 07.02.2012 n. 1324 di prot.).
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Dai VV.F. la guida per l'installazione degli impianti fotovoltaici.
Gli impianti fotovoltaici non rientrano fra le attività soggette ai controlli di prevenzione incendi.
Tuttavia, l'installazione di un impianto fotovoltaico, a seconda dei casi, potrebbe comportare un aggravio del preesistente livello di rischio di incendio dell'attività.
L’installazione di un impianto fotovoltaico a servizio di un’attività soggetta ai controlli di prevenzione incendi richiede gli adempimenti previsti dal nuovo regolamento antincendio (D.P.R. 151/2011).
I Vigili del Fuoco hanno pubblicato, con Lettera Circolare 1324/2012, la nuova guida per l’installazione degli impianti fotovoltaici nelle attività soggette ai controlli di prevenzione incendi.
La guida, redatta da un gruppo di lavoro costituito da esperti del settore elettrico ed approvata dal C.C.T.S., recepisce i contenuti del D.P.R. 151/2011 e tiene conto delle varie problematiche emerse in sede periferica a seguito delle installazioni di impianti fotovoltaici.
Questa guida sostituisce quella emanata con nota prot. n. 5158 del 26.03.2010. La guida è così strutturata:
● Premessa
● Campo di applicazione
● Requisiti tecnici
● Documentazione
● Verifiche
● Segnaletica di sicurezza
● Salvaguardia operatori VV.F
● Impianti esistenti (commento tratto da www.acca.it).

CORTE DEI CONTI

SEGRETARI COMUNALI: Per i segretari-direttori un taglio basta e avanza. Sezioni riunite: niente decurtazione per l'indennità da dg.
Ai segretari comunali cui siano state conferite le funzioni di direttore generale non si applica il taglio della retribuzione del 10% prevista dall'articolo 6, comma 3, del dl 78/2010, per tutti coloro che rivestano incarichi pubblici.

Lo chiarisce definitivamente la Corte dei conti, sezioni riunite, con la deliberazione 03.02.2012 n. 5.
Dunque, per i segretari-direttori generali (figura che progressivamente si restringe ai soli comuni con oltre 100.000 abitanti e alle province) è operante solo un taglio stipendiale. Si tratta di quello del 5% sulla retribuzione eccedente i 90.000 euro, o del 10% sulla retribuzione superiore ai 150.000 euro, previsto dall'articolo 9, comma 2, sempre del dl 78/2010.
Alla limatura stipendiale dell'articolo 9, comma 2, del decreto, pertanto, non è legittimo si aggiunga anche quella prevista dall'articolo 6, comma 3.
Le sezioni riunite spiegano molto chiaramente le motivazioni del loro parere. A ben vedere, al segretario comunale incaricato delle funzioni di direttore generale spetta, secondo quanto prevede la contrattazione collettiva, un'eventuale compenso, che si aggiunge alle retribuzioni di posizione e risultato connesse alle funzioni di segretario.
Le sezioni riunite non hanno dubbio alcuno nell'affermare che l'indennità connessa all'incarico di direzione generale altro non è se non un corrispettivo avente natura retributiva, sebbene di portata ampiamente variabile, come in precedenza sancito dalle sezioni riunite in sede giurisdizionale, sentenza n. 2/2009/QM.
Di conseguenza, la remunerazione per le funzioni di direttore generale non ha nulla a che vedere con i compensi per i titolari «di incarichi qualsiasi tipo» di cui si occupa l'articolo 6, comma 3, del dl 78/2010. Tale ultima norma, infatti, si riferisce ad incarichi non connessi a prestazioni di lavoro subordinato e, dunque, non remunerati con compensi aventi natura retributiva.
Come è noto, in precedenza la sezione regionale di controllo della Lombardia col parere 27.05.2011, n. 315 in merito all'applicabilità dell'articolo 6, comma 3, ai segretari comunali e direttori generali aveva espresso un avviso diametralmente opposto, a termini del quale l'espressione «incarichi di qualsiasi tipo» si dovesse riferire ad ogni genere di incarico, sebbene rientrante nelle prestazioni lavorative subordinate, regolate da contratti di lavoro. Sicché al contributo di solidarietà disciplinato dall'articolo 9, comma 2, si sarebbe aggiunto anche il taglio del 10%.
La sezione Lombardia aveva successivamente rivisto in senso diametralmente opposto la propria posizione, col parere 28.09.2011, n. 495. Ma, nel frattempo, altre sezioni regionali avevano abbracciato la visione restrittiva inizialmente proposta. Con la conseguenza che molte amministrazioni locali hanno applicato il duplice taglio ai segretari-direttori generali o hanno congelato quota parte delle loro retribuzioni.
Col parere delle sezioni riunite ogni equivoco o dubbio deve ritenersi risolto. Compreso il dubbio se l'articolo 6, comma 3, possa applicarsi ai dirigenti o titolari di posizioni organizzative, soggetti ai quali spetta una retribuzione di posizione connessa ad un incarico.
È evidente che a maggior ragione per questi soggetti il taglio del 10% non è operante, dovendosi applicare solo l'articolo 9, comma 2, del d.l. 78/2010 (articolo ItaliaOggi del 10.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Partecipate, non si torna indietro. Gli enti non possono reinternalizzare i servizi e assumere. Per la Corte dei conti non è possibile immettere nei ruoli comunali il personale delle società.
Gli enti locali non possono reinternalizzare servizi affidati in precedenza a società partecipate e conseguentemente assumere il personale dei tali società e in deroga ai limiti di spesa per il personale previsti dalle norme.
Le deliberazioni 02.02.2012 n. 3 e 03.02.2012 n. 4 della Corte dei conti, sezioni riunite chiudono la porta alla possibilità che comuni e province, una volta scelto di rinunciare a gestire i servizi mediante partecipate, possano immettere nei loro ruoli il personale da queste, nel frattempo assunto.
Le sezioni riunite sottolineano come, in questi ultimi anni, le disposizioni normative abbiano creato una linea di vero e proprio disfavore dell'ordinamento verso l'affidamento dei servizi locali a società partecipate. Non solo perché risulta più complesso il sistema per giungere alle esternalizzazioni, ma, in particolare, perché per gli enti con popolazione inferiore ai 30.000 abitanti è espressamente previsto l'obbligo di sciogliere le società da essi create. In più, le più recenti disposizioni introdotte dalla legge 111/2011 hanno segnato ormai la necessità di comprendere la spesa del personale delle partecipate entro quella dell'ente dominus e di estendere alle società le regole per il patto di stabilità.
Nei fatti, viene a mancare nei soggetti privati costituiti dagli enti locali per gestire servizi pubblici economici o anche solo per demandare loro lo svolgimento di attività di supporto, il requisito della maggiore flessibilità ed agilità nella gestione, dipendente dall'applicazione delle più semplici regole gestionale proprie del diritto privato. La contabilità delle società è destinata ad essere sempre più influenzata dalle regole pubblicistiche, mentre per assumere ed acquisire appalti ormai debbono sostanzialmente applicare le medesime regole pubbliche proprie delle amministrazioni.
Non è, allora, un caso, che molti enti stiano pensando di riportare al proprio interno la gestione diretta di servizi prima esternalizzati. Ma, le norme vigenti che pongono tetti alle spese di personale, come l'obbligo di riduzione annuale del tetto complessivo, il vincolo a rispettare un rapporto tra spese di personale e spese correnti non superiore al 50% e il tetto alle assunzioni pari al 20% del costo delle cessazioni, impediscono che alla reinternalizzazione corrisponda il trasferimento all'ente locale di personale assunto direttamente dalla società affidataria di servizi.
Le ragioni di salvaguardia della finanza pubblica, comunque, non sono le uniche ad impedire l'immissione del personale delle società nei ruoli pubblici, secondo le sezioni riunite. La delibera 4/2012 evidenzia l'impossibilità di derogare al principio costituzionale del pubblico concorso, cosa che avverrebbe se si ammettesse l'assunzione diretta del personale assunto dalle società disciolte, specie se selezionato con procedure poco compatibili con i concorsi.
Né per effetto della reinternalizzazione dei servizi possono operare le disposizioni dell'articolo 31 del dlgs 165/2001 e dell'articolo 2112 del codice civile, i quali ammettono il passaggio diretto dei dipendenti nel caso di cessione di ramo d'azienda solo se l'ente pubblico esternalizza, non nel caso inverso.
Le sezioni riunite non si mostrano, invece, contrarie alla riassunzione del personale a suo tempo già in servizio presso l'ente e trasferito alla società all'epoca dell' esternalizzazione. Infatti, si tratta di personale essendo transitato dai ruoli dell'ente locale, si presume sia stato mediante concorso.
Tale posizione non appare, però, del tutto condivisibile e coerente. Infatti, gli enti che avessero, come dovuto, ridotto le dotazioni organiche e i fondi per la contrattazione in conseguenza delle esternalizzazioni vedrebbero aumentata la spesa di personale oltre i limiti e vincoli previsti dalla legge. In secondo luogo, se il trasferimento al momento dell'esternalizzazione fosse stato effettuato in modo corretto, il rapporto di lavoro pubblico si sarebbe risolto e i dipendenti sarebbero dovuti transitare verso una regolazione del rapporto di lavoro totalmente privatistica, tale da impedire radicalmente una reintegrazione nell'ente di appartenenza. Si tratta, a quel punto, di lavoratori privati, soggetti alla disciplina ed alle tutele (mobilità, cassa integrazione, disoccupazione) applicabile alle aziende private.
In ogni caso, le sezioni riunite non nascondono la difficoltà rilevantissima che incontrano gli enti locali intenzionati a reinternalizzare le funzioni. Anche laddove si riuscisse, infatti, a dimostrare una maggiore economicità della gestione diretta, i rischi evidenti della crescita della spesa di personale finiscono, in assenza di una legislazione più chiara, per sconsigliare le reinternalizzazioni. E ciò tenendo conto, si deve aggiungere, dell'impatto occupazionale conseguente da tali decisioni (articolo ItaliaOggi del 10.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Pa, via alla cura anti-ritardi. Commissari e sanzioni ai funzionari se la procedura è troppo lenta. Semplificazioni. Le prime regole operative dopo la pubblicazione in «Gazzetta» (Dl 5/2012).
La cura «anti-ritardi» per la burocrazia, lo snellimento delle pratiche con la nuova spinta alla Scia e le novità su documenti e assunzioni partono ufficialmente oggi. Con l'entrata in vigore del decreto sulle semplificazioni varato in via definitiva venerdì scorso dal consiglio dei ministri e pubblicato ieri in «Gazzetta Ufficiale» (è il Dl 5/2012) dopo l'esame puntuale del Quirinale e la firma del capo dello Stato, partono davvero i primi ingredienti della ricetta che, insieme al decreto liberalizzazioni che ora impegna il Parlamento, dovrebbe aiutare la ripresa del nostro Pil oggi in sofferenza.
Un gruppo consistente di norme ha bisogno di decreti e altri provvedimenti attuativi, per disciplinare per esempio il cambio di residenza in tempo reale o l'unificazione delle autorizzazioni ambientali, ma molte regole partono subito, senza bisogno di passaggi ulteriori.
Tra queste, una posizione di spicco va senza dubbio assegnata alla cura «anti-ritardi», che anche per il suo valore "strategico" occupa il primo articolo del decreto pubblicato ieri. Le procedure portate a termine oltre i tempi previsti da leggi o regolamenti, o quelle che addirittura sprofondano nelle sabbie mobili fino a produrre un silenzio-inadempimento, incontrano con il nuovo decreto una doppia penalità. La prima è organizzativa, e porta alla possibile diffusione di una serie di "commissariamenti" in cui i vertici delle amministrazioni sostituiscono i dirigenti e i funzionari che guidano le strutture ritardatarie.
I «sostituiti» si vedono macchiata la pagella che riporta i dati sulle loro performance, sulla cui base viene distribuita la retribuzione di risultato, e possono andare incontro alla responsabilità amministrativa e a quella amministrativo-contabile. La sanzione, insomma, punta dritta sul portafoglio dei dirigenti o funzionari responsabili, con conseguenze potenziali ancora più pesanti quando l'inerzia dell'amministrazione produce un ricorso in via amministrativa (nella nuova disciplina la tutela contro i silenzi della Pa è disciplinata dal Codice del diritto amministrativo scritto nel Dlgs 104/2010): se il ricorso ha successo, la sentenza passata in giudicato viene girata in automatico alla Corte dei conti, che può quindi procedere per i profili di competenza (danno erariale causato da dolo o colpa grave).
Un'ultima sanzione è d'immagine, e costringe l'ufficio ritardatario a rilasciare i documenti con l'indicazione dei tempi previsti dalla legge e di quelli, più lunghi, utilizzati in concreto per portare a dama il provvedimento. Sempre sul fronte della burocrazia, cambiano le scadenze dei documenti, che vanno a coincidere con il compleanno del titolare, e viene portata a dieci anni la validità delle tessere di riconoscimento (con fotografia) rilasciate dalle Pubbliche amministrazioni.
L'entrata in vigore del decreto porta con sé anche la riforma dei controlli, che amplia gli spazi per il revisore unico sia nelle Srl sia nelle Spa a scapito dei collegi (gli attuali, però, rimangono in carica fino alla scadenza). Nelle università, cadute le previsioni sul riordino del Cun e sui limiti alla partecipazione dei professori alle commissioni di reclutamento, l'entrata in vigore del provvedimento porta con sé come primi effetti lo stop alla possibilità di affidare attività di tutoraggio o didattica integrativa ai ricercatori a tempo indeterminato. Novità anche in campo assunzioni: la notizia-clou sul punto è la proroga di un anno del bonus Sud, che attende però l'accordo con le Regioni per la ripartizione dei fondi (articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri senza paura. Non automatica l'incompatibilità da litispendenza. La deroga si impone se l'amministratore ha agito nell'interesse pubblico.
Alcuni consiglieri comunali hanno presentato ricorso al Tar avverso una delibera di variazione del prg, successivamente revocata per motivi di opportunità; a seguito della revoca il comune ha presentato controricorso, per danni patrimoniali e all'immagine derivanti dalla vicenda, avverso gli stessi consiglieri che ne hanno eccepito l'inammissibilità.
Sussiste, nei confronti di tali consiglieri, una situazione di litispendenza, ascrivibile tra le cause di incompatibilità ai sensi dell'art. 63, comma 1, punto 4 del Tuel?

In merito al caso di specie, la Cassazione civ. (sez. I, sent. n. 12014 del 26.11.1998) ha affermato che la pendenza della lite va ravvisata tanto nell'ipotesi in cui l'eletto assume la veste di attore, quanto in quella in cui sia l'ente locale a promuovere la lite. Da ciò consegue che la rimozione della causa d'incompatibilità può avvenire, nel primo caso, per opera dell'«eletto», mentre nel secondo caso comporta l'iniziativa dell'ente che potrà, eventualmente, essere provocata dall'eletto attraverso gli stessi mezzi che sono a disposizione di qualsiasi convenuto (ad esempio mediante transazione) e si esprimerà attraverso i tipici atti estintivi del giudizio o dell'azione.
Secondo l'attuale orientamento giurisprudenziale è stato ritenuto che ad integrare gli estremi della causa di incompatibilità di cui al comma 1, n. 4) del citato articolo 63 del decreto legislativo 267/2000, «non basta la pura e semplice contestazione dell'esistenza di un procedimento civile o amministrativo nel quale risultino coinvolti, attivamente o passivamente, l'eletto o l'ente, ma occorre che a tale dato formale corrisponda una concreta contrapposizione di parti, ossia una reale situazione di conflitto: solo in tal caso sussiste l'esigenza di evitare che il conflitto di interessi nella lite medesima possa orientare le scelte dell'eletto in pregiudizio dell'ente amministrativo, o comunque possa ingenerare all'esterno sospetti al riguardo» (cfr. Cass. civ., sez. I, 28.07.2001, n. 10335).
È stato, inoltre, affermato (cfr. Cass., sez. I, 19.05.2001, n. 6880) che «l'accertamento ulteriore che questa giurisprudenza prescrive non è finalizzato alla ricerca di un conflitto sostanziale, che prescinda dalla esistenza di un processo, bensì alla verifica di segno opposto (pur sempre, comunque, ispirata da un favore verso l'eletto), della corrispondenza della situazione di formale pendenza della lite a un contenzioso effettivo, attraverso la valutazione di quegli elementi, di palmare evidenza, che potrebbero evidenziare che la vertenza si è sostanzialmente esaurita (per l'intervenuta transazione, rinunzia) ovvero che è assolutamente pretestuosa (per essere stato investito, ad esempio, un giudice privo di giurisdizione nel caso in esame (cfr. n. 4533, n. 4724/1999; n. 9789/2000)».
Quanto alle disposizioni di cui all'art. 63, comma 3, del Tuel, si richiama l'orientamento della Cassazione (cfr. Cass. civ., sez., I, 16.08.2005, n. 16956), secondo cui tale ipotesi costituisce una deroga «della quale è evidente la ratio, consistente nell'intento di escludere fra le cause di incompatibilità quelle controversie insorte per il perseguimento degli interessi generali e non già per fini personali dell'amministratore». In sintonia con la sua «ratio» la norma, infatti, va letta tenendo presente che la deroga, volta a salvaguardare il libero esercizio delle funzioni dal timore di incorrere in situazioni di incompatibilità, magari artatamente predisposte nell'ambito della lotta politica, deve ritenersi sussistere tutte le volte che l'amministratore abbia agito nell'interesse pubblico.
Per completezza si chiarisce anche che la rinuncia al ricorso, nel processo amministrativo, non necessita dell'accettazione della controparte (Cons. stato, sez. V, 27/01/2006, n. 250), ma non può essere sottoposta a condizioni (Cons. stato sez. VI, 19/12/1986, n. 914) e, una volta espressa e portata a conoscenza delle controparti nelle forme di rito, depositata nella segreteria del giudice, non può essere revocata (Cons. stato, sez. VI, 23/09/2002, n. 4805).
Ciò premesso, in conformità al principio generale per cui ogni organo collegiale delibera sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, la verifica delle cause ostative all'espletamento del mandato è compiuta con la procedura consiliare prevista dall'art. 69 del dlgs n. 267/2000 che garantisce il contraddittorio tra organo e amministratore, assicurando a quest'ultimo l'esercizio del diritto di difesa e salva la possibilità di contestare per vie giudiziali la causa di incompatibilità riscontrata (articolo ItaliaOggi del 10.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - VARICertificati ancora obbligatori per i cittadini extracomunitari.
I cittadini stranieri che si rivolgono alla questura per avviare una pratica inerente alla loro condizione amministrativa non possono utilizzare le dichiarazioni sostitutive di certificazioni e di atti di notorietà. In questo caso infatti serviranno ancora i classici certificati per attestare i precedenti penali, l'idoneità abitativa e tutti gli altri stati del soggetto richiamati dalla normativa in materia di immigrazione.
Lo ha chiarito il ministero dell'interno con la circolare 24.01.2012.
La legge di stabilità 2012, n. 183/2011, in vigore dal 1° gennaio scorso, ha disposto che nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione «i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni sostitutive di certificazione e dalle dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà». Ma esistono delle eccezioni espresse alla regola. Se n'è accorto il Viminale con la nota di fine gennaio.
L'art. 15 della legge 183/2011, specifica la nota centrale, ha modificato in alcune parti il decreto del presidente della repubblica 28.12.2000, n. 445, ma non ha cambiato i punti focali dedicati agli extracomunitari. Appare opportuno evidenziare, specifica infatti la circolare, «che la legge in analisi, pur avendo inciso in modo evidente sul testo degli articoli 40 e 43 del citato dpr n. 445/2000, non è intervenuta sulla previsione contenuta nel precedente articolo 3 ove sono chiaramente individuati i soggetti cui il T.U. in materia di documentazione amministrativa si applica».
In buona sostanza questo articolo evidenzia che per gli extracomunitari l'accesso alla semplificazione prevista non è scontata. Gli stranieri possono utilizzare le dichiarazioni sostitutive limitatamente agli stati, alle qualità personali e ai fatti certificabili o attestabili da parte dei soggetti pubblici italiani. Ma con espressa esenzione delle disposizioni contenute nelle legge e nei regolamenti concernenti la disciplina dello straniero. A parere del ministero dell'interno nei procedimenti amministrativi inerenti la condizione degli stranieri non potranno essere accettate dalle questure le dichiarazioni sostitutive di certificazione ma solo i tradizionali certificati. Quindi nessuna semplificazione per l'attestazione dei dati derivanti dal casellario giudiziale e sul certificato delle iscrizioni relative ai procedimenti penali in corso.
Esclusi dall'autocertificazione anche le attestazioni sulla conformità igienico sanitaria e sull'idoneità degli immobili, la certificazione attestante l'iscrizione nelle liste o nell'elenco anagrafico finalizzato al collocamento del lavoratore licenziato, dimesso o invalido per il rilascio del permesso di soggiorno (articolo ItaliaOggi del 10.02.2012).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAL’Amministrazione comunale è certamente chiamata allo svolgimento di un’attività istruttoria per accertare la sussistenza del titolo legittimante, anche se all’Ente pubblico spetta soltanto la verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a costituire la posizione legittimante, senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità dell’immobile, allegato da chi presenta istanza edilizia.
La disposizione dell’art. 11 dpr 380/2001 è interpretata dalla giurisprudenza amministrativa nel senso che l’Amministrazione comunale è certamente chiamata allo svolgimento di un’attività istruttoria per accertare la sussistenza del titolo legittimante, anche se all’Ente pubblico spetta soltanto la verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a costituire la posizione legittimante, senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità dell’immobile, allegato da chi presenta istanza edilizia (cfr. sul punto, Consiglio di Stato, sez. IV, 08.06.2011, n. 3508; TAR Campania, Napoli, sez. II, 06.12.2010, n. 26817 e TAR Lombardia, Milano, sez. II, 31.03.2010, n. 842, con la giurisprudenza ivi richiamata) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.02.2012 n. 496 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' richiesta per un'istanza di condono edilizio, ai fini della configurabilità di un titolo edilizio tacito, la presentazione, da parte dell’autore dell’abuso, di tutta la documentazione prevista dalla legge (in particolare, quella di cui al comma 37° dell’art. 32 del citato decreto legge), oltre che il pagamento integrale delle somme dovute a titolo di oblazione e di contributo di concessione.
Se non si forma il silenzio-assenso sulla domanda di condono presentata legittimamente il Comune determina la misura degli oneri concessori e del contributo al momento del rilascio del titolo in sanatoria.

Sulla formazione del silenzio assenso sulla domanda di condono edilizio, ai sensi del DL 269/2003 e della LR 31/2004, la giurisprudenza di questa Sezione è pacifica nel senso di richiedere, ai fini della configurabilità di un titolo edilizio tacito, la presentazione, da parte dell’autore dell’abuso, di tutta la documentazione prevista dalla legge (in particolare, quella di cui al comma 37° dell’art. 32 del citato decreto legge), oltre che il pagamento integrale delle somme dovute a titolo di oblazione e di contributo di concessione (sul punto, si vedano le sentenze della II Sezione di questo TAR, numero 7219/2010, 7388/2010, 7390/2010, 6955/2010, 473/2011 e soprattutto n. 263/2011 e n. 2280 del 23.09.2011, costituenti precedenti specifici che qui si richiamano).
Ciò premesso, nel caso di specie il Comune ha escluso la formazione del silenzio-assenso, non avendo la ricorrente, entro il termine del 31.10.2005 (termine previsto dal citato comma 37° dell’art. 32 del DL 269/2003), provveduto al deposito della documentazione attinente all’ICI ed alla tassa sui rifiuti solidi urbani (cfr. doc. 6 del resistente, dal quale risulta l’omessa trasmissione dei documenti suindicati).
A nulla rileva la circostanza che tale documentazione sarebbe già stata depositata presso gli uffici comunali, in quanto il citato comma 37° dell’art. 32 impone espressamente che la domanda di condono sia corredata dei documenti ICI e TARSU; si tratta di una norma speciale, attinente ad un procedimento di condono di carattere eccezionale, da osservarsi a pena di impossibilità di formazione del silenzio assenso.
D’altronde, l’esponente ha depositato prima del 31.10.2005 parte della documentazione necessaria (in particolare la scheda catastale, cfr. doc. 2 del resistente), sicché non si comprende perché analogo deposito non sia stato effettuato anche per i documenti relativi ad ICI e TARSU.
Si rileva ancora, sempre in ordine alla questione del silenzio-assenso, che entro il termine del 31.10.2005 neppure sono state interamente versate le somme dovute a titolo di oneri concessori, ma soltanto quelle da corrispondersi a titolo di oblazione (cfr. ancora il doc. 6 del resistente ed il doc. 30 della ricorrente, dal quale si rileva che soltanto in data 15.12.2011 è stata versata la seconda rata – di euro 8.811,60 – dell’anticipazione degli oneri concessori, liquidata in complessivi euro 17.623,20 nella domanda di condono, cfr. doc. 1 del resistente).
Non essendosi formato –di conseguenza- silenzio-assenso sulla domanda di condono di cui è causa, legittimamente il Comune ha determinato la misura degli oneri concessori e del contributo al momento del rilascio del titolo in sanatoria, conformemente alla giurisprudenza di questo Tribunale (cfr., fra le tante, TAR Lombardia, sez. II, 7221/2010, costituente precedente specifico al quale è fatto in questa sede espresso richiamo ai sensi dell’art. 74 del D.Lgs. 104/2010).
Non può ritenersi neppure prescritto il diritto al conguaglio da parte del Comune, in quanto la disposizione dell’art. 32, comma 36°, del DL 269/2003, invocata dall’esponente, attiene all’oblazione e non alle somme dovute a titolo di oneri concessori (cfr. TRGA Trentino Alto-Adige, 09.12.2010, n. 234) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.02.2012 n. 491 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOE' legittimo il recupero delle somme indebitamente erogate non tenendo conto della buona fede del percipiente, considerando il recupero come un atto dovuto non rinunziabile espressione di una funzione pubblica vincolata.
La buona fede rileva invece, ai sensi dell'art. 2033 ultimo periodo Cod. Civ., riguardo agli interessi sulle somme erogate. Detta disposizione infatti, nei casi di indebito oggettivo in cui la percezione delle somme sia avvenuta con affidamento e buona fede, prevede il calcolo dell'accessorio al credito principale dalla data della domanda di restituzione dell'indebito.

Al riguardo va richiamato il prevalente orientamento giurisprudenziale (già condiviso anche da questo Tribunale) che ritiene comunque legittimo il recupero delle somme indebitamente erogate non tenendo conto della buona fede del percipiente, considerando il recupero come un atto dovuto non rinunziabile espressione di una funzione pubblica vincolata (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.05.2007 n. 2651; id. 12.05.2006 n. 2679; 22.09.2005 nn. 4964 e 4983; TAR Campania Napoli, Sez. V, 07.04.2011 n. 1986; TAR Toscana, Sez. I, 08.11.2004 n. 5465; TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 12.08.2003, n. 1272; TAR Marche, 18.04.1997 n. 246; TAR Lazio, Latina, 11.02.1993 n. 143).
La buona fede rileva invece, ai sensi dell'art. 2033 ultimo periodo Cod. Civ., riguardo agli interessi sulle somme erogate. Detta disposizione infatti, nei casi di indebito oggettivo in cui la percezione delle somme sia avvenuta con affidamento e buona fede, prevede il calcolo dell'accessorio al credito principale dalla data della domanda di restituzione dell'indebito (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 24.11.2010 n. 8215) (TAR Marche, sentenza 10.02.2012 n. 122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' illegittima la composizione in numero pari della Commissione aggiudicatrice se il Bando di gara non prevede nulla per evitare lo stallo valutativo.
L’art. 84 del nuovo codice dei controlli pubblici approvato con il D. L.vo n. 163 del 2006, in recepimento delle direttive comunitarie, ha disciplinato in modo uniforme la composizione della Commissione di gara per ogni procedura ad evidenza pubblica.
Il Collegio, sulla scorta di una giurisprudenza amministrativa da cui non ha motivo di discostarsi rileva, nel caso in esame, l’illegittima composizione della Commissione di gara i cui membri risultano in numero pari (quattro), mentre le Commissioni stesse debbono necessariamente essere composte di un numero dispari onde assicurare la funzionalità del principio maggioritario per la formazione del quorum strutturale ai fini del calcolo della maggioranza assoluta dei componenti (cfr. Cons. Stato, Sez.V – 06.04.2009 n. 2143 – Sez. VI – 22.10.2007 n. 5502).
Al suddetto requisito non risponde la Commissione giudicatrice di cui trattasi, composta da quattro membri e dal segretario verbalizzante, che, in quanto tale, era privo del diritto di voto. Per completezza di indagine, premesso che tale principio non appare assoluto, nel senso che possono prevedersi dei correttivi, in caso di parità delle votazioni, come quello della prevalenza del voto del presidente, va osservato che nel caso di specie il bando nulla prevedeva, determinando in questo modo quella possibilità di stallo valutativo che il principio del numero dispari dei componenti della commissione aggiudicatrice tende ad evitare (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 09.02.2012 n. 1321 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPrescrizione quinquennale per il recupero da parte della P.A. degli importi indebitamente erogati al dipendente a titolo di trattamento retributivo.
Per pacifica giurisprudenza non vi è obbligo di specifica motivazione per il recupero di emolumenti non dovuti. Inoltre vi è rilevanza della buona fede dei percettori soltanto ai fini della modalità di esecuzione del recupero delle somme indebitamente percepite ed il recupero non deve essere preceduto dall'avviso dell'inizio di procedimento, trattandosi di atto vincolato (v. da ultimo Tar Campania, Napoli, 25.07.2011, n. 3987).
Ad avviso del giudice peraltro l’eccezione di prescrizione quinquennale formulata dal dipendente è fondata in quanto ai sensi degli artt. 2948, numero 4), e 2943 del codice civile il diritto dell’Amministrazione a ripetere gli emolumenti non dovuti al ricorrente ma ad esso corrisposti prima del quinquennio anteriore alla comunicazione della richiesta di restituzione si è estinto per prescrizione.
Conseguentemente: - è illegittima la richiesta di questa parte di emolumenti, trattandosi di credito ormai prescritto; - la porzione di questa parte di emolumenti che sia stata già percepita dal ricorrente va ad esso restituita, con gli accessori di legge.
Parimenti fondata è la prospettazione del ricorrente circa la illegittimità della ripetizione di somme lorde anziché nette: l'Amministrazione, nel procedere al recupero di somme indebitamente erogate ai propri dipendenti, deve effettuare il recupero al netto delle ritenute fiscali, previdenziali e assistenziali, giacché è al netto di queste ritenute che gli emolumenti in più sono stati corrisposti, e la ripetizione dell'indebito deve necessariamente riferirsi soltanto alle somme effettivamente percepite in eccesso (confr. C.d.S., Sez. VI, 02.03.2009, n. 1164) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 09.02.2012 n. 1317 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune non può rilasciare una concessione edilizia in sanatoria per una destinazione d'uso diversa da quella richiesta.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha fatto proprio l'orientamento giurisprudenziale consolidato a tenore del quale "Il Comune non può rilasciare una concessione edilizia in sanatoria (condono) per una destinazione d'uso diversa da quella richiesta, a nulla rilevando, ai fini del rilascio o meno della concessione in sanatoria per una determinata destinazione d'uso, la concreta utilizzazione alla quale sia stato adibito l'immobile abusivo prima del condono; ed invero la sanatoria prevista dalla l. 28.02.1985 n. 47, come si desume dall'art. 31 stessa legge, ha carattere generale (salvo i vincoli di inedificabilità di cui all'art. 33) e non può escludersi per una specifica destinazione d'uso (la quale, se in atto insussistente o non conforme alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, incide soltanto sulla misura dell'oblazione da versare), salvo la mancanza di un'oggettiva conformazione strutturale dell'immobile coerente con l'uso per il quale è stata avanzata domanda.“ (Consiglio Stato, Sez. V, 01.10.2001 n. 5190) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.02.2012 n. 683 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordinanza di demolizione non deve essere sorretta da una specifica motivazione circa la sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione, in quanto non può annettersi alcun legittimo affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può "ex se" legittimare, con la conseguenza che, ove sussistano i presupposti per l'adozione del provvedimento di riduzione in pristino, lo stesso costituisce atto dovuto, sufficientemente motivato con l'affermazione della abusività dell'opera.
L'ordine di demolizione, quale sanzione finalizzata a riportare "in pristino" la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in contrasto con l'ordinato assetto del territorio, essendo misura amministrativa ripristinatoria della legalità violata, non può soggiacere al divieto di retroattività della legge. Del resto, l’art. 2 della L. n. 47/1985 dispone che “le disposizioni di cui al capo I della presente legge sostituiscono quelle di cui all'art. 32, L. 17.08.1942, n. 1150, ed agli articoli 15 e 17, L. 28.01.1977, n. 10”, sicché è chiaro l’intento di estenderne l’applicazione anche agli abusi eseguiti nel vigore delle leggi nn. 1150/1942 e 10/1977, senza che ciò trovi ostacolo nel principio di irretroattività della legge, che è inderogabile soltanto in materia di sanzioni penali (art. 25, comma 2, Cost.).
In ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento.

In caso di accertamento di opere abusive, l’adozione dei conseguenti provvedimenti sanzionatori è doverosa per l’amministrazione: l’accertamento negativo della (doppia) conformità delle opere alla normativa urbanistica non si pone dunque come presupposto dell’ingiunzione di demolizione, costituendo oggetto di una specifica istanza del responsabile dell’abuso ex art. 13 L. 47/1985, da presentarsi prima dell’adozione del provvedimento sanzionatorio.
Per costante e sedimentata giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione non deve essere sorretta da una specifica motivazione circa la sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione, in quanto non può annettersi alcun legittimo affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può "ex se" legittimare, con la conseguenza che, ove sussistano i presupposti per l'adozione del provvedimento di riduzione in pristino, lo stesso costituisce atto dovuto, sufficientemente motivato con l'affermazione della abusività dell'opera (così TAR Puglia-Lecce, III, 09.02.2011, n. 240, nello stesso senso già Cons. di St., 19.03.1996, n. 270).
Innanzitutto, i ricorrenti non hanno fornito alcuna prova certa circa la realizzazione dell’abuso in epoca anteriore all’entrata in vigore della L. n. 47/1985 (come visto ut supra, ancora in data 10.03.1983 il piano seminterrato era destinato a cantina).
In ogni caso, si osserva che l'ordine di demolizione, quale sanzione finalizzata a riportare "in pristino" la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in contrasto con l'ordinato assetto del territorio, essendo misura amministrativa ripristinatoria della legalità violata, non può soggiacere al divieto di retroattività della legge (TAR Sicilia, II, 18.01.2003, n. 29).
Del resto, l’art. 2 della L. n. 47/1985 dispone che “le disposizioni di cui al capo I della presente legge sostituiscono quelle di cui all'art. 32, L. 17.08.1942, n. 1150, ed agli articoli 15 e 17, L. 28.01.1977, n. 10”, sicché è chiaro l’intento di estenderne l’applicazione anche agli abusi eseguiti nel vigore delle leggi nn. 1150/1942 e 10/1977, senza che ciò trovi ostacolo nel principio di irretroattività della legge, che è inderogabile soltanto in materia di sanzioni penali (art. 25, comma 2, Cost.).
Per costante giurisprudenza, anche della Sezione, in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento (TAR Liguria, I, 22.4.2011, n. 666) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 09.02.2012 n. 271 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA: La competenza ad adottare l’ordinanza di demolizione –già attribuita al sindaco dall’art. 7 della legge 28.2.1985, n. 47- è stata definitivamente trasferita ai dirigenti a seguito dell’entrata in vigore dell'art. 2, comma 12, l. 18.06.1998, n. 191.
Il ricorso è fondato, sotto l’assorbente profilo, dedotto con il primo motivo di ricorso, concernente l’incompetenza del sindaco a disporre la demolizione.
In effetti, la competenza ad adottare l’ordinanza di demolizione –già attribuita al sindaco dall’art. 7 della legge 28.2.1985, n. 47- è stata definitivamente trasferita ai dirigenti a seguito dell’entrata in vigore dell'art. 2, comma 12, l. 18.06.1998, n. 191 (così TAR Lazio-Latina, I, 05.06.2007, n. 412; id., 24.08.1998, n. 664) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 09.02.2012 n. 264 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sul divieto ex art. 4, c. 33, del D.L. 13.08.2011 n. 138, conv. con L. 14.09.2011, n. 148, di partecipazione alle gare per l'affidamento della gestione dei servizi pubblici locali per le società affidatarie dirette di tali servizi.
L'art. 4, c. 33, del D.L. 13.08.2011 n. 138, conv. con L. 14.09.2011, n. 148, prevede il divieto di partecipazione alle gare per l'affidamento della gestione dei servizi pubblici locali per le società affidatarie dirette di tali servizi. Pertanto, nel caso di specie, è legittimo il provvedimento con cui il comune ha revocato il provvedimento di aggiudicazione provvisoria del servizio di raccolta, trasporto smaltimento e recupero dei rifiuti urbani nei confronti di una ATI, in quanto la società mandante della costituenda A.T.I., svolgeva il servizio di gestione del centro comunale di raccolta rifiuti di un altro ente locale mediante affidamento diretto.
Il servizio di raccolta, trasporto smaltimento e recupero dei rifiuti urbani (sostanzialmente di gestione della piattaforma ecologica di un comune) rientra, infatti, pienamente nel concetto di servizio pubblico. A nulla rileva la circostanza che l'onere di remunerare l'attività svolta dal privato sia assunto direttamente dall'amministrazione, dato che il costo del servizio è comunque finanziato dagli utenti tramite il versamento al comune delle tasse rifiuti urbani, comunque denominate, in quanto rientrante nel ciclo di raccolta dei rifiuti urbani e assimilati.
Del pari irrilevante è la circostanza che il suddetto affidamento sia avvenuto con strumento contrattale privatistico (contratto d'appalto di servizi) piuttosto che con un unilaterale atto amministrativo di concessione. Infatti, in base all'art. 4, c. 33, del D.L. n. 138/2011, è ininfluente il titolo dell'affidamento ("gestiscono di fatto o per disposizione di legge, di atto amministrativo o per contratto servizi pubblici locali ... ""), mentre è rilevante che esso sia avvenuto come affidamento diretto senza alcuna gara (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 09.02.2012 n. 60 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

VARI: Procedimento amministrativo, garanzie estese ai professionisti. La Cassazione interviene su una vertenza tra un geometra e il proprio Collegio.
Estese ai procedimenti disciplinari contro i professionisti tutte le garanzie del procedimento amministrativo. Infatti, è legittima l'impugnazione tardiva della sanzione disciplinare se l'Ordine ha emesso un atto privo del termine entro cui proporre l'opposizione e dell'autorità competente a conoscerla. Si tratta di un «errore scusabile».
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione -Sez. III civile- che, con sentenza 08.02.2012 n. 1766, ha accolto il ricorso di un geometra. La sentenza estende ai professionisti, per la prima volta e a trecentosessanta gradi, le garanzie predisposte sul procedimento amministrativo.
In fondo alle motivazioni si legge infatti che «la totale inosservanza dell'art. 3 della l. n. 241, da parte dell'amministrazione, comporta il riconoscimento della scusabilità dell'errore in cui sia eventualmente incorso il destinatario nella individuazione della Autorità, amministrativa e non giudiziaria, cui rivolgersi per l'impugnazione dello stesso provvedimento, risultando altrimenti leso l'affidamento che il destinatario ripone nel corretto operare dell'amministrazione e la stessa possibilità di tutela giurisdizionale, garantita dall'art. 24 Cost.; conseguentemente, non potendo tale provvedimento essere ritenuto definitivo per omessa impugnazione giurisdizionale nei termini, nell'ipotesi in cui sia stato integrato dalla stessa Autorità con successivo provvedimento che, richiamando per il merito il precedente, lo integri con l'indicazione dei termini e dell'autorità presso cui impugnare, e l'impugnazione giurisdizionale avverso quest'ultimo sia stata tempestivamente proposta, l'impugnazione deve essere esaminata nel merito, considerando il secondo provvedimento integrativo del primo».
La vicenda riguarda un geometra al quale era stata notificata una censura. Il professionista aveva notato che l'atto era privo del termine per proporre l'opposizione e dell'autorità competente. Per questo aveva chiesto e ottenuto l'annullamento della censura. Alla fine della controversia con il Collegio dei geometri la Suprema corte ha dato ragione al professionista (articolo ItaliaOggi del 10.02.2012).

EDILIZIA PRIVATAIl Comune deve esaminare la domanda di condono edilizio presentata dall'originario proprietario dell'immobile abusivo non essendo il nuovo acquirente abilitato a presentare una propria ed ulteriore domanda.
Nel giudizio in esame il ricorrente lamenta l’illegittimità dell’intera procedura che ha condotto all'emanazione del provvedimento di diniego di sanatoria dell'immobili in quanto a suo dire l’Amministrazione si è limitata a esaminare la domanda originaria di condono presentata dal precedente proprietario e non quella del ricorrente medesimo, che ha acquistato il bene all’esito di una procedura esecutiva.
Ad avviso del giudice amministrativo il motivo è infondato, in quanto, qualora la domanda di sanatoria sia stata presentata dall’originario titolare, è su di essa che l’Amministrazione è tenuta a pronunciarsi, mentre l’acquirente del bene non è abilitato a presentare una domanda propria - che si risolverebbe in un’inammissibile duplicazione, ad eccezione dell’ipotesi di cui all’art. 40, ultimo comma, della l. n. 47/1985, nella quale manca appunto la presentazione della domanda originaria da parte del titolare esecutato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 08.02.2012 n. 1264 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Diniego di sanatoria edilizia: Inutile invocare l'anteriorità dell'edificio rispetto al vincolo paesistico.
L'anteriorità dell’edificio rispetto al vincolo secondo la giurisprudenza più autorevole non è dirimente (per tutte, C.d.S. Ad.Plen. 07.06.1999 n. 20), in quanto nessun affidamento può sorgere dall’anteriorità di una situazione di abusivismo edilizio, configurante un illecito permanente, rispetto alla successiva legittima conformazione del territorio per finalità d’interesse pubblico generale, a maggior ragione quando, come nel caso di specie, l’apposizione del vincolo risponde ad una pregressa ed intrinseca caratteristica del bene ambientale tutelato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 08.02.2012 n. 1259 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nei confronti dell'acquirente di un immobile abusivo, non responsabile dell'abuso, che non esegua l'ordine di demolizione, l'Ente Locale non può procedere all'acquisizione dell'area al patrimonio.
Alla stregua di costante indirizzo giurisprudenziale, che fa applicazione dei principi vigenti nelle fattispecie successorie (inter vivos e mortis causa), l’acquirente di un immobile abusivo, o del sedime su cui sia stato realizzato il manufatto, succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo al precedente proprietario e relativi al bene ceduto, compresa l’abusiva trasformazione. Consegue che l’ingiunzione a demolire produce validi effetti nei confronti del proprietario attuale della res immobilis, ancorché l’abuso sia stato commesso prima della traslazione del diritto di proprietà (tra le ultime pronunce: TAR Lombardia, Milano, IV, 09.03.2011 n. 644).
D’altronde occorre distinguere tra l’illecito edilizio commesso, che ha carattere permanente, e l’ordine di demolizione, che invece è una misura ripristinatoria che può essere posta a carico solo di chi è nella materiale disponibilità del bene e prescinde dal dolo e dalla colpa dell’obbligato (TAR Puglia, Bari, III, 28.04.2011 n. 673).
Ma seguendo la medesima logica il giudice ha escluso che in caso di inottemperanza all’ordine il proprietario attuale della res, non colpevole per l’abuso, debba subire l’effetto sostanzialmente sanzionatorio dell’acquisizione al patrimonio comunale dell’area di sedime, essendo sufficiente, in tal caso, l’occupazione temporanea della medesima per l’esercizio del potere-dovere sostitutivo di esecuzione d’ufficio dell’ordine demolitorio da parte degli organi comunali (TAR Puglia, Bari, III, n. 673/2011 cit.; TAR Campania, Napoli, II, 06.05.2011 n. 2581) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 08.02.2012 n. 1246 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nelle zone vincolate la mancanza del parere favorevole della competente autorità impedisce giuridicamente la formazione del silenzio assenso sulla domanda di sanatoria edilizia.
Ad avviso del giudice amministrativo sussiste impossibilità giuridica di formazione di provvedimento tacito di assenso su domande di sanatoria edilizia relative a immobili in aree sottoposte a vincoli, come nell’ermeneutica normativa avallata da consolidato indirizzo giurisprudenziale per l’ipotesi della mancanza di espresso parere favorevole, giacché il rilascio della concessione in sanatoria per abusi in zone vincolate presuppone necessariamente il parere favorevole della competente autorità, laddove l’inerzia o la lentezza dei comuni nel provvedere sulle istanze di condono edilizio non può assicurare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero conseguire in virtù di provvedimento espresso e, in particolare, non può consentire di superare la mancanza dei prescritti pareri favorevoli (tra le tante pronunce: TAR Toscana, III, 27.02.2009 n. 350).
La lettura combinata dell’art. 32, comma primo, e dell’art. 35 della legge 28.2.1985 n. 47 esclude che il mancato rilascio del parere favorevole sulle domande di sanatoria per opere realizzate in aree sottoposte a vincoli determini l’accoglimento tacito delle istanze. L’art. 32, nel testo riformato dalla L. n. 326/2003, al primo comma qualifica come silenzio rifiuto la situazione lesiva generata dall’inerzia dell’autorità competente ad esprimere il parere, al secondo comma indica gli immobili suscettibili di sanatoria insistenti in aree vincolate, tra i quali non rientrano gli immobili siti in zone soggette a tutela ambientale, che dunque debbono essere compresi (terzo comma) tra quelli per cui la sanatoria non è consentita ai sensi dell’art. 33.
L’art. 35, comma 17, inibisce, infine ed espressamente, la formazione di assenso tacito per le domande di sanatoria relative ad immobili per i quali è vietata. Tanto premesso, onde escludere la rilevanza dell’inerzia amministrativa ai fini della sanatoria per gli immobili insistenti in aree soggette a vincoli d’interesse ambientale, come per la fattispecie, il giudice ha proceduto all'esame del contenuto motivazionale del provvedimento negativo di rilascio della sanatorio ritenendolo esente da vizi (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 08.02.2012 n. 1237 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte di pianificazione urbanistica generale, anche in caso di modifica in senso peggiorativo delle prescrizioni esistenti, non necessitano di particolare e specifica motivazione se non nel caso di aspettative qualificate del privato proprietario, aspettative che sono da tempo state individuate e tipizzate dalla giurisprudenza medesima (ad esempio, esistenza di una lottizzazione già approvata, di un giudicato di annullamento di un diniego di titolo edilizio oppure titolarità in capo al privato di un’area non edificata, interclusa però fra fondi ormai completamente edificati).
A parziale temperamento di tale indirizzo giurisprudenziale, non mancano decisioni per le quali, pur non sussistendo le citate aspettative qualificate, è necessaria una pur generica motivazione delle scelte urbanistiche, che possa evincersi dai criteri seguiti per la redazione dello strumento urbanistico.

Come noto, secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa, le scelte di pianificazione urbanistica generale, anche in caso di modifica in senso peggiorativo delle prescrizioni esistenti, non necessitano di particolare e specifica motivazione se non nel caso di aspettative qualificate del privato proprietario, aspettative che sono da tempo state individuate e tipizzate dalla giurisprudenza medesima (ad esempio, esistenza di una lottizzazione già approvata, di un giudicato di annullamento di un diniego di titolo edilizio oppure titolarità in capo al privato di un’area non edificata, interclusa però fra fondi ormai completamente edificati; cfr., fra le tante, Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, 30.08.2011, n. 86; Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, 04.07.2011, n. 473; Consiglio di Stato, sez. IV, 05.08.2005, n. 4166; TAR Piemonte, sez. I, 22.07.2011, n. 804 e TAR Sicilia, Catania, sez. I, 07.07.2011, n. 1682).
Peraltro, a parziale temperamento di tale indirizzo giurisprudenziale, non mancano decisioni per le quali, pur non sussistendo le citate aspettative qualificate, è necessaria una pur generica motivazione delle scelte urbanistiche, che possa evincersi dai criteri seguiti per la redazione dello strumento urbanistico (così, fra le più recenti, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 10.01.2011, n. 18) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 437 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAPregnanti esigenze di certezza delle situazioni giuridiche impongono…che ciascun provvedimento di revisione della pianificazione urbanistica debba ritenersi autonomo rispetto ai precedenti … anche quando non dispone specifiche variazioni di singole particelle rispetto ai precedenti assetti.
Va al riguardo condiviso l’orientamento richiamato dalla difesa della Regione, secondo il quale “Pregnanti esigenze di certezza delle situazioni giuridiche impongono…che ciascun provvedimento di revisione della pianificazione urbanistica debba ritenersi autonomo rispetto ai precedenti … anche quando non dispone specifiche variazioni di singole particelle rispetto ai precedenti assetti.” (cfr. C.d.S., V, n. 5347/2011) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 08.02.2012 n. 213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa ricostruzione di ruderi deve essere considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, non essendo equiparabile alla ristrutturazione edilizia, con la conseguenza che per la sua realizzazione è necessario il permesso di costruzione, non essendo possibile far ricorso alla denuncia di inizio di attività, ai sensi dell'art. 1, comma 6, l. 21.12.2001 n. 443.
... costituisce giurisprudenza consolidata e condivisibile che “la ricostruzione di ruderi deve essere considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, non essendo equiparabile alla ristrutturazione edilizia, con la conseguenza che per la sua realizzazione è necessario il permesso di costruzione, non essendo possibile far ricorso alla denuncia di inizio di attività, ai sensi dell'art. 1, comma 6, l. 21.12.2001 n. 443” (C.d.S., IV, 15.09.2006, n. 5375; conf. C.d.S., V, 10.02.2004, n. 475; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 04.03.2010, n. 1286) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sanzione amministrativa, alternativa alla demolizione, attualmente disciplinata dall’art. 38 del d.P.R. 380/2001 (per cui, in caso di annullamento del permesso di costruire, “qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite”), ha natura ripristinatoria e reale, e può essere perciò irrogata anche nei confronti degli attuali proprietari del bene, pur se questi si trovino in stato di incolpevole buona fede.
... è allora opportuno ricordare anzitutto che la sanzione amministrativa in questione, alternativa alla demolizione, attualmente disciplinata dall’art. 38 del d.P.R. 380/2001 (per cui, in caso di annullamento del permesso di costruire, “qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite”), ha natura ripristinatoria e reale (TAR Liguria Genova, I, 12.03.2009, n. 306), e può essere perciò irrogata anche nei confronti degli attuali proprietari del bene, pur se questi si trovino in stato di incolpevole buona fede (conf., ex multis, TAR Piemonte, I, 09.04.2003, n. 528) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASe normalmente “l'ordine di demolizione di opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera”, una giustificazione specifica può essere tuttavia richiesta “nel caso in cui, per il protrarsi e il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e il protrarsi della inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, ipotesi questa in cui è ravvisabile un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche alla entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Invero, se normalmente “l'ordine di demolizione di opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera”, una giustificazione specifica può essere tuttavia richiesta “nel caso in cui, per il protrarsi e il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e il protrarsi della inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, ipotesi questa in cui è ravvisabile un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche alla entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato” (così, da ultimo, C.d.S. IV, 12.04.2011, n. 2266) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONENella stima dei terreni espropriati ai fini della determinazione dell'indennità, non si può tener conto del vincolo espropriativo, né di vincoli d'inedificabilità previsti da strumenti generali preordinati all'espropriazione, ma deve tenersi conto soltanto dei vincoli previsti da strumenti urbanistici di ordine generale non preordinati all'esproprio, esistenti al momento del verificarsi della vicenda ablativa, nonché delle concrete ed intrinseche caratteristiche dei terreni che incidono sull'edificabilità di fatto degli stessi.
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Per quanto attiene al terreno occupato assoggettato ai limiti propri delle fasce di rispetto stradale, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che il vincolo di inedificabilità ad esso connesso non abbia natura espropriativa, ma unicamente conformativa, in quanto riguarda una generalità di beni e di soggetti ed abbia, quindi, una funzione di salvaguardia della circolazione, indipendentemente dalla eventuale instaurazione di procedure espropriative. Anche in questo caso, quindi, il valore delle aree dovrà essere quantificato prescindendo dalla presenza della fascia di rispetto e considerando, quindi, le stesse come edificabili.
Le aree con “destinazione a impianti sportivi all’interno del perimetro di Piano attuativo residenziale”, infine, non possono nemmeno esse essere sottratte alla qualificazione come edificabili, proprio in ragione della loro inclusione nel perimetro del piano attuativo stesso. Ciononostante, nella determinazione del loro valore di mercato, che, si ribadisce, deve essere effettuata con riferimento al momento attuale (o meglio al momento in cui avverrà l’adozione dell’atto di acquisizione), non si potrà trascurare che lo stesso è sicuramente influenzato dalla circostanza per cui il piano attuativo approvato alcuni mesi dopo l’occupazione risulta aver traslato la potenzialità edificatoria collegata a tale area su altra di proprietà delle odierne ricorrenti.
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Nessun risarcimento è dovuto per l’imposizione di fasce di rispetto stradale. Come chiarito dalla giurisprudenza, da tempo costante, non sono indennizzabili “i vincoli posti a carico di intere categorie di beni (tra questi, i vincoli urbanistici di tipo conformativo, e i vincoli relativi ai beni culturali e paesaggistici). In altri termini, in tema di imposizione di vincoli urbanistici, non vi è il presupposto per un indennizzo quando i modi di godimento e i limiti imposti (direttamente dalla legge ovvero mediante un particolare procedimento amministrativo) riguardino intere categorie di beni secondo caratteristiche loro intrinseche, con carattere di generalità ed in modo obiettivo; in questi casi, le limitazioni delle facoltà del proprietario ricadono nella previsione non del comma terzo, bensì del comma secondo, dell'art. 42, Cost. Pertanto, i limiti non ablatori normalmente posti nei regolamenti urbanistici o nella pianificazione urbanistica e relative norme tecniche, riguardanti altezza, cubatura, superficie coperta, distanze, zone di rispetto, indici di fabbricabilità, limiti e rapporti per zone territoriali omogenee e simili, sono vincoli conformativi, connaturali alla proprietà, e non comportano indennizzo.”

Invero il provvedimento impugnato trova origine nella sentenza del Consiglio di Stato n. 2420 del 2009, nella quale si legge che, non avendo il Comune adottato il provvedimento ex art. 43, esso ha procrastinato nel tempo l’illecito da cui sorge, in capo allo stesso, l’obbligo della restituzione del terreno e del risarcimento del danno medio tempore prodotto, considerato che, contrariamente a quanto affermato nella sentenza di primo grado, il relativo diritto non può più, dopo il superamento della teoria dell’accessione invertita, ritenersi prescritto.
La sentenza ha, quindi, riconosciuto, come possibili strade alternative alla restituzione del bene, l’adozione di tale atto (e la conseguente corresponsione del risarcimento del danno), oppure il raggiungimento di un accordo per definire il trasferimento della proprietà.
Il Consiglio di Stato ha, inoltre, precisato che, in entrambe i casi, l’acquisto della proprietà non avrebbe comunque potuto che essere subordinato alla corresponsione del risarcimento del danno, quantificabile tenuto conto della “destinazione urbanistica delle aree al momento dell’inizio della procedura espropriativa, tenendo conto della sentenza della Corte Costituzionale n. 349 del 2007, che ha dichiarato incostituzionale l’art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333 del 1992”.
Il giudicato così formatosi deve, però, essere coordinato con le conseguenze della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 43 del DPR 327/2001 e il successivo intervento del legislatore mediante l’introduzione dell’art. 42-bis nel medesimo testo unico.
L’avvenuta censura della legittimità del provvedimento ex art. 43 del DPR 327/2001 adottato dal Comune nel caso di specie, infatti, ha impedito il consolidamento degli effetti del provvedimento, con la conseguenza che l’avvenuta dichiarazione di incostituzionalità della norma fondante non può che estendere la sua efficacia caducatoria anche nei confronti del medesimo.
È pur vero che l’art. 42-bis espressamente prevede che: “Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato”, ma, continua ancora la norma in parola, “deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo”.
Ciò vale a dire che il Collegio, annullato il provvedimento impugnato in ragione della dichiarazione di incostituzionalità della norma che ne ha legittimato l’adozione, non può che, ancora una volta, rimettere all’Amministrazione di adottare la soluzione ritenuta maggiormente idonea per addivenire al ripristino della corrispondenza tra situazione di fatto e situazione di diritto (restituendo i terreni o acquisendo la proprietà), non senza precisare che ciò rappresenta un dovere per l’Amministrazione, come recentemente affermato in modo esplicito dalla pronuncia del Consiglio di Stato, che si ritiene pienamente condivisibile, n. 6351 dell'01.12.2011.
In nessun caso, infatti, si può giungere ad una condanna puramente risarcitoria a carico dell’Amministrazione, poiché una tale pronuncia presuppone un avvenuto trasferimento della proprietà del bene o per fatto illecito coincidente con l’irreversibile destinazione ad uso pubblico del terreno di proprietà privata (precluso dal primo protocollo addizionale della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, come si legge nelle sentenze TAR Lazio, Roma, II-quater, 14.04.2011, n. 3260, TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, 01.07.2010, n. 1418) o mediante la stipula di un contratto o l’adozione di un provvedimento traslativo della proprietà (in entrambe i casi attività rimesse all’Amministrazione e che non possono essere sostituite dall’intervento del giudice).
Da qui la necessità di un passaggio intermedio, finalizzato all’acquisto della proprietà del bene da parte dell’ente espropriante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.11.2007, n. 5830; TAR Campania-Napoli, Sez. V, 05.06.2009, n. 3124).
Entro quarantacinque giorni dalla comunicazione della presente sentenza, dunque, il Comune dovrà optare per una delle due soluzioni rappresentate, provvedendo a stipulare un contratto (laddove sia possibile ottenere la disponibilità delle controparti), a notificare l’avviso di avvio del procedimento preordinato all’acquisizione ex art. 42-bis (assegnando alle proprietarie un tempo non inferiore a dieci giorni per la formulazione delle proprie osservazioni, anche con riferimento alla quantificazione del risarcimento del danno offerta in tale occasione) ovvero ad adottare un atto formale attestante la scelta della restituzione del terreno.
Da tutto ciò discende, però, la necessità di procedere anche all’adeguamento dei criteri e dei parametri di cui l’Amministrazione dovrà tenere conto nella quantificazione del risarcimento del danno da offrire alle proprietarie, che dovrà avvenire alla luce delle novità introdotte dal legislatore.
A tale proposito deve essere preliminarmente chiarito, però, che, annullato il decreto ex art. 43 del D.P.R. 327/2001, qualora il Comune dovesse optare per la restituzione dei terreni, lo stesso sarà comunque tenuto a risarcire il danno per l’illegittima occupazione, calcolandone l’ammontare secondo il criterio di cui si darà conto nel prosieguo.
Qualora, invece, si dovesse optare per l’acquisto dei terreni occupati, si rende necessario puntualizzare che l’art. 42-bis del DPR 327/01, in modo del tutto innovativo, ha espressamente previsto che l’acquisto al patrimonio indisponibile dell’ente utilizzatore degli immobili trasformati, ma non espropriati, debba avvenire in modo non retroattivo.
Una tale precisazione (connessa al perseguimento dell’obiettivo di evitare possibili censure di incompatibilità del modo di acquisto della proprietà così disciplinato con i principi che regolano la materia, discendenti dall’art. 42 della Costituzione e dall’art. 1 del primo protocollo allegato alla CEDU) implica che, al contrario di quanto asserito da parte ricorrente, per la quantificazione del risarcimento del danno, il valore di mercato dei terreni occupati debba essere quello rilevabile al momento della traslazione della proprietà, ovvero quello proprio del momento in cui sarà adottato il provvedimento che dispone l’acquisizione ex art. 42-bis citato (in tal senso Cons. Stato, IV, 02.12.2011, n. 6375).
In tal modo viene meno ogni necessità di attualizzare i valori.
Specificato il momento di riferimento, il valore di mercato dovrà, quindi, essere ricercato tenendo conto della destinazione urbanistica delle aree alla data dell’immissione in possesso (rimanendo ininfluenti, come da sempre affermato dalla giurisprudenza, le successive vicende urbanistiche dell’area).
A tale data la destinazione urbanistica delle aree interessate dalla realizzazione dell’opera pubblica è descritta (nella perizia di stima del Comune, ma anche negli atti delle ricorrenti) in parte quale sede stradale (1400 mq), in parte quale fascia di rispetto stradale (555 mq) e per 578 mq quale area a standard urbanistici per attrezzature di interesse collettivo, con specifica destinazione a impianti sportivi all’interno del perimetro di Piano attuativo residenziale.
Il Collegio ritiene, però, che tale descrizione incorra in un errore di fondo, che prende le mosse dalla convinzione che la presenza dei vincoli determini anche la destinazione urbanistica delle aree. Invero solo la “destinazione a impianti sportivi all’interno del perimetro di Piano attuativo residenziale” è una vera e propria destinazione urbanistica. La “retinatura” che individuava la sede stradale aveva, invece, l’effetto di imporre un vincolo preordinato all’esproprio, ma non ha conferito all’area una nuova destinazione urbanistica, tanto più che la viabilità in questione risulta essere strumentale a garantire un’adeguata circolazione a favore di un’area edificabile.
E, peraltro, è principio ormai consolidato in giurisprudenza quello per cui, nella stima dei terreni espropriati ai fini della determinazione dell'indennità, non si può tener conto del vincolo espropriativo, né di vincoli d'inedificabilità previsti da strumenti generali preordinati all'espropriazione, ma deve tenersi conto soltanto dei vincoli previsti da strumenti urbanistici di ordine generale non preordinati all'esproprio, esistenti al momento del verificarsi della vicenda ablativa, nonché delle concrete ed intrinseche caratteristiche dei terreni che incidono sull'edificabilità di fatto degli stessi (cfr., ex multis e tra le più recenti, Cass. 15.01.2000, n. 425; 10.02.1999, n. 1113; 09.02.1999, n. 1090).
Dovendosi prescindere dal vincolo espropriativo ricadente specificamente sui suoli de quibus, quindi, la possibilità legale di edificazione deve essere desunta proprio dalla zona in cui essi erano collocati, per cui, se essa è classificata come edificabile dal P. di F. da assumersi come riferimento nel caso di specie, anche le superfici acquisite per la realizzazione della strada inserita nell’ambito di tale zona debbono essere qualificate come edificabili.
Nel caso in esame, quindi, dovendosi prescindere dal vincolo preordinato all’esproprio discendente dalla previsione urbanistica relativa alla realizzazione della strada (o meglio, del raccordo tra via Dosie e via Marchesi), non può trascurarsi come l’area espropriata confini sui due lati di via Dosie e sul lato in cui quest’ultima via si innesta nella via Marchesi, lungo il confine con questa, con aree a destinazione edificabile. In ragione di ciò e del fatto che il terreno espropriato risulta essere inserito in una zona conformata come edificabile dalla variante del Piano regolatore approvata il 29.02.1984, la destinazione a strada deve essere ritenuta quale vincolo espropriativo, da cui prescindere ai fini della quantificazione del risarcimento del danno (così come di quella che avrebbe dovuto essere l’indennità di espropriazione), dovendosi qualificare il terreno come a vocazione edificatoria (in termini del tutto analoghi si confronti la sentenza della Cassazione n. 434/2002).
Per quanto attiene al terreno occupato assoggettato ai limiti propri delle fasce di rispetto stradale, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che il vincolo di inedificabilità ad esso connesso non abbia natura espropriativa, ma unicamente conformativa, in quanto riguarda una generalità di beni e di soggetti ed abbia, quindi, una funzione di salvaguardia della circolazione, indipendentemente dalla eventuale instaurazione di procedure espropriative (v. TAR Milano, 21.04.2011, n. 1019, TAR Puglia Lecce Sez. I, Sent., 19.10.2011, n. 1798). Anche in questo caso, quindi, il valore delle aree dovrà essere quantificato prescindendo dalla presenza della fascia di rispetto e considerando, quindi, le stesse come edificabili.
Le aree con “destinazione a impianti sportivi all’interno del perimetro di Piano attuativo residenziale”, infine, non possono nemmeno esse essere sottratte alla qualificazione come edificabili, proprio in ragione della loro inclusione nel perimetro del piano attuativo stesso. Ciononostante, nella determinazione del loro valore di mercato, che, si ribadisce, deve essere effettuata con riferimento al momento attuale (o meglio al momento in cui avverrà l’adozione dell’atto di acquisizione), non si potrà trascurare che lo stesso è sicuramente influenzato dalla circostanza per cui il piano attuativo approvato alcuni mesi dopo l’occupazione risulta (e non è stato fornito alcun principio di prova contrario) aver traslato la potenzialità edificatoria collegata a tale area su altra di proprietà delle odierne ricorrenti.
Nella quantificazione del risarcimento del danno, quindi, per la porzione di proprietà occupata allora soggetta a tale destinazione, il Comune dovrà verificare se, al momento dell’occupazione, al terreno fosse collegata una potenzialità edificatoria (per cui, anche se utilizzabile su altro terreno, ciò incideva sul valore incrementandolo) e la realizzazione dell’opera abbia comportato la perdita della volumetria connessa: in tal caso il valore di tale terreno deve essere considerato pari a quello delle aree edificabili. Se, invece, la potenzialità edificatoria risultasse essere stata sfruttata, anche in conseguenza della sua traslazione su altro terreno, allora tale circostanza non può che diminuire il valore di mercato del terreno, fino a parificarlo, sostanzialmente, a quello delle aree agricole.
Lo stesso valore, sostanzialmente pari al prezzo di mercato delle aree agricole, dovrà essere riconosciuto per le fasce vincolate a verde di rispetto, trattandosi in questo caso di un vincolo conformativo della proprietà conseguente alla inclusione delle aree nel Piano attuativo ed in alcun modo connesso (per quanto riguarda l’incidenza sul loro valore) con la realizzazione della strada.
Nessuna contestazione è mossa alla quantificazione dei frutti pendenti, con la conseguenza che rimane fermo l’ammontare del risarcimento fissato dal Comune in misura pari al controvalore in euro di 1.000.000 di Lire.
Nessun risarcimento è dovuto per l’imposizione di fasce di rispetto stradale. Come chiarito dalla, da tempo costante, giurisprudenza, non sono indennizzabili “i vincoli posti a carico di intere categorie di beni (tra questi, i vincoli urbanistici di tipo conformativo, e i vincoli relativi ai beni culturali e paesaggistici). In altri termini, in tema di imposizione di vincoli urbanistici, non vi è il presupposto per un indennizzo quando i modi di godimento e i limiti imposti (direttamente dalla legge ovvero mediante un particolare procedimento amministrativo) riguardino intere categorie di beni secondo caratteristiche loro intrinseche, con carattere di generalità ed in modo obiettivo; in questi casi, le limitazioni delle facoltà del proprietario ricadono nella previsione non del comma terzo, bensì del comma secondo, dell'art. 42, Cost. Pertanto, i limiti non ablatori normalmente posti nei regolamenti urbanistici o nella pianificazione urbanistica e relative norme tecniche, riguardanti altezza, cubatura, superficie coperta, distanze, zone di rispetto, indici di fabbricabilità, limiti e rapporti per zone territoriali omogenee e simili, sono vincoli conformativi, connaturali alla proprietà, e non comportano indennizzo.” (così TAR Umbria, 12.07.2007, n. 554, ma anche, da ultimo, Cons. Stato, VI, 04.04.2011, n. 2083).
In modo del tutto analogo e coerente, non sono suscettibili di indennizzo nemmeno i limiti derivanti dall’imposizione di una fascia di rispetto conseguente direttamente all’avvenuta realizzazione dell’opera (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPremesso che la nozione di rete di telecomunicazione, per definizione, richiede una distribuzione capillare nei diversi punti del territorio, ed è assimilata, in via normativa, alle infrastrutture di reti pubbliche di telecomunicazione alle opere di urbanizzazione primaria (art. 86, comma 3, del D.lgs. n. 259/2003), devono ritenersi illegittime le prescrizioni di piano e di regolamento che si traducono in limiti alla localizzazione e allo sviluppo della rete per intere zone, per di più con scelta generale ed astratta ed in assenza di giustificazioni afferenti alla specifica tipologia dei luoghi o alla presenza di siti che per destinazioni d' uso possano essere qualificati come sensibili.
Nella materia la giurisprudenza ha condivisibilmente affermato:
- che i "criteri di localizzazione" degli impianti non possono trasformarsi in "limitazioni alla localizzazione", così da configurarsi incompatibili con la possibilità di realizzare una rete completa di infrastrutture per la telecomunicazione;
- che non può tradursi la determinazione a regime di limiti di localizzazione degli impianti -atteso il suo carattere generalizzato e il riferimento al dato oggettivo dell'esistenza di insediamenti abitativi- in una misura surrettizia di tutela della popolazione da immissioni radioelettriche, che l'art. 4 della legge n. 36/2000 riserva allo Stato attraverso l'individuazione di puntuali limiti di esposizione, valori di attenzione ed obiettivi di qualità, da introdursi con D.P.C.M., su proposta del Ministro dell'Ambiente di concerto con il Ministro della Salute;
- che la scelta dei criteri di insediamento degli impianti deve tenere conto della nozione di "rete di telecomunicazione, che richiede una diffusione capillare sul territorio”;
- che deve tenersi conto, infine, anche del fatto che l'assimilazione in via normativa delle infrastrutture di reti pubbliche di telecomunicazione alle opere di urbanizzazione primaria, implica che le medesime non siano avulse dall'insediamento abitativo, ma debbano porsi al servizio dello stesso.
Il Comune, ancorché mantenga intatte le proprie competenze in materia di governo del territorio, per espressa valutazione legislativa, non può interferire con le competenze relative alla installazione delle reti di telecomunicazione e, in particolare, non può determinare vincoli e limiti così stringenti da concretizzarsi in un divieto di carattere generalizzato di installazione degli impianti in zone urbanistiche identificate (senza prevedere alcuna possibile localizzazione alternativa) in contrasto con le esigenze tecniche necessarie a consentire la realizzazione effettiva della rete di telefonia cellulare che assicuri la copertura del servizio nell'intero nel territorio comunale.
Ai sensi del D.lgs. n. 259/2003, gli impianti in questione e le opere accessorie occorrenti per la loro funzionalità hanno "carattere di pubblica utilità", con possibilità, quindi, di essere ubicati in qualsiasi parte del territorio comunale, essendo compatibili con tutte le destinazioni urbanistiche.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, premesso che la nozione di rete di telecomunicazione, per definizione, richiede una distribuzione capillare nei diversi punti del territorio, ed è assimilata, in via normativa, alle infrastrutture di reti pubbliche di telecomunicazione alle opere di urbanizzazione primaria (art. 86, comma 3, del D.lgs. n. 259/2003), devono ritenersi illegittime le prescrizioni di piano e di regolamento che si traducono in limiti alla localizzazione e allo sviluppo della rete per intere zone, per di più con scelta generale ed astratta ed in assenza di giustificazioni afferenti alla specifica tipologia dei luoghi o alla presenza di siti che per destinazioni d' uso possano essere qualificati come sensibili (cfr. Cons. di Stato, VI, n. 1567/2007).
Nella materia la giurisprudenza ha condivisibilmente affermato:
- che i "criteri di localizzazione" degli impianti non possono trasformarsi in "limitazioni alla localizzazione", così da configurarsi incompatibili con la possibilità di realizzare una rete completa di infrastrutture per la telecomunicazione (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 15.10/7.11.2003 n. 331 e 07.10.2003 n. 307);
- che non può tradursi la determinazione a regime di limiti di localizzazione degli impianti -atteso il suo carattere generalizzato e il riferimento al dato oggettivo dell'esistenza di insediamenti abitativi- in una misura surrettizia di tutela della popolazione da immissioni radioelettriche, che l'art. 4 della legge n. 36/2000 riserva allo Stato attraverso l'individuazione di puntuali limiti di esposizione, valori di attenzione ed obiettivi di qualità, da introdursi con D.P.C.M., su proposta del Ministro dell'Ambiente di concerto con il Ministro della Salute (cfr., Cons. di Stato, VI, n. 7274 /2002; n. 4159/2005);
- che la scelta dei criteri di insediamento degli impianti deve tenere conto della nozione di "rete di telecomunicazione, che richiede una diffusione capillare sul territorio”;
- che deve tenersi conto, infine, anche del fatto che l'assimilazione in via normativa delle infrastrutture di reti pubbliche di telecomunicazione alle opere di urbanizzazione primaria, implica che le medesime non siano avulse dall'insediamento abitativo, ma debbano porsi al servizio dello stesso (cfr. Cons. di Stato, VI, 08.09.2009, n. 5258) .
Alla stregua dei predetti principi, la scelta operata nella specie dal Comune resistente non sfugge dunque alle doglianze di violazione dell'art. 86 del D.lgs. n. 259/2003 e della legge n. 36/2001 dedotte nel ricorso, né si configura conforme a criteri di ragionevolezza, di adeguatezza e di proporzionalità delle misure stabilite negli atti impugnati, in quanto il Comune, ancorché mantenga intatte le proprie competenze in materia di governo del territorio, per espressa valutazione legislativa, non può interferire con le competenze relative alla installazione delle reti di telecomunicazione e, in particolare, non può determinare vincoli e limiti così stringenti da concretizzarsi in un divieto di carattere generalizzato di installazione degli impianti in zone urbanistiche identificate (senza prevedere alcuna possibile localizzazione alternativa) in contrasto con le esigenze tecniche necessarie a consentire la realizzazione effettiva della rete di telefonia cellulare che assicuri la copertura del servizio nell'intero nel territorio comunale (cfr. Cons. di Stato, VI, 08.09.2009 , n. 5258).
Vi è, infine, da osservare che, ai sensi del D.lgs. n. 259/2003, gli impianti in questione e le opere accessorie occorrenti per la loro funzionalità hanno "carattere di pubblica utilità", con possibilità, quindi, di essere ubicati in qualsiasi parte del territorio comunale, essendo compatibili con tutte le destinazioni urbanistiche (residenziale, verde, agricola, ecc.: cfr. in tal senso, C.G.A. ordinanza 05.07.2006, n. 543; Cons. Stato, VI, 04.09.2006, n. 5096; TAR Campania, Napoli, VII, 10.06.2011, n. 3074; TAR Sicilia, Palermo II, 09.03.2011, n. 419).
Il Collegio ritiene, pertanto, che il Comune resistente abbia errato nell’interpretazione e nell’applicazione delle disposizioni delle N.T.A. richiamate nel diniego impugnato laddove ha incluso tra gli interventi vietati, di cui al secondo comma dell’art. 30 delle N.T.A., anche le S.R.B. per la telefonia mobile. Ne discende, quindi, sotto tale profilo la carenza di interesse della società ricorrente, una volta ottenuto l’annullamento del diniego impugnato per le ragioni suesposte, all’eliminazione anche delle predette N.T.A. in quanto non contenenti specifiche disposizioni in materia di installazione delle S.R.B. (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa procedura di aggiudicazione non possa dirsi conclusa sino a che non sia intervenuta l’aggiudicazione definitiva.
Qualora la prova del possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa non sia fornita, ovvero non vi sia conferma delle dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell'offerta, si deve procedere all'esclusione del concorrente dalla gara e all'escussione della cauzione provvisoria. Quest'ultima conseguenza ha la funzione di garantire la veridicità delle dichiarazioni fornite dalle imprese in sede di partecipazione alla gara in ordine al possesso dei requisiti prescritti dal bando o dalla lettera di invito, così da assicurare l'affidabilità dell'offerta, il cui primo indice è rappresentato proprio dalla correttezza e dalla serietà del comportamento del concorrente. Pertanto, la mancata dimostrazione, nel previsto termine legale, del possesso dei requisiti prescritti dal bando, legittima l'esclusione dalla gara e, quale automatica conseguenza discendente ex lege, l'escussione della cauzione senza che possa darsi positivo rilievo né al carattere psicologico della violazione né all'effettivo possesso dei requisiti da parte dell'impresa, ovvero alla produzione di documenti prescritti.

Nel caso di specie, infatti, non solo non vi è stata la stipulazione del contratto –che normalmente rappresenta il discrimine tra ambito di competenza del giudice amministrativo (avente cognizione sul procedimento che conduce all’individuazione del contraente) e del giudice ordinario (avente cognizione su ogni questione relativa all’adempimento del contratto stipulato)– ma non è nemmeno intervenuta l’aggiudicazione definitiva, per cui deve ritenersi che si controverta ancora nell’ambito del procedimento di aggiudicazione dell’appalto.
A sostegno di tale conclusione basti ricordare la copiosa giurisprudenza dalla quale si inferisce come la procedura di aggiudicazione non possa dirsi conclusa sino a che non sia intervenuta l’aggiudicazione definitiva (in tal senso, tra le altre, TAR Toscana Firenze, sez. II, 29.01.2009, n. 149).
Il corretto inquadramento della fattispecie in termini di verifica delle ragioni che hanno determinato la mancata adozione dell’aggiudicazione definitiva e la conseguente mancata stipulazione del contratto, consente, pertanto, non solo di risolvere puntualmente la questione dell’individuazione del giudice competente, ma anche di ricondurre la medesima ad un ipotesi di violazione degli obblighi precontrattuali gravanti sull’odierna ricorrente e correlati alla diligenza imposta alle parti nel porre in essere le attività cui sono tenute per addivenire alla stipula del contratto.
Ravvisata la giurisdizione di questo Tribunale, deve, peraltro, darsi atto di come nel caso di specie l’escussione della cauzione fosse già, prima della notifica del ricorso in esame, sub judice del giudice ordinario, adito per ottenere l’adozione di un decreto ingiuntivo. Non può, però, ritenersi sussistere la litispendenza nel senso invocato da parte resistente.
Tra i due giudizi non si pone un problema di violazione del principio del ne bis in idem, in quanto l’accertamento della legittimità del titolo escusso (e cioè della determinazione sulla scorta della quale si è ritenuto sussistere l’inadempimento dell’obbligo di stipulare) deve ritenersi precluso al giudice ordinario, mentre l’esito dell’opposizione al decreto ingiuntivo non potrebbe avere alcuna refluenza sulla legittimità degli atti prodromici che hanno condotto all’escussione della cauzione (sulla natura dell’opposizione al decreto ingiuntivo di escussione della cauzione cfr. Tribunale Roma, II 18.09.2006).
Ciò precisato in rito, una corretta comprensione della controversia in esame richiede preliminarmente di sottolineare come, nonostante parte ricorrente tenti di ricondurre la vicenda ad un’ipotesi di decadenza del termine di validità dell’offerta per fatto imputabile alla stazione appaltante, l’amministrazione abbia fondato i propri provvedimenti sulla constatazione della mancata produzione dei documenti attestanti il possesso dei requisiti richiesti. In particolare, nella fattispecie, le imprese –che avevano presentato la propria offerta dichiarando l’intenzione di costituirsi in forma di raggruppamento temporaneo– avevano, successivamente all’aggiudicazione provvisoria, manifestato la volontà di costituire una società di progetto: ipotesi avvallata dall’amministrazione, che, nonostante quanto dedotto dalle ricorrenti, sostiene di aver fornito tutti i chiarimenti a ciò necessari.
A prescindere dall’accertamento della veridicità di tale affermazione, ciò che rileva in concreto è la circostanza, non smentita dalle imprese ricorrenti, della mancata produzione della documentazione relativa alla costituzione di tale società, in ordine alla quale a nulla rileva l’asserita mancata comunicazione dei chiarimenti richiesti, del tutto generici.
Diversamente opinando lo spirito della norma risulterebbe frustrato, in quanto il termine di vincolatività dell’offerta finirebbe paradossalmente per trasformarsi in un’opportunità per l’aggiudicatario di liberarsi da ogni impegno contrattuale assunto in sede di presentazione dell’offerta: basterebbe, infatti, allo stesso procrastinare la produzione dei documenti necessari alla stipula per poi poter invocare la sopravvenuta scadenza del termine per la produzione della documentazione e svincolarsi da ogni obbligo assunto con la presentazione dell’offerta.
In altre parole, come costantemente affermato dalla giurisprudenza in argomento, “Qualora la prova del possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa non sia fornita, ovvero non vi sia conferma delle dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell'offerta, si deve procedere all'esclusione del concorrente dalla gara e all'escussione della cauzione provvisoria. Quest'ultima conseguenza ha la funzione di garantire la veridicità delle dichiarazioni fornite dalle imprese in sede di partecipazione alla gara in ordine al possesso dei requisiti prescritti dal bando o dalla lettera di invito, così da assicurare l'affidabilità dell'offerta, il cui primo indice è rappresentato proprio dalla correttezza e dalla serietà del comportamento del concorrente. Pertanto, la mancata dimostrazione, nel previsto termine legale, del possesso dei requisiti prescritti dal bando, legittima l'esclusione dalla gara e, quale automatica conseguenza discendente ex lege, l'escussione della cauzione senza che possa darsi positivo rilievo né al carattere psicologico della violazione né all'effettivo possesso dei requisiti da parte dell'impresa, ovvero alla produzione di documenti prescritti” (le parole sono della sentenza TAR Lazio Roma, sez. III, 02.03.2009, n. 2113).
Nel merito, quindi, la questione risulta essere incentrata sulla riconducibilità a fatto del raggruppamento ricorrente dell’impossibilità di addivenire all’aggiudicazione definitiva quale conseguenza della mancata produzione della documentazione a tale fine necessaria, espressamente richiesta dalla stazione appaltante e mai prodotta (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl potere di sospensione dei lavori in corso, attribuito all'autorità comunale dall'art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l'amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia, mentre, nell'ipotesi di emanazione del provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario con conseguente "assorbimento" dell'ordine di sospensione dei lavori.

... secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, il potere di sospensione dei lavori in corso, attribuito all'autorità comunale dall'art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l'amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia (cfr. tra le tante TAR Campania Salerno, sez. II, 06.10.2005, n. 1901), mentre, nell'ipotesi di emanazione del provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II, 21.07.2005, n. 5810) con conseguente "assorbimento" dell'ordine di sospensione dei lavori
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl certificato di agibilità attesta la corrispondenza dell’opera realizzata al progetto assentito, dal punto di vista dimensionale, della destinazione d’uso e delle eventuali prescrizioni contenute nel titolo, nonché certifica la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità degli edifici, di risparmio energetico e di sicurezza degli impianti installati, alla stregua della normativa vigente.
Siccome la conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, come si evince dall’art. 24 del D.P.R. n. 380/2001, ne discende che in assenza del titolo edilizio per la realizzazione delle opere necessarie al cambio di destinazione d’uso, correttamente l’Amministrazione comunale ha constatato l’assenza di agibilità per il fabbricato dell’Associazione ricorrente.

Il certificato di agibilità attesta la corrispondenza dell’opera realizzata al progetto assentito, dal punto di vista dimensionale, della destinazione d’uso e delle eventuali prescrizioni contenute nel titolo, nonché certifica la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità degli edifici, di risparmio energetico e di sicurezza degli impianti installati, alla stregua della normativa vigente (cfr. TAR Umbria, 18.11.2010, n. 512).
Orbene, siccome la conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, come si evince dall’art. 24 del D.P.R. n. 380/2001, ne discende che in assenza del titolo edilizio per la realizzazione delle opere necessarie al cambio di destinazione d’uso, correttamente l’Amministrazione comunale ha constatato l’assenza di agibilità per il fabbricato dell’Associazione ricorrente.
Né d’altro canto spiega alcuna incidenza sulla predetta constatazione l’esistenza del certificato di agibilità rilasciato nel 1997 in relazione al medesimo immobile, essendo lo stesso relativo allo stato dei luoghi e alla destinazione d’uso antecedente alle modifiche apportate con le opere oggetto della SCIA n. 482/2010
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASono da ritenersi illegittime tutte quelle prescrizioni a contenuto generale che rendono impossibile collocare qualsiasi tipo di cartello pubblicitario entro un'ampia fascia di territorio comunale, in quanto ciò determina un'irragionevole compressione del diritto di iniziativa economica.
Tale diritto si deve coniugare, con riferimento all'installazione di mezzi pubblicitari lungo le strade, con il solo limite (secondo quanto previsto dall'art. 23 del codice della strada) del divieto scaturente dalla possibilità che l'impianto stesso arrechi pregiudizio alla sicurezza stradale o alla visuale.
Invero l'art. 3 del d.lgs. n. 507/1993 consente all'ente locale anche di imporre limitazioni, ma solo per particolari forme di pubblicità ed esclusivamente laddove ciò possa rispondere ad esigenze di pubblico interesse.

Questo Tribunale ha già avuto modo di precisare, consolidando un orientamento da cui non si ravvisano ragioni di discostarsi, “che sono da ritenersi illegittime tutte quelle prescrizioni a contenuto generale che rendono impossibile collocare qualsiasi tipo di cartello pubblicitario entro un'ampia fascia di territorio comunale, in quanto ciò determina un'irragionevole compressione del diritto di iniziativa economica” (cfr TAR Brescia Sez. II, 26.11.2010, n. 4671).
Tale diritto si deve coniugare, con riferimento all'installazione di mezzi pubblicitari lungo le strade, con il solo limite (secondo quanto previsto dall'art. 23 del codice della strada) del divieto scaturente dalla possibilità che l'impianto stesso arrechi pregiudizio alla sicurezza stradale o alla visuale.
Invero l'art. 3 del d.lgs. n. 507/1993 consente all'ente locale anche di imporre limitazioni, ma solo per particolari forme di pubblicità ed esclusivamente laddove ciò possa rispondere ad esigenze di pubblico interesse.
Nel caso di specie il provvedimento di diniego si fonda esclusivamente sull’esistenza della norma regolamentare, la quale, a sua volta, si limita ad introdurre un divieto generalizzato che, in forza di quanto ora rappresentato, non può avere cittadinanza nell’ordinamento: entrambe gli atti, sia quello a contenuto generale, che quello esecutivo, risultano, quindi, essere privi del necessario fondamento giuridico e debbono, pertanto, essere annullati.
Rispetto al censurato diniego risulta, infatti, esclusa ogni valutazione in concreto di contrasto del posizionamento dei mezzi pubblicitari in questione con l’interesse alla sicurezza della circolazione espressamente tutelato; ciò integra un’illegittima lesione dell’iniziativa privata che impone la caducazione dei provvedimenti impugnati (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVICon l'introduzione del Capo IV-bis della legge n. 241/1990 ad opera della legge n. 15/2005, nella specie con l'art. 21-nonies, il legislatore ha dettato norme in tema di autotutela amministrativa, recependo i principi giurisprudenziali e la prassi amministrativa formatisi in assenza di una disciplina normativa.
Tra questi, la regola secondo la quale il provvedimento di annullamento in autotutela costituisce manifestazione della discrezionalità dell'Amministrazione, nel senso che essa non è obbligata a ritirare gli atti illegittimi o inopportuni in quanto tali, ma deve valutare, di volta in volta, se esista un interesse pubblico alla loro eliminazione diverso dal semplice ristabilimento della legalità violata. Siffatto interesse pubblico non è esplicitato a priori dalla norma, ma deve essere ricavato dalla stessa Amministrazione, caso per caso, attraverso un'attività di "comparazione tra l'interesse pubblico al ripristino della legalità e gli interessi dei destinatari del provvedimento e dei controinteressati"; il tutto, tenendo nella debita considerazione anche la circostanza che il provvedimento da annullare possa avere prodotto effetti favorevoli, valutandone la rilevanza, e che sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo (fattore di stabilizzazione) dal momento della sua emissione.
Tali elementi, infatti, integrano la nozione di "stabilità della situazione venutasi a creare per effetto del provvedimento favorevole" e rappresentano un limite all'esercizio del potere di autoannullamento. Pertanto, nella comparazione tra le esigenze sottese a un intempestivo e pregiudizievole annullamento in autotutela dell'atto e quelle sottese alla conservazione di quest'ultimo, l'Amministrazione, in forza del citato art. 21-nonies, è tenuta a optare per la soluzione che meglio contemperi la necessità del ripristino della legittimità e la salvezza degli altri interessi concorrenti.
Pertanto, il vigente art. 21-nonies esclude che si possa procedere all'annullamento d'ufficio in difetto di tutti requisiti ivi individuati.

In via di inquadramento generale, il Collegio ricorda che con l'introduzione del Capo IV-bis della legge n. 241/1990 ad opera della legge n. 15/2005, nella specie con l'art. 21-nonies, il legislatore ha dettato norme in tema di autotutela amministrativa, recependo i principi giurisprudenziali e la prassi amministrativa formatisi in assenza di una disciplina normativa.
Tra questi, la regola secondo la quale il provvedimento di annullamento in autotutela costituisce manifestazione della discrezionalità dell'Amministrazione, nel senso che essa non è obbligata a ritirare gli atti illegittimi o inopportuni in quanto tali, ma deve valutare, di volta in volta, se esista un interesse pubblico alla loro eliminazione diverso dal semplice ristabilimento della legalità violata. Siffatto interesse pubblico non è esplicitato a priori dalla norma, ma deve essere ricavato dalla stessa Amministrazione, caso per caso, attraverso un'attività di "comparazione tra l'interesse pubblico al ripristino della legalità e gli interessi dei destinatari del provvedimento e dei controinteressati"; il tutto, tenendo nella debita considerazione anche la circostanza che il provvedimento da annullare possa avere prodotto effetti favorevoli, valutandone la rilevanza, e che sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo (fattore di stabilizzazione) dal momento della sua emissione.
Tali elementi, infatti, integrano la nozione di "stabilità della situazione venutasi a creare per effetto del provvedimento favorevole" e rappresentano un limite all'esercizio del potere di autoannullamento. Pertanto, nella comparazione tra le esigenze sottese a un intempestivo e pregiudizievole annullamento in autotutela dell'atto e quelle sottese alla conservazione di quest'ultimo, l'Amministrazione, in forza del citato art. 21-nonies, è tenuta a optare per la soluzione che meglio contemperi la necessità del ripristino della legittimità e la salvezza degli altri interessi concorrenti.
Pertanto, come recentemente affermato anche da questa Sezione, il vigente art. 21-nonies esclude che si possa procedere all'annullamento d'ufficio in difetto di tutti requisiti ivi individuati (cfr. TAR Veneto, II, 30.09.2010, n. 5242; TAR Veneto, II, 02.04.2010, n. 1268; Cons. Stato, sez. IV, 31.10.2006, n. 6465)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 197 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso edilizio ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, comporta la nascita di una posizione di affidamento nel privato cittadino, in relazione alla quale l'esercizio del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all'entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Secondo l'orientamento della giurisprudenza condiviso dal Collegio, il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso edilizio ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, comporta la nascita di una posizione di affidamento nel privato cittadino, in relazione alla quale l'esercizio del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all'entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (cfr. (TAR Campania, Napoli, IV, 09.04.2010, n. 1890; TAR Campania, Napoli, IV, 24.05.2010, n. 8343) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 197 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa presentazione della domanda di partecipazione ad un gara di appalto non è necessaria a dimostrare la sussistenza di un interesse concreto ed attuale all’annullamento della stessa in presenza di una clausola del bando la cui natura escludente non può essere negata in ragione della possibilità di sopperire alla carenza del requisito mediante il ricorso al raggruppamento o all’avvalimento.
Il Collegio, in sede cautelare, ha quindi ritenuto, anche alla luce della giurisprudenza che ha ormai chiarito come la presentazione della domanda non sia necessaria a dimostrare la sussistenza di un interesse concreto ed attuale all’annullamento in presenza di una clausola del bando la cui natura escludente non può essere negata in ragione della possibilità di sopperire alla carenza del requisito mediante il ricorso al raggruppamento o all’avvalimento (cfr. TAR Lombardia Milano Sez. I, 09.06.2011, n. 1493, in applicazione del principio di cui alla sentenza Cons. Stato, Ad. Plen. n. 4 del 2011) che il ricorso fosse ammissibile (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 197 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl riesame dell'abusività dell'opera edilizia, provocato dall'istanza di sanatoria dell'autore dell'abuso, determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio in precedenza emanato con la conseguenza che, in caso di rigetto dell'istanza, l'Amministrazione deve emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva, con l'assegnazione di un nuovo termine per adempiere.
- considerato che successivamente all’adozione del provvedimento impugnato, diffida a demolire del 19.12.2011, il Comune intimato (come documentato in atti) ha definito la pratica relativa all’istanza di sanatoria -presentata, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 380/2001, dalla ricorrente per l’abuso contestato- con provvedimento di rigetto datato 20.12.2011, successivamente notificato;
- atteso quindi che il provvedimento impugnato è comunque intervenuto prima che l’amministrazione si fosse definitivamente determinata in ordine alla richiesta di sanatoria,
il ricorso è meritevole di accoglimento, in quanto la diffida risulta illegittimamente assunta nei confronti della ricorrente, stanti gli effetti dell’avvenuta presentazione della richiesta di sanatoria.
Invero, per un principio giurisprudenziale consolidato nella materia, "Il riesame dell'abusività dell'opera edilizia, provocato dall'istanza di sanatoria dell'autore dell'abuso, determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio in precedenza emanato con la conseguenza che, in caso di rigetto dell'istanza, l'Amministrazione deve emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio, disponendo nuovamente la demolizione dell'opera edilizia ritenuta abusiva, con l'assegnazione di un nuovo termine per adempiere." ( Consiglio di Stato, sez. IV, 03.12.2010, n. 8502).
Ne deriva che, essendo divenuto inefficace l’iniziale ordine di demolizione per effetto del riesame dell'abusività dell'intervento edilizio di cui trattasi, provocato dall'istanza di accertamento di conformità presentata dalla ricorrente (sulla quale l'Amministrazione si è pronunciata negativamente con la determinazione n. 46404 in data 20.12.2011), l'Amministrazione avrebbe dovuto adottare un nuovo ordine di demolizione, assegnando alla ricorrente un nuovo termine di 90 giorni per provvedere spontaneamente alla rimozione delle opere abusive, e, quindi, evitare l'adozione del provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle stesse e della relativa area di sedime (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.02.2012 n. 193 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di costruire, il requisito della piena conoscenza non postula necessariamente la conoscenza di tutti i suoi elementi, essendo sufficiente quella degli elementi essenziali quali l'autorità emanante, la data, il contenuto dispositivo e il suo effetto lesivo, salva la possibilità di proporre motivi aggiunti ove dalla conoscenza integrale del provvedimento e degli atti presupposti emergano ulteriori profili di illegittimità.
E d’altra parte è noto che “ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di costruire, il requisito della piena conoscenza non postula necessariamente la conoscenza di tutti i suoi elementi, essendo sufficiente quella degli elementi essenziali quali l'autorità emanante, la data, il contenuto dispositivo e il suo effetto lesivo, salva la possibilità di proporre motivi aggiunti ove dalla conoscenza integrale del provvedimento e degli atti presupposti emergano ulteriori profili di illegittimità" (Consiglio di Stato V Sezione 12.07.2010 n. 4482) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.02.2012 n. 427 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'omessa indicazione del termine e dell'autorità cui ricorrere non determina l'illegittimità del provvedimento amministrativo, ma solo una mera irregolarità, in quanto la disposizione dell'art. 3 comma 4, l. n. 241 del 1990 non influisce sull'individuazione e sulla cura dell'interesse pubblico concreto cui è finalizzato il provvedimento, né sulla riconducibilità dello stesso all'autorità amministrativa, ma tende semplicemente ad agevolare il ricorso alla tutela giurisdizionale (sicché l'omissione di cui si duole il ricorrente potrebbe semmai dar luogo, nel concorso di significative ulteriori circostanze, alla concessione del beneficio della rimessione in termini).
E' pacifico come l'omessa indicazione del termine e dell'autorità cui ricorrere non determina l'illegittimità del provvedimento amministrativo, ma solo una mera irregolarità, in quanto la disposizione dell'art. 3 comma 4, l. n. 241 del 1990 non influisce sull'individuazione e sulla cura dell'interesse pubblico concreto cui è finalizzato il provvedimento, né sulla riconducibilità dello stesso all'autorità amministrativa, ma tende semplicemente ad agevolare il ricorso alla tutela giurisdizionale (sicché l'omissione di cui si duole il ricorrente potrebbe semmai dar luogo, nel concorso di significative ulteriori circostanze, alla concessione del beneficio della rimessione in termini) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.02.2012 n. 423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn tema di appalti pubblici deve ritenersi sussistente l'obbligo previsto dall'art. 38 dlgs 163/2006 non soltanto da parte di chi rivesta formalmente la carica di amministratore, ma anche da parte di colui che, in qualità di procuratore speciale, abbia ottenuto il conferimento di poteri consistenti nella rappresentanza dell'impresa e nel compimento di atti decisionali; nelle ipotesi in cui la legge speciale di gara commini in modo espresso l'esclusione dalla procedura in relazione al solo dato della mancata dichiarazione non trovano applicazione gli orientamenti giurisprudenziali sul falso innocuo, in base ai quali la predetta misura non sarebbe giustificata in caso di mancato pregiudizio agli interessi presidiati dalla norma in parola.
... considerato che i predetti principi sono stati anche di recente affermati dal Consiglio di Stato (confronta sentenza 18.01.2012, Sez. VI, n. 178): "in tema di appalti pubblici deve ritenersi sussistente l'obbligo previsto dall'articolo 38 non soltanto da parte di chi rivesta formalmente la carica di amministratore, ma anche da parte di colui che, in qualità di procuratore speciale, abbia ottenuto il conferimento di poteri consistenti nella rappresentanza dell'impresa e nel compimento di atti decisionali; nelle ipotesi in cui la legge speciale di gara commini in modo espresso l'esclusione dalla procedura in relazione al solo dato della mancata dichiarazione non trovano applicazione gli orientamenti giurisprudenziali sul falso innocuo, in base ai quali la predetta misura non sarebbe giustificata in caso di mancato pregiudizio agli interessi presidiati dalla norma in parola” (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 06.02.2012 n. 173 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'art. 38, I comma, lett. i) del codice dei contratti è interpretato nel senso che il principio dell'autonomia del procedimento di rilascio del DURC impone che la stazione appaltante debba basarsi sulle certificazioni risultanti da quest'ultimo documento, prendendole come un dato di fatto inoppugnabile, dovendo limitarsi a valutare soltanto se sussistono procedimenti diretti a contestare gli accertamenti degli enti previdenziali riportati nel DURC o condoni (ai fini della “definitività”), e, inoltre, se la violazione riportata nel DURC risulti o meno "grave".
Ai sensi del D.M. 24.10.2007 (emanato in attuazione dell’art. 1, comma 1176, della legge 27.12.2006 n. 296) sono state definite le modalità di rilascio ed i contenuti analitici del DURC e, a tal fine, è stata fissata una soglia di “gravità” delle violazioni, ritenendosi le violazioni al di sotto di tale soglia non ostative al rilascio del DURC: non si considera, in particolare, grave lo scostamento inferiore o pari al 5% tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione o, comunque, uno scostamento inferiore a 100 euro, fermo restando l’obbligo di versamento del predetto importo entro i trenta giorni successivi al rilascio del DURC (art. 8, III comma, del DM cit.).
Quanto al requisito della “definitività”, la pendenza di qualsiasi contenzioso impedisce di ritenere il soggetto in posizione irregolare: quindi fino alla decisione che respinge il ricorso, può essere dichiarata la regolarità contributiva (art. 8, II comma, lett. a).
Pertanto, dopo il DM del 2007, il DURC attesta solo le irregolarità contributive “definitivamente accertate” e solo quelle che superano la “soglia di gravità” fissata dal citato decreto: dopo tale decreto, pertanto, una declaratoria di non regolarità contributiva certifica che, ai fini dell’art. 38, I comma, lett. i) del codice appalti, è stata commessa una violazione contributiva “grave” e “definitivamente accertata”.
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La regolarità contributiva costituisce requisito sostanziale di partecipazione alla gara, avendo il legislatore ritenuto tale regolarità indice dell'affidabilità, diligenza e serietà dell'impresa e della sua correttezza nei rapporti con le maestranze: è quindi totalmente irrilevante l'eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione contributiva, quand'anche ricondotto, quanto ad efficacia, al momento della scadenza del termine di pagamento, che, se può essere satisfattivo per l'Ente previdenziale, non lo è ai fini della legittimità del subentro in un contratto di appalto, non essendo ammesse postume sanatorie all'affidabilità, alla serietà, alla continuità dell'attività d'impresa.

... il Collegio deve rilevare che, per giurisprudenza consolidata, l'art. 38, I comma, lett. i) del codice dei contratti è interpretato nel senso che il principio dell'autonomia del procedimento di rilascio del DURC impone che la stazione appaltante debba basarsi sulle certificazioni risultanti da quest'ultimo documento, prendendole come un dato di fatto inoppugnabile, dovendo limitarsi a valutare soltanto se sussistono procedimenti diretti a contestare gli accertamenti degli enti previdenziali riportati nel DURC o condoni (ai fini della “definitività”), e, inoltre, se la violazione riportata nel DURC risulti o meno "grave" (CdS,. IV, 15.09.2010 n. 6907; V, 04.08.2010 n. 5213; VI, 06.04.2010 n. 1934).
A tal proposito deve rammentarsi che, ai sensi del D.M. 24.10.2007 (emanato in attuazione dell’art. 1, comma 1176, della legge 27.12.2006 n. 296) sono state definite le modalità di rilascio ed i contenuti analitici del DURC e, a tal fine, è stata fissata una soglia di “gravità” delle violazioni, ritenendosi le violazioni al di sotto di tale soglia non ostative al rilascio del DURC: non si considera, in particolare, grave lo scostamento inferiore o pari al 5% tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione o, comunque, uno scostamento inferiore a 100 euro, fermo restando l’obbligo di versamento del predetto importo entro i trenta giorni successivi al rilascio del DURC (art. 8, III comma, del DM cit.).
Quanto al requisito della “definitività”, la pendenza di qualsiasi contenzioso impedisce di ritenere il soggetto in posizione irregolare: quindi fino alla decisione che respinge il ricorso, può essere dichiarata la regolarità contributiva (art. 8, II comma, lett. a).
Pertanto, dopo il DM del 2007, il DURC attesta solo le irregolarità contributive “definitivamente accertate” e solo quelle che superano la “soglia di gravità” fissata dal citato decreto: dopo tale decreto, pertanto, una declaratoria di non regolarità contributiva certifica che, ai fini dell’art. 38, I comma, lett. i) del codice appalti, è stata commessa una violazione contributiva “grave” e “definitivamente accertata” (CdS, VI, 04.08.2009 n. 4906).
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Giova in proposito osservare che la regolarità contributiva costituisce requisito sostanziale di partecipazione alla gara, avendo il legislatore ritenuto tale regolarità indice dell'affidabilità, diligenza e serietà dell'impresa e della sua correttezza nei rapporti con le maestranze (CdS, IV, 15.09.2010 n. 6907): è quindi totalmente irrilevante l'eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione contributiva, quand'anche ricondotto, quanto ad efficacia, al momento della scadenza del termine di pagamento, che, se può essere satisfattivo per l'Ente previdenziale, non lo è ai fini della legittimità del subentro in un contratto di appalto, non essendo ammesse postume sanatorie all'affidabilità, alla serietà, alla continuità dell'attività d'impresa (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 03.02.2012 n. 134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa denuncia o l’esposto non possono considerarsi un fatto circoscritto al solo autore, all’Amministrazione competente al suo esame e all’apertura dell’eventuale procedimento, ma riguardano direttamente anche i soggetti denunciati, i quali ne risultano comunque incisi.
Nell’ordinamento delineato dalla legge n. 241/1990, ispirato ai principi della trasparenza, del diritto di difesa e della dialettica democratica, ogni soggetto deve, pertanto, poter conoscere con precisione i contenuti e gli autori di segnalazioni, esposti o denunce che, fondatamente o meno, possano costituire le basi per l’avvio di un procedimento ispettivo o sanzionatorio, non la P.A. precedente opporre all’interessato esigenze di riservatezza.

... Il Collegio rileva in primis che la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi ha già disposto "che con riferimento alle relazioni si osserva che le medesime, qualora si traducano in rapporti informativi, sono sottratte all’accesso ai sensi della disposizione regolamentare citata.
Per quanto concerne gli esposti e denunce questa Commissione ribadisce l’adesione al prevalente orientamento della giurisprudenza secondo il quale “La denuncia o l’esposto non possono considerarsi un fatto circoscritto al solo autore, all’Amministrazione competente al suo esame e all’apertura dell’eventuale procedimento, ma riguardano direttamente anche i soggetti denunciati, i quali ne risultano comunque incisi. Nell’ordinamento delineato dalla legge n. 241/1990, ispirato ai principi della trasparenza, del diritto di difesa e della dialettica democratica, ogni soggetto deve, pertanto, poter conoscere con precisione i contenuti e gli autori di segnalazioni, esposti o denunce che, fondatamente o meno, possano costituire le basi per l’avvio di un procedimento ispettivo o sanzionatorio, non la P.A. precedente opporre all’interessato esigenze di riservatezza” (Tar Lombardia, sent. 1469/2008). Si ritiene, pertanto, che detti documenti siano ostensibili.
In ordine, infine, ai documenti oggetto di corrispondenza si evidenzia che la loro accessibilità è connessa alla riconducibilità di tali documenti alle categorie sottratte all’accesso ai sensi dell’art. 24 della L. 241/1990 a garanzia di superiori interessi; pertanto, spetta all’Amministrazione tale verifica
" (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 03.02.2012 n. 116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Rifiuti, salvi i professionisti. Stop al Comune che tartassa senza spiegare.
I presidenti dei vari ordini, dagli avvocati agli ingegneri, fanno annullare la delibera che fissa ai livelli massimi la tariffa per la raccolta dei rifiuti solidi urbani relativi a utenze non domestiche come gli studi professionali, ma anche uffici e agenzie. Accade a Prato, ma interessa sicuramente altre città.
È quanto emerge dalla
sentenza 02.02.2012 n. 539, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di stato.
C'è il presidente locale del Cup, il Comitato unitario dei professionisti, a guidare il ricorso oggi vittorioso degli ordini contro l'amministrazione locale, salvata in primo grado dal Tar. È indiscutibile che la tariffa per la raccolta dei rifiuti deve essere differenziata per zone, con riferimento alla destinazione a livello di pianificazione urbanistica e territoriale, alla densità abitativa, alla frequenza e qualità dei servizi da fornire. E oggi Palazzo Spada annulla il provvedimento dell'ente che fissa ai parametri massimi la tariffa per gli studi professionali senza però spiegare in alcun modo perché.
La tariffa, riferiscono i giudici, è composta da una parte fissa e da una parte variabile: la prima è determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e dai relativi ammortamenti; la seconda è rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all'entità dei costi di gestione.
È vero, il comune ha ampia discrezionalità su attività tipiche come l'individuazione dei costi da coprire, la ripartizione tra le categoria di utenza domestica e non domestica, e l'articolazione della tariffa rispetto alle caratteristiche delle diverse zone del territorio amministrato, secondo la loro destinazione urbanistica. Ma non si può certo pretendere che le scelte dell'ente siano sottratte a ogni forma di controllo: significherebbe rinnegare i principi fondamentali di legalità, imparzialità e buon andamento che devono caratterizzare l'azione amministrativa in base all'articolo 97 della Costituzione.
Insomma, ecco perché il comune avrebbe dovuto illustrare l'iter logico che ha condotto alla scelta per i parametri massimi della tariffa. Sbagliano qualcosa anche i professionisti: è da escludersi che il potere di determinare la tariffa per la gestione dei rifiuti spettasse all'autorità di ambito territoriale ottimale, il locale consorzio Ato (articolo ItaliaOggi del 10.02.2012).

EDILIZIA PRIVATA: In materia urbanistica il presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di almeno un piano di base e due superfici verticali contigue, così da ottenere una superficie chiusa su un minimo di tre lati.
La tamponatura di un porticato dà vita ad un nuovo volume edilizio entro il perimetro di uno spazio in origine aperto, quale quello ricompreso nel porticato, per cui se diviene un volume chiuso con pareti fisse, come tale è rilevante ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (e già prima art. 1 l. n. 10 del 1977) sul piano edilizio ed urbanistico.

Il ricorso in esame è rivolto avverso un ordine di demolizione emesso sul presupposto di un avvenuto aumento volumetrico per effetto della chiusura di un porticato.
La ricorrente sostiene che, nella specie, il porticato in questione dovesse essere considerato come già facente parte del volume dell’abitazione, onde l’assenza del contestato aumento volumetrico.
In realtà in materia urbanistica il presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di almeno un piano di base e due superfici verticali contigue, così da ottenere una superficie chiusa su un minimo di tre lati (TAR Piemonte 12.07.2005 n. 2484).
Nel caso di specie invece è la stessa ricorrente ad ammettere che l’area in questione fosse chiusa soltanto da due lati, onde precedentemente non poteva ritenersi esistente un volume edilizio.
Ne consegue che la chiusura dello stesso ha comportato l’aumento volumetrico contestato.
La tamponatura del porticato, infatti, dà vita ad un nuovo volume edilizio entro il perimetro di uno spazio in origine aperto, quale quello ricompreso nel porticato, per cui se diviene un volume chiuso con pareti fisse, come tale è rilevante ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (e già prima art. 1 l. n. 10 del 1977) sul piano edilizio ed urbanistico (TAR Liguria Genova, sez. I, 09.10.2008, n. 1769) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 01.02.2012 n. 238 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le sanzioni amministrative pecuniarie previste dall'art. 3 l. 28.02.1985 n. 47 per i casi di ritardo del versamento del contributo di concessione edilizia, che si distinguono, nell'ammontare, a seconda che il ritardo superi 120, 180 o 240 giorni dal termine legale di adempimento, sono soggette, in mancanza di una diversa disciplina legale, al termine di prescrizione di cinque anni stabilito dall'art. 28 l. 24.11.1981 n. 689, decorrente, in relazione a ciascuna fattispecie di ritardo, dal giorno dell'intervenuto pagamento del contributo.
Le sanzioni amministrative pecuniarie previste dall'art. 3 l. 28.02.1985 n. 47 -abrogato a decorrere dal 30.06.2002 dall'art. 136, comma 2, lett. f, d.P.R. 06.06.2001 n. 380- per i casi di ritardo del versamento del contributo di concessione edilizia, che si distinguono, nell'ammontare, a seconda che il ritardo superi 120, 180 o 240 giorni dal termine legale di adempimento, sono soggette, in mancanza di una diversa disciplina legale, al termine di prescrizione di cinque anni stabilito dall'art. 28 l. 24.11.1981 n. 689, decorrente, in relazione a ciascuna fattispecie di ritardo, dal giorno dell'intervenuto pagamento del contributo (Cassazione civile, sez. I, 06.11.2006, n. 23633) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 01.02.2012 n. 237 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINell'esegesi della disposizione contenuta nell'art. 48, comma 1, d.lgs. n. 163/2006 -corrispondente al pregresso art. 10, comma 1-quater, l. n. 109/1994- è ormai principio consolidato che il termine di 10 giorni, entro il quale l'impresa offerente, sorteggiata a campione per il controllo in ordine al possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, è tenuta ad ottemperare alla richiesta della stazione appaltante, ha natura perentoria, e che le sanzioni conseguenti alla sua inosservanza non vanno applicate solo in caso di comprovata impossibilità per l'impresa di produrre la documentazione non rientrante nella sua disponibilità.
La funzione della disposizione e quindi del termine ivi previsto è quella di assicurare il regolare e rapido espletamento della procedura e la tempestiva liquidazione dei danni prodotti dalla alterazione della stessa a causa della mancanza di requisiti da parte di uno dei concorrenti.
L'esclusione dalla gara, derivante dall’inosservanza del termine così stabilito, rientra fra le cause di esclusione previste direttamente dalla legge e quindi non incorre nelle ipotesi di nullità previste dal comma 1-bis dell’art. 46 del Codice dei Contratti.
L’eventuale concessione della proroga del termine di cui sopra può eventualmente essere concessa dalla stazione appaltante con atto motivato, laddove l'impresa richiedente comprovi un impedimento a rispettare il termine, che non sia meramente soggettivo (ad es. disfunzioni organizzative interne all'impresa), ma che evidenzi un'oggettiva impossibilità ad osservarlo (ad es. diniego o ritardo nel rilascio della richiesta documentazione da parte della p.a.), purché la richiesta di proroga venga presentata prima della scadenza del termine, ché, diversamente, le imprese diverrebbero arbitre di dettare il corso temporale del procedimento di verifica e potrebbero procrastinare ad libitum il tempo stabilito per il verificarsi dell'effetto preclusivo voluto dalla legge a garanzia del celere e trasparente svolgimento della gara nel rispetto della par condicio dei concorrenti.
Il termine di 10 giorni non risulta eccessivamente breve, rientrando invero nella normale diligenza di ciascuna impresa partecipante di attivarsi tempestivamente per procurarsi tutti gli opportuni documenti onde poterli esibire per tempo ove, dopo il sorteggio, sopravvenga la richiesta della stazione appaltante.
Risulta legittima, per violazione del termine di cui al primo comma art. 48 dlgs 163/2006, la disposta esclusione della ricorrente dalla gara, con tutte le conseguenze da ciò derivanti (incameramento cauzione e segnalazione all’Autorità di Vigilanza), così come prescritte dalla norma.

- condiviso l’orientamento interpretativo secondo il quale, in linea di diritto, nell'esegesi della disposizione contenuta nell'art. 48, comma 1, d.lgs. n. 163/2006 -corrispondente al pregresso art. 10, comma 1-quater, l. n. 109/1994- è ormai principio consolidato che il termine di 10 giorni, entro il quale l'impresa offerente, sorteggiata a campione per il controllo in ordine al possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, è tenuta ad ottemperare alla richiesta della stazione appaltante, ha natura perentoria, e che le sanzioni conseguenti alla sua inosservanza non vanno applicate solo in caso di comprovata impossibilità per l'impresa di produrre la documentazione non rientrante nella sua disponibilità (v., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 15.06.2009, n. 3804);
- che detta conclusione è stata recentemente avvalorata dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 211 del 13.07.2011, la quale, nel pronunciarsi in ordine alla legittimità costituzionale della norma citata, ha ribadito che la funzione della disposizione e quindi del termine ivi previsto è quella di assicurare il regolare e rapido espletamento della procedura e la tempestiva liquidazione dei danni prodotti dalla alterazione della stessa a causa della mancanza di requisiti da parte di uno dei concorrenti;
- ritenuto che la disposta esclusione, derivante dall’inosservanza del termine così stabilito, rientri fra le cause di esclusione previste direttamente dalla legge e quindi non incorra nelle ipotesi di nullità previste dal comma 1-bis dell’art. 46 del Codice dei Contratti;
- ritenuto, proprio in considerazione delle argomentazioni difensive dedotte da parte ricorrente circa le ragioni del ritardo, che l’eventuale concessione della proroga del termine possa eventualmente essere concessa dalla stazione appaltante con atto motivato, laddove l'impresa richiedente comprovi un impedimento a rispettare il termine, che non sia meramente soggettivo (ad es. disfunzioni organizzative interne all'impresa), ma che evidenzi un'oggettiva impossibilità ad osservarlo (ad es. diniego o ritardo nel rilascio della richiesta documentazione da parte della p.a.; v., oltre alla decisione sopra citata, C.d.S., Sez. IV, 06.06.2001, n. 3066; C.d.S., Sez. V, 15.05.2001, n. 2714), purché la richiesta di proroga venga presentata prima della scadenza del termine, ché, diversamente, le imprese diverrebbero arbitre di dettare il corso temporale del procedimento di verifica e potrebbero procrastinare ad libitum il tempo stabilito per il verificarsi dell'effetto preclusivo voluto dalla legge a garanzia del celere e trasparente svolgimento della gara nel rispetto della par condicio dei concorrenti;
- che una richiesta in tal senso non è stata presentata dalla ricorrente;
- ritenuto che il termine di 10 giorni non risulta eccessivamente breve, rientrando invero nella normale diligenza di ciascuna impresa partecipante di attivarsi tempestivamente per procurarsi tutti gli opportuni documenti onde poterli esibire per tempo ove, dopo il sorteggio, sopravvenga la richiesta della stazione appaltante (v. oltre a C.d.S. n. 3804/2009 cit., C.d.S., Sez. VI, 18.05.2001, n. 2780);
- osservato che proprio sul punto lo stesso bando (pag. 12) aveva sollecitato i concorrenti (senza comunque obbligarli, a pena di esclusione), al fine di agevolare e accelerare le procedure di verifica dei requisiti speciali, a presentare sin da subito la prescritta documentazione di comprova, inserendo tale documentazione nella busta A;
- che, pertanto, era evidente la rilevanza del tempestivo adempimento e quindi l’onere che gravava su tutti i concorrenti di predisporre la documentazione richiesta in modo tale da adempiere entro il termine assegnato all’obbligo di comprova dei requisiti;
- per detti motivi il ricorso deve essere respinto, risultando legittima, per violazione del termine di cui al primo comma art. 48, la disposta esclusione della ricorrente dalla gara, con tutte le conseguenze da ciò derivanti (incameramento cauzione e segnalazione all’Autorità di Vigilanza), così come prescritte dalla norma (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 31.01.2012 n. 100 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONEL’art. 42-bis, VIII comma, del DPR n. 327/2001 prevede che l’istituto dell’acquisizione sanante ivi disciplinato trova applicazione anche ai fatti anteriori all’entrata in vigore della norma ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente annullato, previa, comunque, rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione (da effettuarsi da parte dell’organo competente ex lege) e condizionatamente, altresì, alla corresponsione al proprietario di un indennizzo per i pregiudizi patrimoniale e non patrimoniale determinati, il primo “in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità”, ed il secondo in misura forfetaria pari al dieci per cento del valore venale del bene; oltre al risarcimento del danno per l’occupazione abusiva da liquidarsi nella misura del cinque per cento sempre in relazione al valore venale del bene.
Ai fini del computo del “valore venale del bene” deve aversi riguardo ai criteri indicati dal medesimo DPR n. 327/2001, il quale stabilisce che nell'ipotesi di espropriazione di un’area non edificabile coltivata (come quella di specie) l’indennità è determinata in relazione al valore agricolo del terreno tenendo conto delle colture effettivamente praticate (art. 40, I comma), a cui va aggiunta un’indennità per il fittavolo pari a quella spettante al proprietario (art. 42).
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E' illegittima, per violazione dell’art. 42, II comma, lett. l), del DLgs n. 267/2000, la delibera di Giunta Comunale con cui è stata rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione delle aree di cui è causa: il Consiglio comunale, infatti, è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale che si traducono in atti fondamentali di natura programmatoria o aventi elevato contenuto di indirizzo politico, tassativamente elencati, mentre la Giunta ha una competenza residuale in quanto compie tutti gli atti non riservati dalla legge al Consiglio o non ricadenti nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del Sindaco o di altri organi.
In quest'ottica, pertanto, va affermata la competenza del Consiglio comunale, e non della Giunta, in materia di alienazioni ed acquisiti immobiliari, giusta, altresì, la puntuale determinazione contenuta nel richiamato art. 42, II comma, lett. l), del DLgs n. 267/2000.

... considerato:
- che, pregiudizialmente, il collegio non ritiene di condividere l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 42-bis del DPR n. 327/2001, atteso che i principi comunitari impongono che i modi di acquisto della proprietà siano previsti –e nel nostro ordinamento sono previsti– dalla legge e che il proprietario espropriato sia congruamente risarcito;
- che, in punto di diritto, va premesso che l’art. 42-bis, VIII comma, del DPR n. 327/2001 prevede che l’istituto dell’acquisizione sanante ivi disciplinato trova applicazione anche ai fatti anteriori all’entrata in vigore della norma ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente annullato, previa, comunque, rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione (da effettuarsi da parte dell’organo competente ex lege) e condizionatamente, altresì, alla corresponsione al proprietario di un indennizzo per i pregiudizi patrimoniale e non patrimoniale determinati, il primo “in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità”, ed il secondo in misura forfetaria pari al dieci per cento del valore venale del bene; oltre al risarcimento del danno per l’occupazione abusiva da liquidarsi nella misura del cinque per cento sempre in relazione al valore venale del bene;
- che ai fini del computo del “valore venale del bene” deve aversi riguardo ai criteri indicati dal medesimo DPR n. 327/2001, il quale stabilisce che nell'ipotesi di espropriazione di un’area non edificabile coltivata (come quella di specie) l’indennità è determinata in relazione al valore agricolo del terreno tenendo conto delle colture effettivamente praticate (art. 40, I comma), a cui va aggiunta un’indennità per il fittavolo pari a quella spettante al proprietario (art. 42);
- che nel determinare gli importi dovuti a titolo indennitario e risarcitorio per la disposta acquisizione l’impugnato provvedimento appare rispettoso delle prescrizioni commisuratorie individuate dal predetto art. 42-bis del DPR n. 327/2001 con riguardo al valore dei beni abusivamente utilizzati dal Comune di Colognola ai Colli, fatta eccezione per l’indennità aggiuntiva dovuta al fittavolo, di cui non pare essersi tenuto conto;
- che, nel merito, è fondato il motivo di censura con cui i ricorrenti denunciano l’illegittimità, per violazione dell’art. 42, II comma, lett. l), del DLgs n. 267/2000, della delibera giuntale n. 113/2011 con cui è stata rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione delle aree di cui è causa: il Consiglio comunale, infatti, è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale che si traducono in atti fondamentali di natura programmatoria o aventi elevato contenuto di indirizzo politico, tassativamente elencati, mentre la Giunta ha una competenza residuale in quanto compie tutti gli atti non riservati dalla legge al Consiglio o non ricadenti nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del Sindaco o di altri organi.
In quest'ottica, pertanto, va affermata la competenza del Consiglio comunale, e non della Giunta, in materia di alienazioni ed acquisiti immobiliari, giusta, altresì, la puntuale determinazione contenuta nel richiamato art. 42, II comma, lett. l), del DLgs n. 267/2000: con correlata illegittimità derivata del consequenziale provvedimento dirigenziale, analogamente impugnato (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 31.01.2012 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di un pergolato mediante una solida struttura in legno di dimensioni non trascurabili, che fa desumere una permanenza prolungata nel tempo del manufatto stesso e delle utilità che esso è destinato ad arrecare, comportando una trasformazione edilizia del territorio, dev’essere qualificata come intervento di nuova costruzione, che necessita di concessione edilizia.
Per costante giurisprudenza, la realizzazione di un pergolato mediante una solida struttura in legno di dimensioni non trascurabili, che fa desumere una permanenza prolungata nel tempo del manufatto stesso e delle utilità che esso è destinato ad arrecare, comportando una trasformazione edilizia del territorio, dev’essere qualificata come intervento di nuova costruzione, che necessita di concessione edilizia (Cons. di St., IV, 02.10.2008, n. 4793; TAR Campania-Napoli, IV, 25.03.2011, n. 1746; TAR Emilia Romagna, II, 19.01.2011, n. 36).
Né può ritenersi che l’opera in questione fosse soggetta al regime autorizzatorio di cui all’art. 7, comma 2, lett. a), del D.L. 23.01.1982, n. 9 (conv. in L. 25.03.1982, n. 94), vuoi perché non conforme alle prescrizioni dello strumento urbanistico allora vigente (che classifica l’area come verde di salvaguardia inedificabile, cfr. art. 25 allegato alla domanda di sanatoria), vuoi perché ricadente in area sottoposta a vincolo dalla legge 29.06.1939, n. 1497 (cfr. l’autorizzazione regionale di cui al doc. 4 delle produzioni 14.11.1996), vuoi, infine, perché il rapporto di pertinenzialità è predicabile soltanto rispetto ad un edificio, non già –secondo la tesi esposta in ricorso- rispetto ad un fondo rustico (cfr. TAR Liguria, I, 23.05.2011, n. 812).
Ed è appena il caso di osservare che la mancata sussumibilità dell’intervento nell’ambito delle opere pertinenziali soggette ad autorizzazione gratuita lo fa ricadere automaticamente nell’ambito di quelle soggette a concessione edilizia.
Ne consegue l’infondatezza delle censure dedotte avverso il diniego di sanatoria ex art. 13 L. n. 47/1985, legittimamente emesso nei confronti di un intervento non conforme alla vigente normativa di zona del P.R.G..
Ne consegue altresì l’infondatezza delle censure mosse avverso l’ordine di demolizione ex art. 7 L. n. 47/1985, legittimamente emesso per sanzionare l’esecuzione di opere in assenza di concessione edilizia (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 27.01.2012 n. 195 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini del conseguimento della sanatoria, “si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente”.
Ciò posto, si osserva che le opere interne abusive, per essere complete, debbono risultare tali da permettere l'uso in relazione alla funzione cui sono destinate e quindi contenere tutti gli elementi essenziali alla loro destinazione d'uso.
Le disposizioni di cui al D.M. 05.07.1975 integrano una normativa di rango primario in virtù del rinvio disposto dall’art. 218 del R.D. 27.7.1934, n. 1265, e pertanto, diversamente dalle disposizioni integrative e supplementari portate dai regolamenti comunali di igiene (espressione di esigenze locali e comunque non attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate), sono inderogabili –ex art. 35, comma 20, L. n. 47/1985- anche in sede di rilascio del certificato di abitabilità a seguito del condono.

Con ricorso notificato in data 07.11.2008 la signora ... ha impugnato il provvedimento 18.08.2008 prot. 20561, con il quale il comune di Finale Ligure ha respinto la domanda di condono edilizio ai sensi dell’art. 32 D.L. 30.09.2003, n. 269 volta al cambio di destinazione d’uso di un prefabbricato in lamiera in località Monte, già condonato come magazzino e da destinare ad abitazione, con la motivazione che gli interventi trasformativi oggetto di sanatoria non risulta conferiscano all’opera le caratteristiche minime indispensabili affinché possa essere adibita ad uso abitativo.
...
Il ricorso è infondato.
Innanzitutto, non può dirsi formato il silenzio assenso sull’istanza di sanatoria (primo motivo).
Si tratta infatti di intervento in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, sicché il termine di ventiquattro mesi per la formazione del silenzio assenso decorre –ex art. 31, comma 19, L. n. 47/1985- dall’emissione del parere favorevole dell’amministrazione preposta alla tutela del vincolo.
Nel caso di specie, non è dedotta né provata l’emissione del parere favorevole dell’amministrazione comunale.
Quanto al secondo ed al terzo motivo di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente attesa la loro connessione logica, giova richiamare l’art. 31, comma 2, della legge 28.02.1985, n. 47 (applicabile anche all’ultimo condono edilizio), a mente del quale, ai fini del conseguimento della sanatoria, “si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente”.
Ciò posto, si osserva che, per costante giurisprudenza, le opere interne abusive, per essere complete, debbono risultare tali da permettere l'uso in relazione alla funzione cui sono destinate e quindi contenere tutti gli elementi essenziali alla loro destinazione d'uso (cfr. Cons. di St., V, 21.06.2007, n. 3315; id., 08.05.2007, n. 2120; TAR Campania-Napoli, IV, 06.04.2011, n. 1928).
Nel caso di specie, non è contestabile che il manufatto in questione non presenti le caratteristiche necessarie e sufficienti per assolvere alla destinazione d’uso abitativa, difettando dell’altezza minima interna e di una superficie minima non inferiore a mq. 28, requisiti stabiliti dall’art. 3 del D.M. 05.07.1975, emanato in esecuzione dell’art. 218 del R.D. 27.07.1934, n. 1265 (testo unico delle leggi sanitarie).
Del resto, le disposizioni di cui al D.M. 05.07.1975 integrano una normativa di rango primario in virtù del rinvio disposto dall’art. 218 del R.D. 27.7.1934, n. 1265, e pertanto, diversamente dalle disposizioni integrative e supplementari portate dai regolamenti comunali di igiene (espressione di esigenze locali e comunque non attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate), sono inderogabili –ex art. 35, comma 20, L. n. 47/1985- anche in sede di rilascio del certificato di abitabilità a seguito del condono (cfr. Cons. di St., IV, 03.05.2011, n. 2620).
Sicché, nel caso di specie, qualora il comune avesse concesso la sanatoria straordinaria, avrebbe comunque dovuto successivamente negare l’abitabilità del manufatto (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 27.01.2012 n. 194 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn zona paesaggisticamente vincolata, è illegittimo il diniego vincolante espresso dalla Soprintendenza (per la messa in opera di pannelli fotovoltaici integrati nella falda di tetto) poiché appare viziato da travisamento e difetto di motivazione ed è evidentemente fondato sul postulato che la presenza dei pannelli fotovoltaici costituisca comunque un degrado per l’ambiente circostante, quale che siano la modalità di installazione e le loro dimensioni: ciò che, viceversa, secondo ragionevolezza ed esperienza, non si può affermare per la gran parte degli stessi –ormai diffusamente presenti sul territorio, e largamente incentivati dalle leggi statali e regionali– e comunque per l’impianto de quo.
I Sigg. ... sono proprietari di una villetta d’abitazione monofamiliare a Colfosco di Susegana (Treviso), in un’area residenziale, nella quale è presente un cospicuo numero di altre costruzioni consimili, e che è soggetta a vincolo paesaggistico, istituito con d.m. 06.11.1965, e relativo alla zona che circonda il castello di Collalto.
I consorti ... hanno deciso d’installare dei pannelli fotovoltaici, integrati con il tetto dell’abitazione, ed hanno perciò richiesto una prima autorizzazione paesaggistica, sulla quale si è pronunciata negativamente la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso con parere 07.04.2011, prot. n. 9306, assumendo che l’intervento sarebbe stato incompatibile con i valori paesaggistici tutelati.
Ne è seguito il provvedimento 12.05.2011, prot. n. 7816, a firma del responsabile del procedimento dell'Area IV - gestione del territorio del Comune di Susegana, con il quale è stata comunicata la determinazione definitiva di diniego sull'istanza di autorizzazione paesaggistica: atto che, insieme al parere, è stato impugnato con il ricorso principale in esame.
...
Il parere sfavorevole e vincolante della Soprintendenza appare viziato da travisamento e difetto di motivazione ed è evidentemente fondato –come osservato dai ricorrenti- sul postulato che la presenza dei pannelli fotovoltaici costituisca comunque un degrado per l’ambiente circostante, quale che siano la modalità di installazione e le loro dimensioni: ciò che, viceversa, secondo ragionevolezza ed esperienza, non si può affermare per la gran parte degli stessi –ormai diffusamente presenti sul territorio, e largamente incentivati dalle leggi statali e regionali– e comunque per l’impianto de quo.
Infatti, nel secondo progetto, i pannelli fotovoltaici costituiscono l’omogenea copertura di una sola falda del tetto –con cui fanno dunque corpo– della costruzione, la quale a sua volta appartiene alla tipologie delle villette unifamiliari su due piani, di recente e normale fattura, posta al lato di una strada totalmente urbanizzata (dove si contano decine di costruzioni consimili) e non lontana da una scuola e da una chiesa: la stessa Soprintendenza, del resto, riconosce che è fuori del nucleo abitato in cui si trova la costruzione interessata che il sito assume connotati di rara bellezza naturalistica.
Affermare che un simile intervento possa alterare il panorama della zona non pare ragionevolmente sostenibile, considerato che il Castello di Collalto, ragione e perno del vincolo, si trova a chilometri di distanza: la presenza dei pannelli fotovoltaici appoggiati sul tetto di una qualsiasi abitazione, e formanti corpo con esso, è insignificante in un siffatto contesto, tanto più considerata l’ampia ed acquisita presenza sul territorio regionale di impianti simili, di contenute analoghe dimensioni, tali da essere ormai divenuti un elemento architettonico sostanzialmente insignificante.
In altri termini, non s’intende affermare che, nello specifico contesto, quei pannelli non aggravano un ipotetico preesistente degrado, ma invece che gli stessi si pongono come un intervento che non altera il contesto perché, in concreto, non lo trasforma.
I pareri 19.07.2011 prot. n. 20050 e 30.08.2011 prot. 23631, della Soprintendenza ed il provvedimento 21.09.2011, prot. n. 15701 del Comune di Susegana vanno dunque annullati.
Per effetto dell’annullamento giurisdizionale, che, stante l'originaria illegittimità dell'atto amministrativo, produce i suoi effetti ex tunc, si deve ritenere definitivamente consumato il potere della Soprintendenza di ripronunciare un ulteriore parere, in conformità al disposto di cui all’art. 146, comma V segg, del d. lgs. 42/2004: su tale fondamento il Comune dovrà riprovvedere sull’autorizzazione paesaggistica richiesta (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.01.2012 n. 48 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 31, comma 2, della legge n. 47/1985 -richiamato dall'art. 39 della legge n. 724/1994 e poi dalla legge n. 326/2003- stabilisce che, ai fini dell'applicazione delle regole sul condono, "si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente".
La norma citata introduce -in alternativa al criterio dell'esecuzione al rustico e completamento della copertura dell'edificio- il parametro del completamento funzionale dell'opera: per i mutamenti di destinazione d' uso di edifici residenziali è condonabile la struttura in cui le opere, pur se non perfette nelle finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi strutturali con le caratteristiche necessarie e sufficienti ad assolvere alla funzione cui sono destinate. Il criterio del "completamento funzionale" anticipa, quindi, la data di ultimazione delle opere ai fini dell'ammissione al condono, per cui un intervento non ancora completato può tuttavia essere giudicato sanabile dal punto di vista funzionale.
Ne discende, quindi, che entro il termine stabilito dalla legge, anche se le attività edilizie siano ancora in corso, l'immobile deve essere già fornito degli elementi indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello assentito -in modo tale da risultare incompatibile con l'originaria destinazione- pur se non siano stati ancora realizzati gli impianti e le rifiniture di carattere complementare ed accessorio.
L’onere della prova circa la data di realizzazione dell’immobile abusivo (o anche della attività edilizia abusiva da sanare) spetta a colui che ha commesso l’abuso e solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi, che non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce il suddetto onere in capo all’Amministrazione.
La pubblica amministrazione non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell’intero suo territorio a quella data prevista dalla legge, mentre il privato, che propone l’istanza di sanatoria, è normalmente in grado di fornire idonea documentazione che comprovi l’ultimazione dell’abuso entro la data di riferimento, vale a dire nel caso di specie il 31.03.2003, spettando a costui l’onere di fornire quantomeno un principio di prova su tale ultimazione e in caso contrario restando integro il potere di non concedere il condono e di irrogare la sanzione prescritta.

Orbene, l'art. 31, comma 2, della legge n. 47/1985 -richiamato dall'art. 39 della legge n. 724/1994 e poi dalla legge n. 326/2003- stabilisce che, ai fini dell'applicazione delle regole sul condono, "si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente".
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa in tema di ultimazione delle opere condonabili, dal quale il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, la norma citata introduce -in alternativa al criterio dell'esecuzione al rustico e completamento della copertura dell'edificio- il parametro del completamento funzionale dell'opera: per i mutamenti di destinazione d' uso di edifici residenziali è condonabile la struttura in cui le opere, pur se non perfette nelle finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi strutturali con le caratteristiche necessarie e sufficienti ad assolvere alla funzione cui sono destinate. Il criterio del "completamento funzionale" anticipa, quindi, la data di ultimazione delle opere ai fini dell'ammissione al condono, per cui un intervento non ancora completato può tuttavia essere giudicato sanabile dal punto di vista funzionale (cfr. TAR Liguria, sez. I, 06.05.2010 n. 2295).
Ne discende, quindi, che entro il termine stabilito dalla legge, anche se le attività edilizie siano ancora in corso, l'immobile deve essere già fornito degli elementi indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello assentito -in modo tale da risultare incompatibile con l'originaria destinazione (cfr. TAR Abruzzo Pescara, 22.10.2007 n. 837)- pur se non siano stati ancora realizzati gli impianti e le rifiniture di carattere complementare ed accessorio (cfr. TAR Veneto, sez. II, 28.05.2008 n. 1631).
Costituisce, infine, principio consolidato della giurisprudenza che l’onere della prova circa la data di realizzazione dell’immobile abusivo (o anche della attività edilizia abusiva da sanare) spetti a colui che ha commesso l’abuso e solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi, che non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni, trasferisce il suddetto onere in capo all’Amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 13.01.2010, n. 45; Consiglio di Stato, V, 09.11.2009, n.6984).
E, infatti, la pubblica amministrazione non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell’intero suo territorio a quella data prevista dalla legge, mentre il privato, che propone l’istanza di sanatoria, è normalmente in grado di fornire idonea documentazione che comprovi l’ultimazione dell’abuso entro la data di riferimento, vale a dire nel caso di specie il 31.03.2003, spettando a costui l’onere di fornire quantomeno un principio di prova su tale ultimazione e in caso contrario restando integro il potere di non concedere il condono e di irrogare la sanzione prescritta (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.01.2012 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa controversia derivante dall’impugnazione di un permesso di costruire da parte del vicino che lamenti la violazione delle distanze legali costituisce una disputa non già tra privati ma tra privato e pubblica amministrazione, nella quale la posizione del primo si atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo.
La controversia derivante dall’impugnazione di un permesso di costruire da parte del vicino che lamenti la violazione delle distanze legali costituisce una disputa non già tra privati ma tra privato e pubblica amministrazione, nella quale la posizione del primo si atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2011, n. 678)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.01.2012 n. 43 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel caso in cui dopo il rilascio della concessione edilizia sopravvengono nuove norme sulla distanze tra gli edifici, o sulla loro volumetria od altezza, il costruttore deve conformarsi allo "ius superveniens", salvo che la costruzione sia già iniziata, perché in tal caso, se la nuova disciplina è più restrittiva della precedente, non può esplicare efficacia retroattiva su situazioni consolidatesi.
Posto, infatti, che i requisiti di legittimità di una concessione edilizia devono essere accertati al momento del suo rilascio, l'adozione di un nuovo piano regolatore non ha rilevanza alcuna ai fini dell'annullamento delle concessioni validamente rilasciate anteriormente (art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale).
In particolare, in materia, vige il principio secondo il quale nel caso in cui dopo la concessione edilizia sopravvengono nuove norme sulla distanze tra gli edifici, o sulla loro volumetria od altezza, il costruttore deve conformarsi allo "ius superveniens", salvo che la costruzione sia già iniziata, perché in tal caso, se la nuova disciplina è più restrittiva della precedente, non può esplicare efficacia retroattiva su situazioni consolidatesi (cfr. TAR Sicilia Palermo, sez. II, 13.05.2003, n. 781; Cass. Civ., Sez. II, 04.08.1997 n. 7185; Cass. Civ., sez. II, 04.08.1988 n. 4838)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.01.2012 n. 43 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di interventi in assenza o in difformità dalla D.I.A. comporta l’irrogazione della sola sanzione pecuniaria e non di quella ripristinatoria.
... appare allora fondata la dedotta violazione dell’art. 37 del d.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale la realizzazione di interventi in assenza o in difformità dalla D.I.A. comporta l’irrogazione della sola sanzione pecuniaria e non di quella ripristinatoria.
E, infatti, non può essere considerata applicabile la disposta sanzione demolitoria, la quale si riferisce, al massimo (per effetto del richiamo contenuto nell'art. 33 cit., comma 6-bis, all'art. 22, comma 3, e quindi all'articolo 10, comma primo, lett. c, dello stesso D.P.R.) agli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino aumento di unità immobiliari, ovvero modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici (e, quindi, per quanto sopra, ad interventi diversi da quello realizzato nel caso di specie).
Poiché, invece, nella specie, si tratta tutt’al più di intervento eseguito in assenza di denuncia di inizio attività, la sanzione applicabile è quella pecuniaria di cui al citato art. 37 (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. IV, 05.05.2011 , n. 2528) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.01.2012 n. 42 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa nozione di interesse giuridicamente rilevante ai sensi dell’art. 22 della legge n. 241/1990 si configura come il complesso di situazioni soggettive che, più che fornire utilità finali, risultano caratterizzate per il fatto di offrire al titolare dell’interesse poteri di natura procedimentale, volti in senso strumentale alla tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere con l’esercizio di pubbliche funzioni.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, la nozione di interesse giuridicamente rilevante ai sensi dell’art. 22 della legge n. 241/1990 si configura come il complesso di situazioni soggettive che, più che fornire utilità finali, risultano caratterizzate per il fatto di offrire al titolare dell’interesse poteri di natura procedimentale, volti in senso strumentale alla tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, che vengano a collidere con l’esercizio di pubbliche funzioni (cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 16.11.2011, n. 846; Cons. Stato, V, 14.02.2011, n. 942) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.01.2012 n. 41 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’art. 22 della legge n. 241/1990 riconosce il diritto di accesso in capo a “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
Non è, dunque, sufficiente il generico e indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa: la legittimazione all’accesso presuppone la sussistenza di una posizione differenziata e la titolarità di una situazione giuridicamente rilevante, che significa non titolarità di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo (ossia di posizioni giuridiche soggettive piene e fondate), ma di una posizione giuridica soggettiva allo stato anche meramente potenziale.
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L'accesso ai documenti amministrativi è condizionato ad una apposita domanda presentata dal soggetto interessato, recante l’indicazione del documento di cui egli chiede di prendere visione ed eventualmente di estrarre copia, della ragione sottesa all'istanza ed indirizzata all'organo pubblico che detto documento detiene.
L'onere di specificazione dei documenti per i quali si esercita il diritto di acceso non implica la formale indicazione di tutti gli estremi identificativi (organo emanante, numero di protocollo, data di adozione dell'atto), ma deve ritenersi assolto anche solo con l'indicazione dell'oggetto e dello scopo proprio dell'atto in questione ove, nei singoli casi di specie, risulti formulata in modo tale da mettere l'Amministrazione in condizione di comprendere la portata ed il contenuto della domanda.

Occorre, innanzitutto, premettere che l’art. 22 della legge n. 241/1990 riconosce il diritto di accesso in capo a “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
Non è, dunque, sufficiente il generico e indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa: la legittimazione all’accesso presuppone la sussistenza di una posizione differenziata e la titolarità di una situazione giuridicamente rilevante, che significa non titolarità di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo (ossia di posizioni giuridiche soggettive piene e fondate), ma di una posizione giuridica soggettiva allo stato anche meramente potenziale (cfr. Cons. Stato, V, 07.09.2004, n. 5873; Cons. Stato, V, 10.08.2007, n. 4411; Cons. Stato, VI, 09.02.2009, n. 737).
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L'accesso ai documenti amministrativi è condizionato ad una apposita domanda presentata dal soggetto interessato, recante l’indicazione del documento di cui egli chiede di prendere visione ed eventualmente di estrarre copia, della ragione sottesa all'istanza ed indirizzata all'organo pubblico che detto documento detiene.
Tanto premesso va, però, evidenziato che, secondo l’orientamento della giurisprudenza condiviso dal Collegio, l'onere di specificazione dei documenti per i quali si esercita il diritto di acceso non implica la formale indicazione di tutti gli estremi identificativi (organo emanante, numero di protocollo, data di adozione dell'atto), ma deve ritenersi assolto anche solo con l'indicazione dell'oggetto e dello scopo proprio dell'atto in questione ove, nei singoli casi di specie, risulti formulata in modo tale da mettere l'Amministrazione in condizione di comprendere la portata ed il contenuto della domanda (cfr. Cons. Stato, VI, 27.10.2006 n. 6441; TAR Lazio, III, 16.06.2006 n. 4667)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.01.2012 n. 40 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' illegittimo il parere contrario reso dalla Soprintendenza in quanto formulato senza chiarire in che modo specifico un intervento caratterizzato da vetrate trasparenti, prive di strutture e profili verticali e ancorate esclusivamente al soffitto con un profilo in alluminio di 4 cm, sia “una superfetazione incongrua, particolarmente visibile dal fronte mare”, e quale dovrebbe essere il valore formale e architettonico che lo stesso dovrebbe presentare per poter risultare compatibile con l'imposto vincolo. Tali considerazioni risultano vieppiù rafforzate dall’assenza di qualsiasi valutazione da parte dell’Amministrazione del fatto che l’opera progettata prevede l’uso di materiale già utilizzato nel medesimo edificio per la tamponatura della sovrastante terrazza.
Anzi, a ben guardare, per giustificare il parere contrario sarebbe stata necessaria da parte della Soprintendenza una compiuta confutazione sul piano oggettivo del diverso opinare degli organi comunali –che hanno ritenuto la conformità dell’intervento alle disposizioni urbanistiche vigenti- con specifica e puntuale indicazione degli aspetti progettuali in contrasto con il contenuto del vincolo.

La Soprintendenza basa il parere contrario all’intervento sulla non conformità dello stesso con le disposizioni di cui al D.M. 05.05.1959 e con il vincolo generalizzato ex art. 142, comma 1, lettera a), del D.lgs. 42/2004, nonché sulla valutazione dell’erigenda struttura come una “superfetazione incongrua particolarmente visibile dal fronte mare, che trasforma il porticato libero aperto in un volume chiuso, alterando la facciata dell’edificio”, tipico esempio di architettura del dopoguerra “connotato dalla presenza di ampi spazi aperti a terrazza e porticati che ne garantiscono un buon inserimento nel contesto paesaggistico del litorale”.
Orbene, ad avviso del Collegio, l'argomentazione utilizzata dalla Soprintendenza per giustificare il parere contrario risulta anodina e apodittica, in quanto è stata formulata senza chiarire in che modo specifico un intervento caratterizzato da vetrate trasparenti, prive di strutture e profili verticali e ancorate esclusivamente al soffitto con un profilo in alluminio di 4 cm, sia “una superfetazione incongrua, particolarmente visibile dal fronte mare”, e quale dovrebbe essere il valore formale e architettonico che lo stesso dovrebbe presentare per poter risultare compatibile con l'imposto vincolo. Tali considerazioni risultano vieppiù rafforzate dall’assenza di qualsiasi valutazione da parte dell’Amministrazione del fatto che l’opera progettata prevede l’uso di materiale già utilizzato nel medesimo edificio per la tamponatura della sovrastante terrazza.
Anzi, a ben guardare, per giustificare il parere contrario sarebbe stata necessaria da parte della Soprintendenza una compiuta confutazione sul piano oggettivo del diverso opinare degli organi comunali –che hanno ritenuto la conformità dell’intervento alle disposizioni urbanistiche vigenti- con specifica e puntuale indicazione degli aspetti progettuali in contrasto con il contenuto del vincolo (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VII, 24.11.2010, n. 25733) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.01.2012 n. 39 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUn vincolo diretto esteso ad un’area tanto vasta da doversene indicare gli estremi con riferimento all’intero foglio di mappa catastale, deve basarsi su fatti concreti e presupposti specifici e deve, altresì, evidenziare nella motivazione sia gli elementi di fatto assunti alla base del giudizio di “importante interesse” che giustifica il vincolo sia il tipo di interesse pubblico perseguito e la necessità o l’adeguatezza del mezzo prescelto rispetto alla finalità di tutela di tale interesse.
L'obbligo della motivazione del provvedimento d'imposizione di vincolo diretto su beni di rilevante interesse storico culturale obbedisce all'esigenza di limitare entro il necessario il sacrificio imposto ai privati proprietari, sicché dalla motivazione deve risultare la correlazione tra estensione del bene tutelato ed estensione degli immobili vincolati.

Come evidenziato anche dal giudice d’appello, infatti, un vincolo diretto esteso ad un’area tanto vasta da doversene indicare gli estremi con riferimento all’intero foglio di mappa catastale, deve basarsi su fatti concreti e presupposti specifici e deve, altresì, evidenziare nella motivazione sia gli elementi di fatto assunti alla base del giudizio di “importante interesse” che giustifica il vincolo sia il tipo di interesse pubblico perseguito e la necessità o l’adeguatezza del mezzo prescelto rispetto alla finalità di tutela di tale interesse (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 05.10.1984, n. 553).
Il Collegio osserva, altresì, che l'obbligo della motivazione del provvedimento d'imposizione di vincolo diretto su beni di rilevante interesse storico culturale obbedisce all'esigenza di limitare entro il necessario il sacrificio imposto ai privati proprietari, sicché dalla motivazione deve risultare la correlazione tra estensione del bene tutelato ed estensione degli immobili vincolati (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.01.2012 n. 38 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’irrogazione della sanzione pecuniaria correlata ad abusi edilizi sanati ai sensi dell’art. 36 sopra citato, costituendo esercizio di un potere autoritativo, va impugnata entro il termine decadenziale, non essendo consentito contestare in un momento successivo l’ammontare richiesto a tale titolo dall’amministrazione al fine di censurare surrettiziamente la condizione presupposta al rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
L’oblazione di cui all’art. 36 del d.p.r. n. 380 del 2001 comprende l’assolvimento sia dell’originario obbligo contributivo sia della sanzione.

Come evidenziato anche dal giudice d’appello, l’irrogazione della sanzione pecuniaria correlata ad abusi edilizi sanati ai sensi dell’art. 36 sopra citato, costituendo esercizio di un potere autoritativo, va impugnata entro il termine decadenziale, non essendo consentito contestare in un momento successivo l’ammontare richiesto a tale titolo dall’amministrazione al fine di censurare surrettiziamente la condizione presupposta al rilascio del permesso di costruire in sanatoria (Cons. St., sez. IV, 19.12.2007, n. 6559).
C
ome affermato dalla consolidata giurisprudenza di questa Sezione, l’oblazione di cui all’art. 36 del d.p.r. n. 380 del 2001 comprende l’assolvimento sia dell’originario obbligo contributivo sia della sanzione (TAR Veneto, sez. II, 08.11.2005, n. 3862) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.01.2012 n. 34 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ente non paga i danni da ritardo. Tar Lazio: serve la lesione patrimoniale.
No al permesso di costruire: il comune sbaglia ma non paga, neppure il danno da ritardo. Il tempo perso dall'ente non è di per sé risarcibile: serve una lesione patrimoniale all'interessato dovuta all'inerzia
Il comune non risarcisce il danno da ritardo, anche se ha sbagliato. E ciò nonostante che il permesso di costruire risulti negato troppo frettolosamente al cittadino interessato, mentre gli uffici dell'ente dovranno tornare a pronunciarsi sull'istanza di natura urbanistica.

È quanto emerge dalla sentenza 24.01.2012 n. 762, pubblicata dalla Sez. II-quater del TAR Lazio-Roma.
Natura controversa. È vero, nell'ordinamento è stato introdotta poco meno di tre anni or sono una fattispecie definita per comodità «danno da ritardo». A farlo è stata la legge 69/2009, quella che ha riformato il processo civile, che ha aggiunto un articolo nuovo di zecca, il 2-bis, alla legge 241/1990 (un istituto «discusso», commentano i giudici amministrativi).
La novella, in ogni caso, stabilisce solo che «le pubbliche amministrazioni» e altri soggetti assimilati «sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento».
In altre parole, il tempo perso dalle amministrazioni non fa scattare di per sé il danno da ritardo: ai fini del risarcimento, infatti, risulta necessario che nella sfera giuridica dell'interessato si verifichi un pregiudizio di natura patrimoniale determinato dalla colpevole inerzia dell'ente, il quale non si cura dell'inutile decorso del tempo.
Amministrazione salva. Il cittadino interessato ottiene l'annullamento del provvedimento amministrativo ma non il risarcimento. Eppure l'ente ha inutilmente insistito sul fatto che agli atti mancano gli elaborati grafici originali allegati alle concessioni edilizie, salvo poi concludere ugualmente per la non conformità della richiesta rispetto alle norme urbanistiche.
Tutte le circostanze dedotte non sono comunque sufficienti a far scattare l'obbligo di risarcimento in capo all'ente: l'interessato lamenta infatti che nel frattempo ha venduto il bene a prezzo meno favorevole, affrontato un mutuo più oneroso e pagato un affitto; si tratta, però, di censure tutte rivolte sullo stato giuridico del cespite, su cui l'amministrazione dovrà nuovamente deliberare (articolo ItaliaOggi dell'11.02.2012).

EDILIZIA PRIVATAL'essere proprietario di un terreno confinante con quello oggetto dei lavori assentiti col provvedimento impugnato è qualità di per sé idonea a dimostrare la sussistenza di una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con la zona coinvolta dai lavori (cd. “vicinitas”) ed a radicare la legittimazione e l’interesse all’impugnazione del titolo edilizio relativo all’immobile limitrofo, senza bisogno di procedere ad ulteriori indagini, in quanto l’eventuale illegittimità dell’atto di assenso è idonea di per sé ad arrecare pregiudizio ai valori urbanistici tutelati dalle previsioni vigenti nella zona.
Con riguardo all’eccepita carenza di prova circa la propria legittimazione attiva, la ricorrente ... ha dimostrato (versando in giudizio l’atto di divisione, stipulato in data 25.09.1981 innanzi al notaio E. Ruocco, n. 693 di repertorio e n. 423 della raccolta, e l’atto di compravendita del 31.05.1993, rogato dallo stesso notaio con n. 1891 di repertorio e n. 344 di raccolta) di essere proprietaria di un terreno (individuato in catasto al foglio 22, particelle 53, 54 e 147) confinante con quello oggetto dei lavori assentiti col provvedimento impugnato (riportato in catasto allo stesso foglio 22, particella 56).
Osserva il Collegio che la suddetta qualità è di per sé idonea a dimostrare la sussistenza di una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con la zona coinvolta dai lavori (cd. “vicinitas”) ed a radicare la legittimazione e l’interesse all’impugnazione del titolo edilizio relativo all’immobile limitrofo, senza bisogno di procedere ad ulteriori indagini, in quanto l’eventuale illegittimità dell’atto di assenso è idonea di per sé ad arrecare pregiudizio ai valori urbanistici tutelati dalle previsioni vigenti nella zona (cfr., per tutte, Consiglio di Stato, Sezione V, 13.07.2000, n. 3904; Sezione IV, 31.05.2007, n. 2849; TAR Campania, Napoli, Sezione II, 07.03.2008, n. 1172) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 20.01.2012 n. 302 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASi ha ristrutturazione edilizia solo in caso di preesistenza di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, e non anche nelle ipotesi di ricostruzione su ruderi di un edificio già da tempo demolito o diruto.
Il concetto di ristrutturazione edilizia comprende anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, purché tale ricostruzione venga effettuata in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della demolizione. Invero, la nozione di ristrutturazione, sebbene ulteriormente estesa per effetto delle disposizioni contenute nell'art. 3 d.P.R. 06.06.2001 n. 380, si distingue pur sempre da quella di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione sia identica per sagoma, volumetria e superficie al fabbricato demolito, per cui essa postula che le due fasi siano temporalmente contestualizzate nell’ambito di un intervento unitario, onde evitare ogni incertezza sulla fedeltà dell’attività ricostruttiva.

Come ribadito dalla costante giurisprudenza, anche di questo Tribunale, si ha ristrutturazione edilizia solo in caso di preesistenza di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, e non anche nelle ipotesi di ricostruzione su ruderi di un edificio già da tempo demolito o diruto (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, 15.04.2004 n. 2142; Sezione IV, 13.10.2010, n. 7476; TAR Campania, Napoli, Sezione II, 11.09.2009 n. 4949; Sezione IV, 23.12.2010 n. 28002 e 15.06.2011 n. 3184; Sezione VI, 09.11.2009 n. 7049).
La giurisprudenza ha, inoltre, evidenziato l’importanza del fattore temporale nel senso che il concetto di ristrutturazione edilizia comprende anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, purché tale ricostruzione venga effettuata in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della demolizione (TAR Campania, Salerno, Sezione II, 21.10.2010 n. 11911). Invero, la nozione di ristrutturazione, sebbene ulteriormente estesa per effetto delle disposizioni contenute nell'art. 3 d.P.R. 06.06.2001 n. 380, si distingue pur sempre da quella di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione sia identica per sagoma, volumetria e superficie al fabbricato demolito, per cui essa postula che le due fasi siano temporalmente contestualizzate nell’ambito di un intervento unitario, onde evitare ogni incertezza sulla fedeltà dell’attività ricostruttiva.
Né rileva che l’abbattimento sia avvenuto sulla base della richiamata ordinanza sindacale, atteso che l’evocata ratio prescinde dalle ragioni che hanno determinato il crollo del manufatto, sussistendo la medesima esigenza di certezza sia quando la demolizione sia avvenuta per volontà del titolare sia quando la rovina sia stata determinata da cause naturali (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, 23.03.2000 n. 1610; 03.07.1996 n. 819), alla quale può essere equiparata la forza maggiore determinata da factum principis.
Non giova al controinteressato neppure il precedente giurisprudenziale (Consiglio di Stato, Sezione V, 11.05.2009 n. 2870) richiamato nell’ultima memoria difensiva, riferito a fattispecie nella quale la demolizione del manufatto primigenio era intervenuta per ragioni di sanità pubblica. Invero, nel caso oggetto della citata decisione, il rispetto della sagoma e del volume preesistenti non erano oggetto di contestazione, sicché il Giudice d’appello ha reputato di non attribuire valenza ostativa al mero lasso temporale intercorso, sussistendo comunque “[…]un’unitaria programmazione della demolizione e della ricostruzione che ne consente la riconduzione al concetto ampio di ristrutturazione abbracciato dal piano di recupero […]”. Invece, nell’odierna fattispecie, la ricorrente ha specificamente contestato la consistenza del preesistente manufatto, così come rappresentata nei documenti allegati all’istanza edificatoria, esibendo perizia tecnica (datata 10.11.2009) sulle sue dimensioni, come desumibili da rilievi aerofotogrammetrici del marzo 1981, tanto che pende procedimento penale dinanzi al Tribunale di Nola per i reati di cui agli artt. 110, 48 e 480 del c.p. e 44, lett. B, del D.P.R. n. 380/2001 (cfr. decreto di sequestro preventivo del 19.01.2010 ed avviso agli indagati ex art. 415-bis del c.p.p. del 20.01.2010).
L’intervento deve considerarsi quindi come nuova costruzione e, in quanto tale, deve essere rispettoso delle previsioni urbanistiche vigenti
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 20.01.2012 n. 302 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa fattispecie di lottizzazione abusiva si riferisce alla mancanza dell’autorizzazione specifica alla lottizzazione, inizialmente prevista dall'art. 28 della legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150 e confermata da tutta la legislazione statale e regionale in tema di pianificazione attuativa, sicché alcun rilievo sanante sull'abuso in questione può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia in quanto, ove manchi la specifica autorizzazione a lottizzare, la lottizzazione abusiva sussiste e deve essere sanzionata anche se, per le singole opere facenti parte di tale lottizzazione, sia stata rilasciata una concessione edilizia.
La stessa formulazione dell'art. 30 del d.P.R. n. 380/2001 consente di affermare che può integrare ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita di adeguamento degli standard.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia" dei terreni deve essere dunque interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà pianificatoria attribuita all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il comune), al fine di garantire un’ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio e uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standard compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Ne consegue che la verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, in ipotesi anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e seguenti d.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire.

Con riguardo alla pretesa insussistenza dei vizi ravvisati dall’atto di annullamento nel permesso di costruire annullato.
“È utile premettere che, secondo il provvedimento impugnato, le opere controverse configurano una lottizzazione abusiva ex art. 30 d.P.R. n. 380/2001, avendo trasformato una zona agricola in residenziale in contrasto con le previsioni del P.T.C.P., che fissa un regime di mantenimento per l’intera zona.
“Orbene, la tesi del ricorrente si sostanzia nell’affermazione per cui, poiché l’intervento è stato realizzato nel rispetto dello strumento urbanistico a seguito di regolare concessione edilizia rilasciata dal comune di Dolcedo, non sussisterebbe l’affermata lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio.
In realtà, le norme sulla lottizzazione abusiva (da ultimo, art. 30 d.P.R. 06.06.2001, n. 380) mirano a prevenire e reprimere le condotte materiali e giuridiche intese a infittire la trama dell’edificato sul territorio, senza che sussista una previa pianificazione capace di tenere conto delle conseguenze dell’edificazione in termini di esigenza di nuovi servizi e opere di urbanizzazione, che il costruttore non ha (e non può avere) adeguatamente riscontrato.
“Dunque, la fattispecie di lottizzazione abusiva si riferisce alla mancanza dell’autorizzazione specifica alla lottizzazione, inizialmente prevista dall'art. 28 della legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150 e confermata da tutta la legislazione statale e regionale in tema di pianificazione attuativa, sicché alcun rilievo sanante sull'abuso in questione può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia in quanto, ove manchi la specifica autorizzazione a lottizzare, la lottizzazione abusiva sussiste e deve essere sanzionata anche se, per le singole opere facenti parte di tale lottizzazione, sia stata rilasciata una concessione edilizia (in tal senso cfr. TAR Campania, Sez. IV, 10.11.2006, n. 9458, che richiama Cons. di Stato, Sez. V, 26.03.1996 n. 301).
“Secondo quanto già più volte affermato in giurisprudenza (cfr. TAR Lazio, Sez. I, 09.10.2009, nn. 9859 e 9860; TAR Puglia-Bari, Sez. III, 24.04.2008, n. 1017), la stessa formulazione dell'art. 30 del d.P.R. n. 380/2001 consente di affermare che può integrare ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita di adeguamento degli standard.
“Il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia" dei terreni deve essere dunque interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà pianificatoria attribuita all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il comune), al fine di garantire un’ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio e uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standard compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
“Ne consegue che la verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, in ipotesi anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e seguenti d.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire (TAR Bari, Sez. III, n. 1017/2008 cit.) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 20.01.2012 n. 160 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se il termine di prescrizione per la riscossione degli oneri concessori decorre dalla data di emanazione del provvedimento, non può ragionevolmente ritenersi che il termine per il pagamento decorra da una data diversa.
L’art. 16 del D.P.R. 380 del 2001 (Contributo per il rilascio del permesso di costruire), che corrisponde agli artt. 3, 5 comma 1 e 6, commi 1, 4 e 5 della legge 28.01.1977, n. 10, dopo aver previsto (comma 1) che “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo”, stabilisce (comma 2) che “la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata…….
La questione dunque si incentra sull’interpretazione dell’espressione “all’atto del rilascio”, che dalla legge è lasciata genericamente vaga, in quanto la disposizione in questione non individua con esattezza se il rilascio (e quindi, il momento di decorrenza del termine per il pagamento degli oneri concessori) coincida col momento della emanazione della concessione edilizia, o con quello della notifica/comunicazione ovvero ancora, come sostenuto dalla ricorrente, dal momento della sua “efficacia”.
Sulla questione il collegio esprime le seguenti considerazioni.
Il termine “rilascio” lo si rinviene anche nell’art. 12 del D.P.R. 380 del 2001 (“Presupposti per il rilascio del permesso di costruire”) e nelle disposizioni successive.
In particolare l’art. 15 del D.P.R. 380/2001 stabilisce al comma 2 che “il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo”, rilascio che, in base all’art. 20, viene fatto coincidere con la sua emanazione, in quanto “il provvedimento finale, che lo sportello unico provvede a notificare all'interessato, e' adottato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio”……
In realtà in giurisprudenza la questione non è pacifica, in quanto, a fronte di un orientamento che nega la recettizietà della concessione, “essendo di per sé idonea a produrre gli effetti suoi propri fin dalla data della sua emanazione indipendentemente dalla comunicazione all'interessato“ (così TAR Liguria, sez. I, 11.03.2003, n. 279), esistono altri orientamenti favorevoli a far coincidere il rilascio con la consegna del provvedimento all’interessato, nelle forme facenti fede, almeno ai fini del decorso del termine di decadenza per l’inizio e l’ultimazione dei lavori (TAR Liguria, sez. I, 17.02.2011, n. 322; TAR Salerno, sez. II, 16.12.2009, n. 7923; TAR Catania, sez. I, 07.04.2009, n. 678).
Il collegio ritiene che questo secondo orientamento sia fortemente influenzato dalla opportunità di evitare al destinatario del provvedimento concessorio di incorrere in una decadenza per un fatto in qualche modo ascrivibile all’amministrazione procedente, in quanto la stessa deve mettere in condizione il privato richiedente di venire a conoscenza del contenuto del provvedimento concessorio, al fine di poter procedere con i lavori entro gli effettivi termini di legge (termini che non sarebbero effettivi se si facessero decorrere dalla data di emanazione della concessione edilizia).
È invece più coerente con il sistema ritenere che determinati effetti automatici del provvedimento, indipendenti dall’apporto del destinatario dello stesso, dipendano dalla data di materiale emissione del provvedimento amministrativo. Tra questi effetti, vi è anche il decorso del termine per il pagamento degli oneri concessori, che sono calcolati dal Comune e collegati direttamente alla venuta in essere del permesso di costruire.
In questo senso la liquidazione dei contributi per oneri concessori discende direttamente e automaticamente dal rilascio della concessione edilizia, la quale si configura quale fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del concessionario di corrispondere quanto determinato a titolo di contributo (in questi termini, CGA, 13.12.2010 n. 1483), e non con la successiva ed eventuale attuazione di esso, in quanto la realizzazione delle opere assentite può difettare per fatto del concessionario.
Coerentemente con questo, in giurisprudenza si è detto che l'ordinario termine di prescrizione decennale per la riscossione degli oneri di urbanizzazione decorre dalla data di emanazione del provvedimento concessorio (cfr. Tar Napoli, sez. II, 20.07.2007 n. 6891; id., 11.07.2006, n. 7392; Tar Catanzaro 22.11.2000 n. 1439; Tar Pescara 10.05.2002 n. 477).
Se dunque il termine di prescrizione per la riscossione degli oneri concessori decorre dalla data di emanazione del provvedimento, non può ragionevolmente ritenersi che il termine per il pagamento decorra da una data diversa, anche per le ragioni sopra esposte (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 18.01.2012 n. 126 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La prevista comunicazione al pubblico mediante affissione (“dell'avvenuto rilascio del permesso di costruire e' data notizia al pubblico mediante affissione all'albo pretorio”) non integra un elemento essenziale di formazione del provvedimento, consistendo in una forma di pubblicità notizia necessaria, per taluna parte della giurisprudenza, ai fini del decorso del termine di impugnazione.
Deve altresì aggiungersi che la società ricorrente prospetta che la condicio iuris per la piena efficacia del provvedimento concessorio sarebbe costituita dal decorso del tempo per la pubblicazione della concessione nell’albo pretorio nonché dal conseguimento dell’autorizzazione del Genio Civile, ai sensi della legge 64 del 1974.
In ordine alla prima affermazione, questo collegio ricorda che la prevista comunicazione al pubblico mediante affissione (“dell'avvenuto rilascio del permesso di costruire e' data notizia al pubblico mediante affissione all'albo pretorio”) non integra un elemento essenziale di formazione del provvedimento (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.05.1999 n. 582), consistendo in una forma di pubblicità notizia necessaria, per taluna parte della giurisprudenza, ai fini del decorso del termine di impugnazione (cfr. TAR Liguria, sez. I, 25.07.2008, n. 1543; TAR Brescia, sez. I, 16.03.2010, n. 1216).
In ordine alla seconda, va precisato che la natura di “condicio iuris” del nulla osta per le costruzioni antisismiche, ai sensi della l. 64 del 1974, si atteggia quale condizione di efficacia (appunto, “condicio iuris“) in relazione alla concreta realizzabilità di un intervento edilizio (Tar Catanzaro, 22.06.1995, n. 704), ma non di validità della concessione edilizia cui afferisce, onde il suo rilascio tardivo non invalida quest'ultima, perché ne investe la fase attuativa (Cons. St., sez. V, 06.08.1997, n. 875), né tantomeno modifica la data di decorrenza dei termini collegati automaticamente alla concessione medesima (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 18.01.2012 n. 126 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il comma 2 dell’art. 16 del d.P.R. 380 del 2001 stabilisce che “a scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”.
La giurisprudenza ha costantemente interpretato il suddetto articolo nel senso che il tipo e l’entità delle opere ammesse a scomputo, nonché la quota di oneri che su tale presupposto non è dovuta, debbono essere concordati formalmente con il Comune, dovendovi essere un espresso atto di «accettazione» consensuale da parte della stessa Amministrazione, anche informale purché esplicito, con la conseguenza che, in assenza di qualsivoglia partecipazione consensuale dell'Ente, anche solo ex post, gli oneri contributivi, così come determinati, devono essere integralmente corrisposti.
Le suddette opere devono, quindi, essere dettagliatamente individuate, e non è considerato sufficiente un mero computo estimativo.

... la società Carlotta ha contestato la violazione dell’art. 16 del d.P.R. 380 del 2001 sotto il profilo del mancato scomputo dalle somme dovute a titolo di oneri concessori di alcune opere di urbanizzazione primaria asseritamente contenute nel computo metrico estimativo vistato dall’organo tecnico comunale competente.
Più precisamente, il Comune avrebbe dovuto scomputare il costo degli spazi di sosta e parcheggio, realizzati dalla ditta Carlotta, per un totale di € 52.687,06, da sottrarre alla somma addebitata alla società per il pagamento e rateizzata (€ 137.438,67), sicché la somma finale avrebbe dovuto essere pari a € 84.571,61.
Il motivo non merita accoglimento.
Il comma 2 dell’art. 16 del d.P.R. 380 del 2001 stabilisce che “a scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”.
La giurisprudenza ha costantemente interpretato il suddetto articolo nel senso che il tipo e l’entità delle opere ammesse a scomputo, nonché la quota di oneri che su tale presupposto non è dovuta, debbono essere concordati formalmente con il Comune (Cons. St., sez. V, 01.06.1998 n. 701), dovendovi essere un espresso atto di «accettazione» consensuale da parte della stessa Amministrazione (TAR Napoli, sez. VIII, 07.07.2010, n. 16606), anche informale purché esplicito (Tar Napoli, sez. VIII, 17.09.2009, n. 4983), con la conseguenza che, in assenza di qualsivoglia partecipazione consensuale dell'Ente, anche solo ex post, gli oneri contributivi, così come determinati, devono essere integralmente corrisposti.
Le suddette opere devono, quindi, essere dettagliatamente individuate, e non è considerato sufficiente un mero computo estimativo (TAR Napoli, sez. II, 11.09.2009, n. 4934) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 18.01.2012 n. 126 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La salvaguardia dell'area di rispetto cimiteriale di 200 metri prevista dall'art. 338 del R.D. 1265/1934 consiste in un vincolo assoluto di inedificabilità che non consente la collocazione di edifici o comunque di opere ad esso incompatibili, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che s’intendono tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione ed alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
In particolare, “il vincolo di rispetto cimiteriale, riguarda non solo i centri abitati, ma anche i fabbricati sparsi” e “lo stesso vincolo preclude il rilascio della concessione, anche in sanatoria (ai sensi dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47), senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo”.

Ed invero, questo tribunale, in fattispecie analoga alla presente (v. sentenza n. 14149 del 26.11.2010) ha avuto occasione di precisare che l’art. 338 del RD 27/07/1934 n. 1265, Parte 2, prescrive che i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato.
Di conseguenza, è vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge.
La salvaguardia dell'area di rispetto cimiteriale di 200 metri (nel caso di specie, 150 mt.) prevista dal richiamato art. 338 del R.D. 1265/1934 consiste, infatti, in un vincolo assoluto di inedificabilità che non consente la collocazione di edifici o comunque di opere ad esso incompatibili, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che s’intendono tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione ed alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale (cfr., altresì, TAR Lombardia Milano, sez. IV, 02.04.2010, n. 962, 10.09.2010, n. 5656; Cons. Stato, sez. IV, 08.10.2007, n. 5210; sez. V, 14.09.2010, n. 6671). In particolare, in quest’ultima sentenza si precisa che “il vincolo di rispetto cimiteriale, riguarda non solo i centri abitati, ma anche i fabbricati sparsi” e che “lo stesso vincolo preclude il rilascio della concessione, anche in sanatoria (ai sensi dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47), senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo”.
Pertanto, nel caso di specie non occorre svolgere ulteriori considerazioni per confutare la tesi di fondo del ricorrente, secondo cui dovrebbe essere consentito il mantenimento (e quindi la sanatoria) del fabbricato abusivo destinato ad “attività produttiva”. Peraltro, appare evidente come proprio la “lavorazione del marmo”, per le sue stesse rumorose caratteristiche, possa compromettere la peculiare sacralità dei luoghi che il citato art. 338 intende, appunto, salvaguardare (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 18.01.2012 n. 77 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall'avviso dell'inizio del procedimento, trattandosi di procedimenti tipizzati e vincolati e considerato che i provvedimenti sanzionatori presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate, nonché sul carattere non assentito delle medesime.
Quanto, infine, al secondo, autonomo motivo dedotto nel terzo ricorso (violazione e falsa applicazione dell’art. 8 della L.r. n. 10/1991 e dell’art. 7 della L. n. 2411990), non può che ribadirsi il costante orientamento giurisprudenziale, secondo il quale i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall'avviso dell'inizio del procedimento, trattandosi di procedimenti tipizzati e vincolati e considerato che i provvedimenti sanzionatori presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate, nonché sul carattere non assentito delle medesime (cfr., da ultimo, TAR Sicilia, sez. II, 08.06.2010, n. 7244; sez. III, 04.01.2012, n. 4) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 18.01.2012 n. 77 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICASe è vero che le scelte urbanistiche sono caratterizzate da un amplissimo margine di discrezionalità e non possono essere sottoposte al sindacato giurisdizionale del g.a., salvo che sotto il profilo della palese illogicità ed irragionevolezza delle determinazioni assunte o per essere le determinazioni stesse inficiate da errori di fatto, la funzione di strumento particolareggiato ed attuativo delle prescrizioni del p.r.g. rivestita dal piano di lottizzazione comporta la necessità che il provvedimento di diniego di approvazione di quest'ultimo sia congruamente istruito e motivato con valutazione comparata degli interessi pubblici coinvolti in modo da consentire al richiedente di rendersi conto degli ostacoli, che si frappongano alla estrinsecazione del suo "ius aedificandi".
Trattasi, dunque, di esercizio di potere discrezionale, che pacificamente dev'essere accompagnato da congrua e completa motivazione e che altrettanto pacificamente è sottoposto al sindacato del giudice amministrativo, cui spetta, su impulso della parte, verificare se le ragioni poste a fondamento del diniego possano, in concreto, supportare le determinazioni assunte: ambito di scrutinio, questo, costantemente ritenuto estraneo al merito dell'azione amministrativa.
Così come l'assenso dell'Autorità Comunale al piano di lottizzazione non è atto dovuto pur se conforme al p.r.g., esso è pur sempre espressione del potere discrezionale della stessa circa l'opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale e di conseguenza deve essere motivato per contrasto con norme di legge, regolamento o dello strumento urbanistico, tanto più che -in sede di rilascio del provvedimento abilitativo- l'Amministrazione non ha il potere di introdurre limiti alle facoltà edificatorie dei privati, ulteriori rispetto a quelli di fonte legale o pianificatoria

Sia pure espresso con riferimento alla diversa ipotesi del diniego di piano di lottizzazione, essendo nella specie contestata invece la prescrizione aggiuntiva concernente la imposta realizzazione di una piscina comunale coperta, appare opportuno richiamare quell’orientamento giurisprudenziale a mente del quale se è vero che le scelte urbanistiche sono caratterizzate da un amplissimo margine di discrezionalità e non possono essere sottoposte al sindacato giurisdizionale del g.a., salvo che sotto il profilo della palese illogicità ed irragionevolezza delle determinazioni assunte o per essere le determinazioni stesse inficiate da errori di fatto, la funzione di strumento particolareggiato ed attuativo delle prescrizioni del p.r.g. rivestita dal piano di lottizzazione comporta la necessità che il provvedimento di diniego di approvazione di quest'ultimo sia congruamente istruito e motivato con valutazione comparata degli interessi pubblici coinvolti in modo da consentire al richiedente di rendersi conto degli ostacoli, che si frappongano alla estrinsecazione del suo "ius aedificandi"; trattasi, dunque, di esercizio di potere discrezionale, che pacificamente dev'essere accompagnato da congrua e completa motivazione e che altrettanto pacificamente è sottoposto al sindacato del giudice amministrativo, cui spetta, su impulso della parte, verificare se le ragioni poste a fondamento del diniego possano, in concreto, supportare le determinazioni assunte: ambito di scrutinio, questo, costantemente ritenuto estraneo al merito dell'azione amministrativa (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 04.05.2010 , n. 2545).
Così come, per costante giurisprudenza, l'assenso dell'Autorità Comunale al piano di lottizzazione non è atto dovuto pur se conforme al p.r.g., esso è pur sempre espressione del potere discrezionale della stessa circa l'opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale e di conseguenza deve essere motivato per contrasto con norme di legge, regolamento o dello strumento urbanistico, tanto più che -in sede di rilascio del provvedimento abilitativo- l'Amministrazione non ha il potere di introdurre limiti alle facoltà edificatorie dei privati, ulteriori rispetto a quelli di fonte legale o pianificatoria (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III, 10.05.2010, n. 3367).
In sostanza, il Collegio vuole intendere che ben può motivatamente l’amministrazione comunale di Longobardi, atteso il carattere negoziale delle convenzioni di lottizzazione, non approvare il progetto proposto, ma ciò tuttavia non leva la sindacabilità della scelta, pur discrezionale, operata che vede in sede di approvazione del piano imporre prescrizioni che incidono significativamente sull’assetto di interessi sotteso alla lottizzazione.
In altri termini, ritiene il Collegio illegittima la delibera consiliare nella parte impugnata, appunto relativa alla integrazione di cui è questione, assolutamente carente di motivazione vieppiù necessaria in ragione del suo impatto e dunque viziata, per come fondatamente dedotto dalla ricorrente, per difetto di motivazione. Come deve ritenersi fondato il dedotto profilo attinente la irragionevolezza ed illogicità della integrazione che, a tacer d’altro, non si spiega innanzitutto con la già prevista realizzazione di una non distante piscina condominiale, avuto anche riguardo al dato della popolazione residente (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 17.01.2012 n. 30 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICARientra nella potestà di pianificazione urbanistica la valorizzazione e la salvaguardia delle bellezze naturali e degli interessi storici e ambientali, tale competenza spettando, per giurisprudenza pacifica, oltre che allo Stato anche al Comune ed alla Regione in sede di approvazione del piano regolatore generale e delle sue varianti.
Ne consegue che l'autorità titolare del potere di pianificazione urbanistica è sicuramente da ritenersi legittimata a valutare autonomamente gli interessi storici, ambientali e paesistici e ad imporre, in sede di piano regolatore generale, limitazioni a tutela di quegli interessi.

Sotto il primo profilo si osserva, come correttamente evidenziato dall’Amministrazione resistente, che rientra nella potestà di pianificazione urbanistica la valorizzazione e la salvaguardia delle bellezze naturali e degli interessi storici e ambientali, tale competenza spettando, per giurisprudenza pacifica, oltre che allo Stato anche al Comune ed alla Regione in sede di approvazione del piano regolatore generale e delle sue varianti (cfr. TAR Trentino Alto Adige, Trento, 05.06.2009, n. 184; TAR Lombardia Brescia, 01.03.2001, n. 93; TAR Catania, sez. I, 30.12.2004, n. 4087).
Ne consegue che l'autorità titolare del potere di pianificazione urbanistica è sicuramente da ritenersi legittimata a valutare autonomamente gli interessi storici, ambientali e paesistici e ad imporre, in sede di piano regolatore generale, limitazioni a tutela di quegli interessi, così come è avvenuto nel caso di specie (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 16.01.2012 n. 88 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn sede di adozione di strumenti urbanistici generali o delle loro successive varianti, le scelte discrezionali del pianificatore riguardo alla destinazione di singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali -di ordine tecnico-discrezionale- seguiti nell'impostazione del piano stesso.
Del resto, nemmeno la L. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo si è discostata da tale principio, precedentemente elaborato dalla giurisprudenza amministrativa, posto che, all’art. 3, ha esonerato dall'obbligo della motivazione gli atti a contenuto generale, tra cui sono ricompresi quelli di pianificazione territoriale ed urbanistica.
Solo in alcuni casi l'Amministrazione ha un obbligo di motivazione più specifico, tra cui l'ipotesi di affidamento qualificato del privato, quale l'ipotesi di precedente convenzione di lottizzazione o di accordi di diritto privato intercorsi tra Comune e privati.
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Non può invece ritenersi qualificato l'interesse del privato proprietario correlato ad una precedente previsione urbanistica che consenta un utilizzo dell'area in modo più proficuo, poiché in tal caso viene in considerazione un’aspettativa generica del privato alla non reformatio in pejus delle destinazioni di zona edificabili, cedevole dinanzi alla discrezionalità del potere pubblico di pianificazione urbanistica e per il quale vale il principio generale della non necessità di motivazione ulteriore rispetto a quelle che si possono evincere dai criteri di ordine tecnico urbanistico seguiti per la redazione del progetto di strumento.
In particolare, per ciò che riguarda la preesistenza di un piano di lottizzazione è necessario che lo stesso sia stato non solo approvato, ma anche convenzionato (quindi, divenuto operativo) in epoca anteriore all’adozione del P.R.G..
Nel caso in esame, il piano di lottizzazione è stato semplicemente approvato, ma non è intervenuta la stipulazione di una convenzione con l’Amministrazione comunale e, pertanto, non è ravvisabile l’obbligo dell’amministrazione di dare una specifica motivazione sulle esigenze che hanno indotto a modificare la previsione urbanistica preesistente, non essendosi verificata quella condizione cui la giurisprudenza collega l'insorgenza di una situazione di aspettativa qualificata, che è alla base dell'obbligo di motivazione specifica delle scelte urbanistiche operate.
Il piano di lottizzazione è, infatti, uno strumento attuativo dello strumento urbanistico generale che esprime scelte concordate tra l’amministrazione e i proprietari delle aree interessate e si esplica attraverso atti negoziali (cessione gratuita delle aree necessarie alla realizzazione di opere di urbanizzazione ovvero assunzione degli oneri finanziari per la realizzazione delle stesse) che vengono definiti all’interno della convenzione di lottizzazione.
Solo quest’ultima, in quanto espressione di potere di regolamentazione dell’attività di trasformazione edilizia del territorio, è idonea a radicare il legittimo affidamento all’edificabilità dell'area.

Sotto un profilo d’ordine generale, il Collegio rileva, nel costante indirizzo della giurisprudenza amministrativa, che in sede di adozione di strumenti urbanistici generali o delle loro successive varianti, le scelte discrezionali del pianificatore riguardo alla destinazione di singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali -di ordine tecnico-discrezionale- seguiti nell'impostazione del piano stesso (cfr. ex multis questa Sezione 27.10.2010, n. 4242 ).
Del resto, nemmeno la L. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo si è discostata da tale principio, precedentemente elaborato dalla giurisprudenza amministrativa, posto che, all’art. 3, ha esonerato dall'obbligo della motivazione gli atti a contenuto generale, tra cui sono ricompresi quelli di pianificazione territoriale ed urbanistica.
Solo in alcuni casi l'Amministrazione ha un obbligo di motivazione più specifico, tra cui l'ipotesi di affidamento qualificato del privato, quale l'ipotesi di precedente convenzione di lottizzazione o di accordi di diritto privato intercorsi tra Comune e privati.
In tale prospettiva non può invece ritenersi qualificato l'interesse del privato proprietario correlato ad una precedente previsione urbanistica che consenta un utilizzo dell'area in modo più proficuo, poiché in tal caso viene in considerazione un’aspettativa generica del privato alla non reformatio in pejus delle destinazioni di zona edificabili, cedevole dinanzi alla discrezionalità del potere pubblico di pianificazione urbanistica e per il quale vale il principio generale della non necessità di motivazione ulteriore rispetto a quelle che si possono evincere dai criteri di ordine tecnico urbanistico seguiti per la redazione del progetto di strumento (TAR Toscana, sez. I, 13.07.2009, n. 1227).
In particolare, per ciò che riguarda la preesistenza di un piano di lottizzazione è necessario che lo stesso sia stato non solo approvato, ma anche convenzionato (quindi, divenuto operativo) in epoca anteriore all’adozione del P.R.G. (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1431, 08.06.2007, n. 2999 e 26.04.2006, n. 2301; TAR Sicilia- Catania, sez. I, 16.04.2007, n. 638; TAR Lombardia Milano, sez. II, 06.03.2006, n. 58).
Nel caso in esame, il piano di lottizzazione è stato semplicemente approvato, ma non è intervenuta la stipulazione di una convenzione con l’Amministrazione comunale e, pertanto, non è ravvisabile l’obbligo dell’amministrazione di dare una specifica motivazione sulle esigenze che hanno indotto a modificare la previsione urbanistica preesistente, non essendosi verificata quella condizione cui la giurisprudenza collega l'insorgenza di una situazione di aspettativa qualificata, che è alla base dell'obbligo di motivazione specifica delle scelte urbanistiche operate.
Il piano di lottizzazione è, infatti, uno strumento attuativo dello strumento urbanistico generale che esprime scelte concordate tra l’amministrazione e i proprietari delle aree interessate e si esplica attraverso atti negoziali (cessione gratuita delle aree necessarie alla realizzazione di opere di urbanizzazione ovvero assunzione degli oneri finanziari per la realizzazione delle stesse) che vengono definiti all’interno della convenzione di lottizzazione.
Solo quest’ultima, in quanto espressione di potere di regolamentazione dell’attività di trasformazione edilizia del territorio, è idonea a radicare il legittimo affidamento all’edificabilità dell'area.
Di conseguenza, nel caso in esame, non essendo stata sottoscritta alcuna convenzione di lottizzazione, nessun affidamento qualificato deriva dalla circostanza che al momento dell'adozione del piano regolatore il piano di lottizzazione fosse stato soltanto approvato
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 16.01.2012 n. 88 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte pianificatorie operate dall’Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto, o abnormi illogicità, ovvero da arbitrarietà, irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in relazione alle esigenze che si intendono concretamente soddisfare.
Esse, inoltre, quando si concentrano nella destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell’impostazione del piano stesso. Le scelte discrezionali effettuate non sono sindacabili, salvo che risultino incoerenti con l’impostazione di fondo dell’intervento pianificatorio o manifestamente incompatibili con le caratteristiche oggettive del territorio.
Si sottraggono ai principi di cui sopra solo le particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni, quali l’esistenza di una convenzione di lottizzazione o di una sentenza dichiarativa dell’obbligo di stipulare la convenzione urbanistica, un giudicato di annullamento di diniego di concessione, la decadenza di un vincolo preordinato all’espropriazione.
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L’esercizio dello "jus variandi" in sede pianificatoria include il potere di mutare discrezionalmente il regime giuridico-urbanistico dell'area, nel senso di cambiare la sua "vocazione" in senso giuridico.
Argomentando diversamente, ossia sostenendo che la nuova destinazione debba trovare motivazione nella vocazione giuridica precedentemente individuata, indurrebbe a negare il fondamento stesso del potere conformativo che trova espressione nella potestà pianificatoria.
In tema di approvazione dello strumento urbanistico generale la giurisprudenza è pacifica nel senso che le scelte pianificatorie operate dall’Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto, o abnormi illogicità, ovvero da arbitrarietà, irrazionalità o manifesta irragionevolezza, in relazione alle esigenze che si intendono concretamente soddisfare (cfr., tra le tante, da ultimo, Cons. Stato, IV, 26.05.2003, n. 2827; 06.05.2003, n. 2386; VI, 07.08.2003, n. 4568).
Esse, inoltre, quando si concentrano nella destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell’impostazione del piano stesso (per tutte, cfr. Cons. Stato, IV, 25.07.2001, n. 4077). Le scelte discrezionali effettuate non sono sindacabili, salvo che risultino incoerenti con l’impostazione di fondo dell’intervento pianificatorio o manifestamente incompatibili con le caratteristiche oggettive del territorio (tra le tante, cfr. Cons. Stato, IV, 14.06.2001, n. 3146).
Si sottraggono ai principi di cui sopra, come da Corte Cost. n. 179/1999, solo le particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni, quali l’esistenza di una convenzione di lottizzazione o di una sentenza dichiarativa dell’obbligo di stipulare la convenzione urbanistica, un giudicato di annullamento di diniego di concessione, la decadenza di un vincolo preordinato all’espropriazione (per tutte, cfr. Cons. Stato, IV, 06.05.2003, n. 2386; 15.05.2003, n. 2827; V, 23.05.2000, n. 2982).
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L’esercizio dello "jus variandi" in sede pianificatoria include il potere di mutare discrezionalmente il regime giuridico-urbanistico dell'area, nel senso di cambiare la sua "vocazione" in senso giuridico.
Argomentando diversamente, ossia sostenendo che la nuova destinazione debba trovare motivazione nella vocazione giuridica precedentemente individuata, indurrebbe a negare il fondamento stesso del potere conformativo che trova espressione nella potestà pianificatoria (cfr. Cons. Stato sez. IV, 16.02.2011, n. 1015)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 12.01.2012 n. 99 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALo schema ablatorio-espropriativo con le connesse garanzie costituzionali anche in termini di indennizzo riguarda solo i vincoli suscettibili di essere attuati tramite procedura espropriativa ad iniziativa pubblica. Dette garanzie non includono altresì i vincoli che, pur importando una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, e non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene.
Si è difatti affermato che: “le destinazioni a parco urbano, a parcheggio e a viabilità non comportano automaticamente l’ablazione dei suoli ed ammettono, anzi, chiaramente la realizzazione, anche da parte di privati in regime di economia di mercato, delle relative attrezzature destinate all’uso pubblico, per escludere che l’imposizione dei relativi vincoli necessitasse della contestuale previsione dell’indennizzo e di una puntuale motivazione sulle ragioni assunte a base della loro reiterazione".
Come noto, lo schema ablatorio-espropriativo con le connesse garanzie costituzionali anche in termini di indennizzo riguarda solo i vincoli suscettibili di essere attuati tramite procedura espropriativa ad iniziativa pubblica. Dette garanzie non includono altresì i vincoli che, pur importando una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, e non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene (cfr. C.d.S. sez. IV, 22.06.2011. n. 3797).
Si è difatti affermato che: “le destinazioni a parco urbano, a parcheggio e a viabilità non comportano automaticamente l’ablazione dei suoli ed ammettono, anzi, chiaramente la realizzazione, anche da parte di privati in regime di economia di mercato, delle relative attrezzature destinate all’uso pubblico, per escludere che l’imposizione dei relativi vincoli necessitasse della contestuale previsione dell’indennizzo e di una puntuale motivazione sulle ragioni assunte a base della loro reiterazione" (cfr., C.d.S. sez. IV 10.07.2007 n. 5059, in fattispecie analoga, C.d.S., sez. IV, 28.02.2995, n. 693)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 12.01.2012 n. 99 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La regola secondo cui il termine per impugnare lo strumento urbanistico generale o le sue varianti decorre dal giorno di scadenza del periodo di pubblicazione è derogata in due casi: il primo si verifica quando il piano impone un vincolo espropriativo su uno specifico immobile; la seconda deroga, riferibile alla fattispecie controversa, si profila nell'ipotesi in cui, accanto a prescrizioni che definiscono gli assetti generali del territorio, il piano o la sua variante contengono anche prescrizioni di dettaglio che disciplinano aspetti strettamente edilizi dell'attività edificatoria: in quest’ultimo caso, il termine per l'impugnazione decorre dal momento in cui le prescrizioni edilizie divengono concretamente lesive per i ricorrenti, ossia dal momento della conoscenza del titolo edilizio che le ha recepite.
La giurisprudenza amministrativa, tuttavia, ha chiarito che la regola secondo cui il termine per impugnare lo strumento urbanistico generale o le sue varianti decorre dal giorno di scadenza del periodo di pubblicazione è derogata in due casi: il primo si verifica quando il piano impone un vincolo espropriativo su uno specifico immobile; la seconda deroga, riferibile alla fattispecie controversa, si profila nell'ipotesi in cui, accanto a prescrizioni che definiscono gli assetti generali del territorio, il piano o la sua variante contengono anche prescrizioni di dettaglio che disciplinano aspetti strettamente edilizi dell'attività edificatoria: in quest’ultimo caso, il termine per l'impugnazione decorre dal momento in cui le prescrizioni edilizie divengono concretamente lesive per i ricorrenti, ossia dal momento della conoscenza del titolo edilizio che le ha recepite (Cons. Stato, sez. IV, 23.12.2010, n. 9375) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 12.01.2012 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo di inedificabilità relativa posto dall'art. 49 DPR 753/1980 (distanza minima dalla ferrovia) è determinato da ragioni di sicurezza, non di tutela dell’ordinato assetto del territorio, e può essere derogato, quando la situazione concreta lo consenta, su autorizzazione degli uffici ferroviari preposti alla tutela del vincolo stesso: é evidente come l’esercizio di quest’ultimo potere, previsto dall’art. 60 del d.P.R. n. 753/1980, non possa essere condizionato dalla circostanza che le norme urbanistiche locali non vi abbiano fatto espresso riferimento.
Con il secondo motivo di ricorso, gli esponenti denunciano la violazione della vigente prescrizione urbanistica di livello locale che impone di costruire ad una distanza non inferiore a metri 30 dalla linea ferroviaria, mentre il nuovo edificio disterebbe appena metri 15 dalla più vicina rotaia.
Più precisamente, gli esponenti rilevano come l’art. 19 delle n.t.a. richiami puntualmente il divieto stabilito dall’art. 49 del d.P.R. n. 753/1980, senza tuttavia contemplare le possibilità di deroga previste da quest’ultima disposizione, con la conseguenza che il citato limite di metri 30 non potrebbe essere superato neppure in forza di apposita autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.
L’accennata prospettazione è priva di pregio giuridico.
Il vincolo di inedificabilità relativa posto dal citato art. 49 è determinato, infatti, da ragioni di sicurezza, non di tutela dell’ordinato assetto del territorio, e può essere derogato, quando la situazione concreta lo consenta, su autorizzazione degli uffici ferroviari preposti alla tutela del vincolo stesso: é evidente come l’esercizio di quest’ultimo potere, previsto dall’art. 60 del d.P.R. n. 753/1980, non possa essere condizionato dalla circostanza che le norme urbanistiche locali non vi abbiano fatto espresso riferimento.
Nel caso in esame, pertanto, l’edificazione è stata legittimamente assentita in deroga alla distanza minima dalla linea ferroviaria, sulla base di specifica autorizzazione in deroga rilasciata da R.F.I. in data 13.01.2011, in atti
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 12.01.2012 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 9 dm 1444/1968 riferisce letteralmente il limite corrispondente all’altezza dell’edificio più alto ai soli edifici ricadenti nelle zone C.
Trattandosi nella fattispecie di edificio ricadente in zona B, si applica, invece, il solo limite di 10 metri fra pareti finestrate.

Con il nono e decimo motivo di ricorso, viene denunciata la violazione dell’art. 9 del d.M. lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, che prevede una distanza minima assoluta di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti ovvero, quando uno degli edifici che si fronteggiano abbia altezza superiore a metri 10, una distanza almeno pari all’altezza del fabbricato più alto.
Sarebbero pertanto illegittime, ad avviso di parte ricorrente, le impugnate varianti parziali al P.R.G.C. che hanno consentito una distanza fra gli edifici di 10 metri, mentre avrebbero dovuto imporre il rispetto di una distanza pari all’altezza del fabbricato maggiormente sviluppato in altezza, ossia di oltre 22 metri.
Ne conseguirebbe, inoltre, l’illegittimità derivata del permesso di costruire rilasciato alla controinteressata.
La censura non considera esattamente il tenore testuale della disposizione normativa che si assume violata.
Il citato art. 9, infatti, riferisce letteralmente il limite corrispondente all’altezza dell’edificio più alto ai soli edifici ricadenti nelle zone C.
Trattandosi nella fattispecie di edificio ricadente in zona B, si applica, invece, il solo limite di 10 metri fra pareti finestrate, il cui rispetto non è fatto oggetto di contestazione
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 12.01.2012 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICILe procedure di v.i.a. e di verifica di assoggettabilità a v.i.a. ("screening"), pur inserendosi sempre all'interno del più ampio procedimento di realizzazione di un'opera o di un intervento, sono dotate di autonomia, in quanto destinate a tutelare un interesse specifico (quello alla tutela dell'ambiente) e ad esprimere al riguardo una valutazione definitiva, di per sé potenzialmente lesiva dei valori ambientali, con conseguente immediata impugnabilità degli atti conclusivi da parte dei soggetti interessati alla protezione di quei valori (siano essi associazioni di tutela ambientale ovvero cittadini residenti in loco); l’art. 20, d.lgs. n. 152 del 2006, infatti, configura la stessa procedura di verifica di assoggettabilità a v.i.a. ("screening") come vero e proprio subprocedimento autonomo, caratterizzato da partecipazione dei soggetti interessati e destinato a concludersi con un atto avente natura provvedimentale, soggetto a pubblicazione.
In proposito è sufficiente richiamare l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, al quale il collegio si riporta, in base a cui le procedure di v.i.a. e di verifica di assoggettabilità a v.i.a. ("screening"), pur inserendosi sempre all'interno del più ampio procedimento di realizzazione di un'opera o di un intervento, sono dotate di autonomia, in quanto destinate a tutelare un interesse specifico (quello alla tutela dell'ambiente) e ad esprimere al riguardo una valutazione definitiva, di per sé potenzialmente lesiva dei valori ambientali, con conseguente immediata impugnabilità degli atti conclusivi da parte dei soggetti interessati alla protezione di quei valori (siano essi associazioni di tutela ambientale ovvero cittadini residenti in loco); l’art. 20, d.lgs. n. 152 del 2006, infatti, configura la stessa procedura di verifica di assoggettabilità a v.i.a. ("screening") come vero e proprio subprocedimento autonomo, caratterizzato da partecipazione dei soggetti interessati e destinato a concludersi con un atto avente natura provvedimentale, soggetto a pubblicazione (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. IV, 03.03.2009, n. 1213) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 11.01.2012 n. 67 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVIE' ormai pacifico l'interesse a ricorrere degli enti locali quali ad es. "il comune nel cui territorio è localizzata una discarica di rifiuti, ai sensi dell'art. 3-bis l. 29.10.1987 n. 441"; in proposito si è affermato che "è titolare dell'interesse a ricorrere avverso la delibera di localizzazione, sia in quanto ente esponenziale dei residenti, sia in quanto titolare del potere di pianificazione urbanistica su cui incide il provvedimento di localizzazione, sia in quanto soggetto che per legge può partecipare al procedimento amministrativo e che in quanto tale può impugnarne il provvedimento conclusivo.
E' del pari certo che non occorra provare l'esistenza di un danno concreto ed attuale al fine di impugnare il provvedimento di localizzazione di una discarica o di un impianto industriale ritenuto inquinante in quanto la questione della concreta pericolosità dell'impianto, valutata alla luce dei parametri normativi, è questione di merito, mentre al fine di radicare l'interesse ad impugnare è sufficiente la prospettazione di temute ripercussioni su un territorio collocato nelle immediate vicinanze ed in relazione al quale i ricorrenti sono in posizione qualificata (quali residenti o proprietari o titolari di altre posizioni giuridiche soggettive rilevanti). … deve rilevarsi che la vicinitas … non può essere limitata al comune di insediamento di un impianto industriale che si assume dannoso per l'ambiente in quanto la prossimità dell'interesse è in questo caso correlata all'imponenza della minaccia del male o del danno temuto e, quindi, nel caso di una centrale termoelettrica, di un danno commisurato agli effetti inquinanti diffusivi di cui l'impianto si può ipotizzare capace. In tal senso deve ritenersi sussistente la vicinitas anche nel caso di iniziative associative che riguardino soggetti residenti in comuni limitrofi.

Sul punto, il collegio è consapevole dell’esistenza del più recente orientamento giurisprudenziale per il quale la legittimazione in capo ai comuni all'impugnazione del provvedimento di localizzazione nel loro territorio di una discarica di rifiuti speciali non pericolosi va riconosciuta solo a condizione che gli enti medesimi (ed a maggior ragione, i comuni viciniori) dimostrino il concreto pregiudizio che la realizzazione dell'impianto sarebbe in grado di produrre negli ambiti territoriali di rispettiva competenza.
Tale orientamento, però, appare contrastante con il pensiero più tradizionale, al quale si ritiene di riportarsi (cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. VI, 05.12.2002, n. 6657) secondo cui “si deve inquadrare in modo particolare la tematica dell'interesse all'impugnazione in materia ambientale poiché non v'è dubbio che in tale materia esso si atteggi in modo del tutto peculiare in relazione anche al fenomeno dell'espansione del diritto pubblico dell'ambiente e del ruolo che in detta espansione svolgono le formazioni sociali e gli enti pubblici territoriali ed istituzionali. … E' ormai pacifico l'interesse a ricorrere degli enti locali quali ad es. "il comune nel cui territorio è localizzata una discarica di rifiuti, ai sensi dell'art. 3-bis l. 29.10.1987 n. 441"; in proposito si è affermato che "è titolare dell'interesse a ricorrere avverso la delibera di localizzazione, sia in quanto ente esponenziale dei residenti, sia in quanto titolare del potere di pianificazione urbanistica su cui incide il provvedimento di localizzazione, sia in quanto soggetto che per legge può partecipare al procedimento amministrativo e che in quanto tale può impugnarne il provvedimento conclusivo" (C. Stato, sez. V, 02.03.1999, n. 217; in senso analogo CdS IV 06/10/2001 n. 5296). E' del pari certo che non occorra provare l'esistenza di un danno concreto ed attuale al fine di impugnare il provvedimento di localizzazione di una discarica o di un impianto industriale ritenuto inquinante in quanto la questione della concreta pericolosità dell'impianto, valutata alla luce dei parametri normativi, è questione di merito, mentre al fine di radicare l'interesse ad impugnare è sufficiente la prospettazione di temute ripercussioni su un territorio collocato nelle immediate vicinanze ed in relazione al quale i ricorrenti sono in posizione qualificata (quali residenti o proprietari o titolari di altre posizioni giuridiche soggettive rilevanti). … deve rilevarsi che la vicinitas … non può essere limitata al comune di insediamento di un impianto industriale che si assume dannoso per l'ambiente in quanto la prossimità dell'interesse è in questo caso correlata all'imponenza della minaccia del male o del danno temuto e, quindi, nel caso di una centrale termoelettrica, di un danno commisurato agli effetti inquinanti diffusivi di cui l'impianto si può ipotizzare capace. In tal senso deve ritenersi sussistente la vicinitas anche nel caso di iniziative associative che riguardino soggetti residenti in comuni limitrofi”.
Peraltro, anche con pronunce più recenti (cfr., in particolare, Tar Brescia, sez. I, 02.02.2010, n. 521) è stato affermato che “la legittimazione e l'interesse ad agire dell'ente locale in materia ambientale, in quanto titolare di un interesse collettivo, è riconosciuta dalla giurisprudenza fin da Tar Lazio 1064/1990 (secondo cui "Il comune, quale ente territoriale esponenziale di una determinata collettività di cittadini della quale cura istituzionalmente gli interessi a promuovere lo sviluppo, è pienamente legittimato ad impugnare dinanzi al giudice amministrativo i provvedimenti ritenuti lesivi dell'ambiente") ed è confermata da giurisprudenza successiva (Cons. Stato, sez. IV, 06.10.2001 n. 5296: ad un Comune va riconosciuta la legittimazione ad impugnare il provvedimento di approvazione di una discarica da localizzare nel suo territorio, sia per la qualità di ente esponenziale degli interessi dei residenti che potrebbero subire danni dalla scelta compiuta dall'autorità competente nell'individuazione delle aree per l'attivazione dell'impianto di discarica, sia per la qualità di titolare del potere di pianificazione urbanistica, su cui certamente incide la collocazione dell'impianto medesimo).
Sarebbe d'altronde alquanto irragionevole riconoscere legislativamente all'ente territoriale la possibilità di agire in giudizio (in via successiva) per il risarcimento del danno all'ambiente (come fa l'art. 18, co. 3, l. 349/1986), e negargli invece la possibilità di agire (in via preventiva) per impedire la produzione di quello stesso danno.
Sarebbe altrettanto irragionevole riconoscere la titolarità di un interesse collettivo ad associazioni ambientaliste, il cui collegamento con il territorio interessato dall'abuso è talora costituito soltanto dal fine statutario, e non individuarlo nell'ente istituzionalmente esponenziale della comunità di riferimento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 11.01.2012 n. 67 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPresupposti per il riconoscimento della retribuzione per l'esercizio di mansioni superiori.
Il riconoscimento della retribuzione correlata all’esercizio di mansioni di qualifica superiori, è oggettivamente precluso ove le mansioni esercitate (in assenza di alcun ordine di servizio, o in presenza di questo) risultino corrispondenti a quelle proprie della qualifica formale posseduta ed al mansionario.
I presupposti imprescindibili per la configurabilità dell’esercizio delle mansioni superiori e della rilevanza dello stesso ai fini retributivi erano comunque “concorrentemente: 1) lo svolgimento di fatto, in modo continuativo e prevalente, di funzioni qualitativamente attinenti a livello funzionale superiore rispetto a quello di cui l’impiegato è titolare; 2) il conferimento formale delle mansioni in questione mediante uno specifico atto; 3) la vacanza del posto relativo in organico”. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.12.2011 n. 6792 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOQuadro normativo sul conferimento di mansioni superiori ai dipendenti degli Enti Locali.
L’attribuzione di mansioni superiori ai dipendenti pubblici è disciplinata, a termini della legge delega n. 421/1992, dall’art. 57 del d.lgs n. 29/1993, riprodotto in seguito nell’art. 52 del dlgs. n. 165/2001, che costituisce attualmente un elemento unitario di riferimento.
L’art. 52 del decreto n. 165/1991 prevede la possibilità di assegnazione formale di un lavoratore a mansioni “prevalenti” della qualifica immediatamente superiore, esclusivamente per coprire un posto vacante, ovvero per sostituire un altro lavoratore in caso di sua lunga assenza dal servizio, per il periodo massimo di sei mesi prorogabili a dodici. Con l’assegnazione delle funzioni superiori viene a lui contestualmente riconosciuto il trattamento economico della qualifica temporaneamente rivestita, per la durata dell’effettiva prestazione.
La disciplina legislativa dell’istituto è integrata, in ogni comparto, dalla contrattazione collettiva e per gli enti locali rileva l’articolo 8 del C.C.N.L. dell’anno 2000, che prevede che il conferimento di mansioni superiori deve essere inserito nella programmazione dei fabbisogni di organico, con conseguente assegnazione delle risorse finanziarie necessarie.
Il quadro tracciato afferisce il conferimento delle mansioni superiori “legittime”. La normativa vigente prende poi in considerazione la casistica attinente le mansioni svolte al di fuori delle regole (art. 52, comma 5) e cioè le mansioni superiori esercitate senza incarico ovvero svolte sulla base di atto nullo o invalido, quelle riguardanti una qualifica ulteriormente eccedente la qualifica superiore e quelle del ruolo dirigenziale, svolte dal personale inquadrato nei livelli. In questi casi, l’attribuzione o l’esercizio illegittimo delle funzioni sono colpiti da nullità, ma tuttavia comportano la “corresponsione della differenza di trattamento economico” al pubblico dipendente interessato.
La disciplina suddetta è entrata in vigore il 21.02.1993, anteriormente all’emanazione del decreto n. 29/1993, la disciplina relativa al conferimento delle mansioni superiori ai dipendenti degli enti locali, era rimessa alla regolamentazione dell’ente stesso (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.12.2011 n. 6678 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGORelazione tra illecito penale e illecito disciplinare del dipendente pubblico.
Per la pacifica giurisprudenza amministrativa “l'illiceità penale e quella disciplinare operano su piani differenti, ben potendo un determinato comportamento del dipendente rilevare sotto il profilo disciplinare, anche se lo stesso non è punito dalla legge penale; pertanto, il riconoscimento di attenuanti o l'applicazione della prescrizione in sede penale non impediscono la sanzionabilità del fatto sotto l'aspetto disciplinare, che può trovare preclusione soltanto nell'identità materiale tra fatto penale e fatto disciplinare sanzionato, quando il proscioglimento è pieno perché il fatto non sussiste o l'imputato non lo ha commesso.”
Analoghi principi vigono perfino in ipotesi di intervenuta archiviazione (allorché quindi neppure è stata esercitata l’azione penale) giacché in tema di procedimento disciplinare è legittimo dare rilevanza a fatti che siano stati oggetto di precedenti procedimenti penali, in seguito archiviati, dal momento che il decreto di archiviazione racchiude valutazioni che afferiscono specificatamente al profilo penale, il che non può precludere un loro apprezzamento in sede disciplinare (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2011 n. 6605 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'errore scusabile che evita alla P.A. di pagare il risarcimento del danno.
Per la pacifica giurisprudenza amministrativa perché possa affermarsi che ci si trovi innanzi ad un danno risarcibile occorre che si pervenga al positivo riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa in capo all’amministrazione, intesa come apparato.
Quanto a tale profilo, in passato, si è avuto modo di evidenziare il ridotto onere dimostrativo che grava in subiecta materia sul privato, atteso che fermo restando l'inquadramento della maggior parte delle fattispecie di responsabilità della p.a., tra cui quella in esame, all'interno della responsabilità extracontrattuale, non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio sotto il profilo dell'elemento soggettivo. Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di un'espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell'amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all'art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie.
Il privato danneggiato può, quindi, invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà, di contro, all'amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2011 n. 6598 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa P.A. è obbligata allo scorrimento della graduatoria o può bandire un nuovo concorso?
Sul tema dello “scorrimento della graduatoria” vigono in giurisprudenza due orientamenti di massima che contrappongono il giudice amministrativo a quello civile. L’uno che afferma che si tratterebbe di una facoltà dell’amministrazione, che potrebbe anche decidere di bandire un nuovo concorso, cui è correlato un interesse legittimo dell’idoneo, (v. ad esempio, Cons. St., VI, n. 5637/2005); l’altro, seguito dalla giurisprudenza civile, che riconosce agli idonei di una graduatoria in corso di validità un vero e proprio diritto soggettivo all’assunzione nel caso in cui l’amministrazione decida di coprire i posti vacanti, la cui discrezionalità verrebbe meno una volta che tale decisione sia stata presa (Cass. s.u., n. 14529/2003; v. altresì Cass. sez. lav., n. 5588/2009).
E’ utile rilevare che tale ultima decisione distingue tra la pretesa allo scorrimento e diritto all’assunzione, affermando che il secondo sorge con il completamento di una fattispecie complessa: la perdurante efficacia di una graduatoria e la decisione di avvalersene per coprire i posti vacanti (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.12.2011 n. 6507 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 10.02.2012

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GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: G.U. 09.02.2012 n. 33, suppl. ord. n. 27/L, "Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo" (D.L. 09.02.2012 n. 5).

CORTE DEI CONTI

SEGRETARI COMUNALI: Tagli al compenso aggiuntivo per le funzioni di Direttore Generale assegnate al Segretario Comunale.
La Corte dei Conti Sezioni Riunite di Controllo, con la deliberazione 03.02.2012 n. 5, si esprime sulla questione di massima rimessa dalla Sezione regionale Veneto e, nel merito, esprime il seguente avviso:
"che l'indennità prevista per il segretario comunale che svolge anche le funzioni di direttore generale -non essendo altro che il corrispettivo previsto da un'espressa previsione contrattuale per un'ulteriore attività lavorativa- abbia natura retributiva, con la conseguenza che rientra nel trattamento economico complessivo del segretario-direttore generale, in quanto tale sottratto alla riduzione di spesa del 10 per cento prevista dall'art. 6, comma 3, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, e soggetto, invece, ai tagli di cui all'art. 9, comma 2, del medesimo decreto-legge" (tratto da www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Compensi aggiuntivi per partecipazione a Unità di staff.
La Corte dei Conti III Sezione Giurisdizionale Centrale d'Appello, con la sentenza 09.11.2011 n. 751, condanna un Responsabile (APO) di un Comune al risarcimento del danno erariale per i compensi aggiuntivi dallo stesso percepiti quale componente di una unità di staff costituita per la realizzazione di un progetto obiettivo (peraltro senza la dimostrazione dei requisiti previsti dalla normativa e dall'art. 15 CCNL 01.04.1999).
In ogni caso, la Corte osserva essere stato violato il principio di omnicomprensività della retribuzione; a tal fine precisa:
"il principio dell'omnicomprensività della retribuzione si collega, più che all'ufficio ricoperto, ai fini istituzionali dell'amministrazione o dell'ente di cui l'impiegato o il dirigente è dipendente."
"Pertanto, anche alla stregua di tale nuovo principio di distinzione, basato sula riconducibilità dell'attività espletata ai 'fini dell'ente', più che alla qualifica del dipendente, è da ritenere che la partecipazione ai lavori della ripetuta Unità di staff sia avvenuta 'ratione officii' e non 'intuitu personae" (tratto da www.publika.it - link a www.corteconti.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Enti locali con meno di 5000 abitanti, è previsto il ricorso ai lavori in economia?
Domanda
Il comma 3-bis aggiunto dalla L. 22.12.2011, n. 214 all'art. 33 del Codice dei Contratti Pubblici impone ai Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti di affidare ad un'unica centrale di committenza l'acquisizione di lavori, servizi e forniture nell'ambito delle Unioni dei Comuni, qualora esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i Comuni medesimi avvalendosi dei competenti uffici.
A tenore dell'art. 121, tale disposizione contenuta nella Parte II del Codice, in quanto non derogata, si applica anche ai contratti pubblici di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alla soglia comunitaria. Si richiede pertanto se anche per l'acquisizione di lavori, servizi e forniture in economia ci si debba obbligatoriamente avvalere della centrale unica di committenza.
Risposta
Al fine di rispondere al quesito posto è opportuno premettere che ai sensi dell'art. 125, comma 1, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, "Le acquisizioni in economia di beni, servizi e lavori, possono essere effettuate:
a) mediante amministrazione diretta;
b) mediante procedura di cottimo fiduciario
".
Con riferimento al cottimo fiduciario, il successivo comma 4 della norma invocata ne conferma la natura di procedura negoziata, con conseguente procedimentalizzazione della fase di affidamento, assoggettata alle regole di evidenza pubblica quali il rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque operatori da individuarsi mediante indagini di mercato ovvero elenchi di operatori economici predisposti dalla stazione appaltante.
L'acquisizione di beni, servizi e lavori mediante amministrazione diretta, invece, non sembra annoverabile nel genus delle procedure di evidenza pubblica, atteso che non è procedimentalizzata, neppure dal nuovo D.P.R. 05.10.2010, n. 207, in quanto non sussiste alcun affidamento a terzi di prestazioni.
Tanto premesso, è di particolare interesse evidenziare che ai sensi dell'art. 33, comma 3-bis, Codice Appalti, introdotto dall'art. 23, comma 4, D.L. 06.12.2011, n. 201, "I Comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna Provincia affidano obbligatoriamente ad un'unica centrale di committenza l'acquisizione di lavori, servizi e forniture nell'ambito delle unioni dei comuni, di cui all'articolo 32 del testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici".
Benché la norma più su riprodotta si riferisca testualmente all'"acquisizione di lavori, servizi e forniture", dunque senza distinguere tra le varie tipologie di gare ammesse dal Codice Appalti, l'art. 23, comma 5, D.L. 06.12.2011, n. 201, ha espressamente circoscritto l'applicazione dell'invocato art. 33, comma 3-bis, solo alle "gare bandite successivamente al 31.03.2012".
Dunque, sembrerebbe che agli Enti Locali con meno di 5.000 abitanti sia fatto divieto di gestire autonomamente ed in proprio i procedimenti finalizzati all'acquisizione di lavori, servizi e forniture in cui la selezione dell'offerente debba avvenire mediante un confronto concorrenziale tra più candidati.
In tal senso sembra deporre anche la relazione di accompagnamento al D.L. 06.12.2011, n. 201, ove è stato evidenziato che la finalità di detta norma è superare la frammentazione degli appalti pubblici e ridurre i costi di gestione delle procedure di evidenza pubblica (08.02.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

NEWS

ENTI LOCALI: Stop ai passaggi fra società ed ente.
I Comuni che riportano attività al proprio interno, smantellando società a cui erano stati affidati servizi in-house, non possono derogare ai vincoli nella spesa di personale quando trasferiscono anche il personale prima impiegato nella "loro" azienda.
Lo stabiliscono due delibere delle sezioni riunite della Corte dei conti (n. 3 e 4/2012) che, pur riconoscendo il fatto che questa lettura può produrre effetti punitivi soprattutto per gli enti più virtuosi, e bloccare anche riorganizzazioni in grado di diminuire i costi complessivi a carico del bilancio pubblico, non «possono discostarsi» da un'interpretazione restrittiva delle regole sul personale. Il problema, si legge fra le righe delle decisioni assunte dai magistrati contabili, è nelle leggi, non in chi è chiamato a darne una «interpretazione autentica».
La questione comincia a diffondersi per effetto delle tante norme introdotte negli ultimi anni per vietare la costituzione di nuove società (Dl 78/2010), limitare gli affidamenti all'esterno (Dl 98/2011) e limitare drasticamente l'in-house anche nei servizi a rilevanza economica (Dl 138/2011, rafforzato dal Dl 1/2012). In pratica, un Comune ha chiesto la possibilità di riportare al proprio interno servizi e personale che fino a ieri erano in capo a una società ora in via di smantellamento.
Il Comune ha chiarito di essere in linea con tutti i parametri che vincolano la spesa di personale, aggiungendo che la riorganizzazione avrebbe ridotto i costi complessivi legati alle attività prima svolte dalla società. L'intera operazione, però, prevedeva anche il "trasferimento" del personale da parte del Comune, con conseguente sforamento del tetto che vieta di spendere in assunzioni più del 20% dei risparmi ottenuti con le cessazioni dell'anno prima.
Il problema nasce dal fatto che i vincoli di personale, sia il parametro del 20% sia quello del 50% nel rapporto fra spese per risorse umane e uscite correnti complessive, si calcolano in maniera «consolidata», comprendendo nei conti sia il Comune sia le società. Scomparendo la società, quindi, saltano i tetti. Non solo: le aziende spesso hanno assunto personale senza passare per i concorsi pubblici, che invece rappresentano l'unica strada per entrare nei ruoli del Comune (articolo Il Sole 24 Ore del 09.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: La pubblica amministrazione può sempre, nella cura dell’interesse pubblico, rivedere le proprie decisioni.
È legittimo il provvedimento di revoca di una gara di appalto -disposta in una fase non ancora definita della procedura concorsuale, ancora prima del consolidarsi delle posizioni delle parti e quando il contratto non è stato ancora concluso– laddove tale provvedimento è motivato con riferimento al risparmio economico che deriverebbe dalla revoca stessa.
Questa è, in sintesi, la conclusione cui è approdata la IV Sez. del Consiglio di Stato, sentenza 07.02.2012 n. 662, richiamando l’art. 21-quinquies L. 241/1990, che consente un ripensamento da parte della amministrazione là dove questa ritenga di operare motivatamente una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.
I giudici di palazzo Spada, nell’occasione, ricordano che la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge, in via alternativa, o per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell'interesse pubblico originario (Cons. Stato, sez. V, 18.01.2011, n. 283).
Tale provvedimento, assunto in esercizio di potere di autotutela, deve essere, tuttavia, adeguatamente motivato, in particolare allorché incide su posizioni in precedenza acquisite dal privato, non solo con riferimento ai motivi di interesse pubblico che giustificano il ritiro dell'atto, ma anche in considerazione delle posizioni consolidate e all'affidamento ingenerato nel destinatario dell'atto da revocare (commento tratto da www.diritto.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTINel caso di revoca di provvedimento amministrativo (come è quello in esame, riferito ad una precedente aggiudicazione definitiva), possono ricorrere situazioni diverse, cui il legislatore (e la stessa giurisprudenza) riconnettono differenti discipline e conseguenze.
Occorre, infatti, distinguere tra:
- obbligo dell’amministrazione all’indennizzo, ex art. 21-quinquies l. n. 241/1990, per il caso di revoca del provvedimento amministrativo;
- risarcimento del danno conseguente a constatata illegittimità del provvedimento di revoca, laddove venga accertata l’esistenza degli ulteriori presupposti di configurazione del danno risarcibile (ipotesi, questa, esclusa nel caso in esame, stante la già riconosciuta legittimità dell’atto di revoca);
- risarcimento del danno derivante da accertata responsabilità contrattuale, laddove la revoca del provvedimento giunga a determinare la caducazione del contratto già stipulato (caso anch’esso non ricorrente nella presente sede);
- risarcimento del danno derivante da responsabilità extracontrattuale (in particolare, precontrattuale) della Pubblica amministrazione (ex art. 1337 c.c.).

Orbene, il Collegio rileva come, nel caso di revoca di provvedimento amministrativo (come è quello in esame, riferito ad una precedente aggiudicazione definitiva), possono ricorrere situazioni diverse, cui il legislatore (e la stessa giurisprudenza) riconnettono differenti discipline e conseguenze.
Occorre, infatti, distinguere tra:
- obbligo dell’amministrazione all’indennizzo, ex art. 21-quinquies l. n. 241/1990, per il caso di revoca del provvedimento amministrativo;
- risarcimento del danno conseguente a constatata illegittimità del provvedimento di revoca, laddove venga accertata l’esistenza degli ulteriori presupposti di configurazione del danno risarcibile (ipotesi, questa, esclusa nel caso in esame, stante la già riconosciuta legittimità dell’atto di revoca);
- risarcimento del danno derivante da accertata responsabilità contrattuale, laddove la revoca del provvedimento giunga a determinare la caducazione del contratto già stipulato (caso anch’esso non ricorrente nella presente sede);
- risarcimento del danno derivante da responsabilità extracontrattuale (in particolare, precontrattuale) della Pubblica amministrazione (ex art. 1337 c.c.).
Quanto al primo caso, ai sensi dell’art. 21-quinquies l. n. 241/1990, la revoca del provvedimento amministrativo determina che se la stessa “comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo” (comma 1).
La misura di tale indennizzo è stata, successivamente, definita, per la revoca di atti amministrativi incidenti su rapporti negoziali, dallo stesso legislatore che (dapprima inserendo il comma 1-bis nel citato art. 21-quinquies, per mezzo dell’art. 13, co. 8–duodevicies d. l. n. 7/2007, conv. in l. n. 40/2007, in seguito per il tramite del comma 1-ter, aggiunto dall’art. 13, d. l. n. 112/2008, conv. in l. n. 133/2008: commi, peraltro, di identico testo), ha parametrato detta misura “al solo danno emergente”, e tenendo conto “sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico”.
L’obbligo di indennizzo gravante sulla Pubblica Amministrazione, come previsto e definito nella sua misura dall’art. 21-quinquies, non presuppone elementi di responsabilità della stessa, ma si fonda su valori puramente equitativi considerati dal legislatore, onde consentire il giusto bilanciamento tra il perseguimento dell’interesse pubblico attuale da parte dell’amministrazione e la sfera patrimoniale del destinatario (incolpevole) dell’atto di revoca, cui non possono essere addossati integralmente i conseguenti sacrifici.
Ricorre, dunque, l’ipotesi che suole definirsi come di responsabilità della Pubblica Amministrazione per attività legittima (forma conosciuta dal nostro ordinamento, come conseguente ad atti leciti, fin dall’art. 46 l. 25.06.1865 n. 2359), la quale, lungi dal trovare il proprio presupposto in fatti o atti illeciti ovvero in atti illegittimi imputabili alla stessa amministrazione, più propriamente risponde ad intenti equitativi, e, a stretto rigore, non potrebbe essere definita utilizzando il termine “responsabilità”.
Tale ipotesi differisce nettamente da quella risarcitoria, di modo che anche le due azioni devono essere tenute distinte, sia con riferimento alla causa petendi, sia con riferimento al petitum.
La causa petendi, nel giudizio volto ad ottenere l’indennizzo, deve essere ravvisata nella legittimità dell’atto adottato dall’amministrazione, ovvero nella liceità della condotta da questa tenuta, e che ha causato il pregiudizio; mentre nel giudizio risarcitorio, essa consiste nel fatto o nell’atto produttivo del danno.
Quanto al petitum, nel giudizio per responsabilità da atti legittimi o leciti, esso è limitato al pregiudizio immediatamente subito, ed è quindi limitato al cd. danno emergente, mentre nel giudizio risarcitorio esso si estende –fermi, ovviamente, i necessari presupposti probatori- a tutto il pregiudizio (danno emergente e lucro cessante), conseguente all’illegittima violazione della sfera giuridico-patrimoniale del soggetto leso.
Con riferimento alla revoca ed alle sue conseguenze, l’art. 21–quinquies rappresenta, come è noto, un punto di arrivo di un percorso giurisprudenziale che, inizialmente, e fino a tempi recenti, era nel senso di escludere qualsiasi indennizzo per il soggetto nei cui confronti fosse intervenuta la revoca in modo legittimo di un precedente provvedimento amministrativo per lui vantaggioso (Cons. St., sez. VI, 06.06.1969, n. 266), salvo ipotizzarla solo in casi particolari (Cass. Sez. Un. 02.04.1959, n. 672).
Attualmente, dunque, l'attribuzione dell'indennizzo a favore del soggetto che direttamente subisce il pregiudizio, presuppone innanzitutto la legittimità del provvedimento di revoca, atteso che in caso di revoca illegittima subentra eventualmente, sussistendone gli ulteriori presupposti, la diversa ipotesi del risarcimento del danno (Cons. Stato, sez. V, 06.10.2010 n. 7334 e 14.04.2008, n. 1667; sez. VI, 08.09.2009, n. 5266).
Inoltre, poiché, nel caso dell’indennizzo ora considerato, e per le ragioni esposte, non sussiste una responsabilità contrattuale o extracontrattuale (e segnatamente, precontrattuale), che determini l’insorgere di tale obbligazione, non vi è luogo per accertare la presenza di colpa nell'apparato amministrativo (Cons. St., sez. V, 10.02.2010 n. 671).
Infine, l'indennizzo spettante al soggetto direttamente pregiudicato dalla revoca di un provvedimento va circoscritto al "danno emergente", sia perché ciò è espressamente stabilito dalla norma, sia perché esso risponde ai principi generali in tema di obbligo di indennizzo da parte della P.A. per pregiudizio derivante da sua attività legittima o lecita, sia perché esso costituisce applicazione particolare di una previsione in via generale introdotta per le conseguenze dell’esercizio del potere di autotutela.
Infatti, è altresì previsto, in forme non dissimili da quanto statuito per la revoca, l’obbligo di indennizzo per il caso di annullamento di provvedimento amministrativo incidente su rapporti contrattuali.
L’art. 1, comma 136, l. 30.12.2004 n. 311, prevede che “al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto l'annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l'esecuzione degli stessi sia ancora in corso. L'annullamento di cui al primo periodo di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall'eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall'acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”.
Come la giurisprudenza ha già avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. VI, 18.09.2009 n. 5621), la disposizione nel suo contenuto prescrittivo è volta a rendere recessivo il c.d. consolidamento delle situazioni soggettive del privato derivanti da provvedimenti inficiati da vizi di legittimità, consentendo l’autotutela indipendentemente dal lasso temporale decorso dall’adozione dell’atto, ma, come reso evidente dal termine “può” che precede la scelta di disporre dell’annullamento l’ufficio, essa non fa venir meno la natura ampiamente discrezionale di detta potestà che non può essere resa coercibile ad iniziativa del destinatario del provvedimento o di un terzo interessato.
Allo stesso, tempo, la norma prevede, per i provvedimenti “incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali”, un termine all’esercizio del potere di annullamento (tre anni dall’acquisita efficacia dell’atto annullando), nonché la necessità di “tenere indenni i privati stessi dall’eventuale pregiudizio patrimoniale derivante”.
Anche in questo caso, ed a maggior ragione, trattandosi di intervento in autotutela su provvedimento illegittimo, la natura dell’obbligazione dell’amministrazione è indennitaria e non risarcitoria; presuppone che non vi sia stata conoscenza, secondo criteri di media diligenza, dell’illegittimità dell’atto da parte del suo destinatario (che invece ha confidato nella sua legittimità), e che non vi sia stato il concorso nella produzione del vizio di legittimità inficiante l’atto. La misura dell’indennizzo, infine, deve ritenersi limitata al danno emergente.
In definitiva, per le ipotesi di esercizio di potere di autotutela su provvedimenti inerenti a rapporti contrattuali (revoca o annullamento d’ufficio), ferma la necessità di riscontrare la sussistenza degli altri presupposti previsti, l’indennizzo è parametrato al solo “danno emergente”.
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Diversamente da quanto affermato per l’indennizzo, l’obbligazione della pubblica amministrazione per responsabilità contrattuale o extracontrattuale ha natura risarcitoria e, nel caso della responsabilità precontrattuale (che ricorre nel caso in esame e che costituisce species della responsabilità extracontrattuale: Cons. St., sez. V, 10.11.2008 n. 5574), si fonda, ai sensi dell’art. 1337 cod. civ., sulla violazione dei principi di correttezza e buona fede “nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto”.
Come ha chiarito anche l’Adunanza Plenaria (dec. 05.09.2005 n. 6), l’accertamento della eventuale responsabilità precontrattuale dell’amministrazione non è esclusa dalla dichiarata legittimità del provvedimento (di annullamento o, in particolare, di revoca) assunto in via di autotutela, posto che, se “la revoca dell'aggiudicazione e degli atti della relativa procedura (vale) a porre al riparo l'interesse pubblico dalla stipula di un contratto che l'amministrazione non avrebbe potuto fronteggiare per carenza delle risorse finanziarie occorrenti” (tale il presupposto della revoca nel caso considerato), permane tuttavia “il fatto incancellabile degli "affidamenti" suscitati nell'impresa dagli atti della procedura di evidenza pubblica poi rimossi (affidamenti che sono perdurati fino a quando non è stata comunicata alla parte privata la revoca degli atti. . . .”, posto che “l'impresa non poteva non confidare, durante il procedimento di evidenza pubblica, dapprima sulla "possibilità" di diventare affidataria del contratto e più tardi -ad aggiudicazione intervenuta- sulla disponibilità di un titolo che l'abilitava ad accedere alla stipula del contratto stesso.”.
Precisa, inoltre, l’Adunanza Plenaria che “occorre, naturalmente, che i comportamenti predetti -per porsi quali fatti generatori di responsabilità precontrattuale- risultino contrastanti con le regole di correttezza e di buona fede di cui all'art. 1337 del c.c..”.
In sostanza, ai fini della configurabilità della responsabilità precontrattuale della p.a. non si deve tener conto della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, ma della correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall'Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede ai sensi dell'art. 1337 c.c. (Cons. St., sez. V, 07.09.2009 n. 5245).
Si è, dunque, affermato che la responsabilità precontrattuale non è configurabile anteriormente alla scelta del contraente, come nella fase in cui gli interessati sono solo meri partecipanti alla gara (Cons. St., sez. V, 28.05.2010 n. 3393; 08.09.2010 n. 6489).
Tuttavia, si è anche sostenuto (Cons. St., sez. VI, 17.12.2008 n. 6264) che non vi sono ragioni sistematiche onde escludere la configurabilità di una responsabilità di carattere precontrattuale in capo all'Amministrazione in ipotesi in cui il mancato rispetto dei generali canoni di buona fede e correttezza in contrahendo si sia risolto in un'attività nel suo complesso illegittima, la quale abbia comunque determinato l'impossibilità del sorgere del vincolo contrattuale, atteso che -per un verso- le trattative fra le parti sono state interrotte al mero stadio dell'aggiudicazione provvisoria (fase in cui, anche nel sistema anteriore all'entrata in vigore del c.d. “codice dei contratti” era pacifica l'assenza di un vincolo stricto sensu contrattuale) e che -per altro verso- nel corso di tale fase grava sul soggetto pubblico l'obbligo di comportarsi secondo buona fede, atteso che nel corso delle trattative sorge tra le parti un rapporto di affidamento che l'ordinamento ritiene meritevole di tutela.
Secondo tale giurisprudenza, se, infatti, durante la fase formativa di un negozio giuridico la p.a. viola il dovere di lealtà e correttezza, ponendo in essere comportamenti che non salvaguardano l'affidamento della controparte in modo da sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del contratto, essa risponde per responsabilità precontrattuale ai sensi dell'art. 1337 c.c.
Al contrario, è stata esclusa la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione allorché la stipulazione del contratto avverrebbe in violazione di norme imperative (Cons. St., sez. VI, 03.02.2011 n. 780). Occorre, infatti, ricordare che l’art. 1337 mira a tutelare nella fase precontrattuale il contraente di buona fede, ingannato o fuorviato da una situazione apparente, non conforme a quella vera, e, comunque, dall’ignoranza della causa di invalidità del contratto, che né doveva da egli essere conosciuta (come nel caso di violazione di norme imperative), né poteva essere conosciuta con l’ordinaria diligenza (Cass. Civ., sez. III, 08.07.2010 n. 16149; sez. I, 13.05.2009 n. 11135).
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Così ricostruiti gli aspetti salienti della responsabilità precontrattuale, il Collegio rileva che, secondo un orientamento affermato in giurisprudenza (Cons. St., sez. VI, 17.12.2008 n. 6264), il danno risarcibile a titolo di responsabilità precontrattuale da parte della pubblica Amministrazione a seguito della mancata stipula dal contratto, debba intendersi limitato:
a) al rimborso dalle spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative svolte in vista della conclusione del contratto (danno emergente);
b) al ristoro della perdita, se adeguatamente provata, di ulteriori occasioni di stipulazione con altri di contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi, impedite proprio dalle trattative indebitamente interrotte (lucro cessante), con esclusione del mancato guadagno che sarebbe stato realizzato con la stipulazione e l'esecuzione del contratto (in tal senso, ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2008, n. 2680; id., Sez. V, sent. 14.04.2008, n. 1667 e 10.11.2008 n. 5574; Cons. giust. Sicilia, 25.01.2011 n. 63).
Tuttavia, a fronte di tale orientamento, che –positivamente ricondotto il danno risarcibile al cd. “interesse negativo”, cioè all’interesse del soggetto a non essere leso nell’esercizio della sua libertà negoziale– richiede che sia comunque fornita la prova della esistenza di ulteriori occasioni di stipulazione di altri contratti, impedite nel loro realizzarsi proprio dalle trattative indebitamente interrotte, si pone altra giurisprudenza (Cons. St., Ad. Plen., 05.09.2005 n. 6), che afferma come “anche con riferimento alla perdita di altre occasioni da parte dell'impresa, sembra preferibile conformarsi al criterio equitativo . . . (già adottato qualche volta dalla giurisprudenza amministrativa), del riconoscimento al concorrente dell'utile economico che sarebbe derivato dalla gestione del servizio messo in gara nella misura del 10% dell'ammontare dell'offerta”.
Il Collegio osserva, innanzi tutto, che la misura del risarcimento del danno, conseguente a responsabilità precontrattuale, non è concettualmente riducibile al solo “danno emergente”.
Non può, dunque, essere condivisa la sentenza appellata (ritenendosi invece fondata la doglianza dell’appellante sul punto) laddove essa afferma che il danno da responsabilità precontrattuale consiste nel solo “danno emergente per spese sostenute”, aggiungendo che ciò è quel che avverrebbe “se si facesse applicazione . . . dell’art. 21–quinquies l. n. 241/1990”.
Può dirsi, infatti, sufficientemente condiviso che la responsabilità precontrattuale comporta obbligo di risarcimento del danno nei limiti del cd. interesse negativo, e cioè dell’interesse del soggetto a non essere leso nell’esercizio della sua libertà negoziale. (laddove l’interesse positivo è interesse all’esecuzione del contratto).
Mentre l’interesse positivo consiste nella perdita che il soggetto avrebbe evitato (danno emergente) e nel vantaggio economico che avrebbe conseguito (lucro cessante) se il contratto fosse stato eseguito, al contrario il danno proprio dell’interesse negativo consiste nel pregiudizio che il soggetto subisce per avere inutilmente confidato nella conclusione e nella validità del contratto ovvero per avere stipulato un contratto che senza l’altrui ingerenza non avrebbe stipulato o avrebbe stipulato a condizioni diverse.
Ne consegue che, nel caso di mancata conclusione del contratto, il soggetto avrà diritto al risarcimento del danno consistente innanzi tutto nelle spese inutilmente sostenute, e consistente inoltre nella perdita di favorevoli occasioni contrattuali, cioè di ulteriori possibilità vantaggiose sfuggite al contraente a causa della trattativa inutilmente intercorsa, ovvero a causa dell’inutile stipulazione del contratto.
A tali voci, ritiene il Collegio che deve essere aggiunto il cd. “danno curriculare”, cioè quel danno consistente nell’impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell’appalto non eseguito.
E ciò in considerazione del fatto che, nel caso di specie, la responsabilità precontrattuale della P.A. non si configura con riferimento ad una interruzione delle trattative, che determina la mancata stipula del contratto, intervenuta in un generico momento delle stesse, bensì laddove si era già addivenuti alla sicura individuazione del contraente, per il tramite dell’aggiudicazione definitiva ed in presenza di un contenuto contrattuale già compiutamente definito, per il tramite del bando di gara e dell’offerta aggiudicataria.
In definitiva:
- mentre nel caso di indennizzo ex art. 21–quinquies, la misura del medesimo è parametrata al solo “danno emergente”;
- nel caso di responsabilità precontrattuale, la misura del risarcimento comprende sia il danno emergente, sia (ove provato) il danno derivante dalla perdita di ulteriori favorevoli occasioni contrattuali, sia (laddove vi sia mancata stipulazione del contratto a fronte di aggiudicazione definitiva) il cd. danno curriculare.
Ove si voglia diversamente considerare, appare singolare e privo di ragionevolezza che l’ordinamento riconosca due attribuzioni patrimoniali, distinte ma di identica misura, benché nel primo caso (ex art. 21-quinquies l. n. 241/1990), non vi sia alcuna attività illegittima o illecita dell’amministrazione, mentre nel secondo vi è un accertato illecito comportamento della medesima, tale da fondare responsabilità precontrattuale.
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Già tale considerazione –afferente al titolo causale dell’attribuzione patrimoniale– induce ad una ricerca più attenta sulla esatta misura del danno risarcibile, laddove, come nel caso di specie, vi sia stata mancata stipulazione del contratto per intervenuta revoca (legittima) dell’atto di aggiudicazione definitiva.
Ulteriori considerazioni, volte a determinare diversamente la misura del danno da responsabilità precontrattuale, discendono dall’esame della giurisprudenza in tema di risarcimento del danno da provvedimento illegittimo (come nel caso in cui vi sia successivo annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione definitiva).
Innanzi tutto, occorre ricordare, in via generale, che, secondo il Consiglio di Stato (sez. V, n. 490/2008) “il danno, per essere risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità del risultato utile” e ciò è quello che “distingue la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile”.
In tal senso, la giurisprudenza ha ancorato il risarcimento del danno cd. “da perdita di chance” a indefettibili presupposti di certezza dello stesso, escludendo il caso in cui l’atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una “eventualità” di conseguimento del bene della vita. Ed infatti, in tale ultimo caso, risulta pienamente esaustiva la tutela ripristinatoria offerta dall’annullamento e dalle sue conseguenze (in tal senso, Cons. Stato, sez. V, 03.08.2004 n. 5440; sez. V, 25.02.2003 n. 1014; sez. VI, 23.07.2009 n. 4628; Cass. civ., sez. I, 17.07.2007 n. 15947).
Quanto al requisito soggettivo della colpa, questa deve essere valutata tenendo conto dei vizi che inficiano il provvedimento, della gravità delle violazioni ad essa imputabili (anche alla luce del potere discrezionale concretamente esercitato), delle condizioni concrete e dell’apporto eventualmente dato dai privati al procedimento (Cons. Stato, sez. VI, 15.06.2009 n. 3827). Il requisito è inoltre integrato dalla violazione delle regole procedimentali in tema di autotutela (Cons. Stato, sez. V, 21.08.2009 n. 5004).
In ogni caso, non è configurabile un danno risarcibile per equivalente, allorché, per effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione, vi sia ripetizione della gara d’appalto (e della connessa attività amministrativa), e quindi il ripristino della chance di aggiudicazione (Cons. Stato, sez. V, 28.08.2009 n. 5105).
Quanto alle “voci” del danno risarcibile, esse consistono (Cons. Stato, sez. V, n. 491/2008; sez. VI, n. 2384/2010):
a) nel danno emergente, costituito dalle spese e dai costi sostenuti per la preparazione dell’offerta e per la partecipazione alla procedura (secondo Cons. Stato, sez. VI, 21.05.2009 n. 3144, solo in caso di illegittima esclusione dalla gara);
b) nel lucro cessante, determinato nel 10% del valore dell’appalto, precisandosi anche che il lucro cessante è innanzi tutto determinato sulla base dell’offerta economica presentata al seggio di gara (Cons. Stato, sez. V, 06.04.2009 n. 2143);
c) una ulteriore percentuale del valore dell’appalto, “a titolo di perdita di chance, legata alla impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell’appalto non eseguito”, cd. “danno curriculare” (in senso conforme, Cons. Stato, sez. VI, 09.06.2008 n. 2751; sez. V., 23.07.2009 n. 4594; secondo Cons. Stato, sez. VI, n. 3144/2009, la percentuale del “danno curriculare” va calcolata sulla misura del lucro cessante e non già sull’importo dell’appalto);
d) il danno, equitativamente liquidato, per il mancato ammortamento di attrezzature e macchinari;
e) infine, il danno esistenziale, posto che “il diritto all’immagine, concretizzantesi nella considerazione che un soggetto ha di sé e nella reputazione di cui gode, non può essere considerato appannaggio esclusivo della persona fisica e va anzi riconosciuto anche alle persone giuridiche”.
Orbene, come è dato osservare, nelle ipotesi di risarcimento del danno da provvedimento illegittimo (come nel caso del danno subito dal partecipante alla gara secondo classificato che avrebbe dovuto essere aggiudicatario, e che ha quindi subito gli effetti di un provvedimento illegittimo), la prova dell’esistenza del medesimo interviene in base ad una verifica del caso concreto, che faccia concludere per la “certezza” del danno, sussistente sia laddove questo possa essere a tutta evidenza riscontrato, sia laddove vi sia “una rilevante probabilità del risultato utile”.
In definitiva, l’esame della sussistenza del danno da perdita di chance interviene:
- o attraverso la constatazione in concreto della sua esistenza, ottenuta attraverso elementi probatori (ad esempio, si è in presenza di un contratto eseguito o in esecuzione, che avrebbe dovuto essere certamente eseguito da una diversa impresa, in luogo di quella beneficiaria di aggiudicazione illegittima);
- o attraverso una articolazione di argomentazioni logiche, che, sulla base di un processo deduttivo rigorosamente sorvegliato, inducono a concludere per la sua sussistenza;
- ovvero ancora attraverso un processo deduttivo secondo il criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, del c.d. “più probabile che non” (Cass. civ., n. 22022/2010), e cioè “alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata dai dati della comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali” (Cass., sez. III civ., n. 22837/2010).
Inoltre, quanto alla determinazione dell’entità del risarcimento, occorre osservare che la giurisprudenza riconosce, in pratica, una misura dello stesso non dissimile da quella che conseguirebbe in base alla cd, responsabilità contrattuale (danno emergente e lucro cessante): e ciò in quanto la stipulazione e l’esecuzione del contratto vi è stata, ma diverso (da quello che avrebbe dovuto legittimamente essere) è stato il soggetto parte del contratto.
Ciò che differenzia, quindi, il risarcimento del danno da atto illegittimo (cui consegue l’instaurazione di un rapporto contrattuale) da quello derivante da responsabilità precontrattuale, è che solo nel primo e non nel secondo caso, vi è l’effettiva esecuzione del contratto. Di modo che, solo nel primo e non nel secondo caso, potrà riconoscersi il lucro cessante, derivante dal mancato conseguimento dell’utile conseguibile con la esecuzione del contratto, impedita dalla precedente, illegittima attività dell’amministrazione.
A diverse conclusioni deve, invece, giungersi, per il danno curriculare.
Posto che quest’ultimo consegue alla mancata esecuzione del contratto, sia che ciò dipenda dalla non assunta qualità di parte del contratto e del rapporto per illegittima attività dell’amministrazione, sia che ciò dipenda dalla mancata stipulazione di un contratto, del quale sono già individuati con certezza parte contraente (per il tramite dell’aggiudicazione definitiva) e contenuto (per il tramite del bando di gara e dell’offerta), per nuova, legittima determinazione, assunta dall’amministrazione in via di autotutela.
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Alla luce di quanto sin qui esposto, il Collegio ritiene che, nel caso di specie, il risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale debba consistere:
- nel danno emergente, consistente nelle spese sostenute per la partecipazione alla gara, nella misura già determinata dal giudice di I grado. A tal fine. è da ritenere infondato il motivo proposto avverso la decurtazione delle voci di cui ai punti h) ed i) della sentenza, essendo condivisibile la considerazione secondo la quale le spese “sono state sostenute anche durante periodi la gara o l’aggiudicazione risultavano annullati”, e non essendo dimostrato il danno derivante dalla infruttuosa messa a disposizione del personale;
- nel cd. danno curriculare, derivante dalla mancata stipulazione ed esecuzione del contratto, non potendosi far valere, da parte dell’impresa appellante incolpevole, nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell’appalto non eseguito, posto che ciò è derivato dalla sopravvenuta necessità di determinare diversamente, da parte dell’amministrazione, il contenuto contrattuale, e ciò ad aggiudicazione definitiva già intervenuta. Tale voce va equitativamente determinata nella misura del 3% del valore dell’appalto, come definibile dalla misura dell’offerta oggetto dell’aggiudicazione definitiva (Cons. St., sez. V, 12.02.2008 n. 491 e 23.10.2007 n. 5592);
- nel lucro cessante, inerente ad ulteriori, non sfruttate, favorevoli occasioni contrattuali. A tal fine, il Collegio –a fronte delle vicende che hanno seguito l’intervenuta aggiudicazione definitiva, tutte volte a dimostrare pienamente il persistente e forte interesse dell’appellante alla stipulazione ed esecuzione del contratto– ritiene di poter assumere come comprovata la sussistenza di tale voce di lucro cessante (secondo il criterio del “più probabile che non”), determinando per essa l’entità del risarcimento nella misura del 2% del valore dell’appalto, come innanzi definito.
Contrariamente a quanto affermato ai fini del riconoscimento del cd. danno curriculare, non può essere, invece, riconosciuto il danno consistente nell’utile che sarebbe derivato dall’esecuzione del contratto (normalmente definito nel 10% del valore dell’appalto), dato che, nel caso di specie, non vi è stata esecuzione del contratto da parte di altro contraente (come nel caso di risarcimento del danno da illegittima aggiudicazione ad altro concorrente), né in ogni caso –attese le diverse determinazioni dell’amministrazione– la società appellante avrebbe potuto conseguire tale utile.
Né, infine, può essere riconosciuto il pur richiesto risarcimento del danno all’immagine, posto che esso non è configurabile nel caso di specie, laddove cioè la mancata stipulazione del contratto costituisce conseguenza del sopravvenuto, legittimo esercizio del potere di revoca dell’aggiudicazione da parte dell’amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.02.2012 n. 662 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con il rigetto della domanda di sanatoria degli abusi edilizi il Comune e' tenuto ad adottare una nuova e definitiva ordinanza di demolizione.
La presentazione di una domanda di concessione in sanatoria per abusi edilizi ex l. 28.02.1985 n. 47 (fonte richiamata dalle successive leggi di condono edilizio) impone al Comune la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi dell'abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva la necessità di una loro rinnovata adozione in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria.
Invero, delle due l’una: o l'Amministrazione accoglie la predetta domanda e rilascia la concessione edilizia in sanatoria, con il superamento per questa via degli atti sanzionatori impugnati; oppure la medesima disattende l'istanza, respingendola, e allora essa è tenuta, in base all'art. 40, comma 1, L. n. 47 del 1985 (anche questo richiamato dall’art. 32, comma 25, del d.l. 30.09.2003 n. 269, che fa rinvio a tutte le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge n. 47), a procedere al completo riesame della fattispecie, assumendo, ove del caso, nuovi, e questa volta definitivi, provvedimenti sanzionatori, che a loro volta troveranno esecuzione oppure saranno oggetto di autonoma impugnativa, con conseguente cessazione immediata anche in questo caso di ogni efficacia lesiva da parte della precedente ordinanza impugnata.
Pertanto, in presenza della richiesta di rilascio della concessione in sanatoria, si deve registrare la sopravvenuta carenza d’interesse all’annullamento dell’atto sanzionatorio in relazione al quale è stata prodotta la suddetta domanda, con la traslazione e differimento dell’interesse ad impugnare verso il futuro provvedimento che, eventualmente, abbia a respingere la domanda medesima, disponendo nuovamente la demolizione dell’opera ritenuta abusiva.
L'interesse all'appello già proposto avverso gli originari provvedimenti repressivi assume dunque natura recessiva (VI, 26.03.2010, n. 1750; 07.05.2009, n. 2833; 12.11.2008, n. 5646; V, 26.06.2007, n. 3659; 19.02.1997, n. 165) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.02.2012 n. 654 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Non compete né alla Giunta né al Dirigente conferire il mandato all'avvocato per la difesa dell'Ente Locale, bensì al Sindaco salvo diversa disposizione statutaria.
Nel giudizio in esame il Consiglio di Stato è chiamato, tra l'altro, ad esaminare l'eccezione formulata dall'appellante di asserita incompetenza dell’organo giuntale a decidere di proporre appello avverso la sentenza di primo grado, trattandosi, secondo la tesi dell’appellante, di atto rientrante nella competenza propria dei dirigenti.
Sul punto il Collegio osserva che, secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, dall’esame degli articoli 35 e 36 della legge 08.06.1990, n. 142, poi trasfusi negli articoli 48, comma 2, e 50, commi 2 e 3, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, si ricava il principio secondo cui competente a conferire al difensore del Comune la procura alle lite è il sindaco, non essendo più necessaria l’autorizzazione della Giunta Municipale, atteso che al Sindaco è attribuita la rappresentanza dell’ente (Cass. SS.UU. 10.05.2001, n. 186; 10.12.2002, n. 17550), con la conseguenza che la decisione di agire e resistere in giudizio ed il conferimento del mandato alle liti competono in via ordinaria e salva deroga statutaria, al rappresentante legale dell’ente, senza bisogno di autorizzazione della giunta o dei dirigente competente ratione materiae (C.d.S., sez. V, 18.03.2010, n. 1588; 07.09.2007, n. 4721, 16.02.2009, n. 848; sez. VI, 01.10.2008, n. 4744; 09.06.2006, n. 3452; Cass. civ. sez. I, 17.05.2007, n. 11516), ferma restando tuttavia la possibilità dello statuto (competente a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio) di prevedere l’autorizzazione della giunta (ovvero di richiedere una preventiva determinazione del dirigente ovvero ancora di postulare l’uno e l’altro intervento) (Cass. SS.UU., 16.06.2005, n. 12868) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.02.2012 n. 650 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: L'illegittimità della delibera di conferimento dell'incarico difensivo all'avvocato non incide sulla regolarità e validità della costituzione in giudizio dell’amministrazione comunale, essendo tutt’al più causa di responsabilità amministrativa o penale dell’organo che l’ha adottata.
Nel giudizio in esame il Consiglio di Stato rileva l'inammissibilità per difetto di interesse della censura relativa all'inammissibilità della delibera di conferimento dell’incarico difensivo per non essere stato scelto il difensore con un’apposita procedura ad evidenza pubblica.
Sul punto il Collegio osserva che l’eventuale illegittimità della delibera di conferimento dell’incarico defensionale, come prospettato dall’appellante, non incide affatto sulla regolarità e validità della costituzione in giudizio dell’amministrazione comunale, essendo tutt’al più causa di responsabilità (amministrativa o penale) dell’organo che l’ha adottata, senza perciò spiegare nessun effetto favorevole, diretto ed immediato, sulla posizione giuridica dell’appellata; legittimati a dolersi di tale pretesa illegittimità sarebbero stati soltanto altri avvocati, eventualmente interessati a partecipare alla procedura di evidenza pubblica, della cui necessità tuttavia può ragionevolmente dubitarsi, sia perché l’affidamento (in mancanza di ulteriori elemento di giudizio) riguarda sola la controversia in esame (e non già i servizi legali da prestare in favore dell’amministrazione comunale), sia in ragione del modestissimo ammontare della spesa impegnata (€. 2.000,00) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.02.2012 n. 650 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Non può essere limitato il diritto di accesso agli atti della procedura concorsuale in quanto le domande ed i documenti prodotti dai candidati, i verbali, le schede di valutazione e gli stessi elaborati costituiscono documenti rispetto ai quali deve essere esclusa in radice l'esigenza di riservatezza a tutela dei terzi.
Ad avviso del giudice amministrativo il ricorrente -avendo partecipato ad una procedura concorsuale- è titolare di un interesse qualificato e differenziato alla regolarità della procedura che, come tale, concretizza quell'"interesse personale e concreto per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti" che l'art. 2 del DPR n. 352/1992, in puntuale applicazione dell'art. 22 della L. n. 241/1990, richiede quale presupposto necessario per il riconoscimento del diritto di accesso (ex plurimis CS, sez VI, n. 6246/2000).
Tale interesse è stato puntualmente evidenziato nell'istanza di accesso nella quale il ricorrente ha manifestato l'intenzione di valutare la legittimità degli atti della procedura concorsuale e, se del caso, di tutelare in sede giurisdizionale le proprie ragioni.
E' consolidato l’orientamento giurisprudenziale (CS, sez. VI, n. 260/1997; Tar Campania n. 7538/1997; Tar Emilia Romagna, Parma, n. 274/2001) per cui le domande ed i documenti prodotti dai candidati, i verbali, le schede di valutazione e gli stessi elaborati costituiscono documenti rispetto ai quali deve essere esclusa in radice l'esigenza di riservatezza a tutela dei terzi, posto che i concorrenti, prendendo parte alla selezione, hanno evidentemente acconsentito a misurarsi in una competizione di cui la comparazione dei valori di ciascuno costituisce l'essenza.
Tali atti, quindi, una volta acquisiti alla procedura, escono dalla sfera personale dei partecipanti che, pertanto, non assumono la veste di controinteressati in senso tecnico nel presente giudizio (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 30.01.2012 n. 1032 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Deve essere garantito il diritto di accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere gli interessi giuridici del richiedente.
L’art. 22 della legge n. 241 del 1990 per l’esercizio del diritto di accesso richiede l’interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso. Nel caso di specie, pertanto, il giudice ha ritenuto che i ricorrenti hanno un interesse concreto ad attuale alla conoscenza degli atti in quanto riguardano l’esproprio di una area di loro proprietà.
Invero, ai sensi del comma 2 dell’art. 22 l’accesso ai documenti costituisce principio generale dell’azione amministrativa e l'art. 24 della legge n. 241, che attribuisce alle amministrazioni il potere di limitare o differire il diritto di accesso, prevede che debba essere comunque garantito l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 30.01.2012 n. 995 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa valutazione in ordine alla necessità della concessione edilizia per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione; in base a tale criterio, dunque, non è necessario il permesso per costruire per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, cioè, ad esempio, per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno, in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o comunque la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà; occorre, invece, il permesso, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica, incidendo esso in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio.
Per la posa in opera di una semplice recinzione con paletti in ferro, non infissi in muratura nel terreno, non è, dunque, necessaria alcuna richiesta di provvedimento concessorio, trattandosi di installazione precaria che non incide in modo permanente sull'assetto edilizio del territorio.

Il ricorrente, proprietario di un villino con annesso terreno sito in Via ... del Comune di Rende, espone di aver provveduto ad installare, per ragioni di tutela della privacy e della riservatezza data la natura collinare del terreno, dei pannelli di policarbonato rimovibili, alti circa m. 0,90, fissati mediante viti su paletti di ferro per un lunghezza di m. 10,00, collocati all’interno della recinzione preesistente e, sul lato ovest, un telo a mo’ di tappeto erboso alto m. 2,00 e lungo m. 23, sostenuto da paletti zincati posti sul terreno a distanza di m. 0,20 dalla recinzione di confine.
...
Preliminarmente, giova osservare che le opere in questione, costituite da pannelli in policarbonato facilmente rimovibili, fissati mediante viti su paletti in ferro e, sul lato ovest, da un telo sostenuto da paletti zincati, possono essere qualificate come recinzione –nonostante in ricorso si affermi il contrario-, per quanto la funzione ad esse assegnata sembra essere solamente quella di garantire la riservatezza e la privacy dell’abitazione del ricorrente.
Fatta tale premessa, si rileva che, secondo costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, la valutazione in ordine alla necessità della concessione edilizia per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione; in base a tale criterio, dunque, non è necessario il permesso per costruire per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, cioè, ad esempio, per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno, in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o comunque la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà; occorre, invece, il permesso, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica, incidendo esso in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio.
Per la posa in opera di una semplice recinzione con paletti in ferro, non infissi in muratura nel terreno, non è, dunque, necessaria alcuna richiesta di provvedimento concessorio, trattandosi di installazione precaria che non incide in modo permanente sull'assetto edilizio del territorio. L'intervento in questione, piuttosto, rientra nella portata residuale degli interventi realizzabili con il regime semplificato della D.I.A., a mente dell'art. 22 del d.P.R. n. 06.06.2001, n.380, la cui mancanza non è sanzionabile con la rimozione o la demolizione, previste dall'art. 31 stesso T.U. per l'esecuzione di interventi in assenza del permesso di costruire, o in totale difformità del medesimo ovvero con variazioni essenziali, ma con l'applicazione della sanzione pecuniaria prevista dal successivo art. 37 per l'esecuzione di interventi in assenza della prescritta denuncia di inizio di attività (tra le altre, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 14.01.2010, n. 95; TAR Piemonte, sez. I, 15.02.2010, n. 950; TAR Lazio, Roma, sez. II, 11.09.2009, n. 8644; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 27.02.2009, n. 1151; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 24.04.2006, n. 407).
Alla luce di quanto esposto e considerata la tipologia delle opere in discussione, sopra ricordata, il Comune non avrebbe potuto adottare un ordine di demolizione delle stesse (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 18.01.2012 n. 38 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Bandi di gara, CV dei partecipanti funzionale all'oggetto dell'appalto.
Il Consiglio di Stato ha precisato che
gli elementi di valutazione per l'ammissione alle gare di appalto in ordine a pregressa esperienza nel settore sono determinabili da parte della Stazione Appaltante, ovviamente nel rispetto della normativa di settore, ma comunque rendendoli funzionali a quello che si vuole qualificare come oggetto dell'appalto.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con sentenza 16.01.2012 n. 146, ha esplicitato l'esistenza della possibilità che la Stazione Appaltante ha di definire i requisiti di idoneità professionale per la partecipazione a gara di appalto per affidamento dei servizi, ovviamente contenuta nei limiti e contorni stabiliti dalla superiore normativa statale di settore e, quindi, con decisioni congrue e compatibili con quest'ultima e sempre non restringendo il campo alla partecipazione, ma, di contro, attuando il principio del favor partecipationis.
L'occasione è offerta, in un secondo grado di giudizio, diciamo subito, confermativo del primo grado, in quanto in entrambi i giudizi vi è stata soccombenza del ricorrente, odierno appellante. Prima di passare all'esame della decisione è opportuna una breve esposizione della vicenda processuale.
E' stato adito il Giudice di prime cure con ricorso contro la Stazione Appaltante e l'aggiudicatario chiedendo l'annullamento dell'aggiudicazione e l'assegnazione della gara.
Diciamo subito che la gara era relativa all'affidamento del "servizio di riscossione delle entrate derivanti dall'occupazione di aree pubbliche destinate alla sosta dei veicoli a pagamento nell'ambito del territorio comunale".
Censura di fondo e sostanziale a sostegno del ricorso è stata la circostanza che l'aggiudicataria è stata ammessa alla procedura senza un'esperienza ed una qualificazione nella gestione di un'area pubblica a pagamento, ma con la sola e diversa professionalità nel settore della riscossione delle entrate comunali.
Sulla censura illustrata il Consiglio di Stato ha respinto l'appello perché infondato, così confermando la sentenza del giudice di prime cure. Il sostegno alla motivazione della decisione è stato addotto nella circostanza della previsione del bando di gara che, in via prioritaria e fondamentale, regolamentava un settore delle entrate comunali e, pertanto, la modalità che, nella circostanza specifica, era la gestione delle aree da cui provenivano entrate, atteneva solo ad una modalità specifica della realizzazione del servizio con le varie attività di controllo ed accertamento della sosta.
D'altronde, sottolinea il Giudicante che, comunque la Stazione Appaltante ha previsto in sede di gara anche la possibilità di partecipazione alla procedura concorsuale anche di quegli operatori che intendevano qualificarsi con il solo elemento della pregressa gestione di aree comunali adibite a parcheggio.
Sulla scorta di quanto appena riportato la Sezione ha stigmatizzato la censura del ricorrente non corretta laddove qualifica l'elemento "servizio riscossione di entrate pubbliche" estraneo alla gara e, di contro, rende sostanza e qualifica la gara come finalizzata alla sola gestione di un'opera pubblica di sosta a pagamento.
Non ha mancato il Giudicante di sottolineare che anche la deliberazione di Consiglio Comunale relativa all'approvazione del capitolato speciale di appalto per la gestione del servizio, poneva quale momento essenziale dello stesso servizio, e quindi funzionalmente della gara a questo preordinata, le entrate comunali e non la concessione di uno spazio pubblico.
D'altronde, a conferma, di ciò necessita dire che lo stesso corrispettivo del compenso per l'appaltatore era stato stabilito in una percentuale sulle entrate per la sosta e non con un canone concessorio.
E' quindi il servizio di riscossione delle entrate che ha centralità nell'appalto, nel mentre le altre attività, quali predisposizione della segnaletica, pulizia aree ed altro risultano essere accessorie e funzionali alla prima.
Sulla scorta di quanto avanti narrato il ricorso in appello è stato respinto e riconosciuta la legittimità degli atti della Stazione Appaltante con conseguente conferma della sentenza del Giudice di prime cure (tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 33, comma 2 del d.P.R. n. 380 del 2001, in presenza di opere totalmente abusive, prevede una prima fase di comminatoria della demolizione e soltanto quando l’interessato non ha ottemperato all’ordine di demolizione prevede una seconda fase “in cui l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33 comma 2, e 34 comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001. Valutazione che deve essere effettuata mediante apposito accertamento da parte dell'Ufficio Tecnico Comunale, d'ufficio o su richiesta dell'interessato”, con la conseguenza che anche sotto questo profilo le doglianze non appaiono fondate.
Come ritenuto dalla giurisprudenza in materia, l’art. 33, comma 2 del d.P.R. n. 380 del 2001, in presenza di opere totalmente abusive, prevede una prima fase di comminatoria della demolizione e soltanto quando l’interessato non ha ottemperato all’ordine di demolizione prevede una seconda fasein cui l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33 comma 2, e 34 comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001. Valutazione che deve essere effettuata mediante apposito accertamento da parte dell'Ufficio Tecnico Comunale, d'ufficio o su richiesta dell'interessato” (TAR Campania, Napoli, 14.06.2010, n. 14156), con la conseguenza che anche sotto questo profilo le doglianze non appaiono fondate (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 14.01.2012 n. 372 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROFESSIONALILa competenza professionale di un geometra non può estendersi alla predisposizione ed alla vigilanza su quelle attività che implicano l’utilizzo di vari principi della fisica, e si configurano come funzionalmente autonomi rispetto alle opere tipicamente murarie.
Con il primo articolato motivo di impugnazione i ricorrenti muovono dalla normativa che abilita il geometra ad operare nella progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili (art. 16, lett. m, del rd 11.02.1929, n. 274), per inferire che la legislazione successiva che ha previsto le modalità con cui possono essere realizzati gli impianti di riscaldamento non ha derogato alle generale previsione del regolamento citato.
La tesi sostenuta è in sostanza che un geometra è abilitato ad occuparsi dell’installazione di un impianto di riscaldamento, allorché si tratti di una modesta costruzione civile, posto che il bene di che si tratta costituisce una mera pertinenza dell’immobile. In tale contesto la disciplina che il legislatore ha introdotto in anni recenti avrebbe solo specificato quali sono le caratteristiche che devono assumere gli strumenti che devono apportare delle temperature sopportabili per l’uomo, ma non ha fatto rientrare nella competenza degli ingegneri o dei periti industriali la possibilità di progettare ed installare tali impianti. Gli architetti non hanno proposto un’autonoma censura, che riguarda la posizione di pertinenza.
Il tribunale non può condividere questa argomentazione.
La giurisprudenza che si condivide ha infatti ritenuto (Tar Liguria, 02.02.2005, n. 137, Tar Piemonte, 2004, n. 261; Tar Lazio, Roma, sez. III-ter 2003, n. 1698) impossibile la prospettata interpretazione estensiva della nozione di edilizia, nel sistema di ripartizione delle competenze professionali derivante dal rd 23.10.1925, n. 2537; si devono pertanto espungere dal settore di competenza i lavori, le opere od in genere le attività che comportano le applicazioni della fisica, come previste dall’art. 54, comma 4, del citato regio decreto. In particolare la realizzazione di immobili per l’abitazione od il lavoro dell’uomo non può essere concettualmente ristretta come derivante da un’unica attività, posto che determinati ritrovati devono rispondere ai requisiti di maggior tutela degli utilizzatori degli edifici, che sono perseguiti dalle norme applicate dall’impugnato diniego del comune di Genova.
E’ per ciò che l’art. 4 della legge 05.03.1990, n. 46 ha imposto la redazione di un’autonoma relazione tecnica per l’installazione degli strumenti elettrici, degli impianti di terra, di quelli che utilizzano il gas, degli ascensori …, ed ha con ciò scorporato concettualmente queste attività da quelle volte alla mera realizzazione della costruzione. Va perciò ritenuto che la competenza professionale di un geometra non può estendersi alla predisposizione ed alla vigilanza su quelle attività che implicano l’utilizzo di vari principi della fisica, e si configurano come funzionalmente autonomi rispetto alle opere tipicamente murarie.
Ne consegue che la censura in esame non può essere condivisa, perché non tiene conto dell’autonomia progettuale che la legge prevede tra l’altro per gli strumenti destinati al riscaldamento degli ambienti; il primo motivo è pertanto infondato e va respinto (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 02.03.2006 n. 166 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 09.02.2012

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NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: prevenzione delle esposizioni al gas radon in ambienti indoor. Integrazioni dei Regolamento Edilizi (ASL di Bergamo, nota 07.02.2012 n. 15410 di prot.).
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La nota di cui sopra si riferisce a questo documento: Linee guida per la prevenzione delle esposizioni al gas radon in ambienti indoor (Regione Lombardia, Direzione Generale Sanità, decreto 21.12.2011 n. 12678).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Oggetto: Parere del Consiglio di Stato - Sez. I n. 706/2011 del 16.11.2011 relativo al rimborso oneri per permessi retribuiti fruiti da amministratori dipendenti da Ferrovie dello Stato S.p.A. e da altri enti pubblici - Art. 80 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (Ministero dell'Interno, nota 17.01.2012 n. 739 di prot.).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Attuazione dell’art. 1, commi 65 e 67, della Legge 23.12.2005, n. 266, per l’anno 2012 (deliberazione 21.12.2011 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Il Professor Monti e l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori (CGIL-FP di Bergamo, nota 06.02.2012).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Impianti di telefonia mobile: digesto di legislazione, giurisprudenza e dottrina (link a http://studiospallino.blogspot.com).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

LAVORI PUBBLICI: G.U. 06.02.2012 n. 30 "Attuazione dell’articolo 30, comma 9, lettere e) , f) e g) , della legge 31.12.2009, n. 196, in materia di procedure di monitoraggio sullo stato di attuazione delle opere pubbliche, di verifica dell’utilizzo dei finanziamenti nei tempi previsti e costituzione del Fondo opere e del Fondo progetti" (D.Lgs. 29.12.2011 n. 229).

EDILIZIA PRIVATALinee guida per la prevenzione delle esposizioni al gas radon in ambienti indoor (Regione Lombardia, Direzione Generale Sanità, decreto 21.12.2011 n. 12678).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Statuto dei lavoratori e Codice della privacy. Registrazione delle telefonate dei dipendenti: è controllo a distanza dei lavoratori?
Domanda.
L'installazione di un sistema in grado di fare registrazioni audio delle chiamate in uscita e in entrata, finalizzato al monitoraggio della qualità dei processi e dei servizi di assistenza alla clientela forniti dall'impresa, costituisce un controllo a distanza dei lavoratori soggetto alle regole dello Statuto dei lavoratori e del Codice della privacy?
Risposta.
Se l'impresa che intende installare il sistema di registrazione delle telefonate adotta alcune regole precauzionali che annullano il rischio di trattamenti non autorizzati di dati personali della clientela e dei lavoratori, a mio avviso la fattispecie non rientra nell'ambito oggettivo di applicazione delle disposizioni della legge n. 300/1970 e del D.Lgs. n. 196/2003.
In particolare perché l'apparecchiatura sia legittima è necessario che:
- i controlli non siano fatti in maniera sistematica e automatica, ma solamente a campione;
- le voci degli operatori e dei clienti registrate dal sistema siano criptate, in modo tale da non essere riconoscibili e di non permettere di risalire all'identità del singolo operatore o cliente;
- i primi secondi di conversazione siano eliminati, in modo che sia impossibile ascoltare il nome dell'operatore che ha risposto al cliente;
- non siano tracciati né il nome dell'operatore, né alcun altro dato che possa permettere la sua identificazione;
- il sistema di monitoraggio non fornisca alcun report contenente informazioni sul singolo operatore del servizio assistenza clienti;
- l'accesso ai dati registrati sia tracciabile e sia limitato solamente ai soggetti espressamente autorizzati (cioè formalmente incaricati del trattamento) dall'impresa per la finalità di monitoraggio (07.02.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Responsabilità dell'autore dell'inquinamento.
In materia di bonifica e risanamento ambientale, vorrei avere elementi in ordine alla responsabilità dell'autore dell'inquinamento.
L'articolo 311, comma 2, del decreto legislativo n. 152, del 2006, così come modificato dalla lettera a), comma 1, dell'articolo 5-bis del decreto legge 25.09.2009, n. 135, aggiunto dalla relativa legge di conversione, dispone che: «chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, all'adozione di misure di riparazione complementare e compensativa di cui alla direttiva 2004/35/Ce del Parlamento europeo e del consiglio, del 21.04.2004».
Il Tribunale amministrativo regionale (Tar) del Friuli–Venezia Giulia, sezione I, con la sentenza del 17.12.2009, n. 837, ha affermato che il citato decreto legislativo numero 152, del 2006, ha operato: «Una scelta precisa in favore della ricostruzione della responsabilità per i danni all'ambiente nel paradigma della “tradizionale” responsabilità extracontrattuale soggettiva (cosiddetta “responsabilità aquiliana” ex art. 2043 c.c.), con esclusione di qualsivoglia forma di responsabilità oggettiva».
Il tribunale amministrativo regionale (Tar) Toscana, sezione II, con la sentenza del 04.02.2011, n. 225, ha affermato che: «Tanto la disciplina di cui al dlgs 22/1997 (in particolare, l'art. 17, comma 2), quanto quella introdotta dal dlgs 152/2006 (e in particolare, gli artt. 240 e segg., si ispirano al principio secondo cui l'obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento, è a carico unicamente di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa a titolo di dolo o colpa».
La Corte di giustizia Ce, sezione grande, con la sentenza del 09.03.2010, C – 378/08, ha chiarito che: «Gli artt. 3, c. 1, 4, n. 5, e 11, n. 2, della direttiva 2004/35 devono essere interpretati nel senso che, quando decide di imporre misure di riparazione del danno ambientale ad operatori le cui attività siano elencate nell'allegato III a detta direttiva, l'autorità competente non è tenuta a dimostrare né un comportamento doloso o colposo, né un intento doloso in capo agli operatori le cui attività siano considerate all'origine del danno ambientale. Viceversa spetta a questa autorità, da un lato, ricercare preventivamente l'origine dell'accertato inquinamento, attività riguardo alla quale detta autorità dispone di un potere discrezionale in merito alle procedure e ai mezzi da impiegare, nonché alla durata di una ricerca siffatta. Dall'altro, questa autorità è tenuta a dimostrare, in base alle norme nazionali in materia di prova, l'esistenza di un nesso di causalità tra l'attività degli operatori cui sono dirette le misure di riparazione e l'inquinamento di cui trattasi» (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Contaminazione accidentale.
Gradirei sapere se in tema di bonifica di siti contaminati si possa parlare ancora di contaminazione accidentale.
Il decreto legislativo n. 152, del 2006, ha eliminato il riferimento alle forme di contaminazione accidentale, previsto dall'articolo 17, comma 2, del decreto legislativo n. 22, del 1997. Così operando il legislatore è passato a un sistema fondato su un criterio di imputazione di responsabilità fondato sui parametri soggettivi del dolo e della colpa.
Il Tribunale amministrativo regionale (Tar) della Sicilia – Catania -, sezione I, con la sentenza del 20.07.2007, n. 1254, ha affermato che «in materia di danno ambientale, il legislatore del 2006 ha operato una scelta decisa in favore della riconduzione della responsabilità nell'alveo della “tradizionale” responsabilità extracontrattuale soggettiva (cosiddetta “responsabilità aquiliana” ex articolo 2043 c.c.), con il conseguente ripudio di una qualsiasi forma di responsabilità oggettiva. Infatti, il decreto legislativo 152, del 2006, all'articolo 311, comma 2, nel trattare della responsabilità per danni all'ambiente, costituisce e disciplina la situazione giuridica soggettiva di responsabilità, e serve ad orientare l'interprete nella ricostruzione dell'istituto più generale del ripristino dei siti inquinati: quando nelle norme variamente in esso previste, si fa riferimento al “responsabile dell'inquinamento”, non si potrà che, logicamente, considerare tale colui il quale è “responsabile” ai sensi del citato articolo 311, a meno di non volere sostenere l'illogica prospettazione dell'esistenza di due tipologie di responsabilità, ossia quella soggettiva ex articolo 311, citato, ed una sorta di “responsabilità oggettiva parallela” ex articolo 242 e seguenti, aventi tuttavia identico contenuto quanto all'obbligo di ripristino».
Il Tribunale amministrativo regionale (Tar) Toscana, sezione II, con la sentenza del 04.02.2011, n. 225, ha puntualizzato: «Tanto la disciplina di cui al decreto legislativo 22/1997 in particolare, l'articolo 17, comma 2), quanto quella introdotta dal decreto legislativo 152/2006 (e in particolare, gli articoli 240 e seguenti) si ispirano al principio secondo cui l'obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento, è a carico unicamente di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa a titolo di dolo o colpa» (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Impianto eolico.
I comuni che devono essere chiamati in conferenza di servizi per il rilascio di autorizzazione unica per la costruzione ed esercizio di un impianto eolico sono quelli del territorio o soltanto limitrofi?
Il Consiglio di stato, sezione VI, con la sentenza del 06.09.2010, n. 6480, in tema di conferenza di servizi per il rilascio di autorizzazione unica per la costruzione ed esercizio di un impianto eolico, ha affermato che i comuni che devono essere necessariamente chiamati, a pena di illegittimità del provvedimento finale, a partecipare sono quelli il cui territorio è direttamente destinato a sopportare le opere in corso di realizzazione. Infatti, per i Supremi giudici amministrativi, la procedura della conferenza di servizi non è aperta a tutti i soggetti potenzialmente interessati alla tutela del patrimonio culturale, ma solamente a quegli enti che la specifica disciplina ritiene direttamente interessati e coinvolti nella costruzione e nell'esercizio dell'impianto eolico.
In pratica, sono i comuni il cui territorio deve direttamente sopportare le opere in corso di realizzazione.
Il Tribunale amministrativo regionale (Tar) Puglia – Bari - sezione I, con la sentenza del 23.09.1995, n. 950, ha affermato che «la deliberazione di Giunta provinciale, nell'ammettere l'intervento alla conferenza di servizi solo del rappresentante del comune nel cui territorio è prevista la localizzazione di impianto di smaltimento di rifiuti, introduce una irragionevole ed illegittima limitazione alla partecipazione dei rappresentanti di comuni limitrofi che, in ragione della relativa prossimità spaziale dell'impianto stesso –e, quindi, della potenziale «ricaduta» dei suoi effetti “negativi”– siano portatori di un qualificato interesse esponenziale ad interloquire, nella fase procedimentale acquisitiva di tutti gli elementi conoscitivi utili all'intervento sull'impatto ambientale e territoriale di esso».
In materia si rimanda, anche, alla sentenza n. 910, dell'11.02.2011, del Consiglio di stato, sezione VI (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Abbandono rifiuti.
Sono responsabile dell'abbandono e deposito incontrollato di rifiuti nel mio terreno, nonostante le cautele di recinzione del sito adottate?
Il Codice dell'ambiente, varato con il decreto legislativo n. 152, del 2006, all'articolo 192, prevede che chiunque abbandoni rifiuti nel suolo e nel sottosuolo è tenuto a procedere alla loro rimozione, al loro avvio al recupero o allo smaltimento ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area. Ai predetti la violazione deve essere imputabile a titolo di dolo o di colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con essi, dai soggetti preposti al controllo, «il sindaco, aggiunge il predetto articolo, dispone, con ordinanza, le operazioni a tal fine necessarie e il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate».
Il Consiglio di Stato, sezione V, con la sentenza n. 4614, del 16.07.2010, ha affermato che, in tema di rifiuti, non è previsto, a differenza di quanto disposto per la bonifica dei siti inquinati, alcun onere reale a carico del proprietario, che possa giustificate l'emanazione di ordinanze amministrative direttamente nei suoi confronti.
Pertanto, nei casi di specie, deve essere accertata la colpa del proprietario del sito interessato o di qualunque altro soggetto che si trovi con l'area in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli e, di conseguenza, da imporgli di esercitare la funzione d protezione e custodia del luogo, al fine di evitare che l'area medesima posa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti, nocivi per la salvaguardia dell'ambiente. È da puntualizzare che il requisito della colpa può consistere anche nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un'efficacia custodia del sito interessato.
Il lettore, in tema, può consultare anche la sentenza numero 262, del 14.02.2011, del Tar Sicilia, Palermo, sezione I (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2012).

ENTI LOCALI: Tarsu: aumento tariffe.
Nell'aumentare le tariffe della tassa rifiuti, la deliberazione comunale deve essere specificamente motivata?
In ordine all'aumento delle tariffe della tassa smaltimento rifiuti solidi urbani (Tarsu), l'articolo 69, comma 2, del decreto legislativo 15.11.1993, n. 507, prevede che «ai fini del controllo di legittimità, la deliberazione deve indicare le ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe, i dati consuntivi e previsionali relativi ai costi del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica, nonché i dati e le circostanze che hanno determinato l'aumento per la copertura minima obbligatoria del costo ovvero gli aumenti di cui al comma 3».
Per il legislatore sussiste un obbligo specifico di motivazione a carico dell'amministrazione comunale nella predetta materia, giustificato dalla prevalenza di detta disposizione, per il suo carattere di specialità e maggiore garanzia procedimentale, sulla disciplina generale di cui all'articolo 3, della legge 07.08.1990, n. 241, ancorché la relativa delibera abbia natura di atto generale. Pertanto, è illegittima la deliberazione dell'amministrazione comunale che non abbia indicato le ragioni per le quali, a fronte della necessità di assicurare la copertura totale della spesa, in assenza di dati certi in ordine alla spesa e alle entrate, abbia ritenuto di potere stabilire in una determinata entità l'importo dell'aumento.
Il Consiglio di Stato, sezione V, con la sentenza dell'11.08.2010, n. 5616, ha richiamato l'articolo 61 del citato del decreto legislativo 15.11.1993, n. 507, l'articolo 49 del decreto legislativo n. 22, del 1997, nonché il summenzionato articolo 69, comma 2, ed ha affermato che «la delibera comunale impugnata (la causa riguardava il comune di Terracina ed una società sita nel territorio di detto comune) è venuta sostanzialmente a modificare la già vigente copertura minima del servizio (che è un presupposto indispensabile delle tariffe antecedenti) e di conseguenza doveva specificamente esternare sulla base di dati ufficiali le ragioni che avevano determinato l'aumento per al copertura minima obbligatoria del costo del servizio sulla base dello stesso articolo 69, 2° comma, dlgs n. 507/1993, in connessione con le altre disposizioni del medesimo decreto che lo integrano».
L'amministrazione comunale, invece, aggiungono i giudici, ha aumentato le precedenti tariffe «senza avere dati certi in ordine allo scostamento tra entrate e costo del servizio, invocando genericamente la necessità di assicurare la tendenziale copertura totale della spesa, che non viene in alcun modo indicata neppure per relationem» (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2012).

EDILIZIA PRIVATA: Impianti fotovoltaici.
In materia di vincolo paesaggistico ed autorizzazione paesaggistica per impianti fotovoltaici, la compatibilità delle innovazioni rispetto al vincolo paesaggistico può essere valutata con riferimento alla natura e dell'utilità delle singole opere?
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar) Lombardia, Brescia, sezione I, con la sentenza n. 3726, del 04.10.2010, ha affermato, in tema di vincolo paesaggistico ed autorizzazione paesaggistica per impianti fotovoltaici, che la compatibilità delle innovazioni rispetto al vincolo paesaggistico deve essere valutata diversamente a seconda della natura e dell'utilità delle singole opere. Pertanto, non può essere vietata, facendo riferimento alla loro semplice visibilità da punti di osservazione pubblici, l'installazione di pannelli fotovoltaici, «attualmente considerati desiderabili per il contributo alla produzione di energia elettrica senza inconvenienti ambientali». Un eventuale divieto, per i giudici amministrativi lombardi, deve essere confortato dalla prova dell'assoluta incongruenza delle opere rispetto alla peculiarità del paesaggio.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar) Calabria, Catanzaro, sezione I, con la sentenza n. 3726, del 04.10.2010, ha precisato che «l'impatto territoriale degli impianti per la produzione di energia eolica, sicuramente rilevante e tale da giustificare l'esercizio dei poteri urbanistici e paesaggistici, non è tuttavia un elemento da considerare in via esclusiva, dovendo l'attività in parola tenere conto altresì, (e principalmente), dell'interesse nazionale –costituzionalmente rilevante– all'approvvigionamento energetico, soprattutto se in forme non inquinanti, il quale richiede la necessità, in base al principio di proporzionalità, della precisa indicazione delle ragioni ostative al rilascio della autorizzazione paesaggistica, al fine di eliminare sproporzioni fra la tutela dei vincoli e la finalità di pubblico interesse sotteso alla produzione e utilizzazione dell'energia elettrica».
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar) Lombardia, Brescia, sezione I, con la summenzionata sentenza n. 3726, del 04.10.2010, ha sottolineato, pure, che il lasso di tempo di soli tre giorni tra l'avvio da parte della soprintendenza del provvedimento di controllo dell'autorizzazione rilasciata e la successiva adozione del decreto di annullamento non comporta automaticamente l'illegittimità di quest'ultimo. Esso preclude soltanto la possibilità di motivare l'annullamento facendo riferimento a carenze documentali, che, dicono i giudici, il privato avrebbe potuto sanare se gli fosse stato concesso un ragionevole lasso di tempo (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: Provvedimento amministrativo annullato, quali gli obblighi della P.A.?
Domanda.
Quali sono gli obblighi per la P.A. dell'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento amministrativo?
Risposta.
In linea generale, l'attività procedimentale posta in essere dalla P.A. in esecuzione di un giudicato non può ignorare (o eludere) i riferimenti normativi e le disposizioni sopravvenute; al tempo stesso, in applicazione del principio di effettività e pienezza della tutela giurisdizionale, l'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento comporta l'obbligo per la P.A. di riesaminare l'originario procedimento applicando la disciplina all'epoca vigente (03.02.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

NEWS

INCARICHI PROGETTUALIProgettazioni, gare a rischio. Possibile paralisi dopo l'abrogazione delle tariffe professionali. Conseguenza della liberalizzazione per gli affidamenti dei servizi di ingegneria e architettura.
Rischio paralisi per le gare di progettazione: con l'abrogazione delle tariffe professionali niente più riferimenti per la stima della base d'asta, per i requisiti di partecipazione e per i servizi svolti.
È questo l'effetto, se non sarà modificata la norma in sede di conversione, connesso all'applicazione dell'articolo 9 del decreto-legge 24.01.2012 in materia di liberalizzazioni nel settore delle gare per affidamento di servizi di ingegneria e architettura.
La norma del decreto prevede infatti l'abrogazione delle «tariffe delle professioni regolamentate nel settore ordinistico», fra queste, quindi anche quelle di ingegneri e architetti (legge 143/1949 e dm 04.04.2001). Non solo. La norma stabilisce anche, al comma 4, che siano abrogate anche le disposizioni vigenti che per la determinazione del compenso rinviano alle tariffe.
La norma del decreto-legge determina quindi almeno una prima conseguenza sulla determinazione del corrispettivo a base di gara, dal momento che il Codice (art. 92, comma 2) e il regolamento (dpr 207/2010262, comma 2) stabilisce che i corrispettivi previsti dal decreto ministeriale 04.04.2001 possono essere utilizzate per stabilire l'importo a base di gara. Abrogando la tariffa professionale gli uffici tecnici delle stazioni appaltanti non potranno più utilizzare questa possibilità e quindi, in assenza di alcuna indicazione al riguardo, dovranno stimare l'importo secondo altre modalità, al momento non conosciute e non chiare. Il rischio, ovviamente, è che la base dell'appalto sia ulteriormente ridotta e il contratto sia aggiudicato a un prezzo molto ridotto (visto che la media dei ribassi è pari al 40%).
In considerazione delle diverse norme del dpr 207/2010 che fanno riferimento alle tariffe professionali, ulteriori conseguenze si determinano anche con riguardo ai profili di qualificazione dei partecipanti.
L'articolo 263 del regolamento (per le gare oltre i 100 mila euro) e l'articolo 267 (per gli affidamenti al di sotto dei 100 mila euro) infatti fanno proprio rinvio alle classi e categorie delle vigenti tariffe professionali per individuare i requisiti di capacità tecnica; in particolare si deve provare la propria capacità documentando servizi appartenenti a lavori riconducibili alle classi e categorie di cui all'articolo 14 della legge 143/1949. Difficile immaginare quindi come, abrogata la legge 143, si possano documentare i requisiti. Il problema assume una sua rilevanza anche in sede di certificazione dei servizi svolti da parte dei professionisti e delle società, dal momento che le stazioni appaltanti non hanno più alcun riferimento per classificare i servizi svolti, risultando abrogato l'articolo 14 della legge 143.
La cosa appare di non poca rilevanza anche sotto il profilo dell'avvio e del funzionamento dell'istituenda Banca dati nazionale dei contratti pubblici prevista dal decreto-legge sulle semplificazioni che dovrebbe ricevere i certificati dei servizi (di ingegneria e architettura) e che, invece, per i progettisti rischia di non ricevere nulla (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2012).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALIViminale/ Eletti, oneri a carico degli enti.
Gli oneri connessi all'esercizio del mandato elettorale sono a carico degli enti in relazione agli amministratori lavoratori dipendenti di società pubbliche che, tuttavia, non sono inserite nel conto economico consolidato individuato dall'Istat ai sensi dell'articolo 1, commi 2 e 3 della Legge finanziaria 2010, o di quelle che non sono presenti nell'elenco di cui all'articolo 1, comma 2 del Testo unico sul pubblico impiego.
È quanto precisa la nota 17.01.2012 n. 739 di prot. emanata dal Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Mininterno, riprendendo le osservazioni che un recente parere del Consiglio di stato ha reso noto sul punto.
Come noto, ai sensi dell'articolo 80 del Tuel, gli oneri per i permessi retribuiti dei lavoratori dipendenti da privati o da enti pubblici economici, sono a carico degli enti presso i quali gli stessi esercitano il loro mandato elettivo. Il legislatore, infatti, esclude espressamente i lavoratori statali e quelli dipendenti da altri enti pubblici, in quanto la finalità della disposizione è quella di ristorare il privato degli oneri derivanti dai permessi concessi ai propri dipendenti per l'esercizio del mandato elettorale. E non vi è dubbio che il predetto ristoro «non avrebbe senso se operato a favore di una persona giuridica il cui capitale è pubblico».
Sul punto e, soprattutto, in assenza di una chiara posizione legislativa o di un indirizzo giurisprudenziale in merito, il Consiglio di Stato, Sez. I - parere 22.12.2011 n. 4782 (affare n. 706/2011), investito della questione a proposito dell'eventuale rimborso ad amministratori dipendenti della società Ferrovie dello stato spa, propone una soluzione applicativa delle disposizioni contenute al citato articolo 80 Tuel.
In pratica, sono da ritenere amministrazioni pubbliche tutte quelle indicate all'articolo 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001, sono altresì pubblici gli enti e gli altri soggetti indicati nel conto consolidato della p.a. tenuto dall'Istat e, infine, tutte le società che la legge indica espressamente quali soggetti giuridici di diritto pubblico.
I soggetti giuridici al di fuori di queste tre ipotesi (com'è il caso di Ferrovie dello stato, ma anche di Trenitalia e Poste italiane spa) per il Consiglio di stato sono da considerare privati e, pertanto, non sono a loro carico gli oneri dei propri dipendenti (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOChiusura per neve recuperata con ferie o permessi retribuiti.
I lavoratori pubblici di Roma e provincia, che non sono andati al lavoro nei giorni scorsi a causa delle avverse condizioni meteorologiche e in ossequio alle disposizioni di chiusura degli uffici pubblici contenute nelle ordinanze prefettizie del 3 e 4 febbraio scorsi, potrebbero essere costretti a dover recuperare, con ferie o permessi retribuiti, le giornate lavorative non svolte. Le abbondanti nevicate, vere e proprie cause di forza maggiore che impongono la chiusura degli uffici pubblici per garantire la sicurezza, non sono imputabili né al lavoratore né al datore di lavoro. Di conseguenza, quest'ultimo non è tenuto a corrispondere la prestazione lavorativa.
A questa conclusione si perviene leggendo il parere 25.05.2011 n. 50 dell'Aran che, in risposta a un quesito sul punto, non lascia margine ad alcun dubbio. I giorni non lavorati vanno scomputati dalle ferie o dal monte ore dei permessi retribuiti per motivi personali che spettano ai lavoratori annualmente per contratto.
Il quesito posto all'Aran chiedeva in che termini considerare la prestazione lavorativa, qualora la stessa non possa essere effettuata per cause derivanti da «eventi naturali o per provvedimenti autoritativi che impongono la chiusura dell'amministrazione» (come si vede, entrambi i casi ricorrono per il maltempo che ha colpito la Capitale in questi giorni).
Per l'Agenzia, nel caso in questione occorre fare riferimento al concetto di «forza maggiore», ovvero un evento che non è imputabile né ai lavoratori né al datore di lavoro, con la conseguenza «che quest'ultimo non è tenuto a corrispondere la retribuzione per le ore di mancata prestazione» (citando sul punto l'articolo 2099 del codice civile e la sentenza della Cassazione, sez. lav., n. 481 del lontano 1984).
Attenzione, nulla vieta alla stessa amministrazione di corrispondere ugualmente la retribuzione per i giorni in cui si è verificata la situazione di forza maggiore, ma a una condizione. Ovvero, che il dipendente utilizzi, al fine di motivare l'assenza, gli strumenti forniti dal contratto collettivo di comparto, quali le ferie, le festività soppresse, i permessi retribuiti ex articolo 18 Ccnl del 1995 (18 ore annuali), oppure altre modalità previste dal contratto per il recupero delle ore non lavorate.
In pratica, il lavoratore romano che è rimasto a casa, se ha già fruito dei permessi retribuiti, si vedrà costretto, alla riapertura degli uffici, a restare di più in servizio per recuperare le ore non lavorate causa maltempo (articolo ItaliaOggi del 07.02.2012).

VARIAntiriciclaggio, nessuno si salva dalle sanzioni oltre i mille euro. Le novità operative dal 1° febbraio per i pagamenti in contanti e assegni superiori alla soglia.
Le disposizioni, gli obblighi e le connesse sanzioni in tema antiriciclaggio, ivi compresa, in particolare, l'applicazione delle stringenti previsioni relative alla «manovra Monti» sono operative a 360° a partire dallo scorso 1° febbraio. È proprio il caso di dire che di adempimenti ce n'è per tutti, considerato che i soggetti coinvolti sono non solo gli intermediari e i professionisti del settore finanziario o quelli dell'ambito contabile, ma anche le imprese e i privati cittadini.
Ecco chi deve fare cosa nel panorama delle problematiche collegate alla sanzionabilità delle transazioni di contanti e titoli al portatore oltre la soglia dei mille euro.
Rapporti finanziari fra privati. Dallo scorso 06.12.2011, con le modifiche apportate all'art. 49 del dlgs 231/2007 a opera della cosiddetta «Manovra Monti» (dl 201/2011, conv. l. 22/12/2011, n. 214) è stata ulteriormente abbassata la soglia limite oltre la quale scatta la tracciabilità obbligatoria dei pagamenti. In pratica, sono stati così inibiti i pagamenti in contanti fra soggetti privati, in unica soluzione, a partire dai mille euro. Ma la riduzione della soglia si estende anche all'emissione di assegni liberi. Infatti, anche gli assegni bancari e postali emessi per importi pari o superiori a mille euro dovranno avere, oltre che l'indicazione del nome e della ragione sociale del beneficiario (in assenza della quale i titoli risulterebbero, di fatto, al portatore), anche la clausola di intrasferibilità. Gli assegni circolari, vaglia postali e cambiari potranno, inoltre, essere richiesti senza clausola di intrasferibilità solo se inferiori a mille euro.
In proposito, la stretta conseguente alla soglia dei mille euro non sembra del tutto immediatamente applicabile, e conseguentemente sanzionabile, in capo al soggetto privato che, nell'ambito dei suoi rapporti finanziari con altri soggetti privati, decida di movimentare valori maggiori del limite ammissibile, sia mediante un'unica transazione sia con più operazioni frazionate. Si pensi, infatti, al caso di due amici o parenti fra cui uno dei due decide di prestare due mila euro all'altro per esigenze contingenti e quest'ultimo decida di spendere tale cifra, sempre in contanti, per l'acquisto di generi alimentari, vestiario e anche per il pagamento di una bolletta di utenza.
Successivamente, il soggetto che ha ricevuto il prestito restituisce lo stesso in contanti in più rate, magari aggiungendo anche qualche euro di interesse. In tale situazione, data l'assenza di possibile riscontro cartolare o di movimentazioni di somme su conti correnti risulterà praticamente impossibile rilevare l'infrazione e applicare la sanzione. Non si capisce, poi, a carico di chi ricadrebbe l'onere di tale rilievo. Lo stesso dicasi per il padre che elargisce 1.200 euro al mese in contanti, affinché il figlio si sostenga agli studi svolti fuori città, o per il caso della pensionata che paga una prestazione di servizi per totali mille euro, svolta completamente in «nero» presso la propria abitazione.
Rapporti banca-cittadino. A seguito del polverone sollevato da più parti, in particolare nei rapporti con le banche, per il ridimensionamento della soglia delle transazioni in contanti a mille euro, si era creato allarmismo in merito al fatto che non si potessero più prelevare o depositare somme in contanti dai conti correnti e che, nel caso di richieste in tal senso, l'istituto di credito avesse dovuto far compilare un apposito modello al cliente con cui evidenziare e giustificare le ragioni dell'operazione. Tutto è stato successivamente chiarito a mezzo della circolare Abi dell'11.01.2012 (richiamando quanto già evidenziato nella circ. Mef del 04/11/2011), con la quale si precisa che la soglia di mille euro si applica esclusivamente ai trasferimenti di denaro tra privati cittadini e non ai versamenti e prelievi allo sportello.
È pertanto pacifica l'effettuazione di prelevamenti e versamenti bancari in misura pari o superiore alla citata soglia senza incorrere nell'irrogazione di specifiche sanzioni, né dover evidenziare le ragioni dell'operazione, in quanto non si configura il trasferimento a terzi delle somme richiesto dall'art. 49 del dlgs 231/2007, poiché la quantità di denaro in questione rimane a disposizione del medesimo soggetto.
Da non dimenticare, tuttavia, che le banche sono tenute ad assolvere gli altri obblighi previsti dalle disposizioni antiriciclaggio. Laddove, infatti, le operazioni in contante si prefigurassero eccessivamente frequenti (per la stessa persona) e per importi particolarmente elevati la banca dovrà valutare se i comportamenti descritti possano eventualmente configurare un'ipotesi di operazione sospetta da segnalare al Mef, ai sensi dell'art. 41 del medesimo decreto.
Rapporti fra impresa e privato. Facendo riferimento alla soglia «off limit» dei mille euro in contanti o titoli al portatore, ipotizziamo quali potrebbero essere le situazioni pratiche più concretamente a rischio sanzionatorio nell'ambito della normale operatività quotidiana fra i privati e i soggetti con partita Iva. Per esempio, non è ammissibile lasciare un acconto in contanti di mille euro per l'ordinazione di un arredamento presso il negozio, come pure è irregolare pagare in contanti la parcella di totali 1.200 euro di un avvocato, o, ancora, costituisce violazione il pagare un soggiorno in hotel, per 1.500 euro complessivi in contanti direttamente presso la hall.
Altresì non consentito, secondo il Mef (risposte giugno 2008), risulta il pagamento in contanti, benché frazionato, di un unico dividendo ultrasoglia corrisposto dalla società a un socio, anche qualora tali pagamenti venissero effettuati a distanza superiore dei sette giorni (art. 1, lett. m) del dlgs 231/2007) in quanto tale frazionamento non deriva dal preventivo accordo fra soci e società ma da una decisione unilaterale di quest'ultima. Addirittura, possiamo evidenziare che pure il pagamento di una polizza assicurativa presso l'agenzia costituirebbe irregolarità se attuata in contanti oltresoglia, come anche il pagamento di imposte e/o sanzioni presso lo sportello di una esattoria. Difatti solo nei confronti di banche e Poste italiane viene espressamente prevista deroga al divieto.
Il problema consiste nel fatto che, a seguito del superamento della soglia lecita, dovrebbe essere tanto l'operatore che riceve il pagamento a rifiutare di ricevere il contante, che colui che lo effettua a negare la possibilità di saldare con denaro. Ma da un punto di vista pratico il rischio concreto si paventa solo allorché tale transazione resti documentata esplicitamente in una contabilità o a seguito di un contratto scritto che contempli tali specifici pagamenti, affinché, successivamente, a seguito del vaglio ad es. di un consulente tributario o di un Ced, o di una verifica della Guardia di Finanza, tale irregolarità possa essere riscontrata nei documenti (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2012).

APPALTIContratti pubblici, la Banca dati darà un taglio alle scartoffie. I vantaggi del decreto semplificazioni: niente certificati dagli appaltatori di servizi e forniture.
Verifiche on-line per gli appalti pubblici con l'avvio, a inizio 2013, della Banca dati nazionale dei contratti pubblici, gestita dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici; divieto di verifica sui requisiti dei concorrenti con modalità diverse dalla consultazione della Bdncp; gli appaltatori di forniture e servizi, dall'01.01.2013, non dovranno quindi più produrre certificati.
È una delle maggiori novità contenute nel decreto legge sulle semplificazioni per risolvere il problema della qualificazione degli appaltatori pubblici di lavori, forniture e servizi, assicurando l'efficacia, la trasparenza e il controllo in tempo reale dell'azione amministrativa in materia di appalti, anche sotto il profilo della prevenzione dei fenomeni di corruzione. Con le norme dedicate alla Bdncp si risolveranno quindi i problemi legati all'eccessiva burocratizzazione delle procedure che, secondo alcune stime governative, portano una azienda a produrre mediamente circa trenta volte l'anno la stessa documentazione.
In particolare, per le piccole e medie imprese il risparmio sui costi vivi della gestione amministrativa delle gare si dovrebbe aggirare complessivamente su oltre 140 milioni all'anno, stando a quanto stimato dal governo. Ma i benefici ci saranno anche per le amministrazioni pubbliche le quali, potendo effettuare i controlli sui concorrenti attraverso il fascicolo elettronico di ciascuna impresa, potranno risparmiare 1,3 miliardi l'anno.
L'operazione avviata con il decreto legge semplificazioni, stando al testo circolante in questi giorni ed esaminato dal consiglio dei ministri venerdì scorso, si basa sulla banca dati che fu introdotta nel 2010 con il comma 1 dell'art. 44, del dlgs 30.12.2010, n. 235. In particolare si prevede che dall'01.01.2013 tutta la documentazione relativa alla prova dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico organizzativa che i concorrenti devono possedere per partecipare agli appalti dovrà essere acquisita presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, prevista dall'articolo 62-bis del dlgs 82/2005, introdotto nel 2010.
La disposizione dovrebbe prevedere che l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici definisca innanzitutto quali dati, utili alla partecipazione alle gare, nonché alla verifica delle offerte, debbano essere inclusi nella banca dati, nonché i termini e le regole tecniche per l'acquisizione, l'aggiornamento e la consultazione dei dati contenuti nella predetta Banca dati. La norma prevede che per l'attivazione della banca dati tutti i soggetti pubblici e privati che detengono dati e documenti relativi ai requisiti di partecipazione, abbiano l'obbligo di messa a disposizione dell'Autorità di tali dati e documenti. Parallelamente, gli operatori economici saranno tenuti ad integrare i dati contenuti nella Banca dati nazionale dei contratti pubblici, creando un sistema dinamico e non statico come invece è oggi quello basato sulle Soa, ove i certificati hanno validità quinquennale. Il meccanismo avrà una portata fondamentale nel settore dei servizi e delle forniture in cui, diversamente dai lavori, non esiste un sistema di qualificazione dei concorrenti.
All'obbligo di acquisizione della documentazione da parte della Bdncp è correlato l'obbligo per i committenti di effettuare le verifiche dei requisiti di capacità dei concorrenti esclusivamente attraverso la banca dati, senza quindi più chiedere documenti ai partecipanti alle gare. Ciò significa che i partecipanti alle gare potranno qualificarsi alle procedure semplicemente con una autodichiarazione del possesso dei requisiti di carattere generale e speciale, mentre sarà cura del committente che ha bandito la gara, verificare che quanto dichiarato sia conforme alle risultanze documentali rese disponibili a questo fine dalla Banca dati nazionale dei contratti pubblici.
Non si tratterà certamente di un percorso facile, dal momento che occorrerà mettere in linea e fare affluire nella banca dati una rilevante mole di certificazioni (soprattutto per i requisiti tecnici) e, quindi, la necessità di un celere avvio delle procedure di acquisizione di dati e documenti appare centrale nell'applicazione della norma.
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False dichiarazioni nelle gare, sanzioni soft.
Ridotta la pena dell'esclusione dalle gare per false dichiarazioni, che potrà essere anche inferiore a un anno; prevista la responsabilità solidale fra committente e appaltatore e subappaltatori per i contributi e il tfr; nuovi modelli per la certificazione dei lavori dei contraenti generali.
Fra le numerose novità introdotte dal decreto legge semplificazioni si segnala innanzitutto la norma sulle sanzioni per false dichiarazioni rese dai concorrenti che partecipano ad appalti pubblici. A oggi il Codice stabilisce che se un concorrente presenta una documentazione falsa o rende una dichiarazione falsa, la stazione appaltante deve segnalare l'accaduto all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici che, se ritiene che siano state rese con dolo o colpa grave in considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione, dispone l'iscrizione nel casellario informatico ai fini dell'esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto per un periodo di un anno. Una volta trascorso l'anno, l'iscrizione viene ex lege cancellata e perde comunque efficacia. Il decreto-legge modifica il termine di esclusione dalle gare che, oggi è sempre di un anno, prevedendo, con una maggiore flessibilità, da mettere evidentemente in relazione alla natura della fattispecie concreta in cui incorre il concorrente, che essa sia fino a un anno.
L'Autorità, quindi, potrà irrogare anche una sanzione di sei mesi o di tre mesi e non sarà obbligata, come è oggi, a irrogare un anno di esclusione dalle gare. Il provvedimento prevede anche, per appalti di opere o di servizi, la responsabilità in solido del committente imprenditore o datore di lavoro con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, per il pagamento di trattamenti retributivi, compreso il tfr, e i contributi previdenziali dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.
Modificata la certificazione dei lavori svolti dai contraenti generali che ad oggi certificano i lavori «eseguiti con qualsiasi mezzo» sulla base di modelli previsti dal codice dei contratti, allegato XXII. Con la nuova norma si rinvia invece ai modelli definiti dal regolamento del codice dei contratti pubblici, il che dovrebbe deporre per un tentativo di omogeneizzazione delle certificazioni, pur tenendo presente la differenza sostanziale fra le diverse tipologie di imprese (imprese tradizionali e contraenti generali).
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Sì all'obbligo di gara sempre.
Per i beni culturali obbligo di gara sia per le sponsorizzazioni di puro finanziamento, sia per quelle tecniche di progettazione ed esecuzione. Le amministrazioni dovranno inserire gli interventi da inserire in un apposito allegato al programma triennale; gara a rilanci plurimi per l'individuazione del maggiore finanziamento. È quanto prevede il decreto legge in materia di semplificazioni che detta una speciale disciplina delle procedure per la selezione di sponsor di interventi nel settore dei beni culturali, aggiungendo un articolo (il 199-bis) al Codice dei contratti pubblici.
La nuova norma stabilisce innanzitutto che anche gli interventi relativi ai beni culturali, allo scopo di garantire il rispetto dei principi generali di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, devono essere inseriti all'interno della programmazione dei singoli enti di spesa. Pertanto si impone alle amministrazioni aggiudicatrici competenti in materia di predisporre un apposito allegato, da inserire all'interno del programma triennale dei lavori, nel quale siano indicati i lavori, i servizi e le forniture per le quali l'amministrazione intende individuare un soggetto privato che sponsorizzi il finanziamento dell'intervento o direttamente la realizzazione.
Strumentale alla messa a punto dell'allegato è la redazione di «studi di fattibilità, anche semplificati, o i progetti preliminari»; importante notare che nell'allegato l'amministrazione può anche inserire proposte di sponsorizzazioni di interventi, nella forma di dichiarazioni spontanee di interesse alla sponsorizzazione trasmesse da privati che, in questo caso, si atteggerebbero da «promotori», sul modello della disciplina prevista per la finanza di progetto. Il decreto legge, stando al testo esaminato dal consiglio dei ministri nei giorni scorsi, stabilisce come debba essere selezionato lo sponsor: l'amministrazione dovrà emettere un bando e pubblicarlo sul sito istituzionale per almeno 30 giorni e darne notizia su almeno due dei principali quotidiani a diffusione nazionale e sulla Gazzetta ufficiale (anche su quella dell'Unione europea, se si superano le soglie comunitarie).
Nell'avviso deve essere indicato sommariamente il tipo di intervento per il quale si chiede la sponsorizzazione e il suo importo «di massima» e il tempo necessario a realizzarlo, sia pure a titolo indicativo. Il bando dovrà espressamente chiarire la natura della sponsorizzazione: o si chiedono offerte per una sponsorizzazione di tipo puramente finanziario, in cui lo sponsor può anche decidere di accollarsi le obbligazioni di pagamento dei corrispettivi dell'appalto dovuti dall'amministrazione, oppure si chiedono offerte tecniche tramite un partenariato pubblico-privato (PPP) nel quale lo sponsor privato si occupa della progettazione e della realizzazione di parte o di tutto l'intervento. In quest'ultimo caso l'amministrazione deve anche prevedere nel bando gli elementi e i criteri di valutazione delle offerte che, comunque, per tutte le tipologie di sponsorizzazione dovranno pervenire in un termine non inferiore a 60 giorni.
La valutazione delle offerte sarà effettuata direttamente dall'amministrazione aggiudicatrice, a eccezione dei casi in cui si tratti di interventi particolarmente complessi o il cui valore stimato sia superiore a un milione di euro, per i quali occorre nominare una commissione giudicatrice.
La gara si svolge con offerte di rilancio migliorative successive alla fase di definizione della graduatoria, ma occorre definire un termine massimo per i rilanci. Il contratto viene quindi aggiudicato al soggetto che ha offerto il maggiore finanziamento o che ha proposto l'offerta realizzativa giudicata migliore, in caso di sponsorizzazione tecnica. In caso di mancanza di offerte o in caso di offerte inadeguate o inammissibili, la norma prevede che sei mesi dopo la gara l'amministrazione possa ricercare di sua iniziativa uno sponsor, fermi restando i termini tecnici indicati nel bando.
La norma del decreto legge fa anche salve le disposizioni in materia di requisiti di ordine generale e di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa. Infine, con una modifica all'articolo 26, si precisa che per gli interventi in settori diversi dai beni culturali, se è lo sponsor ad acquisire forniture o servizi o a realizzare lavori a proprie spese, e l'importo supera i 40 mila euro, si applicano i principi del Trattato e i requisiti per la qualificazione di appaltatori e progettisti (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - VARIImu, corsa alla fusione catastale. L'aliquota ridotta è applicabile a una sola unità immobiliare. Come ottenere un risparmio d'imposta grazie a operazioni condotte assieme a un professionista.
Il geometra può rendere l'Imu più light. L'accorpamento delle diverse unità immobiliari che possono comporre l'abitazione principale o la richiesta di attribuzione della categoria catastale «F/2» per gli immobili dichiarati inagibili o inabitabili, sono operazioni che, grazie all'intervento dei professionisti del settore, possono portare a un consistente risparmio d'imposta.
Senza dimenticare, poi, la necessità del loro intervento per l'iscrizione nel catasto dei fabbricati, da effettuarsi entro il 30/11/2012, di tutte le costruzioni rurali che risultano ancora allibrate al catasto dei terreni.
Abitazione principale. Corsa contro il tempo per la fusione catastale delle abitazioni composte da più unità immobiliari distintamente iscritte in catasto. È l'effetto prodotto dall'art. 13, comma 2, del dl n. 201/2011 il quale prevede che l'aliquota ridotta Imu del 4 per mille (o quella, comunque di favore, stabilita dal comune tra il 2 e il 6 per mille) sarà applicabile a «una sola» unità immobiliare, ancorché il contribuente dimori abitualmente e risieda anagraficamente in un compendio immobiliare composto da più unità catastali distintamente iscritte in catasto.
Viene così superato, per via legislativa, il principio, più volte enunciato dalla Corte di cassazione, secondo il quale, ai fini Ici, il contemporaneo utilizzo di più unità immobiliari come abitazione principale non costituiva ostacolo all'applicazione delle agevolazioni previste per l'abitazione principale a tutte le sue singole componenti. In effetti, fin dall'avvio dell'Ici, era sorto il problema circa l'applicabilità del regime di favore riconosciuto all'abitazione principale (aliquota ridotta e detrazione d'imposta poi sostituite, dal 2008, con l'esenzione totale) nel caso in cui il fabbricato nel quale dimorava abitualmente il contribuente fosse costituito da due, o più, unità iscritte singolarmente accatastate. Era il caso, per esempio, di due appartamenti contigui, uniti attraverso l'abbattimento di un muro, che di fatto (ma non catastalmente) erano divenuti un'unica abitazione.
Al riguardo, il ministero delle finanze, con la risoluzione n. 6/DPF/2002 precisò che in tali ipotesi ci si trovava, in realtà, in presenza di due unità immobiliari. E che come tali andavano singolarmente e separatamente soggette a imposizione: una come abitazione principale con applicazione delle agevolazioni e delle riduzioni per questa previste e l'altra come seconda abitazione, con l'applicazione dell'aliquota ordinaria. Tale tesi non è stata però condivisa dalla Corte di cassazione (sentt. n. 25729/2007; n. 25902/2008; n. 3397/2010) la quale ha statuito che il concetto di «abitazione principale» non risulta necessariamente legato a quello di «unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto edilizio» né, di conseguenza, limitato a una sola unità come identificata catastalmente, ma viene in rilievo esclusivamente per la speciale considerazione, da parte del legislatore, dello specifico uso quale «abitazione principale» dell'immobile nel suo complesso.
Il principio affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, con riguardo all'Ici, non può trovare ingresso nell'Imu, atteso che l'art. 13, comma 2, del dl n. 201/2011 limita, inequivocabilmente, a una sola unità immobiliare il concetto di «abitazione principale». Va da sé che se i contribuenti interessati non procederanno tempestivamente alla fusione catastale delle diverse unità immobiliari che, di fatto, costituiscono la loro abitazione principale, dal 2012 si troveranno a fruire dell'aliquota ridotta del 4 per mille (oltre alla detrazione d'imposta) solo per una di dette unità catastali; le altre sconteranno l'aliquota ordinaria del 7,6 per mille.
Difficoltà a procedere catastalmente nel senso indicato si potrebbero incontrare qualora sulle unità immobiliari da accorpare gravassero diritti reali non omogenei (esempio appartamento A di proprietà esclusiva del marito e appartamento B in comproprietà tra i coniugi), atteso che, in tali casi, in base alla normativa catastale, non è possibile fondere le distinte parti.
Va tuttavia precisato che, con nota del 21/02/2002, l'Agenzia del territorio ha reso nota la possibilità di presentare dichiarazioni di variazione con le quali ogni porzione è iscritta autonomamente in catasto con la dizione «PORZIONE DI U.I. unita di fatto con quella di Foglio XX, part. YY, Sub. ZZ» con attribuzione di categoria e classe più appropriata, considerando le caratteristiche dell'unità immobiliare intesa nel suo complesso (cioè derivante dalla fusione di fatto delle due porzioni) e con rendita che viene associata, a ciascuna di dette porzioni, in ragione della relativa consistenza (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2012).

ENTI LOCALI - VARICancellata la riduzione del 50% sull'imposta. Fabbricati inagibili scoperti dall'agevolazione.
L'Imu cancella l'agevolazione, consistente nella riduzione del 50% dell'imposta, che l'Ici riconosceva ai fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati. Ciò sta a significare che dal 2012 i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili pagheranno l'Imu in misura piena, applicando l'aliquota ordinaria alla base imponibile (ottenuta moltiplicando la rendita, rivalutata del 5%, per il coefficiente previsto in relazione alla categoria catastale dell'immobile).
Coerentemente con tale precetto, l'art. 13 del dl n. 201/2011 ha abolito la lettera h) del comma 1 dell'art. 59 del dlgs n. 446/1997 che consentiva ai comuni di disciplinare, con il regolamento Ici, le caratteristiche di fatiscenza sopravvenuta del fabbricato, non superabile con interventi di manutenzione, agli effetti dell'applicazione della riduzione alla metà dell'imposta. Occorre però rammentare che, in virtù di quanto disposto dall'art. 3, comma 2, del decreto 2/1/1998, è stata istituita una categoria catastale denominata «F/2 (unità collabente)» attribuibile alle costruzioni non abitabili o agibili, e comunque di fatto non utilizzabili a causa di dissesti statici, di fatiscenza o inesistenza di elementi strutturali e impiantistici, ovvero delle principali finiture ordinariamente presenti nella categoria catastale, cui l'immobile è censito o censibile.
Il classamento in categoria «F/2» viene quindi riconosciuto in tutti i casi in cui la concreta utilizzabilità non è conseguibile con soli interventi edilizi di manutenzione ordinaria o straordinaria. La caratteristica degli immobili così censiti è che essi risultano esenti da attribuzione di rendita. Si tratta, per essere meno precisi ma più concreti, di unità immobiliari con rendita catastale pari a zero.
Va tuttavia rimarcato che la «migrazione» verso la categoria catastale «F/2» richiede il rispetto della sussistenza di precisi requisiti bene esplicitati nella C3/95/98 del 22/10/1998 dell'ex Direzione centrale del catasto. Il citato documento di prassi ministeriale opera infatti una fondamentale distinzione tra «inagibilità di carattere temporaneo» e «degrado tale da compromettere permanentemente l'utilizzazione del fabbricato». Nel primo caso il classamento (e quindi la rendita catastale) del fabbricato non può essere modificato. Nel secondo caso, invece, se il reddito effettivo differisce dalla rendita catastale per oltre il 50% e per un periodo di almeno un triennio (art. 35 del Tuir), è possibile la variazione in diminuzione della stessa rendita seguendo la procedura, sopra esaminata, che da anni trova specifica disamina nell'appendice alle istruzioni alla dichiarazione dei redditi (730 o Unico).
Seguendo pertanto le indicazioni fornite dalla Direzione centrale del catasto, con la predetta nota C3/95/98 del 22/10/1998, si può quindi arrivare alle seguenti conclusioni: 1) se il fabbricato viene dichiarato inagibile, ma senza le aggravanti che si vedranno nel punto successivo, l'Imu deve essere corrisposta sulla base della rendita catastale originariamente attribuita senza alcuna agevolazione; 2) solo se la predetta inagibilità comporta una riduzione del reddito superiore al 50% per un periodo di almeno un triennio, è possibile accatastare l'unità immobiliare in categoria «F/2» con rendita nulla.
Dal che ne dovrebbe conseguire l'esclusione dall'Imu del fabbricato accatastato in categoria «F/2», atteso che l'art. 5, comma 6, del dlgs n. 504/1992, richiamato espressamente dall'art. 13 del dl n. 201/2011, prevede che la base imponibile dell'immobile in questione «è costituita dal valore dell'area edificabile», e non più dal valore catastale dell'edificio, solo dal momento della «demolizione del fabbricato» finalizzata all'utilizzazione edificatoria dell'area sottostante (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2012).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATARifiuti, suolo in gestione agevolata. I materiali di riporto fuori dalla disciplina tradizionale. Il decreto ambiente rivede il dlgs 152/2006. Il regime giuridico è quello legato al terreno.
Dal 25.01.2012 i materiali di riporto, quale mix di materiali naturali e artificiali sedimentati nel terreno, seguono lo stesso regime giuridico ambientale del suolo, con la possibilità (quindi) di essere gestiti fuori dalla stringente disciplina dei rifiuti. A stabilirlo sono le disposizioni recate dal nuovo dl 2/2012 recante misure straordinarie e urgenti in materia ambientale, decreto (pubblicato sulla G.U. del 25.01.2012 n. 20 e in vigore dallo stesso giorno) che rivede la disciplina sancita dal dlgs 152/2006 (cosiddetto «Codice ambientale») in materia di suolo.
La nuova disciplina del «suolo». Mediante un'operazione di interpretazione autentica il nuovo dl 2/2012 stabilisce che la nozione di «suolo» recata dall'articolo 185 del dlgs 152/2006 deve essere riferita anche alle «matrici materiali di riporto», sibillina formula (prevista dall'allegato V, parte IV del Codice ambientale) che sottende le miscele eterogenee di materiali di origine antropica e terreno naturale utilizzate (storicamente) per riempimenti e livellamenti del terreno, fino a integrarsi con il suolo.
Al fine di allineare alle novità in parola le altre norme del sistema, lo stesso dl 2/2012 affida poi all'emanando decreto Minambiente che riformulerà le regole per gestire come sottoprodotti le terre e rocce da scavo anche la determinazione delle condizioni tecniche per trattare come tali i materiali di riporto. L'allargamento della nozione «suolo» ai materiali di riporto provoca a valle l'intera riformulazione del confine tra «rifiuto» e «non rifiuto» previsto dal dlgs 152/2006.
Alla luce dell'interpretazione autentica del codice ambientale imposta dal dl 2/2012 appaiono infatti essere non più considerabili come rifiuti: il terreno (non scavato), anche se contenente materiali di riporto; il suolo contaminato non scavato (fermo restando gli obblighi di bonifica stabiliti dallo stesso dlgs 152/2006), anche (di nuovo) se contenente materiali di riporto; il suolo non contaminato escavato nel corso di attività di costruzione, purché riutilizzato allo stato naturale nello stesso sito a fini di costruzione, anche (e la ripetizione è d'obbligo) se contenente materiali di riporto.
Le altre novità all'orizzonte. Una vera e propria rivoluzione della materia arriverà con un futuro dm Ambiente (previsto dall'articolo 184-bis del dlgs 152/2006) che detterà le nuove regole per gestire come sottoprodotti delle terre e rocce da scavo, ossia il suolo e il sottosuolo derivanti da opere quali sbancamenti, trivellamenti, escavazioni, demolizioni, realizzazione di costruzioni, lavorazioni materiali lapidei, con concentrazioni di sostanze inquinanti non superiori a determinati limiti massimi.
Le nuove regole, che dalla loro entrata in vigore sostituiranno quelle attualmente recate dall'articolo 186 del codice ambientale, condizioneranno l'utilizzo dei materiali da scavo fuori dal regime dei rifiuti all'osservanza di precisi requisiti qualitativi e all'adempimento da parte dei loro gestori/utilizzatori finali di particolari obblighi. A spingere sull'adozione del nuovo decreto ministeriale è intervenuto da ultimo il cosiddetto «Decreto liberalizzazioni» (il dl 1/2012, pubblicato sulla G.U. del 24.01.2012), decreto d'urgenza che ha fissato per la fine del prossimo marzo la deadline entro la quale il dicastero dell'ambiente dovrà adottare la nuova citata regolamentazione sui sottoprodotti. Un'anticipazione della nuova disciplina regolamentare è addirittura prevista da un ulteriore provvedimento d'urgenza in corso di approvazione.
Il cosiddetto «Decreto infrastrutture» attualmente allo studio del consiglio dei ministri prevede infatti che nelle more dell'emanazione del dm Ambiente in questione, le terre e rocce da scavo prodotte nell'esecuzione di opere possano essere reimpiegate nel corso dello stesso o di altro processo produttivo come sottoprodotti (quindi senza passare dalla disciplina dei rifiuti) anche se sottoposti a trattamenti preventivi, purché si tratti di trattamenti non diversi dalla «normale pratica industriale», intendendosi per tale (secondo il tenore del decreto in itinere) anche la selezione granulometrica, la riduzione volumetrica, la stabilizzazione a calce o a cemento, l'essiccamento, la biodegradazione naturale degli additivi condizionanti. Che arrivi mediante l'atteso decreto ministeriale o tramite il citato decreto d'urgenza in corso di approvazione, la legittimità del trattamento preventivo coincidente con la «normale pratica industriale» per il riutilizzo delle terre e rocce da scavo in deroga alla disciplina sui rifiuti trova suo fondamento direttamente nell'articolo 184-bis del codice ambientale.
Come riformulato dal dlgs 205/2010 in recepimento delle norme comunitarie in materia di rifiuti (direttiva 2008/98/Ce), l'articolo 184-bis del codice ambientale ammette infatti tra i sottoprodotti le sostanze e gli oggetti che (oltre a rispettare le altre condizioni in materia) sono sottoposti, dopo la loro produzione e prima del successivo riutilizzo, a un trattamento rientrante nella «normale pratica industriale», nozione (come interpretata dalla Corte di cassazione con sentenza 26.09.2011 n. 34753) nella quale rientrano le operazioni tipicamente svolte in un determinato contesto produttivo in vista del riutilizzo (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2012).

ENTI LOCALISocietà, sul Patto catena di rinvii. La sezione Lombardia esclude il vincolo per gli enti proprietari fino a quando la normativa è incompleta.
L'obbligo di vigilanza riguarda tutte le affidatarie dirette ma manca il decreto.
L'ALTRO CHIARIMENTO/ Nella gara a doppio oggetto i compiti operativi da assegnare al socio privato vanno decisi in base al contratto di servizio.

L'assoggettamento al Patto di stabilità vale per tutte le società in house che siano affidatarie dirette di servizi pubblici o strumentali, ai sensi dell'articolo 18, comma 2-bis, del Dl 112/2008. Il vincolo si applica anche alle società che gestiscono servizi pubblici esclusi dal l'applicazione dell'articolo 4 del Dl 138/2011, in quanto l'articolo 18 ha portata generale.
Gli enti soci delle società a totale partecipazione pubblica, titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici o strumentali senza gara, devono quindi vigilare sull'osservanza del Patto da parte degli organismi partecipati.
Considerato però che la norma rinvia a un decreto la definizione delle modalità e della modulistica, «non può farsi derivare dalle predette norme l'obbligo attuale, in capo agli enti controllanti, di valutare il rispetto del Patto di stabilità attraverso un bilancio consolidato funzionale ad un'analisi della situazione finanziaria della società unitamente a quella dell'Ente locale».
Questo uno dei chiarimenti forniti dalla Corte dei conti della Lombardia nella delibera 7/2012, con cui ha risposto agli oltre dieci quesiti presentati dal presidente della provincia di Varese. L'ente si era rivolto ai magistrati contabili in quanto, prima di procedere alla costituzione di un organismo partecipato per la gestione del servizio idrico, voleva verificare quale fosse la soluzione più idonea in relazione alla concreta situazione giuridica e contabile della Provincia.
Secondo la Corte dei conti, le società in house affidatarie dirette della gestione di un servizio pubblico a rilevanza economica sono assoggettate al Patto.
Il Dl 1/2012 ha introdotto l'articolo 3-bis al Dl 138/2011, stabilendo che «le società affidatarie in house sono assoggettate al Patto di stabilità interno secondo le modalità definite dal Dm previsto dall'articolo 18, comma 2-bis, del Dl 112/2008». Al contrario, le società che hanno ricevuto l'affidamento della gestione di servizi pubblici locali con procedura competitiva sono escluse dal vincolo. Lo stesso vale per la società mista il cui socio privato sia stato scelto con gara, anche se la procedura a evidenza pubblica sia stata seguita solo per la scelta del socio e in mancanza di una seconda gara per il conferimento del servizio.
Per quanto riguarda il vincolo posto dall'articolo 14 del Dl 78/2010, la Corte ha ribadito che la gestione di un servizio pubblico locale a rilevanza economica non costituisce ex se una causa di esclusione dall'applicazione di questi limiti quantitativi alle partecipazioni societarie da parte degli enti locali.
Per quanto concerne le modalità di svolgimento della gara «a doppio oggetto», l'Amministrazione ha chiesto alla Corte chiarimenti in merito agli specifici compiti operativi che devono essere attribuiti al socio privato per la gestione del servizio.
In particolare, è stato chiesto se tra i compiti operativi possa essere compresa la realizzazione diretta da parte del socio degli interventi infrastrutturali o legati alla manutenzione straordinaria, senza l'obbligo da parte della società di procedere a tali affidamenti mediante procedure a evidenza pubblica.
In linea di principio i compiti operativi, che devono rientrare nella procedura di gara per la scelta del socio operativo di una società mista per la gestione di un servizio pubblico locale a rilevanza economica, devono essere gli stessi oggetto del contratto di servizio che regolerà i rapporti tra gli enti e la società.
La Corte ha chiarito che è rimessa alla discrezionalità del l'amministrazione l'individuazione delle specifiche attività da conferire al socio privato operativo e delle modalità di svolgimento della procedura.
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Le tappe
01 | MANOVRA 2008
L'inserimento delle società affidatarie dirette ai vincoli del Patto di stabilità è stato previsto dall'articolo 23-bis del Dl 112/2008
02 | DECRETO RONCHI
Il Dl 135/2009 ha riscritto la riforma dei servizi pubblici locali rilanciando l'obbligo
03 | DECRETO ATTUATIVO
Il Dpr 168/2010, attuativo della riforma, ha rimandato a un decreto ulteriore il Patto per le società
04 | «SALVA-ITALIA»
Il vincolo, abolito dal referendum, è stato reintrodotto, rimandandolo allo stesso decreto attuativo (articolo Il Sole 24 Ore del 06.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI SERVIZITre vie per arrivare all'affidamento.
I servizi pubblici locali devono essere affidati in base a un percorso rigoroso, che parte dalla ridefinizione dei bacini ottimali.
Le disposizioni introdotte dal Dl 1/2012 completano il quadro di riferimento secondo una prospettiva di razionalizzazione per area vasta, con le Regioni chiamate a definire entro il 30.06.2012 gli ambiti territoriali (con dimensione almeno provinciale), per consentire scelte gestionali produttive di economie di scala e di vantaggi per l'utenza.
Sulla base di tale assetto territoriale, gli enti affidanti (amministrazioni locali o enti preposti alla governance degli ambiti ottimali) devono elaborare un'analisi di mercato, da tradurre nella deliberazione-quadro per l'attribuzione dei diritti di esclusiva, secondo lo schema che verrà definito da un Dm entro il 31.03.2012. La formalizzazione dell'atto esplicativo della possibilità di affidare un servizio pubblico a un unico gestore ha tuttavia un regime differenziato secondo la dimensione dell'ente. I Comuni con meno di 10mila abitanti possono adottare la deliberazione una volta completata l'istruttoria, mentre gli altri devono sottoporre preventivamente la decisione all'Autorità garante della concorrenza e del mercato.
L'Authority deve esprimere il proprio parere obbligatorio entro 60 giorni, e su questa base l'ente affidante deve adottare entro 30 giorni la delibera-quadro –che costituisce un passaggio obbligatorio (senza il quale non si può procedere all'affidamento del servizio)– nell'ambito della quale può essere definita anche la scelta di procedere a un affidamento multiservizi.
La definizione dell'attribuzione dei diritti di esclusiva della gestione di un servizio pubblico locale con rilevanza economica prelude allo sviluppo del percorso con gara (che costituisce la procedura ordinaria) o alla costituzione della società mista con socio privato operativo o alla deroga mediante conferimento diretto a società in house.
La procedura selettiva è stata ulteriormente caratterizzata dal Dl 1/2012 in termini di massima garanzia per i fruitori del servizio, con la previsione, tra i criteri essenziali, dell'impegno del soggetto gestore a conseguire economie di gestione con riferimento all'intera durata programmata dell'affidamento e a destinarle alla riduzione delle tariffe da praticarsi agli utenti.
Nel caso in cui la scelta si orienti in alternativa sull'affidamento a una società mista conforme ai parametri del partenariato pubblico-privato di tipo istituzionale, con selezione del socio privato mediante gara e attribuzione contestuale allo stesso di specifici compiti operativi, le amministrazioni possono trasformare le società attualmente affidatarie dirette, configurandole come organismo da aprire alla partecipazione del privato in relazione a un affidamento ex novo di uno o più servizi.
La possibilità di utilizzare l'affidamento in house, invece, è drasticamente limitata dalla riduzione a 200mila euro del limite di valore annuo del servizio attribuibile al soggetto societario, che deve peraltro essere conforme ai canoni comunitari. Nel quadro delle norme relative al periodo transitorio è tuttavia determinata la possibilità di aggregare (con formule diverse) società in house affidatarie di gestioni esistenti, per una gestione unitaria del servizio con riferimento all'ambito ottimale limitata nel tempo (tre anni, a partire dall'01.01.2013) e sottoposta a significative condizioni.
Qualora gli enti locali riescano a definire tale soluzione, infatti, il contratto di servizio dovrà prevedere indicazioni puntuali riguardanti il livello di qualità del servizio reso, il prezzo medio per utente, il livello di investimenti programmati ed effettuati e obiettivi di performance (redditività, qualità, efficienza). Inoltre, la valutazione dell'efficacia e dell'efficienza della gestione e il rispetto delle condizioni previste nel contratto di servizio saranno sottoposti a verifica annuale da parte dell'Autorità di regolazione di settore.
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Le procedure
01|GARA
Procedura ordinaria di scelta del gestore
Sviluppo secondo criteri-base indicati dalla normativa
Il gestore si deve impegnare a conseguire economie di scala
Durata commisurata all'ammortamento degli investimenti
Necessaria indicazione di indennizzo per beni del gestore uscente non interamente ammortizzati
02|SOCIETÀ MISTA CON SOCIO PRIVATO OPERATIVO
Procedura alternativa alla gara
È individuato con gara un socio privato, cui sono attribuiti specifici compiti operativi (cosiddetta doppia gara) e cui vanno
assegnate quote/azioni per almeno il 40% del capitale sociale
Per la selezione si applicano i criteri della gara
Nelle offerte va dato maggior peso alla qualità del servizio
03|AFFIDAMENTO IN HOUSE
Procedura derogatoria rispetto a gara e società mista
Possibile per servizi di valore inferiore a 200mila euro annui
Possibile solo a favore di società con parametri «in house»
Divieto di frazionamento del servizio e dell'affidamento (articolo Il Sole 24 Ore del 06.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIAl via il check degli organici per non bloccare le assunzioni.
DOPPIO BINARIO/ Il soprannumero di dipendenti va rilevato dal confronto fra dotazione e presenze mentre per le eccedenze occorre un esame di merito.

Tutte le pubbliche amministrazioni devono effettuare la ricognizione della presenza di condizioni di eccedenze e di soprannumero del personale assunto a tempo indeterminato: il mancato rispetto di questo vincolo determina la nullità delle assunzioni. Sono fatti salvi solo i concorsi banditi entro il 2011.
È questo il primo effetto concreto del nuovo testo dell'articolo 33 del Dlgs 165/2001 introdotto dalla legge 183/2011. Questo documento deve essere necessariamente redatto prima della programmazione annuale e triennale del fabbisogno di personale e, al più, ne può costituire la premessa.
La competenza appartiene alla Giunta: siamo infatti in presenza di un atto di programmazione non attribuito al Consiglio. Nella sua preparazione occorre coinvolgere attivamente la dirigenza: infatti matura responsabilità disciplinare in capo al dirigente responsabile inadempiente. Appare opportuno che a tutti i dirigenti, ognuno per la propria articolazione organizzativa, sia assegnato un termine entro cui effettuare la ricognizione. L'ente, preferibilmente attraverso l'attività istruttoria del dirigente del personale, raccoglierà le indicazioni e le formalizzerà in una deliberazione. Copia di questo atto deve essere inviata al dipartimento della Funzione pubblica: la mancanza, almeno fino al momento attuale, di indicazioni operative non esime le amministrazioni dall'obbligo di effettuare questa comunicazione.
La presenza di personale in soprannumero, cioè extra dotazione organica, può essere agevolmente rilevata dal confronto tra i dipendenti in servizio e la consistenza delle dotazioni organiche. Il fenomeno si può determinare o in presenza di una norma che lo ha previsto (ad esempio le stabilizzazioni di lavoratori socialmente utili nei Comuni fino a 5mila abitanti con oneri parzialmente a carico dello Stato o dei lavoratori ex Eti) o per il mancato trasferimento alle dipendenze del nuovo gestore a seguito delle esternalizzazioni della gestione dei servizi.
La rilevazione delle condizioni di eccedenza richiede invece un esame di merito: le nuove disposizioni non prevedono più l'utilizzo degli stessi principi dettati per il settore privato. Si fa riferimento alle esigenze funzionali e alla condizione finanziaria. Sul primo versante appare quindi necessario che le amministrazioni procedano a una rilevazione delle attività svolte, del personale impegnato e degli strumenti utilizzati. Ad esempio, la diminuzione di certificati che si registrerà a seguito del divieto del loro utilizzo da parte delle Pa dovrebbe portare alla riduzione dei dipendenti impegnati nel front office degli uffici anagrafici.
E ancora, una volta che il personale delle Province sarà assegnato a Comuni o Regioni, si potrebbe determinare questa condizione per gli uffici che svolgono compiti di supporto (personale, ragioneria, provveditorato, economato, centro informatico eccetera). Il riferimento alla condizione finanziaria sembra determinare la possibile conseguenza che si debba provvedere non solo nel caso di enti in dissesto o strutturalmente deficitari, ma anche per il mancato rispetto del tetto alla spesa del personale o della soglia massima del 50% nel suo rapporto con la spesa corrente. La rilevazione dei fabbisogni standard potrà dare utili indicazioni operative sia per gli aspetti funzionali sia per i costi.
Se la ricognizione rileva l'esistenza di personale in soprannumero o eccedente occorre informare i soggetti sindacali: da questo atto decorrono i termini per il collocamento in disponibilità di questo personale (articolo Il Sole 24 Ore del 06.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOCompetenze anti-ritardi da chiarire. È incerto se sia compito del sindaco o della giunta individuare il responsabile.
LA PLATEA/ Anche i segretari e i direttori generali possono essere incaricati di intervenire come sostituti in caso di inerzia.

Tutela molto più forte dei cittadini e delle imprese per i ritardi delle pubbliche amministrazioni nell'adozione dei provvedimenti di propria competenza, previsione di un intervento sostitutivo e possibilità di rapido avvio del l'azione di responsabilità amministrativa in capo al dirigente inadempiente.
Sono questi gli strumenti con i quali il decreto legge sulle semplificazioni, riapprovato venerdì scorso dal Consiglio dei ministri, vuole raggiungere il risultato di tagliare i tempi dell'attività amministrativa, dando certezza sul momento della sua conclusione. Questa tutela si applica a tutti gli atti delle pubbliche amministrazioni, quindi non solo nel caso di mancata risposta a istanze, ma anche per i ritardi nei pagamenti. Lo strumento tecnico è la modifica della legge 241/1990.
Il legislatore ribadisce in primo luogo la competenza dei tribunali amministrativi e precisa l'applicabilità delle forme di tutela contenute nel Codice sul processo amministrativo. Le nuove regole non si applicano ai procedimenti tributari.
I vertici politici devono individuare il dirigente a cui sono attribuiti i poteri sostitutivi in caso di inerzia: un solo soggetto per ogni amministrazione. In caso di mancata individuazione, provvede direttamente il legislatore: questa competenza è attribuita nell'ordine al direttore generale, al dirigente del settore o al funzionario di più elevato livello presente nell'ente. Negli enti locali occorre chiarire se la competenza all'individuazione del dirigente a cui sono attribuiti i poteri sostitutivi spetta alla Giunta, in quanto organo che ha competenza residuale generale, o ai sindaci, in quanto spetta a loro la competenza al conferimento e alla revoca degli incarichi dirigenziali: la seconda soluzione appare preferibile. I dirigenti individuati come sostituti in caso di inerzia possono essere sicuramente anche i segretari o i direttori generali; nei Comuni sprovvisti di dirigenza possono essere individuati anche nei titolari di posizioni organizzative.
L'intervento del sostituto può essere richiesto solamente dopo il decorso del termine di conclusione dei procedimenti, termine che ricordiamo essere in linea generale fissato in 30 giorni e che i regolamenti degli enti possono innalzare fino a 90 giorni. Il sostituto deve concludere il procedimento entro la metà del termine e a tal fine può avvalersi della struttura esistente o nominare un commissario ad acta. Comunque, dall'applicazione della disposizione non devono derivare oneri aggiuntivi per l'ente.
In capo ai dirigenti inadempienti sono previsti vari tipi di sanzione. I ritardi determinano il maturare di responsabilità dirigenziale o di risultato, oltre che di responsabilità amministrativa e contabile: gli organismi di valutazione devono tenere conto di questo elemento nella valutazione della performance. Va sottolineato che il legislatore ha rafforzato una previsione già esistente. Questo rafforzamento si manifesta soprattutto nell'obbligo per il dirigente individuato come sostituto di informare annualmente il vertice politico dei procedimenti in cui si è dovuto sostituire ai dirigenti in ritardo nell'adozione di provvedimenti amministrativi. Un ulteriore e importante elemento di novità è dato dalla previsione che questi comportamenti possono determinare l'insorgere di responsabilità amministrativa e, soprattutto, dalla facilità con cui la relativa azione può essere instaurata. Si dispone infatti che le sentenze dei tribunali amministrativi che condannano le Pa per ritardi nella risposta ai cittadini possano essere in via telematica inviate alla Corte dei conti; ma soprattutto si stabilisce che debbano essere inviate quelle passate in giudicato.
È ovvio che per Corte dei conti si debba intendere la Procura e non le sezioni di controllo; la possibilità di invio è una formula molto generica e andrebbe meglio precisata, soprattutto per individuare il soggetto responsabile; l'obbligo di invio di tutte le sentenze passate in giudicato è fissato in modo tassativo: in questo modo si forniscono immediatamente le informazioni necessarie per l'eventuale instaurazione dell'azione di responsabilità. Azione di responsabilità che, sulla base della giurisprudenza contabile consolidata, fissa la misura del danno erariale nelle sanzioni e interessi che l'ente ha dovuto versare al privato, ivi compresi gli eventuali risarcimenti danni.
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Il percorso per rimediare - Che cosa succede in caso di ritardi della pubblica amministrazione
- Le pubbliche amministrazioni devono individuare il dirigente che interviene in caso di ritardi
- Il sostituto è tenuto a informare l'ente a proposito dei procedimenti in cui è intervenuto
- Il sostituto conclude i procedimenti entro la metà dei termini, anche tramite un commissario ad acta
- Dei ritardi si tiene conto negativamente nella valutazione delle performance
- Le sentenze che condannano le pubbliche amministrazioni per ritardi sono inviate alla Corte dei conti (articolo Il Sole 24 Ore del 06.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALIDanno erariale se la partecipata serve ad assumere.
L'abuso dello strumento societario costituisce danno nei confronti delle casse comunali.
Questo è il principio affermato dalla Corte dei conti - Sezione prima giurisdizionale centrale, con la sentenza n. 401/2011 (su cui si veda anche Il Sole 24 Ore del 5 gennaio).
Nel caso la Corte, ribaltando le precedenti assoluzioni, ha condannato gli amministratori del Comune e della società per la costituzione e la gestione antieconomiche della partecipata, avendo rappresentato queste, fra l'altro, una delle cause del successivo dissesto dell'ente.
Il rilievo della decisione sta tutta nel suo percorso motivazionale. Il Collegio ha aderito alla tesi accusatoria che muoveva dall'assunto che la società, al contrario di quanto affermato nello statuto e negli atti costitutivi, non sarebbe stata utilizzata per rendere più efficienti ed economici i servizi dell'ente, ma per perseguire scopi occupazionali, estranei alle regole di economicità e buona amministrazione.
Dagli atti è emerso che la costituzione della società ha avuto come unico obiettivo la tutela dei posti di lavoro di cassintegrati, Lsu e addetti ai cantieri scuola, al punto che il suo presidente ha formalmente invitato l'amministrazione a mantenere un adeguato livello occupazionale, individuandovi lo scopo essenziale della società.
La Corte non ha addebitato ai convenuti la mancata adozione di altre soluzioni economicamente più vantaggiose, quanto una scelta che in sé avrebbe potuto essere legittima e vantaggiosa per l'ente, ma solo se non fosse stata compiuta ab origine e poi perseguita, al solo fine di produrre un vantaggio occupazionale.
Si specifica, inoltre, che un fine occupazionale, pur presente nella legislazione (articolo 10 del Dlgs 468/1997), non può essere perseguito alterando le regole di sana ed economica gestione, ma è legittimo soltanto se compatibile con gli equilibri di bilancio della società e del Comune.
Nel caso il danno erariale trova la sua fonte in una gestione dissennata della società che ha sostenuto spese di personale incompatibili con le sue capacità economiche, piegando l'organizzazione al perseguimento di fini estranei allo (finto) scopo sociale. L'analisi dei flussi finanziari ha mostrato come le perdite della società si siano risolte in un danno per le casse comunali; il Comune ha riconosciuto alla società non solo il corrispettivo previsto nei contratti di appalto, ma anche ulteriori provviste finanziarie.
Dalla vicenda si possono trarre anche alcune considerazioni di carattere generale.
I veri costi della politica, verosimilmente, si annidano in situazioni come queste e non tanto e non solo nei costi diretti degli apparati, che vanno comunque drasticamente ridotti.
Si può ipotizzare, infine, che nel campo della finanza pubblica si stiano affacciando concetti simili all'abuso del diritto di origine fiscale, finalizzati a evitare l'utilizzo strumentale di istituti di per sé legittimi, ma che diventano anomali se il loro unico scopo sia quello di eludere vincoli di finanza pubblica e norme di contenimento della spesa (articolo Il Sole 24 Ore del 06.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Speciale iter DL Semplificazioni/ Parcheggi pertinenziali, cessione possibile.
Il decreto semplificazioni interviene in tema di parcheggi pertinenziali e stabilisce che la proprietà dei parcheggi di pertinenza delle abitazioni può essere trasferita separatamente dalla unità immobiliare di riferimento, a condizione che ciò avvenga solo con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso Comune.
La legge 24.03.1989 n. 122 (c.d. legge Tognoli) detta disposizioni anche in materia di parcheggi e nel titolo III, all'art. 9 prevede che i parcheggi realizzati da proprietari di immobili nel sottosuolo degli stessi o nei locali siti al piano terreno sono da destinarsi a pertinenza delle singole unità immobiliari; il comma 5 dispone che in ragione del vincolo tali parcheggi non possano essere trasferiti e quindi ceduti separatamente dall'unità immobiliare a cui i parcheggi medesimi sono legati da vincolo pertinenziale.
La violazione di tale disposizione viene sanzionata con la nullità dell'atto di cessione (La giurisprudenza intervenuta su tali aspetti ha comunque precisato che la violazione del vincolo pubblicistico di destinazione a parcheggio degli spazi da utilizzare per tale scopo rende nulle solo le clausole relative, ma non anche l'intero negozio, con la conseguenza che il trasferimento del bene resta valido e all'acquirente spetta comunque il diritto di ottenere il trasferimento della relativa pertinenza).
Con il Decreto semplificazioni 2012, il comma 5 dell'art. 9 suindicato viene sostituito con un nuovo testo specificato nell'art. 9 del decreto stesso.
In particolare, considerando la ratio che caratterizza il provvedimento del Governo Monti, a seguito della entrata in vigore della norma viene meno il vincolo pertinenziale che lega il parcheggio all'unità immobiliare.
Il parcheggio potrà essere ceduto, pertanto, separatamente dalla unità immobiliare, senza che ciò comporti la nullità dell'atto di cessione.
Purtuttavia, è necessario che il parcheggio venga trasferito contestualmente a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso Comune.
Il nuovo testo della norma prevede un'eccezione: stabilisce che la cessione non può avvenire, pena la nullità dell'atto di trasferimento, ove abbia ad oggetto parcheggi realizzati su previsione dei Comuni nell'ambito del programma urbano dei parcheggi da destinare a pertinenza di immobili privati, insistenti su aree comunali o nel sottosuolo delle medesime (03.02.2012 - tratto da www.ipsoa.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Il socio non può impugnare in via autonoma i provvedimenti lesivi degli interessi della società.
Il Consiglio di Stato ribadisce nella sentenza in esame l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale "la qualità di socio di una società non risulta idonea ad individuare in capo al singolo un interesse legittimo distinto da quello proprio della società e non legittima, pertanto, la proposizione di autonomo ricorso contro il provvedimento lesivo di interessi della società; riguardo ai provvedimenti amministrativi lesivi degli interessi della società è la società stessa che deve eventualmente insorgere (attraverso i suoi organi ordinari, tuttora esistenti e legittimati); nelle persone dei soci possono individuarsi soltanto interessi di mero fatto all’accoglimento dei ricorsi proposti dalle società incise, che consentono loro la proposizione di atti di intervento ad adiuvandum, ma non di impugnazioni in via autonoma” (C.G.A.R.S., 22.10.2009, n. 980; 22.11.2007, n. 1053) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.02.2012 n. 676 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAvere password del database non salva da accesso abusivo.
D'ora in avanti sistemi informatici blindati. Infatti risponde del reato di accesso abusivo anche chi ha la password del database ma entra con finalità diverse rispetto a quelle consentite dal titolare di tale sistema.
Componendo un radicato contrasto di giurisprudenza, le Sezz. unite penali della Corte di Cassazione con la sentenza 07.02.2012 n. 4694, hanno confermato la condanna a carico di un carabiniere che, pur essendo abilitato all'ingresso del sistema, lo aveva fatto non a fini investigativi a lui consentiti ma per svelare informazioni riservate a una conoscente.
L'uomo si era difeso sostenendo che lui possedeva la password di ingresso al sistema e che per questo non era punibile ai sensi dell'articolo 615-ter del codice penale, indirizzato soltanto agli hacker. A questa obiezione il massimo consesso di Piazza Cavour ha risposto aderendo a una giurisprudenza della quinta sezione penale del Palazzaccio piuttosto restrittiva, che «integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, prevista dall'art. 615-ter cod. pen., la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni e i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l'accesso. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del reato, gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l'ingresso al sistema».
Nel caso sottoposto all'esame del Supremo collegio il maresciallo era stato autorizzato ad accedere al sistema informatico interforze soltanto per ragioni «di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione dei reati», con espresso divieto di stampare il risultato. Insomma, spiega la Corte, si tratta «di prescrizioni disciplinanti l'accesso e il mantenimento all'interno del sistema che, in quanto non osservate dall'imputato, hanno reso abusiva l'attività di consultazione esercitata in concreto, prescindendosi dal successivo uso indebito dei dati acquisiti e dalla predeterminazione di una finalità siffatta».
In altri termini, il militare ha agito con la consapevolezza della contrarietà alle disposizioni ricevute e, quindi, del carattere «invito domino» dell'accesso e della permanenza fisica nel sistema, «e ciò integra a evidenza il dolo generico richiesto dalla norma, che non prevede alcuna finalità speciale né lo scopo di trarre profitto, per sé o per altri, ovvero di cagionare ad altri un danno ingiusto» (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il parere di regolarità tecnica non costituisce un requisito di legittimità della delibera cui accede.
Il parere di regolarità' tecnica non costituisce un requisito di legittimità della delibera cui accede e pertanto non può inficiarla, avendo esso solo lo scopo di individuare il soggetto che formalmente assume la responsabilità sul riscontro della regolarità tecnica dell’atto: in altri termini il contenuto della delibera o del provvedimento, cui accede il parere, non è costituito anche da quest’ultimo, atteso che diversamente opinando la funzione latamente consultiva di tali atti e dei relativi autori (funzionari) finirebbe per sfociare inammissibilmente con l’attività di amministrazione attiva, confondendosi con quest’ultima (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.02.2012 n. 650 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Eccezioni al principio di immodificabilità dell'offerta negli appalti pubblici.
Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, fermo restando il principio che in un appalto l’offerta, una volta presentata, non è suscettibile di modificazione, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti, considerato che obiettivo della verifica di anomalia è quello di stabilire se l’offerta sia, nel suo complesso, e nel suo importo originario, affidabile o meno, il giudizio di anomalia deve essere complessivo e deve tenere conto di tutti gli elementi, sia quelli che militano a favore, sia quelli che militano contro l’attendibilità dell’offerta nel suo insieme: deve di conseguenza ritenersi possibile che, a fronte di determinate voci di prezzo giudicate eccessivamente basse e dunque inattendibili, l’impresa dimostri che per converso altre voci di prezzo sono state inizialmente sopravvalutate, e che in relazione alle stesse è in grado di conseguire un concreto, effettivo, documentato e credibile risparmio, che compensa il maggior costo di altre voci (nella specie, si era riconosciuto che il maggior importo di alcune voci del costo della manodopera rispetto a quello indicato dall’impresa potesse essere compensato dal maggior risparmio conseguito sul prezzo dei contratti di fornitura) [Cons. St., sez. VI, 21.05.2009 n. 3146; Cons. St., sez. VI, 19.05.2000 n. 2908].
Dalla citata giurisprudenza si desume che ciò che si può consentire è: a) o una modifica delle giustificazioni delle singole voci di costo (rispetto alle giustificazioni già fornite), lasciando le voci di costo invariate; b) oppure un aggiustamento di singole voci di costo, che trovi il suo fondamento o in sopravvenienze di fatto o normative che comportino una riduzione dei costi, o in originari e comprovati errori di calcolo, o in altre ragioni plausibili. La giurisprudenza ha infatti precisato che il subprocedimento di giustificazione dell’offerta anomala non è volto a consentire aggiustamenti dell’offerta per così dire in itinere ma mira, al contrario, a verificare la serietà di una offerta consapevolmente già formulata ed immutabile [Cons. St., sez. V, 12.03.2009 n. 1451].
Quello che non si può invece consentire è che in sede di giustificazioni vengano apoditticamente rimodulate le voci di costo senza alcuna motivazione, con un’operazione di finanza creativa priva di pezze d’appoggio, al solo scopo di “far quadrare i conti” ossia di assicurarsi che il prezzo complessivo offerto resti immutato e si superino le contestazioni sollevate dalla stazione appaltante su alcune voci di costo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.02.2012 n. 636 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIstanza di condono in sanatoria: la richiesta del Comune di integrazione documentale interrompe il termine biennale per la formazione del silenzio-assenso e il termine triennale di prescrizione delle somme dovute per oblazione e oneri concessori.
Il Consiglio di Stato nella controversia in esame ha ritenuto non meritevole di censura la sentenza impugnata che ha ritenuto non formatosi il silenzio–accoglimento sull’istanza di condono, né spirato il termine triennale di prescrizione: ciò con riguardo sia alle somme dovute a titolo di conguaglio dell’oblazione sia a quelle relative agli oneri concessori.
In particolare ad avviso del Consiglio di Stato secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale il decorso dei termini fissati dal diciottesimo comma dell’articolo 35 della legge 28.02.1985, n. 47 (ventiquattro mesi per la formazione del silenzio–accoglimento sulla istanza di condono edilizio e trentasei mesi per la prescrizione dell’eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute) presuppone in ogni caso la completezza della domanda di sanatoria (accompagnata in particolare dall’integrale pagamento di quanto dovuto a titolo di oblazione per quanto attiene la formazione del silenzio–accoglimento) (C.d.S., sez. IV, 16.02.2001, n. 1012; 07.07.2009, n. 4350; 19.02.2008, n. 554; sez. V, 19.04.2007, n. 1809; 21.09.2005, n. 4946).
E’ stato ulteriormente affermato che “la mancata allegazione della documentazione prevista dall’art. 35, comma 3, della legge 28.02.1985, n. 47, ha come effetto la preclusione per l’istante di ottenere la concessione in sanatoria per silenzio prevista dal successivo comma 18 e non di far considerare inesistente la domanda stessa” (C.d.S., sez. V, 25.06.2002, n. 3441; 14.10.1998, n. 1468; 17.10.1995, n. 14401) e che qualora l’amministrazione comunale, a fronte di un’istanza di sanatoria, abbia invitato l’interessato a presentare documentazione integrativa di quella già prodotta “…interviene l’interruzione del termine biennale necessario al formarsi del silenzio assenso della p.a. previsto dall’art. 35, comma 17, della stessa legge, e l’inizio di un nuovo termine dalla data di deposito di quanto richiesto” (C.d.S., sez. V, 01.10.2001, n. 5190).
Tali arresti costituiscono peraltro puntuale applicazione del principio di cui all’art. 2935 C.C., secondo cui la prescrizione non può decorrere se non dal giorno in cui il diritto possa essere fatto valere (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.02.2012 n. 578 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il dipendente che ha svolto mansioni superiori non può ottenere il corrispettivo agendo ex art. 2041 c.c. contro la P.A. per ingiustificato arricchimento.
Secondo principi giurisprudenziali consolidati, l’esercizio di mansioni superiori da parte del personale dipendente dalla pubblica amministrazione, ancorché con attribuzione per atto formale, non comporta alcun diritto, neppure per differenze retributive, salvo espressa previsione normativa dettata da norma speciale che consenta l’attribuzione delle mansioni superiori e la maggiorazione retributiva. Ciò perché nell’ambito del pubblico impiego è la qualifica e non le mansioni il parametro al quale la retribuzione è inderogabilmente riferita (cfr. tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 29.05.2002, n. 2969; sez. V. 08.05.2002, n. 2452).
Tale orientamento muove dalla decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 22 del 18.11.1999, che ha evidenziato che la parametrazione della retribuzione alla qualifica è conseguente all’assetto rigido della pubblica amministrazione sotto l’aspetto organizzatorio, collegato anch’esso, secondo il paradigma dell’art. 97 della Costituzione ad esigenze primarie di controllo e contenimento della spesa pubblica.
Invero, la sentenza impugnata ha fondato l’accoglimento della domanda delle differenze retributive sull’istituto dell’indebito arricchimento di cui all’art. 2041 cod. civ., avendo ravvisato l’indebito arricchimento della p.a. in danno del dipendente. L’applicazione di tale istituto di diritto privato al rapporto di pubblico impiego è stato disconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa ravvisandosi nella sua applicazione l’elusione del principio della necessaria corrispondenza tra qualifica e retribuzione e delle norme poste a salvaguardia della stabilità programmata dei costi per i servizi amministrativi (Adunanza plenaria 23.02.2000, n. 12).
Il diritto del dipendente al corrispettivo per l’espletamento di mansioni superiori non può fondarsi sull’ingiustificato arricchimento dell’amministrazione atteso che l’esercizio di mansioni superiori alla qualifica rivestita svolto durante l’ordinaria prestazione lavorativa, non reca alcuna diminuzione patrimoniale in danno del dipendente (il c.d. depauperamento che dell’azione ex art. 2041 cod. civ. è requisito essenziale) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.02.212 n. 574 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per il rilascio del titolo edilizio e' sufficiente che la P.A. riscontri in capo al richiedente l'esistenza di una formale disponibilità sul bene.
Ha titolo al rilascio della concessione edilizia non solo il proprietario o il titolare di diritti reali, ma anche colui che sia titolare di un diritto personale e abbia, per effetto, di questo la facoltà di eseguire i lavori (cfr. sul punto, Cons. Stato, V, 28.05.2001, n. 2881). Il contratto di locazione è, pertanto, titolo idoneo ad opere, quali sono quelle in questione, di carattere non irreversibile e temporalmente collegate alla gestione del distributore di carburanti. Né l’amministrazione comunale è tenuta ad accertare l’assenso di terzi all’attività del richiedente, o l’eventuale danno che qualcuno potrebbe subire dal provvedimento abilitativo, il quale viene emanato solamente sulla scorta della valutazione del titolo formale di disponibilità dell’area edificabile e con salvezza delle ragioni dei terzi.
In sostanza, non incombe all’amministrazione comunale una particolare indagine sul titolo che legittima l’interessato al rilascio della concessione edilizia. Di conseguenza è corretta la sentenza impugnata, laddove assume il legittimo rilascio del titolo abilitativo alle opere sulla base dell’astratta riconducibilità delle opere ai diritti rivenienti dal contratto di locazione. Inoltre non grava sull’amministrazione deputata al rilascio della concessione edilizia un particolare accertamento sulla misura dei diritti rivenienti alle parti dal rapporto obbligatorio che legittima al rilascio del titolo.
L’amministrazione comunale, invero, rilascia il titolo con la locuzione “salvi i diritti dei terzi” proprio perché è estraneo al suo potere l’accertamento di eventuali limiti del richiedente all’esercizio dell’attività edificatoria (L’accertamento dell’eventuale lesione del diritto soggettivo sulla cosa comune va fatto valere davanti al giudice ordinario e di tanto è consapevole la ricorrente che ha proposto azione possessoria al giudice ordinario a tutela delle sue pretese ragioni all’immodificabilità degli accessi al piazzale, domanda che non risulta sia stata accolta) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.02.2012 n. 568 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASanzioni urbanistiche: il titolare di diritti immobiliari sul bene o su bene finitimi non e' controinteressato anche ove abbia sollecitato la P.A. all'adozione del provvedimento sanzionatorio.
Nel giudizio avente ad oggetto la sanzione urbanistica non è ravvisabile nel soggetto titolare di diritti immobiliari sul bene o su beni finitimi o che sia in rapporto di vicinitas la posizione di contro interessato, nemmeno allorquando tale soggetto si sia attivato per l’adozione del provvedimento sanzionatorio o abbia contestato in altra sede anche amministrativa l’abuso edilizio.
La qualità di controinteressato, al quale il ricorso giurisdizionale deve essere notificato entro il termine di legge, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere efficace il provvedimento impugnato -e men che mai a chi ne subisca conseguenze indirette o riflesse-, ma soltanto al soggetto che da quest'ultimo riceve un vantaggio diretto ed immediato, ossia il vantaggioso accrescimento della propria sfera giuridica.
Siffatto riconoscimento opera non in relazione ad esigenze processuali, ma deve essere condotto sulla scorta del c.d. elemento "sostanziale" (individuazione della titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente), oppure del c.d. elemento "formale" (indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione) (cfr. tra le tante, Consiglio Stato, sez. V, 03.07.1995, n. 991) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.02.2012 n. 567 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALINon e' applicabile lo "spoil system" alla revoca di componenti del Consiglio di amministrazione di un ente che non si configurano come rappresentanti dell’ente locale.
Ad avviso del Consiglio di Stato alla fattispecie in esame afferente la revoca del ricorrente dalla carica di Consigliere di amministrazione di una Fondazione composta da vari enti locali e dalla Provincia che a suo tempo aveva provveduto alla relativa nomina non risulta applicabile l’art. 50, co 8, del T.U. degli enti locali, in forza del quale sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio il presidente della provincia provvede alla nomina, alla designazione e alla revoca dei rappresentanti della provincia presso enti, aziende ed istituzioni.
In particolare a seguito di elezioni, con conseguente avvicendamento della maggioranza politica, il Presidente della Provincia, sul presupposto del carattere fiduciario di tale nomina disponeva con decreto la revoca dell'incarico. L’interessato proponeva, quindi, ricorso avverso tale provvedimento che veniva respinto dal Tar sul presupposto della competenza della Provincia a provvedere sulla base del rapporto fiduciario di cui all'art. 50 del T.U.E.L..
Il Consiglio di Stato investito della vicenda, ha accolto l'appello ritenendo inapplicabile il c.d. spoil system alla revoca di amministratori di un ente che in base allo statuto dell'ente stesso non siano espressamente individuati come rappresentanti dell’Amministrazione, né da esso risulti un rapporto di esponenzialità politica con l'amministrazione in carica (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.02.2012 n. 566 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINei bandi di gara la P.A. può richiedere requisiti più rigorosi rispetto a quelli previsti dalla legge.
Costituisce invero jus receptum (C.d.S., sez. V, 04.08.2010, n. 5201; 19.11.2009, n. 7247; 06.04.2009, n. 2138) che i bandi di gara di appalti pubblici possono contenere requisiti di partecipazione più rigorosi di quelli prescritti dalla legge, purché non discriminanti ed abnormi rispetto alle regole proprie del settore, e possono pertanto pretendere l’attestazione di requisiti di capacità diversi ed ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge, ciò rientrando nell’esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione finalizzato a dare corretta attuazione ai principi di imparzialità e buon andamento predicati dall’articolo 97 della Costituzione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.02.2012 n. 564 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa domanda di accesso ai documenti non può essere spropositata rispetto all'interesse conoscitivo del richiedente.
Il diritto di accesso non è meramente strumentale alla proposizione di una azione giudiziale, ma ha carattere autonomo rispetto a essa, cosicché il giudice dell’accesso deve accertare solo l’esistenza dei presupposti che legittimano la richiesta di accesso e non anche la necessità di utilizzare gli atti richiesti in un altro giudizio, ad es. dinanzi al giudice civile, fermo restando però che la disciplina sull’accesso non può essere rivolta a tutelare l’interesse a eseguire un controllo generico e generalizzato sull’attività della P. A..
Detto altrimenti, la necessaria sussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui è chiesto l’accesso, alla quale fa riferimento l’art. 22/B) della l. n. 241/1990 non significa che l’accesso sia stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio della situazione sottostante; esso assume invece una valenza autonoma, non dipendente dalla sorte del processo principale e dalla stessa possibilità di instaurazione di tale processo.
In questa prospettiva, il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza, sancito dall’art. 22/B) della l. n. 241/1990, non può che essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse (Cons. St., V, 3309/2010 e ivi rif.).
La giurisprudenza (Cons. St., V, nn. 5226 e 3309 del 2010) ha aggiunto che la domanda di accesso ai documenti amministrativi non può essere palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse conoscitivo del soggetto richiedente, il quale deve specificare il nesso che lega il documento richiesto alla propria posizione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela; detta domanda deve, inoltre, indicare i presupposti di fatto idonei a rendere percettibile l'interesse specifico, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento “de quo” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.02.2012 n. 554 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIValutazione del costo del lavoro dipendente indicato nella offerta di gara.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, il mancato rispetto dei limiti tabellari afferenti il costo del lavoro non determina l’automatica esclusione dalla gara, costituendo piuttosto un importante sintomo di anomalia dell’offerta, da verificare mediante un complessivo giudizio di rimuneratività, chiedendo all’impresa le giustificazione di merito (C.d.S., III, 07.03.2011, n. 1419; 09.11.2010, n. 7967) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.02.2012 n. 551 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL'impresa ha l'onere di partecipare alla gara per poter contestare le clausole del bando ritenute lesive dei propri legittimi interessi.
E' principio giurisprudenziale consolidato e di recente ribadito dalla Adunanza Plenaria di questo Consiglio, quello secondo il quale la legittimazione al ricorso, nelle controversie riguardanti l’affidamento dei contratti pubblici, spetti esclusivamente ai soggetti partecipanti alla gara, poiché solo tale qualità si connette all’attribuzione di una posizione sostanziale differenziata e meritevole di tutela.
In questa veste, il ricorrente che ha partecipato legittimamente alla gara può far valere tanto un interesse “finale” al conseguimento dell’appalto affidato al controinteressato, quanto, in via alternativa (e normalmente subordinata) l’interesse “strumentale” alla caducazione dell’intera gara e alla sua riedizione (sempre che sussistano, in concreto, ragionevoli possibilità di ottenere l’utilità richiesta). Ma l’interesse strumentale allegato, in questo modo, potrebbe assumere rilievo, eventualmente, solo dopo il positivo riscontro della legittimazione al ricorso. La situazione legittimante costituita dalla partecipazione alla procedura, quindi, costituisce, tuttora, la condizione necessaria per acquisire la legittimazione al ricorso (cfr. Ad. Plen. n. 4/2011).
Una eccezionale deroga al principio testé annunciato, sempre come precisato dall’Adunanza Plenaria, può peraltro rinvenirsi nella ipotesi dell’operatore del settore a cui sia oggettivamente impedita la partecipazione alla procedura selettiva, in virtù di una specifica clausola direttamente ed immediatamente escludente del bando. In tali circostanze, infatti, la certezza del pregiudizio determinato dal bando rende superflua la domanda di partecipazione e l’adozione di un atto esplicito di esclusione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.02.2012 n. 550 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa cauzione costituisce parte integrante dell’offerta.
La cauzione costituisce parte integrante dell’offerta e non mero elemento a corredo della stessa, per cui essa non può ragionevolmente essere oggetto di regolarizzazione postuma, pena la violazione del fondamentale principio della par condicio dei concorrenti.
Ne consegue, come già rilevato dalla Sezione in sede cautelare con l’ordinanza n. 2283/2009, che la richiesta di regolarizzazione non può essere formulata dalla stazione appaltante se vale ad integrare documenti che, in base a previsioni univoche del bando o della lettera d’invito, avrebbero dovuto essere prodotti a pena di esclusione ... e che pertanto, in ogni caso, non poteva applicarsi l’art. 46 d.lgs. n. 163/2006 alla polizza fideiussoria non legalizzata.
Né, peraltro, la clausola in questione risulta illegittima “poiché essa si risolverebbe in una formalità non essenziale e non prevista dalla disciplina sugli incanti pubblici”, come ritenuto dall’appellante. E’ del tutto ragionevole, infatti, che la stazione appaltante nell’ambito dei suoi poteri discrezionali richieda tassativamente o l’originale della polizza fideiussoria o la copia con firma legalizzata (escludendo succedanei), non costituendo di certo tale prescrizione un aggravio del procedimento, ma un incombente di facile esecuzione adoperando una più che normale diligenza nella predisposizione della documentazione di gara (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.02.2012 n. 549 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIQualora non si approvi nei trenta giorni l'aggiudicazione provvisoria la stessa si intende comunque approvata.
Nella controversia in esame il ricorrente si doleva dell'inosservanza del termine di trenta giorni per l’aggiudicazione definitiva previsto dall’art. 12 del codice degli appalti. Il Consiglio di Stato ha ritenuto infondata la suddetta censura dal momento che la norma fissa un termine massimo di 30 giorni per la approvazione della aggiudicazione provvisoria, da parte dell’organo competente, decorso il quale, l’aggiudicazione si intende comunque approvata.
Trattasi, dunque, di una norma atta a snellire la procedura e non a fissare il termine il cui decorso è condizione perché l’organo competente possa provvedere alla approvazione della aggiudicazione provvisoria (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.02.2012 n. 549 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa "lex specialis" prevale sul principio di "favor partecipationis".
I criteri ermeneutici del "favor partecipationis", di adeguatezza, di proporzionalità e di "non aggravamento" della procedura concorsuale hanno natura sussidiaria e vengono in rilievo nel caso in cui la lettera del bando di gara d'appalto pubblico non sia univoca e lasci spazio a dubbi ed incertezze, mentre, nel caso in cui il bando commini espressamente l'esclusione obbligatoria, in presenza di determinate violazioni, la P.A. è tenuta a dare precisa ed incondizionata esecuzione a tale previsione, restando preclusa, anche all'interprete, ogni valutazione circa la rilevanza dell'inadempimento, l'incidenza di questo sulla regolarità della procedura selettiva e la congruità della sanzione contemplata nella "lex specialis", alla cui osservanza la P.A. si è autovincolata al momento dell'adozione del bando (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.02.2012 n. 546 - massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONELa dichiarazione di pubblica utilità, esplicita o implicita, è presupposto indefettibile del decreto di espropriazione, tanto che l’art. 8 del d.p.r. 2001 n. 327 considera la d.p.u. un presupposto di emanazione del decreto di espropriazione.
Del resto, l’art. 23 del d.p.r. n. 327/2011 consente l’adozione del decreto di espropriazione solo entro il termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
In tal senso, un consistente orientamento giurisprudenziale giunge a qualificare in termini di presupposizione necessaria la relazione che intercorre tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di espropriazione, sicché l’annullamento con efficacia retroattiva della prima determina la caducazione automatica del secondo, comunque emanato.

Invero, è del tutto pacifico l’orientamento giurisprudenziale che considera la dichiarazione di pubblica utilità, esplicita o implicita, come nel caso di specie, quale presupposto indefettibile del decreto di espropriazione, tanto che l’art. 8 del d.p.r. 2001 n. 327 considera la d.p.u. un presupposto di emanazione del decreto di espropriazione.
Del resto, l’art. 23 del d.p.r. n. 327 consente l’adozione del decreto di espropriazione solo entro il termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
In tal senso, un consistente orientamento giurisprudenziale giunge a qualificare in termini di presupposizione necessaria la relazione che intercorre tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di espropriazione, sicché l’annullamento con efficacia retroattiva della prima determina la caducazione automatica del secondo, comunque emanato (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 30.06.2003, n. 3896; Consiglio di stato, sez. IV, 29.01.2008, n. 258; Consiglio di stato, sez. IV, 19.03.2009, n. 1651. Va, però, dato atto dell’esistenza di un diverso orientamento che esclude l’automatica caducazione in ragione dell’autonomia dell’effetto ablatorio riconducibile al solo decreto di espropriazione, così Consiglio di stato, sez. IV, 27.03.2009, n. 1869; TAR Puglia Lecce, sez. I, 07.07.2010, n. 1694) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 01.02.2012 n. 353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In una gara pubblica solo un documento presentato, anche parzialmente, può essere regolarizzato.
Il rimedio della regolarizzazione documentale di cui all'art. 46, del d.lgs. n. 163/2006, non si applica al caso in cui l'impresa concorrente abbia integralmente omesso di presentare la documentazione la cui produzione è richiesta a pena di esclusione dal bando di gara. Solo qualora la documentazione prodotta da un concorrente ad una pubblica gara sia presente, ma carente di taluni elementi formali, in modo che sussista un indizio del possesso del requisito richiesto, l'Amministrazione non può pronunciare l'esclusione dalla procedura.
In tal caso essa è tenuta a richiedere al partecipante di integrare e chiarire il contenuto di un documento già presente, costituendo siffatta attività acquisitiva un ordinario “modus procedendi”, ispirato all'esigenza di far prevalere la sostanza sulla forma. In sostanza, solo quando il documento è già stato presentato in sede di gara, anche se parzialmente, deve ritenersi consentita la sua regolarizzazione se la violazione è squisitamente formale ed il rimedio, in concreto, non altera la "par condicio" tra i concorrenti.
Pertanto, nel caso in esame, in cui la dichiarazione attestante la capacità economica e la solvibilità di detta società non era stata presentata, comunque l’Amministrazione non avrebbe potuto far ricorso all’istituto della integrazione documentale.
La possibilità di integrazione della documentazione incompleta depositata nei termini assegnati nel bando di gara, inoltre, non poteva comunque essere esercitata in questa vicenda perché volta ad integrare documenti che avrebbero dovuto essere prodotti a pena di esclusione in quanto attinenti a requisiti essenziali per la partecipazione (Consiglio Stato, sez. V, 02.08.2010, n. 5084) (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.01.2012 n. 467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIL'utilizzo dello strumento della proroga dei contratti in scadenza deve avere carattere eccezionale e può essere legittimamente deliberato nel rispetto dei vincoli e delle condizioni previste dalla normativa in vigore. Nello specifico, l'art. 23 della legge 18.04.2005 n. 62 stabilisce che i contratti per acquisti di forniture di beni e di servizi scaduti, o che vengano a scadere nei sei mesi successivi alla data di entrata in vigore della suddetta legge, possono essere prorogati per il tempo strettamente necessario alla stipula dei nuovi contratti a seguito dell'espletamento di gare ad evidenza pubblica, a condizione che la proroga non superi comunque i sei mesi e che il bando di gara venga pubblicato entro e non oltre novanta giorni dalla data di entrata in vigore della citata legge.
In materia di contratti stipulati dalla Pubblica Amministrazione con contraenti privati, la violazione di norme imperative finalizzate ad assicurare i valori di buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 della Costituzione, comportando il difetto della capacità di agire dell'Amministrazione, denota il vizio genetico della formazione della volontà e della scelta del contraente, in un ambito che attiene pur sempre all'assolvimento di funzioni amministrative, riflettendosi sulla validità dell'atto di alienazione, con le conseguenze dell'art. 1418, comma 1, c.c. Se è vero che la violazione delle norme imperative o più genericamente. la violazione di legge è dalla normativa in materia (art. 21-octies l. n. 241/1990 s.m.i.) espressamente richiamata con riferimento alla sola annullabilità, ciò non toglie che lo stesso vizio sia in grado di provocare la nullità ove comporti la mancanza di uno degli elementi essenziali del! 'atto, come nel caso di mancanza di capacità di agire dell’'amministrazione. La patologia in oggetto è stata individuata come nullità strutturale dell'atto, tale da renderlo totalmente improduttivo di effetti e non abbisognevole di interventi caducatori di secondo grado.

Ed invero osserva il Collegio, come giustamente chiarito dalla difesa dell’Amministrazione resistente, che l'impugnato provvedimento di autotutela si regge su un supporto motivazionale certamente congruo ed immune da vizi essendo del tutto conforme al paradigma di cui all'art. 3, terzo comma, L. n. 241/1990 s.m.i., qual è il richiamo, nel quart'ultimo cpv. di pag. 3 della nota del 22.09.2005, prot. n. 51 del collegio dei Sindaci, con la quale è stato rilevato che:
"L'utilizzo dello strumento della proroga dei contratti in scadenza deve pertanto avere carattere eccezionale e può essere legittimamente deliberato nel rispetto dei vincoli e delle condizioni previste dalla normativa in vigore. Nello specifico, l'art. 23 della legge 18.04.2005 n. 62 stabilisce che i contratti per acquisti di forniture di beni e di servizi scaduti, o che vengano a scadere nei sei mesi successivi alla data di entrata in vigore della suddetta legge, possono essere prorogati per il tempo strettamente necessario alla stipula dei nuovi contratti a seguito dell'espletamento di gare ad evidenza pubblica, a condizione che la proroga non superi comunque i sei mesi e che il bando di gara venga pubblicato entro e non oltre novanta giorni dalla data di entrata in vigore della citata legge".
Peraltro, osserva correttamente sempre l’Amministrazione resistente, che, con l'art. 23 1. n. 62/2005, il legislatore nazionale ha (doverosamente) adeguato l'ordinamento interno al fondamentale principio di concorrenza fissato dall'ordinamento comunitario di cui è espressione diretta l'evidenza pubblica, dando attuazione all' art. 117, 1 comma Cost. che vincola il legislatore interno al rispetto dell'ordinamento comunitario. Ne consegue che la prorogabilità per soli sei mesi del contratto scaduto (tempo assunto dal legislatore come congruo per la stipula del nuovo contratto) costituisce prescrizione cogente, posta da norma imperativa che, in quanto espressione dell'anzidetto principio comunitario, vincola l'Amministrazione alla sua osservanza.
In tale contesto normativo, interno e comunitario, l'ASL Roma E non poteva che agire così come ha fatto, determinandosi correttamente e doverosamente all'esercizio del potere di autotutela, non incontrando alcun ostacolo nella trasmodante, illegittima proroga erroneamente concessa ancorché concordata con la controparte; stante la nullità dell'accordo ex artt. 1339 e 1418 c.c..
Inoltre la nullità dell’asserito valido accordo contrattuale intercorso tra le parti traspare anche sotto il diverso profilo del difetto di capacità di agire, dato che il Consiglio di Stato sez. V, con decisione 01.03.2010, n. 1156 ha avuto modo di ribadire che "In materia di contratti stipulati dalla Pubblica Amministrazione con contraenti privati, la violazione di norme imperative finalizzate ad assicurare i valori di buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 della Costituzione, comportando il difetto della capacità di agire dell'Amministrazione, denota il vizio genetico della formazione della volontà e della scelta del contraente, in un ambito che attiene pur sempre all'assolvimento di funzioni amministrative, riflettendosi sulla validità dell'atto di alienazione, con le conseguenze dell'art. 1418, comma 1, c.c. Se è vero che la violazione delle norme imperative o più genericamente. la violazione di legge è dalla normativa in materia (art. 21-octies l. n. 241/1990 s.m.i.) espressamente richiamata con riferimento alla sola annullabilità, ciò non toglie che lo stesso vizio sia in grado di provocare la nullità ove comporti la mancanza di uno degli elementi essenziali del! 'atto, come nel caso di mancanza di capacità di agire dell’'amministrazione. La patologia in oggetto è stata individuata come nullità strutturale dell'atto, tale da renderlo totalmente improduttivo di effetti e non abbisognevole di interventi caducatori di secondo grado".
E sotto tale profilo la difesa dell’Amministrazione evidenzia correttamente che nella richiamata decisione del Consiglio di Stato sia rimarcata: la strumentalità delle norme dettate nel pubblico interesse, quale l'art. 97 Cost. e l'art. 1, primo comma, l. n. 241/1990, alla tutela dell'''ordine pubblico ed economico", escludendo che la loro violazione, in quanto ridonda in difetto della capacità giuridica dell' Amministrazione, costituisca causa di annullamento del contratto, essendo piuttosto causa di nullità, ancorché non espressamente prevista dall'art. 21-septies 1. n. 241/1990 (principio delle nullità virtuali) (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 30.01.2012 n. 1043 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQualora vi siano contestazioni circa la legittimazione del richiedente il titolo edilizio, per quanto il Comune non possa prescindere dal considerare i presupposti di fatto e di diritto che comunque possono incidere sulla disponibilità del bene da parte dello stesso richiedente, non può tuttavia spingersi fino a dirimere i conflitti tra più titoli da cui sorgono diritti reali sul bene oggetto di lavori, rilasciando il permesso di costruire facendo comunque salvi i diritti dei terzi.
Nella sostanza, l’accertamento della legittimazione alla richiesta del permesso di costruire, avviene sulla base del titolo esibito dal richiedente, dovendosi comunque escludere l'obbligo di effettuare complesse indagini dirette a ricostruire tutte le vicende riguardanti l'immobile, quali l'inesistenza di servitù o di altri diritti reali idonei a limitare l'attività edificatoria.

Qualora vi siano, come nel caso in esame, contestazioni circa la legittimazione del richiedente il titolo edilizio, per quanto il Comune non possa prescindere dal considerare i presupposti di fatto e di diritto che comunque possono incidere sulla disponibilità del bene da parte dello stesso richiedente, non può tuttavia spingersi fino a dirimere i conflitti tra più titoli da cui sorgono diritti reali sul bene oggetto di lavori, rilasciando il permesso di costruire facendo comunque salvi i diritti dei terzi (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 29.09.1999 n. 1205; TAR Sardegna, Sez. II, 18.04.2011 n. 364; TAR Toscana, 18.12.2002 n. 3371; TAR Emilia-Romagna, Parma, 21.03.2002, n. 183).
Nella sostanza, l’accertamento della legittimazione alla richiesta del permesso di costruire, avviene sulla base del titolo esibito dal richiedente, dovendosi comunque escludere l'obbligo di effettuare complesse indagini dirette a ricostruire tutte le vicende riguardanti l'immobile, quali l'inesistenza di servitù o di altri diritti reali idonei a limitare l'attività edificatoria (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 07.07.2005 n. 3730; TAR Emilia-Romagna, Parma, 21.02.2007 n. 53) (TAR Marche, sentenza 27.01.2012 n. 78 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Non sussiste alcun obbligo di dare comunicazione ai proprietari di immobili vicini dell'avvio del procedimento con cui si consente la trasformazione del territorio.
Osserva la Sezione che l'art. 7 della l. n. 241/1990 prevede l'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento non solo ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è diretto a produrre effetti diretti, ma anche ai diversi soggetti, individuati o facilmente individuabili, che, pur non essendo destinatari del provvedimento, possano ricevere da esso un pregiudizio. La seconda parte della disposizione del comma 1 del citato art. 7 intende invero tutelare quelle persone che, essendo estranee al rapporto che si instaura con l'avvio del procedimento tra P.A. e destinatario, potrebbero essere pregiudicate dalla conclusione del procedimento senza avere avuto la possibilità di parteciparvi né di essere a conoscenza dell'attività amministrativa in corso.
Non sussiste, tuttavia, per consolidata giurisprudenza, alcun obbligo di dare comunicazione ai proprietari di immobili vicini dell'avvio del procedimento con cui si consente la trasformazione del territorio, in quanto gli interessi coinvolti dal provvedimento con cui si consente la trasformazione sono di tale varietà ed ampiezza da rendere difficilmente individuabili tutti i soggetti che dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento.
In particolare deve ritenersi che i vicini non siano annoverabili tra i soggetti destinatari della comunicazione di avvio del procedimento per la compravendita di un terreno, salvo il caso in cui detti soggetti abbiano preventivamente manifestato il loro interesse all’acquisto, in tal modo radicando una posizione differenziata, qualificata e conosciuta dall'Amministrazione, poiché l'invocata estensione ad essi della predetta comunicazione comporterebbe un aggravio procedimentale in contrasto con i principi di economicità e di efficienza dell'attività amministrativa (Consiglio Stato, sez. IV, 06.07.2009, n. 4300) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.01.2012 n. 338 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl permesso di costruire ha natura non ricettizia e i suoi effetti iniziano a decorrere dal momento della sua adozione e non dal momento della notifica al richiedente.
Conseguentemente, è dal momento della comunicazione con la quale il richiedente viene avvisato che il permesso di costruire è stato rilasciato che decorre il termine per il pagamento del contributo di costruzione e quindi nasce l’obbligo impositivo (e non dalla data di ritiro materiale del provvedimento).

Con il secondo mezzo si sostiene che il permesso di costruire è un atto ricettizio ex lege: a tale conclusione si perviene ove si consideri che il legislatore statale e regionale ha parlato di “rilascio” del titolo edilizio, il che implicherebbe la “traditio” del provvedimento dall’autorità adottante al soggetto beneficiario.
La conseguenza della tesi della natura ricettizia sarebbe costituita dal fatto che solo con l’integrale conoscenza del provvedimento concessorio il soggetto sarebbe in grado di valutare pienamente la soddisfazione del proprio interesse e solo da questo momento sorgerebbero gli obblighi giuridici tra cui vi è, principalmente, quello di pagare gli oneri di urbanizzazione.
Poiché alla ricorrente il provvedimento è stato rilasciato il giorno 09.03.2005 presso la sede dell’ente territoriale sarebbe illegittima la pretesa dell’amministrazione di equiparare il semplice avviso (dal 16.02.2005) di disponibilità del provvedimento presso gli uffici con il rilascio del medesimo. L’avviso di mora e la richiesta di pagamento della sanzione sarebbero pertanto illegittimi in quanto la società ricorrente ha esattamente adempiuto al pagamento degli oneri a fare data dalla conoscenza del provvedimento avvenuta con il suo ritiro il 09.03.2005.
La doglianza è infondata in quanto il Collegio intende aderire al quella parte della giurisprudenza amministrativa che ritiene che il permesso di costruire abbia natura non ricettizia e i suoi effetti inizino a decorrere dal momento della sua adozione e non dal momento della notifica al richiedente.
A tal proposito occorre premettere che l’art. 15 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, prevede che: a) nel permesso di costruire siano indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori; b) che, in particolare, il termine per l’inizio dei lavori non possa essere superiore ad un anno dal “rilascio” del titolo, laddove quello di ultimazione non possa superare i tre anni dall'inizio dei lavori; c) che, decorsi tali termini, il permesso decada di diritto per la parte non eseguita, a meno che, anteriormente alla scadenza venga richiesta (e conseguita) una proroga.
La disposizione in esame fa, dunque, decorrere il termine “dal rilascio del titolo” (e non dalla sua successiva comunicazione all’interessato), ciò che induce un corposo filone giurisprudenziale (con l’assenso di parte della dottrina) alla tesi della non ricettizietà (confermata, per un verso, dalla ratio della previsione –preordinata a tutelare l’interesse pubblico a che il rilascio di titoli edilizi non seguiti dalla pronta ed effettiva realizzazione delle opere progettate non precluda l’immutazione degli assetti programmatori del territorio– e, per altro verso, dal tenore dell’attuale art. 21-bis della l. n. 241 del 1990, il quale, recependo sul punto le elaborazioni pretorie, considera recettizi solo i provvedimenti limitativi della sfera del destinatario, legittimando l’argomentazione a contrario per quelli ampliativi).
In tali sensi sono, in via esemplificativa: Cass., sez. I, 30.11.2006, n. 25536; TAR Liguria, 11.03.2003, n. 279; TAR Sardegna, 10.11.1992, n. 1429; Cons. Stato, sez. V, 02.07.1993, n. 770 e TAR Lazio Latina, 09.07.2007, n. 482. Va poi aggiunto che, a norma dell'art. 31 della l. 17.08.1942, n. 1150, la decorrenza dei termini dipendeva dalla effettiva conoscenza del provvedimento concessorio, mentre nel vigore della attuale disciplina la decorrenza è ancorata alla data di “rilascio” e non più di “ritiro”.
E’ pertanto dal momento della comunicazione con la quale il richiedente viene avvisato che il permesso di costruire è stato rilasciato che decorre il termine per il pagamento del contributo di costruzione e quindi nasce l’obbligo impositivo (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 25.01.2012 n. 62 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl decorso del termine di 90 giorni dalla presentazione dell’istanza di autorizzazione alla installazione di un impianto di telefonia mobile, senza la tempestiva richiesta di integrazioni documentali e senza il formale diniego della domanda, comporta la costituzione di un titolo abilitativo idoneo a legittimare il privato alla realizzazione dell’impianto, mentre gli eventuali successivi provvedimenti di rigetto e di ordine di sospensione/demolizione, per non potere essere il silenzio-assenso considerato tamquam non esset dall’Amministrazione, si presentano per ciò solo illegittimi, salvo l’eccezionale esercizio del potere di autotutela da parte dell’Autorità competente e quindi l’annullamento d’ufficio o la revoca dell’assenso costituitosi per silentium, nel rispetto naturalmente dei requisiti formali e sostanziali a tal fine stabiliti in generale dalla legge.
In quanto espressione di una norma di carattere generale– il preavviso di rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 interrompe il termine per la conclusione del procedimento di cui all’art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003, termine che inizia nuovamente a decorrere dal momento di presentazione delle osservazioni del privato sempreché avvenuta nei 10 giorni a questo scopo previsti, nel senso che, per trattarsi di un caso di “interruzione”, e non di “sospensione”, del termine per concludere il procedimento, esso riprende a decorrere nella propria interezza, senza tener conto del periodo già trascorso prima dell’interruzione stessa.

Nel merito, va premesso che, in sede di regolamentazione generale dei «procedimenti autorizzatori relativi alle infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici», l’art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003 –nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis– prevede che le “istanze di autorizzazione e le denunce di attività di cui al presente articolo … si intendono accolte qualora, entro novanta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda, fatta eccezione per il dissenso di cui al comma 8, non sia stato comunicato un provvedimento di diniego. Gli Enti locali possono prevedere termini più brevi per la conclusione dei relativi procedimenti ovvero ulteriori forme di semplificazione amministrativa, nel rispetto delle disposizioni stabilite dal presente comma” (comma 9) e che il “responsabile del procedimento può richiedere, per una sola volta, entro quindici giorni dalla data di ricezione dell’istanza, il rilascio di dichiarazioni e l’integrazione della documentazione prodotta. Il termine di cui al comma 9 inizia nuovamente a decorrere dal momento dell’avvenuta integrazione documentale” (comma 5).
La giurisprudenza ha chiarito che, nell’ambito di un più vasto disegno di semplificazione dell’attività amministrativa volto a favorire lo sviluppo economico, sociale e territoriale del Paese, attraverso la rimozione dei limiti burocratici che si frappongono alla libera iniziativa dei privati (v. Cons. Stato, Sez. VI, 17.03.2009 n. 1578), il decorso del termine di novanta giorni dalla presentazione dell’istanza di autorizzazione alla installazione di un impianto di telefonia mobile, senza la tempestiva richiesta di integrazioni documentali e senza il formale diniego della domanda, comporta la costituzione di un titolo abilitativo idoneo a legittimare il privato alla realizzazione dell’impianto, mentre gli eventuali successivi provvedimenti di rigetto e di ordine di sospensione/demolizione, per non potere essere il silenzio-assenso considerato tamquam non esset dall’Amministrazione, si presentano per ciò solo illegittimi (v., ex multis, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 16.04.2007 n. 323), salvo l’eccezionale esercizio del potere di autotutela da parte dell’Autorità competente e quindi l’annullamento d’ufficio o la revoca dell’assenso costituitosi per silentium, nel rispetto naturalmente dei requisiti formali e sostanziali a tal fine stabiliti in generale dalla legge (v., tra le altre, TAR Sardegna, Sez. II, 12.05.2008 n. 943).
E’ stato altresì chiarito, poi, che –in quanto espressione di una norma di carattere generale– il preavviso di rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 interrompe il termine per la conclusione del procedimento di cui all’art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003, termine che inizia nuovamente a decorrere dal momento di presentazione delle osservazioni del privato sempreché avvenuta nei dieci giorni a questo scopo previsti (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 07.01.2008 n. 32; TAR Veneto, Sez. III, 07.05.2008 n. 1256), nel senso che, per trattarsi di un caso di “interruzione”, e non di “sospensione”, del termine per concludere il procedimento, esso riprende a decorrere nella propria interezza, senza tener conto del periodo già trascorso prima dell’interruzione stessa (v., tra le altre, TAR Lazio, Sez. II, 16.03.2009 n. 2690; TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 21.04.2008 n. 1232) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 25.01.2012 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: È riconosciuto carattere pertinenziale alle piscine private poste al servizio esclusivo di abitazioni signorili o ville.
Quanto al titolo abilitativo necessario per la piscina, va considerato che la legge reg. n. 31 del 2002 assoggetta a denuncia di inizio attività le “opere pertinenziali purché non qualificate come interventi di nuova costruzione …” (art. 8, comma 1, lett. l) onde ne risultano esclusi solo gli “interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20 per cento del volume dell’edificio principale” (lett. g.6 dell’allegato alla legge), dal che si evince la sussistenza, nella fattispecie, dei requisiti fissati dalla disciplina regionale perché l’opera in questione (piscina interrata con lati di 8 e 4 metri, poi variati in 10 e 3,50 metri) sia sottratta al regime del permesso di costruire; è noto, d’altra parte, il carattere pertinenziale riconosciuto alle piscine private poste al servizio esclusivo di abitazioni signorili o ville e aventi dimensioni così limitate da non determinare un significativo impatto sull’assetto del territorio (v. Cons. Stato, Sez. IV, 08.08.2006 n. 4780; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 06.05.2008 n. 482; TAR Liguria, Sez. I, 16.02.2008 n. 299; TAR Toscana, Sez. II, 31.01.2000 n. 22; v., anche, Cass. pen., Sez. III, 21.05.2009 n. 39067), tutte condizioni che si rinvengono nel presente caso, così legittimando la scelta operata dal privato.
Quanto, poi, alla questione delle distanze, appare evidente che l’invocato art. 52 del regolamento edilizio comunale circoscrive le varie tipologie di distanze minime dai confini di proprietà alla realizzazione/variazione di manufatti fuori terra (“…nei casi di nuova costruzione e di sopraelevazione e ampliamento dei fabbricati esistenti. Il calcolo delle distanze si effettua sulla sagoma rappresentata dalla proiezione orizzontale dei fili esterni delle strutture e dei tamponamenti perimetrali … Metri lineari 3, in caso di ampliamenti o sopraelevazioni che non comportino pareti finestrate sul lato prospettante il confine di proprietà. Metri lineari 5, in caso di nuova costruzione, anche in presenza di pareti non finestrate, e ampliamenti o sopraelevazioni che comportino pareti finestrate sul lato prospettante il confine di proprietà …”); la circostanza, allora, che la piscina contestata costituisca opera interrata rende inapplicabile al caso di specie la disciplina di che trattasi (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 24.01.2012 n. 29 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La mancata indicazione nei verbali delle modalità di conservazione dei plichi e dei documenti non costituisce di per sé causa di illegittimità della selezione.
Quanto, infine, alle lamentate carenze dei verbali circa le cautele seguite per la custodia delle offerte dopo la loro apertura e prima della conclusione delle operazioni di gara, va richiamato l’indirizzo giurisprudenziale, già condiviso dalla Sezione (v. sent. n. 424/2011 cit.), secondo cui la mancata indicazione nei verbali delle modalità di conservazione dei plichi e dei documenti non costituisce di per sé causa di illegittimità della selezione, trovando ciò conforto nell’art. 78 del d.lgs. n. 163 del 2006 che, nell’indicare gli elementi che non possono essere omessi nella redazione del verbale, non menziona le operazioni di custodia della documentazione di gara (v. Cons. Stato, Sez. V, 07.07.2011 n. 4055) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 24.01.2012 n. 28 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa legittimazione all’accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che i relativi atti abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, a prescindere dalla lesione di una posizione giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione che dà titolo all’impugnativa dell’atto, onde la posizione legittimante, anche se non deve assumere necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo, deve però essere giuridicamente tutelata non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell’attività amministrativa, ed implica quindi la sussumibilità della pretesa concreta in una fattispecie normativa, secondo una valutazione prognostica e secondo un rapporto di chiara percepibilità.
... che, come la giurisprudenza ha più volte avuto modo di rilevare, la legittimazione all’accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che i relativi atti abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, a prescindere dalla lesione di una posizione giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione che dà titolo all’impugnativa dell’atto, onde la posizione legittimante, anche se non deve assumere necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo, deve però essere giuridicamente tutelata non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell’attività amministrativa, ed implica quindi la sussumibilità della pretesa concreta in una fattispecie normativa, secondo una valutazione prognostica e secondo un rapporto di chiara percepibilità (v., ex multis, TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 03.03.2010 n. 530) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 24.01.2012 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe questioni inerenti la proprietà, pubblica o privata, di singole strade o l’esistenza di diritti di uso pubblico su strade private sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario in quanto investono l’accertamento dell’esistenza e dell’estensione di diritti soggettivi dei privati o della pubblica Amministrazione, mentre l’iscrizione di una strada nell’elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e riveste funzione meramente dichiarativa, con l’effetto di semplice presunzione di pubblicità dell’uso, superabile presso la giurisdizione del giudice ordinario con la prova contraria della natura della strada e dell’inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività.
Spetta alla giurisdizione del giudice ordinario anche la cognizione delle questioni che sorgono dall’inosservanza da parte della pubblica Amministrazione delle regole tecniche ovvero dei canoni di diligenza e prudenza relativi alla gestione e manutenzione di beni pubblici –ivi compresi i casi in cui si miri a conseguire la condanna dell’Amministrazione ad un facere–, per non investire simili domande scelte ed atti autoritativi ma attività soggette al rispetto del generale precetto del neminem laedere.

... che, per costante giurisprudenza, le questioni inerenti la proprietà, pubblica o privata, di singole strade o l’esistenza di diritti di uso pubblico su strade private sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario in quanto investono l’accertamento dell’esistenza e dell’estensione di diritti soggettivi dei privati o della pubblica Amministrazione, mentre l’iscrizione di una strada nell’elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e riveste funzione meramente dichiarativa, con l’effetto di semplice presunzione di pubblicità dell’uso, superabile presso la giurisdizione del giudice ordinario con la prova contraria della natura della strada e dell’inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività (v. Cass. civ., Sez. un., 27.01.2010 n. 1624);
... che spetta alla giurisdizione del giudice ordinario anche la cognizione delle questioni che sorgono dall’inosservanza da parte della pubblica Amministrazione delle regole tecniche ovvero dei canoni di diligenza e prudenza relativi alla gestione e manutenzione di beni pubblici –ivi compresi i casi in cui si miri a conseguire la condanna dell’Amministrazione ad un facere–, per non investire simili domande scelte ed atti autoritativi ma attività soggette al rispetto del generale precetto del neminem laedere (v. Cass. civ., Sez. un., 14.03.2011 n. 5926) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 24.01.2012 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Ai fini dell'esclusione dalla gara, un ipotesi di fusione societaria non è indizio di unico centro decisionale.
A seguito della pronuncia della Corte Giust. europea 19.05.2009, in causa C-538, non è più possibile sanzionare il collegamento tra più imprese mediante l’automatica esclusione dalla procedura selettiva, occorrendo accertare se in concreto tale situazione abbia influito sul loro rispettivo comportamento nell’ambito della gara. In tale direzione si è mosso il d.l. 25.09.2009, n. 135 che ha introdotto nel corpo dell’art. 38 del codice dei contratti pubblici la lett. m-quater), la quale ha ricondotto la preclusione alla partecipazione, per qualsiasi ipotesi di controllo o collegamento anche solo di fatto, all’effettiva imputabilità ad un unico centro decisionale delle relative offerte, che la Stazione appaltante dovrà motivare sulla base di univoci elementi.
L’evoluzione giurisprudenziale e legislativa in tema di collegamento sostanziale è dunque tale che non possono più ritenersi idonei gli elementi indiziari nel passato utilizzati per dimostrare l’unicità del centro decisionale (tra i quali, la ubicazione della sede amministrativa, l’identità di luogo e data di spedizione dei plichi, l’esistenza di intrecci azionari, etc.). La prova critica non può basarsi su elementi probabilistici, occorrendo alla Stazione appaltante dimostrare l’esistenza, in concreto, di un accordo volto ad alterare i risultati della gara (TAR Lazio, Sez. III, 04.11.2010, n. 33167; Cons. Stato, Sez. VI, 08.06.2010, n. 3637) (TAR Umbria, sentenza 19.01.2012 n. 9 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In area paesaggisticamente vincolata, l’insufficienza dell’Amministrazione comunale nel valutare e motivare l’impatto dell’opera autorizza la Soprintendenza a censurarne la legittimità sotto il profilo della carenza di motivazione e, perciò, dell’eccesso di potere, senza per questo sconfinare in una valutazione nel merito.
Questa VI Sezione del Consiglio di Stato anche recentemente (04.04.2011, n. 2087), richiamando la decisione dell’Adunanza plenaria 14.12.2001, n. 9, ha ricordato che l’insufficienza dell’Amministrazione comunale nel valutare e motivare l’impatto dell’opera, autorizza la Soprintendenza a censurarne la legittimità sotto il profilo della carenza di motivazione e, perciò, dell’eccesso di potere, senza per questo sconfinare in una valutazione nel merito (v. anche, sempre recentemente, Cons. Stato, VI, 06.07.2010, n. 4307 e 18.03.2011, n. 1661) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.01.2012 n. 173 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’assimilazione in via normativa delle infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione alle opere di urbanizzazione primaria, ai sensi dell’art. 86, comma terzo, del d.lgs. n. 259 del 2003, comporta che le stesse debbano collegarsi ed essere poste al servizio dell’insediamento abitativo, non da questo avulse con localizzazione lontana dai centri di utenza, onde la potestà assegnata alle amministrazioni comunali dall’art. 8, comma 6, della legge n. 36 del 2001 (“i comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnatici”) può tradursi, ad esempio, nell’introduzione, sotto il profilo urbanistico, di regole a tutela di zone e beni di particolare pregio paesaggistico/ambientale o storico/artistico, ma non può trasformarsi in “limitazioni alla localizzazione” degli impianti di telefonia mobile per intere ed estese porzioni del territorio comunale, in assenza di una plausibile ragione giustificativa; in definitiva, tale disciplina non deve risolversi in un impedimento che rende in concreto impossibile, o comunque estremamente difficoltosa, la realizzazione di una rete completa di infrastrutture di telecomunicazioni.
Con la conseguente illegittimità dei regolamenti locali che prevedano una “zonizzazione” indipendente dalle esigenze dei gestori del servizio di telefonia mobile, e che cioè circoscrivano gli impianti a specifiche aree, appositamente individuate, senza subordinare le relative scelte alla previa e puntuale verifica della coerenza della disciplina pianificatoria con la necessità che venga assicurata, nell’intero territorio comunale, l’uniforme copertura del servizio.

Come è stato rilevato in giurisprudenza (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 05.06.2006 n. 3332), l’assimilazione in via normativa delle infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione alle opere di urbanizzazione primaria, ai sensi dell’art. 86, comma terzo, del d.lgs. n. 259 del 2003, comporta che le stesse debbano collegarsi ed essere poste al servizio dell’insediamento abitativo, non da questo avulse con localizzazione lontana dai centri di utenza, onde la potestà assegnata alle amministrazioni comunali dall’art. 8, comma 6, della legge n. 36 del 2001 (“i comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnatici”) può tradursi, ad esempio, nell’introduzione, sotto il profilo urbanistico, di regole a tutela di zone e beni di particolare pregio paesaggistico/ambientale o storico/artistico, ma non può trasformarsi in “limitazioni alla localizzazione” degli impianti di telefonia mobile per intere ed estese porzioni del territorio comunale, in assenza di una plausibile ragione giustificativa; in definitiva, tale disciplina non deve risolversi in un impedimento che rende in concreto impossibile, o comunque estremamente difficoltosa, la realizzazione di una rete completa di infrastrutture di telecomunicazioni.
Con la conseguente illegittimità dei regolamenti locali che prevedano una “zonizzazione” indipendente dalle esigenze dei gestori del servizio di telefonia mobile, e che cioè circoscrivano gli impianti a specifiche aree, appositamente individuate, senza subordinare le relative scelte alla previa e puntuale verifica della coerenza della disciplina pianificatoria con la necessità che venga assicurata, nell’intero territorio comunale, l’uniforme copertura del servizio (v. Cons. Stato, Sez. VI, 28.03.2007 n. 1431) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 16.01.2012 n. 14 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIn materia di rimozione di rifiuti abbandonati in un’area privata e, in generale, di adozione delle misure necessarie a scongiurare pregiudizi alla pubblica incolumità e alla salute dei cittadini in ragione dello stato di degrado o di pericolo che contraddistinguono un bene privato, alla posizione del proprietario e del titolare di diritti reali sul bene è equiparata quella del possessore, quale soggetto che, in presenza di dati presupposti, è chiamato a dare esecuzione alle disposizioni in proposito impartite dall’Autorità pubblica.
Indipendentemente dal soggetto realmente proprietario del fabbricato, già la sola condizione di possessore uti dominus del de cuius e poi dei suoi eredi giustifica l’obbligo di provvedere a carico di questi ultimi, così come sarebbe stato in caso di titolarità del diritto di proprietà.
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L’ordinanza sindacale impugnata ha la primaria finalità di rimuovere lo stato di pericolo e di prevenire danni alla salute pubblica, così legittimamente indirizzandosi a chi sul bene ha il potere di intervenire per modificare la situazione di fatto fonte di minaccia per la comunità locale, e che, in ogni caso, chi si trova con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli –e per ciò stesso imporgli– di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a sede di deposito incontrollato di rifiuti nocivi per la salute pubblica, risponde dell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, ad esempio recintandola o adottando altre misure similari, così da impedire che possano essere nella stessa indebitamente depositati rifiuti.

Per costante giurisprudenza, in materia di rimozione di rifiuti abbandonati in un’area privata e, in generale, di adozione delle misure necessarie a scongiurare pregiudizi alla pubblica incolumità e alla salute dei cittadini in ragione dello stato di degrado o di pericolo che contraddistinguono un bene privato, alla posizione del proprietario e del titolare di diritti reali sul bene è equiparata quella del possessore, quale soggetto che, in presenza di dati presupposti, è chiamato a dare esecuzione alle disposizioni in proposito impartite dall’Autorità pubblica. Nella fattispecie, dunque, la circostanza che si sono qualificati i destinatari dell’ordinanza sindacale come “comproprietari” non costituirebbe profilo rilevante ai fini di un’eventuale illegittimità del provvedimento, qualora gli stessi risultassero comunque ascrivibili al genus dei possessori, ai proprietari equivalenti quanto alla responsabilità di eliminazione delle cause di pericolo per i terzi o per l’ambiente.
Ciò premesso, in sede di diniego di annullamento in autotutela dell’ordinanza sindacale l’Amministrazione comunale ha fatto discendere gli oneri dei ricorrenti quanto meno dal pregresso possesso uti dominus del bene da parte del familiare defunto –fin dalla richiesta della licenza edilizia del 1969– e dal conseguente automatico trasferimento del possesso agli stessi quali eredi a titolo universale, ai sensi dell’art. 1146, comma 1, cod.civ. (“Il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione”). I ricorrenti, d’altra parte, pur contestando di essere proprietari dell’immobile e di avere la disponibilità dello stesso, non hanno negato che il de cuius ne avesse il possesso (a norma dell’art. 64, comma 2, cod. proc. amm., il “…giudice deve porre a fondamento della decisione … i fatti non specificamente contestati dalle parti costituite”) e che, quindi, il possesso sia proseguito in capo a loro, alla stregua del generale principio per cui, in ragione di una fictio iuris, il possesso si trasferisce automaticamente agli eredi, senza necessità di una materiale apprensione del bene (v., tra le altre, Cass. civ., Sez. II, 18.05.2001 n. 6852). Indipendentemente, insomma, dal soggetto realmente proprietario del fabbricato –la cui indagine si può omettere–, già la sola condizione di possessore uti dominus del de cuius e poi dei suoi eredi giustifica l’obbligo di provvedere a carico di questi ultimi, così come sarebbe stato in caso di titolarità del diritto di proprietà.
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Quanto, infine, alla denunciata insussistenza di una responsabilità dei ricorrenti nell’abbandono dei rifiuti, ai sensi dell’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006, osserva il Collegio che l’ordinanza sindacale impugnata ha la primaria finalità di rimuovere lo stato di pericolo e di prevenire danni alla salute pubblica, così legittimamente indirizzandosi a chi sul bene ha il potere di intervenire per modificare la situazione di fatto fonte di minaccia per la comunità locale, e che, in ogni caso, chi si trova con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli –e per ciò stesso imporgli– di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a sede di deposito incontrollato di rifiuti nocivi per la salute pubblica, risponde dell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, ad esempio recintandola o adottando altre misure similari, così da impedire che possano essere nella stessa indebitamente depositati rifiuti.
Né osta alla sussistenza del possesso del bene la circostanza che la stalla sarebbe completamente distrutta e che l’abbandono dell’area perdurerebbe da vari anni, se è vero che, per fictio iuris, il possesso si trasferisce automaticamente agli eredi senza necessità di una materiale apprensione del bene, che nella fattispecie è evidentemente da identificare nell’area dove veniva svolta l’attività di allevamento zootecnico e dove è sempre possibile ripristinarne l’esercizio previa ripristino delle strutture a ciò necessarie.
(TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 16.01.2012 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILe ordinanze contingibili e urgenti non debbono per forza avere sempre il carattere della provvisorietà, dato che il loro connotato essenziale è la necessaria idoneità delle relative misure ad eliminare la situazione di pericolo che costituisce il presupposto della loro adozione, e quindi le misure stesse possono essere provvisorie o definitive a seconda del tipo di rischio che intendono fronteggiare, nel senso che occorre avere riguardo alle specifiche circostanze di fatto del caso concreto e allo scopo pratico perseguito attraverso il provvedimento sindacale.
La motivazione del ricorso allo strumento straordinario ben può evincersi dalla pluralità di elementi acquisiti al procedimento, se oggettivamente capaci di rivelare in sé le ragioni di urgenza che legittimano l’intervento eccezionale dell’Autorità sindacale.
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A fronte dell’attualità della minaccia per l’incolumità pubblica e l’igiene, esclude rilevanza al fatto che la situazione di pericolo sia nota da tempo.
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In caso di ordinanza contingibile ed urgente l’avvio della comunicazione del procedimento è intrinsecamente in contraddizione con la funzione dell’esercizio dei poteri contingibili e urgenti affidati dalla legge all’Autorità sindacale, ovvero la garanzia procedimentale in esame si presenta incompatibile con l’urgenza di provvedere.

Quanto, ancora, al lamentato impiego di un’ordinanza contingibile e urgente per eliminare definitivamente la situazione di pericolo e quindi per provvedere in modo stabile e irreversibile alla regolamentazione dell’assetto di interessi in questione –senza oltretutto l’indicazione delle ragioni del mancato ricorso agli strumenti ordinari previsti dal d.lgs. n. 152 del 2006–, osserva il Collegio che non emergono nella circostanza i denunciati profili di illegittimità.
Da un lato, si condivide l’orientamento secondo cui le ordinanze contingibili e urgenti non debbono per forza avere sempre il carattere della provvisorietà, dato che il loro connotato essenziale è la necessaria idoneità delle relative misure ad eliminare la situazione di pericolo che costituisce il presupposto della loro adozione, e quindi le misure stesse possono essere provvisorie o definitive a seconda del tipo di rischio che intendono fronteggiare, nel senso che occorre avere riguardo alle specifiche circostanze di fatto del caso concreto e allo scopo pratico perseguito attraverso il provvedimento sindacale (v. TAR Veneto, Sez. III, 07.07.2010 n. 2887); dall’altro lato, la motivazione del ricorso allo strumento straordinario ben può evincersi dalla pluralità di elementi acquisiti al procedimento, se oggettivamente capaci di rivelare in sé le ragioni di urgenza che legittimano l’intervento eccezionale dell’Autorità sindacale.
Nella fattispecie, in particolare, il concorso dei rischi legati a possibili ulteriori crolli del fabbricato fatiscente e agli effetti pregiudizievoli per la salute pubblica derivanti dal pericolo di dispersione di fibre di amianto oltre che dalle conseguenze della presenza nei pressi della strada comunale di un contenitore di stoccaggio di deiezioni zootecniche parzialmente privo di copertura, come è evidente, palesa una situazione di concreta e immediata minaccia per la sanità e l’incolumità pubbliche, indice della necessità di interventi solleciti e indilazionabili, e cioè emerge in modo assolutamente chiaro ed univoco l’iter logico-giuridico che ha determinato l’adozione dell’ordinanza sindacale impugnata.
Quanto, poi, alla denunciata insussistenza dell’eccezionalità ed imprevedibilità del pericolo –per trattarsi di situazione risalente nel tempo–, va richiamato quel consolidato indirizzo interpretativo che, a fronte dell’attualità della minaccia per l’incolumità pubblica e l’igiene, esclude rilevanza al fatto che la situazione di pericolo fosse nota da tempo (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 28.03.2008 n. 1322).
Né v’è ragione di lamentare la carenza di avviso ex art. 7 della legge n. 241 del 1990. In simili fattispecie, si è detto, l’avvio della comunicazione del procedimento è intrinsecamente in contraddizione con la funzione dell’esercizio dei poteri contingibili e urgenti affidati dalla legge all’Autorità sindacale (v. Cons. Stato, Sez. II, 31.01.2011 n. 4256/497), ovvero la garanzia procedimentale in esame si presenta incompatibile con l’urgenza di provvedere (v. Cons. Stato, Sez. V, 28.09.2009 n. 5807) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 16.01.2012 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Compatibilità paesaggistica e nozione di superficie utile.
La valutazione di compatibilità paesaggistica non ammettere equipollenti e non può prescindersi dal necessario parere della sovrintendenza che la norma espressamente prevede e qualifica come vincolante.
Il rilascio della valutazione paesaggistica all'esito della prevista procedura non determina automaticamente la non punibilità in ordine al reato contestato, dovendo essere sempre accertata dal giudice la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti la “sanatoria”.
La nozione di superficie utile va individuata, in mancanza di specifica definizione, con riferimento alla finalità della disposizione che la contempla e, per quanto riguarda la disciplina paesaggistica, deve ritenersi che tale concetto vada individuato prescindendo anche dai criteri applicabili per la disciplina urbanistica, che ha oggettività giuridica diversa [e che la lettera a) del comma 1-ter dell'articolo 181 D.Lv. 42/2004 non richiama espressamente, diversamente da quanto avviene per quelli di cui alla successiva lettera c)] ed in senso ampio, considerando l'impatto dell'intervento sull'originario assetto paesaggistico del territorio, cosicché dovrà escludersi la speciale sanatoria stabilita dall'articolo 181 in tutti quei casi in cui la creazione di superfici utili o volumi o l'aumento di quelli legittimamente realizzati siano idonei a determinare una compromissione ambientale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.01.2012 n. 889 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso di ufficio.
Nell'abuso d'ufficio connesso al rilascio di un permesso edilizio ritenuto illegittimo e nei reati edilizi compiuti in esecuzione di tale permesso, uno degli elementi dai quali desumere l'intenzionalità del dolo o la colpa e costituito appunto dall'analisi del contrasto del permesso di costruire con la norma urbanistica nel senso che, quanto più è palese o macroscopico tale contrasto, tanto più e evidente la ricorrenza dell'elemento psicologico del reato.
Il dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio può desumersi, non solo dal rapporto collusivo, ma anche da una serie di altri indizi diversi, quali ad esempio: la natura dell'illegittimità dell'atto, i rapporti tra il pubblico ufficiale ed il privato, la mancanza di una doverosa istruttoria della pratica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.01.2012 n. 649 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANelle more della classificazione acustica del territorio comunale ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. a), della legge n. 447 del 1995, sono operativi i limiti c.d. «assoluti» di rumorosità ma non anche quelli c.d. «differenziali», e ciò in ragione dell’univoca formulazione dell’art. 8, comma 1, del d.P.C.M. 14.11.1997 (“In attesa che i comuni provvedano agli adempimenti previsti dall’art. 6, comma 1, lett. a), della legge 26.10.1995 n. 447, si applicano i limiti di cui all’art. 6, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 01.03.1991”).
Già nella vigenza del d.P.C.M. 01.03.1991 i limiti «differenziali» erano circoscritti alle zone non esclusivamente industriali e, ciò nonostante, si era avvertita la necessità di effettuarne un esplicito richiamo al fine di garantirne l’operatività fin dalla fase transitoria, con la conseguenza che il rinvio operato al solo primo comma dell’art. 6 depone inequivocabilmente per una scelta normativa che ha voluto subordinare, a partire dal 1997, l’applicabilità del criterio «differenziale» all’introduzione della disciplina a regime, e cioè all’adozione del piano comunale di zonizzazione acustica.

Ritenuto che, per costante giurisprudenza, nelle more della classificazione del territorio comunale ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. a), della legge n. 447 del 1995, sono operativi i limiti c.d. «assoluti» di rumorosità ma non anche quelli c.d. «differenziali», e ciò in ragione dell’univoca formulazione dell’art. 8, comma 1, del d.P.C.M. 14.11.1997 (“In attesa che i comuni provvedano agli adempimenti previsti dall’art. 6, comma 1, lett. a), della legge 26.10.1995 n. 447, si applicano i limiti di cui all’art. 6, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 01.03.1991”), norma da cui si evince che, ove si fosse voluto far sopravvivere integralmente il regime transitorio di cui all’art. 6 del decreto del 1991 (primo comma relativo ai c.d. limiti «assoluti» e secondo comma relativo ai c.d. limiti «differenziali»), sarebbe stato evidentemente necessario operare il rinvio ad ambedue le fattispecie e quindi non al solo primo comma (v., ex multis, TAR Friuli - Venezia Giulia 08.04.2011 n. 183);
... che si è altresì valutata non persuasiva la tesi che, per giustificare il richiamo parziale al solo primo comma dell’art. 6 del d.P.C.M. 01.03.1991, adduce la diretta applicabilità dei limiti «differenziali» perché ancorati, quanto al loro ambito di riferimento, ad una suddivisione del territorio che si ricaverebbe ex se dalla disciplina urbanistica –sì da non richiedere una specifica norma che ne autorizzi l’operatività nella fase transitoria per i comuni sprovvisti del piano di zonizzazione acustica–, posto che, in realtà, già nella vigenza di quel decreto i limiti «differenziali» erano circoscritti alle zone non esclusivamente industriali e, ciò nonostante, si era avvertita la necessità di effettuarne un esplicito richiamo al fine di garantirne l’operatività fin dalla fase transitoria, con la conseguenza che il rinvio operato al solo primo comma dell’art. 6 depone inequivocabilmente per una scelta normativa che ha voluto subordinare, a partire dal 1997, l’applicabilità del criterio «differenziale» all’introduzione della disciplina a regime, e cioè all’adozione del piano comunale di zonizzazione acustica (v., tra le altre, TAR Puglia, Bari, Sez. I, 14.05.2010 n. 1896) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 12.01.2012 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEDifferenza tra l'istituto dell'accessione invertita e della retrocessione.
L’istituto dell’accessione invertita, di creazione giurisprudenziale (Cass. Sez. Un., 26.02.1983 n. 1264; 10.06.1988 n. 3940) presuppone una occupazione di un bene da parte della P.A. (quantomeno) in assenza di legittima conclusione del procedimento espropriativo entro i termini previsti dalla dichiarazione di pubblica utilità. Proprio per questo, la giurisprudenza ha collegato l’effetto acquisitivo del diritto di proprietà alla irreversibile destinazione del suolo all’opera pubblica, con diritto al risarcimento del danno conseguente all’illecito commesso dalla pubblica amministrazione.
Da ciò consegue l’incompatibilità, sul piano logico–giuridico, dell'istituto dell'accessione invertita e della retrocessione: ed infatti, se si ritiene configurarsi accessione invertita non vi è stata espropriazione e, quindi, non può esservi retrocessione (l’area non può non essere stata dichiarata come “irreversibilmente trasformata”); se invece si richiede la retrocessione, non si può che essere in presenza di un bene in precedenza espropriato e, in tutto o in parte, non utilizzato per le finalità di interesse pubblico legittimanti la precedente espropriazione.
Occorre, infine, notare che il legislatore, anche quando ha inteso estendere l’istituto della retrocessione alla ben più semplice ipotesi di procedimenti espropriativi non conclusisi con il decreto di esproprio (ma per il tramite di cessione volontaria), lo ha espressamente affermato (v. art. 45, co. 4, DPR n. 327/2001) (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2011 n. 6619 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl termine per impugnare l'ordine di sospensione dei lavori è 45 giorni e non 60 giorni.
L'art. 27, co. 3, del d.P.R. n. 380/2001 e s.m.i., statuisce che la sospensione dei lavori ha effetto fino all’adozione ed alla notifica dei provvedimenti definitivi sanzionatori, che deve avvenire “entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori”, ciò comporta che, una volta trascorsi 45 giorni dalla sua notificazione, il provvedimento di sospensione dei lavori non produce più effetti nei confronti dei soggetti destinatari. Da tale presupposto discende l'inammissibilità del ricorso proposto avverso l'ordine di sospensione notificato oltre il suddetto termine in quanto i ricorrenti non potevano comunque subire alcun nocumento dall’ordine di sospensione dei lavori in parola e trarre alcun vantaggio dal suo eventuale accoglimento (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 21.11.2011 n. 9141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe modificazione della sagoma del bene non possono essere assentite con DIA.
La modificazione del piano di campagna si sostanzia in una modificazione della sagoma del rialzato, rientrante negli interventi disciplinati dall’art. 10, co. 1, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 cui fa riferimento l’art. 22 del medesimo decreto presidenziale, che escludere l'applicabilità dello strumento della DIA a quelli che comportano una modifica della sagoma del bene con conseguente modificazione sostanziale dell’assetto preesistente del suolo (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 21.11.2011 n. 9132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 06.02.2012

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DITE LA VOSTRA ...

EDILIZIA PRIVATA: Discutiamo sul 2%?
L'articolo 5 del D.L. 13.05.2011, n. 70, tra le sue tante e oscure disposizioni, si occupa anche del concetto di parziale difformità, in relazione all'art. 34 del DPR 380 del 2001, stabilendo che: "2-ter. Ai fini dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali".
La disposizione introduce il concetto di irrilevanza di alcune violazioni rispetto al progetto edilizio approvato.
Mentre il senso complessivo della disposizione si capisce con facilità ed è anche condivisibile, le applicazioni pratiche sono spesso difficoltose e incerte.
Più che dare risposte sicure, vorrei aprire un dibattito con i lettori sull'interpretazione e sull'applicazione di questa disposizione, sui punti che elenco di seguito (magari mi sbaglio su qualcosa). (continua ...) (link a http://venetoius.myblog.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 del 06.02.2012, "Determinazioni in merito alle procedure e modalità di rinnovo e dei criteri per la caratterizzazione delle modifiche per esercizio uniforme e coordinato dell’autorizzazione integrata ambientale (AIA) (art. 8, c. 2, l.r. n. 24/2006)" (deliberazione G.R. 02.02.2012 n. 2970).

ENTI LOCALI: G.U. 03.02.2012 n. 28 "Adozione dello schema del prospetto nel quale vanno elencate le spese di rappresentanza sostenute dagli organi di governo degli enti locali" (Ministero dell'Interno, decreto 23.01.2012).

AMBIENTE ECOLOGIA: G.U. 03.02.2012 n. 28 "Regolamento per la semplificazione di adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti sulle imprese, a norma dell’articolo 49, comma 4-quater, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122" (D.P.R. 19.10.2011 n. 227).

ATTI AMMINISTRATIVI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 5 del 03.02.2012, "Riordino normativo in materia di procedimento amministrativo, diritto di accesso ai documenti amministrativi, semplificazione amministrativa, potere sostitutivo e potestà sanzionatoria" (L.R. 01.02.2012 n. 1).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 01.02.2012 n. 26 "Misure per il riassetto della normativa in materia di pesca e acquacoltura, a norma dell’articolo 28 della legge 04.06.2010, n. 96" (D.Lgs. 09.01.2012 n. 4).
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Di interesse l'art. 3, comma 3, che riportiamo di seguito:
Art. 3. - Acquacoltura
1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 2135 del codice civile, l’acquacoltura è l’attività economica organizzata, esercitata professionalmente, diretta all’allevamento o alla coltura di organismi acquatici attraverso la cura e lo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, in acque dolci, salmastre o marine.
2. Sono connesse all’acquacoltura le attività, esercitate dal medesimo acquacoltore, dirette a:
   a) manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione, promozione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalle attività di cui al comma 1;
   b) fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente
impiegate nell’attività di acquacoltura esercitata, ivi comprese le attività di ospitalità, ricreative, didattiche e culturali, finalizzate alla corretta fruizione degli ecosistemi acquatici e vallivi e delle risorse dell’acquacoltura, nonché alla valorizzazione degli aspetti socio-culturali delle imprese di acquacoltura, esercitate da imprenditori, singoli o associati, attraverso l’utilizzo della propria abitazione o di struttura nella disponibilità dell’imprenditore stesso;
  
c) l’attuazione di interventi di gestione attiva, finalizzati alla valorizzazione produttiva, all’uso sostenibile degli ecosistemi acquatici ed alla tutela dell’ambiente costiero.
3. Alle opere, alle strutture destinate alle attività di cui alla lettera b) del comma 2 si applicano le disposizioni di cui all’articolo 19, commi 2 e 3, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia, approvato con decreto Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, nonché all’articolo 24, comma 2, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, relativamente all’utilizzo di opere provvisionali per l’accessibilità ed il superamento delle barriere architettoniche.

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATADomande e risposte dai Vigili del Fuoco su prevenzione incendi.
I Vigili del Fuoco hanno pubblicato sul proprio sito una serie di quesiti su casi pratici, formulati dagli operatori del settore, riguardo a diverse problematiche di prevenzione incendi, come ad esempio:
● Cosa si intende per superficie lorda dell'attività?
● E' possibile utilizzare un locale interrato come deposito per 15 motorini? Quale procedura adottare?
● Dove è possibile reperire le tariffe per le prestazioni a pagamento dei Vigili del Fuoco?
Ogni quesito presenta la relativa risposta formulata dai VVF.
Le FAQ sono suddivise in tre categorie:
Attività soggette a prevenzione incendi;
Procedimenti di prevenzione incendi;
Tariffe.
In allegato a questo articolo proponiamo un documento contenete le suddette FAQ (02.02.2012 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIDURC, Casse Edili e sperimentazione congruità: arrivano le indicazioni operative.
La Commissione Nazionale Paritetica per le Casse Edili ha inviato a tutte le Casse le indicazioni operative sulla sperimentazione della congruità per il rilascio del DURC che entrerà a regime dal'01.01.2013.
Il documento contiene le istruzioni per inserire nel modello di denuncia mensile anche alcuni campi relativi appunto alla verifica del numero dei lavoratori regolarmente impiegati.
A partire dalla denuncia relativa al mese di febbraio 2012, le Casse Edili dovranno inserire nel modello di denuncia i seguenti campi:
● descrizione cantiere
● indirizzo cantiere
● committente (pubblico/privato)
● nominativo e codice fiscale committente
● tipo lavoro (appalto/subappalto/in proprio)
● nominativo e codice fiscale appaltatore (solo per imprese in subappalto)
Le Casse Edili sono tenute ad informare le imprese che, dalla denuncia relativa al mese di aprile 2012, sarà effettuata una verifica di congruità della manodopera denunciata nei lavori pubblici e privati di importo superiore a 70.000 euro (02.02.2012 - link a www.acca.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ENTI LOCALI - VARI: E. O. Policella, Privacy, il DPS non serve più (link a www.ipsoa.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: L. Bellagamba, La comunicazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sulla «non autocertificabilità» del DURC – La correzione interpretativa della successiva comunicazione dell’INAIL, d'intesa con il Ministero stesso – La piena autocertificabilità del DURC anche per l’ipotesi di cui al D.Lgs. 81/2008, art. 90, comma 9, lett. c) (31.01.2012 - link a www.linobellagamba.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: C. Medici, BREVI NOTE SULL’ESECUZIONE DIRETTA DELLE OPERE DI URBANIZZAZIONE PRIMARIA SOTTO SOGLIA DOPO IL DECRETO “SALVA ITALIA” (link a www.gazzettaamministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. Pittori, L'APPLICAZIONE ALLE SANZIONI EDILIZIE DELLA DISCIPLINA GENERALE DI CUI ALL'ART. 16 DELLA L. 24.11.1981, N. 689 IN MATERIA DI SANZIONI AMMINISTRATIVE PECUNIARIE (link a www.gazzettaamministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: D. Tomassetti, LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 293/2010: CONSEGUENZE DELLA DECLARATORIA DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA NORMA SULLA C.D. ACQUISIZIONE SANANTE (link a www.gazzettaamministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: V. Pavone, L’ACQUISIZIONE SANANTE EX ART. 43 T.U. IN TEMA DI ESPROPRIAZIONE: IERI “VIA D’USCITA LEGALE” PER LE OCCUPAZIONI SINE TITULO, OGGI MONSTRUM GIURIDICO, BANDITO DALL’ORDINAMENTO GIURIDICO NAZIONALE (link a www.gazzettaamministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E. Michetti, IL SIGNIFICATO DI “ADIACENZA” DEI FONDI AI FINI DELL'ASSERVIMENTO (link a www.gazzettaamministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: R. Vaira, IL RISPETTO DEI LIMITI VOLUMETRICI NELL’ESERCIZIO DELLO IUS AEDIFICANDI TRA STANDARDS URBANISTICI E CESSIONE DI CUBATURA (tratto da www.gazzettaamministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. C. Bartoccioni e S. Fifi, PARAMETRI SOSTANZIALI E PROCESSUALI DEL REATO DI OMESSA BONIFICA (link a www.gazzettaamministrativa.it).

APPALTI: E. Michetti, CUSTODIA DEI PLICHI CONTENENTI I DOCUMENTI DI GARA: L'OMESSA VERBALIZZAZIONE DELLE OPERAZIONI DI CUSTODIA E' IDONEA AD INVALIDARE L'ESITO DELLA GARA? (link a www.gazzettaamministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: P. Tria, L’ACCESSO (NEGATO) ALLE RELAZIONI RISERVATE DEL DIRETTORE DEI LAVORI E DELL’ORGANO DI COLLAUDO (link a www.gazzettaamministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: G. Piccinni, LE SOCIETÀ STRUMENTALI POSSONO ANCHE GESTIRE SERVIZI PUBBLICI LOCALI - SOCIETÀ MISTE, INAPPLICABILITÀ DEL DIVIETO DI CUI ALL’ART. 13 D.L. 223/2006 (link a www.gazzettaamministrativa.it).

APPALTI: M. Dell'Unto, L’INTEGRAZIONE DOCUMENTALE IN SEDE DI GARA (link a www.gazzettaamministrativa.it).

APPALTI: M. De Cilla, ULTIME NOVITÀ IN TEMA DI AVVALIMENTO (link a www.gazzettaamministrativa.it).

APPALTI: A. Di Stazio, IL CONTENZIOSO NEGLI APPALTI PUBBLICI NEL NUOVO REGOLAMENTO DI ESECUZIONE ED ATTUAZIONE DEL CODICE DEI CONTRATTI, D.P.R. 05.10.2010, N. 207 (link a www.gazzettaamministrativa.it).

APPALTI: P. Tria, QUANDO LE STAZIONI APPALTANTI POSSONO COMMINARE LA “TRIPLICE SANZIONE”? (link a www.gazzettaamministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: M. Dell'Unto, DISCIPLINA DEI PAGAMENTI NEI CONTRATTI PUBBLICI DI FORNITURE E SERVIZI (tratto da www.gazzettaamministrativa.it).

ENTI LOCALI: F. Mazzella, LA GESTIONE ASSOCIATA DI SERVIZI E FUNZIONI COMUNALI (link a www.gazzettaamministrativa.it).

APPALTI: S. Napolitano, L’EFFETTO SOSPENSIVO DELLA STIPULA DEL CONTRATTO PUBBLICO (LA C.D. CLAUSOLA DI “STAND STILL”) (link a www.gazzettaamministrativa.it).

APPALTI: P. Pittelli, ASSOCIAZIONE TEMPORANEA DI IMPRESE ED ASSOCIAZIONE PER COOPTAZIONE (link a www.gazzettaamministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: F. V. Prosperetti, NORME SOPRAVVENUTE IN PENDENZA DI PROCEDURE CONCORSUALI: LA SOLUZIONE DELLA GIURISPRUDENZA (link a www.gazzettaamministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: G. Dall'Ozzo, LA ESIMENTE POLITICA - La portata dell'art. 1, co. 1-ter, l. 20/1994 così come novellata dalla l. 639/1996 e dell'art. 49 d.lgs. 267/2000 - La valutazione della responsabilità dei titolari degli organi politici per la adozione di atti muniti del parere favorevole di regolarità tecnico-contabile e per quelli di competenza degli uffici tecnici o amministrativi causativi di danno - La contestualizzazione con la recente giurisprudenza contabile (link a www.gazzettaamministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: F. Falco, MANSIONI SUPERIORI DEL DIPENDENTE PUBBLICO: IL CONTRASTO GIURISPRUDENZIALE TRA LA CORTE DI CASSAZIONE ED IL CONSIGLIO DI STATO (link a www.gazzettaamministrativa.it).

NOTE, CIRCOLARI  E COMUNICATI

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – contratto di nolo a caldo eccedente il 2% dell’importo delle prestazioni affidate – responsabilità solidale ex art. 35, comma 28, L. n. 248/2006 (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 27.01.2012 n. n. 2/2012).
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Appalto, sub-appalto e nolo a caldo. La responsabilità solidale è legata alla figura dell’appalto e non a quella del nolo a caldo.

Per il Ministero del Lavoro,
la disciplina in materia di responsabilità solidale è legata alla figura dell’appalto e non a quella del nolo a caldo in cui il locatore mette solo a disposizione il macchinario. Tuttavia vi è anche un indirizzo giurisprudenziale che è a favore della massima estensione della solidarietà a tutela dei lavoratori.
Con l’interpello 27.01.2012 n. n. 2/2012, il Ministero del Lavoro ha risposto ad un quesito del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, in merito alla corretta interpretazione della norma relativa alla responsabilità solidale dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori per il versamento delle ritenute fiscali e dei contributi previdenziali ed assicurativi dei dipendenti impiegati nell’esecuzione dei lavori ed alla sua eventuale applicazione al contratto di nolo a caldo.
Posto che per nolo a caldo si intende la mera locazione del macchinario, per cui il locatore mette a disposizione solo il macchinario - che è cosa bene diversa dall’appalto o subappalto dove i soggetti si obbligano nei confronti del committente al compimento di un’opera ovvero alla prestazione di un servizio, organizzando i mezzi di produzione e l’attività lavorativa per il raggiungimento di un risultato produttivo autonomo – la Direzione Generale per l’Attività Ispettiva sottolinea che la disciplina in materia di responsabilità solidale è evidentemente legata alla figura dell’appalto e non a quella del nolo a caldo (ferme restando forme patologiche di utilizzo di tale ultimo strumento contrattuale).
Tuttavia, lo stesso Ministero evidenzia che vi è anche un importante indirizzo giurisprudenziale che è a favore di un’estensione quanto più ampia possibile del regime solidaristico in ragione di una maggior tutela per i lavoratori interessati (commento tratto da www.ipsoa.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODisabili, paletti alle assunzioni. Corte conti: la spesa per il personale è onnicomprensiva. Le ultime decisioni restrittive della magistratura contabile penalizzano le categorie protette.
La spesa per le assunzioni obbligatorie dei disabili da parte degli enti locali deve rientrare nei limiti e vincoli a vario titolo fissati dalle leggi.
La Corte dei conti sta assumendo un nuovo e restrittivo orientamento, rispetto alla possibilità di tenere fuori dal computo della spesa di personale le assunzioni effettuate per adempiere agli obblighi previsti dalla legge 68/1999.
Mentre, infatti, fino a qualche mese fa si poteva dare per scontata la non computabilità di tali spese per i tetti fissati dalla legge, adesso le interpretazioni sempre più rigoristiche della magistratura contabile stanno decisamente modificando il quadro.
In proposito, il parere 14.09.2011 n. 82 della sezione regione di controllo per il Molise non lascia troppi spazi alla possibilità di non computare nell'aggregato «spesa del personale» le spese per assunzioni finalizzate ad assolvere agli obblighi imposti dalla 68/1999.
Secondo il parere, occorre dare privilegio «al principio di onnicomprensività delle spese di personale da computare ai fini del rispetto della percentuale di cui al comma 7 dell'art. 76 del dl n. 112/2008». In altre parole, l'assunzione dei disabili concorre a costituire base di calcolo per verificare che il totale delle spese di personale non superi il rapporto del 50% sul totale delle spese correnti.
Secondo la sezione Molise, anche se la spesa per assumere disabili è finalizzata a soddisfare obblighi di legge, tuttavia «non può essere considerata finanziariamente neutra per l'amministrazione e anzi incide sull'indice di rigidità della spesa corrente, che risulta, giova ribadirlo, dal rapporto tra le principali voci di spesa fissa -costituite dalle spese per il personale e dalle spese per il rimborso dei mutui in ammortamento (quota capitale e quota interessi)- e il totale delle spese correnti».
Insomma, la sezione ritiene che tra la tutela del diritto al lavoro dei disabili, la cui garanzia crea anche in capo alle amministrazioni pubbliche l'obbligo di rispettare le percentuali di assunzioni obbligatorie, ed il rispetto ai tetti di spesa per il personale, va risolto a vantaggio della tutela della finanza pubblica. Sicché, tra le spese di personale «devono essere necessariamente incluse anche quelle sostenute a tutela di categorie protette di lavoratori senza che la necessità di adempiere alle assunzioni obbligatorie possa costituire l'occasione per la violazione di norme a tutela degli equilibri di bilancio».
Meno drastica, ma nella stessa direzione, è l'opinione espressa dalla sezione regionale di controllo per la Basilicata con la delibera 25.11.2011 n. 95, secondo il quale non si deve dimenticare la particolare vincolatività dell'obbligo di assumere i disabili, espressamente sanzionato «sul piano penale, amministrativo e disciplinare secondo quanto previsto dall'art. 15, comma 3, della legge 12.03.1999, n. 68». Tuttavia, sebbene questa considerazione e il richiamo che il parere fa a pronunce della Ragioneria generale e della Funzione pubblica circa l'esclusione delle spese per assunzione di disabili dai computi per i vincoli alla spesa di personale, aprono spazi alla tesi più elastica, la sezione conclude in modo diverso.
Il parere evidenzia che le pubbliche hanno in ogni caso l'obbligo di attuare tutte le misure programmatorie necessaria ad adempiere agli obblighi relativi alle categorie protette, ma rispettando contemporaneamente la rimanente disciplina pubblicistica sulla spesa di personale. Insomma, non sarebbe possibile sforare i tetti di spesa di personale assumendo disabili; occorrerebbe, invece, adempiere alla legge 68/1999 avendo avuto cura, prima, di aver ridotto l'aggregato della spesa in misura tale da consentire di assumere i disabili, senza violare i tetti della spesa di personale.
L'indirizzo della magistratura contabile di controllo verso letture sempre più restrittive della normativa sulla spesa del personale non paiono del tutto condivisibili. In effetti, la sola considerazione delle responsabilità anche penali scaturenti dalla violazione della legge 68/1999 dovrebbero lasciar intendere che per l'ordinamento è meritevole di maggior tutela la garanzia per il lavoro delle categorie protette, che il rispetto pedissequo delle norme in materia di finanza pubblica. Questo atteggiamento di maggior favore dell'ordinamento verso le categorie svantaggiate, del resto, è anche ricavabile dalla Costituzione (articolo ItaliaOggi del 03.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCostituisce danno ingiusto per il comune (c.d. danno indiretto), e come tale da rimborsare, la somma corrispondente alla condanna subita dal medesimo ente locale, a titolo di risarcimento danni, nei confronti di un dipendente che era stato oggetto di un provvedimento di demansionamento in violazione dell'art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001.
Integra il requisito della colpa grave, sotto il profilo di un comportamento improntato a notevole negligenza, imperizia ed imprudenza, la decisione del direttore generale di un comune il quale -sulla base di una semplice domanda dell’interessato, finalizzata peraltro al mero riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di una patologia- ha adottato un provvedimento di sostanziale demansionamento di un impiegato, in violazione dell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 (che fa divieto di adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle della propria qualifica), e che ha poi comportato la condanna dell’ente al risarcimento danni in favore del dipendente.

... L’aver deciso, infatti, sulla base di una semplice domanda dell’interessato, avente, peraltro, finalità completamente diverse da quella di essere sollevato dalle proprie mansioni di geometra e cioè intesa, invero, al mero riconoscimento della dipendenza da causa di servizio delle denunciate patologie cardiovascolari, l’aver in tal modo dato luogo ad un provvedimento sostanzialmente di demansionamento, in violazione dell’art. 52 del decreto legislativo n. 165/2001, sono elementi che comprovano un comportamento improntato a notevole negligenza, imperizia ed imprudenza, tanto più grave per un soggetto, come l’appellante, al quale erano state affidate le delicate funzioni di direttore generale dell’Ente locale.
Inoltre, non può sottacersi che sotto la stessa data di emissione della determinazione n. 5 del 17.02.2003 il ..., per il tramite del proprio sindacato ebbe a contestare siffatta disposizione, adducendo di non aver mai chiesto alcuna mobilità interna o cambio di profilo professionale, peraltro, in quel momento impossibile, non essendo stata apportata alla pianta organica di quel Comune alcuna modifica, giusta art. 34 della legge n. 289/2002.
Altresì, non è privo di rilevo il fatto che alla lettera dell’interessato, inviata il 04.03.2003, per comunicare che al proprio rientro dal periodo di assenza per malattia egli avrebbe ripreso servizio presso la ripartizione tecnica, il dr. ..., con nota di riscontro del 07.03.2003, abbia replicato confermandone l’assegnazione alle nuove mansioni, assunte poi effettivamente dallo stesso in data 19.03.2003.
Quanto innanzi esposto, denota certamente un comportamento gravemente colposo che, come ben delineato anche nella sentenza emessa dal Tribunale di Bari – Sez. Lavoro, citata nella parte in fatto, viola palesemente tutti gli indici individuati dalla giurisprudenza per poter considerare corretto l’esercizio dello “ius variandi”, il quale, sintetizzando, “deve comunque consentire al dipendente nell’esercizio delle nuove mansioni di utilizzare la sua professionalità acquisita e di arricchirla con possibilità di crescita professionale”.
L’ordinanza di assegnazione, concretizzatasi in sostanza in un demansionamento, sicuramente effettuato in violazione dell’art. 52 del D.L.vo n. 165/2001, si pone, altresì, in contrasto con l’art. 97 della Costituzione che dispone che i pubblici uffici siano organizzati in modo da assicurarne il buon andamento, nel senso dell’efficacia e dell’efficienza del servizio offerto. L’atto in discussione, invece, ha rimosso un dipendente qualificato e competente dalle sue naturali mansioni per destinarlo ad un ufficio che non aveva nulla a che vedere con la professionalità dello stesso e, per di più, in risposta ad una richiesta volta ad altre finalità.
Assegnazione disposta, oltretutto, senza aver preventivamente acquisito il consenso da parte dello stesso interessato che, come detto, prima di intraprendere il giudizio che ha visto soccombente il Comune, aveva espresso la sua assoluta contrarietà a tale differente collocazione lavorativa.
Ritiene, quindi, il Collegio che il giudice di prime cure correttamente ha ritenuto esistente il nesso causale tra la condotta del ... ed il danno finanziario patito dal Comune di Casamassima.
Peraltro, tenuto conto che il sig. ... è cessato dalle funzioni di Direttore generale del Comune di Casamassima il 13.10.2003 e che, pertanto, dopo l’adozione della delibera n. 5 del 17.02.2003 di trasferimento del dipendente ad altro ufficio, nella esecuzione di detta delibera sono intervenuti successivamente altri soggetti, il Collegio ritiene equo determinare il danno da porre a carico dell’appellante nell’importo di Euro 8.500,00 comprensivo di interessi e rivalutazione monetaria (Corte dei Conti, Sez. I giurisdiz. centrale, sentenza 09.11.2011 n. 510 - link a www.corteconti.it).

NEWS

APPALTISEMPLIFICAZIONI/ Documenti on-line negli appalti. La Banca dati dei contratti pubblici sarà operativa dal 2013.
Niente più documenti nelle gare pubbliche con l'avvio della banca dati nazionale dei contratti pubblici; la sanzione dell'esclusione dalle gare per false dichiarazioni potrà essere anche inferiore a un anno; gare pubbliche per la scelta degli sponsor per interventi sui beni culturali; 656 milioni per gli interventi urgenti di ammodernamento e messa in sicurezza delle scuole.
Sono queste alcune delle novità previste nel testo definitivo del decreto-legge sulle semplificazioni varato ieri dal Consiglio dei ministri dopo una settimana di aggiustamenti tecnici che hanno riguardato soprattutto le parti sull'istruzione e l'università.
Del tutto confermata quindi la forte semplificazione che verrà attuata nelle procedure di affidamento di appalti pubblici e concessioni per le quali si prevede la messa online dei documenti e dei dati utili alla verifica del possesso dei requisiti di qualificazione dei concorrenti. L'impatto sarà particolarmente rilevanti per i settore delle forniture e dei servizi, privi di un sistema di qualificazione vero e proprio come esiste nel settore dei lavori che, tramite l'attestazione emessa dalle Soa, riesce ad evitare la qualificazione gara per gara, per i requisiti di capacità economica e tecnica delle imprese di costruzioni (i certificati Soa hanno una validità di cinque anni).
Il decreto dà impulso alla banca dati introdotta nel 2010 con il comma 1 dell'art. 44, dal dlgs. 235/2010. In particolare si prevede che dall'01.01.2013 tutta la documentazione relativa alla prova dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico organizzativa dei concorrenti dovrà essere acquisita presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici che ha sede presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici. Sarà quindi l'Autorità di vigilanza a definire quali dati utili alla partecipazione alle gare, nonché alla valutazione delle offerte, debbano essere inclusi nella banca dati. La stessa Autorità dovrà definire i termini e le regole tecniche per l'acquisizione, l'aggiornamento e la consultazione dei dati.
Le amministrazioni, all'inizio del 2013, non potranno quindi più chiedere documenti per verificare il possesso dei requisiti, il che dovrebbe portare le amministrazioni pubbliche, attraverso i controlli «elettronici» su ciascuna impresa, a risparmiare qualcosa come 1,3 miliardi l'anno, stando alle stime del governo. Per l'attivazione della banca dati tutti i soggetti pubblici e privati che detengono dati e documenti relativi ai requisiti di partecipazione, avranno l'obbligo di messa a disposizione dell'Autorità di tali dati e documenti.
Novità in vista anche per le sanzioni irrogate dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici per false dichiarazioni rese dai concorrenti che partecipano ad appalti pubblici. Si incide sulla disciplina ad oggi vigente che prevede che se un concorrente presenta un documento falso o dichiara situazioni non veritiere, scatta l'obbligo per la stazione appaltante di segnalare l'accaduto all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici. L'organismo di vigilanza deve a sua volta effettuare un'istruttoria per verificare la presenza di dolo o colpa grave e, in considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti, disporrà l'iscrizione nel casellario informatico ai fini dell'esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto per un periodo fino a un anno.
Una volta trascorso il termine della sanzione (che quindi potrà essere anche di qualche mese e non, automaticamente di un anno), l'iscrizione verrà ex lege cancellata e perderà comunque efficacia. Il decreto-legge prevede inoltre, per i beni culturali, l'obbligo di gara sia per le sponsorizzazioni di puro finanziamento, sia per quelle tecniche (di progettazione ed esecuzione). Le amministrazioni dovranno inserire gli interventi da inserire in un apposito allegato al programma triennale; gara a rilanci plurimi per l'individuazione del maggiore finanziamento.
La gara si è previsto che si svolgerà con offerte di rilancio migliorative successive alla graduatoria, anche se l'amministrazione dovrà comunque definire un termine massimo per i rilanci. Il contratto è previsto che venga aggiudicato al soggetto che ha offerto il maggiore finanziamento, o che ha proposto l'offerta realizzativa giudicata migliore, in caso di sponsorizzazione tecnica. Il decreto legge prevede anche una più articolata disciplina sulle certificazioni dei lavori all'estero, che coinvolgerà i consolati e gli uffici del Ministero degli affari esteri, con una particolare garanzia per i subappaltatori di imprese italiane i quali potranno anche chiedere le certificazioni in via autonoma.
Il provvedimento prevede anche la messa in campo di risorse economiche per un piano urgente di ammodernamento e messa in sicurezza del patrimonio scolastico (con 656 milioni) in vista dell'adozione di un piano più ampio teso all'obiettivo di ammodernare e razionalizzare tutto il patrimonio di immobili adibiti a scuole.
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Una soluzione per verificare i requisiti degli appaltatori.
Una soluzione al problema delle verifiche sul rispetto della posizione previdenziale degli appaltatori viene offerta dal disegno di legge di semplificazione. Infatti, in materia di appalti pubblici si prevede la creazione di una Banca dati nazionale dei contratti pubblici alla quale tutti i soggetti pubblici e privati dovranno conferire i dati e i documenti relativi al possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario previsti dal dlgs 163/2006, per la partecipazione agli appalti.
L'intento è creare una banca dati on-line, alla quale le stazioni appaltanti potranno attingere per acquisire le informazioni connesse al possesso dei requisiti degli appaltatori. Dall'01.01.2013, se le cose andranno come il disegno immaginato dal ministro della funzione pubblica Filippo Patroni Griffi auspica, la banca dati sarà operativa e tutte le amministrazioni avranno il dovere di verificare i requisiti esclusivamente controllando i dati in essa conservati.
Tra i requisiti di ordine generale previsti dall'articolo 38 del codice dei contratti vi è quello di non aver commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali: si tratta di informazioni attestate o, meglio, certificate tramite il Durc.
In merito, come è noto, si è recentemente espresso il ministero del lavoro che con la nota 16.01.2012, n. 619 ha sostenuto la non autocertificabilità del Durc. Tale tesi è erronea e destituita di fondamento proprio dall'articolo 38, comma 2, del dlgs 163/2006, che considera espressamente sostituibile da dichiarazioni ai sensi del dpr 445/2000 la situazione di regolarità previdenziale.
Le informazioni certificate dal Durc, dunque, non solo possono, ma devono essere oggetto di dichiarazioni sostitutive.
Oggi, tuttavia, l'unico sistema per verificarne la veridicità è chiedere al Durc o a Inps, Inail o Cassa Edile l'emanazione del Durc, che in quanto vero e proprio certificato non potrebbe essere utilizzato dalle pubbliche amministrazioni. Un grave contrasto operativo, cagionato dalla frettolosa normativa in tema di semplificazione amministrativa, introdotta dalla legge 183/2011.
La Banca dati nazionale dei contratti pubblici rappresenta la soluzione al problema. Se, infatti, sarò obbligatorio conferirvi tutti i dati relativi ai requisiti generali, Inps, Inail e Cassa edile saranno tenute ad aggiornare detta Banca dati.
Le amministrazioni appaltanti, dunque, finalmente invece di dover chiedere l'emissione del Durc (e aspettare 30 giorni), potranno accedere direttamente alle informazioni online, senza che venga emesso alcun certificato. E senza nessun conflitto con la normativa un po' avventuristica introdotta in merito dalla legge di stabilità (articolo ItaliaOggi del 04.02.2012).

ENTI LOCALILotta al sommerso. Le attività rilanciate dal provvedimento delle Entrate si estendono al lavoro nero. Sindaci a caccia in bar e cantieri. Commercio ed edilizia sono gli ambiti più adatti per scovare imposte.
LE CARATTERISTICHE/ Le aree promettenti sono quelle legate al controllo del territorio che offrono vantaggi anche alla fiscalità locale.

Attività totalmente in nero e lavoratori irregolari. Evasione nel settore dell'edilizia e contrasto a operazioni che sfiorano i confini dell'elusione, senza dimenticare l'emersione delle residenze estere fittizie. Sono numerosi i campi di attuazione della collaborazione dei Comuni all'accertamento delle entrate erariali, ma non è facile individuare i comparti in grado di generare «segnalazioni qualificate» senza richiedere una complessa organizzazione da parte dell'ente locale. In effetti, la cooperazione dei Comuni funziona solo se mette in moto delle sinergie con le operazioni svolte ordinariamente a livello locale. Alla base di tutto vi è il controllo del territorio che normalmente viene esercitato dalle amministrazioni, con riferimento sia alle attività economiche sia al settore immobiliare.
Sotto il profilo dei controlli delle attività economiche, un settore che dovrebbe spesso essere sotto osservazione è quello del commercio ambulante. Un'attività svolta abusivamente rileva di per sé sotto un duplice profilo: amministrativo, in quanto esercitata in assenza dell'apposita autorizzazione, e tributario, in quanto consuma l'evasione della Tosap, la tassa di occupazione, e della tassa rifiuti giornaliera. Si comprende pertanto perché l'ultimo provvedimento direttoriale abbia incluso il commercio su aree pubbliche tra i comparti di cooperazione privilegiata con l'Inps. In occasione delle verifiche ordinarie sarà infatti sufficiente richiedere i dati della comunicazione unica, fiscale e contributiva, per l'assolvimento degli obblighi previdenziali. Ma controlli analoghi possono svolgersi anche nei riguardi dei pubblici esercizi. Si pensi ad un bar o ristorante che occupi abusivamente con sedie e tavolini aree pubbliche. I controlli della polizia locale o degli addetti all'ufficio tributi potrebbero far emergere,oltre all'occupazione abusiva, evasioni contributive.
L'apertura di cantieri edili rileva anch'essa per l'occupazione di suolo pubblico e in tale ambito ben potrebbe svelare lavoratori in nero.
Dalle verifiche eseguite in loco, con accesso diretto ai locali, in occasione dei controlli Tarsu sono stati rilevati affitti in nero, attraverso l'identificazione del soggetto occupante. Si tratta di una situazione piuttosto frequente nelle residenze degli studenti universitari. Un evasore totale dell'Ici con una certa probabilità potrebbe essere anche evasore delle imposte sui redditi degli immobili.
Il fenomeno della pubblicità abusiva, cioè effettuata su impianti non autorizzati, potrebbe far emergere sia evasioni da parte del soggetto detentore dell'impianto, che verosimilmente non avrà fatturato il compenso per l'affissione, sia un'attività irregolare da parte del soggetto pubblicizzato.
Molto più complessa è invece la prova relativa alle residente fittizie all'estero. In questo caso, non è sufficiente un'indagine episodica, che fotografi la situazione del momento, perché occorre dimostrare che il centro degli interessi del contribuente continua ad essere nel Comune di provenienza.
Come si vede, gli spunti per agire sono numerosi. La difficoltà maggiore è nel tramutare queste circostanze in segnalazioni qualificate. Talvolta l'evidenza dei fatti è di per sé sufficientemente esplicativa (si pensi al commercio abusivo). Più spesso occorre invece una ulteriore attività istruttoria da parte del comune, da svolgersi anche attraverso la consultazione di banche dati (si pensi all'affitto in nero, che potrebbe richiedere la verifica delle utenze). Si tratta indubbiamente di un'attività che richiederà tempo e preparazione specifica perché diventi una prassi abituale e efficiente (articolo ItaliaOggi del 04.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - VARIImu, il versamento si farà in due. Il contribuente calcolerà la quota comunale e quella statale. In arrivo due codici tributo. Ma sarà l'Agenzia delle entrate a stabilire le modalità di pagamento.
Spetta al contribuente calcolare l'Imu per determinare le quote di competenza per stato e comuni e effettuare un duplice versamento. Il maggior gettito Imu incassato dagli enti locali, rispetto all'Ici, verrà compensato da una riduzione di pari importo del fondo sperimentale di riequilibrio.
Sono alcune delle precisazioni contenute in una nota dell'Ifel con la quale ha fornito ai comuni delle indicazioni sulle regole della nuova imposta locale.
L'istituto di finanza locale ha preso posizione sulla questione dei versamenti del tributo, considerato che la norma di legge non è molto chiara nella formulazione. L'articolo 13 del dl Monti (201/2011), infatti, si limita a stabilire che la somma di competenza dello stato deve essere versata «contestualmente all'imposta municipale propria».
Inoltre, in deroga a quanto disposto dall'articolo 52 del decreto legislativo 446/1997, che attribuisce agli enti il potere di decidere le modalità di riscossione, spontanea e coattiva, delle proprie entrate, l'Imu deve essere versata solo con l'F24. Dunque, il contribuente dovrà indicare nel modello F24 due codici tributo diversi e, secondo l'Ifel, dovrà effettuare un duplice versamento: «Uno a favore del comune e l'altro a favore dello stato». Tuttavia, in base a quanto disposto dall'articolo 13, le modalità di versamento verranno stabilite con un provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate.
L'Ifel fornisce dei chiarimenti anche sui trasferimenti erariali. In particolare, il fondo sperimentale di riequilibrio è ridotto in misura corrispondente al maggior gettito Imu, ad aliquota base, rispetto all'Ici. Quindi, le maggiore somme incassate dai comuni con l'Imu verranno compensate da una riduzione di pari importo del fondo sperimentale. Naturalmente se il gettito sarà inferiore, dovrà essere riconosciuto l'importo della quota non riscossa.
Per quantificare le risorse delle quali l'ente sarà destinatario occorre fare riferimento alla disciplina di legge, applicando le aliquote di base e le detrazioni obbligatorie. Le componenti principali sono: abitazione principale, immobili rurali strumentali, abitazioni assimilate all'abitazione principale che erano esenti dall'Ici, terreni agricoli e aree edificabili. Per queste diverse fattispecie è necessario valutare l'incremento dei coefficienti moltiplicatori per determinare la base imponibile Imu e rilevare le differenze rispetto all'Ici. Si legge nella nota, che l'effetto espansivo del nuovo tributo locale non è costituito solo dall'incremento dei coefficienti e dell'aliquota di base (7,6 per mille), che è dunque superiore all'aliquota massima (7 per mille) fissata per l'Ici, ma anche dall'abolizione «di diverse aree di esclusione e di esenzione che devono essere valutate in modo il più possibile specifico».
L'incremento di gettito può derivare dalla quota di tributo che i comuni incasseranno dai fabbricati assimilati all'abitazione principale, che dal 2008 non hanno pagato l'Ici, e dalle restrizioni apportate dalla legge alle varie forme di agevolazione. Nello specifico, l'abolizione dell'agevolazione riservata agli immobili storici, l'eliminazione della riduzione d'imposta per i fabbricati inagibili o inabitabili, la mancata previsione dell'aliquota ridotta per gli immobili dati in affitto. Per questi ultimi, nella nota si pone in rilievo che i benefici fiscali per gli «affitti in regime concordato ex legge 431/1998» erano piuttosto diffusi. La forbice è stata usata anche per tagliare l'esenzione per gli immobili ristrutturati destinati a essere utilizzati dai disabili e l'agevolazione per l'installazione di impianti rinnovabili di energia e risparmio energetico.
In una seconda nota emanata dall'Ifel, invece, vengono prese in esame le entrate comunali e fornite le istruzioni per l'uso per la redazione dei bilanci. In particolare, viene posto in rilievo che la norma del decreto Monti è «ingiustificatamente penalizzante per i comuni», in quanto prevede che la quota riservata allo stato «rimanga indenne» non solo dalle scelte regolamentari e tariffarie fatte dagli enti, «ma anche dalle detrazioni previste per legge», che incidono sulla quota a loro destinata. Per esempio, per le amministrazioni locali che hanno sul proprio territorio tanti immobili posseduti dagli Ater/Iacp o dalle cooperative edilizie a proprietà indivisa, per i quali spetta la detrazione nella misura stabilita dalla legge, la quota di gettito di competenza dell'erario potrà risultare più elevata del 50% (articolo ItaliaOggi del 03.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIPartecipate, nuovi limiti sul personale. Stretta su in house e aziende speciali. Ma si pone il problema del consolidato. Il decreto liberalizzazioni solleva più di un dubbio interpretativo.
Enti locali in cerca di regole certe sul personale di società in house, aziende speciali ed istituzioni.
Il decreto sulle liberalizzazioni (dl 1/2012), infatti, estende ai predetti soggetti le «disposizioni che stabiliscono a carico degli enti locali divieti o limitazioni alle assunzioni di personale» (art. 25, commi 1 e 2). Ma tali previsioni danno luogo a non pochi dubbi interpretativi.
Attualmente, in questa materia, gli enti locali sono principalmente soggetti a tre tipologie di vincoli.
In primo luogo, essi devono garantire la riduzione o il contenimento delle spese di personale: per gli enti soggetti al Patto di stabilità interno il riferimento è la spesa (impegni) relativa all'anno precedente, mentre per quelli non soggetti vale il dato relativo all'anno 2004 (art. 1, commi 557 e 562, della legge 296/2006).
Il secondo vincolo (che si applica a tutti gli enti locali senza distinzioni) comporta un divieto di assumere per gli enti nei quali la spesa di personale è superiore al 50% delle spese correnti.
Infine, le nuove assunzioni devono rispettare la regola del turnover, che consente nuovi ingressi solo in una certa proporzione rispetto alle cessazioni: anche in tale ambito la disciplina è differenziata per gli enti soggetti al Patto (per i quali il turnover è consentito nei limiti del 20% della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente, con la sola eccezione degli addetti alla polizia locale, ma limitatamente agli enti nei quali il rapporto fra spese di personale e spese correnti non supera il 35%) e per gli altri enti (che possono applicare un criterio «per teste», ovvero assumere un nuovo dipendente per ogni cessazione intervenuta l'anno prima).
Per effetto dell'art. 25, comma 2, del dl 1/2012 cit., tali vincoli si applicano ora in modo diretto anche alle aziende speciali ed alle istituzioni. La decorrenza di tale previsione non è chiara. L'incipit della norma (che novella l'art. 114 del Tuel, inserendovi un nuovo comma 5-bis) recita «a decorrere dall'anno 2013», ma sembrerebbe riferirsi solo all'estensione, nei confronti dei medesimi soggetti, del Patto, in considerazione del fatto che ciò richiederà un apposito decreto ministeriale attuativo da emanare entro il prossimo 30 ottobre. Viceversa, per le norme in materia di personale pare più corretta la tesi dell'estensione immediata.
Quanto alle società in house, esse, in virtù di quanto previsto dal comma 1 dello stesso art. 25 (che introduce nel testo del dl 138/2011 il nuovo art. 3-bis), sono chiamate ad adottare specifici provvedimenti per adeguarsi alle medesime norme. Anche in tal caso, l'obbligo pare immediatamente cogente.
Al momento, non è chiaro se società in house, aziende speciali e istituzioni debbano applicare le regole sopra succintamente richiamate, per così dire, «atomisticamente», ovvero considerando ciascun soggetto come autonomo, o se invece occorra consolidare le relative spese di personale con quelle dell'ente o degli enti locali di riferimento.
La prima soluzione sembra più rispettosa del dato letterale delle norme, ma pone diversi problemi, considerata anche la presenza di discipline differenziate per i diversi tipi di enti. D'altra parte, il consolidamento è già espressamente previsto in relazione alla verifica del rapporto fra spese di personale e spese correnti con riguardo alle società (non quotate) a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che sono titolari di affidamento diretto di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgono funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale, né commerciale, ovvero che svolgono attività strumentali.
La stessa Corte dei conti si è espressa a favore della secondo opzione con riferimento sia alle Unioni di comuni che alle stesse aziende speciali, anche se con pronunce non sempre concordi (basti pensare al recente parere n. 14/2011 della sezione autonomie, che esclude dall'obbligo di consolidamento ai fini della verifica del limite del 50% le partecipate indirette e gli organismi partecipati non societari).
Del resto, che la strada del futuro sia quello del bilancio consolidato è confermato anche dall'evoluzione in atto dei sistemi contabili, anche se a tal fine è prevista una fase sperimentale che durerà almeno due anni (articolo ItaliaOggi del 03.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI SERVIZII servizi finanziari sono esclusi dal Codice dei contratti pubblici.
Servizi finanziari fuori dal campo di applicazione del codice dei contratti. Il decreto sulle semplificazioni chiude la controversia interpretativa sulla necessità di assoggettare o meno alle regole del dlgs 163/2006 i contratti con i quali le pubbliche amministrazioni intendono acquisire servizi erogati dalle banche, modificando l'articolo 20, comma 2, del codice, che indica negli appalti elencati nell'allegato IIA quelli soggetti all'intera disciplina codicistica. Tale allegato al punto 6-b), include tra gli appalti ai quali applicare tutte le regole di dettaglio del codice quelli relativi ai «servizi bancari ed assicurativi».
Ciò ha da sempre determinato un contrasto interpretativo ed operativo, dal momento che ai sensi dell'articolo 19, comma 1, lettera d), sono totalmente esclusi dalla disciplina del codice dei contratti gli appalti «concernenti servizi finanziari relativi all'emissione, all'acquisto, alla vendita e al trasferimento di titoli o di altri strumenti finanziari, in particolare le operazioni di approvvigionamento in denaro o capitale delle stazioni appaltanti, nonché i servizi forniti dalla Banca d'Italia».
Il decreto sulle semplificazioni cerca di fare chiarezza e modificando l'articolo 20, comma 2, del dlgs 163/2006 che nella nuova stesura stabilisce: «salvo quanto previsto dall'articolo 19, comma 1, lettera d), gli appalti di servizi elencati nell'allegato II A sono soggetti alle disposizioni del presente codice». La novellazione dell'articolo 20, comma 2, ha il chiaro scopo di precisare che resta ferma l'esclusione dei servizi finanziari dal campo di applicazione del codice. Dunque, le stazioni appaltanti debbono solo applicare i principi generali di buon andamento e imparzialità per selezionare le imprese alle quali rivolgersi per ottenere prestiti e gestione di titoli.
Restano, invece, soggetti al codice i servizi bancari. Se il legislatore avesse voluto escludere anche questi dalle regole codicistiche, oltre a novellare l'articolo 20, comma 2, avrebbe anche dovuto riformulare il testo del punto 6-b), dell'allegato IIA, cosa che non è avvenuta.
Gli enti locali si chiedono, allora, cosa cambi per quanto concerne gli appalti finalizzati all'acquisizione del servizio di tesoreria. In effetti, il decreto sulle semplificazioni in questo campo non modifica nulla. Il servizio di tesoreria appartiene alla tipologia dei servizi bancari e non a quelli finanziari. Tuttavia, anche il servizio di tesoreria non deve essere assoggettato a tutte le regole di dettaglio disposte dal codice. Come ha chiarito di recente il Consiglio di stato, sezione V, con sentenza 06.06.2011, n. 3377, il servizio di tesoreria, visto che non prevede il pagamento di alcun prezzo da parte dell'amministrazione, è da inquadrare non come appalto, ma come concessione di servizi.
Infatti, l'istituto bancario assume integralmente il rischio della gestione ed ottiene la remunerazione in via esclusiva con le tariffe ed i prezzi ai propri clienti. Così stando le cose, il servizio di tesoreria è disciplinato dall'articolo 30 del dlgs 163/2006, dedicato alle concessioni di servizi, che come gli appalti indicati nell'allegato IIB al codice, non sono regolate dalla disciplina di dettaglio del codice stesso (articolo ItaliaOggi del 03.02.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContrattazione decentrata 2012, non serve aspettare il varo dei bilanci.
È opportuno che le amministrazioni avviino subito la contrattazione decentrata integrativa per l'anno 2012 in modo da potere arrivare alla ripartizione del trattamento economico accessorio premiando le performance e la meritocrazia. Peraltro non vi sono dubbi rilevanti, a differenza dell'anno passato, nella determinazione del fondo per le risorse decentrate.
Occorre subito rilevare che per la costituzione del fondo non occorre attendere l'approvazione del bilancio preventivo: non vi è infatti alcun vincolo in questa direzione né in modo esplicito né implicito. Al massimo, per la concreta erogazione delle risorse variabili è opportuno attendere l'approvazione di questo documento programmatico. Nella quantificazione della parte stabile del fondo non può essere usato l'articolo 15, comma 5, del Ccnl 01/04/1999 per aumentare la capienza complessiva. Non vi sono dubbi che i risparmi derivanti dalle progressioni economiche dei dipendenti cessati dal servizio continuino a ritornare tra le somme disponibili: in questo caso infatti non abbiamo un incremento del fondo.
L'unico dubbio riguarda il possibile inserimento della retribuzione individuale di anzianità e degli assegni ad personam dei dipendenti cessati dal servizio: la Ragioneria generale dello stato lo ha escluso, quanto meno per le amministrazioni statali, nella propria circolare n. 20/2010, mentre la successiva circolare 12/2011 del ministro dell'economia non ne fatto cenno. Per la costituzione della parte variabile le possibilità previste dai contratti nazionali, in particolare l'articolo 15, comma 5 e comma 2, del Ccnl 01/04/1999, non possono dare luogo ad un aumento delle risorse.
Le sezioni unite di controllo della Corte dei conti hanno ammesso come deroghe esclusivamente quelle previste per la incentivazione degli uffici tecnici in caso di realizzazione di opere pubbliche e per gli avvocati in caso di contenziosi risolti con successo per l'ente. La Rgs e la sezione di controllo della magistratura contabile pugliese consentono l'aumento del fondo per le risorse derivanti dai risparmi nella utilizzazione del fondo. Rimane da risolvere, ma il tema è di minore attualità nell'anno 2012, il dubbio sulla possibilità di incrementare il fondo con i compensi derivanti dall'Istat per il censimento.
Una volta costituito il fondo si possono avviare le trattative per la ripartizione del fondo. Ricordiamo che non è necessario attendere la presentazione di una piattaforma da parte dei sindacati e che è opportuno che la giunta formuli delle direttive per la delegazione trattante di parte pubblica. Non vi sono certezze per potere andare a una rivisitazione complessiva della contrattazione decentrata: appare opportuno limitare le trattative solamente alla ripartizione del fondo, mentre un intervento sulla parte istituzionale è necessario solamente se vi sono dei dubbi di illegittimità delle norme esistenti.
Il tempestivo avvio delle trattative per la ripartizione del fondo consente di spostare una parte significativa delle risorse per la incentivazione delle attività finalizzate al perseguimento dei risultati richiesti dall'amministrazione. Cioè di incentivare la produttività del personale e le indennità di risultato per i dirigenti ed i titolari di posizione organizzativa (articolo ItaliaOggi del 03.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERE COMUNALEOSSERVATORIO VIMINALE/ Vigili, incompatibilità soft. Si può ricoprire la carica di consigliere comunale. L'istituzione di una convenzione di polizia locale non crea una causa ostativa.
In caso di comuni convenzionati per l'esercizio della funzione di polizia locale, sussiste una situazione di incompatibilità tra lo svolgimento delle funzioni di vigile urbano di uno dei comuni convenzionati e quella di consigliere comunale del comune capo convenzione?
Le disposizioni in materia di cause ostative alla candidatura sono dettate dagli artt. 55 e ss. del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267. Per quanto attiene al caso di specie, l'art. 60, comma 1, n. 7 Tuel dispone che non sono eleggibili a consigliere i dipendenti del comune e della provincia per i rispettivi consigli; l'art. 63, comma 1, n. 7, dispone altresì che, qualora tale condizione di ineleggibilità si verifichi nel corso del mandato, la stessa configura una condizione di incompatibilità.
Per accertare, quindi, se nel caso in esame sussista l'ipotesi dell'incompatibilità prevista dall'art. 63, comma 1, n. 7 Tuel è necessario verificare quale sia l'ente locale di cui il vigile urbano è dipendente. Gli elementi costitutivi del rapporto subordinato, in base a quanto previsto dall'art. 2094 c.c., sono la sottoposizione del lavoratore al potere di direzione del datore di lavoro, la continuità della prestazione e la retribuzione. Nel caso di specie i suddetti elementi ricorrono nel rapporto intercorrente tra il vigile urbano e il comune nel cui organico questi è inserito, mentre la dipendenza funzionale con il comune capo convenzione è solamente un effetto derivante dalla convenzione sottoscritta tra i due comuni ed è in ogni caso limitata alla durata della stessa.
Pertanto, nel caso di specie, non sussistono cause ostative all'espletamento della carica di consigliere comunale atteso che, come più volte sancito dalla Corte di cassazione, le norme che restringono eccezionalmente i diritti di status sono di stretta interpretazione (articolo ItaliaOggi del 03.02.2012).

CONSIGLIERE COMUNALEOSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità.
Sussiste una causa di incompatibilità sopravvenuta nei confronti di un consigliere comunale che svolge funzioni di lavoratore socialmente utile?

La questione sollevata va analizzata alla luce dell'art. 60, comma 1, n. 7, del decreto legislativo n. 267/2000, ai sensi del quale non sono eleggibili nel rispettivo consiglio comunale i dipendenti del comune. La giurisprudenza ha escluso dall'ipotesi dell'ineleggibilità prevista dalla norma citata la sola ipotesi del lavoro autonomo (Cassazione civile, sez. I, n. 9762 del 15/9/1995; Tribunale di Sassari, sez. civ. sent. n. 1254 del 13/11/ 2002) e del lavoratore che non espleti attività lavorativa a favore del Comune in virtù di un contratto di fornitura di lavoro, in quanto al servizio esclusivo di una impresa esterna, unica titolare del potere disciplinare (Cassazione civile, sez. I, 11/03/2005, sent. n. 5449).
La ratio della norma è quella di garantire il più possibile la separazione tra attività politica e attività di gestione e l'elemento di discrimine affermato dalla giurisprudenza è la sussistenza delle condizioni tipiche del rapporto di impiego subordinato (sottoposizione ad ordini e direttive, inserimento del lavoratore nella struttura dell'ente. Tuttavia, l'articolo 4 del decreto legislativo n. 81 del 28.02.2000 ha previsto espressamente che l'utilizzo nelle attività socialmente utili o di pubblica utilità non determina l'instaurazione di un tipico rapporto di lavoro, interpretazione recepita dalla costante giurisprudenza.
La Corte di cassazione, s.u. civ., con sentenza del 27.02.2005, n. 3508, ha ritenuto che il rapporto intercorrente tra un lavoratore di pubblica utilità e la p.a. non ha natura di lavoro subordinato. Tra l'ente ed il lavoratore viene a sussistere unicamente un rapporto c.d. di «utilizzazione»; in tal senso l'art. 8, comma 1, del dlgs. n. 468/2000, ha espressamente previsto che l'utilizzazione dei lavoratori nelle attività che hanno per oggetto la realizzazione di opere e la fornitura di servizi di utilità collettiva (art. 1, comma 1), non determina l'instaurazione di un rapporto di lavoro e non comporta la sospensione e la cancellazione dalle liste di collocamento o dalle liste di mobilità.
Tale orientamento è stato consolidato anche dalla sentenza della Corte di cassazione n. 3 del 03.01.2007, che ha ribadito l'impossibilità di configurare, nel rapporto di Lsu, un normale rapporto di lavoro subordinato pubblico, chiarendo, altresì, che nei lavori socialmente utili il rapporto da configurarsi è quello previdenziale, in quanto il lavoratore socialmente utile ha il diritto a emolumenti ai quali, però, non può riconoscersi natura retributiva ma, per l'appunto, previdenziale. Tenuto conto che le cause ostative all'espletamento del mandato elettivo, disciplinato dal Tuel, incidendo direttamente sull'esercizio del diritto di elettorato passivo, sono di stretta interpretazione e come tali non suscettibili di estensione analogica, anche situazioni di fatto che accidentalmente dovessero evidenziare elementi del rapporto di lavoro subordinato non precluderebbero l'assunzione della carica elettiva.
Pertanto, nel caso di specie, non sussiste la causa di ineleggibilità dettata all'art. 60, comma 1, n. 7 del decreto legislativo n. 267/2000 (articolo ItaliaOggi del 03.02.2012).

APPALTI SERVIZI: Servizi locali. Il ministero dell'Ambiente ferma le gestioni fuori regola. In house vietato a società mista senza gara.
QUESTIONE DI CALENDARIO/ La tagliola agli affidamenti prevista dalla riforma è scattata perché il referendum abrogativo è intervenuto solo più tardi.

Gli affidamenti in house di servizi pubblici locali a società miste in cui il socio privato sia stato scelto senza gara sono illegittime, anche se l'articolo 23-bis del Dl 112/2008 che ha introdotto la riforma dei servizi pubblici locali è stato abolito con i referendum di giugno.
Lo chiarisce il ministero dell'Ambiente nella risposta a un quesito avanzato da un ente locale su una situazione che torna ancora in modalità analoghe in parecchi casi sparsi qua e là per l'Italia.
Il «niet» pronunciato dal ministero dell'Ambiente, che di fatto condanna all'illegittimità tutti gli affidamenti in house a società miste formate senza gara, nasce da ragioni di calendario. La riforma dei servizi pubblici, rilanciata dal «decreto-Ronchi» del 2009 prima di essere cancellata dai referendum, prevedeva una serie di date di chiusura per le diverse tipologie di affidamento.
Nel caso delle società miste, i casi previsti dalla regola erano tre. L'affidamento a mista con socio scelto con gara a doppio oggetto (la procedura con cui si individua contestualmente il socio e i compiti operativi connessi alla gestione del servizio da attribuirgli) poteva arrivare tranquillamente alla scadenza del contratto.
Nei casi in cui il socio fosse stato scelto con gara semplice (quella che individua l'azienda privata partner ma non i compiti operativi da affidarle), la data di chiusura era fissata al 31.12.2011, mentre nelle altre tipologie di partnership lo stop sarebbe dovuto intervenire entro il 31.12.2010.
Proprio quest'ultima è la data chiave su cui poggia il ragionamento ministeriale.
Il referendum che ha travolto con l'ondata di «sì» la liberalizzazione dei servizi pubblici (prima dell'articolo 4 della manovra estiva che l'ha rimessa in campo) è intervenuto nel giugno del 2011, per cui la tagliola agli affidamenti a società miste con partner individuato senza gara è rimasta in vigore per sei mesi.
Ergo: nessun affidamento di questo tipo può continuare oggi a dispiegare i propri effetti, perché la sua "esistenza in vita" avverrebbe grazie alla violazione di una legge abrogata solo in un secondo momento.
Sulla base degli stessi presupposti, naturalmente, l'abrogazione obbligatoria non è intervenuta per gli affidamenti con data di scadenza successiva al giugno del 2011, a partire da quelli a società mista scelta con gara semplice che sarebbero dovuti tramontare a dicembre.
Per gli affidamenti in house ancora legittimamente funzionanti, il calendario di uscita è quello corretto da ultimo dal decreto sulle liberalizzazioni. In particolare, possono stare in piedi fino a fine anno gli affidamenti diretti di servizi che valgono più di 200mila euro all'anno, la nuova soglia individuata dal provvedimento come limite massimo per aggirare la gara. Una regola, quest'ultima, che di fatto si traduce in una proroga degli affidamenti diretti superiore al vecchio limite di 900mila euro, che secondo la manovra bis di Ferragosto avrebbero dovuto alzare bandiera bianca entro il prossimo 31 marzo.
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L'intreccio di date
01 | IL PRIMO CALENDARIO
Le date di scadenza degli affidamenti in house erano state fissate dall'articolo 23-bis del Dl 112/2008. In particolare, per le società miste, si prevedeva la decadenza dell'affidamento
- Alla scadenza del contratto, se il socio era stato individuato con gara a doppio oggetto (scelta del socio e compiti operativi connessi alla gestione del servizio)
- Al 31.12.2011, se il socio era stato individuato con gara semplice (finalizzata solo alla scelta del socio)
- Al 31.12.2010 negli altri casi (società mista senza gara)
02 | IL REFERENDUM
Il referendum abrogativo è intervenuto a giugno 2011; di conseguenza sono illegittimi gli affidamenti che sarebbero dovuti decadere prima di quella data
03 | IL NUOVO CALENDARIO
Il Dl 1/2012 fissa al 31.12.2012 la decadenza degli affidamenti diretti di servizi di valore superiore a 200mila euro annui (articolo Il Sole 24 Ore del 02.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTINel risarcimento del danno per mancata aggiudicazione dell'appalto sono escluse le spese processuali.
In sede di liquidazione del risarcimento del danno per mancata aggiudicazione non è, infatti, ravvisabile una responsabilità delle parti per spese legali e danni processuali atteso che, per quanto riguarda in particolare le spese legali si tratta di danni successivi all’aggiudicazione, come tali non riconoscibili.
In materia di spese processuali trova inoltre applicazione non la disciplina dell’illecito aquiliano dettata dall’art. 2043 cod. civ., ma la disciplina di cui agli articoli 90 e seguenti c. p. c., applicabili anche nei giudizi amministrativi (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.02.2012 n. 541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARIIllegittima la tariffa rifiuti massima per gli studi dei professionisti.
IL PRINCIPIO/ La scelta del prelievo da applicare alle diverse categorie deve essere sempre motivata in delibera.

La scelta dei coefficienti massimi per determinare la tariffa da applicare ad alcune categorie deve essere motivata, altrimenti è illegittima.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 02.02.2012 n. 539, annullando una delibera comunale istitutiva della Tariffa d'igiene ambientale nella parte in cui individuava il coefficiente massimo solo per gli uffici e gli studi dei professionisti.
Diversi ordini professionali (ingegneri, commercialisti, architetti, medici, eccetera) avevano proposto ricorso al Tar sostenendo l'illegittimità della tariffa per le utenze non domestiche della categoria 11 (uffici, agenzie, studi professionali), ai quali il Comune aveva applicato i coefficienti massimi fissati dal Dpr 158/1999 (metodo normalizzato). Peraltro nella delibera non solo non c'era alcuna motivazione che giustificasse l'applicazione della misura più elevata, ma mancava un criterio omogeneo per le 30 categorie di contribuenti, ad alcune delle quali erano stati invece applicati i coefficienti minimi.
Il Tar Toscana ha respinto i rilievi dei professionisti, ritenendo insussistente l'obbligo di motivazione per la scelta dei coefficienti applicabili alla singola categoria, se effettuata nell'ambito dell'intervallo di riferimento. Per i giudici amministrativi fiorentini i provvedimenti con i quali i Comuni determinano la tariffa costituiscono atti di normazione secondaria a contenuto generale, assimilabili agli atti relativi alla gestione dell'Ici e quindi esclusi da obblighi di motivazione puntuale.
Il giudizio di primo grado è stato tuttavia ribaltato dal Consiglio di Stato, il quale evidenzia il contenuto "misto" del provvedimento istitutivo della tariffa, in parte regolamentare ed in parte provvedimentale, quest'ultima con particolare riferimento ai coefficienti per l'attribuzione della parte fissa e della parte variabile della tariffa.
L'ampio potere discrezionale di cui gode l'ente locale non può comunque sfuggire a qualsiasi controllo e non può pertanto sottrarsi all'obbligo della motivazione. In caso contrario verrebbero rinnegati i principi fondamentali di legalità, imparzialità e buon andamento che devono caratterizzare l'azione amministrativa.
D'altronde l'obbligo di motivazione -precisano i giudici di Palazzo Spada- è rintracciabile nello stesso Dpr 158/1999, che nel disciplinare il calcolo della tariffa per le utenze non domestiche consente ai Comuni di determinare la parte fissa e variabile della tariffa «nell'ambito degli intervalli indicati».
Proprio questo potere di scelta da un minimo a un massimo imponeva all'ente locale l'obbligo di motivare le ragioni dell'opzione sui coefficienti massimi, non essendovi peraltro alcun elemento idoneo a rendere comprensibile il percorso logico seguito dall'amministrazione.
Il principio sancito dal Consiglio di Stato, applicabile a tutti i Comuni che applicano la Tia e a quelli in regime Tarsu che utilizzano il metodo normalizzato, potrebbe avere riflessi anche in sede di prima applicazione del nuovo tributo Res, in caso di mancata adozione del regolamento statale previsto dall'articolo 14 del Dl 201/2011 (articolo Il Sole 24 Ore del 04.02.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATASanatoria edilizia: assolvimento dell'onere probatorio in ordine alla data di realizzazione dell'abuso.
L’onere della prova circa la data di realizzazione di un immobile abusivo spetta a chi ha commesso l’abuso (cfr. Cons. Stato Sez. VI 06.05.2008 n. 2010; idem Sez. V 12.10.1999 n. 1440) e nel caso all'esame il Collegio rileva che la parte appellante offre sì alcuni elementi di giudizio che (a suo avviso) indurrebbero a far ritenere come ultimati i lavori edilizi entro la data del 31.12.1993, ma le circostanze dedotte (tra cui quella della testimonianza di un eremita) appaiono insufficienti e comunque non hanno consistenza tale da provare l’asserita esecuzione delle opere nel periodo utile alla sanatoria e comunque sono recessive rispetto alle risultanze emergenti dagli accertamenti degli organi preposti alla vigilanza e alla tutela dell’assetto del territorio che, al contrario forniscono elementi e dati indicativi di una diversa data di esecuzione del prefabbricato per cui è causa (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.01.2012 n. 478 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIE' improcedibile il ricorso avverso l'aggiudicazione provvisoria quando il ricorrente ha avuto piena conoscenza dell'aggiudicazione definitiva e non ha provveduto ad impugnarla.
E' da valutare improcedibile il ricorso avverso l'aggiudicazione provvisoria qualora non sia stata impugnata l'aggiudicazione definitiva, con conseguente consolidarsi degli effetti di quest’ultima, ma purché della stessa la parte ricorrente abbia avuta cognizione, sussistendo un onere per le stazioni appaltanti di portare gli esiti delle procedure di gara a conoscenza dei concorrenti per mezzo di apposite comunicazioni.
L’obbligo di effettuazione di detta comunicazione è prevista dall'art. 79, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006, senza però che sia specificato cosa debba intendersi per piena conoscenza. Ai fini della definizione della sollevata eccezione occorre dunque precisare il concetto di "piena conoscenza" rilevante ai fini del decorso del termine di decadenza, e successivamente valutare se nella fattispecie concreta lo stesso si sia configurato in occasione della avvenuta comunicazione del provvedimento di aggiudicazione definitiva (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.01.2012 n. 467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La funzione prevalente della normativa dettata dal d.lgs. n. 163/2006, comporta che le relative disposizioni entrano a far parte della lex specialis della gara senza necessità che la cogenza delle prescrizioni venga prevista nel bando o nel disciplinare
Sul rimedio della regolarizzazione documentale di cui all'art. 46 del d.lgs. n. 163/2006.

Il bando e il disciplinare di gara assolvono la funzione precipua di dettare il regolamento della gara e, in quanto "lex specialis" della procedura di selezione, impongono all'Amministrazione la stretta osservanza delle relative prescrizioni, poste, da un lato, a presidio dell'interesse specifico della stazione appaltante e, dall'altro, a tutela dell'interesse degli altri soggetti partecipanti alla gara alla correttezza dell'intero procedimento di aggiudicazione e al rispetto della "par condicio".
Di norma, quando la "lex specialis" della gara non riproduca una norma imperativa dell'ordinamento giuridico soccorre al riguardo il meccanismo di integrazione automatica, sicché, analogamente a quanto avviene nel diritto civile ai sensi degli art. 1374 e 1339, c.c., si colmano in via suppletiva le eventuali lacune del provvedimento adottato. In particolare la funzione prevalente della normativa dettata in materia dal d.lgs. n. 163/2006 comporta che le relative disposizioni entrano a far parte della "lex specialis" della procedura di evidenza pubblica, senza necessità che la cogenza delle relative prescrizioni venga prevista nel bando o nel disciplinare.
Ne deriva l'automatica applicabilità dell'art. 41, c. 3, del d.lgs. n. 163/2006, nel senso che il beneficio della possibilità di provare altrimenti detto requisito deve ritenersi operante indipendentemente da un'espressa previsione da parte della "lex specialis" di gara.
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Il rimedio della regolarizzazione documentale di cui all'art. 46, del d.lgs. n. 163/2006, non si applica al caso in cui l'impresa concorrente abbia integralmente omesso di presentare la documentazione la cui produzione è richiesta a pena di esclusione; solo qualora la documentazione prodotta da un concorrente ad una pubblica gara sia presente, ma carente di taluni elementi formali, di guisa che sussista un indizio del possesso del requisito richiesto, l'Amministrazione non può pronunciare l'esclusione dalla procedura, ma è tenuta a richiedere al partecipante di integrare e chiarire il contenuto di un documento già presente, costituendo siffatta attività acquisitiva un ordinario "modus procedendi", ispirato all'esigenza di far prevalere la sostanza sulla forma.
In sostanza, solo quando il documento è già stato presentato in sede di gara, anche se parzialmente, deve ritenersi consentita la sua regolarizzazione se la violazione è squisitamente formale ed il rimedio, in concreto, non altera la "par condicio" tra i concorrenti.
Pertanto nel caso di specie, in cui la dichiarazione della seconda banca attestante la capacità economica e la solvibilità di detta società non era stata presentata, comunque la Amministrazione non avrebbe potuto far ricorso all'istituto della integrazione documentale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.01.2012 n. 467 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sul giudizio di congruità dell'offerta economica.
La motivazione del giudizio di congruità dell'offerta economica non richiede un esame analitico delle voci esposte, dovendo lo stesso svolgersi con riguardo all'offerta nel suo complesso e, in un' ottica di contemperamento con le esigenze di celere definizione della procedura di affidamento, anche attraverso un mero richiamo agli elementi offerti al riguardo dall'impresa concorrente nel contradditorio con la stazione appaltante (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.01.2012 n. 460 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

LAVORI PUBBLICI: In tema di procedura di project financig .
Nel procedimento di project financing, articolato in più fasi, la prima delle quali si conclude con la scelta, da parte della stazione appaltante, del promotore, l'atto di scelta del promotore determina una immediata posizione di vantaggio per il soggetto prescelto e un definitivo arresto procedimentale per i concorrenti non prescelti; tale atto è pertanto lesivo e deve essere immediatamente impugnato dai concorrenti non prescelti, senza attendere l'esito degli ulteriori subprocedimenti di aggiudicazione della concessione (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 28.01.2012 n. 1 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATACostruzioni in aderenza e problematiche connesse alle previsioni urbanistiche del p.r.g..
Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato ha fatto proprio l'orientamento secondo cui “la previsione urbanistica del p.r.g. secondo cui nella zona destinata alla costruzione di case a schiera non sono stabiliti limiti di distanza tra edifici, non trova applicazione ove nel fondo finitimo preesista un edificio non posizionato sul confine, non essendo ipotizzabile, in tale evenienza, l'edificazione in aderenza, secondo la tipologia delle costruzioni a schiera, senza alcun titolo pattizio.” (Consiglio Stato, sez. V, 08.02.1991, n. 114).
D’altro canto, la giurisprudenza civilistica è attenta nel contenere l’applicabilità del principio della “prevenzione” in termini analoghi a quelli applicati (reiettivamente) dall’amministrazione comunale, essendosi in proposito rilevato che “In tema di distanze nelle costruzioni, qualora gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di costruire «in aderenza» od «in appoggio», la preclusione di dette facoltà non consente l'operatività del principio della prevenzione; nel caso in cui, invece, tali facoltà siano previste, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli art. 873 e ss. c.c., con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza -eventualmente esercitando le opzioni previste dagli art. 875 e 877, comma 2, c.c.- , ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico.” (Cassazione civile, sez. II, 09.04.2010, n. 8465).
La giurisprudenza della Sezione ha affermato costantemente analoghi principi (ex multis: “il principio della prevenzione ex art. 873 e ss. c.c. trova applicazione non soltanto nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, ma altresì in quelli nei quali gli strumenti urbanistici non vietino l'edificazione sul confine: in questo caso, dunque, essendo ammessa la costruzione in aderenza, a chi edifica per primo sul fondo contiguo ad altro spettano tre diverse facoltà: in primo luogo, quella di costruire sul confine; in secondo luogo, quella di costruire con distacco dal confine, osservando la distanza minima imposta dal codice civile ovvero quella maggiore distanza stabilita dai regolamenti edilizi locali; ed infine quella di costruire con distacco dal confine a distanza inferiore alla metà di quella prescritta per le costruzioni su fondi finitimi, facendo salvo in questa evenienza la facoltà per il vicino, il quale edifichi successivamente, di avanzare il proprio manufatto fino a quella preesistente, previa corresponsione della metà del valore del muro del vicino e del valore del suolo occupato per effetto dell'avanzamento della fabbrica.” (Consiglio Stato, sez. IV, 04.02.2011, n. 802) (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.01.2012 n. 414 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAlcuni principi in tema di rapporti tra giudizio penale e giudizio amministrativo:
- la sentenza resa in un giudizio penale vincola il giudice amministrativo in ordine all’accertamento del fatto in sé, come realtà storica;
- la sentenza penale non vincola il giudice amministrativo, invece, per quel che riguarda l’antigiuridicità di tale fatto, poiché l’ambito dell’accertamento è diverso (il primo riguarda il reato, il secondo la correttezza dell’azione amministrativa);
- alla PA, che non sia stata parte in causa nel giudizio penale (come parte civile), la sentenza penale non è opponibile: sicché, ove il giudizio amministrativo in cui la PA sia parte riguardi i fatti materiali oggetto della sentenza penale, questa non vincolerà il giudice amministrativo nella risoluzione della questione.

È noto, infatti, l’ampio orientamento giurisprudenziale incline a ritenere che la sentenza penale di assoluzione faccia stato nel giudizio amministrativo esclusivamente quanto ai fatti materiali che vi si affermano avvenuti o non avvenuti e che sono stati oggetto del giudizio penale, ai sensi dell'art. 654 c.p.p. (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 02.08.2010 n. 5085, VI 02.10.1991, n. 600, Cass. Civ. Sez. III 02.08.2004, n. 14770), e non anche quanto alla qualificazione dell'antigiuridicità, evidentemente operata ai soli effetti della sussistenza del reato imputato, rispetto alla quale il giudice amministrativo non è condizionato dalla pronuncia penale resa sugli stessi fatti materiali (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 31.01.2006, n. 357).
D’altro canto, non può neppure sottacersi che, ai sensi degli artt. 652 c.p.p. e 24 Cost., il giudicato penale di cui trattasi non appare comunque opponibile all'intimata amministrazione comunale, che non risulta costituita parte civile nel relativo processo (mentre, come noto, il rispetto del principio generale del contraddittorio, impone che l'amministrazione si sia costituita parte civile nel giudizio penale, e che, in ogni caso, tutte le parti del giudizio, civile o amministrativo, nei cui confronti si vuol far valere l'autorità di cosa giudicata, siano state parti del giudizio penale (cfr. sul punto TAR Liguria Genova, sez. I, 22.04.2011, n. 666; TAR Molise Campobasso, sez. I, 23.09.2009, n. 661; TAR Napoli, 30.04.2009, n. 2225; Consiglio di Stato, 07.03.2008, n. 1009) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.01.2012 n. 296 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICILa P.A. gode di ampia discrezionalità nella localizzazione di un'opera pubblica.
La localizzazione di opera pubblica costituisce oggetto di una scelta ampiamente discrezionale che può soggiacere soltanto ad un tipo di sindacato giurisdizionale cd. debole, e cioè ad una verifica che concerna esclusivamente gli eventuali profili di irragionevolezza palese della scelta ovvero di scelta fondata su un presupposto di fatto erroneo (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.01.2012 n. 351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI - URBANISTICASolo per macroscopici vizi di logicità il giudice può cassare la decisione adottata dalla P.A. di fare una strada che attraversa una proprietà privata.
La previsione di una strada che attraversa un'ampia area di proprietà privata dividendola in due parti, riflette delle scelte di merito dell'amministrazione comunale funzionali al nuovo sistema viario programmato che, in quanto tale, sono sindacabili in sede giurisdizionale solo in presenza di macroscopici vizi di logicità (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.01.2012 n. 351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISolo la reale esistenza di condanne penali e non la mancata allegazione di autocertificazione sulla loro esistenza determina l'esclusione dalla gara.
L’esclusione dalla gara può essere disposta laddove sia constatata la reale esistenza di condanne penali, piuttosto che per la mancata allegazione di autocertificazione sulla esistenza delle predette condanne.
Ciò in quanto il combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 38 d.lgs n. 163/2006 deve essere inteso nel senso che anche in caso di radicale omissione della dichiarazione di cui al comma 1, solo ove sussistano in concreto le ragioni ostative alla partecipazione l’impresa non va ammessa a gara (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.01.2012 n. 349 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIModalità di valutazione delle offerte anormalmente basse.
Devono considerarsi anormalmente basse le offerte che si discostino in modo evidente dai costi medi del lavoro indicati nelle dette tabelle, predisposte dal Ministero del Lavoro in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva, costi medi che costituiscono non parametri inderogabili, ma indici del giudizio di adeguatezza dell'offerta, con la conseguenza che è ammissibile l'offerta che da essi si discosti, purché lo scostamento non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori così come stabilito in sede di contrattazione collettiva.
Invero, neppure la tabella ministeriale assume valore di parametro assoluto ed inderogabile, ma è suscettibile di scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali svolte dall'offerente, che evidenzino una particolare organizzazione aziendale; cosicché è rimessa alla stazione appaltante la valutazione della congruità e dell'affidabilità dell'offerta, in caso di sensibile scostamento, mediante il procedimento di verifica delle anomalie, in linea con il principio codificato dall'art. 55 della direttiva 31.03.2004 n. 2004/18/CE — secondo cui i concorrenti devono avere la possibilità di dimostrare in concreto qualunque circostanza (di diritto e di fatto) che permetta la riduzione dei costi (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.01.2012 n. 343 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINon e' sanabile l'omessa allegazione di documenti previsti a pena di esclusione dalla gara.
Per consolidato insegnamento giurisprudenziale in ordine all’istituto del c.d. dovere di soccorso codificato dall’art. 46 d.lgs. n. 163/2006, l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può considerarsi alla stregua di un'irregolarità sanabile, e, quindi, non ne è permessa l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali: e ciò tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara.
In presenza di una prescrizione chiara un’ammissione alla regolarizzazione costituirebbe una violazione della par condicio fra i concorrenti. La richiesta di regolarizzazione, pertanto, non può essere formulata per permettere l’integrazione di documenti che, in base a previsioni univoche del bando o della lettera di invito, avrebbero dovuto essere prodotti a pena di esclusione (C.G.A., n. 802 del 2006; C.d.S., IV, n. 4560 del 2005 e n. 2254 del 2007).
Quanto all’elaborazione giurisprudenziale in tema di c.d. “falso innocuo”, infine, la stessa ha riguardo all’ipotesi in cui il partecipante sia in possesso di tutti i requisiti sostanziali richiesti, e nel contempo, però, la lex specialis non preveda espressamente la pena dell’esclusione in relazione alla mancata osservanza delle prescrizioni da essa recate sulle modalità e sull’oggetto delle dichiarazioni da fornire, ma faccia solo un generico richiamo all’assenza delle cause impeditive di cui all’art. 38 d.lgs. n. 163/2006.
E’ solo a queste condizioni, quindi, che l’omissione non produrrebbe alcun pregiudizio agli interessi presidiati dalla norma ma ricorrerebbe un’ipotesi di mero "falso innocuo", in quanto tale insuscettibile di fondare l’esclusione (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.01.2012 n. 334 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa qualità di proprietario o detentore dell'area non basta per radicare in capo a questi l'onere della rimozione e smaltimento dei rifiuti pericolosi.
Ai fini dell'individuazione del responsabile dell'abbandono dei rifiuti pericolosi, relativamente al presupposto individuato nella detenzione dell’area, il Consiglio di Stato ha evidenziato come siffatto titolo di disponibilità, pur essendo sufficiente in astratto a radicare in capo alla ricorrente l’onere di rimozione dei rifiuti (cfr. Consiglio di Stato, IV, 13.01.2010, n. 84), va coordinato con i principi affermati dalla costante giurisprudenza che ha ritenuto “illegittimi gli ordini di smaltimento di rifiuti abbandonati in un fondo che siano indiscriminatamente rivolti al proprietario [o detentore] del fondo stesso in ragione della sua sola qualità, ma in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell’amministrazione procedente, sulla base di un’istruttoria completa e di un’esauriente motivazione (quand’anche fondata su ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime d’esperienza), dell’imputabilità soggettiva della condotta” (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.01.2012 n. 333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il comune paga cara la lentezza. Piano regolatore in ritardo: 50 euro al giorno al cittadino. Il Tar Puglia fa scattare l'astreinte per spingere il Consiglio a deliberare più in fretta.
L'inerzia del comune? Costa 50 euro al giorno alla stessa amministrazione, e dunque alla collettività, da pagare interamente al cittadino che aspetta invano un provvedimento. Il tutto perché l'ente non si adegua a una sentenza del giudice amministrativo che ordina la ritipizzazione di alcuni terreni di proprietà di una famiglia (pensiamo, per esempio, al suolo agricolo che deve diventare edificabile) e lascia spirare invano il termine fissato dal magistrato. Il compito non è semplice: per integrare lo strumento urbanistico vigente deve deliberare il Consiglio comunale e, sempre più spesso, i tempi della politica non coincidono con quelli dell'economia. Ma da oggi in poi le amministrazioni dovranno farsi due conti: se per ogni giorno di ritardo sul provvedimento tardivo l'ente ci rimette 50 euro di penalità di mora in favore della persona interessata, si fa presto ad arrivare a grosse cifre, specialmente se si considera quanti sono i cittadini in attesa che l'amministrazione ottemperi a una sentenza di condanna.
È quanto emerge dalla sentenza 26.01.2012 n. 254 della III Sez. del TAR Puglia-Bari.
Nel processo amministrativo, sostiene il Tar, la nozione di astreinte, la penalità di mora mutuata dal diritto francese, ha un'accezione più ampia che nel civile, dove pure non è possibile surrogarsi al debitore inadempiente: nel caso degli enti, invece, è possibile nominare il commissario ad acta da parte del giudice dell'ottemperanza. Il termine entro cui il comune di Bari avrebbe dovuto adempiere all'ordine della magistratura amministrativa è scaduto da tempo.
Allora la famiglia titolare del terreno che ha diritto alla variazione di tipologia del suolo promuove il giudizio di ottemperanza e ottiene di nuovo ragione. Ragione che, tuttavia, rischia di rimanere del tutto teorica, come in occasione della vittoria precedente. E allora il Tar nomina un commissario ad acta che si sostituisca eventualmente all'amministrazione in caso di nuova inerzia, stabilendo la penalità di mora di 50 euro da pagare in favore degli interessati per ogni giorno di ritardo nell'adempimento rispetto alla scadenza prefissata di 60 giorni.
La condanna è legittimata dall'articolo 114, comma 4, lettera e), del codice del processo amministrativo che ha mutuato dal codice di procedura civile la nozione di penalità di mora, ampliando la portata di un istituto a sua volta ispirato alla tradizionale astreinte del diritto transalpino. Risultato? Si tratta di una spinta forzosa che ha un carattere punitivo e impone la sussistenza di tre requisiti: la richiesta di parte, la manifesta non iniquità dell'eventuale «multa», l'assenza di altri motivi ostativi.
In comune con l'astreinte «gemella» nel settore civile la penalità di mora ha generale finalità di dissuadere il debitore dal persistere nella mancata attuazione del dovere di ottemperanza. Nel caso del Comune di Bari le condizioni imposte dal codice del processo amministrativo ricorrono tutte e tre: che sia il commissario ad acta o il Consiglio a provvedere, bisogna far presto (articolo ItaliaOggi del 02.02.2012 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIPossibile l'integrazione documentale salvo che i documenti non siano previsti dal bando a pena di esclusione.
La possibilità di integrazione della documentazione incompleta trova il proprio limite nel solo caso in cui la detta documentazione fosse prevista in maniera univoca dal bando a pena di esclusione dal procedimento.
In particolare, il predetto potere di integrazione documentale deve essere esercitato da parte dell’amministrazione proprio nei casi in cui l’insufficienza della documentazione originariamente prodotta da parte dell’interessato non consenta di avere piena ed esatta contezza del possesso di un certo requisito da parte dello stesso (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 24.01.2012 n. 766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISolo l'accertamento tributario definitivo impedisce di partecipare alla gara.
L’accertamento della violazione degli obblighi tributari non è sufficiente affinché operino le preclusioni previste dal citato art. 38, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 163/2006 occorrendo, altresì, che tale accertamento sia divenuto definitivo per effetto della decorrenza del termine di impugnazione dell’atto stesso, senza che l’impresa abbia presentato ricorso, o di una pronuncia giurisdizionale che abbia acquisito autorità di cosa giudicata.
La normativa di riferimento, infatti, impedisce alle imprese di partecipare alle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, di essere affidatarie di subappalti, nonché di stipulare i relativi contratti solo a fronte di violazioni, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse.
Dunque, particolare rilievo assume l’espressa statuizione secondo la quale, le sanzioni previste operano solo in caso di accertamento definitivo delle violazioni de quibus (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.01.2012 n. 262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIImpossibile per l'aggiudicatario procedere al subappalto se in sede di offerta ha reso dichiarazioni irregolari o incomplete sulle opere che intende subappaltare.
Secondo il prevalente insegnamento della giurisprudenza amministrativa, l’eventuale irregolarità e/o incompletezza della dichiarazione resa in sede di offerta circa le opere, i servizi o le forniture che il concorrente intenda subappaltare non costituisce causa di esclusione dalla gara, ma semplicemente preclude a chi ne sia risultato aggiudicatario la possibilità, in fase dei lavori, di fare ricorso al subappalto.
E ciò sul rilievo per cui le condizioni per l’ammissibilità del subappalto, di cui all’art. 118 del d.lgs. nr. 163 del 2006, non appaiono intese (unicamente) a tutelare l’interesse dell’amministrazione committente all’immutabilità dell’affidatario, ma tendono invece a evitare che nella fase esecutiva del contratto si pervenga, attraverso modifiche sostanziali dell’assetto d’interessi scaturito dalla gara pubblica, a vanificare proprio quell’interesse pubblico che ha imposto lo svolgimento di una procedura selettiva e legittimato l’individuazione di una determinata offerta come la più idonea a soddisfare le esigenze della collettività cui l’appalto è preordinato (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.01.2012 n. 262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIVa riconosciuta alla stazione appaltante, nella fissazione dei criteri di valutazione delle offerte, una discrezionalità censurabile dal giudice amministrativo, nell'ambito del controllo di legittimità riservatogli dall’ordinamento, solo in presenza di palesi profili di illogicità o irrazionalità.
Si tratta di un principio consolidato in giurisprudenza ed a tenore del quale la scelta dei criteri più adeguati (tra quelli esemplificativamente indicati dall'art. 83, d.lgs. 12.04.2006, n. 163) per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, costituisce espressione tipica della discrezionalità della stazione appaltante e, impingendo nel merito dell'azione amministrativa, è sottratta al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, tranne che la stessa scelta -in relazione alla natura, all'oggetto e alle caratteristiche del contratto- non si riveli manifestamente illogica, arbitraria ovvero macroscopica viziata da travisamento di fatto, con la conseguenza che il giudice amministrativo non può sostituire con proprie scelte quelle operate dall'Amministrazione.

Al riguardo, il Collegio non può che richiamarsi -innanzitutto e in linea generale- alla giurisprudenza della Sezione (cfr., da ultimo: TAR Lombardia Brescia Sez. II, 01.08.2011, n. 1235) attestata nel senso di riconoscere alla stazione appaltante, nella fissazione dei criteri di valutazione delle offerte, una discrezionalità censurabile dal giudice amministrativo, nell'ambito del controllo di legittimità riservatogli dall’ordinamento, solo in presenza di palesi profili di illogicità o irrazionalità.
Si tratta di un principio consolidato in giurisprudenza (cfr. in tal senso: TAR Liguria, sez. II, 03.02.2010, n. 233) ed a tenore del quale la scelta dei criteri più adeguati (tra quelli esemplificativamente indicati dall'art. 83, d.lgs. 12.04.2006, n. 163) per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, costituisce espressione tipica della discrezionalità della stazione appaltante e, impingendo nel merito dell'azione amministrativa, è sottratta al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, tranne che la stessa scelta -in relazione alla natura, all'oggetto e alle caratteristiche del contratto- non si riveli manifestamente illogica, arbitraria ovvero macroscopica viziata da travisamento di fatto, con la conseguenza che il giudice amministrativo non può sostituire con proprie scelte quelle operate dall'Amministrazione (cfr. ad es. Consiglio Stato, sez. V, 19.11.2009, n. 7259) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 23.01.2012 n. 95 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La violazione del preavviso di rigetto non produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale.
Per giurisprudenza pacifica, la violazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 —che prevede, nei procedimenti ad istanza di parte la comunicazione, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, agli istanti dei motivi che ostano all'accoglimento della domanda— non può ritenersi tale da produrre ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto, essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies comma 2, che impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo; l'art. 21-octies rende, quindi, irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto per il fatto che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (da ultimo: TAR Lazio Roma, sez. III, 14.03.2011, n. 2253) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 20.01.2012 n. 41 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell'ipotesi di mancata esplicita definizione della domanda di condono, la formazione del silenzio-assenso, ai sensi dell'art. 35, l. 28.02.1985 n. 47, si ha dopo il termine di ventiquattro mesi decorrente dalla data nella quale viene depositata la documentazione completa a corredo della domanda di concessione in sanatoria.
Questo Tribunale ha più volte precisato che nell'ipotesi di mancata esplicita definizione della domanda di condono, la formazione del silenzio-assenso, ai sensi dell'art. 35, l. 28.02.1985 n. 47, si ha dopo il termine di ventiquattro mesi decorrente dalla data nella quale viene depositata la documentazione completa a corredo della domanda di concessione in sanatoria (per tutte, TAR Sardegna, Sez. II, 17.11.2010 n. 2600)
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 20.01.2012 n. 41 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPresupposti per la realizzazione di un'opera edilizia.
Quando si vuole ottenere l’assenso per la realizzazione di una opera edilizia occorre dimostrare innanzitutto di avere la disponibilità del suolo sul quale l’opera sarà realizzata (che costituisce quindi un presupposto della domanda di edificazione), allo stesso modo se si vuole realizzare un’opera (pubblica o di interesse pubblico) su un suolo gravato da usi civici occorre prima acquisire la disponibilità dell’area per potervi realizzare l’opera (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.01.2012 n. 255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl giudice amministrativo non può ingerirsi negli ambiti riservati alla discrezionalità tecnica dell'organo valutatore sostituendo il proprio giudizio a quello della Commissione di gara.
Le valutazioni tecniche relative alle offerte presentate nelle gare d'appalto sono caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dalla opinabilità dell'esito della valutazione.
Gli apprezzamenti in ordine all'(in)idoneità tecnica delle offerte dei vari partecipanti alla gara, dunque, in quanto espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale a carattere complesso, non possono essere sostituiti da valutazioni di parte circa la (in)sussistenza delle prescritte qualità, trattandosi di questioni afferenti al merito delle suddette valutazioni tecnico-discrezionali (C.d.S sez. V, 08.03.2011, n. 1464 ); e, in sede giurisdizionale, parimenti, sono sindacabili solo se affetti da macroscopici vizi logici, disparità di trattamento, errore manifesto, contraddittorietà ictu oculi rilevabile, rientrando tipicamente nel potere valutativo quello di ritenere migliore un’offerta rispetto ad un’altra (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 01.10.2010, n. 7262).
Ne consegue che il giudice amministrativo non può ingerirsi negli ambiti riservati alla discrezionalità tecnica dell'organo valutatore e, quindi, sostituire il proprio giudizio a quello della Commissione (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.01.2012 n. 249 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICANessun vincolo espropriativo sull'area privata deriva dalla sua destinazione ad attrezzature ricreative, sportive, e a verde pubblico.
La destinazione ad attrezzature ricreative, sportive, e a verde pubblico, ecc. data dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non comporta l'imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo, che è funzionale all'interesse pubblico generale conseguente alla zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che definisce i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.01.2012 n. 244 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nel corso della gara di appalto la stazione appaltante è vincolata alle risultanze del documento unico di regolarità contributiva (DURC) che fa piena prova fino a querela di falso.
Nelle gare di appalto pubblico, il documento unico di regolarità contributiva (DURC) rappresenta un documento necessario e sufficiente, dalle cui risultanze l'amministrazione non si può discostare, per cui nel caso di specie, era del tutto irrilevante, al fine della gara di appalto e del conseguente contenzioso, andare a verificare la veridicità dei documenti posti a fondamento del DURC medesimo. Se del caso, la falsità di tali documenti potrebbe rilevare in un diverso giudizio di risarcimento del danno tra privati, ma non nel giudizio amministrativo, in difetto di querela di falso.
Pertanto, non vi era alcun originario interesse, in capo alla società a visionare gli atti posti a fondamento del DURC, ai fini del giudizio davanti al Tribunale amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.01.2012 n. 201 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il pagamento dell'oblazione non può in alcun modo sostituire la domanda medesima.
La giurisprudenza ha precisato che il pagamento dell'oblazione non può in alcun modo sostituire la domanda medesima (TAR Toscana Firenze, sez. III, 13.05.2011, n. 872) osservando ad abundantiam che per accedere alla sanatoria edilizia è indispensabile che venga identificato l'oggetto, ossia la costruzione abusiva, che il richiedente si propone di legittimare; individuazione che il mero pagamento di una somma di denaro con bollettino postale non è idonea a fornire. Tale pagamento, su c/c destinato alle oblazioni per abusivismo edilizio, lascia intendere l'intenzione di oblare un qualche illecito di natura edilizia ma certamente non vale a determinare lo specifico abuso da condonare.
Per quanto libera possa intendersi la forma della domanda, essa nondimeno deve presentare gli elementi essenziali per renderla riconoscibile come tale e l'indicazione dell'oggetto è uno di questi elementi; va, quindi, escluso che il mero pagamento dell'oblazione effettuato entro il termine sia idoneo al "raggiungimento dello scopo" o valga "inequivocabilmente" a manifestare la volontà di chi ha effettuato il versamento di perseguire il condono dello specifico manufatto di cui si discute come sostiene la ricorrente. È unicamente con la domanda, tardivamente presentata in questo caso, che il ricorrente espone di aver realizzato un’opera abusiva, per il quale chiede di essere ammessa alla procedura di sanatoria, puntualizzandone ubicazione, datazione, dimensioni e dichiarandone la destinazione.
Tale domanda è, come rilevato dal Comune nell'atto impugnato, stata presentata oltre la scadenza del termine, della cui natura perentoria non può dubitarsi, stante il carattere eccezionale delle disposizioni sul condono (TAR Toscana Firenze, sez. III, 04.10.2010, n. 64295)
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 19.01.2012 n. 30 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’articolo 10-bis ha natura analoga all’articolo 7 della legge n. 241 del 1990, entrambe dirette a garantire la partecipazione del privato al procedimento e, pertanto, è soggetto all’ambito di applicazione dell’articolo 21-octies della stessa legge la quale rende irrilevante la violazione delle norme sulla partecipazione al procedimento e sulla forma dell'atto con riferimento agli aspetti vincolati dell’azione amministrativa nonché per il fatto che il contenuto dispositivo "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
L’articolo 10-bis ha natura analoga all’articolo 7 della legge n. 241 del 1990, entrambe dirette a garantire la partecipazione del privato al procedimento (Consiglio di stato, sez. V, 23.01.2008, n. 143) e, pertanto, è soggetto all’ambito di applicazione dell’articolo 21-octies della stessa legge la quale rende irrilevante la violazione delle norme sulla partecipazione al procedimento e sulla forma dell'atto con riferimento agli aspetti vincolati dell’azione amministrativa nonché per il fatto che il contenuto dispositivo "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato"
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 19.01.2012 n. 30 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sull'affidamento diretto di un servizio ad una società mista: il comune appaltante deve specificare l'oggetto sociale perseguito dalla costituenda società in quella determinata composizione sociale fin dall'indizione della gara.
La scelta del comune di eseguire direttamente un servizio assicura un corretto uso delle (sempre più scarse) risorse pubbliche a disposizione degli enti locali.

Il comune appaltante, per non eludere le regole del confronto concorrenziale, nell'affidare direttamente il servizio ad una società mista, fin dall'indizione della gara per l'individuazione del socio privato, deve specificare l'oggetto sociale perseguito dalla costituenda società in quella determinata composizione sociale, in guisa tale che la realizzazione, la modifica o il venire meno dell'oggetto e/o della sua composizione sociale condizionano non solo l'operatività della società ma, a monte, la partecipazione stessa del socio privato.
In definitiva seppure è vero che la società mista, al pari di qualsiasi altra impresa, segue la logica di mercato, nondimeno il rispetto delle regole previste per l'affidamento del servizio si riflettono dialetticamente, non solo (ovviamente) sul piano genetico, bensì (e soprattutto) su quello operativo.
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Lo svolgimento dell'attività amministrativa in forma societaria è tipica espressione di scelta discrezionale che deve essere sorretta da adeguata ponderazione degli interessi, anche economici, che inducono l'ente locale ad esternalizzare una funzione propria.
Viceversa l'esecuzione dell'attività istituzionale amministrativa da parte degli organi dell'ente locale, condensato nel caso di specie, con il neologismo "internalizzazione del servizio", è per così dire nell'ordine delle cose, ed, oltretutto, nella situazione contingente, assicura un corretto uso delle (sempre più scarse) risorse pubbliche a disposizione degli enti locali.
Del resto la scelta del comune di eseguire direttamente il servizio di riscossione dei tributi è eziologicamente riconducibile alla situazione deficitaria in cui versava il comune a causa dei gravi inadempimenti imputabili al socio industriale della società mista. Inadempimento e conseguente estromissione dal servizio del socio industriale che hanno di fatto comportato la decadenza dall'affidamento diretto del servizio alla società mista appositamente costituita per quello scopo (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 18.01.2012 n. 111 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIL'art. 21-octies della Legge n. 241/1990 sana il vizio di omessa comunicazione di avvio del procedimento in autotutela di annullamento della gara.
Nel giudizio in esame un'impresa dopo aver partecipato ad una licitazione privata indetta da una P.A. per la fornitura biennale di articoli di cancelleria ed essere risultata aggiudicataria si duole del provvedimento con il quale l’ente, prima della stipulazione del contratto, revocava la gara e ne disponeva la rinnovazione avendo appurato che vi era stata l’erronea ed illegittima pretermissione di alcune ditte che pure avevano ritualmente chiesto di essere invitate alla licitazione privata.
Il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza di primo grado che rigettava le doglianze dell'impresa aggiudicataria evidenziando, tra l'altro, come una volta appurato dall'ente il suddetto errore nell'invito, a quel punto l’annullamento della gara era un atto dovuto.
A tacer d’altro, non vi erano ancora aspettative consolidate di cui si dovesse tener conto con la conseguenza che avviso del Collegio non risulta integrata alcuna violazione delle regole del procedimento di autotutela, con particolare riferimento all’avviso di procedimento (art. 7, legge n. 241/1990) ed appare realizzata l’ipotesi prevista dall’art. 21-octies della legge 241/1990: ossia quella dell’atto che non poteva essere diverso da quello concretamente emanato, e che pertanto non può essere annullato per vizi di ordine meramente formale, inclusi quelli relativi alle regole sulla partecipazione (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 16.01.2012 n. 148 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATASono legittimati all'impugnazione coloro che possono lamentare una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell'intervento controverso.
In realtà -premesso che legittimazione ed interesse a ricorrere si esauriscono nella mera affermazione (e non nella prova) della necessità di tutela giurisdizionale derivante dalla lesione di un proprio interesse, perché legittimazione ed interesse non sono altro che modalità della domanda giudiziale, ma non attengono ancora al merito- si ritiene che non possa essere fondatamente messa in discussione la legittimazione a ricorrere per opere che vengono localizzate in territorio prossimo a quello di residenza.
Sono, infatti, “legittimati all'impugnazione coloro che possono lamentare una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell'intervento controverso” (T.r.g.a. Trento 46/2010), e la maggiore antropizzazione di vicolo Mozzoni –per quanto limitata a 12 famiglie in più che usufruiranno stabilmente della strada- generando l’obbligo per chi era già insediato sul territorio di dividere i servizi con i nuovi arrivati e di patire la presenza di altre fonti di rumori e polveri, porta a ritenere sussistente l’interesse al ricorso di chi agisce contro il provvedimento che ha permesso la realizzazione delle nuove opere (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.01.2012 n. 61 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn un contesto di legislazione regionale concorrente quale quella sulla materia “governo del territorio” ex art. 117, co. 3, Cost., nel territorio della regione Lombardia le disposizioni dell’art. 9 l. 122/1989 devono essere lette in uno con quelle degli artt. 66 e 67 l.r. 12/2005 che permettono espressamente la realizzabilità del parcheggio pertienenziale anche in favore di unità immobiliari non site nel luogo in cui viene realizzato il parcheggio e “senza limiti di distanza dalle unità immobiliari cui sono legati da rapporto di pertinenza, purché nell'ambito del territorio comunale o in comuni contermini”.
L'art. 9 l. 122/1989 si limita a dire che la deroga di cui alla l. 122/1989 riguarda soltanto la sfera urbanistica, ma non quella del paesaggio e dell’ambiente, ma non preclude di svolgere opere su beni vincolati, qualora vi sia la relativa autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.

Sui motivi del secondo ricorso per motivi aggiunti relativi all’utilizzo della procedura in deroga agli strumenti di piano della c.d. legge Tognoli.
Nessuno dei motivi di ricorso proposto sul punto può essere accolto, in quanto:
- in ordine alla necessità dell’approvazione del Consiglio comunale ex art. 40 l.r. 12/2005 per ammettere la deroga urbanistica, si tratta di norma non pertinente al caso in esame in cui la deroga urbanistica deriva direttamente dalla legge, e non deve passare attraverso una valutazione dell’amministrazione che sia espressione di discrezionalità amministrativa; la previsione dell’art. 40 serve, infatti, a garantire che il Consiglio comunale, titolare della potestà di pianificazione, non venga scavalcato dall’organo amministrativo attraverso lo strumento del permesso di costruire in deroga, e riporta pertanto l’amplissima discrezionalità che caratterizza l’attività di pianificazione in capo al suo organo istituzionalmente titolare; nel caso in esame, la deroga non deve passare attraverso nessuna valutazione di ampia discrezionalità, perché prevista direttamente dal legislatore, che la giustifica con lo scopo di aumentare la dotazione di parcheggi privati che alleggeriscano il carico urbanistico delle autovetture in aree già ampiamente urbanizzate ed il degrado ambientale prodotto dalla sosta degli autoveicoli nei centri urbani; siamo pertanto completamente fuori dell’ambito della previsione dell’art. 40 l.r. 12/2005;
- in ordine alla asserita violazione dell’art. 9 l. 122/1989 in quanto la deroga viene giustificata con lo scopo di realizzare parcheggi pertinenziali, ma questi saranno in realtà venduti sul libero mercato, va precisato che –in un contesto di legislazione regionale concorrente quale quella sulla materia “governo del territorio” ex art. 117, co. 3, Cost.- nel territorio della regione Lombardia le disposizioni dell’art. 9 l. 122/1989 devono essere lette in uno con quelle degli artt. 66 e 67 l.r. 12/2005 che permettono espressamente la realizzabilità del parcheggio pertienenziale anche in favore di unità immobiliari non site nel luogo in cui viene realizzato il parcheggio e “senza limiti di distanza dalle unità immobiliari cui sono legati da rapporto di pertinenza, purché nell'ambito del territorio comunale o in comuni contermini” (e ciò a prescindere quindi dalla innovativa lettura della stessa normativa statale proposta da Cons. Stato, IV, 1842/2010, citata dalla difesa del Comune, che avvicina il regime di commerciabilità dei parcheggi realizzati ai sensi del co. 1 a quelli di cui al co. 4 dell’art. 9);
- in ordine alla asserita violazione dell’art. 9 l. 122/1989 che non consentirebbe la procedura di deroga alle norme di piano in presenza di vincoli monumentali, come quello di specie, si ritiene che la lettura della norma proposta dai ricorrenti non sia corretta, in quanto la norma in esame si limita a dire che la deroga di cui alla l. 122/1989 riguarda soltanto la sfera urbanistica, ma non quella del paesaggio e dell’ambiente, ma non preclude di svolgere opere su beni vincolati, qualora vi sia la relativa autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del vincolo;
- in ordine alla asserita violazione dell’art. 9 l. 122/1989 che consentirebbe la deroga solo quando non vi sia contrasto con l’uso delle superfici soprastanti (contrasto che vi sarebbe nel caso di specie in quanto l’art. 63 n.t.a. prevede che nelle zone A2 R1 è ammesso solo il restauro ed il risanamento conservativo e l’art. 67 n.t.a. prevede mantenimento, piantumazioni e pavimentazioni tradizionali), in realtà la generica indicazione dell’inciso contenuto nell’art. 9 “tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante” non è utilizzabile nel senso prospettato dai ricorrenti, perché se si imponesse il rispetto delle norme di piano relative alla superficie dove deve sorgere l’opera si ripristinerebbe la necessità di quella conformità urbanistica che pure la stessa disposizione deroga esplicitamente
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.01.2012 n. 61 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sull'illegittimità dell'affidamento in house del servizio trasporto infermi ad una società consortile interamente pubblica, in quanto da alcune previsioni statutarie, emerge la vocazione commerciale della società consortile.
E' illegittimo l'affidamento in house del servizio trasporto infermi disposto da un'Azienda Ospedaliera Universitaria ad una società consortile interamente pubblica statutariamente costituita tra la Regione e le Aziende del S.S.R., in quanto da alcune previsioni statutarie, emerge la vocazione commerciale della società consortile, vocazione commerciale che, rende precario il controllo (analogo) dell'ente pubblico.
In particolare, le disposizioni statutarie e della convenzione che mirano a consentire l'utilizzo del personale per finalità ed "attività ulteriori" rispetto a quelle del servizio di emergenza-trasporto 118 rispondono all'esigenza di "portare ricavi ulteriori", al fine ultimo di mantenere i livelli occupazionali dei dipendenti della società. L'affidamento in house, è stato scelto non tanto e non solo per le asserite ragioni di economicità del servizio ma anche per trovare "una soluzione interna per venire a capo della grave situazione creata dalla travagliata vicenda del rapporto convenzionale con la Croce Rossa e con la SISE s.p.a., sfociata in un contenzioso ormai inestricabile e gravissimo ed in una sostanziale bancarotta della società".
Questa ulteriore finalità ha comportato un ampliamento dell'oggetto sociale e dei soggetti destinatari dei servizi, con conseguente acquisizione da parte della società di una vocazione commerciale, perdita del controllo analogo ed allentamento del nesso di strumentalità dell'attività sociale con le esigenze pubbliche degli enti controllanti.
Pertanto, per affermare l'effettività del cd. controllo analogo, condizione necessaria ai fini della legittimità di un affidamento in house, la società affidataria non può acquisire una vocazione commerciale tale da rendere precario il controllo dell'ente pubblico (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 13.01.2012 n. 44 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il comune non può adottare provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi prima di aver definito il procedimento di concessione in sanatoria.
Per giurisprudenza consolidata, l'Autorità comunale non può adottare provvedimenti sanzionatori (nella fattispecie, di carattere ripristinatorio) di abusi edilizi prima di aver definito, con pronuncia espressa e motivata, il procedimento di concessione in sanatoria, in quanto in caso di eventuale sussistenza della conformità dell’abuso alla disciplina urbanistica la pronuncia positiva sarebbe inutiliter data e gravemente illegittima risulterebbe la demolizione o il ripristino del bene.
In definitiva, una volta presentata un'istanza di concessione in sanatoria o di condono edilizio, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima ed in pendenza del relativo procedimento, ne consegue l'illegittimità dell'adozione di un provvedimento sanzionatorio repressivo, essendo l'Autorità urbanistica venuta meno all'obbligo su di lei incombente di determinarsi sull'istanza medesima prima di procedere all'irrogazione delle sanzioni definitive; e, ciò per non correre il rischio che, portata ad esecuzione l'ingiunzione a demolire o a ridurre in pristino stato, risulti vanificato un eventuale provvedimento di accoglimento dell'istanza di concessione in sanatoria per la conseguente impossibilità di restituire alla legalità un'opera non più esistente (in termini, da ultimo, TAR Sardegna, Sez. II, 02.09.2011 n. 914) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 13.01.2012 n. 16 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Tra gli obblighi dell’appaltatore rientra il controllo sulla validità tecnica del progetto approvato dal committente.
Nell’appalto pubblico, come in quello privato, rientra tra gli obblighi di diligenza dell’appaltatore esercitare il controllo sulla validità tecnica e la completezza del progetto approvato dal committente, in quanto il risultato promesso, che contraddistingue l’obbligazione dell’impresa, dipende dalla corretta progettazione, oltre che dall’esecuzione dell’opera (Tribunale Napoli, VI, 21.04.2009; Tribunale Piacenza, 23.02.2010, n. 108) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.01.2012 n. 28 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il persistente obbligo di demolire un edificio si estende agli interventi postumi accessori sul medesimo.
La ristrutturazione oggetto del gravato provvedimento accede ad immobile per il quale il Comune aveva denegato il condono edilizio e la Procura della Repubblica di Firenze, in data 13.10.2001, aveva ordinato la demolizione (ordine ripetuto con diffida del 28.04.2009 –documento n. 11 depositato in giudizio dal Comune-).
Invero l’edificio su cui è stata realizzata la copertura avrebbe dovuto essere demolito in esecuzione della sentenza della Corte d’Appello di Firenze n. 891 del 19.03.2001; la stessa Corte d’Appello, con ordinanza del 23.04.2009 (documento n. 10 depositato in giudizio), ha respinto l’istanza di revoca dell’ordine di demolizione.
Rileva altresì l’ordine di demolizione del Comune di Vaglia, datato 16.09.1998.
Pertanto, l’edificio su cui insiste l’opera oggetto dell’atto impugnato costituisce abuso edilizio non regolarizzato che avrebbe dovuto essere demolito in forza di provvedimenti giudiziari esecutivi ed in forza della citata ordinanza comunale di demolizione, la quale non è stata oggetto di pronuncia cautelare di sospensione degli effetti.
Né rileva la presentazione del ricorso avverso l’ordinanza stessa ed il connesso diniego di condono dell’edificio, in quanto la pendenza del gravame non vale di per sé a sospendere gli effetti degli atti impugnati.
In conclusione, la condizione di opera abusiva non sanata dell’edificio sul quale è stata posta la copertura de qua preclude qualsiasi intervento di manutenzione straordinaria o di ristrutturazione, in quanto gli interventi di trasformazione o modifica richiedenti un titolo edilizio (riconducibili alla manutenzione straordinaria, al risanamento conservativo o alla ristrutturazione edilizia) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla quale ineriscono, con la conseguenza che il persistente obbligo di demolire l’edificio si estende agli interventi postumi accessori sul medesimo (TAR Campania, Napoli, VI, 03.12.2010, n. 26787) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.01.2012 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIModulistica errata della Stazione appaltante: il giudice amministrativo abilita il "fai da te".
L'esigenza di apprestare tutela all'affidamento inibisce alla stazione appaltante di escludere dalla gara pubblica un'impresa che abbia compilato l'offerta in conformità al facsimile all'uopo da essa stessa approntato, potendo eventuali parziali difformità rispetto al disciplinare costituire oggetto di richiesta di integrazione, atteso che nessun addebito poteva a detta impresa essere contestato per essere stata indotta in errore, all'atto della presentazione della domanda di partecipazione alla gara, dal negligente comportamento della stazione appaltante, che aveva mal predisposto la relativa modulistica (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.01.2012 n. 31 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE - URBANISTICAIl dies a quo per la determinazione dell'indennità in caso di pubblica utilità implicita decorre inderogabilmente dalla pianificazione attuativa.
Secondo il Consiglio di Stato il chiaro disposto dell’ultimo comma dell'art. 20 del d.P.R. nr. 327 del 2001, a mente del quale, qualora la dichiarazione di pubblica utilità sia implicita nell’approvazione di un piano esecutivo, il dies a quo del procedimento di determinazione dell’indennità corrisponde al momento dell’approvazione del piano di attuazione di questo, non vale a superare le doglianze ritenute pur comprensibili sul piano umano avanzate nel caso di specie dai ricorrenti che lamentano come in tal caso, dovendosi il piano esecutivo predisporsi entro 25 anni dall’approvazione del P.E.E.P., vi sia una indefinita deminutio di valore dei suoli in loro proprietà a fronte di una contropartita economica che, in considerazione della non verde età degli interessati, potrebbe intervenire in un momento in cui sarà inidonea a costituire seria e concreta utilità (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.01.2012 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici possono essere considerati pertinenza urbanistica.
Il ricorrente ha realizzato alcune opere abusive utilizzate per l’allevamento dei cavalli nonché per servizi vari funzionali all’attività allevatoriale e sportiva.
Il Comune constatato il loro carattere abusivo, per assenza del titolo edilizio, ne ordinava la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi con il provvedimento in epigrafe indicato.
...
Le opere abusive analiticamente descritte nell’ordinanza impugnata e nel verbale di accertamento degli abusi edilizi richiedevano il rilascio di un permesso di costruzione.
Infatti, le opere realizzate per le loro caratteristiche strutturali hanno un proprio impatto volumetrico e sono destinate ad usi di natura permanente, come dimostra la circostanza della loro presenza almeno ventennale. Inoltre, non sono affatto di modeste dimensioni sia considerate complessivamente sia considerate singolarmente, come emerge dal provvedimento impugnato.
Quindi, incidendo in modo permanente e non precario sull’assetto edilizio del territorio (cfr. Cons. Stato, sez. V, sent. 15.06.2000, n. 3321 che richiede la concessione anche per un container non infisso al suolo essendo destinato ad usi permanenti) sono assoggettabili a permesso di costruzione ed al conseguente regime demolitorio di cui all’articolo 7 della legge n. 47 del 1985, come esattamente rilevato dall’Amministrazione nel provvedimento impugnato (cfr. TAR Emilia-Romagna, sez. II, n. 463 del 14.04.2006; TAR Emilia-Romagna, sez. II, n. 681 dell'01/06/2006; TAR Emilia-Romagna, sez. II, n. 2970 del 13/11/2006).
Del resto le stesse non hanno natura pertinenziale.
Infatti, le opere edilizie in contestazione non hanno natura di pertinenza urbanistica, essendo suscettibili di un autonomo utilizzo, ed hanno un proprio impatto volumetrico. Quindi, incidendo in modo permanente e non precario sull’assetto edilizio del territorio (cfr. Cons. Stato, sez. V, sent. 15/06/2000, n. 3321 che richiede la concessione anche per un container non infisso al suolo essendo destinato ad usi permanenti; TAR per l’Emilia Romagna, sez. II, n. 463 del 14/04/2006; TAR per l’Emilia Romagna, sez. II, n. 16 dell'08/01/2004) sono assoggettabili, come sopra evidenziato, a permesso di costruzione con conseguente obbligo di demolizione, ai sensi dell’articolo 7 della legge n. 47 del 1985, in caso di realizzazione abusiva.
In proposito, infatti, costituisce un orientamento consolidato di questa sezione quello per cui il concetto di pertinenza urbanistica è diverso dal concetto di pertinenza civilistica. Infatti, la pertinenza urbanistica, assoggettata ad un regime edilizio particolarmente semplice e favorevole, riguarda soltanto opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici, e non può riguardare opere che dal punto di vista delle dimensioni e della funzione possono avere una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale. Nel caso in esame, tali requisiti non ricorrono in quanto le dimensioni e la destinazione dell’opera ne evidenziano l’autonoma rilevanza anche funzionale dal punto di vista edilizio con conseguente assoggettazione al regime del permesso di costruzione necessario per la sua realizzazione (TAR per l’Emilia Romagna, sez. II, n. 462 del 14/04/2006).
E’, inoltre, irrilevante l’epoca di realizzazione degli abusi edilizi in parola in quanto la repressione degli abusi edilizi costituisce un attività dovuta a carattere vincolato e non è soggetta a termini di prescrizione e decadenza (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 09.01.2012 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIMotivi di urgenza possono legittimare l'esecuzione immediata dei lavori prima dell'aggiudicazione definitiva.
La consegna anticipata dei lavori segue di norma l’aggiudicazione definitiva, ma oggettivi ed inequivocabili motivi di urgenza nella realizzazione dei lavori consentono la immediata esecuzione dei lavori stessi, sotto riserva di legge, anche dopo l’aggiudicazione provvisoria, e l’ipotesi è contemplata in sede di giurisprudenza amministrativa (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.01.2012 n. 12 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIEscussione della cauzione provvisoria in caso di esclusione dalla gara per mancanza dei requisiti richiesti.
L’esclusione della gara per l’accertata mancanza di uno dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa determina ai sensi dell’art. 48, comma 1, del Codice dei Contratti, l’escussione della cauzione provvisoria prestata e la segnalazione del fatto all’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici per i provvedimenti di cui all’art. 6, comma 11, dello stesso Codice.
Secondo il Consiglio di Stato anche a volere ammettere la non automaticità della misura dell’incameramento della cauzione in seguito ad un provvedimento di esclusione da una gara, la stessa non può essere comunque esclusa quando risulti accertata la carenza, sul piano sostanziale, dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa che l’impresa avrebbe dovuto possedere per partecipare alla gara.
Ferma restando l’autonomia della Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici nella determinazione delle ulteriori conseguenze della esclusione, anche a carattere sanzionatorio (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 04.01.2012 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sul divieto per le società che gestiscono servizi pubblici locali in virtù di affidamento diretto di "acquisire la gestione di servizi ulteriori" (art. 23-bis, c. 9, del d.l. 25.06.2008, n. 112).
L'art. 23-bis del d.l. 25.06.2008, n. 112, nel disciplinare i servizi pubblici locali di rilevanza economica ha introdotto al c. 9 il divieto per le società che gestiscono servizi pubblici locali in virtù di affidamento diretto ad "acquisire la gestione di servizi ulteriori".
Pertanto, nel caso di specie, è legittima la mancata aggiudicazione di una gara per l'affidamento, per un periodo di cinque anni, del servizio di raccolta e trasporto rifiuti urbani alle due società costituenti l'a.t.i. per non aver dimostrato, così come richiesto dalla stazione appaltante, l'intervenuta cessazione degli affidamenti diretti in corso mediante l'esibizione di una lettera liberatoria dei Comuni interessati (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 30.12.2011 n. 733 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAModalità di calcolo della misura dell'oblazione per il conseguimento della concessione in sanatoria.
La tabella allegata alla legge n. 47 del 1985 prevede che la misura dell’oblazione ai fini del condono sia determinata moltiplicando i metri quadrati delle opere abusive con un coefficiente che tiene conto delle caratteristiche dell’abuso e del periodo in cui esso è stato commesso; dal punto 1 al punto 7 sono previste diverse ipotesi, che sono state prese in considerazione dal legislatore a seconda della gravità dell’abuso, con la previsione di importi decrescenti in relazione alla tipologia dell’abuso, la cui fattispecie più grave è descritta proprio dal punto 1 per le “opere realizzate in assenza o difformità dalla licenza edilizia o concessione e non conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
Il successivo punto 4 prevede il pagamento di un diverso e minore importo, tra l’altro, per le “opere che abbiano determinato mutamento di destinazione d’uso” (definizione poi chiarita dall’art. 2, comma 53, della L. 23.12.1996, n. 662, secondo cui la tipologia dell’abuso di cui al predetto n. 4 della tabella “deve intendersi applicabile anche agli abusi consistenti in mutamenti di destinazione d’uso eseguiti senza opere edilizie”).
La giurisprudenza ha precisato che, ai fini della determinazione della misura dell'oblazione da corrispondere per il conseguimento della concessione in sanatoria, se sono realizzate opere in assenza o in difformità dalla concessione e non conformi alle previsioni dello strumento urbanistico, si applica il punto 1 tab. all. alla l. 28.02.1985 n. 47 (che si applica anche quando le opere comportano il solo aumento di cubatura); se le opere realizzate in difformità dalla concessione hanno determinato il mutamento della destinazione d'uso, si applica il solo punto 4 della tabella (Cons. Stato, V, n. 1247/1994). Nel caso attenzionato nella presente sentenza, si ricade in tale seconda ipotesi, trattandosi di opere realizzate in conformità alla concessione edilizia (che aveva autorizzato la costruzione di un capannone agricolo), ma con mutamento di destinazione d’uso.
Il chiaro tenore letterale della tabella non consente di distinguere all’interno dei cambi di destinazione d’uso, risultando quindi irrilevante l’originaria destinazione agricola del manufatto, invocata dal comune appellante ai fini del diverso calcolo della volumetria, dovendo applicarsi il punto 4 per ogni ipotesi di mutamento di destinazione d’uso senza incremento di cubatura (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.12.2011 n. 6984 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl concorrente legittimamente escluso dalla gara non può impugnare l'aggiudicazione.
Con la sentenza della Adunanza Plenaria n. 4 del 2011 è stato precisato che, nel caso in cui venga accertato che l'amministrazione ha legittimamente escluso dalla gara un concorrente, questi non conserva la legittimazione ad impugnare l'aggiudicazione al controinteressato.
Ciò in quanto la determinazione di esclusione non annullata cristallizza definitivamente la posizione sostanziale del concorrente, ponendolo nelle stesse condizioni di colui che sia rimasto estraneo alla gara. Sono quindi da ritenere improcedibili, per sopravvenuto difetto all'interesse, le doglianze mosse contro l'aggiudicazione di una gara ad altro concorrente, da parte della ditta nei cui confronti viene accertato che è stata legittimamente esclusa dalla gara.
Ciò anche se le concorrenti in gara siano solamente due, in quanto la riscontrata assenza di una posizione legittimante in capo al concorrente illegittimamente ammesso alla gara è stato ritenuto che determini il superamento della tesi proposta dalla decisione della A.P. del Consiglio di Stato n. 11/2008, secondo cui in tal caso esso conserverebbe interesse alla rinnovazione della procedura di gara (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.12.2011 n. 6965 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa P.A. nelle gare pubbliche può richiedere integrazioni documentali soltanto se esiste un indizio circa il possesso dei requisiti.
Il rimedio della regolarizzazione documentale, di cui all'art. 46, del d. lgs. n. 163/2006, non si applica al caso in cui l'impresa concorrente abbia integralmente omesso la produzione documentale prevista dall'art. 38 dello stesso d.lgs.; viceversa, qualora la documentazione prodotta dal concorrente ad una pubblica gara sia presente, ma carente di taluni elementi formali, di guisa che sussista un indizio del possesso del requisito richiesto, l'Amministrazione non può pronunciare l'esclusione dalla procedura, ma è tenuta a richiedere al partecipante di integrare e chiarire il contenuto di un documento già presente, costituendo tale attività acquisitiva un ordinario “modus procedendi”, ispirato all'esigenza di far prevalere la sostanza sulla forma.
Il rimedio della regolarizzazione postuma è attivabile solo nelle ipotesi di dichiarazioni, documenti e certificati non chiari o di dubbio contenuto, ma che siano pur sempre stati presentati, e non anche laddove si sia in presenza di documentazione del tutto mancante, risolvendosi in caso contrario in una palese violazione della par condicio rispetto alle imprese concorrenti che abbiano rispettato la disciplina prevista dalla "lex specialis" (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.12.2011 n. 6965 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL'annullamento dell'aggiudicazione non determina l'automatica inefficacia del contratto.
Dopo l'entrata in vigore delle disposizioni attuative della direttiva comunitaria 2007/66/Ce, ora trasfuse negli art. 121 e 122 del codice del processo amministrativo, in caso di annullamento giudiziale dell'aggiudicazione di una pubblica gara, spetta al G.A. il potere di decidere discrezionalmente (anche nei casi di violazioni gravi) se mantenere o meno l'efficacia del contratto nel frattempo stipulato; il che significa che l'inefficacia non è conseguenza automatica dell'annullamento dell'aggiudicazione, che determina solo il sorgere del potere in capo al Giudice di valutare se il contratto debba o meno continuare a produrre effetti (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.12.2011 n. 6965 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADeterminazione della misura delle distanze fra nuove costruzioni in mancanza di norme nel regolamento edilizio comunale.
In materia di distanze tra nuove costruzioni, quando il regolamento edilizio comunale presenta una lacuna normativa, la disciplina applicabile è quella contenuta nell'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942 che richiama l'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, ed ha natura di norma integrativa dell'art. 873 c.c..
In difetto di norme regolamentari, quindi deve applicarsi la norma del d.m. del 1968, n. 1444 (art. 9), concernente la distanza minima di dieci metri tra edifici finestrati e, per dato logico, in assenza di tali edifici, di 5 metri dal confine in quanto se e' pur vero che l’art. 9 citato è nella sua formulazione rivolto ad indirizzare la pianificazione urbanistica (formazione degli strumenti urbanistici), è altrettanto vero che in assenza di norme locali esso è direttamente applicabile in sede di rilascio degli assensi edilizi (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.12.2011 n. 6955 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIE' automatica l'esclusione dalla gara per l'impresa inaffidabile per gravi negligenze nell'esecuzione di precedenti contratti con la stessa P.A..
L'esclusione dalle gare pubbliche per inaffidabilità delle imprese concorrenti per grave negligenza e malafede commessa nel corso di esecuzione di precedenti contratti pubblici può essere pronunciata in termini di automaticità soltanto quando il comportamento di deplorevole trascuratezza e slealtà sia stato posto in essere in occasione di un pregresso rapporto negoziale intercorso con la stessa stazione appaltante che indice la gara.
In caso contrario, invece, il giudizio di inaffidabilità professionale su un'impresa partecipante ad una gara pubblica è subordinato alla preventiva motivata valutazione della stazione appaltante o della commissione giudicatrice, che è tenuta a valorizzare i precedenti professionali delle imprese concorrenti nel loro complesso, nonché a valutare gravità e rilevanza sul piano professionale di precedenti risoluzioni contrattuali comminate da altre Amministrazioni.
Ciò che rileva a detti fini è che l'errore ascritto sia espressione di un difetto di capacità professionale e lo stesso, nella sua obiettiva rilevanza, costituisca elemento sintomatico della perdita del requisito di affidabilità e capacità professionale a fornire prestazioni che soddisfino gli interessi di rilievo pubblico perseguiti dall'ente committente. La violazione deve quindi essere tanto grave da escludere l'affidabilità tecnico-professionale del potenziale aggiudicatario, tale da costituire violazione dei principi di correttezza e buona fede, determinando il venir meno della fiducia dell'amministrazione nella propria fornitrice e della possibilità futura del corretto svolgimento del rapporto contrattuale.
A tal fine, il concetto normativo di "violazione dei doveri professionali" abbraccia un'ampia gamma di ipotesi, riconducibili alla negligenza, all'errore ed alla malafede, purché tutte qualificabili "gravi" e richiede che la responsabilità risulti accertata e provata con qualsiasi mezzo di prova, sebbene senza la necessità di una sentenza passata in giudicato.
Pertanto nell'apprezzamento dell'errore grave nell'esecuzione di precedenti forniture si deve procedere in maniera particolarmente rigorosa, evidenziando tutti i profili di specificità che consentano di giustificare un giudizio complessivo di inaffidabilità e di incapacità tecnica dell'impresa che si intende escludere dalla gara.
E’ quindi all'Amministrazione aggiudicatrice che compete il potere di valutare la gravità delle infrazioni commesse, con riferimento alla specificità del rapporto, e reputare se sia conseguentemente venuto meno il rapporto fiduciario con la stessa impresa (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.12.2011 n. 6951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn caso di aggiudicazione a seguito di ricorso giudiziale il ricorrente ha il dovere di non concorrere ad aggravare il danno ritenendosi risarcibili soltanto mezzi e manodopera inutilizzati per altri lavori in quanto necessari a dar corso all'esecuzione dell'appalto oggetto del giudizio.
In sede di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata aggiudicazione di una gara di appalto, il mancato utile nella misura integrale spetta, nel caso di annullamento dell'aggiudicazione e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se il ricorrente dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione; in difetto di tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi e, pertanto, in tale ipotesi deve operarsi una decurtazione del risarcimento di una misura per l'"aliunde perceptum vel percipiendum”.
Deve inoltre evidenziarsi che ai sensi dell'art. 1227 c.c., il danneggiato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare il danno. Nelle gare di appalto, l'impresa non aggiudicataria, ancorché proponga ricorso e possa ragionevolmente confidare che riuscirà vittoriosa, non può mai nutrire la matematica certezza che le verrà aggiudicato il contratto, atteso che sono molteplici le possibili sopravvenienze ostative.
Pertanto, non costituisce, normalmente, e salvi casi particolari, condotta ragionevole immobilizzare tutti i mezzi di impresa nelle more del giudizio, nell'attesa dell'aggiudicazione in proprio favore, essendo invece ragionevole che l'impresa si attivi per svolgere altre attività (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.12.2011 n. 6951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In costanza di domanda di concessione in sanatoria diventano inefficaci le misure repressive.
La presentazione della domanda di rilascio di concessione in sanatoria per abusi edilizi impone al Comune la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi dell'abuso in precedenza adottati perdono efficacia.
Pertanto, in presenza della richiesta di rilascio della concessione in sanatoria, l'interesse all'appello già proposto avverso i detti atti repressivi assume natura recessiva con conseguente improcedibilità dello stesso (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.12.2011 n. 6938 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIOnere di immediata impugnazione delle clausole del bando sui requisiti di ammissione.
Come statuito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la decisione n. 1 del 2003, “nei pubblici appalti l’impugnazione delle clausole e delle regole della “lex specialis” della gara, diverse da quelle che impediscano la partecipazione, può essere effettuata contestualmente a quella dell’atto che determina per il concorrente l’esito negativo della procedura: l’unico interesse del concorrente è infatti quello al conseguimento della aggiudicazione, mentre va esclusa la sussistenza di un interesse autonomo alla legittimità delle regole e delle operazioni di gara”.
L’onere di impugnazione immediata riguarda cioè solo le clausole del bando di gara o della lettera invito concernenti i requisiti di ammissione alla procedura e che precludono la partecipazione alla selezione, mentre l’eventuale illegittimità di altre clausole può essere fatta valere in un momento successivo, con l’impugnazione del provvedimento di aggiudicazione (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.12.2011 n. 6937 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL'impresa esclusa non può impugnare gli esiti della gara se non ha impugnato l’atto di esclusione ovvero l'impugnazione sia stata respinta.
Con la recente decisione n. 4/2011, l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato ha avuto modo di precisare che in materia di pubblici appalti, per configurare una posizione sostanziale differenziata che radica la legittimazione al ricorso non è sufficiente il solo “fatto storico” della iniziale partecipazione alla gara, indipendentemente dalla successiva esclusione, oppure dall’accertamento della sua illegittimità.
La situazione legittimante costituita dall’intervento nel procedimento selettivo, infatti, deriva da una qualificazione di carattere normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla ritualità dell’ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto, la definitiva esclusione o l’accertamento della illegittimità della partecipazione alla gara impedisce di assegnare al concorrente la titolarità di una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare gli esiti della procedura selettiva. Tale esito rimane fermo in tutti i casi in cui l’illegittimità della partecipazione alla gara è definitivamente accertata, sia per inoppugnabilità dell’atto di esclusione, sia per annullamento dell’atto di ammissione.
L’Adunanza Plenaria, quindi, ha chiarito che, nel caso in cui l’amministrazione abbia escluso dalla gara il concorrente, questi non ha la legittimazione ad impugnare l’aggiudicazione al controinteressato, a meno che non ottenga una pronuncia di accertamento della illegittimità dell’esclusione. Infatti, la determinazione di esclusione, non impugnata o non annullata, cristallizza definitivamente la posizione sostanziale del concorrente, ponendolo nelle stesse condizioni di colui che sia rimasto estraneo alla gara.
Ne deriva, pertanto, che non spetta alcuna legittimazione a contestare gli esiti della gara al concorrente escluso dalla gara, che non abbia impugnato l’atto di esclusione o la cui impugnazione sia stata respinta (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.12.2011 n. 6934 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIFalse dichiarazioni o falsa documentazione nelle procedure di gara: il Consiglio di Stato chiarisce le novità introdotte con il Decreto sviluppo.
Il quadro normativo di riferimento, per effetto delle modifiche alla materia dei contratti pubblici introdotte dal D.L. 13.05.2011, n. 70 (c.d. “Decreto sviluppo”) e della relativa legge di conversione (L. 12.07.2011, n. 106), è profondamente mutato per quanto attiene alla comunicazione ai fini dell’inserimento nel Casellario Informatico delle esclusioni ex art. 38 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, nonché per l’annotazione di tutte le altre notizie ritenute utili. Infatti, la norma attuale dell’art. 38 contempla un comma 1-ter che stabilisce che in caso di presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione, nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalto, la stazione appaltante ne dà segnalazione all'Autorità che, se ritiene che siano state rese con dolo o colpa grave in considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione, dispone l'iscrizione nel casellario informatico ai fini dell'esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto ai sensi del comma 1, lettera h), per un periodo di un anno, decorso il quale l'iscrizione è cancellata e perde comunque efficacia.
Pertanto, nell’assetto attuale, è indubbia la valenza costitutiva dell’iscrizione da parte dell’Autorità. Nell’assetto antecedente, invece, prevale l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, quando la legge prescrive in via automatica la segnalazione di determinati dati all'Osservatorio, senza alcuna possibilità di valutazione discrezionale in ordine al se della comunicazione e al contenuto della stessa, si possono, come regola generale, individuare equipollenti dell'avviso di avvio del procedimento di iscrizione.
Diverso discorso va svolto per dati la cui comunicazione non è automatica e dovuta, ma frutto di valutazioni da parte della stazione appaltante su dati opinabili; ciò accade ad es. nel caso di segnalazione di episodi di grave negligenza o grave inadempimento, e nel caso di false dichiarazioni (come nel caso di specie). Infatti, in tali casi la stazione appaltante, per effettuare la segnalazione, deve valutare se vi è o meno grave negligenza, grave inadempimento, falsità della dichiarazione.
Sicché l'interessato non può sapere ex ante se e quando tale valutazione verrà svolta in senso affermativo e se vi sarà o meno segnalazione all'Osservatorio. Pertanto, tale segnalazione non può che avere natura costitutiva, con la sua conseguente immediata impugnabilità (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.12.2011 n. 6911 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia edilizia e' inutile denunciare il vizio di disparità di trattamento.
Il vizio di disparità di trattamento non è configurabile in relazione ad una materia come quella edilizia in cui vengono in rilievo atti sanzionatori aventi carattere vincolato e non discrezionale, rivelandosi del tutto irrilevante la denunciata circostanza per cui in zona vi sarebbero altri casi di opere edilizie non conformi alla normativa urbanistica che non sarebbero stati assoggettati a provvedimenti sanzionatori (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.12.2011 n. 6873 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIModalità di indicazione negli atti di gara dei costi relativi alla sicurezza.
L’art. 86, comma 3-bis, e l’art. 87, comma 4, del Codice dei Contratti Pubblici impongono, anche per gli appalti di servizi e forniture, la specifica indicazione nell’offerta economica di tutti i costi relativi alla sicurezza.
In particolare gli oneri della sicurezza –sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture– devono essere distinti tra oneri, non soggetti a ribasso, finalizzati all’eliminazione dei rischi da interferenze (che devono essere quantificati dalla stazione appaltante nel DUVRI) ed oneri concernenti i costi specifici connessi con l’attività delle imprese che devono essere indicati dalle stesse nelle rispettive offerte, con il conseguente onere per la stazione appaltante di valutarne la congruità (anche al di fuori del procedimento di verifica delle offerte anomale) rispetto all’entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o fornitura.
L’art. 86, comma 3-bis, e l’art. 87, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006 impongono la specifica stima ed indicazione di tutti i costi relativi alla sicurezza, tanto nella fase della “predisposizione delle gare di appalto” (e quindi nella predisposizione della documentazione di gara) quanto nella fase della formulazione dell’offerta economica.
Peraltro, anche l’art. 26, comma 6, del d.lgs. n. 281 del 09.04.2008 (recante norme in materia di tutela della salute e di sicurezza nei luoghi di lavoro), emanato in attuazione della delega prevista dall’art. 1, comma 1, della legge n. 123 del 2007, stabilisce che nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte, nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro ed al costo relativo alla sicurezza, “che deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”.
Ciò significa che, negli atti di gara, devono essere specificamente indicati, separatamente dall’importo dell’appalto posto a base d’asta, i costi relativi alla sicurezza derivanti dalla valutazione delle interferenze, per i quali è precluso qualsiasi ribasso (art. 86, comma 3-bis. e comma 3-ter, del d.lgs. n. 163/2006), trattandosi di costi ritenuti necessari per la tutela dei soggetti interessati. Gli atti di gara devono poi prevedere che, nell’offerta economica, siano indicati gli altri oneri per la sicurezza (da rischio specifico) che sono variabili perché legati all’offerta economica delle imprese partecipanti alla gara.
A loro volta le imprese partecipanti devono includere necessariamente nella loro offerta sia gli oneri di sicurezza per le interferenze (nella esatta misura predeterminata dalla stazione appaltante), sia gli altri oneri di sicurezza da rischio specifico (o aziendali) la cui misura può variare in relazione al contenuto dell’offerta economica, trattandosi di costi il cui ammontare è determinato da ciascun concorrente in relazione alle altre voci di costo dell’offerta (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.12.2011 n. 6677 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIFalso innocuo del concorrente nella procedura di gara.
Le eventuali inesattezze delle dichiarazioni rese dai concorrenti nell’ambito di una procedura per l’affidamento di un contratto pubblico rilevano solo se idonee, effettivamente, ad incidere sullo svolgimento della gara (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.12.2011 n. 6639 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulle controversie in materia di DIA e SCIA decide il giudice amministrativo.
Ogni controversia avente ad oggetto il corretto e tempestivo esercizio del potere amministrativo di controllo circa la conformità dell'attività dichiarata al paradigma normativo, con conseguente adozione della misura inibitoria in caso di esito negativo del riscontro, rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo.
L’art. 133 del codice del processo amministrativo, comma 1, lett. a n. 3 e lett. f dispone che le controversie in materia di “Dia” devono essere affidate alla giurisdizione esclusiva del plesso giurisdizionale amministrativo. Muovendo dall’insegnamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011 (“SCIA e DIA sono dichiarazioni imputabili a manifestazione di volontà privata dalla quale scaturisce, ai sensi degli artt. 19, comma 3, legge n. 241/1990 un procedimento doveroso di verifica che, in assenza di requisiti alla continuazione o all'avvio dell'attività, si conclude con un diniego espresso o con un "diniego tacito" di adozione del provvedimento inibitorio.
Il silenzio che segue allo scadere del termine perentorio per la verifica e l'inibizione dell'attività denunciata, va equiparato, in assenza dei previsti requisiti, all'"atto tacito di diniego di provvedimento inibitorio" che rappresenta l'esito negativo del procedimento finalizzato all'adozione del provvedimento restrittivo dell'attività esercitata. La formazione dell'"atto tacito di diniego" alla scadenza del termine previsto per l'esercizio della potestà di verifica è direttamente connessa alla perentorietà del termine stabilito negli artt. 19, comma 3, legge n. 241/1990 -per la SCIA- e 23 comma 6, D.P.R. n. 380/2001 -per la DIA- , decorso il quale la competente amministrazione perde la potestà inibitoria dell'attività esercitata salva la residua potestà di autotutela.
Nei confronti dell'atto tacito di diniego di provvedimento inibitorio -espresso o tacito-, il terzo pregiudicato dispone dell'azione di annullamento a tutela dell'interesse pretensivo al corretto esercizio della potestà di verifica e controllo. Al terzo pregiudicato dall'attività proseguita o iniziata illegittimamente è altresì attribuita, congiuntamente o separatamente da quella di annullamento dell'"atto tacito di diniego", l'azione di adempimento dell'obbligo dell'amministrazione di adottare i provvedimenti interdittivi o restrittivi, da esercitare comunque nel termine di un anno previsto dall'art. 31, co. 3, cod. proc. amm. - D.Lgs. n. 104/2010 - per l'azione avverso il silenzio
.”) deve affermarsi che, quale che sia la tecnica di tutela prescelta dal controinteressato asseritamente leso, ciò non incide sul riparto della giurisdizione in subiecta materia (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2011 n. 6614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIntegrazione documentale nelle gare pubbliche.
Nelle gare pubbliche l'integrazione documentale è ammissibile solo per la documentazione attestante il possesso dei requisiti di partecipazione, per cui non è possibile rettificare, precisare o comunque modificare gli elementi costitutivi dell'offerta, e comunque essa non costituisce un obbligo assoluto ed incondizionato per la stazione appaltante, ma incontra precisi limiti applicativi ravvisabili nella necessità del rispetto della par condicio, atteso che l'art. 6, l. 07.08.1990 n. 241 non può essere invocato per supplire all'inosservanza di adempimenti procedimentali significativi o all'omessa produzione di documenti richiesti a pena di esclusione dalla gara (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2011 n. 6602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIInterpretazione delle clausole del bando di gara.
In sede di gara pubblica, le clausole poste a pena di esclusione devono essere chiare e puntuali e, nella eventuale incertezza interpretativa, deve essere favorita, anche nell'ottica della più ampia partecipazione di concorrenti, una interpretazione meno restrittiva delle stessa che, comunque, non lede la par condicio tra i concorrenti (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2011 n. 6602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl giudice di regola non può sindacare le scelte discrezionali della commissione giudicatrice.
Le valutazioni espresse dalle Commissioni giudicatrici in merito alle prove di concorso, seppure qualificabili quali analisi di fatti (correzione dell'elaborato del candidato con attribuzione di punteggio o giudizio) e non come ponderazione di interessi, costituiscono pur sempre l'espressione di ampia discrezionalità, finalizzata a stabilire in concreto l'idoneità tecnica e/o culturale, ovvero attitudinale, dei candidati, con la conseguenza che le stesse valutazioni non sono sindacabili dal giudice amministrativo, se non nei casi in cui sussistono elementi idonei ad evidenziarne uno sviamento logico od un errore di fatto, o ancora una contraddittorietà ictu oculi rilevabile.
Ne consegue che il giudicante non può ingerirsi negli ambiti riservati alla discrezionalità tecnica dell'organo valutatore (e quindi sostituire il proprio giudizio a quello della Commissione), se non nei casi in cui il giudizio si appalesi viziato sotto il profilo della logicità, vizio la cui sostanza non può essere confusa con l'adeguatezza della motivazione, ben potendo questa essere adeguata e sufficiente e tuttavia al tempo stesso illogica (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2011 n. 6601 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAcquisizione delle opere abusive e dell'area al patrimonio comunale.
Il preavviso di accesso ai luoghi per i rilievi tecnici preordinati all’acquisizione delle opere abusive e dell’area al patrimonio del Comune è un atto endoprocedimentale del procedimento sanzionatorio culminante nell’acquisizione al patrimonio del Comune delle opere abusivamente realizzate e non demolite dal proprietario.
Il ricorso avverso tale preavviso è, pertanto, inammissibile in quanto quale atto endoprocedimentale esso non produce un effetto lesivo (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.12.2011 n. 6588 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIConseguenze della presenza del rappresentante dell'impresa esclusa alle seduta di gara.
Se l’impresa assiste, tramite proprio rappresentante, alla seduta in cui vengono adottate le determinazioni sulle offerte anomale, è in detta seduta che l’impresa acquisisce la piena conoscenza del provvedimento, ed è dalla data di detta seduta che decorre il termine per impugnare il provvedimento medesimo; la presenza di un rappresentante della ditta partecipante alla gara di appalto nella riunione nella quale la commissione giudicatrice ha escluso la ditta stessa dalla competizione non comporta ex se piena conoscenza dell’atto di esclusione ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione solo qualora non risulti che il rappresentante stesso era munito di mandato ad hoc, oppure rivestiva una specifica carica sociale, per cui la conoscenza avuta dal medesimo doveva ritenersi riferibile alla società concorrente (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.12.2011 n. 6531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa stazione appaltante decide sull'esclusione dalla gara per anomalia dell'offerta.
Le operazioni tecniche di verifica di anomalia possono essere condotte direttamente dalla stazione appaltante, o da apposita commissione all’uopo nominata, che può essere diversa dalla commissione di gara (artt. 88, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e 121, commi 2 e 5, d.P.R. 05.10.2010, n. 207).
In ogni caso, l’esclusione per anomalia non è mai atto di competenza della commissione incaricata della verifica di anomalia, ma sempre della stazione appaltante e per essa del soggetto che presiede la gara (artt. 88, comma 7, d.lgs. n. 163 del 2006 e art. 121, comma 3, d.P.R. n. 207 del 2010) (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.12.2011 n. 6531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl rapporto di coniugio tra l'amministratore di una società ed un mafioso non basta per affermare l'esistenza di un pericolo di inquinamento mafioso a carico della società.
Nell’ambito dell’informativa prefettizia antimafia, al fine della sussistenza di un pericolo di inquinamento mafioso nell’ambito di una società, gli indizi devono avere un ragionevole grado di attendibilità, serietà e concordanza. Il solo rapporto di coniugio tra l’amministratore della società e un soggetto indagato, imputato o condannato per mafia, è un indizio rilevante, ma che deve essere corroborato da altri riscontri, atteso che il solo rapporto di coniugio non comprova senz’altro il pericolo di infiltrazione criminale (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.12.2011 n. 6497 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZINessun diritto di proroga in capo al gestore uscente alla scadenza del contratto.
In assenza di puntuali obblighi giuridici o contrattuali in tal senso, l’amministrazione non è affatto tenuta a prorogare il servizio in atto con il gestore uscente alla scadenza del precedente rapporto contrattuale e fino alla stipulazione del nuovo contratto, all’esito della rinnovata procedura selettiva.
L'utilità meramente eventuale del gestore uscente a proseguire il servizio, costituisce un semplice interesse di fatto che non le attribuisce alcuna autonoma legittimazione alla impugnazione degli atti della gara, una volta accertato che essa non aveva titolo a partecipare alla contestata procedura selettiva (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 07.12.2011 n. 6441 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAggiudicazione appalto: insindacabilità nel merito del giudizio della Commissione di gara.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ribadisce il principio secondo cui i giudizi valutativi espressi dalla Commissione non sono sindacabili nel merito, e sono, viceversa, legittima espressione di discrezionalità se non affetti da macroscopici vizi logici, disparità di trattamento, errore manifesto, rientrando nel potere valutativo quello di ritenere migliore un progetto che contiene elementi maggiormente specifici (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 07.12.2011 n. 6434 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIDifferenza tra la certificazione antimafia delle Camere di Commercio e l'Informativa antimafia del Prefetto.
Il rilascio di certificazione antimafia da parte della locale Camera di Commercio ha natura, finalità e contenuto di valenza ben diversa dall’interdittiva antimafia. Invero, quest'ultima non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certo sull’esistenza della contiguità con organizzazioni malavitose e del condizionamento in atto dell’attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici ed indiziari da cui emergano gli elementi di pericolo di dette infiltrazioni mafiose.
Pertanto, il Consiglio di Stato ha inteso ribadire l’orientamento consolidato, secondo cui, l’efficacia interdittiva proviene direttamente dalla valutazione del Prefetto, per cui alla stazione appaltante non sono riconosciuti né il potere discrezionale né l’onere di verificare la portata e i presupposti dell’informativa, posto che i citati provvedimenti derivano direttamente dall’atto prefettizio e sono vincolati al giudizio circa il pericolo di infiltrazione maturato dal Prefetto (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 07.12.2011 n. 6427 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPresupposti per il rilascio della concessione edilizia in sanatoria.
Per la pacifica giurisprudenza ai fini del rilascio di concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell'art. 31, l. n. 47/1985 e dell'art. 39, l. n. 724/1994, risultano sanabili le opere abusive relativamente alle quali, alla data del 31.12.1993, sia stato eseguito il rustico e completata la copertura; l'esecuzione del c.d. rustico, in particolare, è riferita al completamento di tutte le strutture essenziali, tra le quali vanno annoverate le tamponature esterne, che determinano l'isolamento dell'immobile dalle intemperie e configurano l'opera nella sua fondamentale volumetria.
In particolare, poi, non è ritenuta sufficiente, ai fini della configurabilità del "rustico", neppure la realizzazione parziale delle mura perimetrali, richiedendosi una necessaria continuità tra queste ultime e la copertura (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.12.2011 n. 6401 - ink a www.giustizia-amministrativa.it).

ECOLOGIA-ECOLOGIARimozione, recupero e smaltimento rifiuti: accertamento della colpa del proprietario dell'area.
Il profilo di colpevolezza del proprietario dell’area in cui sono stati smaltiti i rifiuti in ordine alla eventuale inidoneità delle misure di protezione, nonché lo stato di incuria e la carenza di manutenzione delle stesse misure, non può essere accertato dal Comune sulla base di un’attività istruttoria che è posteriore all’adozione del provvedimento stesso, in quanto in tal modo si avrebbe un’inammissibile integrazione postuma della motivazione e delle relative valutazioni provvedimentali (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.12.2011 n. 6392 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa motivazione del provvedimento di reiterazione di un vincolo espropriativo.
La motivazione idonea a sorreggere la legittimità della reiterazione di un vincolo espropriativo non può rinvenirsi nelle indicazioni di carattere generale che giustificano le scelte urbanistiche, così come enunciate nella relazione illustrativa dello strumento urbanistico, in quanto le indicazioni medesime, ancorché sufficienti in relazione all’ampia discrezionalità di cui è titolare l’Amministrazione comunale nell’esercizio delle proprie funzioni di pianificazione urbanistica, sono per loro stessa natura necessariamente generali e sono, pertanto, deputate ad assicurare la ragionevolezza e la non arbitrarietà dell’esercizio della discrezionalità, ma non possono essere in alcun modo idonee a dare conto dell’esigenza attuale di vincolare nuovamente per la realizzazione di un interesse pubblico aree che, secondo precedenti strumenti regolatori, avevano già avuto –seppur senza esito– una destinazione di tipo espropriativo.
Vale, quindi, il principio per cui l’obbligo di motivazione, costituendo al riguardo eccezione alla regola che sottrae ad un simile onere formale gli atti generali, richiede in particolare che si dia conto della persistenza dell’interesse pubblico e della sua attualità ed effettività, nonché dell’intervenuta adeguata comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti, dell’ineluttabilità della scelta pianificatrice operata e della serietà ed affidabilità della realizzazione dell’intervento pubblico nel quinquennio (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.12.2011 n. 6373 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAIl Comune che acquisisce le opere di urbanizzazione e' tenuto a manutenerle.
Il trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione in capo al Comune nell’ambito del piano di lottizzazione, costituisce un’obbligazione ex lege che si sottrae alla disponibilità delle parti, in quanto prevista dall’art. 28, l. n. 1150/1942 e relativa ad opere strumentali allo svolgimento di pubblici servizi fisiologicamente rientranti nelle competenze dell’amministrazione locale. Ne consegue che, ove il Comune intenda affidare ad altri la gestione delle opere non può che operare previo atto di concessione di pubblico servizio, contenente le regole da osservare per garantire l’ottimale soddisfacimento del servizio offerto ai cittadini.
In conclusione, poiché è un dato pacifico che gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria connessi alle opere di urbanizzazione ricadono interamente sull’ente locale una volta che esse siano acquisite al suo patrimonio per cessione (previo collaudo sulla loro regolare esecuzione) da parte del lottizzante, ciò comporta l’estraneità dei lottizzanti, iniziali proprietari delle aree e delle opere di cui trattasi a sopportare le relative spese di manutenzione e l’estraneità anche dei successivi acquirenti degli immobili, essendosi estinta l’originaria obbligazione di convenzione con il trasferimento delle opere al Comune (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.12.2011 n. 6368 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICADifferenza tra PIP e PRG.
Il Piano per gli insediamenti produttivi (P.I.P.) previsto dall’art. 27 della legge n. 865/1971 è uno strumento urbanistico di natura attuativa, dotato di efficacia decennale dalla data di approvazione ed avente valore di piano particolareggiato di esecuzione, la cui funzione è quella di incentivare le imprese, offrendo ad un prezzo politico le aree occorrenti per il loro impianto ed espansione: come tale, trascorsi i dieci anni, l’Amministrazione non può disporre alcuna proroga dello stesso, potendo invece unicamente valutare l’opportunità di predisporre un nuovo strumento con conseguente rinnovazione della scelta pianificatoria attuativa rimasta inattuata.
Una volta scaduto il PIP non può valere, agli stessi fini la scelta pianificatori effettuata in sede di adozione del PRG. Sono infatti, completamente diversi i livelli di intervento e le finalità dei due strumenti urbanistici, l’uno di carattere generale e sovraordinato, l’altro avente, invece, natura di piano particolareggiato di esecuzione, con valore di dichiarazione di pubblica utilità delle opere in esso previste.
L’amministrazione, pertanto, scaduto l’originario PIP, può soltanto valutare l’opportunità di predisporne uno nuovo, esperendo ab initio tutte le relative attività procedimentali previste dalla legge (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.12.2011 n. 6363 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEOccupazione sine titulo della P.A.: il Consiglio di Stato fa il punto in ordine alla vecchia e all'attuale normativa.
Il Consiglio di Stato procede nell'excursus della normativa in materia di occupazione sine titolo evidenziando in primis come l'abrogato art. 43 del Testo Unico sugli espropri era stato emanato dal legislatore delegato per consentire una ‘legale via di uscita’ per i moltissimi casi in cui una P.A. avesse occupato senza titolo un’area di proprietà altrui, in assenza di un valido ed efficace decreto di esproprio.
In precedenza, la prassi giudiziaria nazionale –innovando dal 1983 rispetto alla precedente ultrasecondare giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato che avevano costantemente ammesso la immanente titolarità di un potere di esproprio in sanatoria- si era consolidata nel senso dell’acquisto dell’area da parte dell’amministrazione nel caso di irreversibile destinazione di un’area, per la quale fosse stata dichiarata la pubblica utilità dell’opera da realizzare.
Poiché tale prassi era stata qualificata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo come ‘sistematica violazione’ delle disposizioni della Convenzione del 1950, sulla tutela del diritto di proprietà, l’art. 43 aveva dunque consentito che –in presenza di un effettivo interesse pubblico, rilevato nell’atto ablatorio– l’amministrazione avrebbe potuto adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, risarcendo integralmente il danno cagionato al proprietario ed esercitando il potere di acquisizione dell’area detenuta senza titolo. Con la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 43 del testo unico operato dalla Corte Costituzione (sentenza n. 293/2010) non era però divenuto applicabile l’istituto della accessione.
Tale istituto era stato sempre escluso dalla pacifica giurisprudenza sin dalla seconda metà dell’Ottocento. Infatti, la realizzazione di un’opera pubblica o di interesse pubblico, quando avvenga legittimamente, in esecuzione di atti di natura ablatoria solo successivamente annullati in sede di giustizia amministrativa, ha la propria peculiarità nella avvenuta realizzazione di opere nell’interesse della collettività(e in esecuzione di provvedimenti) e comporta il verificarsi di situazioni irriducibili a quelle disciplinate dal codice civile, le cui disposizioni dunque non si applicano.
Secondo il Collegio, la sentenza della Corte n. 293 del 2010 aveva comportato il ritorno alla attualità del sistema normativo, risalente al 1865, sulla sussistenza del potere di esproprio in sanatoria, sistema sul quale si era consolidata la giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato (superata a partire dal 1983 dalla prassi nazionale postasi in contrasto con la CEDU). Infatti, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di natura ablatoria, la richiamata plurisecolare giurisprudenza riconosceva il proprietario dell’area ancora come tale: ciò che il Supremo Consesso ribadisce, alla luce della pacifica giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Mentre però la giurisprudenza civile (allora avente giurisdizione) riteneva che la tutela restitutoria spettante al proprietario fosse preclusa da un atto tacito di destinazione dell’area al pubblico servizio e dunque dall’art. 4 dell’allegato E della legge del 1865 (sulla abolizione del contenzioso amministrativo), tale preclusione si è posta in contrasto con i principi dello Stato di diritto, in quanto “l’atto di destinazione” non era preso in considerazione dalla legge.
In occasione della redazione del testo unico, il Consiglio di Stato aveva redatto l’art. 43, poi trasfuso nel testo unico sugli espropri, proprio per prevedere una legale via d’uscita, per dare una soluzione legislativa –con l’attribuzione di un potere discrezionale all’Amministrazione- ai casi che oramai stavano comportando la sistematica condanna della Repubblica Italiana innanzi alla CEDU, nei giudizi posti in essere dai proprietari che lamentavano di aver perso il loro diritto di proprietà, sulla base di sentenze pronunciate ex post e senza fondamento normativo, e non sulla base di atti amministrativi la cui emanazione fosse consentita dalla legge.
La sentenza della Corte Costituzionale –nel rilevare un eccesso di delega e nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 43– ha dunque fatto tornare l’ordinamento ad una peculiare situazione, in cui di certo da un lato non poteva disconoscersi il perdurante diritto di proprietà del titolare, malgrado la avvenuta costruzione dell’opera pubblica o di interesse pubblico, e dall’altro non poteva negarsi l’immanente potere di disporre l’esproprio in sanatoria, per evitare la demolizione di quanto costruito a spese della collettività e che, se del caso, ancora risultava conforme alle esigenze di questa.
L’art. 42-bis del decreto legge n. 98 del 2011, convertito nella legge n. 2011, ha reintrodotto il potere discrezionale già disciplinato dall’art. 43: l’amministrazione -valutate le circostanze e comparati gli interessi in conflitto– può decidere se demolire in tutto o in parte l’opera (affrontando le relative spese) e restituire l’area al proprietario, oppure se disporre l’acquisizione (evitando che sia demolito, paradossalmente, quanto altrimenti risulterebbe meritevole di essere ricostruito). L’art. 42-bis prevede, al comma 1, che l’Amministrazione, valutati gli interessi in conflitto, possa disporre, con formale provvedimento, l’acquisizione del bene, con la corresponsione al privato di un indennizzo per il pregiudizio subito, patrimoniale e non patrimoniale; al comma 8 prevede poi che le sue disposizioni “trovano altresì applicazione ai fatti anteriori”, sicché esso si applica senza alcun dubbio anche nella fattispecie in esame.
Anche nell’attuale quadro normativo, l’Amministrazione ha dunque l’obbligo giuridico di far venir meno la occupazione sine titulo e cioè deve adeguare la situazione di fatto a quella di diritto. Essa o deve restituire i terreni ai titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la riduzione in pristino, oppure deve attivarsi perché vi sia un titolo di acquisto dell’area da parte del soggetto attuale possessore (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 01.12.2011 n. 6351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICILa destinazione all'uso pubblico di un bene demaniale permane anche se il bene e' occupato da privati.
La sdemanializzazione tacita del bene deve risultare da comportamenti univoci e concludenti da cui emerga con certezza la rinuncia alla funzione pubblica del bene, che va accertata con rigore, e che siano incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene stesso all'uso pubblico; di conseguenza essa non può desumersi dalla pura e semplice circostanza che il bene non sia adibito, anche da lungo tempo, all'uso pubblico.
Non costituiscono, quindi, elementi sufficienti a provare in maniera non equivoca la cessazione della destinazione del bene all'uso pubblico il prolungato disuso di un bene demaniale da parte dell'ente pubblico proprietario, ovvero la tolleranza osservata da quest'ultimo rispetto a un'occupazione da parte di privati, essendo ulteriormente necessario, al riguardo, che tali elementi indiziari siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze così significative da non lasciare adito ad altre ipotesi se non a quella che l'amministrazione abbia definitivamente rinunciato al ripristino dell'uso pubblico (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.11.2011 n. 6338 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANessun obbligo solidale di pagamento del contributo per il costo di costruzione in capo al venditore che non ha usufruito della concessione edilizia.
L’art. 3 della l. n. 10/1977 stabilisce che la concessione edilizia comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione e al costo di costruzione.
La più accreditata dottrina e la giurisprudenza hanno chiarito che il costo di costruzione è una prestazione patrimoniale di natura impositiva e trova la sua ratio nell’incremento patrimoniale che il titolare del permesso di costruire consegue in dipendenza dell’intervento edilizio. Essa, pertanto, postula quale condizione di esigibilità la sussistenza di un titolo abilitativo valido ed efficace e la concreta fruizione del titolo da parte del concessionario, ovvero la effettiva attività di edificazione.
La causa giuridica del pagamento è, dunque, nella fruizione dell’atto abilitativo all’edificazione a mezzo della effettiva realizzazione dell’intervento assentito. La suddetta natura trova conferma nella disposizione dell’art. 11 della l. n. 10/1977 e del vigente l’art. 16 del T.U. dell’edilizia, che stabiliscono che la quota di contributo per costo di costruzione, determinata al momento del rilascio della concessione, deve essere corrisposta in corso d’opera o comunque non oltre 60 giorni dall’ultimazione delle opere.
Ne consegue che qualora il richiedente il titolo edilizio, non abbia mai usufruito della concessione edilizia (nel caso di specie non ha mai nemmeno ritirato il titolo, avendone chiesto la voltura) non è soggetto obbligato per legge a pagare il contributo commisurato al costo di costruzione (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.11.2011 n. 6333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILe prescrizioni del bando che comminano l'esclusione non sono valutabili dalla commissione di gara.
Confermato dal Consiglio di Stato il principio ormai consolidato in giurisprudenza secondo cui qualora il bando commini l’esclusione obbligatoria dalla gara, l’amministrazione è tenuta a dare precisa ed incondizionata esecuzione a tali prescrizioni, senza alcuna possibilità di valutazione (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.11.2011 n. 6330 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAEdificabilità in area soggetta a vincolo archeologico.
Il vincolo archeologico posto su un'area non ne comporta l’inedificabilità assoluta, ma l’obbligo di verificare, da parte dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo stesso, la compatibilità dell’intervento edilizio con le ragioni di tutela.
Infatti, la valutazione di compatibilità non muta in relazione al fatto che l'opera sia stata realizzata o meno: l'autorità preposta alla tutela del vincolo deve in ogni caso verificare se quel determinato tipo di intervento sia o meno compatibile con il vincolo.
Il giudizio circa tale compatibilità non è in alcun modo influenzato dal fatto che l'opera sia stata, o meno, realizzata: o l'intervento è compatibile con il vincolo ed allora lo era sia prima che dopo la realizzazione, o non lo è ed allora l'autorizzazione postuma non può essere rilasciata, non già perché non chiesta in precedenza, ma perché non poteva essere rilasciata anche se richiesta tempestivamente (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.11.2011 n. 6323 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINella lex specialis la stazione appaltante deve predeterminare i criteri e i sub-criteri di valutazione nonché il loro specifico peso.
La lex specialis deve consentire ai concorrenti di conoscere preventivamente la rilevanza, in termini di punteggio, di ciascun sub-criterio onde evitare di precludere di fatto, agli operatori economici interessati, di predisporre l’offerta in modo da valorizzare quegli aspetti tecnico-qualitativi cui la stazione appaltante intendeva riconoscere maggiore rilevanza.
Il d.l.vo n. 152/2008 (terzo decreto correttivo del codice dei contratti pubblici), in adesione al parere espresso dalla Adunanza Consultiva del Consiglio di Stato del 14.07.2008, ha espunto dall’art. 83, comma 4, del codice, l’inciso secondo cui ”... la commissione giudicatrice prima della apertura delle buste contenenti le offerte fissa in generale i criteri motivazionali cui si atterrà per attribuire a ciascun criterio e sub-criterio di valutazione il punteggio tra il minimo e il massimo prestabiliti dal bando”.
La modifica normativa conferma, quindi, che il giudizio espresso dalla commissione di gara deve trovare il suo substrato nella puntuale e rigorosa predeterminazione di criteri e sub-criteri di valutazione nonché del loro specifico peso ponderale da parte della stazione appaltante in sede di preventiva redazione della lex specialis. Né assume rilevo la circostanza che la commissione di gara tenti di sopperire all’incontestabile mancata indicazione nella lex specialis di sub-pesi o sub-punteggi attraverso una relazione posta in calce ai verbali di gara.
Tale modus operandi si configura, infatti, come il tentativo della commissione di sanare in via postuma la illegittimità in cui era incorsa la stazione appaltante all’atto della redazione della lex specialis e giammai tale motivazione postuma può considerarsi surrogatoria della mancata prefissione di precisi criteri di valutazione (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 29.11.2011 n. 6306 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIComposizione qualificata della commissione di gara.
Fermo l'art. 84 del codice dei contratti pubblici che impone, in generale, la composizione qualificata della commissione di gara, il Consiglio di Stato precisa che la necessaria presenza di esperti all’interno delle commissioni di gara costituisce comunque un principio generale delle procedure selettive a contenuto tecnico (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.11.2011 n. 6640 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIRinnovo della gara solo se c'e una chance di vittoria.
L'interesse a ricorrere avverso il provvedimento di esclusione da una gara è configurabile ex se e non richiede la dimostrazione che l'esito della gara sarebbe stato sicuramente o probabilmente favorevole al ricorrente solo nelle ipotesi in cui il criterio di aggiudicazione previsto sia di tipo non automatico, in quanto la parte ricorrente ha interesse a veder valutata la propria offerta in sede di gara e dunque è portatore di un interesse strumentale all'annullamento degli atti impugnati e alla rinnovazione della procedura: dal rinnovo deriva una nuova chance di partecipazione e di vittoria.
Nel caso, invece, di procedure di aggiudicazione di tipo meccanico, in cui non si fa luogo a valutazioni tecnico-discrezionali da parte del seggio di gara, una volta aperte le buste contenenti le offerte dei concorrenti, l'idoneità della singola offerta a conseguire l'aggiudicazione è oggettivamente determinabile attraverso meri calcoli aritmetici e dunque, a differenza dell'altro caso, il concorrente escluso è in grado di determinare se la propria offerta sarebbe stata sufficiente ad assicurargli la vittoria (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.11.2011 n. 6090 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTITermine per impugnare l'esclusione dalla gara d'appalto.
Per gli atti come l'esclusione dalle gare pubbliche, per i quali è richiesta la notificazione individuale, trova applicazione la regola generale della piena conoscenza ed il termine per impugnare non decorre sino a che non si dimostri che è avvenuta la notifica o la comunicazione diretta dell'atto all'interessato.
Tale termine decorre quindi normalmente dalla ricezione della comunicazione di cui all'art. 79 d.lgs. n. 163/2006, salva ovviamente l'ipotesi della piena conoscenza dell'atto, acquisita con altre modalità, come d'altronde ribadito dall'art. 41 del c.p.a.: fra queste ipotesi, rientra quella in cui all'atto dell'esclusione dalla gara sia presente un rappresentante della impresa esclusa munito di mandato speciale, ovvero che riveste una specifica carica sociale, per cui la conoscenza acquisita dallo stesso sia riferibile alla società concorrente (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.11.2011 n. 6084 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIL'Avvalimento deve essere reale e non solo formale pena l'esclusione dalla gara.
L'art. 49 del D.Lgs. n. 163/2006 ammette esplicitamente l’avvalimento anche per l’attestazione della certificazione SOA subordinando tale facoltà all’espresso impegno da parte dell’impresa ausiliaria, nei confronti dell’impresa ausiliata e della stazione appaltante, di mettere a disposizione per tutta la durata dell’appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente.
L’omissione di tale dichiarazione, nel caso di specie prevista anche dal bando di concorso, non poteva che comportare l’esclusione dalla gara in quanto l’avvalimento nei requisiti soggettivi di qualità deve essere reale e non formale, nel senso che non può considerarsi sufficiente “prestare” la certificazione posseduta, giacché in questo modo verrebbe meno la stessa essenza dell’istituto, finalizzato a consentire a soggetti che ne siano sprovvisti di concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti di altri soggetti (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.11.2011 n. 6079 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa cultura del sospetto salva talvolta il settore degli appalti pubblici dalle infiltrazioni della criminalità organizzata.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto sufficiente l’accertamento di meri elementi di sospetto per far scattare il meccanismo di salvaguardia del sistema attraverso l’inibizione dell’accesso al rapporto contrattuale o alla gara per l’impresa sospettata di contiguità mafiosa.
Quanto al riferimento alla cultura del sospetto come regola da preferire a quella della legalità, secondo i Giudici di Palazzo Spada è affermazione non pertinente, in quanto l'informativa antimafia atipica e' una forma di tutela anticipata volta a prevenire l’inquinamento del territorio attraverso possibili infiltrazioni della malavita organizzata ed il giudizio espresso dal Comune nell’ambito dell’informativa antimafia atipica non riguarda la singola persona, nel caso il rappresentante legale della società, ma l’affidabilità nel suo complesso dell’aggiudicatario per i rapporti di contiguità con la criminalità organizzata, desumibile anche da condotte che di per sé non realizzano necessariamente fattispecie penalmente rilevanti.
Esse in breve assolvono la funzione di accrescere il bagaglio conoscitivo della p.a. ai fini di un più ponderato esercizio dei propri poteri discrezionali nel corso del procedimento di evidenza pubblica, integrando una forma anticipatoria della soglia di difesa sociale nel campo del contrasto alla criminalità organizzata nel settore dei pubblici appalti di opere e servizi (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.11.2011 n. 6076 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARIQuando può essere affisso sulla strada privata il cartello "divieto di accesso esclusi i residenti"?
L'autorizzazione comunale può consentire l’installazione di un cartello recante la sola dicitura di “strada privata” quando la strada, che pure non risulta acquisita al patrimonio comunale, né assoggettata ad uso pubblico, e' comunque usata come via di collegamento con altre proprietà.
Qualora invece in detta via privata, non esistono oggettivamente gli elementi per la destinazione a pubblico transito in quanto lungo la strada non esistono altri accessi privati oltre a quelli del soggetto richiedente l'autorizzazione, allora il Comune può legittimamente rilasciare l'autorizzazione all'installazione del cartello "divieto di accesso esclusi i residenti" (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.11.2011 n. 6074 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIInfiltrazioni mafiose negli appalti pubblici.
Gli elementi relativi al “tentativo di infiltrazione mafiosa” devono avere una consistenza oggettiva circostanziata, ancorché anche solo indiziaria, che renda evidente la concretezza e attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa.
Nel caso attenzionato, il Consiglio di Stato ha, per contro, evidenziato che l'informativa antimafia si fondava, invece, su elementi in parte non provati, in parte inattuali, in parte del tutto occasionali, essendo incensurato l’amministratore e avendo il socio reati estinti che per la loro tipologia non sono indiziari di contiguità mafiosa, e non essendovi prova di loro frequentazioni in ambienti criminali (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.11.2011 n. 6027 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa motivazione dell'ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
L'ordine di rimessione in pristino in quanto atto vincolato di repressione di illecito edilizio non abbisogna di particolare motivazione specie quando si possa escludere –in considerazione della particolare consistenza degli interventi abusivi sia sotto il profilo quantitativo, sia sotto il profilo qualitativo, e tenuto conto del carattere recente dell’esecuzione delle opere abusive– la configurabilità di una situazione di consolidamento della posizione del privato per decorso del tempo e inerzia dell’amministrazione  (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.11.2011 n. 5997 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIPolizza fideiussoria nel raggruppamento temporaneo di imprese.
Nel caso di partecipazione alla gara di appalto di un raggruppamento temporaneo di imprese, la polizza fideiussoria deve essere intestata a tutte le imprese componenti il costituendo raggruppamento di imprese al fine di costituire la cauzione provvisoria richiesta per la partecipazione alla gara (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.11.2011 n. 5959 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOpere soggette a VIA: termini per l'impugnazione degli atti adottati dalla Conferenza di servizi.
Il procedimento di VIA rappresenta solo una fase interna al procedimento di rilascio dell’autorizzazione unica. L’autorizzazione unica è, infatti, prevista dall'art. 12 del d.lgs n. 387/2003, come epilogo procedimentale per le opere finalizzate alla costruzione ed esercizio degli impianti eolici di produzione di energia.
Gli atti presupposti costituiscono atti interni di una Conferenza dei servizi decisoria, nei cui confronti non è ammissibile una impugnazione diretta con la conseguenza che il dies a quo per la proposizione dell’impugnazione avverso i provvedimenti adottati in Conferenza dei servizi per opere soggette a VIA è rappresentato dalla pubblicazione del provvedimento finale nella Gazzetta Ufficiale (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.11.2011 n. 5921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIConcorrente escluso per mancanza del sigillo previsto dal bando.
L'uso della ceralacca per sigillare le buste, qualora previsto dal disciplinare quale requisito essenziale, determina l'esclusione del concorrente che non si attenga a tale previsione a nulla rilevando la sua fungibilità con altri metodi (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.10.2011 n. 5658 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAggiudicazione solo se permane il Durc positivo.
La regolarità contributiva deve essere conservata nel corso di tutto l’arco temporale impegnato dallo svolgimento della procedura e non assume rilievo l’intervento di un adempimento tardivo da parte dell’impresa.
E', pertanto, legittima la decisione con la quale la stazione appaltante ha deciso di non disporre l’aggiudicazione in favore della ricorrente originaria con riguardo alla quale era stata accertata, durante la gara, una situazione di irregolarità mediante d.u.r.c. negativo (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.10.2011 n. 5531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa demolizione di vecchi abusi edilizi va congruamente motivata.
La risalenza delle opere può avere rilievo poiché nell'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e per il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, vi è a carico dell'Autorità edilizia l'obbligo di motivare congruamente, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, sull'interesse pubblico che giustifichi il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Ovviamente non basta affermare la risalenza di un manufatto realizzato sine titulo, ma è necessario provarla (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 11.10.2011 n. 7858 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 02.02.2012

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il procedimento amministrativo per l’accertamento della compatibilità paesaggistica deve essere concluso in un termine di 180 gg., previo parere vincolante della Soprintendenza da esprimersi nel termine di 90 gg. (ex art. 181, co. 1-quater, d.lgs. 42/2004).
Sicché, risulta illegittimo il silenzio-inadempimento operato dalla Soprintendenza che non consente all'amministrazione comunale di concludere il procedimento amministrativo di competenza con provvedimento espresso (e, conseguentemente, il TAR ordina alla Soprintendenza di provvedere, con atto espresso e motivato, nel termine di giorni 30 dalla comunicazione in via amministrativa, ovvero dalla notificazione della presente sentenza, sull'istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica presentata).
SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1259 del 2011, proposto da: ...
... per l'accertamento
della illegittimità del silenzio tenuto dal Comune di Brescia in ordine alla richiesta 25/05/2010 n. 34746/2010 P.G. di accertamento della compatibilità paesaggistica e rilascio del relativo parere.
FATTO
La ... srl ricorre con la procedura di cui all'art. 21-bis della l. 1034/1971 contro il comportamento inerte tenuto dal Comune di Brescia e dalla Soprintendenza per i beni architettonici a fronte della sua richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica per un abuso realizzato.
Si costituivano in giudizio il Comune di Brescia e l’Avvocatura dello Stato, che deducevano l’infondatezza dei motivi di ricorso.
Il ricorso veniva discusso nella camera di consiglio del 11.01.2012, all’esito della quale veniva trattenuto in decisione.
DIRITTO
Il ricorso è fondato.
Il procedimento amministrativo per l’accertamento della compatibilità paesaggistica deve essere concluso in un termine di 180 gg., previo parere vincolante della Soprintendenza da esprimersi nel termine di 90 gg. (ex art. 181, co. 1-quater, d.lgs. 42/2004).
Nel caso in esame, la domanda è stata presentata il 25.05.2010, ed anche a voler ritenere la decorrenza del termine soltanto dal deposito della documentazione integrativa del 04.11.2010 (trasmessa alla Soprintendenza il 18.11.2010), il termine era comunque decorso alla data dell’11.10.2011 in cui è stato depositato il ricorso.
Le spese tra ricorrente e Ministero beni culturali seguono la soccombenza. Le spese tra ricorrente e Comune vengono compensate, in quanto il Comune non ha potuto emettere il provvedimento finale, a causa della mancata emissione del parere vincolante da parte della Soprintendenza.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:
- Accoglie il ricorso, e per l’effetto, ordina alla Soprintendenza per i beni architettonici di provvedere, con atto espresso e motivato, nel termine di giorni trenta dalla comunicazione in via amministrativa, ovvero dalla notificazione della presente sentenza, sull'istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica presentata dalla ... srl il 25.05.2010.
- Condanna il Ministero dei beni culturali al pagamento in favore della ricorrente delle spese di lite, che determina in euro 1.000, più i.v.a. e c.p.a..
- Compensa le spese di lite tra ricorrente e Comune di Brescia ... (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.01.2012 n. 156 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Adesso, ne siamo convinti tutti quanti ??
     A noi sembrava più che chiara la questione ma, evidentemente, così non è se è vero, come è vero, che ancora oggi ci risulta:
● che la Soprintendenza (dipende da funzionario a funzionario!!) non sempre esprime il proprio obbligatorio e vincolante parere, entro il termine di 90 gg., propedeutico al rilascio dell'atto finale da parte del comune (di assenso ovvero di diniego) in merito ad un'istanza di compatibilità paesaggistica;
● che ci sono comuni che, pur in assenza dell'obbligatorio e vincolante parere preventivo da parte della Soprintendenza, rilasciano ugualmente l'atto finale (addirittura di assenso!!).
     Ad onor del vero, la sentenza de qua riguarda il ricorso proposto da parte di una società nei confronti sia della Soprintendenza sia del comune. Tuttavia, a sommesso nostro parere, nel caso in cui la Soprintendenza non esprima il proprio parere obbligatorio e vincolante il comune non è che deve fare altrettanto: invero, scaduto il termine di 90 gg., il comune dovrebbe diffidare la Soprintendenza ad esprimere il parere in questione e se ciò non avvenisse nel termine indicato in diffida dovrebbe adire al TAR per obbligare la stessa ad esprimersi, senza il cui parere il comune non può (legittimamente) concludere il procedimento amministrativo di competenza entro il termine di 180 gg..
     In altri termini, è il comune e non il cittadino/società che, nel caso di silenzio-inadempimento da parte della Soprintendenza, deve -in estrema ratio- adire il TAR per fornire una risposta certa all'istanza di compatibilità paesaggistica presentata (al comune e non alla Soprintendenza!!) da parte del cittadino/società.
02.02.2012 - LA SEGRETERIA PTPL

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI: Oggetto: interpretazione dell'art. 148, comma 5, del D.Lgs. n. 152/2006 (Ministero dell'Ambiente, ed ella Tutela del Territorio ed el Mare, nota 26.01.2012 n. 1477/UL di prot.).
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Acqua senza paletti. In montagna sì alle gestioni dirette. Dal Minambiente chance ai comuni fino a 1.000 abitanti.
Piccoli comuni di montagna padroni della propria acqua. I municipi fino a 1.000 abitanti, inseriti nel territorio di una comunità montana, possono gestire direttamente il servizio idrico integrato in economia senza dover necessariamente ricorrere a società partecipate e quindi all'in house.
Il via libera è arrivato ufficialmente dal Ministero dell'Ambiente che, sollecitato da numerose richieste di parere da parte di alcuni sindaci di piccoli municipi montani, con la nota 26.01.2012 n. 1477/UL di prot., ha fornito l'interpretazione autentica di una controversa norma del Codice ambientale (art. 148, comma 5 dlgs n. 152/2006) su cui fino ad ora si era pronunciata solo la Corte conti Abruzzo, Sez. controllo (con parere 29.03.2011 n. 16).
Nel parere inviato all'Anpci e all'Uncem, il dicastero guidato da Corrado Clini ha ritenuto di non doversi discostare dall'interpretazione dei giudici abruzzesi secondo cui per gli enti montani fino a 1.000 abitanti l'adesione alla gestione unica del servizio idrico integrato è facoltativa «a condizione che gestiscano l'intero servizio e previo consenso dell'autorità competente».
Tale facoltatività, scrive il Minambiente, non può che «sottintendere l'ammissibilità di una forma di gestione del servizio idrico integrato alternativa». Il che non rappresenterebbe neppure un'anomalia del sistema visto che la Corte costituzionale nella poderosa sentenza n. 325/2010 (quella che in pratica dichiarò in larga parte legittima la riforma dei servizi pubblici locali contenuta nell'art. 23-bis del 112/2008 così come modificato dal decreto Fitto-Ronchi) ha chiarito che «la normativa comunitaria consente agli stati membri di prevedere in via eccezionale e per alcuni casi determinati la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell'ente locale».
L'ufficio legislativo del ministero dell'ambiente ha infine puntualizzato che l'art. 148, comma 58, non risulta abrogato dal regolamento attuativo del dl Fitto-Ronchi (dpr 168/2010). La norma è quindi vigente «e di conseguenza deve ritenersi ammessa la gestione diretta del servizio idrico integrato per i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti inclusi nel territorio di comunità montane, previa valutazione economica del servizio e con il consenso dell'Autorità d'ambito competente».
Per Enrico Borghi, vicepresidente Anci con delega alla montagna, il via libera ministeriale «è importante perché riconosce l'autonomia dei comuni in una materia significativa come quella dell'acqua». «I piccoli comuni di montagna potranno decidere di gestire direttamente le proprie risorse idriche dopo aver svolto un'adeguata pianificazione e valutazione economica», ha proseguito. «È un ottimo segnale di sussidiarietà in controtendenza rispetto agli ultimi provvedimenti» (articolo ItaliaOggi dell'01.02.2012).

SEGRETARI COMUNALI: OGGETTO: precisazioni in ordine alla corretta interpretazione di talune disposizioni normative con riguardo ai segretari comunali e provinciali (Ragioneria Generale dello Stato, nota 10.01.2012 n. 191 di prot.).
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Trattamento economico dei Segretari.
Con nota prot. n. 191 del 10.01.2012, la Ragioneria Generale dello Stato dà chiarimenti sul trattamento economico dei Segretari Comunali e Provinciali con specifico riferimento ai diritti di segreteria per attività rogatoria dei contratti e per l'applicazione del c.d. "galleggiamento" (commento tratto da www.publika.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: L. Bellagamba, La regolarità contributiva è autocertificabile anche per l’ipotesi di cui al D.Lgs. 81/2008, art. 90, comma 9 (30.01.2012 - link a www.linobellagamba.it).

URBANISTICA: A. Carafa, LA MOTIVAZIONE DEL PIANO REGOLATORE GENERALE (17.01.2012 - link a www.pausania.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. Cipolla, IN TEMA DI RESPONSABILITÀ DEL PROPRIETARIO IMMOBILIARE PER OPERE EDILIZIE ABUSIVE REALIZZATE DA ALTRI (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: F. Chiaramonte, GLI ILLECITI PENALI RELATIVI ALLO SCARICO DI ACQUE REFLUE TRA NORME SPECIALI E PREVISIONI CODICISTICHE (link a www.lexambiente.it).

NEWS

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, ancora proroghe in arrivo. Slitta la piena operatività del Sistri. A cascata Mud e Mudino. Dopo i rinvii di fine 2011 previsti nuovi mutamenti nella legge di conversione del dl 216/2011.
In continuo mutamento il calendario delle scadenze 2012 relative alle comunicazioni ambientali. Dopo le proroghe sancite dal legislatore di fine 2011 per «Sistri», «Mudino», «Mud» (acronimi che sottendono, rispettivamente, il tracciamento telematico dei rifiuti, la denuncia transitoria dei dati ad esso inerenti, la comunicazione dei beni di rilevanza ambientale non diversamente monitorati) una nuova riformulazione del calendario è prevista proprio in relazione al nuovo sistema di controllo online dei rifiuti dalla legge di conversione del dl 216/2011 (cd. «Milleproroghe»).
Il testo della legge in parola, attualmente all'esame del Parlamento che dovrà licenziarlo entro la fine del prossimo febbraio, prevede infatti l'ulteriore slittamento della piena operatività del Sistri (già portato al 02.04.2012 dal «Milleproroghe») al 30.06.2012, facendo immaginare, a cascata, una nuova rivisitazione delle collegate scadenze relative a «Mudino», «Mud».
Sistri, l'attuale calendario. In base all'attuale assetto normativo, gli obblighi operativi del nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti (comunicazione online dei dati al cervellone gestito dall'Arma dei carabinieri, monitoraggio satellitare mezzi di trasporto, videosorveglianze ingressi/uscite dalle discariche) scattano in base ad un sofisticato calendario: dal 02.04.2012 (data così stabilita dal dl 216/2011) per i medi/grandi gestori; dopo il 01.06.2012, ed a far data dal termine stabilito da un futuro dm Ambiente, per i piccoli produttori di rifiuti speciali pericolosi (non più di 10 dipendenti, compresi i produttori che effettuano il trasporto dei propri rifiuti entro i 30 kg/litri al giorno) come stabilito dal dl 70/2011; dal 02.07.2012 per gli imprenditori agricoli che producono e trasportano a piattaforma di conferimento, oppure conferiscono ad un circuito organizzato di raccolta, i propri rifiuti pericolosi in modo «occasionale e saltuario» (termine così stabilito dal citato dl 216/2011).
Le regole procedurali che i soggetti obbligati al Sistri dovranno seguire per la comunicazione telematica dei dati relativi ai rifiuti gestiti sono invece quelle recate dal nuovo dm Ambiente 10.11.2011 n. 219, decreto che ha riformulato le norme dettate dal dm 18.02.2011 n. 52 (cd «Testo unico Sistri») in relazione a gestione dei dispositivi usb, responsabilità per la comunicazione dei dati, compilazione delle schede elettroniche, gestione dei problemi di connettività e dei cambiamenti aziendali.
Sistri, le novità in arrivo. Come accennato, dovrebbero arrivare con la legge di conversione del citato dl 216/2011 (e il condizionale è d'obbligo poiché il relativo testo, pur prevedendoli, ancora non è stato licenziato dal Parlamento) ulteriori slittamenti delle tappe di operatività del Sistri.
La legge di conversione del «Milleproroghe» prevede infatti un nuovo termine, quello del 30.06.2012, intorno al quale far ruotare gli adempimenti delle prime due categorie di soggetti (allineandole, così, con la terza, costituita dai citati imprenditori agricoli), ipotizzando il seguente nuovo calendario: partenza dal 30.06.2012 per i medi/grandi gestori di rifiuti; partenza dopo il 30.06.2012 (secondo la data stabilita dal futuro Dm Ambiente in materia) per i piccoli produttori.
«Mudino», le scadenze. A interessare nel 2012 i soggetti obbligati al «Sistri» (in particolare: i produttori iniziali di rifiuti; le imprese e gli enti che effettuano operazioni di recupero e smaltimento dei rifiuti già tenuti alla presentazione «Mud» ex legge 70/1994) è altresì la comunicazione dei rifiuti gestiti nelle more della partenza del nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti.
Prevista dal dm 17.12.2009 (uno dei primi regolamenti sul Sistri) e soprannominato «Mudino» per la sua somiglianza alla storica denuncia «Mud» (ma dalla quale si distingue per il suo carattere transitorio) la comunicazione in parola dovrà essere effettuata (secondo quanto stabilito dal dm Ambiente 10.11.2011 n. 219) secondo il seguente calendario: entro il 30.04.2012 dovranno essere comunicate le informazioni relative ai rifiuti gestiti nel corso dell'anno 2011; entro i successivi sei mesi dalla operatività del nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti dovranno essere invece comunicate le informazioni relative ai rifiuti gestiti nel corso dell'anno 2012 non coperte dal Sistri.
Mud, nuove regole 2012. L'appuntamento al 30.04.2012 con la storica dichiarazione ambientale istituita legge 70/1994 resta invariato per i soggetti che, avendone facoltà, non aderiranno al Sistri e per quelli che gestiscono altri beni di impatto ambientale da tracciare per legge. A cambiare è invece la modulistica da utilizzare, che per la comunicazione 2012 è quella recata dal nuovo dpcm 23.12.2011 (pubblicato sulla G.U. 30.12.2011, n. 303).
Seguendo le istruzioni dettate dal nuovo dpcm, entro il 30.04.2012 si dovranno così comunicare allo stato (per il tramite delle Camere di commercio): i dati relativi a rifiuti e veicoli fuori uso gestiti nel corso del 2011 (per i soggetti obbligati si veda il box più sotto riportato); gli imballaggi e le apparecchiature elettriche ed elettroniche immesse nello stesso arco temporale sul mercato (per i soggetti interessati si veda il box più sotto riportato) (articolo ItaliaOggi Sette del 30.01.2012).

ENTI LOCALIDal pasticcio sui revisori un'occasione per fare meglio.
LA CHANCE/ Il rinvio di nove mesi nel Milleproroghe può lasciare spazio a una riforma che eviti sorteggi e altre amenità.

È difficile non farsi sfuggire un sorriso guardando la successione di norme che si susseguono nella vicenda della nomina dei revisori degli enti locali.
Si ricorderà che il Dl 138/2011 aveva sparigliato le carte inventandosi il più bizzarro metodo di selezione dei membri dell'organo di revisione che mente umana potesse immaginare. L'articolo 16, comma 25, ha previsto un meccanismo che si fonda su tre cardini tipici della «meritocrazia»: l'anzianità, la residenza ed il caso. Un approccio che certo voleva affrontare il problema di non far più nominare i controllori dai controllati ma che, per evidente mancanza di coraggio e coerenza, non arrivava alle logiche conseguenze, che avrebbero dovuto portare ad affidare il compito di individuare i revisori a un ente terzo consapevole, come la Corte dei Conti, il ministero dell'Interno o al limite quello dell'Economia, e non a una sorta di gioco del lotto.
La scelta è caduta sulla buona sorte, sul sorteggio, che crea problemi evidenti di equità e rispetto delle regole Ue. Perché un revisore residente in un Comune della provincia di Modena può ambire a fare il suo lavoro a Madrid o Londra e non in un ente locale toscano? Per iscriversi a questo lotteria, inoltre, la norma aveva previsto persino il rilevante requisito «di aver in precedenza avanzato richiesta di svolgere la funzione nell'organo di revisione degli enti locali», qualificando dunque come elemento di merito avere fatto una domanda; creando un ostacolo all'iscrizione ai giovani iscritti all'Ordine dei Dottori commercialisti ed esperti contabili, che ancora non avessero avuto modo di rispondere a un qualche bando.
In molti speravano che tutto ciò sarebbe rimasto lettera morta, lasciando così inapplicata una disposizione che offende il merito e la libertàlgere liberamente la propria professione. Invece, nonostante le proteste, ecco che il decreto attuativo arriva alla firma del ministro, e viene così inviato alla «Gazzetta Ufficiale» (si veda Il Sole 24 Ore del 21 gennaio).
Finito il film, come sembra? No, perché, ancora il decreto è fresco di firma del ministro Cancellieri, forse neppure la sua copia è arrivata al protocollo della Poligrafico dello Stato, ed ecco che il Dl Milleproroghe tra i suoi tanti rinvii ha deciso di toccare anche il famigerato comma 25, rinviando la sua applicazione al 29.09.2012. Non sappiamo lo spirito che ha mosso chi ha proposto l'emendamento. Comunque, quale che sia stata la motivazione politica che ha ispirato questa scelta, il rinvio può rivelarsi opportuno, perché dà il tempo per correggere profondamente la normativa in modo da garantire terzietà all'organo di revisione ma non a scapito dell'autorevolezza professionale dei suoi membri.
Sarebbe importante, soprattutto, approfittare di questa «pausa» per riflettere seriamente sull'efficacia dei controlli nel loro complesso. E l'occasione, se il Parlamento riterrà di riprendere il suo lavoro in proposito, potrebbe e dovrebbe essere la Carta delle Autonomie, che prevede al suo interno proprio una rimodulazione del sistema dei controlli che ormai richiede di essere ripensato e reso più adeguato ai tempi (articolo Il Sole 24 Ore del 30.01.2012 - link a www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZIServizi pubblici. Il calendario delle gestioni. In house, tempi lunghi e clausola di salvaguardia.
Le gestioni esistenti dei servizi pubblici locali con rilevanza economica hanno un nuovo quadro di scadenze, che individua per molte di esse il termine anticipato tra la fine del 2012 e la primavera del 2013, ma che garantisce la continuità delle prestazioni qualora le procedure per i nuovi affidamenti si prolunghino troppo.
Il Dl ha reimpostato le regole del periodo transitorio, modificando varie parti dell'articolo 4, comma 32, della legge 148/2011, in modo tale da consentire agli enti affidanti di gestire meglio il passaggio tra i gestori uscenti e quelli subentranti.
L'elemento di maggior rilievo è individuato nel nuovo termine per gli affidamenti in house e per le altre tipologie di affidamenti impropri: la deadline per tali gestioni è stabilita al 31.12.2012. La disposizione riguarda tutti gli affidamenti diretti di valore superiore a 200mila euro annui (secondo il nuovo parametro) o che non abbiano i requisiti comunitari per l'in house (controllo analogo e prevalenza dell'attività a favore dell'ente affidante).
La scadenza di fine anno per queste gestioni ha tuttavia un'alternativa importante, poiché la riformulazione operata dal Dl 1/2012 consente alle società esistenti che siano affidatarie dirette di aggregarsi per una gestione unitaria dei servizi, avendo a riferimento l'ambito o il bacino territoriale ottimale.
Il percorso è esplicitamente indicato come derogatorio della norma generale, quindi lascia presumere la possibilità del mantenimento dell'in house anche per valori superiori ai 200mila euro, ma deve condurre a un'azienda frutto dell'integrazione operativa delle preesistenti gestioni dirette, con varie soluzioni possibili dalla fusione alla società consortile.
Tuttavia il nuovo gestore unico dopo il riassetto è destinato a operare con un vincolo temporale stretto, poiché il suo spazio di attività e limitato a tre anni, decorrenti dal 31.12.2012, nonché in base a condizioni rigorose sotto il profilo della qualità e delle garanzie per l'utenza.
La deroga è finalizzata a superare il frazionamento delle gestioni in molti contesti e a consentire la costituzione di organismi societari più forti e più efficienti, in grado di sostenere meglio il confronto con altri operatori economici nelle gare per l'affidamento dei servizi dimensionati sugli ambiti o sui bacini territoriali ottimali. Proprio questa prospettiva si collega alla nuova norma, definita nell'articolo 3-bis, comma 1, della legge 148/2011, che obbliga le Regioni a definire i bacini e gli ambiti ottimali per i servizi entro il 30.06.2012.
Il termine del periodo transitorio è stato ridefinito anche per le gestioni affidate a società miste nelle quali il socio privato, anche se scelto con gara, non sia risultato originariamente affidatario anche di specifici compiti operativi: in tal caso la scadenza degli affidamenti in essere è stabilita al 31.03.2012.
Restano invece invariate le disposizioni che consentono la prosecuzione delle gestioni alle società miste conformi alle norme Ue, che stabiliscono due scadenze per la progressiva dismissione delle quote o azioni di proprietà pubblica per consentire il mantenimento degli affidamenti in essere alle società quotate.
La complessa gestione delle nuove procedure di affidamento lascia presupporre che molte di esse giungeranno all'individuazione del nuovo gestore ben oltre le scadenze del periodo transitorio, tanto che il Dl 1/2012 ha introdotto una norma di salvaguardia. Per non pregiudicare la continuità nell'erogazione dei servizi di rilevanza economica, il nuovo comma 32-ter stabilisce che i soggetti gestori dei servizi assicurano l'integrale prosecuzione delle attività anche oltre le scadenze previste, fino al subentro del nuovo gestore e comunque, in caso di liberalizzazione del settore, fino all'apertura del mercato alla concorrenza (articolo Il Sole 24 Ore del 30.01.2012 - link a www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione può essere emesso sia nei confronti dell'autore dell'abuso edilizio che del proprietario dell'immobile. In particolare, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo è legittimamente adottato nei confronti del proprietario dell'immobile indipendentemente dall'essere egli stato anche autore dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di far valere, sul piano civile, la responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, del proprio dante causa. Il provvedimento che ingiunge la demolizione dell'abuso, pertanto, non è illegittimo per il solo fatto che l'ordine venga indirizzato al proprietario (anche se estraneo alla commissione dell'illecito edilizio) del suolo su cui ricade la costruzione, atteso che a quest'ultimo deve riconoscersi comunque l'interesse a contestare anche il carattere abusivo della stessa realizzazione, perché non può escludersi che la rimozione del manufatto possa arrecare anche un danno all'area di sua proprietà.
In caso di inottemperanza del responsabile dell'abuso all'ingiunzione di demolizione, l'acquisizione gratuita dell'area non può essere, però, dichiarata nei confronti del proprietario che, del tutto estraneo al compimento dell'opera abusiva, non può ritenersi responsabile della stessa; l'unica eccezione a tale principio sussiste quando il proprietario, sebbene non responsabile dell'abuso, sia venuto a conoscenza dello stesso e non si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento; l'amministrazione, ferma restando l'attività demolitoria dell'immobile illecitamente realizzato, legittimamente ingiunta nei confronti del responsabile dell'abuso, non può prefigurare l'acquisizione dell'area di sedime e di pertinenza ai danni del ricorrente, proprietario del terreno, ove abbia accertato la completa estraneità dello stesso al compimento dell'opera abusiva e, nel caso in cui l'interessato fosse comunque venuto a conoscenza dell'abuso, ove abbia accertato il suo adoperarsi per impedire l'attività illecita con gli strumenti offerti dall'ordinamento.

E’ stato, infatti, costantemente affermato che l'ordine di demolizione può essere emesso sia nei confronti dell'autore dell'abuso edilizio che del proprietario dell'immobile. In particolare, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo è legittimamente adottato nei confronti del proprietario dell'immobile indipendentemente dall'essere egli stato anche autore dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di far valere, sul piano civile, la responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, del proprio dante causa. Il provvedimento che ingiunge la demolizione dell'abuso, pertanto, non è illegittimo per il solo fatto che l'ordine venga indirizzato al proprietario (anche se estraneo alla commissione dell'illecito edilizio) del suolo su cui ricade la costruzione, atteso che a quest'ultimo deve riconoscersi comunque l'interesse a contestare anche il carattere abusivo della stessa realizzazione, perché non può escludersi che la rimozione del manufatto possa arrecare anche un danno all'area di sua proprietà (cfr., fra le tante, TAR Lazio, sez. II, 04.02.2011, n. 1072).
In caso di inottemperanza del responsabile dell'abuso all'ingiunzione di demolizione, l'acquisizione gratuita dell'area non può essere, però, dichiarata nei confronti del proprietario che, del tutto estraneo al compimento dell'opera abusiva, non può ritenersi responsabile della stessa; l'unica eccezione a tale principio sussiste quando il proprietario, sebbene non responsabile dell'abuso, sia venuto a conoscenza dello stesso e non si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento; l'amministrazione, ferma restando l'attività demolitoria dell'immobile illecitamente realizzato, legittimamente ingiunta nei confronti del responsabile dell'abuso, non può prefigurare l'acquisizione dell'area di sedime e di pertinenza ai danni del ricorrente, proprietario del terreno, ove abbia accertato la completa estraneità dello stesso al compimento dell'opera abusiva e, nel caso in cui l'interessato fosse comunque venuto a conoscenza dell'abuso, ove abbia accertato il suo adoperarsi per impedire l'attività illecita con gli strumenti offerti dall'ordinamento (cfr. TAR Campania, sez. II, 20.12.2010, n. 27683) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 31.01.2012 n. 347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn sede di valutazione comparativa delle offerte tecniche presentate nelle gare d’appalto le valutazioni tecniche, caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dalla opinabilità dell’esito della valutazione, sfuggono al sindacato intrinseco del giudice amministrativo, se non vengono in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o circa la loro applicazione. Le valutazioni della Commissione di gara in ordine all’(in)idoneità tecnica delle offerte dei vari partecipanti alla gara costituiscono, invero, espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale a carattere complesso, alle quali non possono essere contrapposte le valutazioni di parte circa la (in)sussistenza delle prescritte qualità, trattandosi di questioni afferenti al merito delle suddette valutazioni tecnico-discrezionali, non sindacabili se non sotto il profilo dei criteri.
La valutazione in ordine alla idoneità della scelta progettuale proposta è espressione di una valutazione di merito riservata alla Commissione, che la ricorrente non contesta nella sostanza, deducendo soltanto un non contrasto con la disciplina di gara.

In sede di valutazione comparativa delle offerte tecniche presentate nelle gare d’appalto le valutazioni tecniche, caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dalla opinabilità dell’esito della valutazione, sfuggono al sindacato intrinseco del giudice amministrativo, se non vengono in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o circa la loro applicazione. Le valutazioni della Commissione di gara in ordine all’(in)idoneità tecnica delle offerte dei vari partecipanti alla gara costituiscono, invero, espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale a carattere complesso, alle quali non possono essere contrapposte le valutazioni di parte circa la (in)sussistenza delle prescritte qualità, trattandosi di questioni afferenti al merito delle suddette valutazioni tecnico-discrezionali, non sindacabili se non sotto il profilo dei criteri” (Consiglio di Stato, V, 08.03.2011, n. 1464).
La valutazione in ordine alla idoneità della scelta progettuale proposta è espressione di una valutazione di merito riservata alla Commissione, che la ricorrente non contesta nella sostanza, deducendo soltanto un non contrasto con la disciplina di gara (cfr. TAR Lombardia, Milano, I, 18.11.2011, n. 2802) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 31.01.2012 n. 346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVIIl verbale della conferenza di servizi non deve essere impugnato fintato che le sue determinazioni non vengono recepite dall’autorità che è competente ad emettere il provvedimento finale l’unico veramente lesivo.
In tema di bonifica di siti di interesse nazionale va confermato che la conferenza di servizi decisoria è uno strumento procedimentale di mero coordinamento tra amministrazioni autonome e distinte; di conseguenza i verbali stilati a conclusione dei lavori, avendo natura endoprocedimentale, non sono autonomamente impugnabili per carenza di interesse.
La giurisprudenza in tema di legittimazione passiva avverso ricorsi che riguardano atti conseguenti a conferenze di servizi ha affermato che il ricorso proposto avverso la conferenza di servizi ex artt. 14 ss. l. 07.08.1990, n. 241 deve essere notificato alle sole amministrazioni che hanno una competenza esoprocedimentale.
Invero, il ricorso contro l'atto finale della conferenza di servizi non va notificato a tutte le autorità amministrative partecipanti, ma soltanto a quelle che hanno esercitato la potestà correlata alla posizione giuridica di cui si chiede tutela.
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Il nuovo codice dell'ambiente riprende in tema l'impostazione già seguita dal d.lgs. n. 22/1997 il cui art. 17 stabiliva che "Chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero determini un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento".
Per quanto attiene ai procedimenti di bonifica dei siti di interesse nazionale, l'art. 252, comma 5, del d.lgs. n. 152/2006 dispone che "Nel caso in cui il responsabile non provveda o non sia individuabile oppure non provveda il proprietario del sito contaminato né altro soggetto interessato, gli interventi sono predisposti dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio...".
La disposizione appena citata non può che essere interpretata nel senso che l'obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento incombe solamente a carico di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa (nello stesso senso, l'art. 252-bis in tema di "Siti di preminente interesse pubblico per la riconversione industriale").
La norma individua, perciò, dal punto di vista di soggettivo nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento, a titolo di dolo o di colpa, la fonte dell'obbligo a provvedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato.
Da ciò la giurisprudenza quasi univoca, condivisa dal Collegio, deduce la mancanza di responsabilità, e quindi di obbligo a bonificare o di mettere in sicurezza, del proprietario incolpevole.
Ne consegue che l'amministrazione non può imporre ai privati che non hanno alcuna responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengono individuati solo in quanto proprietari del bene, lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento.
L'enunciato, è d'altronde conforme al principio a cui si ispira la legislazione comunitaria "chi inquina paga" (art. 174, ex art. 130/R, Trattato CE) che impone a chi fa correre un rischio di inquinamento o a chi provoca un inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
A carico del proprietario dell'area inquinata non responsabile della contaminazione, invero, non grava alcun obbligo di porre in essere gli interventi ambientali in argomento, ma solo la facoltà di eseguirli al fine di evitare l'espropriazione del terreno interessato gravato da onere reale, al pari delle spese sostenute per gli interventi di recupero ambientale, assistite anche da privilegio speciale immobiliare (art. 253 d.lgs. n. 152/2006).
La normativa citata prevede, infatti, che, in caso di mancata esecuzione degli interventi in argomento da parte del responsabile dell'inquinamento ovvero in caso di mancata individuazione del predetto, le opere di recupero ambientale vanno eseguite dall'amministrazione competente la quale potrà rivalersi sul soggetto responsabile, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, nel caso in cui la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei suddetti interventi.

E' principio unanimemente affermato che il verbale della conferenza di servizi non deve essere impugnato fintato che le sue determinazioni non vengono recepite dall’autorità che è competente ad emettere il provvedimento finale l’unico veramente lesivo (vedasi Consiglio di Stato 712/2011, TAR Lazio 2815/2008, TAR Friuli Venezia Giulia 291/2007 ).
In particolare proprio sul tema specifico una pronuncia del TAR Toscana 1398/2009 ha affermato che in tema di bonifica di siti di interesse nazionale va confermato che la conferenza di servizi decisoria è uno strumento procedimentale di mero coordinamento tra amministrazioni autonome e distinte; di conseguenza i verbali stilati a conclusione dei lavori, avendo natura endoprocedimentale, non sono autonomamente impugnabili per carenza di interesse.
La conferenza di servizi del 2009 non fu seguita da una determinazione dirigenziale e quindi non poneva obblighi nei confronti della ricorrente non avendo pertanto efficacia lesiva diretta; inoltre la conferma delle prescrizioni decisi nella conferenza di servizi del 2009 era stata assunta dopo un’ulteriore attività istruttoria e questo è sufficiente per affermare che il provvedimento conseguente non è attività meramente confermativa.
Si veda in proposito la massima della sentenza 868/2011 del TAR Sicilia sezione staccata di Catania: “Soltanto se il provvedimento della P.A. è meramente confermativo di una antecedente determinazione non tempestivamente impugnata, del primo si deve escludere l'impugnabilità; viceversa, quando l'antecedente determinazione della stessa Amministrazione non impugnata viene, come nella fattispecie, successivamente sottoposta a riesame nell'ambito di una attività istruttoria, seppure con esito sostanzialmente confermativo, non incorre nel termine decadenziale l'interessato che promuove ricorso nei riguardi della determinazione finale successiva”.
Ulteriore motivo di inammissibilità dovrebbe ravvisarsi a parere della società controinteressata per la mancata citazione della Provincia di Milano che conserva specifiche competenza in materia e che pertanto doveva essere parte necessaria del processo.
La giurisprudenza in tema di legittimazione passiva avverso ricorsi che riguardano atti conseguenti a conferenze di servizi ha affermato che il ricorso proposto avverso la conferenza di servizi ex artt. 14 ss. l. 07.08.1990, n. 241 deve essere notificato alle sole amministrazioni che hanno una competenza esoprocedimentale.
Interessante a questo proposito è la sentenza 50/2008 del TAR Molise che sul punto afferma: “il ricorso contro l'atto finale della conferenza di servizi non va notificato a tutte le autorità amministrative partecipanti, ma soltanto a quelle che hanno esercitato la potestà correlata alla posizione giuridica di cui si chiede tutela (cfr.: Cons. Stato IV 07.05.2004 n. 2874; TAR Latina 29.03.2006 n. 212)“.
La Provincia di Milano in relazione alla procedura di bonifica dei siti di interesse nazionale partecipa come altri enti alla conferenza di servizi, ma non deve assumere alcun provvedimento conclusivo né dispone di autonomi poteri in materia; non vi era quindi alcuna necessità di procedere alla sua citazione in giudizio.
Peraltro l’inesistenza di un autonoma competenza degli enti locali è stato affermato anche dalla sentenza 247/2009 della Corte Costituzionale che ha ritenuto non fondate, in riferimento agli art. 117 e 118 cost., le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 252 d.lgs. 03.04.2006 n. 152, il quale regola le procedura di bonifica dei siti inquinati "d'interesse nazionale".
La Corte affermando che la disciplina dettata dalle disposizioni censurate è quella della tutela dell'ambiente, di competenza esclusiva dello Stato, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. s), cost., ha ritenuto che la stessa costituisce un limite alla disciplina che le regioni e le province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per cui queste ultime non possono in alcun modo derogare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato; ne consegue che anche qualora possano rilevarsi ambiti di competenza spettanti alle regioni, il citato titolo di legittimazione statale prevale, anche in ragione della sussistenza di un interesse unitario alla disciplina omogenea di siti che travalicano l'interesse locale e regionale, fermo restando, peraltro, che la disciplina censurata prevede chiaramente il coinvolgimento delle regioni nelle varie fasi della procedura.
La terza eccezione preliminare sollevata dalla società controinteressata riguarda la carenza di interesse derivante dal fatto che quale soggetto interessato la ricorrente sarebbe comunque tenuta ad adempiere alle prescrizioni contenute nel provvedimento impugnato.
L’eccezione è inammissibile perché riguarda proprio un aspetto che è stato posto a fondamento del ricorso e cioè l’inesistenza di un obbligo giuridico del soggetto interessato a compiere le opere richieste ai sensi dell’art. 242 D.lgs. 152/2006 e pertanto non può essere valutato sotto il profilo dell’interesse a ricorrere, ma andrà valutato nel merito.
Venendo al merito del ricorso il Collegio ritiene che esso sia fondato.
Il primo motivo contesta la possibilità di addossare al soggetto proprietario ed utilizzatore dell’area da bonificare gli oneri di tale bonifica, in mancanza di accertamento di una sua responsabilità rispetto all’inquinamento presente.
La sentenza 762/2009 del TAR Toscana affronta la medesima questione proposta in questa sede e merita riportare un ampio brano della sua motivazione poiché presenta una lettura complessiva delle norme che attengono alla bonifica dei siti inquinati che il Collegio condivide pienamente. “Il nuovo codice dell'ambiente riprende in tema l'impostazione già seguita dal d.lgs. n. 22/1997 il cui art. 17 stabiliva che "Chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero determini un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento".
Per quanto attiene ai procedimenti di bonifica dei siti di interesse nazionale, l'art. 252, comma 5, del d.lgs. n. 152/2006 dispone che "Nel caso in cui il responsabile non provveda o non sia individuabile oppure non provveda il proprietario del sito contaminato né altro soggetto interessato, gli interventi sono predisposti dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio...".
La disposizione appena citata non può che essere interpretata nel senso che l'obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento incombe solamente a carico di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa (nello stesso senso, l'art. 252-bis in tema di "Siti di preminente interesse pubblico per la riconversione industriale").
La norma individua, perciò, dal punto di vista di soggettivo nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento, a titolo di dolo o di colpa, la fonte dell'obbligo a provvedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato.
Da ciò la giurisprudenza quasi univoca, condivisa dal Collegio, deduce la mancanza di responsabilità, e quindi di obbligo a bonificare o di mettere in sicurezza, del proprietario incolpevole (cfr., TAR Toscana, sez. II, 17.04.2009, n. 665; TAR Veneto, sez. III, 25.05.2005, n. 2174; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 08.10.2004, n. 5473; TAR Campania, sez. V, 28.09.1998, n. 2988).
Ne consegue che l'amministrazione non può imporre ai privati che non hanno alcuna responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengono individuati solo in quanto proprietari del bene, lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento (TAR Veneto, sez. III, 02.02.2002, n. 320).
L'enunciato, è d'altronde conforme al principio a cui si ispira la legislazione comunitaria "chi inquina paga" (art. 174, ex art. 130/R, Trattato CE) che impone a chi fa correre un rischio di inquinamento o a chi provoca un inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
A carico del proprietario dell'area inquinata non responsabile della contaminazione, invero, non grava alcun obbligo di porre in essere gli interventi ambientali in argomento, ma solo la facoltà di eseguirli al fine di evitare l'espropriazione del terreno interessato gravato da onere reale, al pari delle spese sostenute per gli interventi di recupero ambientale, assistite anche da privilegio speciale immobiliare (art. 253 d.lgs. n. 152/2006).
La normativa citata prevede, infatti, che, in caso di mancata esecuzione degli interventi in argomento da parte del responsabile dell'inquinamento ovvero in caso di mancata individuazione del predetto, le opere di recupero ambientale vanno eseguite dall'amministrazione competente la quale potrà rivalersi sul soggetto responsabile, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, nel caso in cui la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei suddetti interventi (TAR Lombardia, Brescia, 16.03.2006, n. 291; TAR Lombardia Milano, sez. II, 10.07.2007, n. 5355)
” (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 31.01.2012 n. 332 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUn piazzale come quello per cui è causa (ndr: terreno adibito a piazzale per scaricare, accatastare e caricare blocchi di marmo e di granito mediante un carro ponte, il tutto al servizio di una attività di commercio di materiali per l’edilizia), pacificamente destinato alla movimentazione di mezzi pesanti, costituisce trasformazione del territorio, soggetta come tale a permesso di costruire.
Siffatto piazzale poi nemmeno può essere considerato pertinenza, in quanto tali sono soltanto i “manufatti di dimensioni modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio”.

La prospettazione della p.a., ad avviso del Collegio è corretta e condivisibile.
In primo luogo, un piazzale come quello per cui è causa, pacificamente destinato alla movimentazione di mezzi pesanti, costituisce trasformazione del territorio, soggetta come tale a permesso di costruire, come ritenuto, fra le molte, da Cass. pen. sez. III 25.03.2010 n. 18543, TAR Puglia Bari sez. III 26.02.2009 n. 404 e TAR sez. I 25.10.2007 n. 3242, le due ultime relative proprio a fattispecie di diniego del condono edilizio; siffatto piazzale poi nemmeno può essere considerato pertinenza, in quanto tali sono soltanto i “manufatti di dimensioni modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio”, come ritenuto da ultimo da C.d.S. sez. IV 13.01.2010 n. 41, e ciò anche a prescindere dal rilievo per cui, nel caso di specie, nemmeno è spiegato rispetto a quale altro immobile, in ipotesi legittimamente edificato, il rapporto pertinenziale dovrebbe ravvisarsi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.01.2012 n. 163 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento abilitativo condizionato è ammesso da tempo dalla giurisprudenza amministrativa e rientra nello schema legale tipico previsto dalla norma attributiva di potere.
A fronte delle perplessità che vennero espresse in anni risalenti dalla dottrina giuridica che costruiva l’atto amministrativo all’interno della teoria generale degli atti giuridici e che quindi si era posta il problema della possibilità di introdurre elementi accidentali nell’atto amministrativo, la giurisprudenza, invece, spinta da una prassi degli organi amministrativi che è sempre stata molto propensa all’utilizzo di provvedimenti di approvazione condizionati ad alcune prescrizioni introdotte dall’amministrazione, ha finito per riconoscere la legittimità di tale tipo di provvedimenti, che semplifica la procedura (se non fosse possibile approvare con condizioni occorrerebbe, infatti, respingere; e tutto ciò sarebbe oggi anche in contrasto con la regola generale sul divieto di aggravamento del procedimento amministrativo di cui all’art 1, co. 2, l. 241/1990), ed in realtà consente di esercitare meglio la potestà conformativa.
Se alla semplice alternativa approvare/non approvare si aggiunge, infatti, anche la possibilità di approvare con prescrizioni, si ampliano i poteri conformativi dell’amministrazione che ha la possibilità in questo modo di modellare meglio la propria decisione alle particolarità del caso di specie.

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Il danno ambientale costituisce non il presupposto sostanziale indefettibile per l'applicazione della sanzione ma esclusivamente un elemento che viene in rilievo ai fini del diverso profilo della quantificazione della sanzione, ossia un semplice criterio di commisurazione della sanzione (alternativo al profitto conseguito).
Il danno ambientale non costituisce il presupposto sostanziale indefettibile per l'applicazione della sanzione di cui all'art. 15 della l. n. 1497 del 1939, ma un elemento che viene in rilievo ai fini del diverso profilo della quantificazione della sanzione.
L'autorizzazione postuma per effetto della verifica di compatibilità ambientale non preclude la possibilità di infliggere anche la sola sanzione pecuniaria di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del 1939, dal momento che "un'autorizzazione postuma ai fini ambientali, valevole ai fini della positiva definizione del procedimento di sanatoria ai sensi dell'art. 13 della legge n. 47 del 1985 semmai indirizza, vincolandolo nell'esito, il residuo potere-dovere dell'autorità competente di procedere all'applicazione della sanzione di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del 1939. La circostanza, infatti, che l'Amministrazione, esercitando un potere nella sostanza conferito dallo stesso art. 15, abbia verificato la compatibilità ambientale in via postuma, se da un lato esclude la compromissione sostanziale dell'integrità paesaggistica, dall'altro non cancella la violazione dell'obbligo, discendente dall'art. 7, di conseguire in via preventiva il titolo di assenso necessario per la realizzazione dell'intervento modificativo dell'assetto territoriale.

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La sanzione ex art. 167 dlgs n. 42/2004 non è un risarcimento del danno, ma una sanzione afflittiva per un’opera abusiva.
La misura pecuniaria prevista dall'art. 15 della legge n. 1497 del 1939, nonostante il riferimento al termine "indennità", non costituisce un'ipotesi di risarcimento del danno ambientale ma rappresenta una sanzione amministrativa, applicabile sia nel caso di illeciti sostanziali, ovvero in caso di compromissione dell'indennità paesaggistica, sia nell'ipotesi di illeciti formali, quale è, appunto, da ritenersi il caso di violazione dell'obbligo di conseguire l'autorizzazione a fronte di un intervento compatibile con il contesto paesistico oggetto di protezione.
In altri termini, la sanzione è solo la conseguenza della violazione di un obbligo (di non essersi dotati preventivamente di autorizzazione paesaggistica); il legislatore avrebbe potuto prevedere una misura fissa, come usa di solito per le sanzioni penali, invece ha preferito modellarla sul caso di specie non predeterminandone minimi e massimi, ma rapportandola al danno ambientale, ma questo non significa che essa debba consistere nelle spese affrontate per il ripristino, perché altrimenti essa consisterebbe in un risarcimento del danno.
In una situazione riconosciuta come idonea a compromettere l'ambiente quale fatto ingiusto implicante una lesione presunta del valore giuridico tutelato, la quantificazione del danno avviene in via equitativa, tenendo conto dell'ampiezza dell'inquinamento, della gravità della colpa individuale e del costo necessario per la depurazione.
FATTO
L’azienda agricola ricorrente impugna il provvedimento del 19.06.2008 con cui il Comune di Cazzago San Martino le ha applicato la sanzione pecuniaria di 7.142,85 euro per opere eseguite in assenza di autorizzazione paesaggistica in zona paesaggisticamente vincolata.
Le opere consistevano in modifica geomorfologica dei terreni per impiantare nuovo vigneto, ed il Comune le aveva ritenute compatibili paesaggisticamente.
I motivi che sostengono il ricorso sono i seguenti:
1. il provvedimento sarebbe illegittimo perché sarebbe stata violata la norma che impone l’alternativa tra ripristino e sanzione pecuniaria, in quanto è stato comunque ordinato l’impianto di 10 roveri adulte, che è una sorta di ripristino e non andava abbinato alla sanzione pecuniaria; sarebbe stata applicata, inoltre, una sanzione pecuniaria parametrata al danno con motivazione illogica in quanto nello stesso provvedimento si dice che il danno ambientale non v’è; sarebbe irragionevole, da ultimo, la quantificazione del danno;
2. il provvedimento sarebbe illegittimo perché l’attività che avrebbe compiuto la ricorrente è solo di pulizia dal fondo delle sterpaglie, che non può essere produttiva di danno ambientale;
3. il provvedimento sarebbe illegittimo, inoltre, perché da esso non si comprende perché l’amministrazione abbia imposto l’impianto di 10 roveri.
...
DIRITTO
I. Il ricorso è infondato.
...
II. Nel primo motivo di ricorso la ricorrente ritiene che questa procedura non sia stata corretta, perché sarebbe stata violata l’alternativa tra sanzione ripristinatoria e sanzione pecuniaria (in quanto l’impianto delle roveri sarebbe comunque un ripristino).
Ma questa prospettazione non è corretta. Il ripristino è cosa diversa da quanto è stato ordinato alla impresa ricorrente, perché per aversi ripristino occorreva tornare allo status quo antecedente l’inizio dei lavori non autorizzati. Ma lo status quo antecedente l’inizio dei lavori non è stato ripristinato dalle opere realizzate spontaneamente dalla ricorrente, che si è limitata a ricreare il salto di quota con un’inclinazione prossima a quella naturale preesistente, ma non ha ricostituito l’originario bosco.
Né il ripristino è garantito dall’impianto delle roveri adulte e dall’inerbimento delle ripe, che sono soltanto la condizione cui nel parere del 30.08.2007 gli esperti ambientali hanno assoggettato il rilascio della certificazione di compatibilità paesaggistica.
Si può senz’altro contestare che attraverso il combinato di una certificazione di compatibilità paesaggistica sottoposta a condizioni (da un lato) e dell’applicazione della sanzione pecuniaria (dall’altro) si sia realizzato un cumulo tra due tipologie di sanzioni diverse, ma il provvedimento abilitativo condizionato è ammesso da tempo dalla giurisprudenza amministrativa e rientra nello schema legale tipico previsto dalla norma attributiva di potere.
A fronte delle perplessità che vennero espresse in anni risalenti dalla dottrina giuridica che costruiva l’atto amministrativo all’interno della teoria generale degli atti giuridici (che, com’è noto, era modellata su quella positiva del negozio giuridico di diritto tedesco), e che quindi si era posta il problema della possibilità di introdurre elementi accidentali nell’atto amministrativo, la giurisprudenza, invece, spinta da una prassi degli organi amministrativi che è sempre stata molto propensa all’utilizzo di provvedimenti di approvazione condizionati ad alcune prescrizioni introdotte dall’amministrazione, ha finito per riconoscere la legittimità di tale tipo di provvedimenti, che semplifica la procedura (se non fosse possibile approvare con condizioni occorrerebbe, infatti, respingere; e tutto ciò sarebbe oggi anche in contrasto con la regola generale sul divieto di aggravamento del procedimento amministrativo di cui all’art 1, co. 2, l. 241/1990), ed in realtà consente di esercitare meglio la potestà conformativa.
Se alla semplice alternativa approvare/non approvare si aggiunge, infatti, anche la possibilità di approvare con prescrizioni, si ampliano i poteri conformativi dell’amministrazione che ha la possibilità in questo modo di modellare meglio la propria decisione alle particolarità del caso di specie.
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III. Nello stesso primo motivo di ricorso si sostiene che sarebbe stata applicata, inoltre, una sanzione pecuniaria parametrata al danno con motivazione illogica in quanto nello stesso provvedimento si dice che il danno ambientale non v’è, ma in realtà questa deduzione si scontra con giurisprudenza amministrativa consolidata.
Secondo Tar Lazio, I, 1450/2009, infatti, il danno ambientale costituisce non il presupposto sostanziale indefettibile per l'applicazione della sanzione ma esclusivamente un elemento che viene in rilievo ai fini del diverso profilo della quantificazione della sanzione, ossia un semplice criterio di commisurazione della sanzione (alternativo al profitto conseguito).
La stessa tesi era stata sostenuta da Cons. Stato, VI, 2653/2003, secondo cui il danno ambientale non costituisce il presupposto sostanziale indefettibile per l'applicazione della sanzione di cui all'art. 15 della l. n. 1497 del 1939, ma un elemento che viene in rilievo ai fini del diverso profilo della quantificazione della sanzione.
Come ha spiegato bene tale ultima pronuncia (che riprende un precedente dello stesso Consiglio di Stato, la pronuncia 912/2001) la Sezione ha, altresì, espressamente chiarito che l'autorizzazione postuma per effetto della verifica di compatibilità ambientale non preclude la possibilità di infliggere anche la sola sanzione pecuniaria di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del 1939, dal momento che "un'autorizzazione postuma ai fini ambientali, valevole ai fini della positiva definizione del procedimento di sanatoria ai sensi dell'art. 13 della legge n. 47 del 1985 semmai indirizza, vincolandolo nell'esito, il residuo potere-dovere dell'autorità competente di procedere all'applicazione della sanzione di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del 1939. La circostanza, infatti, che l'Amministrazione, esercitando un potere nella sostanza conferito dallo stesso art. 15, abbia verificato la compatibilità ambientale in via postuma, se da un lato esclude la compromissione sostanziale dell'integrità paesaggistica, dall'altro non cancella la violazione dell'obbligo, discendente dall'art. 7, di conseguire in via preventiva il titolo di assenso necessario per la realizzazione dell'intervento modificativo dell'assetto territoriale”.
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IV. E’ infondato anche il motivo che contesta la quantificazione della sanzione, evidenziando che essa sarebbe stata parametrata sulle spese di ripristino, ma in realtà il ripristino sarebbe stato effettuato a sue spese dalla ricorrente.
Ciò non rileva perché, come argomenta correttamente la difesa del Comune, la sanzione ex art. 167 non è un risarcimento del danno, ma una sanzione afflittiva per un’opera abusiva.
Si riprende ancora una volta quanto riportato nella motivazione della pronuncia del Cons. Stato, VI, 2653/2003, secondo cui “la misura pecuniaria prevista dall'art. 15 della legge n. 1497 del 1939, nonostante il riferimento al termine "indennità", non costituisce un'ipotesi di risarcimento del danno ambientale ma rappresenta una sanzione amministrativa, applicabile sia nel caso di illeciti sostanziali, ovvero in caso di compromissione dell'indennità paesaggistica, sia nell'ipotesi di illeciti formali, quale è, appunto, da ritenersi il caso di violazione dell'obbligo di conseguire l'autorizzazione a fronte di un intervento compatibile con il contesto paesistico oggetto di protezione (Sez. VI, n. 912 del 2001, cit. n. 3184 del 2000)”.
In altri termini, la sanzione è solo la conseguenza della violazione di un obbligo (di non essersi dotati preventivamente di autorizzazione paesaggistica); il legislatore avrebbe potuto prevedere una misura fissa, come usa di solito per le sanzioni penali, invece ha preferito modellarla sul caso di specie non predeterminandone minimi e massimi, ma rapportandola al danno ambientale, ma questo non significa che essa debba consistere nelle spese affrontate per il ripristino, perché altrimenti essa consisterebbe in un risarcimento del danno.
La ricorrente sostiene, inoltre, che la quantificazione del materiale movimentato sarebbe eccessivo, essendo stata effettuata verificando al centimetro le differenze di quota, senza tenere conto delle soglie di tolleranza inevitabili in un terreno che viene arato prima della coltivazione.
Ma, in realtà, il criterio del calcolo al centimetro delle differenze di quota è l’unico metodo scientifico utilizzabile per calcolare la movimentazione dei terreni; la stessa richiesta della difesa della ricorrente di tener conto di soglie di tolleranza dovute alla aratura dei terreni, se non si individuano dei valori percentuali di tipo generale per introdurre nel calcolo i riporti dovuti ad aratura, finisce per introdurre un margine di approssimazione incompatibile con una metodologia di calcolo scientifica.
Si ricorda, d’altronde, che il calcolo al centimetro neanche è imposto alle amministrazioni, perché, come rilevato da Tribunale Milano 31.03.2008, “in una situazione riconosciuta come idonea a compromettere l'ambiente quale fatto ingiusto implicante una lesione presunta del valore giuridico tutelato, la quantificazione del danno avviene in via equitativa, tenendo conto dell'ampiezza dell'inquinamento, della gravità della colpa individuale e del costo necessario per la depurazione”, e che lo stesso criterio equitativo sembrerebbe desumersi (a contrario) da Tar Lazio 1450/2009 cit. (a contrario, perché essa ritiene che invece debba essere effettuata una ricostruzione analitica del profitto) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.01.2012 n. 145 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di dinieghi di condono, le specifiche caratteristiche dei manufatti, nel concreto spazio in cui insistono, possono consentire al giudice, cui sia offerto un adeguato supporto probatorio, di intendere ed eventualmente approvare (sempre, naturalmente, nei limiti del sindacato di legittimità) le ragioni del diniego stesso, per quanto solo compendiate nel provvedimento.
Fuorviante risulta il richiamo all’orientamento della giurisprudenza secondo cui il diniego di concessione edilizia necessita di una motivazione esplicativa delle reali ragioni impeditive, da individuarsi nel contrasto del progetto presentato con specifiche norme urbanistiche, esplicitamente indicate.
Invero, se la ratio sottesa a tale indirizzo è quella di consentire al richiedente di conoscere le reali ragioni del diniego là dove sono possibili più ipotesi normative, nella specie tale scopo è stato palesemente raggiunto, posto che il dr. Capitanio -dopo aver negato, con il primo motivo, di conoscere la reale ragione ostativa al condono- ha poi provveduto a contestare (con la seconda doglianza) la fondatezza del diniego in relazione alla sussistenza del carattere di pertinenzialità della struttura, risultando incontroverso che la struttura intesa come autonoma non era ammessa a condono.
Inoltre, va condiviso l’indirizzo giurisprudenziale (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 24.01.2009, n. 151; Sez. II, 27.05.2009 n. 1624) secondo il quale, in materia di dinieghi di condono, le specifiche caratteristiche dei manufatti, nel concreto spazio in cui insistono, possono consentire al giudice, cui sia offerto un adeguato supporto probatorio, di intendere ed eventualmente approvare (sempre, naturalmente, nei limiti del sindacato di legittimità) le ragioni del diniego stesso, per quanto solo compendiate nel provvedimento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.01.2012 n. 141 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di pertinenza, in materia edilizia, è più ristretta di quella civilistica ed è riferibile solo a manufatti tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono.
La giurisprudenza richiede che dette opere, per loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono.
La strumentalità non può mai desumersi dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario e devono comportare una circoscritta incisione sul cd. “carico urbanistico”.
La norma regionale -pur non fornendo una definizione del concetto di pertinenzialità, sicché deve farsi riferimento al concetto, generalmente accettato, di pertinenza in materia edilizia- ha cura di specificare che le strutture pertinenziali debbono essere “prive di funzionalità autonoma”.
La proporzionalità del manufatto accessorio rispetto a quello principale non può costituire l’unico criterio di giudizio, dovendo in concomitanza operare anche il criterio oggettivo, dato che, in caso contrario, si perverrebbe a riconoscere carattere pertinenziale a qualsiasi nuova costruzione, in palese contrasto con la ratio sottesa alla norma regionale

Al riguardo va rilevato (cfr. TAR Brescia Sez. I, 01.07.2010 n. 2408) che:
- la nozione di pertinenza, in materia edilizia, è più ristretta di quella civilistica ed è riferibile solo a manufatti tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono.
- la giurisprudenza richiede (cfr. Cons. St. Sez. IV, 17.05.2010 n. 3127 e precedenti ivi richiamati) che dette opere, per loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono.
- la Sezione (cfr. TAR Brescia 11.01.2006 n. 32) ha sottolineato che la strumentalità non può mai desumersi dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario e devono comportare una circoscritta incisione sul cd. “carico urbanistico”.
- la norma regionale -pur non fornendo una definizione del concetto di pertinenzialità, sicché deve farsi riferimento al concetto, generalmente accettato, di pertinenza in materia edilizia- ha cura di specificare che le strutture pertinenziali debbono essere “prive di funzionalità autonoma”.
- la proporzionalità del manufatto accessorio rispetto a quello principale non può costituire l’unico criterio di giudizio, dovendo in concomitanza operare anche il criterio oggettivo, dato che, in caso contrario, si perverrebbe a riconoscere carattere pertinenziale a qualsiasi nuova costruzione, in palese contrasto con la ratio sottesa alla norma regionale
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.01.2012 n. 141 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONERientrano nella materia espropriativa non solo le controversie che abbiano per oggetto i provvedimenti emanati nel corso di un ordinario procedimento espropriativo, tra i quali in particolare quelli recanti la dichiarazione di pubblica utilità, ma anche quelle che hanno per oggetto i provvedimenti di acquisizione sanante (in precedenza previsti e disciplinati dall’art. 43 del d.P.R. n. 327/2001, ed oggi previsti e disciplinati, dopo la dichiarazione di incostituzionalità della predetta norma, dall’art. 42-bis dello stesso d.P.R.) ai quali non può essere negata valenza espropriativa.
Invero, secondo la prevalente giurisprudenza, rientrano in tale materia non solo le controversie che abbiano per oggetto i provvedimenti emanati nel corso di un ordinario procedimento espropriativo, tra i quali in particolare quelli recanti la dichiarazione di pubblica utilità, ma anche quelle che hanno per oggetto i provvedimenti di acquisizione sanante (in precedenza previsti e disciplinati dall’art. 43 del d.P.R. n. 327/2001, ed oggi previsti e disciplinati, dopo la dichiarazione di incostituzionalità della predetta norma, dall’art. 42-bis dello stesso d.P.R.) ai quali non può essere negata valenza espropriativa (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 26.11.2009 n. 7446; TAR Sicilia Palermo, sez. III, 07.06.2010, n. 7237) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 30.01.2012 n. 322 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAPer fondare l’interesse al ricorso in relazione alle censure afferenti la V.A.S. occorre fornire la dimostrazione che i lamentati vizi della V.A.S. stessa abbiano inciso in modo diretto e determinante sulle scelte specificamente riguardanti le aree dei ricorrenti, traendo da ciò la logica conseguenza che dette scelte avrebbero potuto essere differenti ove si fosse proceduto ad una nuova V.A.S. emendata dei ridetti vizi.
Ad avviso del Collegio, alla luce della più recente impostazione giurisprudenziale, incline a porre forti limiti alla configurabilità anche dell’interesse cd. strumentale all’impugnazione dello strumento urbanistico, neppure l’esistenza di siffatto interesse sotteso alla riedizione della procedura di V.A.S. può essere ritenuta sufficiente ad integrare la condizione dell’azione qui contestata.
Ciò, sul presupposto che, in subiecta materia, l’interesse al ricorso non può sostanziarsi in un generico interesse a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza, che in quanto tale non si differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire.
Per evitare di pervenire a una legitimatio generalis … occorre che le “determinazioni lesive” fondanti l’interesse a ricorrere siano effettivamente “condizionate”, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S., e pertanto l’istante avrebbe dovuto precisare come e perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli di sua proprietà, ciò che non ha fatto.

Come evidenziato dal Consiglio di Stato nella sentenza del 12.01.2011 n. 133, che ha riformato la su richiamata pronuncia di questo TAR, per fondare l’interesse al ricorso in relazione alle censure afferenti la V.A.S. occorre fornire la dimostrazione che i lamentati vizi della V.A.S. stessa abbiano inciso in modo diretto e determinante sulle scelte specificamente riguardanti le aree dei ricorrenti, traendo da ciò la logica conseguenza che dette scelte avrebbero potuto essere differenti ove si fosse proceduto ad una nuova V.A.S. emendata dei ridetti vizi.
Ad avviso del Collegio, alla luce della più recente impostazione giurisprudenziale, incline a porre forti limiti alla configurabilità anche dell’interesse cd. strumentale all’impugnazione dello strumento urbanistico, neppure l’esistenza di siffatto interesse sotteso alla riedizione della procedura di V.A.S. può essere ritenuta sufficiente ad integrare la condizione dell’azione qui contestata.
Ciò, sul presupposto che, in subiecta materia, l’interesse al ricorso non può sostanziarsi in un generico interesse a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza, che in quanto tale non si differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire (cfr. Consiglio di Stato 12.01.2011 n. 133, cit; nonché, id. 12.10.2010 n. 7439; id. 13.07.2010 n. 4542; id. 06.05.2010 n. 2629; nonché, sempre in tema di legittimazione e interesse al ricorso, la decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, del 07.04.2011 n. 4).
Applicando tali coordinate ermeneutiche al caso di specie, ne deriva che, non soltanto, non risulta fornita alcuna dimostrazione dell’incidenza dei vizi afferenti la V.A.S. rispetto alla pianificazione avente ad oggetto le aree dei ricorrenti ma altresì che, a conferma del predetto assunto, le censure specificamente volte a contestare il regime dei suoli di proprietà degli esponenti sono, come si illustrerà di seguito, tutte destituite di fondamento..
Merita, pertanto, di essere preliminarmente condivisa, la tesi resistente, secondo cui l’inammissibilità dei gravami, in parte qua, consegue alla mancata dimostrazione del se e in quale misura le doglianze relative alla fase di V.A.S. incidano sul “regime” riservato ai suoli di proprietà dei ricorrenti.
Al riguardo il Collegio non può che fare proprio l’insegnamento espresso dal Consiglio di Stato nella decisione n. 133/20111 cit., per cui: <<per evitare di pervenire a una legitimatio generalis … occorre che le “determinazioni lesive” fondanti l’interesse a ricorrere siano effettivamente “condizionate”, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S., e pertanto l’istante avrebbe dovuto precisare come e perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli di sua proprietà, ciò che non ha fatto>>
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.01.2012 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamenti di merito, come tali sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità. Per tale via, anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, salvo che particolari situazioni, nel caso di specie non allegate, non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
L''attribuzione di una destinazione agricola ad un determinato terreno è volta non tanto e non solo a garantire il suo effettivo utilizzo a scopi agricoli, quanto piuttosto a preservarne le caratteristiche attuali di zona di salvaguardia da ogni possibile nuova edificazione, anche in funzione conservativa di valori naturalistici, nonché a favorire il recupero di aree dismesse o congestionate.
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Il potere di pianificazione urbanistica riveste un carattere ampiamente discrezionale, e si concretizza in scelte che, nel merito, appaiono insindacabili e che sono per ciò stesso attaccabili solo per errori di fatto, per abnormità e irrazionalità.
In ragione di tale discrezionalità, l'Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate nella predetta sede di pianificazione del territorio comunale, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l'impostazione del piano.
Ne consegue che le scelte adottate per ciò che attiene la destinazione di singole aree non necessitano di una specifica motivazione, se non nel caso in cui esse vadano ad incidere negativamente su posizioni giuridicamente differenziate, rispetto alle quali il principio della tutela dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di pianificazione, rendendole, così, sindacabili davanti al giudice amministrativo.
Ciò che si verifica solo nei casi in cui la nuova destinazione urbanistica innovi rispetto alla precedente, incidendo con ciò su singole posizioni, connotate da una fondata aspettativa alla conservazione della destinazione dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni degli altri soggetti interessati.
In tali evenienze, l'Amministrazione ha il dovere di valutare attentamente l'opportunità di una modifica della precedente destinazione urbanistica dell'area e, dove ritenga di doverla diversamente disciplinare, sacrificando gli interessi dei soggetti coinvolti, deve indicare le ragioni che l’hanno indotta a tale nuova scelta pianificatoria.
Le situazioni che, per costante giurisprudenza, vengono riconosciute meritevoli di questa particolare forma di tutela sono, infatti, solo quelle caratterizzate da un affidamento «qualificato», presente nei casi di:
   a) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 — con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
   b) lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, dalle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione;
   c) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.

Come ripetutamente affermato in giurisprudenza (da ultimo anche con la più volte citata sentenza n. 133/2011), le scelte effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamenti di merito, come tali sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità. Per tale via, anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, salvo che particolari situazioni, nel caso di specie non allegate, non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
Con precipuo riguardo alla fattispecie in esame, giova anche osservare che, sempre secondo la prevalente giurisprudenza (cfr. fra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 15.09.2010, n. 6874; id. 30.12.2008, n. 6600; id n. 3559/2004; id. n. 4466/2004; id. n. 1181/2003, id. n. 8146/2003; id. n. 3817/2002 e n. 6177/2000), l'attribuzione di una destinazione agricola ad un determinato terreno è volta non tanto e non solo a garantire il suo effettivo utilizzo a scopi agricoli, quanto piuttosto a preservarne le caratteristiche attuali di zona di salvaguardia da ogni possibile nuova edificazione, anche in funzione conservativa di valori naturalistici, nonché a favorire il recupero di aree dismesse o congestionate (cfr. di recente, in termini, anche TAR Campania Salerno, sez. II, 17.02.2011, n. 255).
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Giova rammentare come, per consolidata opinione dottrinale e giurisprudenziale, il potere di pianificazione urbanistica rivesta un carattere ampiamente discrezionale, e si concretizzi in scelte che, nel merito, appaiono insindacabili e che sono per ciò stesso attaccabili solo per errori di fatto, per abnormità e irrazionalità (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.02.2011, n. 1015, ove si ribadisce come dette scelte urbanistiche per la disciplina del territorio possano formare oggetto di sindacato giurisdizionale nei soli casi di arbitrarietà, irrazionalità o irragionevolezza ovvero di palese travisamento dei fatti, che costituiscono i limiti della discrezionalità amministrativa; analogamente, Consiglio di Stato, Sez. III, 17.09.2010, n. 2536; id. Sez. IV, 27.07.2010 n. 4920; id., 21.04.2010, n. 2264; id., 18.06.2009, n. 4024; id., 06.02.2002 n. 664).
In ragione di tale discrezionalità, l'Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate nella predetta sede di pianificazione del territorio comunale, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l'impostazione del piano (cfr. ancora Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.02.2011, n. 1015; id. 10.08.2004 n. 4550).
Ne consegue, come già accennato, che le scelte adottate per ciò che attiene la destinazione di singole aree non necessitano di una specifica motivazione, se non nel caso in cui esse vadano ad incidere negativamente su posizioni giuridicamente differenziate, rispetto alle quali il principio della tutela dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di pianificazione, rendendole, così, sindacabili davanti al giudice amministrativo.
Ciò che si verifica solo nei casi in cui la nuova destinazione urbanistica innovi rispetto alla precedente, incidendo con ciò su singole posizioni, connotate da una fondata aspettativa alla conservazione della destinazione dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni degli altri soggetti interessati.
In tali evenienze, l'Amministrazione ha il dovere di valutare attentamente l'opportunità di una modifica della precedente destinazione urbanistica dell'area e, dove ritenga di doverla diversamente disciplinare, sacrificando gli interessi dei soggetti coinvolti, deve indicare le ragioni che l’hanno indotta a tale nuova scelta pianificatoria.
Le situazioni che, per costante giurisprudenza, vengono riconosciute meritevoli di questa particolare forma di tutela sono, infatti, solo quelle caratterizzate da un affidamento «qualificato», presente nei casi di:
a) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 — con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, dalle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione;
c) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr. in tal senso, ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.02.2009 n. 2418; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 06.10.2011 n. 2379; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 02.03.2011, n. 1950)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.01.2012 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa c.d. cessione perequativa:
- è alternativa all'espropriazione perché non prevede l'apposizione di un vincolo pre-espropriativo sulle aree destinate a servizi pubblici, ma prevede che tutti i proprietari, sia quelli che possono edificare sulle loro aree, sia quelli i cui immobili dovranno realizzare la “città pubblica”, partecipino alla realizzazione delle infrastrutture pubbliche attraverso l'equa ed uniforme distribuzione di diritti edificatori indipendentemente dalla localizzazione delle aree per attrezzature pubbliche e dei relativi obblighi nei confronti del Comune;
- si caratterizza per il fatto che il terreno da trasferire al comune sviluppa volumetria propria (espressa, appunto dall'indice di edificabilità territoriale che gli viene attribuito) che, però, può essere realizzata solo sulle aree su cui deve concentrarsi l'edificabilità (aree alle quali è attribuito un indice urbanistico adeguato a ricevere anche la cubatura proveniente dai terreni oggetto di cessione).
Ne consegue che la perequazione è bensì finalizzata ad attenuare le disuguaglianze derivanti dalla pianificazione urbanistica, ma assicurando al contempo all'Amministrazione lo strumento per acquisire, senza oneri, con modalità diverse dall'esproprio, aree da destinare a scopi di pubblico interesse.
Il perseguimento di tale fine può, pertanto, legittimamente risolversi nella sostituzione della proprietà pubblica a quella privata sulle aree destinate a servizi pubblici, senza denotare perciò solo alcun profilo di illegittimità, trattandosi di un effetto riconducibile, in parte all’esercizio del potere conformativo e, per il resto, all’accordo tra p.a. e privato in sede di pianificazione di dettaglio.
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E’ noto come la perequazione urbanistica rappresenti un mezzo ideato per superare, o se si vuole, attenuare l’intrinseca discriminatorietà che caratterizza la funzione pianificatoria nel suo inevitabile estrinsecarsi in una disciplina necessariamente disuguagliante delle potenzialità di impiego dei suoli e conseguentemente del loro valore economico.
Di siffatto metodo perequativo si rinviene un sicuro fondamento nell’art. 3 della Costituzione, allorché se ne valorizzi proprio lo scopo di attenuazione delle disuguaglianze create dalla pianificazione.
In ogni caso, l’istituto perequativo della cessione di aree, pur in assenza di una specifica previsione normativa, trova il suo fondamento “in due pilastri fondamentali” del nostro ordinamento, e cioè nella potestà conformativa del territorio di cui è titolare l’Amministrazione nell’esercizio della propria attività di pianificazione e, al contempo, nella possibilità di utilizzare modelli consensuali per il perseguimento di finalità di interesse pubblico, secondo quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della legge n. 241 del 1990
Questo Tribunale ha già avuto occasione di rilevare (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 23.04.2010, n. 1145; id. 17.09.2009 n. 4671) che: <<la c.d. cessione perequativa:
- è alternativa all'espropriazione perché non prevede l'apposizione di un vincolo pre-espropriativo sulle aree destinate a servizi pubblici, ma prevede che tutti i proprietari, sia quelli che possono edificare sulle loro aree, sia quelli i cui immobili dovranno realizzare la “città pubblica”, partecipino alla realizzazione delle infrastrutture pubbliche attraverso l'equa ed uniforme distribuzione di diritti edificatori indipendentemente dalla localizzazione delle aree per attrezzature pubbliche e dei relativi obblighi nei confronti del Comune;
- si caratterizza per il fatto che il terreno da trasferire al comune sviluppa volumetria propria (espressa, appunto dall'indice di edificabilità territoriale che gli viene attribuito) che, però, può essere realizzata solo sulle aree su cui deve concentrarsi l'edificabilità (aree alle quali è attribuito un indice urbanistico adeguato a ricevere anche la cubatura proveniente dai terreni oggetto di cessione)
>> (così, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 23.04.2010, n. 1145 cit.).
Ne consegue che la perequazione è bensì finalizzata ad attenuare le disuguaglianze derivanti dalla pianificazione urbanistica, ma assicurando al contempo all'Amministrazione lo strumento per acquisire, senza oneri, con modalità diverse dall'esproprio, aree da destinare a scopi di pubblico interesse.
Il perseguimento di tale fine può, pertanto, legittimamente risolversi nella sostituzione della proprietà pubblica a quella privata sulle aree destinate a servizi pubblici, senza denotare perciò solo alcun profilo di illegittimità, trattandosi di un effetto riconducibile, in parte all’esercizio del potere conformativo e, per il resto, all’accordo tra p.a. e privato in sede di pianificazione di dettaglio.
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E’ noto, ed è stato già rilevato al punto 12.4, come la perequazione urbanistica rappresenti un mezzo ideato per superare, o se si vuole, attenuare l’intrinseca discriminatorietà che caratterizza la funzione pianificatoria nel suo inevitabile estrinsecarsi in una disciplina necessariamente disuguagliante delle potenzialità di impiego dei suoli e conseguentemente del loro valore economico (cfr. la risalente affermazione che si legge in Consiglio di Stato, Sez. V, 14.04.1981 n. 367, secondo cui la sperequazione fra terreni posti in zone diverse è legittima “ove trovi la sua giustificazione nella natura intrinseca della zona”).
Di siffatto metodo perequativo si rinviene un sicuro fondamento nell’art. 3 della Costituzione, allorché se ne valorizzi proprio lo scopo di attenuazione delle disuguaglianze create dalla pianificazione.
In ogni caso, come anche da ultimo evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.07.2010, n. 4545), l’istituto perequativo della cessione di aree, pur in assenza di una specifica previsione normativa, trova il suo fondamento “in due pilastri fondamentali” del nostro ordinamento, e cioè nella potestà conformativa del territorio di cui è titolare l’Amministrazione nell’esercizio della propria attività di pianificazione e, al contempo, nella possibilità di utilizzare modelli consensuali per il perseguimento di finalità di interesse pubblico, secondo quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della legge n. 241 del 1990 (cfr. TAR Salerno, sez. I, 05.07.2002, n. 670, TAR Veneto Venezia, sez. I, 19.05.2009, n. 15049)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.01.2012 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon incombe a carico del Comune l'onere della previa individuazione dell'effettivo proprietario dell'area, atteso che l'ordinanza di demolizione, per giurisprudenza consolidata nella materia, può essere legittimamente notificata anche esclusivamente all'autore materiale dell'abuso nel caso in cui non corrisponda con il proprietario dell'area interessata dai lavori edilizi abusivi.
In tali evenienze, infatti, l'estraneità del proprietario (o del titolare del diritto reale) agli abusi edilizi si tradurrà, in caso di non ottemperanza all’ordine di riduzione in pristino, nella insuscettività del provvedimento repressivo e sanzionatorio a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene.

Non incombe a carico del Comune l'onere della previa individuazione dell'effettivo proprietario dell'area, atteso che l'ordinanza di demolizione, per giurisprudenza consolidata nella materia, può essere legittimamente notificata anche esclusivamente all'autore materiale dell'abuso nel caso in cui non corrisponda con il proprietario dell'area interessata dai lavori edilizi abusivi.
In tali evenienze, infatti, l'estraneità del proprietario (o del titolare del diritto reale) agli abusi edilizi si tradurrà, in caso di non ottemperanza all’ordine di riduzione in pristino, nella insuscettività del provvedimento repressivo e sanzionatorio a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I, 07.03.2011, n. 2031; TAR Campania Napoli, sez. VI, 05.03.2010, n. 1317; TAR Umbria Perugia, sez. I, 21.01.2010, n. 24; TAR Campania Napoli, sez. IV, 28.12.2009, n. 9605; TAR Basilicata Potenza, sez. I, 17.11.2009, n. 765; Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 02.03.2009, n. 60)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.01.2012 n. 292 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio non ritiene di potere condividere la tesi comunale, secondo cui la mancata comunicazione dell’inizio dei lavori impedisca l’acquisto di efficacia della D.I.A. “sia ai fini del relativo procedimento che risulta mai formalmente avviato, che ai fini della decorrenza dei termini previsti dal D.P.R. 06/06/2001 n. 380 e s.m.i..
L’art. 42 della legge regionale n. 12/2005 prevede, al comma 1, che: “il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno 30 giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, presenta la denuncia,…”, indi, al comma 6, precisa che: “I lavori oggetto della denuncia di inizio attività devono essere iniziati entro un anno dalla data di efficacia della denuncia stessa ed ultimati entro tre anni dall'inizio dei lavori... L'interessato è tenuto a comunicare immediatamente al comune la data di inizio e di ultimazione dei lavori, secondo le modalità indicate nel regolamento edilizio”.
Quest’ultimo, per il Comune di Limbiate, all’art. 116, co. 3, prevede chiaramente che: <<A seguito di presentazione di denuncia di inizio dell’attività l’inizio dei lavori avviene a partire dal ventesimo giorno successivo alla presentazione stessa, fatti salvi eventuali dinieghi sopravvenuti con provvedimenti motivati>>.
Tenuto conto di tale quadro normativo, il Collegio non ritiene di potere condividere la tesi comunale, secondo cui la mancata comunicazione dell’inizio dei lavori da parte dell’Immobiliare impedisca l’acquisto di efficacia della D.I.A. “sia ai fini del relativo procedimento che risulta mai formalmente avviato, che ai fini della decorrenza dei termini previsti dal D.P.R. 06/06/2001 n. 380 e s.m.i.” (così l’ordinanza impugnata).
In verità, se con l’espressione “procedimento” l’amministrazione ha inteso riferirsi al procedimento di verifica della sussistenza delle “condizioni stabilite”, ex art. 23, co. 6, d.P.R. n. 380/2001, preordinato all’esercizio del cd. potere inibitorio, non v’è dubbio che esso si attivi già con la presentazione della D.I.A., segnando semmai l’effettivo inizio dei lavori, in coincidenza del 30° giorno dalla dichiarazione, il momento conclusivo per l’esercizio del predetto potere (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 07.11.2008, n. 5296, per cui il potere di vigilanza urbanistico-edilizia, decorsi i 30 giorni, non deve svolgersi più nelle forme dell'intervento inibitorio, ma in quelle della procedura di autotutela di cui agli artt. 21-quinquies e 21-nonies, l. n. 241 del 1990, come modificata dalla l. n. 15 del 2005).
Un ampio riscontro di tale interpretazione si rinviene anche nella lettera dell’art. 42 L.R. cit., ove, ai commi 8 e ss., si prevede che:
Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ovvero, laddove costituito, dello sportello unico per l'edilizia, entro il termine di trenta giorni dalla presentazione della denuncia di inizio attività:
a) verifica la regolarità formale e la completezza della documentazione presentata;
b) accerta che l'intervento non rientri nel caso di esclusione previsto dall'articolo 41;
c) verifica la correttezza del calcolo del contributo di costruzione dovuto in relazione all'intervento.
Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ovvero, laddove costituito, dello sportello unico per l'edilizia, qualora entro il termine sopra indicato di trenta giorni sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento e, in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria ed il consiglio dell'ordine di appartenenza
”.
La mancata comunicazione di inizio lavori può, in realtà, giustificare la declaratoria di inefficacia della D.I.A., ove si accerti che entro l’anno dalla dichiarazione non siano stati effettivamente iniziati i lavori oggetto dell’intervento dichiarato. Ma tale non è la situazione che qui occupa, ove non si contesta il mancato effettivo inizio dei lavori entro l’anno dalla D.I.A., ma la mancata comunicazione dell’inizio lavori, pur tuttavia iniziati.
In tali evenienze, non può ricollegarsi alla omissione in questione la conseguenza indicata dal Comune in termini di inefficacia della D.I.A., non trovando tale conseguenza alcun riscontro nella succitata normativa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.01.2012 n. 292 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAI termini del procedimento amministrativo devono essere considerati ordinatori, qualora non siano dichiarati espressamente perentori dalla legge.
Ne consegue che un provvedimento amministrativo non possa essere ritenuto illegittimo in ragione soltanto della sua tardività, in assenza della violazione di un termine espressamente qualificato dalla legge come perentorio.

Costituisce, infatti, principio generale del diritto, di cui le previsioni dell'art. 2 della legge n. 241 del 1990 risultano essere una conferma a livello di normazione primaria, quello secondo cui i termini del procedimento amministrativo devono essere considerati ordinatori, qualora non siano dichiarati espressamente perentori dalla legge (così Consiglio di Stato, Sez. VI, 20.04.2006, n. 2195).
Ne consegue che, un provvedimento amministrativo non possa essere ritenuto illegittimo in ragione soltanto della sua tardività, in assenza della violazione di un termine espressamente qualificato dalla legge come perentorio (così Consiglio di Stato, Sez. IV, 03.04.2009, n. 2110).
La violazione dei termini previsti dall’art. 38 della legge regionale n. 12/2005, non essendo essi previsti come perentori, non può dare luogo all’invocata illegittimità dell’azione amministrativa.
Né si può ritenere che gli adempimenti istruttori disposti dal Comune siano in violazione del principio di non aggravamento, occorrendo a tal fine che l’esponente dimostri (ciò che non risulta qui accaduto) la superfluità dell’adempimento richiesto rispetto alle valutazioni rimesse all’amministrazione ai fini del rilascio del titolo edilizio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.01.2012 n. 291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: E' illegittimo il decreto di esproprio adottato dopo la scadenza del termine finale della procedura espropriativa.
La giurisprudenza civile ed amministrativa, dal canto suo, ha sempre considerato illegittimo il decreto di esproprio adottato dopo la scadenza del termine finale della procedura espropriativa (cfr., fra le tante, Cassazione civile, sez. I, 27.04.2011, n. 9370; TAR Sicilia, Catania, sez. II, 23.12.2011, n. 3184 e TAR Campania, Napoli, sez. V, 04.05.2010, n. 2509, con la giurisprudenza ivi richiamata) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.01.2012 n. 257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Risponde di attività di gestione dei rifiuti non autorizzata l’assessore che organizza lo stoccaggio dei rifiuti ricorrendo all’ordinanza urgente “in forma verbale”.
Così ha deciso la Corte di Cassazione, con sentenza 23.01.2012 n. 2683, pronunciandosi nei confronti di un ricorso presentato da un uomo che, nella sua qualità di assessore, era stato condannato per il reato di attività di gestioni rifiuti non autorizzata ex art. 256, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 152/2006, per aver autorizzato verbalmente una società di smaltimento di rifiuti ad utilizzare un’area del Comune per lo stoccaggio di rifiuti non pericolosi.
L’imputato, invocando la discriminante dell’adempimento di un dovere di cui all’art. 51 c.p., si era difeso sostenendo che, in sostituzione del sindaco e degli altri assessori nel periodo feriale, aveva adottato una ordinanza contingibile ed urgente per fronteggiare una situazione di assoluta emergenza, rappresentata dall’impossibilità di trovare un luogo dove smaltire i rifiuti raccolti in città.
Debole è sembrata la linea difensiva dell’assessore alla Suprema Corte, la quale ha sostenuto che l’invocata discriminante non potesse operare nel caso di specie a fronte di un ordine verbale impartito dall’imputato, atto tanto macroscopicamente illegittimo da essere giuridicamente inesistente e certamente non riconducibile alla categoria delle ordinanze di necessità ed urgenza. Infatti, l’art. 54, comma 4, del testo unico sugli enti locali autorizza il sindaco
o l’assessore che lo sostituisce ad adottare ordinanze di necessità ed urgenza, provvedimenti che devono necessariamente essere dotati di forma scritta e di una adeguata motivazione (requisiti tra l’altro richiesti in via generale per tutti gli atti amministrativi dalla L. 241/1990 e a maggior ragione necessari in presenza di provvedimenti urgenti volti a derogare leggi). La motivazione delle ordinanze di urgenza deve indicare, inoltre, le ragioni della ritenuta sussistenza dell’eccezionale situazione di necessità ed urgenza e della scelta del particolare strumento di smaltimento di rifiuti adottato. Infatti, il potere esercitabile dal sindaco ai sensi dell’art. 54 presuppone una situazione pericolo effettivo da esternare con congrua motivazione che non possa essere affrontata con nessuna altro tipo di provvedimento e può essere utilizzato per risolvere una situazione comunque temporanea e mai per esigenze prevedibili ed ordinarie (commento tratto da www.diritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa zona interessata all’attività di kartodromo è stata classificata in classe acustica I, senza minimamente considerare la presenza di tale attività.
Ciò si pone in contrasto con la giurisprudenza, anche di questa Sezione, secondo cui “l’avvertita necessità di salvaguardia per un insediamento residenziale (…) realizzato in prossimità della struttura (…) della ricorrente disattende, infatti, acriticamente le caratteristiche morfologiche dell’area interessata, quali consolidatesi nel tempo, mortificando l’affidamento di quanti abbiano legittimamente confidato in una tutela corrispondente a quell’assetto del territorio, laddove assoggetta quella zona a limiti di emissione acustica minori, pregiudicando le esigenze dei soggetti che operano nel settore (…) ove lo stesso legislatore ha consentito più elevati livelli di rumorosità in considerazione delle esigenze scaturenti dalla natura dell’attività svolta”.
L’art. 3, comma 2, del D.P.R. n. 304 precisa che “agli autodromi, alle piste motoristiche di prova e per attività sportive, non si applica il disposto dell’articolo 4 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 14.11.1997, recante valori limite differenziali di immissione”. Il provvedimento impugnato invece si fonda invece proprio sul limite differenziale previsto dall’art. 4 del D.P.C.M. 14.11.1997. Di conseguenza in presenza di una pista motoristica, il Comune e l’A.R.P.A. avrebbero dovuto tenere conto dei differenti limiti differenziali di rumore previsti dal terzo comma dell’art. 3 del D.P.R. n. 304.
Anche la parte della doglianza che assume l’illegittimità del piano di zonizzazione classificante l’area in cui insiste il kartodromo in classe acustica I piuttosto che in classe V o VI è fondata.
La zona interessata all’attività di kartodromo sarebbe stata classificata in classe acustica I, senza minimamente considerare la presenza di tale attività. Ciò si pone in contrasto con la giurisprudenza, anche di questa Sezione, secondo cui “l’avvertita necessità di salvaguardia per un insediamento residenziale (…) realizzato in prossimità della struttura (…) della ricorrente disattende, infatti, acriticamente le caratteristiche morfologiche dell’area interessata, quali consolidatesi nel tempo, mortificando l’affidamento di quanti abbiano legittimamente confidato in una tutela corrispondente a quell’assetto del territorio, laddove assoggetta quella zona a limiti di emissione acustica minori, pregiudicando le esigenze dei soggetti che operano nel settore (…) ove lo stesso legislatore ha consentito più elevati livelli di rumorosità in considerazione delle esigenze scaturenti dalla natura dell’attività svolta” (TAR Lombardia, Milano, IV, 05.07.2011, n. 1781)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 23.01.2012 n. 256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALIL’art. 9 della legge 447/1995 attribuisce espressamente al Sindaco il potere di adottare ordinanze per il contenimento o l’abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l’inibitoria parziale o totale di determinate attività. Si tratta di un potere sostanzialmente analogo a quello attribuito al Sindaco dal D.Lgs. 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali), agli articoli 50 e 54 e che pertanto deve essere esercitato dal Sindaco stesso, con esclusione della competenza dei dirigenti, cui spetta invece l’adozione di tutti gli atti di gestione del Comune, ai sensi dell’art. 107 del medesimo D.Lgs. 267/2000.
Con una ulteriore censura si assume l’illegittimità dell’ordinanza impugnata che sarebbe stata adottata, invece che dal Sindaco, dal dirigente, non considerandosi la sua natura di atto contingibile e urgente, secondo la previsione dell’art. 9 della legge n. 447 del 1995; oltretutto tale provvedimento sarebbe stato adottato in base a rilievi fonometrici effettuati molto tempo prima e non rinnovati in prossimità dell’emanazione dell’atto di sospensione: ciò ne dimostrerebbe la non urgenza e la non attualità.
Anche tale doglianza è fondata.
Con riferimento all’asserita incompetenza del dirigente ad adottare tale atto, va richiamata la giurisprudenza della Sezione secondo cui “l’art. 9 della legge 447/1995 attribuisce espressamente al Sindaco il potere di adottare ordinanze per il contenimento o l’abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l’inibitoria parziale o totale di determinate attività. Si tratta di un potere sostanzialmente analogo a quello attribuito al Sindaco dal D.Lgs. 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali), agli articoli 50 e 54 e che pertanto deve essere esercitato dal Sindaco stesso, con esclusione della competenza dei dirigenti, cui spetta invece l’adozione di tutti gli atti di gestione del Comune, ai sensi dell’art. 107 del medesimo D.Lgs. 267/2000” (TAR Lombardia, Milano, IV, 01.07.2009, n. 4225)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 23.01.2012 n. 256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa possibilità di ricorrere allo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente è legata alla sussistenza di un pericolo concreto e attuale, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti a disposizione dell’Autorità amministrativa.
La possibilità di ricorrere allo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente è legata alla sussistenza di un pericolo concreto e attuale, non fronteggiabile con gli ordinari strumenti a disposizione dell’Autorità amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, V, 10.02.2010, n. 670).
Nel caso di specie, come risulta dal provvedimento impugnato in via principale, l’accertamento dell’A.R.P.A. è stato effettuato in data 22.10.2005 e il provvedimento comunale è stato adottato il 22.06.2009, ossia a quasi quattro anni di distanza dal rilievo fonometrico sopra indicato, cui non hanno fatto seguito ulteriori e più recenti verifiche ed attività istruttorie per appurare se la situazione di inquinamento acustico fosse ancora sussistente e quale fosse la sua reale consistenza.
Di conseguenza, in assenza di una idonea e completa istruttoria, non si può giustificare e ritenere legittimo l’utilizzo dello strumento provvedimentale adottato nel caso di specie (cfr. TAR Lombardia, Milano, IV, 08.06.2010, n. 1758)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 23.01.2012 n. 256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’omessa dichiarazione in ordine all’esistenza di condanne penali non è da considerarsi di per sé causa di esclusione (in assenza effettiva di condanne) sempre che il bando "non preveda espressamente la pena dell’esclusione in relazione alla mancata osservanza delle puntuali prescrizioni sulle modalità e sull’oggetto delle dichiarazioni da fornire”.
Analogamente è stata confermata la doverosità, in difetto di esplicite previsioni escludenti della lex specialis, di una valutazione sostanzialistica della sussistenza delle cause di esclusione.

Allo stato degli atti non consta che alcuno dei soggetti sopra menzionati sia sprovvisto dei requisiti morali di cui all'art. 38, non essendo stato emesso nei loro confronti alcun provvedimento penale, ciò che in ogni caso la stazione appaltante accerterà d'ufficio in conformità alla normativa vigente, prima della stipula del contratto, ex art. 38, comma 3, del D.Lgs. n. 163/2006.
Quanto alla lex specialis, come sopra testualmente riportata, la stessa non sanzionava "a pena di esclusione", la mera incompletezza delle produzioni documentali ivi indicate, ma solo la non veridicità delle dichiarazioni rilasciate ("qualora in sede di accertamento della veridicità dei requisiti attestati in sede di domanda di partecipazione e comprovati in sede di offerta, emerga la non veridicità delle dichiarazioni rese, e/o non risulti comprovato il possesso dei requisiti previsti ai fini della partecipazione alla gara, il concorrente verrà escluso dalla gara").
Il Collegio ritiene pertanto applicabile al caso di specie i principi espressi nella sentenza del Consiglio di Stato - Sez. IV 01.04.2011, n. 2066, con cui, dopo esser stato dato atto dell’esistenza di contrasti giurisprudenziali in ordine alle conseguenze derivanti dal cosiddetto “falso innocuo” (mancata allegazione dell’attestazione dell’esistenza di condanne penali per i soggetti indicati, a fronte di inesistenza di tali condanne), tra un orientamento “sostanzialista” ed altro più rigoroso, è stato affermato che l’omessa dichiarazione in ordine all’esistenza di condanne penali non è da considerarsi di per sé causa di esclusione (in assenza effettiva di condanne) sempre che il bando, come avviene nel caso di specie, “non preveda espressamente la pena dell’esclusione in relazione alla mancata osservanza delle puntuali prescrizioni sulle modalità e sull’oggetto delle dichiarazioni da fornire”.
Analogamente la sentenza della Sez. V 24.11.2011, n. 6240 ha confermato la doverosità, in difetto di esplicite previsioni escludenti della lex specialis, di una valutazione sostanzialistica della sussistenza delle cause di esclusione. Non è pertanto dirimente il richiamo fatto alla sentenza di questo TAR Sez. III 01.03.2011, n. 599, che appare coerente con le dette pronunce del Consiglio di Stato, essendo stato ivi affermato espressamente che l'omessa menzione del Direttore tecnico cessato non può considerarsi un falso innocuo “perché contrasta con una specifica prescrizione disposta dalla lex specialis a pena della esclusione” (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.01.2012 n. 248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILaddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall'annullamento.
In conclusione le ordinanze impugnate erano almeno in parte fondate e pertanto non possono essere annullate; infatti, soccorre in merito il fondamentale principio giurisprudenziale secondo il quale, laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall'annullamento (cfr. per tutte Consiglio di Stato, 4243/2010; 6301/2004, TAR Campania 1966/2011) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 17.01.2012 n. 162 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIl titolo superiore può ritenersi assorbente di quello inferiore, con conseguente possibilità di partecipazione ai concorsi pubblici per i quali sia prescritto il possesso di quest’ultimo, allorché le materie di studio del primo comprendono, con un maggiore livello di approfondimento, quelle del secondo.
Giova pertanto richiamare quell’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il titolo superiore può ritenersi assorbente di quello inferiore, con conseguente possibilità di partecipazione ai concorsi pubblici per i quali sia prescritto il possesso di quest’ultimo, allorché le materie di studio del primo comprendono, con un maggiore livello di approfondimento, quelle del secondo (si vedano, sul punto, TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 09.05.2008, n. 463, sull’assorbimento del diploma di geometra nella laurea in architettura e TAR Sicilia, Catania, sez. IV, 21.06.2007, n. 1063, sull’assorbimento del titolo di tecnico di laboratorio nella laurea in scienze biologiche) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 17.01.2012 n. 159 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATARisulta carente di motivazione il diniego di concessione in sanatoria fondato su un generico contrasto dell’opera con leggi o regolamenti in materia edilizia, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni che si assumano ostative al rilascio del titolo e sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire all’interessato da un lato di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione ed al mantenimento dell’opera abusiva, dall’altro di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato.
Il provvedimento impugnato si limita a negare le sanatorie perché “non sono conformi al piano di lottizzazione”. Tale sintetica motivazione rende illegittimo il provvedimento impugnato, tenuto conto che secondo la giurisprudenza consolidata risulta “carente di motivazione il diniego di concessione in sanatoria fondato su un generico contrasto dell’opera con leggi o regolamenti in materia edilizia, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni che si assumano ostative al rilascio del titolo e sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire all’interessato da un lato di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione ed al mantenimento dell’opera abusiva, dall’altro di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato” (TAR Liguria, I, 11.07.2011, n. 1086) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 17.01.2012 n. 153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Ampia discrezionalità del Comune sulla destinazione dei suoli.
Con riguardo al contenuto ed alle motivazioni delle scelte urbanistiche va richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale in ordine all'ampia discrezionalità che connota le scelte della PA in ordine alla destinazione dei suoli in sede di pianificazione generale del territorio, tali da non richiedere una particolare motivazione al di là di quella ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano il PRG.
Ne consegue che, di certo, un'aspettativa giuridicamente tutelabile non può discendere dalla pregressa destinazione del suolo e nemmeno dalla mera circostanza che, come nella specie, la società istante avesse presentato una proposta di lottizzazione, mai esaminata dal Comune.

Il "Piano delle Certezze" si pone rispetto al previgente PRG del Comune di Roma (1965) non già come una variante generale, ma come una forma di intervento circoscritta alle aree in quella fase individuate come soggette a pressanti esigenze di tutela paesaggistica e ambientale.
Con tale strumento si riteneva indispensabile, in funzione parzialmente anticipatoria del nuovo strumento urbanistico in itinere, modificare la destinazione di dette aree, rinviando alla definitiva approvazione del Nuovo PRG le complete ed esaustive scelte di fondo sul territorio comunale.
Tale essendo la situazione, è evidente che, nel caso in esame, il silenzio mantenuto dalla variante de qua sui suoli in proprietà della società appellante non implica affatto che per essi, sulla base di una rinnovata istruttoria, fosse stata confermata la pregressa destinazione urbanistica, ma significa semplicemente che gli stessi non erano stati per nulla presi in considerazione dalla variante, con la conseguenza che il permanere dell'originaria vocazione edificatoria non escludeva affatto il potere della PA di imprimervi una nuova e diversa destinazione nell'ambito del Nuovo PRG.
Né può condividersi l'impostazione secondo cui, una volta non ricompresi i suoli de quibus fra quelli assoggettati a tutela nell'ambito del "Piano delle certezze", vi sarebbe stata una sorta di consumazione del relativo potere in capo alla PA, restando precluse ulteriori scelte limitative dell'edificabilità delle aree.
Ciò in ragione del pacifico indirizzo secondo cui in sede di pianificazione generale ben possono essere soddisfatte, attraverso l'attribuzione di destinazioni limitative o preclusive dell'edificazione, esigenze di contenimento dell'espansione dell'abitato nonché di salvaguardia di valori paesaggistici e ambientali, in vista del perseguimento di obiettivi di miglioramento della vivibilità del territorio comunale (commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.01.2012 n. 119 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Antenne tv, non serve l'unanimità. Per intervenire su un servizio comune basta la maggioranza.  La Cassazione: occorre evitare la paralisi gestionale condominiale, nei limiti dei diritti dei singoli.
Per rimuovere l'antenna centralizzata del condominio basta la maggioranza assembleare. La delibera che stabilisca lo smantellamento dell'impianto non impedisce, infatti, il godimento individuale di un bene comune, ma dispone semplicemente di interrompere il relativo servizio.
Lo ha chiarito la seconda sezione civile della Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 11.01.2012 n. 144.
I fatti di causa. Nel caso in questione un condomino si era rivolto al giudice di pace di Roma per ottenere la condanna del condominio al ripristino di un'antenna centralizzata, esistente fin dal 1970. Il giudice di prime cure, con sentenza del 2002, non aveva accolto la domanda e questo aveva spinto il proprietario a presentare appello al tribunale capitolino.
Tuttavia anche detto giudice, con sentenza del 2004, aveva rigettato l'istanza, confermando la decisione del giudice di pace. Il tribunale aveva infatti ritenuto che l'assemblea condominiale, nel deliberare negativamente su un ordine del giorno relativo all'installazione o all'eventuale adeguamento dell'antenna centralizzata, avesse agito conformemente all'esercizio dei propri poteri, con una decisione che di conseguenza risultava essere efficace e vincolante nei confronti di tutti i condomini. Il condomino in questione, non soddisfatto dell'esito processuale, aveva quindi deciso di giocare l'ultima carta, depositando ricorso in Cassazione e lamentando l'invalidità della delibera impugnata per avere disposto a maggioranza di un bene o servizio comune, laddove al contrario sarebbe stata necessaria l'unanimità dei consensi.
A tale riguardo il condomino ricorrente aveva menzionato vari precedenti della medesima Suprema corte, sia in relazione all'affermazione che i diritti di ciascun condomino sulle parti comuni non possono essere lesi da delibere assembleari (sentenza n. 5369/1997), sia in merito alla nullità delle delibere concernenti innovazioni lesive dei diritti di ciascun condomino su cose o servizi comuni (sentenza n. 2288/1980) e delle delibere che stabiliscano a maggioranza di non eseguire i lavori di manutenzione e di adattamento di un impianto comune, posto che tale rifiuto impedisce l'uso stesso dell'impianto e conseguentemente menoma i diritti di tutti i condomini (sentenza n. 1302/1998).
La decisione della Corte di cassazione. Anche la Suprema Corte ha infine rigettato la domanda del condomino che si riteneva leso nei propri diritti dall'approvazione a maggioranza di una delibera assembleare che stabiliva lo smantellamento dell'antenna centralizzata condominiale. La difesa del proprietario aveva puntato tutto sul carattere di bene comune dell'antenna c.d. centralizzata e, quindi, sulla base della normativa codicistica e della giurisprudenza, si richiamava al principio per cui un bene comune non può essere sottratto alla propria destinazione se non con il consenso di tutti i condomini.
Nella sentenza in questione i giudici di legittimità hanno infatti in primo luogo voluto ricordare come in materia di condominio siano da ritenersi comuni le opere, le installazioni e i manufatti di qualunque genere che servano all'uso e al godimento di tutti i condomini. A quest'ultima categoria, secondo la Suprema corte, vanno ricondotte anche le antenne c.d. centralizzate, cioè quegli impianti di trasmissione destinati a servire tutte o, almeno, più unità immobiliari di proprietà esclusiva.
Tuttavia, secondo la Suprema corte, pur trattandosi di beni comuni, bisogna riconoscere che le attribuzioni dell'assemblea di condominio riguardano l'intera gestione di questi ultimi, che deve necessariamente svolgersi in modo dinamico e che non potrebbe quindi essere condizionata dall'ipotetica volontà contraria anche di un solo condomino. Si tratterebbe, all'evidenza, di un'interpretazione tale comportare la paralisi della gestione condominiale. Nella sentenza in questione si è dunque chiarito che rientra nei poteri dell'assemblea quello di disciplinare beni e servizi comuni, al fine della migliore e più razionale utilizzazione degli stessi, anche quando ciò comporti la dismissione o il trasferimento a terzi dei beni comuni.
L'assemblea, secondo la Cassazione, ha quindi il potere di modificare, sostituire o, eventualmente, sopprimere un servizio comune con deliberazione a maggioranza anche laddove lo stesso sia stato istituito e disciplinato dal regolamento condominiale, purché si rimanga nei limiti della disciplina delle modalità di svolgimento del servizio e non si vada a incidere sulla sfera dei diritti dei singoli condomini (articolo ItaliaOggi Sette del 30.01.2012).

CONDOMINIO: Le regole per l'installazione e la dismissione degli impianti. Veti limitati anche dal condominio vicino.
Non è raro che all'interno del condominio sorgano discussioni in merito alla possibilità del singolo di installare un'antenna e di eseguire tutte opere conseguenti (passaggi di fili attraverso le parti comuni, ancoraggio di sostegni ecc.) quando esista già un antenna centralizzata installata dal costruttore.

Vediamo quindi, anche sulla base di quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, nella predetta sentenza 11.01.2012 n. 144, quali sono le regole comuni da seguire per l'installazione e la dismissione di questo genere di impianti.
Il diritto di antenna del singolo. Secondo la normativa vigente il proprietario o il condominio non può opporsi all'appoggio di antenne, di sostegni, nonché al passaggio di condutture, fili o qualsiasi altro impianto, nell'immobile di proprietà occorrente per soddisfare le richieste di utenza da parte di colui che abita nello stabile. Tale diritto ha contenuto personale e, quindi, il titolare di esso può essere, oltre che il condomino, anche il conduttore (non spetta a chi non abita nell'edificio).
Quindi il singolo condomino (o inquilino) per collocare l'antenna può utilizzare spazi condominiali, ma anche la proprietà del condominio vicino, il quale non potrà impedire ai tecnici installatori di passare attraverso i suoi locali, né potrà chiedere una somma a titolo indennizzo. Se si rifiuta, è lecito chiedere un provvedimento d'urgenza al giudice (in base al dlgs n. 259/2003).
Questo significa che la delibera dell'assemblea condominiale che vieti a un condomino l'installazione di un'antenna autonoma, in mancanza di un pregiudizio concreto all'uso del bene comune, ma per il solo fatto della presenza di un'antenna centralizzata, è giuridicamente nulla, con la conseguenza che il condomino leso può sempre fare accertare il proprio diritto all'installazione.
I limiti all'installazione dell'antenna singola. Il diritto di antenna spettante a ogni singolo condomino a installare sulle parti comuni dell'edificio condominiale un'antenna per la ricezione dei programmi radiotelevisivi non è illimitato. È vero infatti che per legge le antenne, i relativi sostegni, cavi e accessori non devono in alcun modo impedire il libero uso dei beni comuni o di quelli del vicino, secondo la sua destinazione, né arrecare danno al condominio o ai vicini o a terzi. Tale diritto, inoltre, va coordinato con la sussistenza di un'effettiva esigenza di soddisfare le richieste di tutela degli inquilini o dei condomini.
In altre parole il diritto di collocare nell'altrui proprietà antenne televisive è subordinato all'impossibilità per il condomino di utilizzare spazi propri, poiché il diritto all'installazione non comporta anche quello di scegliere a piacimento il luogo preferito per collocare l'antenna. Così, per esempio, non è possibile far passare i cavi nei locali o nel terrazzo del vicino se esiste un'alternativa alla loro collocazione, anche più costosa, nei propri locali o in uno spazio condominiale che può servire allo scopo. In ogni caso la richiesta di far passare i cavi può riguardare solo un condomino dell'edificio ma non un soggetto estraneo al caseggiato, cioè inquilino o condominio di altro stabile, sia pure confinante. Inoltre si deve ricordare che è lecita la delibera che impone ai condomini dove montare l'antenna onde evitare un uso distorto dei beni comuni.
Una regolamentazione in sede condominiale delle antenne va ritenuta ammissibile e rientrante nei poteri della collettività condominiale, posto che un libero potere dei condomini, al riguardo, può generare limitazioni indebite della cosa comune. Si tratta, dunque, di reperire un punto di bilanciamento degli interessi, nel senso che il diritto del singolo condomino all'installazione dell'antenna deve essere consentito, ma con il limite che essa non arrechi pregiudizio all'uso del bene da parte degli altri condomini, né produca un qualsiasi apprezzabile danno alle parti comuni.
Infine bisogna ricordare che ulteriori limiti per quanti abitano nei centri storici possono derivare dalle amministrazioni comunali che devono regolamentare le installazioni nei centri storici. In particolare, nei regolamenti edilizi più recenti è previsto che le antenne debbano essere centralizzate (tranne il caso in cui sia dimostrabile tecnicamente che un intervento di questo tipo non sia possibile) e collocate sul tetto in modo da ridurne l'impatto visivo (quindi nella parte centrale o sulle falde secondarie opposte alla pubblica via).
La partecipazione alle spese dell'antenna comune. Bisogna chiarire che l'installazione di un'antenna a uso esclusivo di un solo condomino non lo esime dal partecipare alle spese per la manutenzione dell'antenna comune. Infatti, il condomino non può, rinunziando al diritto di utilizzare l'antenna centralizzata, sottrarsi al contributo nelle spese per la sua conservazione, nelle quali rientrano anche quelle per l'aggiornamento tecnico (per ragioni estetiche, di sicurezza, di maggior rendimento ecc.) o le opere per assicurare la statica delle antenne, fondamentale per garantire la qualità della ricezione.
In sostanza senza una delibera presa all'unanimità, che stabilisca diversamente, dovrà continuare a pagare per l'antenna centrale dalla quale non trae alcuna utilità (articolo ItaliaOggi Sette del 30.01.2012).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARI: Il principio delle Sezioni Unite in tema di termini e scadenze in giorni festivi.
Il principio delle Sezioni Unite in tema di termini e scadenze in giorni festivi:
a) la regola per cui il termine stabilito a giorni, il quale scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno successivo non festivo, posta dall’art. 172, comma 3, cod. proc. pen., si applica anche agli atti e ai provvedimenti del giudice, e si riferisce perciò anche al termine per la redazione della sentenza;
b) nei casi in cui, come nell’art. 585, comma 2, lett. c), cod. proc. pen., è previsto che il termine assegnato per il compimento di una attività processuale decorra dalla scadenza del termine assegnato per altra attività processuale, la proroga di diritto del giorno festivo in cui il precedente termine venga a cadere al primo giorno successivo non festivo, determina lo spostamento altresì della decorrenza del termine successivo con esso coincidente;
c) tale situazione, tuttavia, non si verifica ove ricorrano cause di sospensione quale quella prevista per il periodo feriale che, diversamente operando per i due termini, comportino una discontinuità in base al calendario comune tra il giorno in cui il primo termine scade e il giorno da cui deve invece calcolarsi l’inizio del secondo.
Le Sezioni Unite hanno inoltre statuito che il diniego di termini a difesa o la concessione di termini ridotti rispetto a quelli previsti dall’art. 108, comma primo, cod. proc. pen., non può dare luogo ad alcuna nullità quando l’esercizio effettivo del diritto alla difesa tecnica o di altri diritti fondamentali dell’imputato non abbia subito, in assoluto, alcuna lesione o menomazione (commento tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com - Corte di Cassazione, Sezz. unite penali, sentenza 10.01.2012 n. 155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Aria. Canne fumarie o sistemi di evacuazione dei prodotti di combustione.
La disciplina vigente in tema di sbocco dei sistemi di evacuazione dei fumi, oltre a far salve diverse disposizioni, anche contenute nei regolamenti edilizi locali, consente una deroga all’obbligo di carattere generale nel caso di sostituzione di precedenti impianti autonomi con nuovi impianti (in sostanza, se l’impianto da sostituire ha già uno scarico esterno, che non raggiunge il tetto dell’edificio, è possibile conservare tale configurazione senza realizzare lo scarico a tetto, purché si adotti un generatore di calore che soddisfi determinate caratteristiche) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.12.2011 n. 6978 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Dare del parassita al politico non è reato se c’è la motivazione.
Definire un politico “parassita” in un articolo di giornale è diffamazione?...Non sempre….
Per i giudici della Suprema Corte di Cassazione sarebbe lecito dare del parassita ad un politico nel caso in cui vi sia una valida motivazione; ossia se si è nella ipotesi in cui si argomenti in merito ai dati fattuali per cui è lanciato l’insulto, ci si trova nell’ambito del diritto di critica. Nel caso in cui, invece, non vengano date motivazioni all’insulto è diffamazione.
Così ha sentenziato la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 28.12.2011 n. 48553.
Il termine parassita può rientrare nei confini del sopra menzionato diritto di critica, più ampi rispetto a quelli del diritto di cronaca, nel quale il requisito della verità assume il carattere vincolante che non può essere richiesto quando ci si sposta nel campo delle opinioni.
Nella decisione in commento i giudici della Corte precisano che “una opinione non è vera o falsa, ma vero o falso può essere il presupposto fattuale sul quale essa poggia”.
Si legge ancora nella sentenza che …….”infine è vero che un uomo politico è più esposto del comune cittadino alle critiche e ai giudizi della opinione pubblica, in ragione del mandato rappresentativo che ha ricevuto e, dunque, della necessità di rendere conto del suo operato; ma non va dimenticato che la critica è valutazione argomentata di condotte, espressioni e/o idee”.
I giudici di legittimità hanno riconosciuto che un politico è sicuramente più esposto di un “comune cittadino” ai giudizi, nonché alle critiche dell’opinione pubblica, in virtù del mandato rappresentativo ricevuto e anche della necessità di render conto del proprio operato.
Spiega ancora la Corte che è, quindi, possibile giustificare quale “espressione di folclore giornalistico” l’attribuzione del termine “parassita” a dei politici.
Necessario, però, affinché non si offenda la reputazione del diretto interessato, è che l’espressione sopra menzionata venga motivata con una serie di ragionamenti (link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: Attività di sbancamento.
Le opere di sbancamento del terreno finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli in quanto incidano sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio.
Anche in seguito alle modifiche apportate dal DL 25.03.2010, n. 40, convertito con modificazioni dalla legge 22.05.2010, n. 73, l'art. 6, comma 1 - lett. d), del TU n. 380/2001 prevede che nessun titolo abilitativo è richiesto per i movimenti di terra soltanto se "strettamente pertinenti all'esercizio dell'attività agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali"; il permesso di costruire è invece necessario nei casi non connessi all'esercizio dell'agricoltura in cui la morfologia del territorio venga alterata in conseguenza delle opere di sbancamento realizzate in concreto (massima tratta da www.lexambiente.it - Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.12.2011 n. 48479).

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