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AGGIORNAMENTO AL 27.02.2012 |
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IN
EVIDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Sul risarcimento del danno per
illegittimo affidamento di incarico
all'esterno dell'ente pubblico.
---------------
Il diritto al risarcimento del danno si
prescrive in ogni caso in cinque anni,
decorrenti dalla data in cui si è verificato
il fatto dannoso, ovvero, in caso di
occultamento doloso del danno, dalla data
della sua scoperta.
Il “dies a quo”, dunque, è quello in cui si
è verificato il “fatto dannoso” e tale data
è stata identificata dalla giurisprudenza in
quella in cui si è verificato il danno quale
componente del fatto.
---------------
Per la generalità degli enti pubblici opera
l'art. 7, c. 6, del dlgs 30.03.2001, n. 165
(già D.lgs. 03.02.1993, n. 29), che consente
alle amministrazioni pubbliche di conferire
incarichi individuali ad esperti di provata
competenza e per esigenze cui non possano
far fronte con le risorse interne.
La giurisprudenza amministrativa ha
evidenziato come il conferimento d’incarichi
a soggetti esterni all'amministrazione abbia
costituito, e costituisca tuttora, una
fattispecie ricorrente in tema di
responsabilità amministrativa. E’ possibile
cogliere, nella giurisprudenza della Corte
dei conti, princìpi e criteri direttivi in
grado di orientare utilmente l'interprete e
l'operatore, pur nella varietà e complessità
delle situazioni concrete.
I su detti principi e criteri da seguire, a
proposito dell’attribuzione d’incarichi,
sono, in linea di massima:
a) il conferimento dell'incarico deve essere
legato a problemi che richiedono conoscenze
ed esperienze eccedenti le normali
competenze;
b) l'incarico deve caratterizzarsi in quanto
non implicante svolgimento di attività
continuativa ma anzi la soluzione di
specifiche problematiche già individuate al
momento del conferimento dell'incarico del
quale debbono costituire l'oggetto;
c) l'incarico deve presentare le
caratteristiche della specificità e della
temporaneità;
d) l'incarico non deve rappresentare uno
strumento per ampliare fittiziamente compiti
istituzionali e ruoli organici dell'ente;
e) il compenso connesso all'incarico deve
essere proporzionale all'attività svolta e
non liquidato in maniera forfetaria;
f) la delibera di conferimento deve essere
adeguatamente motivata;
g) l'incarico non deve essere generico od
indeterminato;
h) i criteri di conferimento non debbono
essere generici; ne consegue l'illegittimità
e la sussistenza di un danno erariale a
fronte di un incarico assolutamente generico
e non motivato.
Ciascuno dei requisiti sopra indicati
–lettere da a) ad h)- è essenziale ai fini
della liceità dell’incarico, per cui
l’accertamento del difetto di uno solo dei
presupposti sopra indicati è sufficiente a
qualificarlo come illecito; in proposito
si ritiene utile sottolineare che il fine
dell'art. 7 dlgs 165/2001 è quello di
escludere che sia affidato, con incarichi,
l’espletamento di normali attività che
potrebbero essere svolte dal personale
interno.
La disciplina in esso dettata vuole evitare,
dunque, che si possa verificare uno spreco
di risorse dell’ente pubblico, mascherando
per consulenza un’attività che può essere
svolta da personale interno
dell’Amministrazione, già da quest’ultima
retribuito.
La Pubblica Amministrazione, in conformità
al dettato di cui all’art. 97 della
Costituzione, deve infatti uniformare i
propri comportamenti ai criteri di legalità,
economicità, efficienza ed imparzialità dei
quali per ius receptum, diviene corollario
il principio secondo cui la stessa,
nell’assolvimento dei propri compiti
istituzionali, deve avvalersi
prioritariamente delle proprie strutture
organizzative e del personale che vi è
preposto.
Va in proposito premesso che, ai sensi
dell'art. 1, comma 2, della legge 14.1.1994
n. 20 (come successivamente modificato dalla
legge 20.12.1996 n. 639), il diritto al
risarcimento del danno si prescrive in ogni
caso in cinque anni, decorrenti dalla data
in cui si è verificato il fatto dannoso,
ovvero, in caso di occultamento doloso del
danno, dalla data della sua scoperta.
Il “dies a quo”, dunque, è quello in
cui si è verificato il “fatto dannoso”
e tale data è stata identificata dalla
giurisprudenza in quella in cui si è
verificato il danno quale componente del
fatto.
---------------
Ritiene questo
Collegio opportuno, preliminarmente e
sinteticamente, illustrare la normativa e la
stessa giurisprudenza, in tema di
conferimento d’incarichi di collaborazione
da parte di pubbliche amministrazioni.
In passato, le norme non disciplinavano in
via generale la fattispecie, se non per casi
particolari: cfr. l'art. 380 del D.P.R.
10.01.1957, n. 3 - T.U. sugli impiegati
civili dello Stato, che disciplinava gli
incarichi conferiti dai ministri a
professori universitari ed esperti di
analoga qualificazione. Altre normative
specifiche vietavano, in determinate
ipotesi, il conferimento d’incarichi
esterni: si citano, al riguardo, l'art. 1
del D.P.R. 28.05.1981, n. 247; l'art. 1 del
d.l. 26.11.1981, n. 678, conv. con legge
26.01.1982, n. 12, sul blocco degli organici
delle USL; infine, l'art. 14, comma 8, della
legge 20.05.1985, n. 207, recante la
disciplina transitoria per l'inquadramento
del personale non di ruolo delle USL.
Le riforme recenti -tanto quelle riguardanti
gli enti locali, quanto le norme generali
sull'organizzazione dei pubblici uffici- si
sono preoccupate, opportunamente, di
disciplinare la fattispecie, con la
fissazione di regole e principi che peraltro
già da diversi anni avevano trovato ampia
considerazione nella giurisprudenza
contabile.
La prima disposizione di legge in materia,
in ordine di tempo, è stata dettata per gli
enti locali dall'art. 51 della legge
08.06.1990, n. 142, come modificato dalla
legge 15.05.1997, n. 127; la norma è stata
poi trasfusa nell’art. 110 del T.U. n.
267/2000.
Per la generalità degli enti pubblici, opera
invece l'art. 7, c. 6, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165 (già D.lgs.
03.02.1993, n. 29), che consente alle
amministrazioni pubbliche di conferire
incarichi individuali ad esperti di provata
competenza e per esigenze cui non possano
far fronte con le risorse interne.
Differenti sono le regole per il
conferimento degli incarichi da parte dei
Ministri, definite con il regolamento
approvato con D.P.R. 18.04.1994, n. 338.
La crescita del fenomeno e l’utilizzo
improprio delle collaborazioni negli ultimi
anni, hanno portato il legislatore, in sede
di legge finanziaria -v. gli artt. 34 della
legge 27.12.2002, n. 289 e 3 della legge
24.12.2003, n. 350- ad intervenire in
materia con disposizioni restrittive ai fini
del contenimento della spesa; sempre al
medesimo scopo di contenere le relative
spese, l’articolo 1, commi 9 e 11, del d.l.
12.07.2004, n. 168, convertito con legge
30.07.2004, n. 191, poneva un limite alla
spesa per gli incarichi per le regioni, le
province e i comuni con popolazione
superiore a 5.000 abitanti, prevedendo
altresì che l’affidamento d’incarichi, in
assenza dei presupposti stabiliti
dall’articolo 1, comma 9, “… costituisce
illecito disciplinare e determina
responsabilità erariale”.
In ordine a tale normativa è intervenuta la
circolare della Funzione pubblica n. 4 del
15.07.2004, nella quale si afferma (in piena
sintonia con la giurisprudenza della Corte
dei conti nella materia, puntualmente
richiamata) che la possibilità di ricorrere
a rapporti di collaborazione sussiste solo
per prestazioni di elevata professionalità,
contraddistinte da una elevata autonomia nel
loro svolgimento, tale da caratterizzarle
quali prestazioni di lavoro autonomo;
l’affidamento dell’incarico a terzi può
dunque avvenire solo nell’ipotesi in cui
l’amministrazione non sia in grado di far
fronte ad una particolare e temporanea
esigenza con le risorse professionali
presenti in quel momento al suo interno.
Per completezza, può poi precisarsi che le
disposizioni dei commi 9 e 11 dell’articolo
1 della legge n. 191/2004 hanno cessato di
essere in vigore il 31.12.2004 e sono state
sostituite, a decorrere dall'01.01.2005,
dall’articolo 1, commi 11 e 42, della legge
30.12.2004, n. 311 (legge finanziaria 2005),
il cui contenuto è stato peraltro illustrato
dalle SS.RR. della Corte dei conti, con
deliberazione n. 6/2005, “Linee di
indirizzo e criteri interpretativi sulle
disposizioni della legge 30.12.2004, n. 311
(finanziaria 2005) in materia di affidamento
d’incarichi di studio o di ricerca ovvero di
consulenza (art. 1, commi 11 e 42)”.
Più in particolare, il comma 11 dispone che
il conferimento dell’incarico deve essere
adeguatamente motivato ed “… è possibile
soltanto nei casi previsti dalla legge
ovvero nelle ipotesi di eventi straordinari”.
Le amministrazioni statali, gli enti
pubblici nazionali non economici e le
regioni possono quindi conferire incarichi
esterni solo nei casi previsti dalla legge
nazionale o dalle leggi regionali, salvi gli
eventi straordinari. La norma ha poi
confermato il limite della spesa per il
conferimento degli incarichi esterni,
determinandolo nell’importo erogato per lo
stesso oggetto nel 2004.
Il D.L. n. 223/2006, conv. con L. n.
248/2006 e la legge finanziaria n. 244/2007
per l’anno 2008 (legge 24.12.2007, n. 244,
art. 3, commi da 54 a 57 e 76), con diverse
disposizioni, hanno da ultimo definito
ulteriormente il già articolato regime delle
collaborazioni esterne nella P.A.,
consolidando la tendenza a limitare il
ricorso a tali tipologie contrattuali ad
ipotesi eccezionali e, indirettamente,
costituendo i presupposti per una riduzione
della spesa correlata, con apposita modifica
del testo dell’art. 7 D.Lgs. n. 165/2001. I
principi recati da tali ultime normative
–che sostanzialmente confermano quelli già
in vigore– sono stati oggetto anch’essi di
apposita
deliberazione 24.04.2008 n. 6/2008
della Corte dei conti, Sez. autonomie, che
ha precisato i criteri interpretativi.
Per quel che riguarda invece la posizione
della giurisprudenza, va evidenziato come il
conferimento d’incarichi a soggetti esterni
all'amministrazione abbia costituito, e
costituisca tuttora, una fattispecie
ricorrente in tema di responsabilità
amministrativa. E’ possibile cogliere, nella
giurisprudenza della Corte dei conti,
princìpi e criteri direttivi in grado di
orientare utilmente l'interprete e
l'operatore, pur nella varietà e complessità
delle situazioni concrete.
I su detti principi e criteri da seguire, a
proposito dell’attribuzione d’incarichi,
sono, in linea di massima:
a) il conferimento dell'incarico deve essere
legato a problemi che richiedono conoscenze
ed esperienze eccedenti le normali
competenze;
b) l'incarico deve caratterizzarsi in quanto
non implicante svolgimento di attività
continuativa ma anzi la soluzione di
specifiche problematiche già individuate al
momento del conferimento dell'incarico del
quale debbono costituire l'oggetto;
c) l'incarico deve presentare le
caratteristiche della specificità e della
temporaneità;
d) l'incarico non deve rappresentare uno
strumento per ampliare fittiziamente compiti
istituzionali e ruoli organici dell'ente;
e) il compenso connesso all'incarico deve
essere proporzionale all'attività svolta e
non liquidato in maniera forfetaria;
f) la delibera di conferimento deve essere
adeguatamente motivata;
g) l'incarico non deve essere generico od
indeterminato;
h) i criteri di conferimento non debbono
essere generici; ne consegue l'illegittimità
e la sussistenza di un danno erariale a
fronte di un incarico assolutamente generico
e non motivato.
Si possono citare in proposito, ex multis,
Corte dei conti, Sez. I, 02.09.2008, n. 393,
17.09.2007, n. 248 e 31.05.2005, n. 187;
Sez. II, 11.06.2001, n. 208; Sez. III,
06.02.2006, n. 74 e 13.04.2005 n. 183; Sez.
sic. appello, 02.04.2002, n. 46 e
01.08.2000, n. 100; Sez. riun. 12.06.1998,
n. 27. Anche la Sezione controllo enti di
questa Corte, già nella deliberazione
22.07.1994, n. 33, aveva rappresentato la
necessità di evitare che l’affidamento
d’incarichi a terzi si traducesse in forme
atipiche di assunzione, con la conseguente
elusione delle disposizioni sul reclutamento
e delle norme in materia di contenimento
della spesa.
La posizione della giurisprudenza contabile,
sopra illustrata, è stata tenuta presente
sia dal Legislatore sia dalla stessa
Funzione Pubblica, in sede di adeguamento e
interpretazione della normativa
successivamente intervenuta nella materia
(cfr., in identici termini, Corte dei conti,
Sez. Prima Centrale Appello sent. n.
145/2009).
Ciascuno dei requisiti sopra indicati
–lettere da a) ad h)- è essenziale ai fini
della liceità dell’incarico, per cui
l’accertamento del difetto di uno solo dei
presupposti sopra indicati è sufficiente a
qualificarlo come illecito; in proposito
si ritiene utile sottolineare che il fine
del citato art. 7 è quello di escludere che
sia affidato, con incarichi, l’espletamento
di normali attività che potrebbero essere
svolte dal personale interno.
La disciplina in esso dettata vuole evitare,
dunque, che si possa verificare uno spreco
di risorse dell’ente pubblico, mascherando
per consulenza un’attività che può essere
svolta da personale interno
dell’Amministrazione, già da quest’ultima
retribuito (Corte dei conti, Sez. Lazio,
18.08.2009, n. 1660).
La Pubblica Amministrazione, in conformità
al dettato di cui all’art. 97 della
Costituzione, deve infatti uniformare i
propri comportamenti ai criteri di legalità,
economicità, efficienza ed imparzialità dei
quali per ius receptum, diviene
corollario il principio secondo cui la
stessa, nell’assolvimento dei propri compiti
istituzionali, deve avvalersi
prioritariamente delle proprie strutture
organizzative e del personale che vi è
preposto (Corte dei conti, Sez. Sardegna,
18.09.2008, n. 1831; Corte dei conti, Sez.
Lazio, 12.05.2008, n. 787).
---------------
Tanto premesso, il Collegio osserva che
l’esame della documentazione depositata sia
dalla Procura sia dalla difesa a sostegno
delle rispettive tesi, evidenzia che le
prestazioni lavorative richieste al p.i.e.
..., dedotte in contratto, ineriscono ad
attività di carattere squisitamente
tecnico-gestionale. Sul punto non vi è
contestazione perché la difesa espressamente
(pag. 10 e segg. della memoria difensiva)
afferma che “Nel corso del rapporto con
l’Amministrazione comunale di Laglio, ...
predispose tutti gli atti di gestione e le
determinazioni dell’Ufficio tecnico di poi
emanate dal Sindaco in qualità di
responsabile del servizio, avvalendosi
dell’attività istruttoria dell’arch. ... e
svolgendo pure autonomamente attività di
istruttoria delle pratiche, anche oltre
l’impegno orario (12 ore settimanali)
convenuto nell’incarico professionale”.
A ciò segue un elenco, documentato, dei “procedimenti
più significativi e complessi seguiti
interamente dal solo ...” [lettere da a)
sino a q) della memoria]. Ciò posto, si
respinge -perché ininfluente- la richiesta
di prova testimoniale al riguardo.
Altra specifica connotazione della
prestazione lavorativa del ... è stata la
continuità: dall’iniziale previsione di mesi
sei si è passati, con le delibere di proroga
indicate in narrativa, a ben oltre tre anni
di attività espletata. Tali rilevazioni
fattuali, ad avviso del Collegio, valgono ad
escludere che la fattispecie concreta
rientri sia nella previsione normativa ex
art. 90 d.lgs. n. 267/2000, poiché i compiti
svolti non attengono alle funzioni di
indirizzo e controllo previsti dalla norma
indicata, sia nella previsione normativa di
cui all’art. 110 d.lgs. n. 267/2000, perché
per un verso la norma citata prevede, tra
l’altro, che i contratti a tempo determinato
di funzionari dell’area direttiva, di
dirigenti e alte specializzazioni possano
essere stipulati “solo in assenza di
professionalità analoghe presenti
all’interno dell’ente”
(nell’amministrazione comunale era presente,
come detto, l’arch. ...) e, per altro verso,
la temporaneità ed i limiti del rapporto
normativamente previsto non possono essere
elusi, come avviene nella fattispecie
considerata in ragione delle proroghe del
termine del contratto inizialmente
stipulato, e determinare un sostanziale
incardinamento del ... nel personale
dell’amministrazione comunale.
Il difetto dei requisiti sopra indicati,
essenziali per legittimare l’affidamento di
attività istituzionale, è da solo
sufficiente a qualificare come illecito
l’incarico affidato al ....
Anche se tali osservazioni hanno rilievo
assorbente ed esimono dall’esame analitico
degli altri profili d’illegittimità e
illiceità di affidamento dell’incarico di
cui trattasi, il Collegio –considerando il
contenuto effettivo dell’incarico e della
durata dello stesso- ritiene di
puntualizzare che la fattispecie concreta si
connota, in buona sostanza, come
incardinamento del p.i.e. ... nella
struttura amministrativa, con elusione della
normazione vigente in materia e violazione
dei princìpi e delle regole che attengono
all’imparzialità e buon andamento della P.A.
In merito all’elemento soggettivo
dell’illecito, il Collegio ritiene che si
tratti di colpa grave, considerate le
chiarissime previsioni normative concernenti
i requisiti di legittimità del conferimento
d’incarichi all’esterno, violate nel caso di
specie.
Il profilo d’illiceità accertato incide
anche sulla valutazione dei vantaggi
comunque conseguiti, ai sensi dell’art. 1,
comma 1-bis, L. n. 20/1994 in base al quale
“nel giudizio di responsabilità, fermo
restando il potere di riduzione, deve
tenersi conto dei vantaggi comunque
conseguiti dall’Amministrazione o dalla
comunità amministrata in relazione al
comportamento degli amministratori o dei
dipendenti pubblici soggetti al giudizio di
responsabilità”.
Occorre verificare e valutare se il medesimo
fatto generatore del danno ha anche
determinato un vantaggio in relazione ai
comportamenti tenuti; accertamento
dell’effettività dell’utilitas
conseguita; rispondenza della stessa
utilitas ai fini istituzionali
dell’Amministrazione che li riceve (Corte
dei conti, Sez. Lazio, 12.05.2008, n. 787).
Il Collegio, in proposito, osserva che
l’incarico di cui trattasi ha rivestito
carattere d’illiceità, tra l’altro, per il
carattere ordinario e continuato dei compiti
svolti e, pertanto, l’Ente danneggiato non
ha tratto alcuna utilità in ragione della
non compiuta utilizzazione e valorizzazione
delle professionalità interne, per cui, ai
sensi dell’art. 1, comma 1-bis, della legge
14.01.1994, n. 20, non si può ridurre o
elidere il danno accertato: ciò in quanto
nel giudizio di responsabilità non possono
essere invocati, come fa la difesa, a titolo
di esimenti elementi e circostanze che
attengono alla gestione globale dell'ente o
struttura amministrativa (cfr., in termini
sostanzialmente identici, Corte dei conti,
Sez. Giur. Lomb. Sent. n. 648/2009 e Sez.
Terza Centrale Appello sent. n. 3/2003).
Nondimeno si ravvisano, nella vicenda in
esame, elementi (difficoltà strutturali e
operative del Comune, segnatamente
dell’Ufficio Tecnico a causa di
insufficienza di personale) i quali, pur non
potendo costituire esimenti di
responsabilità, sono, tuttavia, idonei a
giustificare l'esercizio del potere
riduttivo attribuito al Giudice contabile e,
pertanto, il danno addebitabile non sarà
rivalutato. (art. 52 TUCL n. 1214 del 1934)
(Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia,
sentenza 24.01.2012 n. 26 - link a www.corteconti.it). |
Ancora oggi, troppo spesso si abusa nel conferire incarichi
di ogni sorta all'esterno della pubblica amministrazione,
con conseguente depauperamento delle finanze pubbliche. E
ciò si verifica, da parte dei funzionari con potere
gestionale di spesa, soprattutto (e non solo) per "compiacere" il Sindaco o
l'assessore del caso (avendo, in contropartita, la
tranquillità di mantenere lo scranno di responsabile di
servizio/settore con l'annessa lauta retribuzione di
posizione e di risultato a fine anno). E già, perché se non
"collaborano" si trovano defenestrati dall'oggi al
domani ...
Ma a questi funzionari che scientemente non rispettano la legge,
gettando il discredito sull'Istituzione cui appartengono e
su tutti gli altri dipendenti che -entrando a lavorare nella pubblica
amministrazione- convintamente hanno fatto solenne promessa
secondo la formula "Prometto
di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la
Costituzione e le leggi dello Stato, di adempiere ai doveri
del mio ufficio nell'interesse dell'Amministrazione per il
pubblico bene",
auguriamo di cuore che la Corte dei Conti -quanto prima e
men che se lo aspettano- suoni loro il citofono di casa ...
auguri !!!
27.02.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
NOVITA' NEL
SITO |
Inseriti nel sito i seguenti
nuovi DOSSIER:
●
agibilità; ●
decadenza p.d.c.. |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Benessere individuale: lo stress
da lavoro e le sue conseguenze
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 22.02.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Benessere organizzativo:
valorizzare le persone per valorizzare
l'organizzazione
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 20.02.2012). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: realizzazione di cabine
elettriche per la connessione di nuove
utenze alla rete elettrica (ANCE
Bergamo,
circolare 24.02.2012 n. 61). |
APPALTI:
Oggetto: Intervento sostitutivo della
stazione appaltante - art. 4 D.P.R. n.
207/2010 (ANCE Bergamo,
circolare 24.02.2012 n. 56). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: Art. 16, comma 17, del decreto
legge 13.08.2011, n. 138, convertito dalla
legge 14.09.2011, n. 148, concernente la
riduzione del numero dei consiglieri e degli
assessori comunali per i comuni fino a
10.000 abitanti
(Prefettura di Bergamo,
circolare 21.02.2012 n. 2/2012). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
Da Legambiente il Regolamento Edilizio
Nazionale, con esempi concreti di edilizia
sostenibile.
Rendere più sostenibile l'edilizia italiana
è possibile semplicemente “guardando e
copiando bene” dai Comuni più virtuosi
nell'innovazione energetica e ambientale.
E’ quanto sostiene Legambiente che invita
tutte le amministrazioni comunali ad
adottare un regolamento edilizio che
contenga il meglio di tutti i regolamenti
comunali italiani.
Al riguardo Legambiente ha pubblicato il
Regolamento edilizio nazionale dell’edilizia
sostenibile, che tratta i seguenti
argomenti:
● isolamento termico;
● prestazione dei serramenti;
● integrazione delle fonti rinnovabili;
● utilizzo delle tecnologie per l'efficienza
energetica e contabilizzazione individuale
del calore;
● orientamento e schermatura degli edifici;
● materiali da costruzione;
● risparmio idrico e recupero delle acque
meteoriche,
● isolamento acustico;
● permeabilità dei suoli;
● certificazione energetica.
Il documento è utile a tutti i tecnici e ai
progettisti, in quanto propone spunti
interessanti di edilizia sostenibile (link a
www.acca.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
L. Bellagamba,
L’assoluta autocertificabilità del DURC -
Ultimo aggiornamento: la “genialata”
dell’INAIL (23.02.2012 -
link a www.linobellagamba.it). |
LAVORI PUBBLICI:
L. Bellagamba,
Leasing in costruendo e concessione fredda:
la non convincente ricostruzione giuridica
di Corte dei Conti, sez. reg. controllo
Emilia Romagna, deliberazione 19.01.2012, n.
5 - Il consiglio pratico ai sindaci alle
prese con il fotovoltaico (22.02.2012
- link a www.linobellagamba.it). |
ENTI LOCALI - URBANISTICA:
S. Abbate,
Il piano delle alienazioni degli immobili
comunali e il prodigio della moltiplicazione
dei pani e dei pesci (link a
http://venetoius.myblog.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L.R. Lombardia n. 1/2012: tabella di
comparazione con la L. 241/1990
(link a www.studiospallino.it). |
APPALTI: A.
Concas,
Le caratteristiche del contratto di appalto
(link a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: R.
Chiarella,
Governo del territorio e jus aedificandi
- Il problema dei trasferimenti di
volumetria (link a
www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: P.
Scognamiglio,
Laboratorio sui reati in materia urbanistica
e di tutela del paesaggio - Questioni
attuali in materia di reati edilizi e di
condoni (24.10.2011 - link a www.lexambiente.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI - VARI:
D.L. 29.12.2011, n. 216 - Proroga di termini
previsti da disposizioni legislative -
Testo del decreto-legge comprendente le
modificazioni apportate dalla Camera dei
deputati e dal Senato della Repubblica in
attesa di pubblicazione sulla G.U.. |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 8 del
21.02.2012, "Pubblicazione dei testi
coordinati del regolamento regionale n.
4/2008 e del titolo X della l.r 31/2008"
(comunicato
regionale 14.02.2012 n. 19). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 8 del
20.02.2012, "Determinazioni generali in
merito alla caratterizzazione delle
emissioni gassose in atmosfera derivanti da
attività a forte impatto odorigeno" (deliberazione
G.R. 15.02.2012 n. 3018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del
20.02.2012, "Approvazione proposta
definitiva ridelimitazione dei comprensori
di bonifica e irrigazione ai sensi degli
artt. 78 e 79-bis della l.r. 31/2008" (deliberazione
G.R. 08.02.2012 n. 2994). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U.U.E.
28.01.2012 n. L 26/1 "DIRETTIVA
2011/92/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL
CONSIGLIO del 13.12.2011
concernente la valutazione dell’impatto
ambientale di determinati progetti pubblici
e privati" (link a http://eur-lex.europa.eu). |
QUESITI &
PARERI |
APPALTI:
Commissione giudicatrice, variazione dopo
l'apertura delle buste?
Domanda.
Nelle gare d'appalto può procedersi alla
modifica della struttura della Commissione
giudicatrice (con l'aggiunta di due
Commissari esterni rispetto ai tre
componenti originari) in un momento
successivo all'apertura delle buste
contenenti le offerte tecniche?
Risposta.
Una modifica di tal fatta deve ritenersi
illegittima. Invero, la variazione della
consistenza numerica dell'organo, ove
intervenga in un momento in cui i membri
originari avevano già potuto prendere
conoscenza dei contenuti delle offerte
tecniche presentate dai concorrenti, si pone
in contrasto con l'esigenza di trasparenza e
la garanzia di continuità delle operazioni
valutative che impongono di individuare in
detto discrimine temporale il limite
invalicabile oltre il quale non può essere
variata la consistenza numerica della
Commissione.
L'alterazione della composizione numerica
dell'organo collegiale si presta al rischio
di alterazione del giudizio in corso di
formazione e di formazione di maggioranze
precostituite, in guisa da cagionare un
vulnus ai principi di trasparenza,
imparzialità e continuità dell'azione
amministrativa (20.02.2012 - tratto da www.ipsoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Contaminazione del suolo.
Domanda.
I risultati dell'indagine preliminare sulla
contaminazione di un terreno di mia
proprietà hanno dato, in un valore, esito
diverso rispetto a quello rilevato
dall'amministrazione. Posso chiedere la
ripetizione di detto esame?
Risposta.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar),
Umbria, sezione I, con la sentenza del 24.07.2010, n. 416, ha affermato che
ove i risultati dell'indagine preliminare
sulla contaminazione, ottenuti con una
procedura corretta e secondo quanto previsto
dall'allegato II, della parte IV del titolo
V, del decreto legislativo 03.04.2006,
n. 152, attestino l'esistenza dei
presupposti per l'obbligo di presentare il
piano di caratterizzazione del sito
inquinato, non è necessario procedere ad un
riesame dell'indagine. Se così si
procedesse, per i giudici amministrativi
umbri, si concederebbe al responsabile
dell'evento inquinante una sorta di seconda
chance.
Seconda chance che verrebbe a
tradursi in una disapplicazione del
principio comunitario «chi inquina, paga» e
della disciplina nazionale che ne ha
stabilito tempi e modalità attuative. Senza
escludere, altresì, un aggravamento del
rischio danno per l'ambiente. Infatti, per
il predetto Tribunale regionale
amministrativo, nella fattispecie esaminata,
non è controversa l'applicazione
dell'articolo 242 del citato decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152, sia
per quanto riguarda il superamento delle
concentrazioni di soglia di contaminazione (Csc),
anche per un solo parametro, sia per quanto
riguarda le conseguenze, che si
materializzano nell'obbligo di presentazione
del piano di caratterizzazione del sito.
La Corte di cassazione, penale, con la
sentenza del 30.10.2007, n. 40191, ha
precisato che la provincia «qualora
accerti l'avvenuto superamento delle
anzidette concentrazioni anche per un solo
parametro deve darne immediata notizia al
comune e alle province competenti per
territorio con la descrizione delle misure
adottate e nei successivi 30 giorni deve
presentare alle Amministrazioni e alla
regione competente il piano di
caratterizzazione con i requisiti di cui
all'allegato n. 2_» (articolo ItaliaOggi Sette del
20.02.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Persona non colpevole.
Domanda.
Pure non essendo responsabile
dell'inquinamento di un terreno di mia
proprietà, mi devo accollare i costi della
bonifica?
Risposta.
L'articolo 242, comma 1, del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152,
prevede che il proprietario di un terreno
che scopre una contaminazione del predetto
terreno, a lui non imputabile, deve dare
comunicazione della scoperta della
contaminazione storica, a rischio di
aggravamento.
Lo stesso soggetto alla luce del disposto
del citato articolo 242, comma 11, è
obbligato ad attivare la procedura di
bonifica di un sito contaminato di sua
proprietà, senza che sussista un rischio di
aggravamento, se la contaminazione è
avvenuta prima dell'entrata in vigore del
suddetto decreto legislativo 03.04.2006,
n. 152.
L'articolo 245 del predetto del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152,
afferma che «il proprietario o il gestore
dell'area che rilevi il superamento o il
pericolo concreto e attuale del superamento
delle concentrazioni di soglia di
contaminazione (Csc) deve darne
comunicazione_ e attuare le misure di
prevenzione».
La normativa, quindi, richiede l'avvio della
procedura anche da parte dei soggetti non
responsabili, che sono i proprietari
dell'area o che hanno su di essa un
controllo diretto.
Alla luce di quanto sopra, nonostante il
principio «chi inquina, paga», il
proprietario incolpevole dell'area o il
gestore della stessa, deve comunicare la
scoperta di contaminazioni, anche storiche,
e deve mettere in atto le misure di
prevenzione, e, se necessario, eseguire
anche la caratterizzazione dell'area. Però,
in casi di interventi eccessivamente
onerosi, il soggetto non responsabile
dell'inquinamento dell'area non può essere
obbligato a concludere gli interventi
programmati, atteso che tale obbligo rimane
in capo al responsabile della
contaminazione, o, in subordine,
dell'amministrazione pubblica.
L'amministrazione, in un secondo momento, ha
il diritto di rivalersi sull'area o chiedere
il rimborso delle spese sostenute al
proprietario dell'area, anche se
incolpevole, nei limiti del valore di
mercato dell'area, una volta che la stessa
sia stata bonificata.
È da dire che
l'articolo 245, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, riconosce al
proprietario, o ad altro soggetto
interessato, la facoltà, e non l'obbligo, di
intervenire, in qualunque momento,
volontariamente, per la realizzazione degli
interventi di bonifica necessari nell'ambito
del sito di proprietà o di disponibilità.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar),
Toscana, sezione II, con la sentenza del
22.06.2010, n. 2035, ha affermato che, una
volta avviato il procedimento ex articolo 9,
del decreto ministeriale 25.10.1999, n. 471,
ora sostituito dal su citato articolo 245,
l'interessato non può fermarsi alla sola
messa in sicurezza e alla redazione del
piano di caratterizzazione, ma deve
concludere l'intero procedimento, al fine di
dare luogo alla bonifica ed al ripristino
ambientale già configurate nel piano di
caratterizzazione (articolo ItaliaOggi Sette del
20.02.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti in terreno dato in locazione.
Domanda.
In qualità di proprietario locatore, sono
responsabile dell'abbandono e deposito
incontrollato di rifiuti nel terreno, dato
in locazione, nonostante le cautele
adottate?
Risposta.
Il codice dell'ambiente, varato con il
decreto legislativo n. 152, del 03.04.2006, all'articolo 192, prevede che chiunque
abbandoni rifiuti nel suolo e nel sottosuolo
è tenuto a procedere alla loro rimozione, al
loro avvio al recupero o allo smaltimento ed
al ripristino dello stato dei luoghi in
solido con il proprietario e con i titolari
di diritti reali o personali di godimento
sull'area. Ai predetti la violazione deve
essere imputabile a titolo di dolo o di
colpa, in base agli accertamenti effettuati,
in contraddittorio con essi, dai soggetti
preposti al controllo. «Il sindaco, aggiunge
il predetto articolo, dispone, con
ordinanza, le operazioni a tal fine
necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede
all'esecuzione in danno dei soggetti
obbligati ed al recupero delle somme
anticipate».
Il Consiglio di stato, sezione V, con la
sentenza n. 4614, del 16.07.2010, ha
affermato che, in tema di rifiuti, non è
previsto, a differenza di quanto disposto
per la bonifica dei siti inquinati, alcun
onere reale a carico del proprietario, che
possa giustificate l'emanazione di ordinanze
amministrative direttamente nei suoi
confronti. Pertanto, nei casi di specie,
deve essere accertata la colpa del
proprietario del sito interessato o di
qualunque altro soggetto che si trovi con
l'area in un rapporto, anche di mero fatto,
tale da consentirgli e, di conseguenza, da
imporgli di esercitare la funzione d
protezione e custodia del luogo, al fine di
evitare che l'area medesima posa essere
adibita a discarica abusiva di rifiuti,
nocivi per la salvaguardia dell'ambiente. È
da puntualizzare che il requisito della
colpa può consistere anche nell'omissione
delle cautele e degli accorgimenti che
l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di
un'efficacia custodia del sito interessato.
La Corte di cassazione civile, sezione III,
con la sentenza del 22.03.2011, n. 6525, ha
affermato che se il proprietario locatore
sia a conoscenza della presenza di rifiuti
sul suo fondo e non abbia posto in essere
tutte le facoltà e tutti i poteri
contrattuali e giudiziali esercitabili nei
confronti dei conduttori dell'area per
esigere la cessazione della situazione
illecita, è responsabile, in solido con i
conduttori, della violazione dell'obbligo di
attivazione rappresentato dal dovere di
provvedere alla rimozione ed al ripristino
dello stato dei luoghi (articolo ItaliaOggi Sette del
20.02.2012). |
NEWS |
ENTI LOCALI - VARI: Il
dl milleproroghe convertito in legge. Rinvii
per catasto e inesigibilità.
Prorogati i termini per presentare le
domande di variazione catastale dei
fabbricati rurali strumentali e le
comunicazioni d'inesigibilità dei ruoli agli
enti creditori da parte di concessionari e
agenti della riscossione.
L'art. 29 del milleproroghe (dl 216/2011, convertito ieri
in legge dalla Camera con 336 voti a favore,
61 contrari e 13 astensioni dopo il voto di
fiducia), sposta più avanti il termine per
presentare le istanze per ottenere il cambio
di categoria catastale da parte degli
agricoltori, fissato prima al 30/09/2011 e
poi al 31 marzo, e considera regolari le
domande di variazione presentate entro il
30/06/2012. Inoltre, consente a agenti della
riscossione e ex concessionari-esattori di
comunicare ai creditori l'inesigibilità
delle somme entro il 31/12/2013 per tutti i
ruoli consegnati fino al 31/12/2010.
Prima
di quest'ultimo intervento normativo, il
termine per l'adempimento era il 30/09/2012
per tutti i ruoli consegnati fino al
30/9/2009. Arriva dunque la proroga anche
per la presentazione delle domande
d'inesigibilità dei ruoli agli enti
creditori che in passato hanno riscosso le
entrate tramite cartella di pagamento. Equitalia e gli ex concessionari potranno
comunicare ai creditori l'inesigibilità
delle somme entro il 31/12/2013 per tutti i
ruoli consegnati fino al 31/12/2010.
Tuttavia, l'art. 29 concede un ulteriore
rinvio sia per la presentazione delle
comunicazioni sia per effettuare i controlli
da parte degli enti creditori. Il termine
ordinario triennale per i controlli da parte
delle amministrazioni interessate decorre
dall'01/01/2014.
Per quanto riguarda i
fabbricati rurali (si veda ItaliaOggi di
ieri) prorogato al 30 giugno il termine per
la presentazione delle domande di variazione
catastale all'agenzia del Territorio, al
fine di ottenere l'esenzione sui fabbricati
rurali strumentali fino al 2011 e il
trattamento agevolato dal 2012, con
applicazione dell'aliquota ridotta al 2 per
mille. Sono considerate regolari anche le
domande presentate dopo la scadenza del
termine originario, che era inizialmente il
30/09/2011.
La richiesta di variazione va presentata
solo dai titolari di fabbricati strumentali.
Sono interessati alle variazioni i titolari
di immobili strumentali, vale a dire quelli
utilizzati per la manipolazione,
trasformazione e vendita dei prodotti
agricoli
(articolo ItaliaOggi del 24.02.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: Guida
anti incendi per impianti fotovoltaici.
Arriva una nuova guida per l'installazione
degli impianti fotovoltaici nelle attività
soggette ai controlli di prevenzione
incendi. A predisporla un apposito gruppo di
lavoro, costituito da esperti del settore
elettrico e approvata recentemente dal
Comitato centrale tecnico scientifico per la
prevenzione incendi (Ccts).
Con la
nota 07.02.2012 n. 1324 di prot.
il
Ministero dell'interno,
dipartimento Vigili del Fuoco, ha inviato
alle direzioni regionali e ai comandi dei
Vigili del fuoco la nuova guida per
l'installazione degli impianti fotovoltaici
nelle attività soggette ai controlli di
prevenzione incendi. La guida recepisce i
contenuti del dpr 151/2011. E tiene conto
delle varie problematiche emerse in sede
periferica a seguito delle installazioni di
impianti fotovoltaici.
Va detto che gli impianti fotovoltaici non
rientrano fra le attività soggette ai
controlli di prevenzione incendi, ma
l'installazione degli stessi in funzione
delle caratteristiche elettriche/costruttive
e/o delle relative modalità di posa in
opera, può comportare un aggravio del
preesistente livello di rischio di incendio.
L'aggravio potrebbe concretizzarsi, per il
fabbricato servito, in termini di:
- interferenza con il sistema di
ventilazione dei prodotti della combustione
(ostruzione parziale/totale di traslucidi,
impedimenti apertura evacuatori);
- ostacolo alle operazioni di
raffreddamento/estinzione difetti
combustibili; rischio di propagazione delle
fiamme all'esterno o verso I'interno del
fabbricato (presenza di condutture sulla
copertura di un fabbricato suddiviso in più
compartimenti);
- modifica della velocità di propagazione di
un incendio in un fabbricato
monocompartimento). Rientrano, nel campo di
applicazione della seguente guida, gli
impianti con tensione in corrente continua
(c.c.) non superiore a 1500 V. La guida
esamina dettagliatamente:
- i requisiti tecnici (ai fini della
prevenzione incendi gli impianti FV dovranno
essere progettati, realizzati e manutenuti a
regola d'arte;
- verifiche (periodicamente e a ogni
trasformazione, ampliamento o modifica
dell'impianto dovranno essere eseguite e
documentate le verifiche);
- segnaletica di sicurezza (l'area in cui è
ubicato il generatore e i suoi accessori,
qualora accessibile, dovrà essere segnalata
con apposita cartellonistica conforme al
dlgs 81/2008);
- salvaguardia degli operatori Vigili del
fuoco (è stata presa in considerazione
l'installazione di dispositivi di
sezionamento per gruppi di moduli,
azionabili a distanza, ma ad oggi non se ne
richiede l'obbligatorietà in quanto non è
nota l'affidabilità nel tempo, né è stata
emanata una normativa specifica che ne
disciplini la realizzazione, l'utilizzo e la
certificazione);
- impianti esistenti (gli impianti
fotovoltaici, posti in funzione prima
dell'entrata in vigore della guida 2012 e a
servizio di un'attività soggetta ai
controlli di prevenzione incendi,
richiedono, unicamente, gli adempimenti
previsti dal comma 6 dell'art. 4 del dpr
151/2011)
(articolo ItaliaOggi del 24.02.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Decertificazione. Stop
ai certificati inutili.
Per tutte le p.a. accesso telematico al
registro delle imprese.
Stop ai certificati inutili e via libera
alla tanto attesa e mai realizzata
interconnessione degli archivi delle
pubbliche amministrazioni.
Questo il duplice
effetto che cittadini e imprese si attendono
dalla Legge di stabilità 2012 secondo la
quale, dal 1° gennaio di quest'anno, i
certificati rilasciati dalla pubblica
amministrazione relativi a stati, qualità
personali e fatti sono validi ed
utilizzabili solo nei rapporti tra privati.
Secondo la norma, le pubbliche
amministrazioni d'ora in poi devono
acquisire d'ufficio i dati in possesso delle
altre pubbliche amministrazioni, senza
chiederli all'interessato.
Basterà un'altra legge, dopo tanti tentativi
infruttuosi o solo parzialmente riusciti, a
mandare in soffitta la figura del
cittadino-postino che recapita le
informazioni che lo riguardano da un ente a
un altro? Le premesse ci sono ma, come il
recente passato dimostra, per rendere
efficaci le norme di semplificazione è
indispensabile puntare sulle tecnologie
della rete, richiamandole sempre come il
canale obbligato da utilizzare.
Negli ultimi
anni l'alleanza tra legislatore e nuove
tecnologie è stata determinante nel
semplificare il rapporto tra pubblica
amministrazione e imprese, come dimostra
l'esperienza delle camere di commercio.
Anche in questo caso, gli enti camerali
hanno risposto al dettato normativo in
chiave tecnologica. A seguito delle nuove
norme, infatti, esse saranno destinatarie di
un crescente numero di richieste di accessi
da parte delle altre pubbliche
amministrazioni ai propri archivi, primo fra
tutti il Registro delle imprese.
Per
favorire l'operatività degli uffici,
Unioncamere -di concerto con InfoCamere, la
società consortile di informatica delle
camere di commercio italiane- ha avviato
un'iniziativa per realizzare un unico sito
web dal quale ogni amministrazione
interessata potrà attingere senza oneri alle
informazioni necessarie. Due gli obiettivi.
Da un lato, le Camere potranno assolvere
agli adempimenti in modo automatizzato ed
omogeneo sul territorio. Dall'altro, le
pubbliche amministrazioni potranno contare
su una medesima modalità di accesso ai dati
camerali, semplificando e velocizzando le
proprie attività di verifica. Resta esclusa
la sola richiesta del certificato antimafia.
Le p.a. interessate dovranno rivolgersi alla
prefettura, quale amministrazione
certificante.
Nei casi in cui le
informazioni camerali on-line non siano
sufficienti, attraverso il sito le
amministrazioni potranno comunque inoltrare
specifiche richieste di ulteriori
informazioni. Le funzionalità del nuovo
portale saranno pienamente operative entro
il mese di aprile. Le nuove norme sono
invece già operative dal 1° gennaio per le
attività degli Sportelli unici delle
attività produttive (Suap). Tutte le
pratiche ad essi indirizzate, infatti,
possono essere inoltrate senza che
l'imprenditore debba allegare la
certificazione di iscrizione alla Camera di
commercio. Attraverso il portale
www.impresainungiorno.gov.it, infatti, i
Suap possono consultare il Registro Imprese
per acquisire direttamente le informazioni
desiderate.
Il servizio –sempre realizzato
da InfoCamere- si chiama SU-RI ed è
disponibile senza oneri per il comune
interessato
(articolo ItaliaOggi del 24.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Cosa accade quando il
consigliere è colpito da sentenza non
definitiva. Condanne, iter obbligato.
Il consiglio convalida, la prefettura
sospende.
Quesito: è possibile convalidare l'elezione
di un consigliere comunale condannato con
sentenza non definitiva, confermata in
appello, alla pena della reclusione di anni
2 per un delitto non colposo (art. 323
c.p.), a seguito della quale lo stesso è
stato già sospeso dalla carica di
consigliere provinciale? Nel caso specifico,
è applicabile l'art. 59, comma 1, lett. b)
del Tuoel, considerato che la condanna in
appello è intervenuta non dopo, ma prima
dell'elezione?
Negli articoli 58 e 59 del dlgs 18.08.2000,n. 267, il legislatore ha distinto
diverse tipologie di intervento a seconda
che l'amministratore subisca determinate
condanne di natura penale prima o dopo
l'elezione. In particolare, il legislatore
all'art. 58, nell'individuare le diverse
cause ostative alla candidatura, ha posto
sullo stesso piano le varie fattispecie
delittuose, richiedendo in ogni caso una
sentenza definitiva, sia per quelle di
maggior allarme sociale sia per quelle di
(relativo) minor allarme sociale.
Diversamente, l'art. 59, nel dettare una
serie di cause che danno luogo alla
sospensione di diritto, ha effettuato
un'espressa distinzione, richiedendo un
maggior grado di accertamento nel caso di
reati di impatto sociale minore rispetto ai
reati tipici degli amministratori o ai reati
di associazione criminosa. In questo secondo
caso, infatti, è sufficiente una condanna
non definitiva e, quindi anche la sola
condanna di primo grado, mentre per i primi
la sospensione opera a seguito di sentenza
di primo grado confermata in appello. Così
ricostruito il modus operandi, risulta
evidente che il legislatore ha ritenuto di
effettuare, in primo luogo, un distinguo tra
la fase relativa alle candidature,
antecedente quindi alle elezioni, per la
quale richiede l'assenza di determinati
pregiudizi di natura penale da parte
dell'amministratore, e la fase successiva
alle elezioni, per la quale prevede la
sospensione di diritto al verificarsi di
altre fattispecie.
Da quanto sopra esposto,
risulta ora chiaro che, a norma dell'art. 58
del Tuoel, costituiscono cause ostative alla
candidatura solo le condanne definitive
elencate nello stesso articolo, in ordine
alle quali il consiglio svolge l'esame
previsto dall'art. 41 Tuoel ai fini della
proclamazione degli eletti, nella prima
seduta di convocazione e prima di deliberare
su qualsiasi altro oggetto. Viceversa, le
ipotesi elencate nell'art. 59 del Tuoel non
costituiscono cause di incandidabilità ma
ipotesi in cui un amministratore è sospeso
di diritto dalla carica ricoperta per
effetto di una ricognizione sulla loro
sussistenza, demandata all'esame del
prefetto (comma 4 dello stesso articolo) e
avente natura costitutiva.
Solo a seguito di
passaggio in giudicato della sentenza di
condanna o dalla data in cui diviene
definitivo il provvedimento che applica la
misura di prevenzione, il successivo comma 6
del citato art. 59 dispone la decadenza di
diritto dalla carica elettiva locale. La
stessa causa di sospensione rileva sia sulla
carica di consigliere provinciale sia sulla
carica di consigliere comunale, traendo
origine i relativi provvedimenti di
sospensione dalla medesima condanna penale,
portata a conoscenza dei rispettivi enti di
riferimento.
La giurisprudenza ha, infatti,
affermato che la sospensione di diritto
dalla carica di consigliere comunale, a
seguito di sentenza di condanna non
definitiva per uno dei delitti previsti
dall'art. 59, comma 1, del dlgs 18.08.2000, n. 267, non decorre dalla
pubblicazione della sentenza di condanna, ma
dalla comunicazione del provvedimento di
sospensione emesso dal prefetto al consiglio
comunale; ciò sulla base
dell'interpretazione letterale e della «ratio»
della disposizione, anche alla luce dei
successivi commi 3 (cessazione degli effetti
della sospensione per decorso del tempo) e 4
dello stesso art. 59, secondo cui
l'intervento del prefetto non è meramente
dichiarativo, ma costitutivo dell'efficacia
della sospensione (Cass. civ., Sez. I,
sent. n. n. 16052 dell'08/07/2009).
In merito
all'applicabilità dell'art. 59 del Tuoel al
caso di specie, in quanto la condanna in
appello è intervenuta non dopo, ma prima
dell'elezione, la sospensione di diritto,
che consegue ope legis, riveste natura
cautelare, per essere un'inibizione
provvisoria dall'esercizio delle pubbliche
funzioni, ancorata al solo presupposto di
una doppia condanna; tale misura cautelare è
vincolata al solo presupposto della sentenza
di condanna di secondo grado, a nulla
rilevando che la sentenza di primo grado sia
intervenuta prima o dopo l'elezione.
In
conclusione, nel caso in esame, sussistendo
una sentenza non definitiva confermata in
appello alla pena di due anni di reclusione
per un delitto non colposo (ipotesi
contemplata all'art. 59, comma 1, lett. b),
del Tuoel), il consiglio comunale dovrà
procedere alla convalida dell'eletto alla
quale seguirà la comunicazione, da parte
della prefettura, del provvedimento di
sospensione di diritto dalla carica del
consigliere interessato, in applicazione
della norma sopra richiamata
(articolo ItaliaOggi del 24.02.2012). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pensione ridotta per lo statale part-time.
Il taglio corrisponde alla quota di lavoro
effettuata.
Nell'ipotesi in cui i dipendenti pubblici
abbiano trasformato il loro rapporto di
lavoro da tempo pieno a part-time, con
prestazione effettiva dell'attività
lavorativa in misura superiore al 50% del
tempo pieno (e dunque con riduzione
dell'orario di lavoro in misura percentuale
inferiore al 50%), la pensione di anzianità
liquidata dovrà essere decurtata in misura
inversamente proporzionale alla prescelta
percentuale di riduzione dell'orario di
lavoro. In particolare, dovrà essere
decurtata in misura esattamente
corrispondente alla percentuale di lavoro
effettivamente prestato, anche se ne derivi
una decurtazione del trattamento
pensionistico superiore al 50 per cento.
Lo
ha stabilito la Cassazione con sentenza
n. 30662/2011, in seguito a ricorso proposto
dall'Inps di cui è stata data notizia con
messaggio 3202/2012.
Con altre sentenze, 25800 e 27041/2011,
illustrate con messaggio 3203/2012, si
informa che la Suprema corte ha stabilito
che sono di carattere speciale le norme nei
commi 185 e 187 dell'articolo 1 della legge
662/1996 e nel Dm 331/1997, che danno la
possibilità nel pubblico impiego di
trasformare il rapporto di lavoro da tempo
pieno a parziale con contestuale percezione
della pensione di anzianità al 60° anno di
età. Tali norme permettono ai dipendenti
pubblici, in deroga al regime generale di
non cumulabilità, di cumulare parzialmente
la pensione di anzianità e il reddito da
lavoro dipendente.
Dalla natura speciale, eccezionale e
derogatoria di dette norme rispetto al
regime generale vigente all'epoca della loro
emanazione discende la loro non derogabilità
ad opera delle successive disposizioni di
carattere generale, introdotte dall'art. 72
della legge 388/2000 e dall'art. 44 della
legge 289/2002
(articolo Il Sole 24
Ore del 24.02.2012). |
APPALTI: Fuori
dall'appalto per debiti certi ed esigibili.
Le gravi violazioni fiscali che consentono
l'esclusione dagli appalti devono riferirsi
a debiti certi, scaduti ed esigibili.
È
quanto prevede la bozza del decreto legge
sulle semplificazioni tributarie esaminata
dal preconsiglio dei ministri e attualmente
in fase di aggiustamento tecnico presso gli
uffici ministeriali competenti, con
l'ennesima modifica alla disciplina delle
cause di esclusione dagli appalti pubblici.
Si prevede infatti che all'articolo 38 del
codice dei contratti pubblici relativi a
lavori, servizi e forniture, sia inserita,
dopo il comma 1, lettera g), una ulteriore
lettera «g-bis» in cui si precisa il
concetto di «grave violazione
definitivamente accertata». La proposta
contenuta nella bozza del decreto legge
stabilisce che costituiscono violazioni
gravi definitivamente accertate quelle
relative all'obbligo di pagamento di debiti
per imposte e tasse che possano essere
definiti «certi, scaduti ed esigibili». Solo
a tali condizioni che devono, almeno stando
al tenore della proposta normativa, essere
presenti contemporaneamente, scatta la causa
di esclusione. La nuova norma stabilisce che
siano fatti salvi i comportamenti già
adottati dagli uffici in coerenza con la
previsione contenuta alla precedente lettera
g-bis).
La norma del provvedimento messo a punto
dagli uffici del Mineconomia, guidato da
Mario Monti, pur nel suo intento di rendere
più chiara la fattispecie di cui alla
lettera g) dell'articolo 38, sembra, almeno
in questa formulazione, poco chiara.
Infatti, per quel che riguarda la «gravità»
della violazione, il comma 4 dello stesso
articolo 38 già offre elementi chiari e
certi. In base alla norma vigente al comma
4, infatti, si intendevano per violazioni
gravi quelle che comportano un omesso
pagamento di imposte e tasse per un importo
superiore al valore previsto dall'articolo
48-bis, comma 1 e 2-bis, del dpr 29.09.1973, n. 602.
Si tratta del valore di 10.000 euro anche se
il citato comma 2-bis prevede che con
decreto di natura non regolamentare il
ministro dell'economia possa elevarlo fino
al doppio, o diminuirlo.
In questo caso, invece, la nuova norma
sembra incidere più sulla natura dei debiti
per imposte e tasse che, appunto, devono
essere «certi, scaduti ed esigibili», ma non
sul concetto di gravità della violazione per
il quale opera sempre il comma 4
dell'articolo 38 del codice.
Il dubbio derivante da una potenziale
sovrapposizione delle due norme, con il
superamento del quarto comma dell'articolo
38 potrebbe rimanere. Bizzarro è poi il
riferimento agli «uffici», nozione
più da circolare ministeriale che non da
codice dei contratti pubblici dove si
richiamano sempre le stazioni appaltanti e a
queste ultime ci si rivolge
(articolo ItaliaOggi del 22.02.2012). |
ENTI LOCALI - VARI: L'Imu
perde tutte le agevolazioni dell'Ici.
Soppressione di tutte le esenzioni e
agevolazioni Ici, anche se previste in leggi
speciali, non espressamente richiamate dalla
disciplina Imu, riconoscimento dei benefici
fiscali per gli immobili posseduti dai
comuni, contrasto alle residenze fittizie
per limitare il trattamento agevolato per le
abitazioni principali e riduzioni d'imposta
per i fabbricati inagibili o inabitabili.
Sono alcune delle modifiche apportate alla
disciplina della nuova imposta locale
contenute nel dl fiscale, le cui
disposizioni limitano l'obbligo di
presentare la dichiarazione Imu solo per gli
immobili il cui presupposto per
l'applicazione dell'imposta è sorto nel
2012.
Stretta sulle agevolazioni - Le norme sulla
nuova imposta locale riconoscono solo alcuni
benefici fiscali previsti dal dlgs 504/1992.
Viene ribadito il criterio interpretativo
che si ricava dalla relazione tecnica al dl
Monti (201/2011) e cioè che per inquadrare
le agevolazioni occorre tener conto non solo
delle disposizioni espressamente abrogate,
ma anche di quelle non richiamate. Quindi,
soppresse esenzioni e riduzioni d'imposta
previste dalla disciplina Ici non
espressamente richiamate.
Immobili comunali - In seguito alle modiche
apportate dal nuovo decreto, i comuni non
sono tenuti a pagare l'Imu per gli immobili
di cui sono proprietari o titolari di altri
diritti reali di godimento quando la loro
superficie insiste interamente o
prevalentemente sul proprio territorio. In
questi casi viene chiarito che il comune non
è tenuto a versare la quota di imposta
riservata allo Stato.
Inoltre, è stata
ripristinata la «vecchia» esenzione
riconosciuta dalla normativa Ici per gli
immobili siti sul territorio di altri comuni
a condizione che siano destinati a compiti
istituzionali (sede o ufficio dell'ente).
Abitazione principale - Il dl fiscale tende
a contrastare le residenze fittizie e limita
il trattamento agevolato all'immobile dove
il contribuente e il suo nucleo familiare
dimorano abitualmente e risiedono
anagraficamente. L'agevolazione, infatti, si
applica a un solo fabbricato, e relative
pertinenze, nel caso in cui i componenti del
nucleo familiare abbiano stabilito la dimora
abituale e la residenza anagrafica in
immobili diversi situati nel territorio
comunale.
Fabbricati inagibili o inabitabili - A
differenza di quanto già previsto
dall'articolo 8 del decreto legislativo
504/1992, anziché concedere una riduzione
d'imposta del 50% per i fabbricati
dichiarati inagibili o inabitabili, e di
fatto non utilizzati, la norma del dl
fiscale prevede per questi immobili una
riduzione del 50% della base imponibile,
limitatamente al periodo dell'anno durante
il quale sussistono queste condizioni.
Lo
stato di precarietà dell'immobile deve
essere accertato dall'ufficio tecnico
comunale con perizia a carico del
proprietario, il quale è tenuto ad allegare
alla dichiarazione la documentazione
comprovante lo stato del fabbricato. In
alternativa, il contribuente può presentare
un'autocertificazione. Viene attribuito ai
comuni il potere di disciplinare con
regolamento le caratteristiche di fatiscenza
sopravvenuta del fabbricato, non superabile
con interventi di manutenzione.
Dichiarazione Imu - I contribuenti devono
presentare la dichiarazione entro il 30
giugno dell'anno successivo a quello in cui
è sorto il presupposto impositivo. Per
questo adempimento deve essere utilizzato il
modello approvato con decreto ministeriale.
Nel provvedimento dovranno essere indicati
anche i casi in cui va assolto l'obbligo.
Quindi, la dichiarazione Ici vale anche per
l'Imu. I contribuenti che hanno già assolto
all'obbligo non sono tenuti a presentare una
nuova dichiarazione, nonostante si tratti di
un tributo diverso.
Come per l'Ici, il
contribuente non è tenuto a presentare la
dichiarazione Imu se gli elementi rilevanti
ai fini dell'imposta sono acquisibili dai
comuni attraverso la consultazione della
banca dati catastale. L'adempimento è invece
richiesto quando: l'immobile viene concesso
in locazione finanziaria, un terreno
agricolo diventa area edificabile o,
viceversa, l'area diviene edificabile in
seguito alla demolizione di un fabbricato.
Pertanto, va dichiarato qualsiasi atto
costitutivo, modificativo o traslativo del
diritto che abbia avuto a oggetto un'area
fabbricabile. Non a caso vengono richiamate
dal dl fiscale le disposizioni contenute
nell'articolo 37, comma 55, del decreto
legge 223/2006 che ha abrogato parzialmente
l'obbligo
(articolo ItaliaOggi del 22.02.2012). |
VARI: Patente allungata.
La scadenza va fino al compleanno. Il
decreto semplificazioni crea qualche problema.
Patente di guida a scadenza allungata in
base alla data di nascita del titolare.
È
questo lo scenario che sembra prospettarsi a
seguito alle dichiarazioni del ministro per
la semplificazione in merito alle
disposizioni operative conseguenti
all'entrata in vigore del decreto legge n. 5
del 09.02.2012.
Il provvedimento ha
infatti disposto che i documenti di identità
e di riconoscimento di cui all'art. 1, comma
1, lett. c), d) ed e), del decreto del dpr
n. 445/2000 sono rilasciati o rinnovati con
validità prolungata fino alla data del
compleanno del titolare immediatamente
successiva alla loro scadenza naturale. In
pratica si tratta dei documenti rilasciati o
rinnovati dopo il 10.02.2012, data di
entrata in vigore del decreto legge.
Prestando attenzione a quanto è stato
dichiarato dal governo (e pubblicato sul
portale della funzione pubblica), si può
desumere che la patente sia stata
volutamente inclusa fra i documenti che,
almeno nelle intenzioni dell'esecutivo,
scadranno di validità nel giorno del
compleanno del titolare. Il tenore letterale
dell'art. 7 del decreto legge n. 5/2012
lascia però spazio a forti dubbi e
perplessità.
È pur vero che, secondo la
definizione che viene data dal dpr 445/2000
è documento di riconoscimento «ogni
documento munito di fotografia del titolare
e rilasciato, su supporto cartaceo,
magnetico o informatico, da una pubblica
amministrazione italiana o di altri stati,
che consenta l'identificazione personale del
titolare», compresa la patente, come
peraltro ben evidenziato dal ministero
dell'interno con il parere prot. n.
300/A/1/35762/109/16 del 13.12.2004. Però,
l'eventuale allungamento fino alla data del
compleanno della scadenza di validità che,
stando al tenore letterale dell'art. 7,
comma 1, riguarderebbe appunto anche le
patenti, fa sorgere importanti criticità, in
considerazione delle norme speciali
nazionali e delle disposizioni comunitarie
attualmente vigenti in materia di rilascio e
conferma di validità delle licenze di guida.
L'art. 126 del codice della strada fissa in
modo netto e preciso la durata di validità
delle varie categorie di patente, prevedendo
sanzioni pecuniarie e accessorie per chi
circola con il documento di guida scaduto.
Limitando l'esame alle licenze delle
categorie più diffuse, cioè A e B, queste
sono valide dieci anni fino al compimento di
50 anni d'età, 5 anni oltre 50 anni d'età e
tre anni per gli ultrasettantenni. Ai fini
del rilascio, della conferma di validità o
di revisione entrano in gioco le varie
disposizioni del codice della strada che
prevedono prove d'esame teoriche e pratiche
e/o accertamenti dei requisiti psicofisici,
conferendo così alla patente la funzione
principale di attestare l'abilitazione alla
guida. Senza considerare, poi, che la stessa
patente può maturare diverse scadenze per le
differenti categorie di cui il titolare
entra in possesso, rendendo quindi
problematico concretizzare l'ipotesi di
allineare le varie scadenze.
E che sorte avrebbero le scadenze della
carta di qualificazione del conducente,
collegata alla patente e rilasciata agli
autotrasportatori, e del certificato di
idoneità alla guida di ciclomotori? Ma,
oltre alla specialità delle norme del
decreto legislativo n. 285/1992, ulteriori
dubbi sull'applicabilità alle licenze di
guida dell'art. 7, comma 1, del decreto
legge semplificazioni sorgono dalla
considerazione che la materia è disciplinata
dettagliatamente dalla normativa
comunitaria, di volta in volta recepita
dall'ordinamento interno.
L'iniziale facoltà d'imporre liberamente le
disposizioni nazionali in materia di durata
di validità, originariamente consentita
dalla direttiva 91/439/Ce del 29.07.1991 del
consiglio, è stata superata dalla direttiva
2006/126/Ce del 20.12.2006 del parlamento
europeo e del consiglio, che ha fissato
limiti precisi per la durata della licenza
di guida, derogabili solo previa
consultazione della commissione. Tali
vincoli temporali sono stati definiti
concretamente dal decreto legislativo di
attuazione n. 59 del 18.04.2011, che, fra
l'altro, introduce modifiche dell'art. 126
del codice della strada con disposizioni
applicabili dal 19.01.2013 con riferimento
anche a nuove categorie di patente.
Esemplificando la casistica che si
configurerebbe dopo l'entrata in vigore «operativa»
del decreto legge semplificazioni
nell'ipotesi che l'allungamento della
scadenza fino alla data del compleanno
riguardasse anche le abilitazioni alla
guida, se una patente di categoria B venisse
rilasciata l'01.04.2012 a un ventenne che
compie gli anni il 15 marzo, la licenza di
guida scadrebbe non dopo 10 anni, ma dopo
quasi 11 anni, cioè il 15.03.2023. Ciò in
palese contraddizione con le scadenze
previste dal codice stradale e, fra pochi
mesi, dal decreto legislativo n. 59/2011.
Un chiarimento, a questo punto, è
auspicabile che arrivi dal parlamento
durante l'esame del disegno di legge per la
conversione del decreto legge n. 5/2012
(articolo ItaliaOggi del 21.02.2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Semplificazioni. Cosa cambia per gli spazi
realizzati in base alla legge 122/1989.
Ok alla vendita separata per i box auto «Tognoli».
Il parcheggio dovrà però restare
pertinenziale.
Liberalizzazione anche per i parcheggi. Il
decreto Semplificazioni (Dl 09.02.2012,
n. 5) innova la disciplina inerente il
divieto di vendere i cosiddetti "parcheggi Tognoli" su area privata: per questa
tipologia di posti auto, dal 10.02.2012 la proprietà può essere trasferita a
patto che il parcheggio oggetto della
cessione sia contestualmente destinato a
pertinenza di un'altra unità immobiliare
collocata nello stesso Comune.
Le tipologie.
Per comprendere appieno la novità
legislativa, occorre preventivamente
compiere un excursus sulle possibili
tipologie di parcheggio con le quali si può
avere a che fare. Il catalogo può essere
così riassunto:
- parcheggi della "legge ponte": sono gli
spazi destinati a parcheggio di cui debbono
essere obbligatoriamente dotate le
costruzioni realizzate dopo l'entrata in
vigore della legge 06.08.1967, n. 765 (la
cosiddetta legge ponte, perché fece da
"ponte" tra la legge urbanistica
fondamentale, e cioè la legge 1150/1942, e
la cosiddetta legge Bucalossi, vale a dire
la legge 10/1977). La legge 765/1967
introdusse l'articolo 41-sexies della legge
1150/1942, secondo il quale, considerando la
sua attuale versione, «nelle nuove
costruzioni e anche nelle aree di pertinenza
delle costruzioni stesse, debbono essere
riservati appositi spazi per parcheggi in
misura non inferiore a un metro quadrato per
ogni dieci metri cubi di costruzione»;
- parcheggi della legge Tognoli su area
privata: sono disciplinati dall'articolo 9,
comma 1, legge 24.03.1989, n. 122 (nota
come legge Tognoli, dal cognome del suo
fautore), secondo il quale negli edifici –sia di proprietà individuale che di
proprietà condominiale– si possono
realizzare parcheggi, da destinare a
pertinenza delle singole unità immobiliari,
nel sottosuolo del fabbricato, nei locali
siti al piano terreno del fabbricato nonché
nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne
al fabbricato;
- parcheggi della legge Tognoli su area
pubblica: sono i parcheggi disciplinati
dall'articolo 9, comma 4, legge 122/1989,
secondo il quale i Comuni possono prevedere,
nell'ambito del programma urbano dei
parcheggi (Pup), la realizzazione di posti
auto, su aree comunali o nel sottosuolo
delle stesse, da destinare a pertinenza di
immobili privati, concedendo il diritto di
superficie dell'area pubblica ai privati
interessati, a imprese, società o
cooperative di costruzione (tutti soggetti
che, una volta realizzati i box, li cedono a
coloro che possono destinarli a pertinenza
di proprie unità immobiliari);
- parcheggi diversi da quelli sopra
elencati.
La «circolazione».
È indispensabile tenere distinte le prime
tre categorie dalla quarta, in quanto i
parcheggi di quest'ultimo tipo non soffrono
vincoli in ordine alla loro vendibilità,
mentre le prime tre categorie hanno pesanti
limitazioni.
I parcheggi della legge ponte, a fronte di
un tortuoso iter legislativo e
giurisprudenziale –culminato nella legge 28.11.2005, n. 246– sono di libera
trasferibilità, ma sono comunque gravati da
un vincolo urbanistico di destinazione a
parcheggio. Resta poi aperto il tema se
l'asservimento obbligatorio di questi spazi
al servizio dell'edificio di cui essi fanno
parte, qualora realizzatosi prima del 16.12.2005 (giorno di entrata in vigore
della legge 246/2005) dispieghi ancor oggi
il suo effetto (si veda l'articolo in basso
nella pagina).
La semplificazione.
È solo sui parcheggi della legge Tognoli che
incide dunque il Dl Semplificazioni del
2012, in vigore dal 10.02.scorso. In
precedenza, sia i parcheggi "Tognoli-privati"
sia i parcheggi "Tognoli-pubblici" erano
accomunati dalla previsione secondo la quale
«essi non possono essere ceduti
separatamente dall'unità immobiliare alla
quale sono legati da vincolo pertinenziale.
I relativi atti di cessione sono nulli»
(articolo 9, comma 5, legge 122/1989). Con
il Dl Semplificazioni si ha una
divaricazione:
- la proprietà dei parcheggi "Tognoli-privati"
«può essere trasferita, anche in deroga a
quanto previsto nel titolo edilizio che ha
legittimato la costruzione e nei successivi
atti convenzionali» a condizione che vi sia
una «contestuale destinazione del parcheggio
trasferito a pertinenza di altra unità
immobiliare sita nello stesso comune»;
- il regime dei parcheggi "Tognoli-pubblici"
rimane invece invariato: essi non sono
trasferibili se non insieme alla unità
immobiliare a cui sono destinati quali
pertinenze. Se dunque il parcheggio fosse
venduto senza l'appartamento o se
l'appartamento fosse trasferito con
esclusione del parcheggio, il contratto di
compravendita sarebbe nullo (articolo Il Sole 24 Ore del
20.02.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Contratti.
Limitazioni su più livelli al lavoro
flessibile.
Le limitazioni al lavoro flessibile sono la
spina nel fianco della gestione del
personale degli enti locali per il 2012. La
legge di stabilità ha incluso Comuni e
Province tra le amministrazioni che possono
avvalersi di contratti a tempo determinato,
con convenzioni e contratti "co.co.co." nel
limite del 50% della spesa sostenuta nel
2009.
L'articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010
ha altresì previsto che la stessa
percentuale si applichi anche ai contratti
di formazione e lavoro, di somministrazione,
ai tirocini formativi e al lavoro
accessorio. Così il legislatore ha spazzato
via i dubbi sollevati con la delibera
46/2011 dalla Corte dei conti (Sezioni
riunite).
La questione principale risiede piuttosto
nel fatto che negli enti locali esistono
forme lavorative che non sempre si riescono
a incasellare tra i contratti di lavoro
previsti all'articolo 36 del Dlgs 165/2001.
Gli operatori, quindi, hanno sottoposto
alcune questioni alle Sezioni regionali
della Corte dei conti, consentendo di farsi
un'idea più precisa, anche se i pareri
discordanti non mancano.
Il Dlgs 267/2000 prevede due tipologie
lavorative tipiche per le amministrazioni
locali. L'articolo 90 disciplina le
assunzioni a tempo determinato in staff
degli organi politici, ma senza prevedere
limitazioni. Non a caso i magistrati
contabili della Campania e delle Marche
hanno ritenuto che tali assunzioni rientrino
nel limite del 50% della spesa sostenuta nel
2009. La stessa sorte sembrano avere gli
incarichi a contratto sia in dotazione che
in extra-dotazione organica di cui
all'articolo 110. Per le due tipologie si
trovano vincoli ben precisi, ma per la Corte
dei conti della Toscana (deliberazione
6/2012) anche tali incarichi sono inclusi
nel campo di applicazione dell'articolo 9,
comma 28.
Vi è poi la possibilità di stipulare
contratti di lavoro a tempo determinato per
le assunzioni stagionali di forze di polizia
locale, finanziate con i proventi del Codice
della strada. Anche tali forme, che non
rientrano tra le spese di personale, vanno
tagliate del 50% della spesa del 2009? Ecco
due pareri contrastanti: la Corte dei conti
della Lombardia (deliberazione 21/2012)
precisa che gli enti dovranno programmare il
piano delle assunzioni con le forme di
lavoro flessibile anche con riferimento alle
assunzioni stagionali, mentre i magistrati
della Toscana (deliberazione 10/2012)
ritengono tali assunzioni escluse dal campo
di applicazione del l'articolo 9, comma 28.
Va pure chiarito che cosa il legislatore
intenda per «convenzioni». Potrebbero
infatti rientrare nel campo di applicazione
della norma l'utilizzo di personale di altre
amministrazioni ex articolo 14 del Ccnl
2004. Anche se non ci sono interpretazioni
specifiche sull'argomento, la Corte dei
conti della Campania (deliberazione
497/2011) ha fatto rientrare nel limite del
50% le situazioni di comando in entrata,
tipologia analoga alle convenzioni di cui
sopra.
Inoltre, a sorpresa, i giudici toscani hanno
escluso dal limite le prestazioni di cui al
comma 557 della finanziaria 2005, che
concede, ma solo a Comuni sotto i 5mila
abitanti e Unioni, di avvalersi di attività
lavorativa dei dipendenti di altre
amministrazioni. Due pareri in contrasto
anche sugli enti che non hanno sostenuto
spese per lavoro flessibile nel 2009 o nel
triennio 2007/2009. Per i giudici della
Lombardia (deliberazione 29/2012) sono
consentite le assunzioni determinate da
un'assoluta necessità di far fronte a un
servizio essenziale: la spesa sarà il
parametro finanziario per gli anni
successivi. La scelta non è condivisa dalla
Corte dei conti della Toscana (deliberazione
14/2009) (articolo Il Sole 24 Ore del
20.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Compensi. La Corte d'appello di Firenze
inverte il trend giurisprudenziale.
Segretari comunali, stop alla doppia
maggiorazione.
IL PUNTO/
Se non si riesce a provare che l'onere è più
«pesante», prevale la posizione di Aran,
Funzione pubblica e Ragioneria dello Stato.
Come ogni telenovela che si rispetti, la
querelle relativa al rapporto tra
maggiorazione della retribuzione di
posizione dei segretari comunali (il cui
scopo è quello di retribuire funzioni
aggiuntive rispetto a quelle base del
segretario) e la maggiorazione retributiva
dovuta al "riallineamento stipendiale" (vale
a dire il cosiddetto "galleggiamento", il
cui scopo è quello di assicurare al
segretario una retribuzione almeno pari a
quella del dirigente apicale) si arricchisce
di nuove puntate con relativi colpi di
scena.
Esattamente due anni fa (si veda in
proposito quanto scritto dal Sole 24 Ore del
15.02.2010) veniva riportata la
notizia che il Tribunale di Pistoia –contrariamente agli orientamenti espressi
dall'Aran, dalla Ragioneria generale dello
Stato e dalla Funzione pubblica– aveva
affermato per sentenza che i due istituti in
oggetto non si influenzavano fra di loro
(con la conseguenza che essi si sommavano e
non si riassorbivano).
Questa sentenza è poi stata seguita da una
giurisprudenza di merito conforme (Tribunali
della Spezia, di Rimini, dell'Aquila, di
Mantova), con la sola eccezione che era
costituita dal Tribunale di Milano.
Recentemente, la Corte d'appello di Firenze,
con sentenza 1160/2011, rigettando la
domanda avanzata in primo grado dall'ex
segretario generale della Provincia di
Pistoia, ha affermato che la percentuale
delle maggiorazioni, riconosciuta dall'ente
in caso di incarichi aggiuntivi, non può
essere applicata sulla retribuzione di
posizione già adeguata all'indennità
percepita dal dirigente maggiormente
retribuito dell'ente per effetto del
riallineamento stipendiale, qualora il
segretario non abbia fornito in giudizio la
prova sul fatto che l'incarico aggiuntivo
rappresenti e abbia rappresentato un onere
maggiore di quanto non lo sia in una diversa
realtà dove l'incarico aggiuntivo non sia
stato affidato.
In mancanza di tale prova, peraltro
piuttosto difficile da produrre, la regola
invocata dal lavoratore non può essere
applicata, non essendo stata fornita la
dimostrazione di un pregiudizio concreto
rapportato alla natura e all'impegno
dell'incarico aggiuntivo rispetto
all'incarico base.
Con una decisione che per certi aspetti si
può considerare a metà strada fra le
posizioni dell'Aran/Ragioneria generale
dello Stato e quelle delle organizzazioni
sindacali, il giudice di secondo grado ha
finito per spostare la questione: si passa,
cioè, da un piano strettamente
interpretativo –come era stato sempre
prospettato da entrambe le parti del
contenzioso fino a quel momento– a un piano
più concreto, che attiene in sostanza
all'aspetto probatorio.
Al di là del merito della questione, questo
ulteriore episodio ci ricorda, se ce ne
fosse bisogno, che ogni sentenza fa storia a
sé, e –oltre a ragionare sulle più corrette
interpretazioni delle norme (per le quali
probabilmente è opportuno conformarsi alle
indicazioni dell'Aran o della Ragioneria
generale dello Stato)– occorre che l'ente
abbia la sensibilità di gestire il rapporto
di lavoro in modo equo e corretto, nel
rispetto sia del lavoratore che degli
interessi della pubblica amministrazione (articolo Il Sole 24 Ore del
20.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oli usati, la gestione pesa
meno.
Entro agosto l'autorizzazione unica per pmi
a basso impatto. Il dl semplificazioni
alleggerisce movimentazione rifiuti da
attività agricola e rigenerazione.
Movimentazione tra fondi dei rifiuti da
attività agricola senza oneri burocratici,
attività di rigenerazione degli oli usati
autorizzabile in deroga ai parametri
chimici, autorizzazione ambientale unica per
le piccole e medie imprese. Sono sostanziose
le novità ambientali previste dal decreto
semplificazioni (il dl 09.02.2012, n.
5).
Rifiuti da attività agricole. Il dl 5/2012
(pubblicato sul S.o. alla G.U. del 09.02.2012 n. 33) prevede deroghe al
regime burocratico previsto dalla normativa
sui rifiuti in relazione al trasporto
effettuato nell'ambito dell'attività
agricola finalizzato al loro «deposito
temporaneo».
Fin dal 10.02.2012,
infatti, in base alla novella recata dal
nuovo decreto legge all'articolo 193 del dlgs 152/2006 (cd. «Codice Ambientale») non
sono più giuridicamente considerate
«trasporto di rifiuti» (con il conseguente
venir meno degli obblighi di tenuta del
formulario di trasporto e del tracciamento
telematico Sistri, ove previsto): la
movimentazione dei rifiuti effettuata da una
azienda agricola tra fondi appartenenti alla
medesima, anche percorrendo la via pubblica,
purché la distanza tra i fondi non sia
superiore a un chilometro e il trasferimento
sia finalizzato al deposito temporaneo; la
movimentazione dei rifiuti effettuata da un
imprenditore agricolo (come individuato
dall'articolo 2135 del codice civile) dai
propri fondi al sito che sia nella
disponibilità giuridica della cooperativa
agricola di cui è socio, purché (ancora)
tale movimentazione sia finalizzata al
raggiungimento del deposito temporaneo.
Oli usati. Sempre dal 10.02.2012, data
di entrata in vigore del nuovo dl 5/2012,
scatta l'alleggerimento della gestione degli
oli usati in deroga all'originario regime
disegnato dal dlgs 152/2006 e dal dm
392/1996. In base al dl semplificazioni,
infatti, le Autorità competenti potranno
autorizzare momentaneamente (per la
precisione, fino all'emanazione del nuovo dm
in materia che sostituirà il citato
regolamento del 1996) le operazioni di
rigenerazione degli oli usati anche in
deroga al rispetto dei parametri chimici
previsti dall'allegato A del dm 392/1996,
purché siano comunque rispettati i valori
massimi di Pcb/Pct (ossia di
policlorobifenili e policlorotrifenili,
inquinanti altamente tossici) dallo stesso
allegato indicati.
Autorizzazione unica ambientale. A partire
dalla prossima estate, invece, le piccole e
medie imprese potranno essere legittimate a
emettere inquinanti in base a una
«autorizzazione unica ambientale» che
sostituirà ogni atto di comunicazione,
notifica e autorizzazione prevista dalla
vigente legislazione ambientale. La
semplificazione burocratica prevista a monte
dal dl 5/2011 sarà resa operativa a valle
mediante un decreto del presidente della
repubblica che dovrà essere emanato entro il
10.08.2012 (ossia, sei mesi dall'entrata
in vigore del dl 5/2012).
L'articolazione
del procedimento amministrativo sotteso
all'autorizzazione dovrà essere
proporzionata alle dimensioni delle imprese,
all'oggetto della loro attività e agli
interessi pubblici da bilanciare. Potranno
accedere all'«autorizzazione unica», che non
dovrà comportare maggiori oneri per i
soggetti interessati, le Pmi non rientranti
nell'attuale disciplina dell'«autorizzazione
integrata ambientale», disciplina prevista
dal dlgs 152/2006 (ed espressamente fatta
salva dal dl in parola) che condivide con la
«new entry» la filosofia dell'«atto unico»
(raccogliendo in un singolo provvedimento la
legittimazione a emettere inquinanti e
gestire rifiuti) ma dalla quale differisce
per essere destinata ad attività industriali
ad elevato impatto ambientale (quelle citate
nell'allegato VIII alla parte seconda del
«Codice ambientale») e per la complessità
dell'iter amministrativo.
Scarico in mare di materiali di escavo. In
base al nuovo dl semplificazioni, infine, lo
scarico in mare di materiali di escavo di
fondali marini o salmastri o di terreni
litoranei emersi potrà essere consentito
dietro semplice autorizzazione della regione
(o, per gli interventi in aree ricadenti in
aree protette nazionali, del Minambiente).
Ciò in quanto, mediante la diretta
riformulazione del «Codice ambientale», il
dl 5/2012 ha eliminato quale condizione
indefettibile per l'immersione in mare del
materiale in parola la dimostrata
impossibilità (tecnica o economica) di
procedere a loro (diverso) utilizzo in
recuperi o smaltimenti alternativi, potrà
invece.
Saranno poi le regioni (salvo per i
nuovi manufatti oggetto di valutazione di
impatto ambientale) le autorità competenti
al rilascio dell'autorizzazione per
l'immersione in mare (ma al solo fine di
riutilizzo) di materiali altri materiali,
quali gli inerti, i materiali geologici
inorganici ed i manufatti, sempre che ne sia
dimostrata la compatibilità e l'innocuità
ambientale.
Altre semplificazioni ambientali. Gli
alleggerimenti recati dal nuovo dl 5/2012 si
affiancano alle semplificazioni in materia
ambientale parallelamente introdotte dal dpr
227/2011. Il provvedimento, pubblicato sulla
G.U. del 03/02/2012 n. 28 (si veda ItaliaOggi
Sette del 13/02/2012) prevede infatti a
partire dal 18.02.2012 un regime light
per le autorizzazioni relative allo scarico
delle acque ed alle emissioni sonore
prodotte da Pmi a basso impatto ambientale.
E ciò attraverso l'assimilazione alle acque
reflue «domestiche» degli scarichi prodotti
da dette piccole e medie imprese e la
possibilità di presentare in
autodichiarazione la «documentazione di
impatto acustico», obbligo (quest'ultimo)
dal quale lo stesso dpr 227/2011 esonera le pmi
a bassa rumorosità (articolo ItaliaOggi Sette del
20.02.2012). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI:
Identikit del
revisore legale.
Per la regione serve laurea e lunga
esperienza. Le caratteristiche
professionali messe nero su bianco dalla
Corte dei conti.
La Corte dei conti traccia l'identikit del
revisore legale presso le regioni. Questo
professionista dovrà essere in possesso di
un diploma di laurea in scienze economiche o
giuridiche, un'anzianità di almeno dieci
anni di iscrizione nel registro dei revisori
contabili o nell'Albo dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili.
Un'esperienza comprovata nel settore degli
enti territoriali avendo svolto, per almeno
cinque anni, un incarico di revisore dei
conti presso province o comuni di almeno 50
mila abitanti, oppure presso enti del
servizio sanitario nazionale, università
pubbliche o aziende di trasporto pubblico
locale, ovvero lo svolgimento di incarichi
(sempre almeno quinquennali) presso i
predetti enti con la qualifica di
responsabile dei servizi finanziari. A
questa esperienza deve essere affiancato il
possesso di almeno dieci crediti formativi
in materia di contabilità pubblica, ottenuti
attraverso percorsi di formazione e
aggiornamento qualificati.
A tracciare l'identikit la Sezione delle
Autonomie della Corte dei conti che l'ha
messo nero su bianco nella
deliberazione
15.02.2012 n. 3
diffusa ieri sul proprio sito internet
istituzionale, in ossequio alle disposizioni
contenute all'articolo 14, comma 1, lett. e),
della manovra-bis di Ferragosto 2011. Norma
che, introducendo novità in materia di
controlli interni sulle amministrazioni
regionali e comunali, ai fini di un più
efficace coordinamento della finanza
pubblica, prevede, in ambito regionale, la
nomina di un collegio dei revisori dei conti
«quale organo di vigilanza sulla regolarità
contabile, finanziaria ed economica della
gestione dell'ente», i cui nominativi devono
essere estratti a sorte da un apposito
elenco.
Gli iscritti in tale elenco devono
possedere i requisiti previsti dai principi
contabili internazionali, avere la qualifica
di revisori legali di cui al decreto
legislativo 27.01.2010, n. 39, ed
essere in possesso di specifica
qualificazione professionale in materia di
contabilità pubblica e gestione economica e
finanziaria anche degli enti territoriali,
secondo i criteri individuati dalla Corte
dei conti.
Per la Corte, svolgere la funzione di
revisore all'interno delle regioni, assume
una valenza di primo ordine nel panorama
delle professionalità che caratterizzano
l'attività dei revisori contabili. Sotto
questo profilo, pertanto, i criteri
delineati dalla Corte non possono non
prescindere da un'appropriata formazione ed
esperienza professionale, particolarmente
tecnicistica e specializzata in materia di
revisione dei conti, che costituisce il
primo presupposto per il corretto
svolgimento dei controlli e la credibilità
dei relativi risultati.
A questo si aggiunga
il possesso di un adeguato livello di
competenza professionale specifica anche
nelle materie della contabilità pubblica e
della gestione economico-finanziaria degli
enti pubblici territoriali. Requisito,
questo, essenziale per la correttezza, la
qualità ed il pregio dell'attività di
revisione degli Collegi, i quali, così
operando «favoriranno l'attività degli
amministratori regionali con forme di
supporto collaborativo». Vi è un ulteriore
profilo contenuto nella riforma, che deve
garantire il principio di terzietà del
revisore. Ecco perché la norma sottrae al
consiglio la possibilità di scelta del
collegio e lo demanda alla previa iscrizione
in un costituendo elenco.
Da ciò, appare
scontato che tra i requisiti per
l'iscrizione e l'eventuale successiva scelta
del revisore devono essere presenti i
requisiti di «onorabilità, professionalità
ed indipendenza») ex articolo 21 del dlgs
n.123/2011.
Riassumendo, occorrerà il possesso del
diploma di laurea in materie economiche,
aziendali o giuridiche e il superamento del
tirocinio triennale presso un revisore
abilitato (ivi incluso il superamento
dell'esame di idoneità professionale),
un'anzianità di almeno dieci anni di
iscrizione nel registro dei revisori
contabili, ovvero nell'Albo dei dottori
commercialisti ed esperti contabili,
(comunque cumulabili), una qualificata
esperienza gestionale nel settore degli enti
territoriali con lo svolgimento, per almeno
cinque anni, di incarichi di revisore dei
conti presso enti territoriali di dimensioni
medio-grandi o presso enti del servizio
sanitario, università pubbliche o aziende di
trasporto pubblico locale. In alternativa,
potrà considerarsi lo svolgimento di
incarichi di responsabile dei servizi
economici e finanziari
(articolo ItaliaOggi del 21.02.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L'ostacolo. Obbligo di concorso.
No all'ingresso in Comune degli assunti
dalle società.
La reinternalizzazione non salva i
dipendenti assunti direttamente dalla
società.
La costituzione di aziende in house da parte
degli enti locali ha comportato, nel corso
degli anni, l'instaurazione di numerosi
contratti di lavoro dipendente a tempo
indeterminato. Trattandosi di datori di
lavoro privati, le assunzioni non erano
soggette a formalità particolari, rimanendo,
quindi, fuori da qualsiasi vincolo e,
soprattutto, dal concorso pubblico. Qualora
si decidesse di riprendersi il servizio, si
pone il problema dei dipendenti della
società che dovrebbero transitare nella
dotazione del Comune.
Non si può negare che, secondo l'articolo 31
del Dlgs 165/2001, che richiama la normativa
civilistica (nello specifico, l'articolo
2112 del Codice civile), in caso di
trasferimento d'azienda è prevista una
specifica tutela per i dipendenti in
servizio.
La Corte dei conti a sezioni
riunite, interpellata sul tema, con la
delibera
03.02.2012 n. 4 ha ritenuto che il
vincolo costituzionale dell'accesso alle
dipendenze della pubblica amministrazione
non possa prescindere dal concorso pubblico
(articolo 97 della Costituzione). Nello
specifico, il tema risultava più complesso,
in quanto la società aveva posto in essere
una selezione, riservata, però, ai
lavoratori socialmente utili in applicazione
di una legge regionale specifica. Tutto
inutile, in quanto il concorso non era
aperto al pubblico, ma limitato a questi
lavoratori.
Varie sono le fattispecie che possono
interessare il personale dell'azienda
partecipata, oggetto di reinternalizzazione.
Un primo gruppo è rappresentato dagli ex
dipendenti dell'ente locale, che sono
transitati dal Comune alla società per
effetto del trasferimento dei servizi.
Questa tipologia di lavoratori ha comunque
sostenuto un concorso pubblico per accedere
ai ruoli dell'amministrazione comunale. Sono
i soggetti che rischiano meno, in quanto
l'ostacolo concorso sembra superato. La
seconda categoria è composta dai dipendenti
assunti direttamente dalla società
partecipata, senza alcuna procedura ad
evidenza pubblica. Questi non hanno nessun
appiglio a cui attaccarsi per salvare la
loro posizione.
Sono, quindi, i soggetti
maggiormente a rischio. Per loro non resta
che la risoluzione del rapporto di lavoro
per giustificato motivo oggettivo. Ma il
giudice del lavoro sarà dello stesso parere?
Infine, la categoria di mezzo: i dipendenti
che sono stati assunti direttamente dalle
aziende partecipate, avendo, però, superato
una selezione che rispetti i principi
dell'articolo 35 del Dlgs 165/2011. Quale
sarà il loro destino? Nel parere della Corte
dei conti non risulta chiaro e, di
conseguenza, è vivamente consigliato un
comportamento molto prudente: considerarli
dipendenti pubblici appare rischioso.
La conclusione può essere una sola: i
vincoli in materia di riduzione progressiva
della spesa di personale, i problemi sul
patto di stabilità, il vincolo sul rapporto
fra spesa di personale e spesa corrente, i
nuovi ingressi sottoposti al 20% e, non
ultima, la sorte dei dipendenti assunti
dalla società rendono praticamente
impossibile la reinternalizzazione.
---------------
Tre figure
01 | EX DIPENDENTI
Gli ex dipendenti dell'ente locale,
transitati dal Comune alla società
partecipata per effetto del trasferimento
dei servizi, che hanno comunque sostenuto un
concorso pubblico per accedere ai ruoli
dell'amministrazione comunale
02 | «SELEZIONATI»
I dipendenti che sono stati assunti
direttamente dalle aziende partecipate,
avendo, però, superato
una selezione che è stata nel rispetto dei
principi dell'articolo 35 del
Dlgs 165/2011
03 | NON «SELEZIONATI»
I dipendenti assunti direttamente dalla
società partecipata, senza alcuna procedura
ad evidenza pubblica (articolo Il Sole 24 Ore del
20.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Aziende. Interpretazione restrittiva da
parte dei magistrati contabili, che però
invocano l'intervento risolutivo del
legislatore sulla questione. Personale, tetto omnibus alle partecipate.
I giudici bocciano la deroga al vincolo
sulla spesa anche a fronte di un incremento
di efficienza
LA CONSEGUENZA/
Le norme sul contenimento degli oneri vanno
rispettate in ogni caso e questo sbarra la
porta alle ipotesi di reinternalizzazione.
Perfino la Corte dei conti, massimo organo
della magistratura contabile, ha ammesso che
la normativa in tema di società partecipate
dagli enti locali è talmente contorta da
invocare l'intervento del legislatore.
Dopo anni nei quali ci si è dedicati
all'esternalizzazione dei servizi ritenendo
che l'utilizzo degli strumenti propri
dell'imprenditore privato garantisse la
gestione dei servizi più efficiente,
efficace ed economica, oggi tutto sta
cambiando, tanto è vero che della questione
si sono dovute occupare le Sezioni riunite
di controllo (deliberazioni
02.02.2012 n. 3 e
03.02.2012 n. 4).
L'argomento è di quelli scottanti: si
possono derogare le norme che impongono la
riduzione della spesa di personale, se la reinternalizzazione garantisce, carte alla
mano, risultati ancora migliori di quelli
conseguiti dalla partecipata, in forza del
principio costituzionale del buon andamento
della Pa? È proprio su questa domanda che la
Corte, conscia degli effetti sulla finanza
pubblica, si barrica dietro una
interpretazione restrittiva.
Il paradosso: le norme in tema di
contenimento della spesa pubblica, seppur
limitate al personale, devono essere in ogni
caso rispettate, anche quando per fare
questo si devono sacrificare le famose tre
"e" (efficienza, efficacia ed economicità,
ovvero il buon andamento della Pa di cui
all'articolo 97 della Costituzione). Ma come
puntellare il tutto dal punto di vista
giuridico? Semplice: basta affermare che
esistono più concetti di efficienza. Da una
parte quello contenuto nella legge 241/1990
sul procedimento amministrativo e dall'altra
quello elaborato dalla dottrina
aziendalistica. Secondo la Corte, il primo
persegue l'obiettivo di delimitare l'eccesso
di potere, per cui, nelle scelte, non si
deve far riferimento alle sole spese di
personale, ma alla gestione e all'azione
amministrativa nel suo complesso. Proprio
con quest'ultima affermazione, si giunge al
paradosso che vede riportato il problema
nell'alveo della dottrina aziendalistica,
per la quale le tre "e" sono correlate alla
struttura complessiva dei costi e dei
ricavi, considerati a 360 gradi.
Nell'ambito delle incongruenze e criticità
del quadro normativo complessivo, la Corte
sembra aver perso anche quei pochi punti
fermi che aveva maturato nel corso del
tempo. Parlando della spesa di personale
dell'ente e delle società partecipate,
auspica il consolidamento, anche se tale
operazione dovrebbe essere limitata ai casi
in cui, a fronte della esternalizzazione,
l'amministrazione non ha proceduto alla
riduzione della pianta organica e del fondo
per le risorse decentrate. Non si comprende
come si possa rimettere l'operazione alla
buona volontà degli enti, usando sempre i
verbi al condizionale, quando innumerevoli
pareri della stessa Corte impongono tale
comportamento.
Ad ogni modo, perché limitarsi ai casi in
cui nessun taglio è stato fatto su dotazione
e risorse e nel limite della stessa
riduzione? O, meglio ancora, quali possono
essere questi casi, considerato che si
tratta di un vero e proprio obbligo di
legge? Ma la libertà di azione delle
amministrazioni sembra non essere limitata a
questo ambito. Anche nel caso in cui si
voglia procedere al consolidamento, i
magistrati contabili sostanzialmente
disconoscono la precedente deliberazione
14/2011 della sezione Autonomie, affermando
che, allo stato dell'arte, nessuno conosce
esattamente le modalità di calcolo della
spesa di personale di enti e società
partecipate, ma sicuramente vanno escluse le
partecipazioni indirette.
Eppure la soluzione del problema potrebbe
essere relativamente semplice. Da un lato è
la gara la cartina di tornasole delle tre
"e", e dall'altro, per evitare inefficienze,
è necessario consolidare le partecipate per
tutti i costi inerenti alle
esternalizzazioni, applicando i principi
elaborati dalla dottrina aziendalistica. In
ogni caso, per ora, non è importante la
migliore gestione dei servizi, ma è
fondamentale non aumentare la spesa di
personale (articolo Il Sole 24 Ore del
20.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: ...
Se nella fattispecie che prevede la
riduzione o esonero dal contributo di
costruzione “per gli impianti, le
attrezzature, le opere pubbliche o di
interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti”, vi rientra
anche l’intervento per la realizzazione di
una scuola di formazione professionale posto
in essere da una Fondazione di diritto
privato.
... Se nella fattispecie che prevede la
riduzione o esonero dal contributo di
costruzione “per le opere di urbanizzazione,
eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”, vi rientra anche
un’opera anche quando questa non è stata
prevista né negli strumenti di
programmazione finanziaria, né negli
strumenti urbanistici specificatamente quale
opera di "urbanizzazione secondaria”.
Il Sindaco del Comune di Calcio ha posto
alla Sezione un quesito concernente
l’interpretazione dell’art. 17 del D.P.R. n.
380/2001 (T.U. Edilizia) che sotto la
rubrica “riduzione o esonero dal
contributo di costruzione”, al comma 3,
lett. c), stabilisce che il contributo di
costruzione non è dovuto <<per gli
impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate
dagli enti istituzionalmente competenti
nonché per le opere di urbanizzazione,
eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici>>.
In particolare formula un duplice quesito.
Nel primo si chiede se nella fattispecie
che prevede la riduzione o esonero dal
contributo di costruzione “per gli
impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate
dagli enti istituzionalmente competenti”,
vi rientra anche l’intervento per la
realizzazione di una scuola di formazione
professionale posto in essere da una
Fondazione di diritto privato.
Con il secondo quesito si chiede se
nella fattispecie che prevede la riduzione o
esonero dal contributo di costruzione “per
le opere di urbanizzazione, eseguite anche
da privati, in attuazione di strumenti
urbanistici”, vi rientra anche un’opera
anche quando questa non è stata prevista né
negli strumenti di programmazione
finanziaria, né negli strumenti urbanistici
specificatamente quale opera di "urbanizzazione
secondaria”.
In via preliminare la Sezione precisa che la
decisione se applicare o meno l’esonero del
pagamento degli oneri di urbanizzazione e
del costo di costruzione, con riferimento
all’intervento edilizio indicato, attiene al
merito dell’azione amministrativa e rientra,
ovviamente, nella piena ed esclusiva
discrezionalità e responsabilità dell’ente
che potrà orientare la sua decisione in base
alle conclusioni contenute nel parere della
Sezione.
Per una maggior comprensione della questione
ermeneutica posta è opportuno ricordare che
la norma richiamata disciplina due
fattispecie di esonero dal contributo di
costruzione: 1) “gli impianti, le
attrezzature, le opere pubbliche o di
interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti”
(fattispecie a cui è riconducibile il primo
quesito); 2) “le opere di urbanizzazione,
eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici” (fattispecie a
cui è riconducibile il secondo quesito).
Principi a cui
l’amministrazione comunale si deve attenere
per la soluzione del 1° quesito.
Come ha già avuto modo di precisare questa
Sezione (Lombardia/783/2009/PAR del
09.10.2009; Lombardia/91/PAR/2011 del
21.02.2011), con riferimento alla prima
fattispecie, la norma prescrive la
sussistenza di due requisiti che devono
entrambi concorrere per fondare lo speciale
regime di esonero dal contributo di
costruzione, l’uno di carattere oggettivo e
l’altro di carattere soggettivo. Per effetto
del primo la costruzione deve riguardare “opere
pubbliche o d’interesse generale”; per
effetto del secondo le opere devono essere
eseguite da “un ente istituzionalmente
competente”.
In particolare, il primo requisito è
stato esplicitato nel senso che deve
trattarsi di opere che, quantunque non
destinate direttamente a scopi propri della
P.A., siano comunque idonee a soddisfare i
bisogni della collettività, di per se stesse
–poiché destinate ad uso pubblico o
collettivo– o in quanto strumentali rispetto
ad opere pubbliche o comunque perché
immediatamente collegate con le funzioni di
pubblico servizio espletate dall’ente (cfr.
in tal senso ex plurimis: C.d.S.,
sez. IV, 10.05.2005, n. 2226; C.d.S., sez.
V, 06.05.2003 n. 5315; C.d.S., sez. V,
25.06.2002, n. 6618).
Con riferimento all’altro requisito
(soggettivo), la giurisprudenza
amministrativa ha più volte chiarito che la
dizione deve riferirsi, oltre che agli enti
pubblici in senso proprio, anche ai soggetti
che agiscono per conto di enti pubblici,
ricomprendendo, pertanto, “i
concessionari di opere pubbliche o analoghe
figure organizzatorie, caratterizzate da un
vincolo tra il soggetto abilitato ad operare
nell’interesse pubblico ed il materiale
esecutore della costruzione, in modo tale
che l’attività edilizia sia compiuta da un
soggetto che curi istituzionalmente la
realizzazione di opere d’interesse generale
per il perseguimento delle specifiche
finalità cui le opere stesse sono destinate”
(in tal senso cfr. ex plurimis:
C.d.S. , sez. VI, 09.09.2008, n. 4296; sez.
V, 11.01.2006, n. 51; sez. IV, 10.05.2005,
n. 2226).
La ratio della norma contenuta
nell’art. 17 del D.P.R. n. 380/2001 è
duplice. Da un lato, è sicuramente quella
d’incentivare l’esecuzione di opere da cui
la collettività possa trarre utilità.
Dall’altro lato, è anche quella di
assicurare una ricaduta del beneficio dello
sgravio a vantaggio della collettività,
posto che l’esonero dal contributo si
traduce in un abbattimento dei costi, a cui
corrisponde, in definitiva, un minore
aggravio di oneri per il contribuente. In
altre parole, l'imposizione del contributo
di costruzione ai soggetti che agiscono
nell'istituzionale attuazione del pubblico
interesse sarebbe altrimenti intimamente
contraddittoria, poiché verrebbe a gravare,
sia pure indirettamente, sulla stessa
comunità che dovrebbe avvantaggiarsi del
pagamento di esso.
Pertanto, alla luce di tale ratio
della disposizione, la giurisprudenza
amministrativa ha generalmente accolto
un’interpretazione che ricomprende,
nell’ambito di applicabilità della norma,
oltre agli enti pubblici in senso proprio,
anche “quelle figure soggettive che non
agiscono per esclusivo scopo lucrativo
ovvero che accompagnano al lucro un
collegamento giuridicamente rilevante con
l'amministrazione, sì da rafforzare il
legame istituzionale con l'azione del
soggetto pubblico per la cura degli
interessi della collettività” (in tal
senso ex plurimis: C.d.S., sez. V,
20.10.2004, n. 6818; C.d.S., sez. IV,
12.07.2005, n. 3744).
Nel quesito posto dall’Amministrazione
comunale si precisa che la Fondazione Ikaros
ha chiesto al Comune di Calcio permesso di
costruire per la realizzazione di un nuovo
edificio scolastico; tuttavia, detta
Fondazione non realizza l’opera "per
conto" del Comune (la fondazione, in
realtà, godrà di un contributo regionale, ma
esso determinerà un vincolo di destinazione
dell’edificio limitato nel tempo a soli 10
anni).
Per contro, la Fondazione argomenta la
propria richiesta di esonero dal pagamento
del contributo di costruzione osservando che
in ordine al requisito soggettivo la
fondazione medesima <<beneficia per la
realizzazione delle opere dell'erogazione di
un contributo da parte della Regione
Lombardia che vincola l'edificio in
costruzione a sede del "polo formativo" per
10 anni>>, nonché è disponibile <<ad
inserire in una convenzione una previsione
che contempli, in caso di cambio di
destinazione d'uso dopo la scadenza
decennale del vincolo regionale o in caso di
modifiche statuarie dell'oggetto sociale, il
versamento dei contributi di costruzione al
Comune>>.
Quanto alla sussistenza del presupposto
oggettivo indicato dalla fattispecie
normativa in esame, non può disconoscersi
che l’opera di realizzazione di un nuovo
edifico scolastico sia collegata senz’altro
ad una finalità di interesse pubblico
generale.
Con riferimento al requisito soggettivo,
invece, appare opportuno richiamare le
considerazioni più articolate già formulate
da questa Sezione nei citati pareri
(Lombardia/783/2009/PAR del 09.10.2009;
Lombardia/91/PAR/2011 del 21.02.2011).
Si è detto sopra dell’orientamento della
giurisprudenza amministrativa che, da un
lato, ha interpretato estensivamente la
dizione “enti istituzionalmente
competenti”, ricomprendendovi, oltre
agli enti pubblici in senso proprio, anche
altre “figure organizzatorie” che “curino
istituzionalmente la realizzazione di opere
d’interesse generale per il perseguimento
delle specifiche finalità cui le opere
stesse sono destinate”; dall’altro lato,
ha ricondotto tale espressione
prevalentemente alla figura del
concessionario. Ciò in ragione della
considerazione che gli elementi che
connotano l’instaurazione e lo svolgimento
del rapporto di concessione sono in grado di
garantire di per sé quell’immediato legame
istituzionale con l’azione
dell’Amministrazione per la cura degli
interessi della collettività, che si ritiene
presupposto indefettibile per l’applicazione
dell’esonero contributivo.
In quest’ottica, è stata esclusa
l’applicabilità della norma in questione a
soggetti privati che esercitino un’attività
lucrativa di impresa indipendentemente dalla
rilevanza sociale dell’attività stessa (cfr.
C.d.S., sez. V, 21.01.1997, n. 69); nonché a
soggetti privati che, seppur non perseguenti
fini di lucro, realizzino opere destinate a
rimanere nella piena disponibilità del
privati esecutori in quanto non vincolate in
alcun modo al mantenimento della finalità
pubblica (cfr. C.d.S., sez. V, 11.01.2006,
n. 51).
Peraltro, questa Corte ritiene opportuno non
tralasciare la considerazione dell’attuale
sviluppo dell’ordinamento della Repubblica e
delle modalità di svolgimento dell’azione
amministrativa.
Infatti, da un lato, la riforma del Titolo V
della Costituzione, operata con la Legge
costituzionale 18.10.2001, n. 3, ha inserito
espressamente il principio di sussidiarietà,
cosiddetto “orizzontale”, nell’ambito
delle regole di organizzazione e di
esercizio delle funzioni pubbliche,
prevedendo all’art. 118, ultimo comma, che “Stato,
Regioni, Città metropolitane, Province e
Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli e associati, per lo
svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di
sussidiarietà”.
Dall’altro lato, anche a causa
dell'influenza del diritto comunitario, sono
sempre più frequenti le forme di
collaborazione tra soggetto pubblico e
soggetto privato, nonché i casi in cui al
soggetto privato sono affidati obiettivi di
interesse pubblico.
In sostanza si assiste al passaggio da una
configurazione della distribuzione del
potere pubblico essenzialmente in via
gerarchica ed in via autoritativa ad una
distribuzione per così dire “a rete”,
estesa anche ad altri soggetti
dell’ordinamento che non sono enti pubblici
in senso proprio, con la conseguenza che le
funzioni pubbliche non necessariamente
vengono esercitate mediante esplicazione di
poteri autoritativi, ben potendo svolgersi
attraverso forme e moduli procedimentali di
tipo privatistico.
In quest’ottica si rende opportuna, a parere
di questa Corte, un’interpretazione
evolutiva e teleologicamente orientata del
concetto di “ente istituzionalmente
competente” previsto all'art. 17 del
D.P.R. n. 380/2001 (anche al di là delle
figure dei concessionari).
Sulla scorta di queste affermazioni di
principio, dunque, spetta
all’amministrazione valutare in concreto
(ovvero, alla luce dello statuto della
fondazione, dell’attività da essa svolta e
della contribuzione che riceve dalla
Regione) se la fondazione Ikarus possa o
meno essere qualificato come “ente
istituzionalmente competente” previsto
all'art. 17 del D.P.R. n. 380/2001.
Principi a cui
l’amministrazione comunale si deve attenere
per la soluzione del 2° quesito.
Nell’istanza di parere l’amministrazione
comunale precisa che <<la Fondazione
aveva presentato al Comune, durante il
procedimento di approvazione del nuovo PGT,
apposita richiesta finalizzata
all'individuazione, per un' area di
proprietà, della destinazione urbanistica
"attrezzature per l'istruzione", con
l'intento di realizzare l'intervento di che
trattasi. Il Comune in sede di approvazione
ha accolto tale richiesta, sicuramente per
rispondere ad un interesse generale ma nei
propri strumenti di programmazione tra cui
il Programma delle Opere Pubbliche, la
relazione previsionale e programmatica, le
schede di cui al Piano dei Servizi del PGT
non ha previsto la realizzazione di tale
intervento, né in via diretta, né tramite
concessione, né tramite figura organizzativa
similare>>.
Anche con riferimento alla seconda
fattispecie prevista dall’art. 17, comma 3,
lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, questa
Sezione ha espresso le proprie
considerazioni nei citati pareri
Lombardia/783/2009/PAR del 09.10.2009 e, più
recentemente, Lombardia/91/PAR/2011 del
21.02.2011. In particolare, è stato
ricordato che secondo giurisprudenza
amministrativa consolidata questa seconda
fattispecie di esonero dal contributo di
costruzione ricorre quando l’opera non solo
è conforme agli strumenti urbanistici, bensì
è anche espressamente contemplata come tale
nello strumento urbanistico medesimo poiché
la norma, testualmente, utilizza
l’espressione "opere di urbanizzazione
eseguite in attuazione di strumenti
urbanistici" (in tal senso C.d.S., sez.
V, 10.05.1999, n. 536; C.d.S., sez. V,
21.01.1997, n. 69; C.d.S., sez. V,
01.06.1992, n. 489).
In altre parole, affinché possa trovare
applicazione la disposizione invocata non è
sufficiente la generica sussumibilità degli
interventi nell’ambito delle opere di
urbanizzazione; infatti, non tutte le opere
di urbanizzazione sono esenti dal contributo
concessorio, ma solo quelle eseguite “in
attuazione di strumenti urbanistici”. La
ratio della “gratuità” in
termini di contributi di costruzione è <<quella
di incentivare solo la dotazione di quelle
infrastrutture che danno ordinata e coerente
attuazione alle previsioni urbanistiche
espressamente previste dall’Autorità
comunale. Pertanto affinché possa
qualificarsi un intervento come “opera di
urbanizzazione eseguita in attuazione di
strumenti urbanistici” è necessario che,
oltre a potersi qualificare opera di
urbanizzazione, sia specificamente indicata
nello strumento urbanistico, corrispondendo
ad una precisa indicazione dello stesso>>
(TAR LOMBARDIA - Sez. Brescia- n. 163/2005).
Chiariti i principi di carattere generale a
cui l’interprete deve rifarsi in sede di
applicazione della seconda fattispecie
tipizzata dalla lettera c) dell’art. 17 del
D.P.R. n. 380/2001, spetta
all’amministrazione comunale compiere le
valutazioni del caso concreto (Corte dei
Conti. Sez. controllo Lombardia,
parere 18.01.2012 n. 5). |
PUBBLICO IMPIEGO: L'esercizio
non autorizzato di incarichi da parte del
dipendente pubblico non rientra nella
giurisdizione contabile.
... pur volendo considerare in modo autonomo
l’obbligo di refusione a carico del
lavoratore al servizio di una p.a. (anziché
obbligazione subordinata, com’è in effetti),
la giurisdizione contabile dovrebbe essere
esclusa, trattandosi di un obbligo che
scaturisce dall’esercizio di un’attività
lavorativa extraistituzionale, mentre i
presupposti per radicare la giurisdizione
della Corte dei conti si fondano sul
verificarsi di un danno erariale, cagionato
da un soggetto vincolato da un rapporto di
servizio, inteso anche in senso lato, con la
p.a., e sulla circostanza che il danno sia
stato determinato nell'esercizio delle
funzioni alle quali il dipendente è stato
preposto.
Ancora in via pregiudiziale, deve essere
esclusa la sussistenza della giurisdizione
della Corte dei conti sulla seconda posta di
danno contestata dalla Procura attrice,
riguardante la violazione dell’art. 53, co.
7, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, in
relazione all’illecito svolgimento, da parte
della Sig.ra ..., di due stabili rapporti
lavorativi non autorizzati
dall’amministrazione di appartenenza. Il
relativo danno è stato quantificato in
misura pari alle somme che la convenuta ha
ricevuto dai soggetti terzi, a remunerazione
del lavoro extraistituzionale (euro
57.000,00 +12.950,00 = euro 69.950,00).
L’art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165/2001,
stabilisce che <<I dipendenti pubblici non
possono svolgere incarichi retribuiti che
non siano stati conferiti o previamente
autorizzati dall'amministrazione di
appartenenza. Con riferimento ai professori
universitari a tempo pieno, gli statuti o i
regolamenti degli atenei disciplinano i
criteri e le procedure per il rilascio
dell'autorizzazione nei casi previsti dal
presente decreto. In caso di inosservanza
del divieto, salve le più gravi sanzioni e
ferma restando la responsabilità
disciplinare, il compenso dovuto per le
prestazioni eventualmente svolte deve essere
versato, a cura dell'erogante o, in difetto,
del percettore, nel conto dell'entrata del
bilancio dell'amministrazione di
appartenenza del dipendente per essere
destinato ad incremento del fondo di
produttività o di fondi equivalenti>>.
Dal testo letterale della norma (il compenso
<<deve essere versato, a cura dell'erogante
o, in difetto, del percettore>>) si evince
che dalla violazione dell’obbligo di
esclusività scaturisce un obbligo di
corresponsione di somme di denaro che è
posto, in primis, nei confronti del soggetto
erogante e, in via subordinata, a carico del
dipendente di una p.a.
Tale circostanza è significativa della
natura esclusivamente privatistica
dell’obbligazione di refusione, trattandosi
del soddisfacimento di un interesse
meramente lavoristico. Ciò vale a dire che
la violazione del dovere di esclusività dà
luogo ad un credito del datore di lavoro nei
confronti dei soggetti obbligati (ente
erogante e lavoratore), che non può in alcun
modo ricondursi all’esercizio di funzioni
pubblicistiche, come già ritenuto da questa
Corte in analoghe fattispecie (Sez.
Trentino-Alto Adige, Trento, 15.12.2010, n. 66; id.,
03.12.2009, n. 55).
Ma, pur volendo considerare in modo autonomo
l’obbligo di refusione a carico del
lavoratore al servizio di una p.a. (anziché
obbligazione subordinata, com’è in effetti),
la giurisdizione contabile dovrebbe essere
esclusa, trattandosi di un obbligo che
scaturisce dall’esercizio di un’attività
lavorativa extraistituzionale, mentre i
presupposti per radicare la giurisdizione
della Corte dei conti si fondano sul
verificarsi di un danno erariale, cagionato
da un soggetto vincolato da un rapporto di
servizio, inteso anche in senso lato, con la
p.a., e sulla circostanza che il danno sia
stato determinato nell'esercizio delle
funzioni alle quali il dipendente è stato
preposto.
In un caso analogo di generica trasgressione
di obblighi incombenti dal lavoratore
(controversia avente ad oggetto
l'accertamento dei canoni dovuti dal
pubblico dipendente per il godimento
dell'alloggio di servizio), le Sezioni Unite
della Corte di Cassazione hanno ravvisato un
inadempimento contrattuale, integrante la
violazione degli obblighi connessi al
rapporto di pubblico impiego, ma non anche
un’attività posta in essere dal dipendente
pubblico <<nell'esercizio delle sue
funzioni>>, affermando che <<la relativa
controversia non può che essere demandata al
solo giudice avente giurisdizione sul
rapporto di impiego, e, per l'effetto, al
giudice del lavoro>> (Cass., sez. un., 30.04.2008, n. 10870/ord.).
In senso
conforme, il giudice di legittimità ha
ritenuto che <<il regime delle
incompatibilità>> è materia <<sottratta alla
disciplina propria dell'attività
amministrativa, ed inclusa nell'ambito dei
comportamenti di gestione del rapporto di
lavoro>> (Cass., sez. lav., 26.03.2010,
n. 7343). Correlativamente, il giudice
amministrativo ha ritenuto la giurisdizione
del giudice ordinario, come giudice del
rapporto di lavoro, in una controversia
volta all'annullamento del diniego opposto
dalla p.a. di appartenenza alla richiesta di
svolgere un incarico extraistituzionale
formulata da un dipendente, ai sensi
dell'art. 63 d.lgs. n. 165/2001 (Cons. St.,
sez. IV, 07.06.2004, n. 3618).
L’esatta collocazione dell’istituto in esame
proviene dalla Corte Costituzionale
(sentenza 11.06.2001, n. 189), secondo
cui l’obbligo di esclusività è uno dei
canoni fondamentali del rapporto di impiego
pubblico, del quale costituisce indice
rivelatore, come la predeterminazione
dell’orario di lavoro e della retribuzione,
l'inserimento del prestatore di lavoro
nell'organizzazione amministrativa e la
subordinazione gerarchica (v. TAR Toscana,
11.09.2008, n. 1910; Cons. St., Sez.
V, 01.12.1999, n. 2022; id., 03.05.1995, n. 681).
Nella mera violazione dell’obbligo di
esclusività non è, quindi, ravvisabile il
nesso di occasionalità necessaria tra danno
alla amministrazione ed esercizio delle
funzioni nell’ambito del rapporto di
servizio, che è il generale presupposto
della responsabilità amministrativa e della
giurisdizione di questa Corte, ai sensi
degli artt. 82 e 83, R.D. 18.11.1923,
n. 2440 e degli artt. 13 e 52, R.D. 12.07.1934, n. 1214.
Ciò pur considerando l’ottica ulteriormente
espansiva della giurisprudenza di
legittimità in tema di responsabilità
amministrativa, secondo cui la giurisdizione
attribuita alla Corte dei conti <<presuppone
che il soggetto, legato all'amministrazione
da un rapporto di impiego (o di servizio),
debba rispondere del danno da lui causato
nell'esercizio di un'attività illecita
connessa con detto rapporto, tale dovendosi
considerare non solo quella costituente
svolgimento diretto della funzione propria
del rapporto d'impiego (o di servizio), ma
anche quella rivestente carattere
strumentale per l'esercizio della medesima
funzione, sempre che detta attività rinvenga
nel rapporto l'occasione necessaria del suo
manifestarsi>> (Cass., sez. un., 02.12.2008, n. 28540; id., sez. un., 25.11.2008, n. 28048; id. sez. un., 22.02.2002, n. 2628).
Questa giurisprudenza di legittimità si
trova citata in altra pronuncia della Corte
di cassazione (02.11.2011, n. 22688/ord.),
menzionata dal P.M. in udienza che, pur
facendo riferimento al predetto univoco
indirizzo che estende la competenza del
giudice contabile alla cognizione
dell’attività strumentale all'esercizio
della funzione pubblica <<sempre che detta
attività rinvenga nel rapporto l'occasione
necessaria del suo manifestarsi>>, ha
risolto in senso opposto il regolamento
preventivo di giurisdizione, senza spiegare
le ragioni per le quali, nelle conclusioni,
ha inteso discostarsi dall’indirizzo
precedentemente richiamato. In relazione a
ciò, il Collegio non condivide l’avviso
dell’Organo requirente circa la presenza di
un evidente revirement del giudice di
legittimità sulla questione di cui è causa.
In buona sostanza, il discrimine tra
giurisdizione della Corte dei conti, in
materia di danno erariale, e quella del
giudice del rapporto di lavoro, resta
confermato nel verificarsi di un
inadempimento riconducibile,
rispettivamente, all’esercizio di una
funzione pubblica (sia pure nel senso dell’occasionalità
necessaria), oppure alle obbligazioni
nascenti dal contratto di lavoro tra un
dipendente e l’amministrazione di
appartenenza.
In particolare, la giurisdizione del giudice
del lavoro si radica nei casi di alterazione
del sinallagma contrattuale (assenze
ingiustificate, per riscossione di
retribuzioni non dovute), allorché il
dipendente pubblico venga in rilievo come
semplice debitore, alla stregua di un
qualsiasi lavoratore privato inadempiente e,
in quanto tale, soggetto alle normali
sanzioni ed azioni civilistiche dell’ente di
appartenenza. Attualmente, la materia è
posta sotto la stretta sorveglianza del
datore di lavoro pubblico: il Dipartimento
della funzione pubblica presso la Presidenza
del Consiglio dei Ministri (Ispettorato per
la funzione pubblica) può disporre
verifiche, operando d'intesa con i Servizi
ispettivi di finanza pubblica del
Dipartimento della Ragioneria generale dello
Stato (art. 53, co. 16-bis, d.lgs. n.
165/2001, comma aggiunto dall’art. 47, d.l.
25.06.2008, n. 112, e poi così
sostituito dall’art. 52, co. 1, lett. b),
d.lgs. 27.10.2009, n. 150).
Si aggiunge che, in precedenza, l’art. 6,
d.l. 28.03.1997, n. 79, convertito dalla
l. 28.05.1997, n. 140, prevedeva
sanzioni pecuniarie a carico <<dei soggetti
pubblici e privati che non abbiano
ottemperato>> agli obblighi previsti dalla
disciplina del lavoro a tempo parziale e
<<che si avvalgano di prestazioni di lavoro
autonomo o subordinato rese dai dipendenti
pubblici in violazione dell'articolo 1,
commi 56, 58, 60 e 61, della legge 23.12.1996, n. 662, ovvero senza
autorizzazione dell'amministrazione di
appartenenza>>. Ciò a ulteriore riprova
dell’estraneità della materia alla
responsabilità amministrativo-contabile del
dipendente pubblico, fatto salvo un
eventuale danno erariale <<da mancata
entrata>> per la cui configurabilità, ad
avviso della Sez. Puglia, 30.10.2008,
n. 821, <<non sarebbe, comunque, sufficiente
che il dipendente percettore abbia omesso di
riversare in favore dell’Amministrazione di
appartenenza il compenso percepito, ma
occorrerebbe, altresì, che il diritto di
quest’ultima ad esigerne il riversamento si
sia estinto in modo non satisfattivo ovvero
ne sia divenuto impossibile l’esercizio, per
insolvibilità del debitore o altrimenti>>.
Il Pubblico Ministero, dopo aver affermato,
nell’atto di citazione, che la violazione
dell’obbligo di esclusività è da ritenersi
illecita e, quindi, foriera di danno
erariale, ha specificato, in udienza, che vi
è danno per la semplice ragione che tutte le
energie lavorative devono essere spese per
il datore di lavoro in favore del quale
l’obbligo è posto. Al riguardo, l’Organo
requirente ha citato la sentenza della
Sezione Emilia-Romagna (25.10.2007, n.
818), che muovendo dalle stesse premesse, è
pervenuta ad una decisione di condanna, nei
confronti del Direttore generale dell’INAIL,
per aver consentito lo svolgimento, da parte
dei medici dipendenti dell’Istituto, di
attività libero-professionale extra-muraria
in costanza di rapporto a tempo pieno, senza
che gli stessi avessero optato per il
rapporto a tempo definito, economicamente
meno favorevole.
Il Collegio ritiene che la richiamata
pronuncia sia coerente con le precedenti
osservazioni, in relazione alla evidente
diversità del caso di specie rispetto a
quello deciso dal giudice bolognese che,
correttamente, ha qualificato come danno
erariale l’avvenuta corresponsione, da parte
dell’Istituto, di un maggior trattamento
economico (corrispondente a una prestazione
a tempo pieno anziché part-time), a nulla
rilevando i compensi percepiti dai
dipendenti pubblici nell’ambito
dell’attività extra-muraria, che sarebbero,
invece, assimilabili a quelli oggetto di
contestazione in questa sede.
Per tutte le suesposte considerazioni, il
Collegio esclude la provvista di
giurisdizione della Corte dei conti
sull’obbligo di refusione, da parte della
convenuta, delle somme ricevute dai soggetti
terzi per il lavoro extraistituzionale,
quantificate in euro 69.950,00.
Nel merito, sussistono tutti gli elementi
costitutivi della responsabilità
amministrativa (il rapporto di servizio, la
colpa grave, il danno erariale) in relazione
alle altre voci di danno: 1) il danno
diretto per violazione del c.d. vincolo
sinallagmatico tra salario e prestazione
lavorativa; 2) il danno all’immagine e al
prestigio dell’ente di appartenenza causato
dal comportamento delittuoso della
dipendente.
Con riguardo al primo profilo di danno,
la Procura assume che il comportamento della
Sig.ra ..., come ricostruito nel corso
dell’indagine penale, è stato caratterizzato
dalla costante distrazione di energie
lavorative da destinare alle incombenze
d’ufficio in favore della realizzazione di
fattispecie penalmente rilevanti ai danni
della medesima amministrazione, per cui una
porzione del trattamento salariale è
risultata indebitamente corrisposta.
In relazione alla commissione di tali
illeciti (tra cui la sistematica e ripetuta
intromissione illecita nel sistema RE.GE.,
la rivelazione di segreti d’ufficio, il
favoreggiamento personale e la corruzione
propria), la Sig.ra ... chiedeva di essere
ammessa al c.d. patteggiamento e il
Tribunale di Milano, Sezione Giudice per le
indagini preliminari, applicava nei suoi
confronti la pena di anni 1 e mesi 7 di
reclusione (sentenza n. 1582/2009).
In merito all’efficacia, nel giudizio di
responsabilità amministrativo- contabile,
della sentenza di patteggiamento, si
rammenta che essa, ai sensi dell’art. 444
c.p.p., viene pronunciata <<sulla base degli
atti>> se <<non deve essere pronunciata
sentenza di proscioglimento a norma
dell’articolo 129>>. In materia, esiste una
giurisprudenza consolidata della Corte dei
conti, secondo cui l’inesistenza -a fronte
della sostanziale identità tra il fatto di
reato e quello dannoso- di un giudicato
penale di condanna, non preclude al giudice
contabile di trarre elementi di
convincimento dalle risultanze emergenti dal
fascicolo penale, da apprezzare unitamente
ad altri concordanti fattori indizianti
(cfr., ex multis, sez. Lombardia, 22.05.2009, n. 384; id., 15.05.2009, n. 353;
sez. Abruzzo, 12.11.2003, n. 601; sez. II, 09.10.2003, n. 285/A; sez. I,
06.06.2003, n. 187/A; sez. III, 16.10.2001, n. 274/A; sez. I,
03.05.2001, n.
106/A; sez. I, 14.03.2001, n. 55/A; sez.
Lombardia, 15.12.1999, n. 1551; sez.
Emilia Romagna, 10.11.1997, n. 555;
SS.RR. 02.10.1997, n. 68/A; sez. I, 21.12.1995, n. 34).
Tale orientamento è stato avallato dal
giudice di legittimità (Cass., sez. lav., 21.03.2003, n. 4193), secondo cui la
condanna a pena patteggiata <<costituisce
indiscutibile elemento di prova per il
giudice di merito il quale, ove intenda
disconoscere tale efficacia probatoria, ha
il dovere di spiegare le ragioni per cui
l'imputato avrebbe ammesso una sua
insussistente responsabilità, ed il giudice
penale avrebbe prestato fede a tale
ammissione>>. In tal senso, il giudice
contabile fa applicazione del principio del
libero convincimento, conservando la facoltà
di decidere in modo difforme da quanto
statuito con sentenza di patteggiamento, in
quanto la stessa <<assume particolare valore
probatorio vincibile solo attraverso
specifiche prove contrarie>> (C. conti, sez.
I, 06.06.2003, n. 187/A, cit.).
Ciò conferma la solidità dell’accertamento
contenuto nella sentenza emessa ex art. 444
c.p.p. che può ben costituire un importante
strumento probatorio utilizzabile nei
giudizi civili o amministrativi di danno,
ancorché di efficacia non vincolante (cfr.
sez. Lombardia, 12.02.2007, n. 106;
id., 29.09.2005, n. 571).
Nella specie, il Collegio non ha motivo di
porre in discussione i fatti oggetto della
sentenza penale di patteggiamento, tanto più
considerando le ampie ammissioni della
convenuta nella fase istruttoria del
processo penale e, quindi, ritiene provati i
riferiti episodi di accesso abusivo ai
sistemi informativi, di corruzione propria,
di rivelazione di segreti d’ufficio, di
favoreggiamento personale e di falso
ideologico. Parimenti, deve essere ritenuta
la sussistenza del requisito soggettivo del
dolo, trattandosi di fatti di reato
caratterizzati dall’intenzionalità di ledere
il bene giuridico protetto.
Il danno è stato quantificato dalla Procura
in via equitativa (art. 1226 c.c.) in una
somma pari al 20 % del salario percepito nel
corso dell’anno 2008 (periodo, individuato
in sede penale, nel quale sono stati
commessi gli illeciti), per un ammontare
pari ad euro 3.735,60 (18.678 x 20%).
Il Collegio considera fondata detta posta
risarcitoria ritenendo che, in presenza
della commissione di numerosi illeciti
correlati alle funzioni pubbliche ricoperte,
una parte dello stipendio percepito dalla
convenuta si ponga al di fuori della <<causa obbligandi>> per la quale è stato erogato,
con conseguente danno all’amministrazione
della giustizia.
È così ravvisabile la violazione dei canoni
della <<lealtà>> e della <<salvaguardia>>
insiti nel principio di buona fede che
presiede all’esecuzione dei rapporti
contrattuali, tra cui quello di lavoro, ex
art. 1375 c.c., nonché la lesione
dell’obbligo di diligenza statuito dall’art.
1176 c.c.
Ma, soprattutto, si è verificato un parziale
inadempimento dell’obbligazione lavorativa,
poiché la convenuta, durante l’orario di
servizio, risulta aver indirizzato le
proprie energie a favore di terzi, con
evidenti profili negativi sulla funzionalità
del servizio. Ciò integra la fattispecie del
danno da disservizio, nella quale deve
ritenersi assorbita la voce di danno
contestata dalla Procura (cfr. sez.
Lombardia, 01.08.2003, n. 990). Va,
infatti, considerata la particolarità del
rapporto di lavoro svolto dalla convenuta
(dipendente pubblico inquadrata presso la
Procura della Repubblica di Milano in
qualità di operatore giudiziario ed
assegnata all’Ufficio arrestati), la quale,
mediante le descritte azioni criminose, si è
posto in una posizione di estraneità
rispetto alla pubblica funzione, sicché
l’inosservanza dei doveri del pubblico
dipendente si è tradotta in una diminuzione
di efficienza dell’apparato pubblico, con
ricadute negative per l’utenza (cfr. sez.
Lombardia, 19.01.2011, n. 42; id., 23.02.2009, n. 74).
In merito alla quantificazione del nocumento
in esame, il Collegio accoglie parzialmente
la richiesta della Procura, in
considerazione della prestazione lavorativa
della Sig.ra ..., valutata positivamente
nel periodo contestato (anno 2008), con
attribuzione, a titolo di <<misurazione
della prestazione>>, del giudizio di <<più
che adeguata>>. Pertanto, ritiene di
commisurare il danno da disservizio nella
misura del 10 % della retribuzione di
riferimento, pari alla metà di quanto
richiesto in citazione (euro 1.867,80).
Con riferimento alla terza voce di
danno, essa consiste nel grave nocumento
arrecato al prestigio, all’immagine ed alla
personalità pubblica dell’amministrazione a
seguito dell’illecita condotta tenuta dalla
convenuta. Infatti, ogni azione dannosa
compiuta dal pubblico dipendente in
violazione dell’art. 97 Cost. (in dispregio
delle funzioni e delle responsabilità dei
funzionari pubblici) <<si traduce in
un’alterazione dell’identità della pubblica
amministrazione e, più ancora, nell’apparire
di una sua immagine negativa in quanto
struttura organizzata confusamente, gestita
in maniera inefficiente, non responsabile e
non responsabilizzata>> (C. conti, sez. riun.,
23.04.2003, n. 10/QM). Il torto subito
dalla p.a. è nella specie particolarmente
evidente, trattandosi di azioni illecite
commesse da un pubblico ufficiale operante
nel settore della giustizia.
Al riguardo, il Collegio richiama la
costante giurisprudenza, anche di questa
Sezione (ex multis, 28.10.2010, n.
626), che ha accolto una definizione di
danno all’immagine da iscrivere nella
categoria del danno non patrimoniale,
individuando la norma violata dalla
convenuta nell’art. 2059 c.c. anziché
nell’art. 2043 c.c.. Con particolare
riferimento all’assolvimento dell’onere
probatorio, ricorda la pronuncia di questa
Corte conti, sez. riun., 18.01.2011, n.
1/QM, secondo cui il danno all’immagine,
anche se qualificato come danno-conseguenza,
è sempre costituito dalla lesione
(all’immagine dell’ente) e mai si identifica
con le spese necessarie al suo ripristino
(come già affermato dalla citata sentenza n.
10/2003/QM).
In ogni caso, il Collegio condivide l’avviso
della Procura, secondo cui la riparazione
del danno all’immagine patito dalla persona
giuridica debba essere liquidato in via
equitativa ex art. 1226 c.c., assumendo
quali ragionevoli indicatori, volti a
prevenire giudizi arbitrari, la qualifica
della convenuta (operatore giudiziario
inquadrata presso la Procura della
Repubblica di Milano), la gravità oggettiva
del fatto (caratterizzato da una disinvolta
strumentalizzazione a fini privati di
attribuzioni e funzioni pubblicistiche), la
diffusività dell’episodio nella
collettività, per la negativa impressione
suscitata nell’opinione pubblica locale e
anche all’interno dell’ente di appartenenza,
oltre all’amplificazione del fatto da parte
dei mass-media, il c.d. clamor fori.
In relazione a tali parametri, il Collegio
considera insufficiente l’importo contestato
dalla Procura regionale (peraltro
commisurato a diversi criteri), ma accoglie
integralmente la richiesta di condanna, in
aderenza al principio di corrispondenza tra
chiesto e pronunciato di cui all’art. 112
c.p.c.
In conclusione, è accolta la richiesta di
condanna della convenuta al pagamento della
somma complessiva di euro 23.973,48, di cui
euro 1.867,80 a titolo di danno da
disservizio ed euro 22.105,68 per il danno
all’immagine
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia,
sentenza 27.01.2012 n. 31 - link a www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Indennità, cresce l'ansia negli
enti.
Anci: comuni in buona fede. Sbloccare il
decreto ministeriale. La decisione shock
della Corte conti rischia di aprire la
strada a una raffica di contenziosi.
Per gli enti locali i tagli ai costi della
politica non sono mai cessati. La riduzione
del 10% dei gettoni di presenza e delle
indennità di funzione di sindaci, presidenti
di provincia, assessori e consiglieri,
introdotta dalla Finanziaria 2006 (legge
266/2005), e che i comuni credevano
terminata il 31.12.2008, in realtà è
ancora in vigore e lo è sempre stata.
Così
hanno deciso le sezioni riunite della Corte
dei conti con la
delibera 12.01.2012 n. 1 (si veda ItaliaOggi del 17/01/2012)
gettando nel panico i sindaci.
La decisione
smentisce seccamente precedenti pronunce di
alcune sezioni regionali di controllo e
della sezione autonomie, secondo le quali,
invece, quel taglio avrebbe avuto effetto
limitatamente all'anno 2006 o tutt'al più si
sarebbe prodotto al massimo fino a fine
2008.
Le conseguenze di questa pronuncia
potrebbero essere molto pesanti per gli enti
che si trovano in una sorta di vicolo cieco:
chiedere indietro ai propri amministratori
il surplus di indennità e gettoni erogato in
eccesso in questi anni in tutta buona fede,
con il rischio di esporsi a una raffica di
contenziosi, oppure non far nulla, ma
rischiare l'imputazione per danno erariale.
L'Anci non ci sta e, pur rispettando, come
si conviene, la decisione dei massimi
giudici contabili,
affida a una nota tutta
la sua «preoccupazione» per
un'interpretazione «che era stata da tempo
superata anche dai suoi pochi sostenitori»
dopo le pronunce favorevoli agli enti locali
della sezione autonomie e delle sezioni di
controllo dell'Emilia Romagna e della
Lombardia. L'associazione guidata da
Graziano Delrio tiene a sottolineare la
trasparenza della condotta dei comuni che in
questi anni hanno operato «secondo la legge
e attenendosi alle interpretazioni ufficiali
espresse dagli organi della Corte conti»
fino all'ultima rivoluzionaria pronuncia.
E,
proprio per dimostrare di non volersi
sottrarre ai tagli, l'Anci chiede al governo
un intervento decisivo: l'approvazione,
attesa invano dal 2010, del decreto
ministeriale che, in attuazione del decreto
Tremonti (dl 78/2010), avrebbe dovuto
ridurre le indennità in misura proporzionale
alla fascia di popolazione. «Il testo è
ormai da troppo tempo in itinere», lamenta
l'Anci, «e potrebbe restituire certezza alla
materia». In effetti, la mancata emanazione
del dm è proprio il nodo cruciale, perché in
assenza del regolamento e nella convinzione
che la decurtazione stabilita dalla
Finanziaria 2006 fosse «a termine», i
sindaci dall'01.01.2009 in avanti hanno
ritenuto che i vecchi tagli non fossero più
in vigore e quelli nuovi non ancora
operativi. Ma ricapitoliamo i termini del
problema.
La tesi delle sezioni unite. Le sezioni
riunite dunque escludono che la norma
«incriminata» (articolo 1, comma 54, della
266/2005 ai sensi della quale «per esigenze
di coordinamento della finanza pubblica,
sono rideterminati in riduzione nella misura
del 10 per cento rispetto all'ammontare
risultante alla data del 30.09.2005»
gli emolumenti spettanti a sindaci,
presidenti di provincia, assessori e
consiglieri) fosse «a tempo determinato». Il
motivo è semplice: la disposizione, secondo
i giudici contabili non contiene un limite
all'arco temporale della sua efficacia,
mentre le esigenze di contenimento della
spesa pubblica e, in particolare, dei costi
della politica hanno natura continuativa e
non circoscritta nel tempo.
La stretta operata dalla legge n. 266/2005,
secondo le sezioni unite, va dunque
considerata «ancora vigente in quanto ha
prodotto un effetto incisivo sul calcolo
delle indennità che perdura ancora e non può
essere prospettata la possibilità di riespandere i valori delle indennità così
come erano prima della Finanziaria 2006».
La tesi dell'Anci. Nella nota l'Associazione
dei comuni ripercorre tutte le precedenti
decisioni che in questi anni hanno indotto i
sindaci a credere che il taglio del 10%
fosse solo temporaneo. Da quelle più estreme
come il parere della Corte conti Toscana
secondo cui il taglio avrebbe avuto effetto
solo per il 2006 (opinione, tiene a
sottolineare l'Anci, «non condivisa da molte
amministrazioni comunali che avevano
compreso e accettato con spirito solidale la
necessità di un sacrificio triennale») a
quelle più soft delle sezioni regionali di
Emilia Romagna e Lombardia secondo cui il
taglio sarebbe durato 3 anni a partire dal
2006 e dunque sarebbe cessato il 31.12.2008. Con la conseguenza che dopo tale data,
scrivevano i giudici lombardi, «occorre
ripristinare i compensi ai livelli anteriori
a quelli fissati dalla legge n. 266/2005».
A corroborare l'idea che i tagli fossero
cessati a partire dal 2009, secondo l'Anci,
c'ha poi pensato il legislatore che col dl
78/2010 ha istituito nuovamente la
decurtazione lasciando che fosse un
successivo decreto a calibrarla a seconda
della consistenza demografica dell'ente in
misura variabile dal 3 al 10%. Peccato però
che questo dm, elaborato già un anno fa e
approvato il 2 febbraio scorso dalla
Conferenza stato-città, si sia arenato per
una serie di eccezioni sollevate dal
Consiglio di stato.
---------------
Un pasticcio frutto di
12 anni di ritardi.
La mancanza della determinazione normativa
certa dell'ammontare di indennità di
funzione e gettoni di presenza spettanti
agli amministratori locali è la causa
principale dello scompiglio creato dalla
delibera 12.01.2012 n. 1 delle sezioni riunite
della Corte dei conti.
È da 12 anni, dal 2000, anno nel quale venne
emanato il primo ed ultimo sino ad oggi
decreto ministeriale di determinazione degli
importi di gettoni e indennità, che manca
una disciplina che stabilisca in modo certo
e sicuro gli ammontari degli emolumenti per
gli amministratori locali.
In questo lunghissimo lasso di tempo c'è
stato modo di creare una confusione estrema.
In un primo tempo, nonostante la legge
inizialmente lo consentisse, Viminale e
magistratura contabile si dissero contrari
al passaggio dai gettoni di presenza alle
indennità anche per i consiglieri.
E la norma venne abolita.
Poi, verso la metà degli anni 2000 si
cominciò a porre in maniera sistematica la
questione dei «costi della politica» e,
dunque, con l'articolo 1, comma 54, della
legge 266/2005 si ridussero i compensi per
gli amministratori del 10%.
Ancora, la normativa ha creato una
confusione estrema sulla questione della
cumulabilità di indennità nel caso in cui lo
stesso soggetto conducesse incarichi di
amministratore presso enti diversi. Adesso,
le sezioni riunite richiamano l'attenzione
sulla circostanza che il taglio del 10%
disposto nel 2005 non avesse un'operatività
limitata nel tempo, trattandosi, invece, di
norma «strutturale», ancora operante, sì da
indurre, adesso, le amministrazioni a
rivedere i conti delle spese per indennità e
gettoni sostenute dal 2007 in poi, allo
scopo di chiedere indietro quanto
indebitamente versato o compensare le spese.
Col rischio di un contenzioso infinito.
È, tuttavia, necessario rilevare che questo
stato di confusione e la possibile
sgradevole stura a vertenze sulle
conseguenze della decisione delle sezioni
riunite deriva dalla funzione
sostanzialmente suppletiva che,
indirettamente, è stata assegnata alla
magistratura contabile, a causa dell'inerzia
prolungata del ministero, che si è ben
guardato dall'aggiornare il decreto
ministeriale 119/2000, nonostante la legge
ne avesse imposto l'aggiornamento ogni tre
anni.
A rendere ancora più intricata la
situazione, si aggiunge anche
l'inottemperanza alle disposizioni
dell'articolo 5, comma 7, della legge
122/2010, ai sensi del quale il Viminale,
entro 120 giorni dall'entrata in vigore
della norma, avrebbe dovuto diminuire gli
importi di indennità e gettoni, per un
periodo non inferiore a tre anni, in
percentuali variabili a seconda delle
dimensioni i della tipologia degli enti.
L'assenza assoluta di una regolamentazione
certa, stabile ed aggiornata rende possibili
interventi interpretativi, come quelli della
magistratura contabile, in grado di cambiare
le carte e modificare anche letture delle
norme considerate consolidate.
L'unico modo per evitare imbarazzi alle
amministrazioni locali, chiamate adesso ad
attuare le indicazioni delle sezioni
riunite, e l'insorgere di un contenzioso
poco comprensibile in una fase come questa,
nella quale i «costi della politica»
sono ritenuti sempre meno sopportabili e
giustificabili, sarebbe fare presto ed
emanare il decreto ministeriale, grande
assente da oltre due lustri
(articolo ItaliaOggi dell'11.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Spesa di personale/spesa corrente.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Calabria, con
il
parere 18.11.2011 n. 525,
risponde a diversi quesiti volti a conoscere
come calcolare, per determinate fattispecie,
la spesa di personale rilevante ai fini del
conteggio del rapporto con la spesa
corrente, ai sensi dell'art. 76, comma 7,
della legge n. 133/2008.
Questi gli avvisi della Corte:
- "... la spesa relativa agli emolumenti in
favore di LSU/LPU, in quanto totalmente
finanziata dalla Regione Calabria e in
quanto riguardante lavoratori non dipendenti
dell'ente, può essere esclusa dal computo
delle spese di personale rilevante ai fini
dell'art. 76, c.7, della legge 133/2008
......è comunque necessario che la Regione
abbia almeno impegnato le somme
corrispondenti .... e che non sussista, al
momento del mancato computo, l'obbligo del
Comune di stabilizzare, anche in un momento
successivo, il personale LSU/LPU. .....Deve
essere computata (invece) da parte del
Comune: la spesa finanziata da ente esterno
al Comune (es. Regione) per LSU/LPU
stabilizzati dal Comune ....; l'eventuale
parte di spesa, a carico del bilancio
comunale, riferita a LSU/LPU non
stabilizzati o comunque non dipendenti del
Comune ma utilizzati dal Comune stesso nella
misura in cui tale spesa comporta un
aggravio per le finanze dell'ente ....";
- "non deve essere computata tra le spese
di personale di cui all'art. 76, c. 7, della
legge 133/2008, la spesa relativa al
Segretario comunale, nel caso di convenzione
di segreteria, per la parte rimborsata dagli
altri enti. .... La spesa per il Segretario
in convenzione dovrà pertanto essere
computata .... da ciascun Comune in base al
riparto della spesa prevista nella
convenzione di segreteria";
- "...la quota dei diritti di rogito
attribuita al Segretario comunale rogante
non deve essere computata tra le spese di
personale" (tratto da www.publika.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: La
recinzione di un'area realizzata con
installazioni permanenti e' subordinata al
rilascio del permesso di costruire.
Ai sensi dell’art. 10, 1° co. del T.U. n.
380/2001, l’intervento di recinzione d'un
fondo rustico, realizzato con istallazioni
permanenti costituisce senza dubbio un
intervento di trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio ed era subordinata a
permesso di costruire, in quanto rientrava
tra gli “interventi di nuova costruzione”
di cui all’art. 3, comma 1°, lett. e.7),
che, per l’appunto, ricomprende senza
distinzioni “… la realizzazione di
depositi di merci o di materiali, la
realizzazione di impianti per attività
produttive all'aperto ove comportino
l'esecuzione di lavori cui consegua la
trasformazione permanente del suolo in
edificato. …”.
La giurisprudenza ha concordemente affermato
che la recinzione d'un fondo rustico,
realizzata (come nel caso in esame) con
istallazioni permanenti, costituisce una
trasformazione permanente del territorio, a
prescindere dalla realizzazione di
volumetrie di qualunque natura; si tratta,
invero, di un intervento funzionale ad un
permanente utilizzo commerciale dell'area (e
non ad uno scopo contingente, temporaneo o
occasionale) che, in quanto tale,
contraddice ed impedisce definitivamente la
vocazione agricola impressa dallo strumento
urbanistico e implica un notevole incremento
nella zona del carico urbanistico (cfr.
Consiglio Stato, sez. V, 30.04.2009, n.
2768; Cons. Stato, sez. V, 31.12.2008, n.
6756; Consiglio Stato, sez. IV, 01.10.2007,
n. 5035; Cons. Stato, sez. IV, 22.12.2005,
n. 7343; Consiglio Stato, sez. V,
11.11.2004, n. 7324; Consiglio Stato, sez.
V, 15.06.2000, n. 3320; Cassazione Penale
III, 09/06/1982).
Del tutto erroneamente nel caso di specie la
società appellante ricollega la
qualificazione giuridica del suo intervento
all’asserita minimalità del profilo
strutturale. Ad avviso del Consiglio di
Stato a parte che le opere erano comunque
consistite nella realizzazione di un muretto
in calcestruzzo con l’apposizione di una
griglia zincata, con livellamento del
terreno e spargimento di inerti su di
un’area di notevole dimensione, tale aspetto
è comunque del tutto inconferente e
recessivo rispetto a quello funzionale
privilegiato dal legislatore.
Nel caso di recinzione di un’area, quello
che rileva giuridicamente non è solo la
modificazione della condizione materiale e
della conformazione naturale del suolo, ma
anche e soprattutto l’utilizzo permanente
dell'area in contrasto con la disciplina
urbanistica ed edilizia (cfr.: Cons. Stato,
sez. V, 31/01/2001, n. 343; Cons. Stato,
sez. V, 20/12/1999, n. 2125; Cons. Stato,
sez. V, 01/03/1993, n. 319; Cass. pen., sez.
III, 24/10/1997, n. 10709; Cass. pen., Sez.
VI, 24/07/1997, n. 8520) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2012 n. 976 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Decadenza
del permesso di costruire: solo l'insorgenza
di cause di forza maggiore possono fondare
l'istanza di proroga del termine di durata
del permesso di costruire.
In linea di principio, alla luce della
predetta disposizione è dunque esatto (cfr.
infra multa: Consiglio Stato, sez. IV,
10.08.2007, n. 4423; Consiglio Stato, sez.
IV, 18.06.2008, n. 3030) che la pronuncia di
decadenza del permesso di costruire:
1) è espressione di un potere strettamente
vincolato;
2) ha una natura ricognitiva, perché accerta
il venir meno degli effetti del titolo
edilizio in conseguenza dell'inerzia del
titolare ovvero della sopravvenienza di un
nuovo piano regolatore;
3) pertanto ha decorrenza ex tunc.
Il termine di durata del permesso edilizio,
infatti, non può mai intendersi
automaticamente sospeso, essendo, al
contrario, sempre necessaria, a tal fine, la
presentazione di una formale istanza di
proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa
amministrazione che ha rilasciato il titolo
ablativo, che accerti l’impossibilità del
rispetto del termine; e solamente nei casi
in cui possa ritenersi sopravvenuto un “factum
principis” ovvero l’insorgenza di una
causa di forza maggiore (cfr. Consiglio
Stato, sez. IV, 15.07.2008, n. 3527;
Consiglio Stato, sez. IV, 08.02.2008, n.
434) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2012 n. 974 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Le tabelle ministeriali relative
ai costi medi della manodopera non assumono
valore di parametro assoluto ed inderogabile
ma svolgono una funzione indicativa ben
suscettibile di scostamento in relazione a
valutazioni statistiche ed analisi aziendali
svolte dall'offerente che, evidenziando una
particolare organizzazione aziendale, può
giustificare la sostenibilità di costi
inferiori.
La giurisprudenza ha da tempo chiarito che le tabelle ministeriali
relative ai costi medi della manodopera non
assumono valore di parametro assoluto ed
inderogabile ma svolgono una funzione
indicativa ben suscettibile di scostamento
in relazione a valutazioni statistiche ed
analisi aziendali svolte dall'offerente che,
evidenziando una particolare organizzazione
aziendale, può giustificare la sostenibilità
di costi inferiori (TAR Lombardia, Milano,
Sez. I, 12.11.2010, n. 7246) (TAR Liguria Sez. II, 20.04.2011,
n. 645)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 23.02.2012 n. 600 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nel caso in cui la valutazione
sull’offerta sospetta di anomalia si traduca
in un giudizio di congruità, non è
necessario che il provvedimento finale sia
sorretto da una motivazione articolata che
descriva le singole giustificazioni
corredandole con apprezzamenti ulteriori,
essendo sufficiente anche una motivazione
espressa per relationem alle giustificazioni
presentate dall’impresa.
E’ stato altresì affermato che, nel caso in
cui la valutazione sull’offerta sospetta di
anomalia si traduca in un giudizio di
congruità, non è necessario che il
provvedimento finale sia sorretto da una
motivazione articolata che descriva le
singole giustificazioni corredandole con
apprezzamenti ulteriori, essendo sufficiente
anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni presentate
dall’impresa (TAR Liguria Sez. II, 20.04.2011,
n. 645)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 23.02.2012 n. 600 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nella
valutazione della componente tecnica
dell'offerta economicamente più vantaggiosa
da parte di una commissione di gara,
l'attribuzione dei punteggi in forma
soltanto numerica è consentita quando il
numero delle sottovoci, con i relativi
punteggi, entro i quali ripartire i
parametri di valutazione di cui alle singole
voci, sia sufficientemente analitico da
delimitare il giudizio della commissione
nell'ambito di un minimo e di un massimo,
rendendo così evidente l'iter logico seguito
nel valutare i singoli progetti sotto il
profilo tecnico, in applicazione di puntuali
criteri predeterminati, essendo altrimenti
necessaria una puntuale motivazione del
punteggio attribuito.
---------------
La prova della perdita della chance non è
ancorata alla dimostrazione di una
percentuale di probabilità di successo,
essendo sufficiente che il danneggiato
dimostri, anche in via presuntiva, ma pur
sempre sulla base di circostanze di fatto
certe e puntualmente allegate, che, qualora
la selezione fra i concorrenti si fosse
svolta in modo corretto, vi sarebbe stata
una ragionevole probabilità di successo e
provi, conseguentemente, la realizzazione in
concreto almeno di alcuni dei presupposti
per il raggiungimento del risultato sperato
ed impedito dalla condotta illecita della
quale il danno risarcibile deve essere
conseguenza immediata e diretta.
La giurisprudenza ha talvolta individuato
come indice della sussistenza di una
concreta chance di successo il fatto che il
ricorrente si sia classificato al secondo
posto conseguendo un punteggio assai
prossimo a quello attribuito all’impresa
aggiudicataria, oppure la circostanza che
alla gara abbiano partecipato un numero
ristretto di imprese (riconoscendo in tal
caso al concorrente leso una percentuale di
successo proporzionale al numero dei
concorrenti ammessi).
Tali metodi di prova della chance sono,
tuttavia, di recente stati censurati dalla
Corte di Cassazione la quale ha stabilito
che il giudice, a tal fine, non può
accontentarsi di un dato meramente
statistico che parifichi astrattamente le
posizioni di tutti i candidati, ma deve
apprezzare in concreto ogni elemento di
valutazione e di prova dei titoli da essi
posseduti al fine di verificare quali
fossero, in concreto, le probabilità che
ciascuno aveva di conseguire la vittoria.
Sul punto occorre ricordare che nella valutazione della componente
tecnica dell'offerta economicamente più
vantaggiosa da parte di una commissione di
gara, l'attribuzione dei punteggi in forma
soltanto numerica è consentita quando il
numero delle sottovoci, con i relativi
punteggi, entro i quali ripartire i
parametri di valutazione di cui alle singole
voci, sia sufficientemente analitico da
delimitare il giudizio della commissione
nell'ambito di un minimo e di un massimo,
rendendo così evidente l'iter logico seguito
nel valutare i singoli progetti sotto il
profilo tecnico, in applicazione di puntuali
criteri predeterminati, essendo altrimenti
necessaria una puntuale motivazione del
punteggio attribuito (cfr., tra le più
recenti, Cons. Stato, III, 11.03.2011, n.
1583; V, 03.12.2010 n. 8410 e 29.12.2009, n. 8833).
---------------
La prova
della perdita della chance non è, peraltro,
ancorata alla dimostrazione di una
percentuale di probabilità di successo,
essendo sufficiente che il danneggiato
dimostri, anche in via presuntiva, ma pur
sempre sulla base di circostanze di fatto
certe e puntualmente allegate, che, qualora
la selezione fra i concorrenti si fosse
svolta in modo corretto, vi sarebbe stata
una ragionevole probabilità di successo e
provi, conseguentemente, la realizzazione in
concreto almeno di alcuni dei presupposti
per il raggiungimento del risultato sperato
ed impedito dalla condotta illecita della
quale il danno risarcibile deve essere
conseguenza immediata e diretta (fra le
tante Cons. Stato Sez. VI, 03.11.2010.
n. 7744).
La giurisprudenza ha talvolta individuato
come indice della sussistenza di una
concreta chance di successo il fatto che il
ricorrente si sia classificato al secondo
posto conseguendo un punteggio assai
prossimo a quello attribuito all’impresa
aggiudicataria, oppure la circostanza che
alla gara abbiano partecipato un numero
ristretto di imprese (riconoscendo in tal
caso al concorrente leso una percentuale di
successo proporzionale al numero dei
concorrenti ammessi).
Tali metodi di prova della chance sono,
tuttavia, di recente stati censurati dalla
Corte di Cassazione la quale ha stabilito
che il giudice, a tal fine, non può
accontentarsi di un dato meramente
statistico che parifichi astrattamente le
posizioni di tutti i candidati, ma deve
apprezzare in concreto ogni elemento di
valutazione e di prova dei titoli da essi
posseduti al fine di verificare quali
fossero, in concreto, le probabilità che
ciascuno aveva di conseguire la vittoria
(Cassazione civile sez. lav. 03.03.2010 n.
5119; in termini analoghi Cons. Stato, VI,
7744/2010 cit.; in senso meno rigoroso si
veda, tuttavia, Cons. Stato Sez. VI,
16/09/2011 n. 5168)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 23.02.2012 n. 599 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Circa
la valutazione della anomalia effettuata dal
responsabile del procedimento anziché dalla
Commissione di gara nominata per la
valutazione delle offerte, la giurisprudenza
ha affermato che qualora il responsabile del
procedimento sia dotato di adeguate
competenze tecniche non è necessario
l’intervento della Commissione.
Infondata è anche la censura con cui l’Impresa lamenta che la valutazione
della anomalia sia stata effettuata dal
responsabile del procedimento anziché dalla
Commissione nominata per la valutazione
delle offerte.
Sul punto il Collegio deve osservare che
l’indirizzo giurisprudenziale invocato dalla
ricorrente non è univoco.
Si è affermato, infatti, che qualora il
responsabile del procedimento sia dotato di
adeguate competenze tecniche non è
necessario l’intervento della Commissione
(TAR Brescia, sez. II, 17.05.2011, n.
732; TAR Roma, sez. III, 21.01.2011
n. 643).
Nella fattispecie concreta, peraltro, non si
vede come una commissione composta da solo
personale medico (a parte il funzionario
dell’Ufficio approvvigionamenti) avrebbe
potuto effettuare le valutazioni di tipo
economico - aziendale necessarie per
stabilire la congruità dell’offerta
presentata dal Consorzio; mentre, al
contrario, il RUP (in qualità di
responsabile dell’Ufficio
approvvigionamenti) non solo rivestiva un
ruolo professionale appropriato al compito
svolto, ma ha altresì dimostrato di essere
in grado di effettuare con la dovuta perizia
l’esame di congruità dell’offerta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 23.02.2012 n. 594 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
ogni ipotesi di responsabilità della p.a.
per i danni causati per l'illegittimo
esercizio (o mancato esercizio)
dell'attività amministrativa, spetta al
ricorrente fornire in modo rigoroso la prova
dell'esistenza del danno, non potendosi
invocare il c.d. principio acquisitivo,
perché tale principio attiene allo
svolgimento dell'istruttoria e non
all'allegazione dei fatti. Se anche può
ammettersi il ricorso alle presunzioni
semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la
prova del danno subito e della sua entità, è
comunque ineludibile l'obbligo di allegare
circostanze di fatto precise.
Al riguardo, il Collegio non può che
rammentare l’orientamento costante della
giurisprudenza amministrativa secondo cui,
in ogni ipotesi di responsabilità della p.a.
per i danni causati per l'illegittimo
esercizio (o mancato esercizio)
dell'attività amministrativa, spetta al
ricorrente fornire in modo rigoroso la prova
dell'esistenza del danno, non potendosi
invocare il c.d. principio acquisitivo,
perché tale principio attiene allo
svolgimento dell'istruttoria e non
all'allegazione dei fatti. Se anche può
ammettersi il ricorso alle presunzioni
semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la
prova del danno subito e della sua entità, è
comunque ineludibile l'obbligo di allegare
circostanze di fatto precise (da ultimo,
cfr. Consiglio Stato, sez. V, 28.02.2011, n.
1271)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.02.2012 n. 592 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La totale demolizione -vieppiù se
intenzionale- dei
manufatti oggetto della domanda di condono,
prima della sua definizione mediante formale
rilascio del titolo edilizio in sanatoria,
comporta la improcedibilità della relativa
istanza, in quanto volta al “mantenimento” -per di più in virtù di una normativa
eccezionale- di un manufatto non più
esistente.
Né rileva la giurisprudenza che consente la
ristrutturazione di manufatti diruti, in
quanto essa presuppone comunque la loro
legittimità originaria.
--------------
Il rilascio della sanatoria è provvedimento
formale non sostituibile con atto di
comunicazione avente contenuto decisionale
diverso (nel caso di specie, di
comunicazione del parere favorevole agli
effetti paesaggistici).
La totale demolizione -vieppiù se
intenzionale (doc. 1 delle produzioni
28.11.2011 di parte comunale)- dei
manufatti oggetto della domanda di condono,
prima della sua definizione mediante formale
rilascio del titolo edilizio in sanatoria,
comporta la improcedibilità della relativa
istanza, in quanto volta al “mantenimento” -per di più in virtù di una normativa
eccezionale- di un manufatto non più
esistente.
Né rileva la giurisprudenza che consente la
ristrutturazione di manufatti diruti (cfr.
TAR Veneto, II, 25.10.1999, n. 1747,
citata a p. 10 del ricorso introduttivo), in
quanto essa presuppone comunque la loro
legittimità originaria.
Per il resto, è insegnamento ricevuto
(TAR Puglia-Lecce, I, 04.07.2008, n. 2052)
che il rilascio della sanatoria è
provvedimento formale non sostituibile con
atto di comunicazione avente contenuto
decisionale diverso (nel caso di specie, di
comunicazione del parere favorevole agli
effetti paesaggistici) (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza
23.02.2012 n. 324 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La pubblicità delle sedute di
gara risponde all'esigenza di tutela non
solo della parità di trattamento dei
concorrenti, ai quali deve essere permesso
di effettuare gli opportuni riscontri sulla
regolarità formale degli atti prodotti e di
avere così la garanzia che non siano
successivamente intervenute indebite
alterazioni, ma anche dell'interesse
pubblico alla trasparenza ed
all'imparzialità dell'azione amministrativa,
le cui conseguenze negative sono
difficilmente apprezzabili "ex post" una
volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in
mancanza di un riscontro immediato.
L'apertura in pubblico delle offerte
tecniche costituisce quindi corretta
interpretazione dei principi comunitari e di
diritto interno sopra ricordati in materia
di trasparenza e di pubblicità nelle gare
per i pubblici appalti e, come tale,
meritevole di essere confermata e ribadita
anche con specifico riferimento all'apertura
della busta contente l'offerta tecnica.
Tale
operazione, infatti, come l'analoga per la
documentazione amministrativa e per
l'offerta economica, costituisce passaggio
essenziale e determinante dell'esito della
procedura concorsuale, e quindi richiede di
essere presidiata dalle medesime garanzie, a
tutela degli interessi privati e pubblici
coinvolti dal procedimento.
---------------
Nel caso di aggiudicazione secondo il
criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, le offerte economiche devono
restare segrete per evitare che gli elementi
di valutazione aventi carattere automatico,
quali il prezzo, possano influenzare la
valutazione degli elementi discrezionali.
Conseguentemente, ove dovesse esistere
siffatta commistione, sarebbe violata la
regola della par condicio espressamente
sancita dall'art. 2 del codice dei contratti
pubblici.
Come è noto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è recentemente
espressa nel senso che “la pubblicità delle
sedute di gara risponde all'esigenza di
tutela non solo della parità di trattamento
dei concorrenti, ai quali deve essere
permesso di effettuare gli opportuni
riscontri sulla regolarità formale degli
atti prodotti e di avere così la garanzia
che non siano successivamente intervenute
indebite alterazioni, ma anche
dell'interesse pubblico alla trasparenza ed
all'imparzialità dell'azione amministrativa,
le cui conseguenze negative sono
difficilmente apprezzabili "ex post" una
volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in
mancanza di un riscontro immediato.
L'apertura in pubblico delle offerte
tecniche costituisce quindi corretta
interpretazione dei principi comunitari e di
diritto interno sopra ricordati in materia
di trasparenza e di pubblicità nelle gare
per i pubblici appalti e, come tale,
meritevole di essere confermata e ribadita
anche con specifico riferimento all'apertura
della busta contente l'offerta tecnica. Tale
operazione, infatti, come l'analoga per la
documentazione amministrativa e per
l'offerta economica, costituisce passaggio
essenziale e determinante dell'esito della
procedura concorsuale, e quindi richiede di
essere presidiata dalle medesime garanzie, a
tutela degli interessi privati e pubblici
coinvolti dal procedimento” (Cons. di St.,
Ad. Plen., 28.07.2011, n. 13).
--------------
Per
costante giurisprudenza, “nel caso
di aggiudicazione secondo il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
le offerte economiche devono restare segrete
per evitare che gli elementi di valutazione
aventi carattere automatico, quali il
prezzo, possano influenzare la valutazione
degli elementi discrezionali.
Conseguentemente, ove dovesse esistere
siffatta commistione, sarebbe violata la
regola della par condicio espressamente
sancita dall'art. 2 del codice dei contratti
pubblici" (Cons. Stato, III, 11.03.2011, n.
1582; id., VI, 12.12.2002, n. 6795)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza
23.02.2012 n. 322 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nelle
gare pubbliche devono essere evitati inutili
appesantimenti e deve essere garantito il
massimo grado di partecipazione dei
concorrenti nel rispetto della par condicio.
L'esclusione da una gara pubblica può essere
disposta ogniqualvolta il concorrente abbia
violato previsioni poste a tutela degli
interessi sostanziali dell'amministrazione o
a protezione della par condicio tra i
concorrenti. La carenza essenziale del
contenuto o delle modalità di presentazione
che giustifica l'esclusione deve riferirsi
all'offerta, incidendo oggettivamente sulle
componenti del suo contenuto ovvero sulle
produzioni documentali a suo corredo, in
rispondenza ad un interesse sostanziale
della stazione appaltante (Cons. Stato Sez.
V, 11.12.2007, n. 6410).
Come già affermato in precedenti da cui il
Collegio non intende discostarsi (Cons. St.
Sez. V, 28.02.2011, n. 245; 12.07.2004, n.
5049; Sez. VI, 08.03.2010, n. 1305), la
necessità di evitare inutili appesantimenti
nonché di garantire in massimo grado la
partecipazione dei concorrenti, nel rispetto
della par condicio, costituisce metodo
operativo ed interpretativo irrinunciabile,
sicché deve respingersi un’interpretazione
della clausola del bando impositiva, a pena
di esclusione, di una duplicazione di
documenti descrittivi attinenti ai medesimi
elementi (nella specie, due relazioni aventi
in comune informazioni sull’esecuzione del
progetto; una relazione e le schede tecniche
sui medesimi profili qualitativi) e
ritenersi legittimo l’operato della
Commissione che ha considerato esaustiva la
documentazione presentata, in quanto
completa di tutti gli elementi richiesti
dalla legge di gara, ed insussistenti i
presupposti per l’applicazione della
sanzione espulsiva (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 21.02.2012 n. 933 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Decide
il giudice ordinario sulle controversie per
la risoluzione del contratto ovvero
l’accertamento del diritto dell’appaltatore
a proseguire il rapporto con
l’amministrazione committente.
Le controversie aventi ad oggetto la
risoluzione del contratto ovvero
l’accertamento del diritto dell’appaltatore
a proseguire il rapporto con
l’amministrazione committente rientrano
nella giurisdizione del giudice ordinario,
cui spetta “di verificare la conformità
alla normativa positiva delle regole
attraverso cui i contraenti hanno
disciplinato i loro contrapposti interessi e
delle relative condotte attuative”
(Cons. St. VI, 17.03.2010, n. 1554).
Per giurisprudenza consolidata (Cass. SS.UU.
n. 21928/2008, n. 6068/2009), costituiscono
eccezione al principio generale della
devoluzione al g.o. delle controversie
correlate ad un rapporto contrattuale già
costituito solo le ipotesi di esercizio da
parte della p.a. appaltante di un potere
valutativo discrezionale dei requisiti del
contraente, di natura pubblicistica, quale,
ad esempio, quello conferito dall’art. 11
del d.P.R. n. 252 del 1998 allo scopo di
impedire il mantenimento di rapporti
contrattuali con imprese sospettate di
collegamenti con la criminalità organizzata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.02.2012 n. 932 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
Consiglio di Stato chiarisce il riparto di
giurisdizione tra il Tribunale Superiore
delle Acque e il giudice amministrativo in
materia di acque pubbliche.
Nel giudizio in esame un Comune presentava
domanda di concessione alla regione di una
piccola derivazione dal fiume, per uso
idroelettrico. La regione respingeva la
richiesta con provvedimento che veniva
impugnato dal Comune innanzi al giudice
amministrativo che dichiarava il proprio
difetto di giurisdizione. Avverso tale
decisione ha proposto appello il comune che
con la sentenza in esame e' stato rigettato
sul presupposto che gli atti che regolano la
materia delle “Acque pubbliche” non
vanno considerati in astratto, ma con
riferimento alla possibilità di influire,
comunque, sulla loro regolamentazione (C.S.
V n. 6942/2010).
Le Sezioni Unite hanno riaffermato che la
giurisdizione di legittimità in unico grado
attribuita al Tribunale superiore delle
acque pubbliche con riferimento ai "ricorsi
per incompetenza, per eccesso di potere e
per violazione di legge avverso i
provvedimenti definitivi presi
dall'amministrazione in materia di acque
pubbliche", sussiste quando i
provvedimenti amministrativi impugnati
incidano direttamente sul regime delle acque
pubbliche, nel senso che concorrano, in
concreto, a disciplinare la gestione e
l'esercizio delle opere idrauliche o a
determinare i modi di acquisto dei beni
necessari all'esercizio e alla realizzazione
delle opere stesse od a stabilire o
modificarne la localizzazione o a influire
nella loro realizzazione mediante
sospensione o revoca dei relativi
provvedimenti (cfr. Cass., Sez. Un., n.
27528/2008 e 10848/2009).
Ed inoltre, hanno osservato che "l'incidenza
diretta del provvedimento amministrativo sul
regime delle acque pubbliche, che radica la
giurisdizione di legittimità del Tribunale
superiore delle acque pubbliche, è
configurabile non solo quando l'atto
provenga da organo amministrativo preposto
alla cura di pubblici interessi in tale
materia e costituisca manifestazione dei
poteri attributi a tale organo per vigilare
o disporre in ordine agli usi delle acque,
ma anche quando l'atto, ancorché proveniente
da organi dell'amministrazione non preposti
alla cura degli interessi del settore,
finisca, tuttavia, con l'incidere
immediatamente sull'uso delle acque
pubbliche, in quanto interferisca con i
provvedimenti relativi a tale uso,
autorizzando, impedendo o modificando i
lavori relativi” (Cassazione civile,
sez. un., 26.07.2002, n. 11126).
Da quanto sopra consegue che ha incidenza
diretta sul regime delle acque il
provvedimento con il quale l'organismo
competente si pronuncia con proprio decreto
sull'assoggettamento di un progetto di opera
idrica (nella specie un progetto per il
quale si chiede una concessione di
derivazione) alla relativa procedura, in
quanto tale provvedimento postula l'esame
nel merito dell'opera o dell'intervento,
chiaramente incidente sulla consistenza
dell'opera e sulle modalità di gestione
della stessa, e ne può condizionare la
effettiva realizzazione o le modalità di
gestione.
Pertanto, ove l'oggetto del progetto
esaminato nella procedura di screening sia
un'opera idraulica, l'impugnazione del
decreto emesso dal Responsabile della
struttura competente, per la sua ricaduta
immediata sul regime delle acque pubbliche,
va ricondotta alla giurisdizione del
Tribunale delle acque pubbliche (cfr. C.S.
V n. 3678/2009) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.02.2012 n. 928 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
piano di lottizzazione fissa la volumetria
massima edificabile su ciascun lotto, ma ben
può essere realizzata in alcuni lotti
volumetria inferiore o nessuna volumetria.
Il piano di lottizzazione, in quanto
strumento attuativo del piano regolatore
contiene la disciplina di dettaglio del
piano regolatore, gli indici volumetrici
consentiti, la superficie del lotto minimo,
la destinazione dei fabbricati, il tracciato
delle strade e la individuazione delle aree
destinate a standards.
Il disegno di insieme si completa con la
indicazione dei lotti destinati
all’edificazione dei fabbricati e
dell’ingombro massimo consentito in ciascun
lotto. Quanto alla sagoma, alla dislocazione
dei fabbricati sui lotti, all’allineamento,
essa è in genere meramente indicativa, fermo
restando che nella edificazione vanno,
comunque, rispettate le distanze e gli altri
limiti stabiliti nelle norme tecniche di
attuazione che completano il piano di
lottizzazione. Infatti, il piano di
lottizzazione, sia esso di iniziativa
pubblica che privata, ha lo scopo di
asservire un’area non urbanizzata
all’edificazione consentendo la
realizzazione contestuale delle opere di
urbanizzazione e dei fabbricati per uso
privato.
Va da sé che il piano di lottizzazione fissa
la volumetria massima edificabile su ciascun
lotto, ma ben può essere realizzata
volumetria inferiore o nessuna volumetria,
sicché è ben possibile che alcuni lotti non
vengano affatto edificati (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 21.02.2012 n. 927 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
da escludersi nel procedimento di rilascio
di titoli edilizi che possano reputarsi controinteressati
aventi diritto alla comunicazione dell’art.
7 della legge 241/1990 i proprietari
frontisti o confinanti.
La giurisprudenza amministrativa esclude che, nel procedimento di rilascio
di titoli edilizi, possano reputarsi controinteressati aventi diritto alla
comunicazione dell’art. 7 della legge
241/1990, i proprietari frontisti o
confinanti (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 22.07.2010, n. 3253; TRGA Trentino
Alto-Adige, 14.10.2010, n. 194; TAR Liguria,
sez. I, 10.07.2009, n. 1736 e TAR Veneto, sez. II,
09.02.2007, n. 365)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.02.2012 n. 581 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
15 del DPR 380/2001 consente la proroga dei
termini di inizio e di ultimazione dei
lavori previsti nel permesso di costruire,
esclusivamente <<per fatti
sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso>>.
La norma, che ricalca quella dell’art. 4
della legge 10/1977 (oggi parzialmente
abrogato), è intesa dalla giurisprudenza nel
senso che è illegittimo il provvedimento
dell'Amministrazione comunale di
declaratoria di decadenza del permesso di
costruire (già concessione edilizia),
allorché sussistano impedimenti assoluti
all'esecuzione dei lavori segnalati o
comunque conosciuti all'Amministrazione e
l'impedimento non sia riferibile alla
condotta del concessionario, per cui è tale
da costituire quella causa di forza maggiore
che sospende il decorso dei termini di
inizio e di ultimazione dei lavori di cui al
titolo edilizio previsti dalla legge.
In primo luogo, occorre ricordare che l’art. 15 del DPR 380/2001 consente
la proroga dei termini di inizio e di
ultimazione dei lavori previsti nel permesso
di costruire, esclusivamente <<per fatti
sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso>>.
La norma, che ricalca quella dell’art. 4
della legge 10/1977 (oggi parzialmente
abrogato), è intesa dalla giurisprudenza nel
senso che è illegittimo il provvedimento
dell'Amministrazione comunale di
declaratoria di decadenza del permesso di
costruire (già concessione edilizia),
allorché sussistano impedimenti assoluti
all'esecuzione dei lavori segnalati o
comunque conosciuti all'Amministrazione e
l'impedimento non sia riferibile alla
condotta del concessionario, per cui è tale
da costituire quella causa di forza maggiore
che sospende il decorso dei termini di
inizio e di ultimazione dei lavori di cui al
titolo edilizio previsti dalla legge (cfr.
fra le tante, TAR Lazio, sez. II-quater,
07.06.2010, n. 15939, con la giurisprudenza
ivi richiamata).
Nel caso di specie, la richiesta di proroga
è stata giustificata dai ricorrenti
attraverso il richiamo sia alla situazione
di crisi del settore dell’edilizia, sia alla
controversia che oppone i ricorrenti stessi
al il Comune di Milano e relativa alla
determinazione del contributo concessorio
inerente al permesso di costruire di cui
alla presente causa (cfr. docc. 18 e 19 dei
ricorrenti per le istanze di proroga).
Orbene, reputa il Collegio che nessuna delle
due circostanze suindicate possa costituire
un “fatto sopravvenuto”, idoneo a
giustificare la proroga ai sensi dell’art.
15 del Testo Unico dell’edilizia.
La crisi del settore edile, collegata alla
difficile congiuntura economica italiana,
appare una circostanza estremamente
generica, non idonea di per sé ad impedire
in maniera assoluta la possibilità di
edificazione legata al permesso di costruire
ottenuto dagli esponenti.
D’altronde, se il mero richiamo alla
situazione economica generale –e a quella
del settore edile in particolare- potesse
costituire una oggettiva ragione per la
proroga dei termini dei titoli edilizi, si
potrebbe giungere alla paradossale
conclusione che in relazione a qualsivoglia
intervento potrebbero essere disposte
proroghe, nell’attesa di un -non ben
precisato ed identificato- momento di
ripresa economica generale.
In ordine all’altra ragione posta a
fondamento della domanda di proroga,
effettivamente è in corso un contenzioso fra
i ricorrenti ed il Comune di Milano, legato
all’esatta determinazione dei contributi
concessori relativi al permesso di costruire
di cui è causa, n. 137/2008.
Il ricorso promosso dagli esponenti per
l’esatta determinazione del contributo
suddetto è stato respinto dal TAR Lombardia,
sez. II, con sentenza n. 4455/2009, che ha
così confermato la correttezza della
quantificazione del contributo effettuata
dall’Amministrazione nel permesso di
costruire (cfr. doc. 20 dei ricorrenti per
il testo della sentenza).
Contro tale sentenza è stato proposto
appello al Consiglio di Stato, tuttora
pendente, senza domanda di sospensione
dell’efficacia della sentenza (cfr. il
documento dei ricorrenti, allegato ai motivi
aggiunti depositati il 17.06.2011), sicché
quest’ultima deve ritenersi produttiva dei
propri effetti giuridici.
Tuttavia, non si comprende perché
l’esistenza del contenzioso di cui è causa –attualmente in grado d’appello- possa
costituire una circostanza oggettivamente
ostativa alla realizzazione dell’intervento
edilizio, che può comunque essere
effettuato, in attesa della definitiva
determinazione del contributo concessorio.
Le ragioni per la proroga addotte degli
esponenti attengono –a ben vedere- a
valutazioni di opportunità e di convenienza
economica dell’intervento, ma non
costituiscono assoluti impedimenti ad
edificare.
Il provvedimento comunale impugnato coi
motivi aggiunti (cfr. doc. 4 del
resistente), dà atto di quanto sopra
esposto, con motivazione congrua ed
analitica, indubbiamente più ampia ed
esaustiva rispetto alla scarna motivazione
del primo diniego di proroga, gravato col
ricorso principale.
Neppure può ritenersi violata, da parte del
Comune, l’ordinanza cautelare della Sezione
n. 1250/2009, la quale aveva fatto salvo il
potere dell’Amministrazione di pronunciarsi
nuovamente –ancorché motivatamente–
sull’istanza di proroga
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.02.2012 n. 580 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
da escludere la necessità di un titolo
abilitativo per le recinzioni semplicemente
infisse al suolo e come tali facilmente
amovibili, essendo al contrario necessario
un titolo edilizio per le recinzioni
inserite in strutture in cemento o in
calcestruzzo collocate sul suolo.
Come risulta dal provvedimento impugnato e dal verbale del
05.12.2002, la recinzione è costituita da una
rete metallica, tesa tra paletti in acciaio
semplicemente infissi nel terreno e la
giurisprudenza amministrativa esclude la
necessità di un titolo abilitativo per le
recinzioni semplicemente infisse al suolo e
come tali facilmente amovibili, essendo al
contrario necessario un titolo edilizio per
le recinzioni inserite in strutture in
cemento o in calcestruzzo collocate sul
suolo (cfr., fra le tante, TAR Campania,
Napoli, sez. VII, 03.11.2010, n. 22291, con
la giurisprudenza ivi richiamata).
L’ordinanza impugnata deve quindi essere
annullata in parte qua, laddove ingiunge di
demolire la recinzione di cui è causa,
individuata nel verbale dei tecnici comunali
del 05.12.2002
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.02.2012 n. 577 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
dipendente pubblico per ottenere il
pagamento dell'indennità di buonuscita deve
fare causa all'Inpdap e non
all'Amministrazione di appartenenza.
Per consolidata giurisprudenza
l'Amministrazione di appartenenza non ha
legittimazione passiva nel ricorso proposto
da un pubblico dipendente nei confronti
dell'Inpdap per il pagamento dell'indennità
di buonuscita e i suoi accessori, non
rivestendo alcun ruolo con rilevanza esterna
nel relativo procedimento (Cons. Stato, Sez.
VI, 06.09.2010, n. 6465; v. anche Sez. VI,
31.01.2006, n. 329 e 21.06.2007, n. 3365
nonché TAR Veneto, Sez. III, 12.05.2008, n.
1290 e TAR Em-Rom, Sez. I, 31.05.2004, n.
932).
Ciò alla stregua del convincimento per cui
l’Inpadp, che, a norma dell’art. 4, d.lg. n.
479 del 1994, è succeduto all’Ente nazionale
di previdenza e assistenza dei dipendenti
statali (ENPAS) nella totalità dei relativi
rapporti giuridici, deve ritenersi l’unico
soggetto legittimato passivo nei giudizi
promossi, come nel caso in esame, in materia
di indennità di buonuscita (TAR Campania, Na,
Sez. I, 19.12.2007, n. 16433).
Questa Sezione, inoltre, ha già proprio
evidenziato che nei giudizi proposti da
pubblici dipendenti aventi per oggetto
l'indennità di buonuscita l'unico soggetto
legittimato passivo è l'Inpdap, trattandosi
del soggetto tenuto, ai sensi dell'art. 25
T.U. 29.12.1973 n. 1032, alla liquidazione
dell'indennità e al pagamento della somma, e
non anche l'Amministrazione di appartenenza,
che non riveste alcun ruolo con rilevanza
esterna nel relativo procedimento (TAR
Lazio, Sez. III, 06.12.2006, n. 13916) (TAR
Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 20.02.2012 n. 1695 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
partecipante escluso dalla gara non può
contestarne gli esiti.
Il Consiglio di Stato, così come di recente
ribadito anche nella sentenza dell’Adunanza
Plenaria 07.04.2011, n. 4 e specificato
dalla Sezione in più occasioni (cfr.
sentenze 10.09.2010, n. 6546; 13.09.2005, n.
4692; 21.11.2007, n. 5925; 29.12.2009, n.
8969), anche se di regola è sufficiente
l’interesse strumentale del partecipante ad
una gara pubblica di appalto ad ottenere la
riedizione della gara stessa, deve in ogni
caso ritenersi che un tale interesse non
sussista in capo al soggetto legittimamente
escluso dato che tale soggetto, per effetto
dell’esclusione, rimane privo non soltanto
del titolo legittimante a partecipare alla
gara ma anche a contestarne gli esiti e la
legittimità delle scansioni procedimentali.
Il suo interesse protetto invero, da
qualificare interesse di mero fatto, non è
diverso da quello di qualsiasi operatore del
settore che, non avendo partecipato alla
gara, non ha titolo ad impugnare gli atti,
pur essendo titolare di un interesse di mero
fatto alla caducazione dell’intera
selezione, al fine di poter presentare la
propria offerta in ipotesi di riedizione
della nuova gara.
Anzi, la citata sentenza dell’Adunanza
Plenaria 07.04.2011, n. 4 ha ribadito ancora
con forza che nelle procedure pubbliche di
affidamento dei contratti, la legittimazione
al ricorso è correlata a una situazione
differenziata, in modo certo, come risultato
della partecipazione alla stessa procedura
oggetto di contestazione, salvi i casi nei
quali il ricorrente contesti, in radice, la
scelta della stazione appaltante di indire
la procedura, oppure, in qualità di
operatore economico di settore,
l'affidamento diretto o senza gara, oppure
ancora una clausola del bando per sé
escludente, in relazione alla illegittima
previsione di determinati requisiti di
qualificazione, situazioni che non ricorrono
nella specie.
In tale contesto, osserva la Plenaria, la
mancata partecipazione alla gara, ostativa
all’ammissibilità del ricorso, è del tutto
equiparabile alla situazione di chi ne sia
stato legittimamente escluso (o non abbia
impugnato la propria esclusione) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 20.02.2012 n. 892 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Temperamenti
al principio di immodificabilità soggettiva
dei partecipanti alle gare pubbliche:
possibilità di recesso di una impresa
dell'A.T.I. dopo l'aggiudicazione.
Nel caso in esame il legale partecipante di
una impresa componente della'A.T.I. ha
prodotto nel procedimento di gara la
dichiarazione di non aver riportato condanna
penale irrevocabile che, come invece è
risultato dalla documentazione depositata in
giudizio (certificato del casellario
giudiziario), non è veritiera; la società
componente dell’A.T.I. partecipante alla
gara ha, quindi, manifestato il recesso
dalla costituzione dell’A.T.I. appena
successivamente al provvedimento di
aggiudicazione provvisoria col quale è stato
disposto l’accertamento dei requisiti
generali di accesso alla procedura e prima
della verifica degli stessi.
Pertanto, in conformità al principio secondo
il quale il divieto di modifica soggettiva
opera sicuramente allorquando interviene,
come nella specie, per eludere la legge di
gara e, in particolare, per evitare una
sanzione in capo al componente dell’A.T.I.
che viene meno per effetto dell’operazione
riduttiva, la revoca dell’aggiudicazione
provvisoria è da ritenersi del tutto
legittima (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI,
16.02.2010, n. 842). Infatti, il principio
di immodificabilità soggettiva dei
partecipanti alle gare pubbliche mira a
garantire una conoscenza piena da parte
delle Amministrazioni aggiudicatrici dei
soggetti che intendono contrarre con le
Amministrazioni stesse, consentendo una
verifica preliminare e compiuta dei
requisiti di idoneità morale,
tecnico-organizzativa ed
economico-finanziaria dei concorrenti,
verifica che non deve essere resa vana in
corso di gara con modificazioni di alcun
genere (Consiglio di Stato, sez. V,
07.04.2006, n. 1903; Consiglio di Stato,
sez. V, 30.08.2006, n. 5081).
La tesi tradizionalmente rigorista è stata
effettivamente rimessa in discussione da
altro filone giurisprudenziale secondo cui
sarebbe possibile, dopo l’aggiudicazione, il
recesso di una o più imprese dell’A.T.I., se
quelle rimanenti siano in possesso dei
requisiti di qualificazione per le
prestazioni oggetto dell’appalto: infatti,
il divieto legislativo riguarderebbe solo
l’aggiunta o la sostituzione di componenti,
non anche il venir meno, senza sostituzione,
di taluno (Consiglio di Stato, sez. IV,
23.07.2007, n. 4101). Ciò in quanto il
divieto di modificazione soggettiva non ha
l'obiettivo di precludere sempre e comunque
il recesso dal raggruppamento in costanza di
procedura di gara, poiché il rigore di detta
disposizione va temperato in ragione dello
scopo che persegue, che è quello di
consentire alla stazione appaltante, in
primo luogo, di verificare il possesso dei
requisiti da parte dei soggetti che
partecipano alla gara e, correlativamente,
di precludere modificazioni soggettive,
sopraggiunte ai controlli, e dunque, in
grado di impedire le suddette verifiche
preliminari.
Tale essendo, dunque, la funzione di detta
disposizione è evidente come le uniche
modifiche soggettive elusive del dettato
legislativo siano quelle che portano
all'aggiunta o alla sostituzione delle
imprese partecipanti e non anche quelle che
conducono al recesso di una delle imprese
del raggruppamento; in tal caso, infatti, le
esigenze succitate non risultano affatto
frustrate poiché l'Amministrazione, al
momento del mutamento soggettivo, ha già
provveduto a verificare i requisiti di
capacità e di moralità dell'impresa o delle
imprese che restano, sicché i rischi che il
divieto mira ad impedire non possono
verificarsi (Consiglio di Stato, sez. VI,
13.05.2009, n. 2964).
Tuttavia, come è evidente dal tenore
letterale delle decisioni appartenenti a
tale filone, il rigore dell’orientamento
tradizionale è attenuato soltanto se
l'Amministrazione, al momento del mutamento
soggettivo, ha già provveduto a verificare i
requisiti di capacità e di moralità
dell'impresa o delle imprese, il che non si
verifica nel caso di specie, in cui il
recesso è avvenuto prima dell’espletamento
dei controlli; dunque, impedendo di fatto
che si potesse applicare una sanzione
all’operatore economico partecipante.
In tal modo è evidente che si verifica una
violazione della par condicio dei
concorrenti, atteso che, nel caso di specie,
il recesso è avvenuto per eludere la legge
di gara e, in particolare, per evitare una
sanzione di esclusione dalla gara per
difetto dei requisiti in capo al componente
dell’A.T.I., che viene meno per effetto
dell’operazione riduttiva. Ancora di
recente, peraltro, questa Sezione ha
ribadito che il recesso di una impresa
componente di un raggruppamento nel corso
della procedura di gara non vale a sanare
ex post una situazione di preclusione
all’ammissione alla procedura sussistente al
momento dell’offerta in ragione della
sussistenza di cause di esclusione
riguardanti il soggetto recedente (Consiglio
di Stato, sez. V, 28.09.2011, n. 5406).
Relativamente al capo della sentenza del TAR
relativo alla falsa dichiarazione, il
Consiglio di Stato ha rilevato
l’indiscutibile sussistenza di una falsa
dichiarazione resa dal legale rappresentante
del soggetto receduto dall’associazione,
atteso che lo stesso risulta condannato, con
sentenza irrevocabile della Corte di
Appello, alla pena della reclusione di anni
1 e mesi 5 ed alla multa di lire 500.000 per
reati riconducibili all’affidabilità morale
(agevolazione all’esercizio della
prostituzione); tale precedente non è stato
dichiarato in sede di partecipazione a gara,
nella quale dunque è stata resa una falsa
dichiarazione in ordine all’incensuratezza,
rilevante per la partecipazione (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 20.02.2012 n. 888 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
legittimità del provvedimento di
liquidazione dell'indennità di buonuscita va
valutata in base alla normativa vigente al
momento della sua emanazione.
Il provvedimento con cui la pubblica
amministrazione dispone il collocamento a
riposo di un proprio dipendente è atto
conclusivo del rapporto di impiego,
attinente allo status ed alla stessa qualità
di dipendente del soggetto interessato, con
natura autoritativa dell’atto non dissimile
da quella dell’inquadramento; la legittimità
di tale provvedimento e di quelli
strettamente consequenziali (come la
liquidazione dell’indennità di buonuscita)
deve quindi essere valutata in base alla
normativa vigente alla data della relativa
emanazione, senza che disposizioni
legislative, successivamente intervenute,
possano incidere sul trattamento già
definito (con ogni questione di esatta
quantificazione o riliquidazione della
pensione rimessa alla giurisdizione della
Corte dei Conti, fatte salve pretese
strettamente connesse al rapporto di impiego
intercorso o riferite all’indennità di
buonuscita, in ogni caso con applicazione
del noto principio “tempus regit actum”:
cfr. Cons. St., sez. VI, 18.12.2007, n.
6514).
Qualsiasi nuova normativa, pertanto, deve
considerarsi normalmente applicabile solo ai
trattamenti, anche a carattere continuativo,
da definire dopo la relativa entrata in
vigore, a meno di dichiarato effetto
retroattivo della normativa stessa, dovendo
trovare applicazione l’art. 11, comma 1,
disp. prelim. al codice civile, secondo cui
la legge non dispone che per l’avvenire
(cfr. anche, per il principio Cons. St.,
sez. VI, 22.10.2002, n. 5794, 29.07.2004, n.
5354 e 5339, 29.09.2010, n. 7187,
02.03.2011, n. 1303, 29.03.2011, n. 1900;
Cass. civ., sez. III, 24.03.2010,n. 7119)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.02.2012 n. 849 - massima
tratta da
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APPALTI: L'annotazione
nel casellario informatico dell'avvenuta
esclusione di un'impresa da pubbliche gare
per aver reso false dichiarazioni può essere
disposta dall'Autorità di Vigilanza solo a
seguito di un procedimento in
contraddittorio con l'interessato.
L’orientamento costante del giudice
amministrativo (cfr. Tar Lazio III nn. 11068
e 11090/2009 e n. 6640/2010) ritiene che
l'annotazione nel casellario informatico
dell'avvenuta esclusione di un'impresa da
pubbliche gare per aver reso false
dichiarazioni abbia un autonomo contenuto
lesivo, in base alla espressa previsione
dell'art. 38, lettera h), del d.lgs. n° 163
del 12-04-2006.
Costituendo la annotazione una autonoma
sanzione disposta dalla Autorità di
Vigilanza accanto alle misure previste
dall'art. 6, comma 11, e dall'articolo 48,
può essere legittimamente adottata solo a
seguito di un procedimento che assicuri il
contraddittorio dell'interessato e la
valutazione da parte dell'Autorità del
presupposto per procedere all'annotazione,
in particolare, in relazione alla falsità
delle dichiarazioni (TAR Lazio, III,
sentenza n. 11068 del 2009).
Tale orientamento giurisprudenziale ha
trovato conferma nella nuova disciplina
dell’art. 38 introdotta con il d.l. n° 70
del 13-05-2011, peraltro non applicabile al
caso di specie, che al nuovo comma 1-ter
dell’art. 38 ha previsto: “In caso di
presentazione di falsa dichiarazione o falsa
documentazione, nelle procedure di gara e
negli affidamenti di subappalto, la stazione
appaltante ne dà segnalazione all’Autorità
che, se ritiene che siano state rese con
dolo o colpa grave in considerazione della
rilevanza o della gravità dei fatti oggetto
della falsa dichiarazione o della
presentazione di falsa documentazione,
dispone l’iscrizione nel casellario
informatico ai fini dell’esclusione dalle
procedure di gara e dagli affidamenti di
subappalto ai sensi del comma 1, lettera h),
per un periodo di un anno, decorso il quale
l’iscrizione è cancellata e perde comunque
efficacia” (TAR Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 16.02.2012 n. 1642 - massima
tratta da
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www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sanzioni
all'impresa che in sede di gara pubblica
rende dichiarazioni false.
La controversia posta all'attenzione del
giudice amministrativo investe la corretta
applicazione o meno nei confronti di una
società dell’art. 48, comma 1, del d.lgs.
163/2006, il quale così dispone: “Le
stazioni appaltanti, prima di procedere
all’apertura delle buste delle offerte
presentate, richiedono ad un numero di
offerenti non inferiore al 10 per cento
delle offerte presentate, arrotondato
all’unità superiore, scelti con sorteggio
pubblico, di comprovare, entro dieci giorni
dalla data delle richiesta medesima, il
possesso dei requisiti di capacità
economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa, eventualmente
richiesti nel bando di gara, presentando la
documentazione indicata in detto bando o
nella lettera di invito. Quando tale prova
non sia fornita, ovvero non confermi le
dichiarazioni contenute nella domanda di
partecipazione o nell’offerta, le stazioni
appaltanti procedono all’esclusione del
concorrente dalla gara, all’escussione della
relativa cauzione provvisoria e alla
segnalazione del fatto all’Autorità per i
provvedimenti di cui all’art. 6, comma 11.
L’Autorità dispone, altresì, la sospensione
da uno a dodici mesi dalla partecipazione
alle procedure di affidamento”.
Come più volte affermato dalla
giurisprudenza, si tratta di una previsione
connotata da carattere sanzionatorio, ossia
di una prescrizione che –in quanto diretta a
salvaguardare, in primo luogo, il “rispetto
dell’ampio patto d’integrità cui si vincola
chi partecipa a gare pubbliche” ed, in
secondo luogo, “la serietà e
l’affidabilità dell’offerta”–
necessariamente presuppone un comportamento
non corretto da parte dell’operatore
economico, in spregio dell’impegno dal
medesimo assunto ad osservare le regole
della procedura di gara, delle quali ha
contezza (cfr., tra le altre, Corte Cost.,
13.07.2011, n. 211; C.d.S., Sez. V,
01.10.2010, n. 7263). In altri termini, la
previsione in esame mira a garantire che nel
settore operino soggetti rispettosi delle
regole che lo disciplinano, essendo
inequivocabilmente diretta a sanzionare
eventuali dichiarazioni false rese in sede
di gara (cfr., tra le altre, TAR Friuli
Venezia Giulia, Trieste, Sez. I, 08.04.2011,
n. 191).
La sua ratio va, pertanto,
coerentemente individuata nel
contemperamento del principio del libero
accesso alle gare con la garanzia che vi
partecipino imprese “affidabili”,
perseguendo la finalità di responsabilizzare
i partecipanti e di escludere da subito i
soggetti privi delle richieste qualità
economico-imprenditoriali volute dal bando,
i quali, per il solo fatto di essersi posti
in condizione di partecipare, pur non
avendone titolo, rappresentano un indiscusso
fattore di disturbo ed alterazione della
procedura di gara (cfr., TAR Liguria, Sez.
II, 16.02.2011, n. 280; TAR Campania,
Napoli, Sez. VIII, 07.06.2010, n. 12713).
In definitiva, si tratta di una previsione
che –proprio per la ratio che la
connota– necessariamente implica “dichiarazioni
formalmente infedeli”, ossia può trovare
applicazione esclusivamente nell’ipotesi in
cui vengano riscontrate dichiarazioni “false”,
le quali, tra l’altro, debbono essere
caratterizzate da dolo o mala fede o,
comunque, non essere riconducibili ad una
semplice erronea percezione della realtà
(cfr., tra le altre, TAR Lazio, Roma, Sez.
III, 26.10.2009, n. 10429; TAR Lazio, Roma,
Sez. II, 06.03.2009, n. 2341) (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-ter,
sentenza 16.02.2012 n. 1639 - massima
tratta da
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APPALTI: Ragioni
di pubblico interesse possono legittimare
l'Amministrazione a non procedere
all'aggiudicazione della gara.
In materia di contratti della P.A., il
potere di non procedere alla aggiudicazione
(definitiva o provvisoria) di una gara ben
può trovare fondamento, in via generale, in
specifiche ragioni di pubblico interesse
(Consiglio di Stato, Sezione III, n. 6039
del 15.11.2011, Sezione VI, n. 1554 del
17.03.2010) (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 16.02.2012 n. 833 - massima
tratta da
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ESPROPRIAZIONE: Modalità
di comunicazione dell'avvio del procedimento
nelle procedure espropriative coinvolgenti
un rilevante numero di proprietari di aree.
Il coinvolgimento nella procedura
espropriativa di un rilevante numero di
proprietari consente all'Amministrazione
espropriante di sostituire la comunicazione
personale di avvio del procedimento con le
forme di pubblicità alternative consentite
dall'art. 8, comma 3, l. 07.08.1990 n. 241,
purché i destinatari di tale comunicazione
siano effettivamente messi in grado di
percepire la portata per essi lesiva del
provvedimento, con la puntuale indicazione
delle particelle espropriate (Consiglio
Stato , sez. IV, 15.01.2009, n. 151).
L'amministrazione, trovandosi in presenza di
un procedimento che non riguardava più
soltanto pochi destinatari, ma oltre
cinquanta soggetti intestatari di particelle
interessate dai lavori, ha utilizzato il
modello di pubblicità alternativa del
procedimento di massa previsto dalla legge
("allorché il numero dei destinatari sia
superiore a 50"): il che è rispettoso
dell'indirizzo giurisprudenziale secondo il
quale l'atto con il quale viene dichiarata,
anche implicitamente, la pubblica utilità,
l'indifferibilità e l'urgenza di un'opera
deve necessariamente essere preceduto dalla
comunicazione dell'avvio del procedimento,
ai sensi dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241,
indirizzato individualmente ai proprietari
delle aree incise dall'opera, ma è fatta
salva la pubblicità "di massa" ove il
numero dei destinatari sia tale da non
rendere possibile la comunicazione "ad
personam" (Consiglio Stato , sez. IV,
22.06.2006, n. 3885) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 16.02.2012 n. 819 - massima
tratta da
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APPALTI: Sanzioni
conseguenti all'esclusione dalla gara
pubblica: finalità dell'istituto della
cauzione provvisoria.
L’istituto della cauzione provvisoria si
profila come garanzia del rispetto
dell'ampio patto d'integrità cui si vincola
chi partecipa a gare pubbliche, ed il suo
incameramento, sussistendone i presupposti,
risulta coerente con tale finalità, avendo
esso la funzione di garantire la serietà e
l'affidabilità dell'offerta, sanzionando la
violazione dell'obbligo di diligenza
gravante sull'offerente, mediante
l'anticipata liquidazione dei danni subiti
dalla stazione appaltante. E ciò tenuto
conto del fatto che, con la domanda di
partecipazione alla gara, l’operatore
economico sottoscrive e si impegna ad
osservare le regole della relativa
procedura, delle quali ha, dunque, contezza.
Come ha osservato la Corte Costituzionale
(sent. 13.07.2011 n. 211), l’incameramento
della cauzione provvisoria costituisce una
scelta del legislatore ordinario, scelta
che, considerate la natura e le finalità
della detta cauzione, non può essere
giudicata frutto di un uso distorto ed
arbitrario della discrezionalità allo stesso
spettante e contrastante con il canone della
ragionevolezza.
Allo stesso modo, sempre secondo la Corte, i
provvedimenti dell'Autorità di vigilanza sui
contratti pubblici, anch’essi previsti
dall’art. 48, mirano a garantire che nel
settore operino soggetti rispettosi delle
regole che lo disciplinano e, quindi, sono
diretti a sanzionare la condotta
dell'offerente per finalità ulteriori e
diverse rispetto a quelle cui è preordinato
l'incameramento della cauzione provvisoria,
il quale ultimo è caratterizzato da una
funzione differente da quella che connota
detti provvedimenti, con conseguente
incomparabilità di dette situazioni.
L’esclusione dalla gara costituisce, dunque,
il presupposto perché si faccia luogo alle
due ipotesi sanzionatorie previste dall’art.
48, comma 1, di modo che, mentre l’impresa
ben può dolersi della legittimità
dell’esclusione, in relazione alle ragioni
che la giustificano, al contrario non
costituisce oggetto di sindacato
giurisdizionale –sotto il profilo
dell’eccesso di potere- la successiva
determinazione dell’amministrazione di
incameramento della cauzione e di
segnalazione all’Autorità garante, posto che
esse, come la giurisprudenza ha già avuto
modo di affermare (Cons. Stato, sez. V,
01.10.2010 n. 7263), costituiscono
conseguenze del tutto automatiche del
provvedimento di esclusione, come tali non
suscettibili di alcuna valutazione
discrezionale da parte dell’amministrazione,
con riguardo ai singoli casi concreti e/o
alle ragioni poste a giustificazione
dell'esclusione medesima.
In sostanza, ai fini dell'applicazione delle
sanzioni previste, il presupposto
determinante (e dunque assorbente) è
rappresentato dall'esclusione. Ciò che è
quindi possibile censurare, innanzi al
giudice amministrativo, è la legittimità
dell’esclusione, non –una volta che questa
sia intervenuta (e sia ritenuta legittima)–
l’adozione dei conseguenti atti di
incameramento della cauzione e di
segnalazione, essendo questi conseguenze
automatiche, previste ex lege.
Ovviamente, laddove l’esclusione disposta
venisse ritenuta illegittima, difetterebbe
il presupposto per l’adozione degli atti di
incameramento e segnalazione, che
risulterebbero illegittimi in via derivata
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.02.2012 n. 810 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Conseguenze in caso di assunzioni
effettuate da un ente locale in violazione
di legge.
Ai sensi dell’art. 5, comma 18, della legge
08.01.1979, n. 3, per la instaurazione di un
valido rapporto di impiego con un ente
locale è necessaria la partecipazione ad un
concorso pubblico o ad una prova selettiva
pubblica, adempimento che, nel caso
sottoposto all'esame del Consiglio di Stato,
risulta del tutto assente.
In caso di non configurabilità del rapporto
di pubblico impiego, propria della
fattispecie in esame, come in caso di
nullità del rapporto, in presenza di
assunzioni effettuate in violazione di legge
può comunque ricorrere il diritto degli
interessati ad ottenere le prestazioni
contributive e previdenziali, quando sia
provata l’esistenza di un rapporto di lavoro
subordinato di fatto, rispetto al quale gli
indici rivelatori del pubblico impiego
assumono soltanto funzione di astratta
qualificazione, ai fini della determinazione
della disciplina economica e previdenziale
relativa alle prestazioni lavorative in
essere (C.d.S., Ad. Plen., 29.02.1992, n. 1
e 2; C.d.S., Ad. Plen., 05.03.1992, n. 5 e
6; C.d.S., Sez. V, 15.03.2005, n. 6342).
L’esame, finalizzato a verificare
l’applicabilità dell’art. 2126 c.c., comma
2, anche in presenza, come nel caso di
specie, di un rapporto di lavoro definito
contra legem, in quanto contrario a
norme imperative, deve avere quindi,
necessariamente ad oggetto l’accertamento
degli indici rilevatori e sintomatici del
rapporto di lavoro subordinato. Tali indici,
individuati dalla giurisprudenza nel tipo di
attività svolta, diretta al raggiungimento
di una finalità propria
dell’Amministrazione, nella posizione di
subordinazione gerarchica assunta dal
lavoratore, nell’obbligo di rispettare un
rigido orario giornaliero, nella continuità
della prestazione resa e nell’incardinamento
dello stesso lavoratore nella struttura
amministrativa, come correttamente ritenuto
dai giudici di primo grado, non si
riscontrano nei casi qui oggetto di esame.
In particolare l’attività svolta dalle
appellanti non rientra sempre nei compiti
disimpegnati direttamente dal Comune,
potendo essa essere affidata, come sovente
accade, a ditte esterne attraverso gare
d’appalto e il potere di sorveglianza
riconosciuto all’Amministrazione è
funzionale solo ad accertare che il servizio
sia regolarmente effettuato, cioè è un
potere relativo alla posizione contrattuale
attiva dell’Amministrazione stessa come
creditrice di una prestazione di servizio
continuativa, e non indica l’assunzione
della veste di datore in assenza di un
contesto significativo di fatti eccedenti la
mera naturale esplicazione di tale
prestazione di servizio nell’ambito di un
appalto (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.02.2012 n. 801 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sul criterio di corrispondenza
tra quota di qualificazione, quota di
partecipazione e quota di esecuzione (anche)
negli appalti di servizi.
Le quote di partecipazione all'ATI e le
parti del servizio da eseguire devono essere
indicate già in sede di offerta, anche in
assenza di una espressa previsione del bando
o della lettera d'invito, e la singola
impresa componente dell'ATI deve aver la
qualifica, ovvero i requisiti di ammissione,
in misura corrispondente alla quota di
partecipazione, il tutto a garanzia della
stazione appaltante e del buon esito del
programma contrattuale nella fase di
esecuzione.
Dalla mancata osservanza di tale obbligo
-che discende dall'art. 37, commi 4 e 13,
del Codice dei contratti e che trova
applicazione anche ai raggruppamenti di tipo
orizzontale- deriva la conseguenza che
l'offerta contrattuale, che provenga da
un'associazione di più imprese in termini
che non assicurino la predetta, effettiva,
corrispondenza, è inammissibile, perché
comporta l'esecuzione della prestazione da
parte di un'impresa priva (almeno in parte)
di qualificazione in una misura simmetrica
alla quota di prestazione ad essa devoluta
dall'accordo associativo ovvero dall'impegno
delle parti a concludere l'accordo stesso
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 16.02.2012 n. 793 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Sono
invalide le operazioni di gara se, per
inosservanza di norme precauzionali, i
plichi sono rimasti esposti al rischio di
manomissione.
La giurisprudenza amministrativa è ormai
consolidata nel ritenere che la commissione
di gara non possa legittimamente operare il
riesame della documentazione, al di fuori
della contestualità temporale in cui le
operazioni per legge (art. 71 R.D. 827/1924)
devono svolgersi, per riscontrare “ora
per allora” la carenza (ovvero al
contrario la presenza) di documentazione
prodotta (o non prodotta) dai partecipanti
alla gara, al fine di escludere (ovvero di
riammettere) taluno dei concorrenti, se non
fornendo piena prova delle modalità,
adeguatamente sicure, con cui sia stata
medio tempore conservata la documentazione
di gara, così da escludere ogni dubbio sulla
sua alterazione, o anche solo alterabilità
(si veda, in tal senso, C.G.A. 22.11.2001,
n. 604; C.G.A. 27.05.1997, n. 107; C.G.A.
19.10.2005, n. 693, C.G.A. n. 35/2006; si
veda anche in proposito CdS, V, n.
8155/2010; n. 2791/2003; n. 661/2000 e TAR
CT n. 2284/2008).
Nella specie, rileva il giudice che risulta
provato per tabulas che i plichi con
la documentazione sono stati depositati
senza cautele idonee a garantirne
l'integrità e la perfetta conservazione. In
presenza di tale circostanza la successiva
riapertura delle operazioni di riscontro
della documentazione stessa e la conseguente
esclusione dell’Ati con mandante la
ricorrente, sono illegittime in quanto la
perfetta conservazione dei plichi con le
offerte e la documentazione delle imprese
partecipanti è uno degli elementi
sintomatici della segretezza delle stesse e
della par condicio di tutti i concorrenti,
assicurando il rispetto dei principi,
consacrati dall'art. 97 cost., di buon
andamento e imparzialità cui deve
conformarsi l'azione amministrativa.(C.d.S.,
V, 20.03.2008, n. 1219).
Nei casi come quello che ne occupa, viene
del resto in considerazione una fattispecie
di pericolo. È sufficiente cioè che dalle
risultanze processuali emerga che, per
inosservanza di norme precauzionali, la
documentazione di gara sia rimasta esposta
al rischio di manomissione per ritenere
invalide le operazioni di gara, senza che a
carico dell'impresa interessata possa
configurarsi un onere -del resto impossibile
da adempiere- di provare un concreto evento
di danno (vedi CdS, V, n. 3203/2010) (TAR
Lazio-Roma, Sez. III-quater,
sentenza 14.02.2012 n. 1487 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il divieto di costruire ad una
certa distanza dalla sede autostradale ha
natura assoluta. Lo stesso, cioè, ha una
giustificazione che non ammette prova
contraria.
La sussistenza del divieto vale anche nel
caso in cui il vincolo sopravvenga alla
realizzazione della costruzione e nel caso
in cui il sedime autostradale si trovi a un
livello diverso da quello della realizzanda
costruzione. Di talché le distanze previste
dalla normativa vanno rispettate anche con
riferimento ad opere che non superino il
livello della sede stradale. Ovvero anche
nel caso, invero speculare, di costruzioni
realizzate ad un livello superiore rispetto
al sedime autostradale.
---------------
L’art. 4 d.m. 01.04.1968 n. 1404 si limita
ad imporre il divieto di edificazione senza
ulteriormente specificare, onde deve
ritenersi l’irrilevanza del carattere
frontistante alla strada dell’ampliamento.
Il ricorso in esame è rivolto avverso il
parere negativo rilasciato dalla società
Autostrade relativamente alla deroga al
rispetto delle distanze autostradali per la
ristrutturazione di un immobile.
Con il primo motivo i ricorrenti, dopo avere
evidenziato come il vincolo di
inedificabilità sia funzionale al
perseguimento di interessi e utilità
pubbliche, hanno lamentato l’illegittimità
del provvedimento impugnato in quanto, per
la conformazione dei luoghi e le
caratteristiche dell’area ove è previsto
l’intervento edilizio, non sarebbe
ravvisabile, nella specie, alcun interesse o
utilità pubblica nel rispetto del vincolo.
Il motivo è infondato: il divieto di
costruire ad una certa distanza dalla sede
autostradale ha natura assoluta (da ultimo
Cass. civ. II 22.11.2010 n. 22422). Lo
stesso, cioè, ha una giustificazione che non
ammette prova contraria.
La sussistenza del divieto vale anche nel
caso in cui il vincolo sopravvenga alla
realizzazione della costruzione e nel caso
in cui il sedime autostradale si trovi a un
livello diverso da quello della realizzanda
costruzione. Di talché le distanze previste
dalla normativa vanno rispettate anche con
riferimento ad opere che non superino il
livello della sede stradale (Cass., II,
01.06.1995, n. 6118; Cons. di St., IV,
18.10.2002, n. 5716; id., 25.09.2002, n.
4927; TAR Campania-Salerno, II, 09.04.2009,
n. 1383). Ovvero anche nel caso, invero
speculare, di costruzioni realizzate ad un
livello superiore rispetto al sedime
autostradale (Cass. civ. II 03.02.2005 n.
2164).
--------------
Con il secondo
motivo i ricorrenti invocano il disposto
dell’art. 26, comma 2, del d.p.r. 495/1992
recante regolamento di esecuzione del codice
della strada sostenendo che il divieto di
costruzione vale esclusivamente riguardo
alle costruzioni che fronteggiano la strada
e non già gli ampliamenti non fronteggianti
la strada per essere, ad esempio, che come
nel caso di specie .
Il motivo è infondato.
Il complesso normativo che regole le
distanze dalle strade è ancora costituito
dal d.m. 01.04.1968 n. 1404 per effetto
della norma transitoria contenuta all’art.
234, comma 5, cds che recita: “Le norme
di cui agli articoli 16, 17 e 18 si
applicano successivamente alla delimitazione
dei centri abitati prevista dall'articolo 4
ed alla classificazione delle strade
prevista dall'articolo 2, comma 2. Fino
all'attuazione di tali adempimenti si
applicano le previgenti disposizioni in
materia”.
Poiché il decreto ministeriale previsto
dall’art. 2, comma 8, non è stato mai
emanato, con conseguente impossibilità di
classificazione delle strade, per effetto
del disposto della norma transitoria di cui
all’art. 234, comma 5, cds è ancora
applicabile il complesso normativo
previgente cioè per quanto qui interessa il
d.m. 01.04.1968 n. 1404.
La misura della fascia di rispetto
autostradale così come disciplinata
dall'art. 26 del regolamento di attuazione
del codice della strada e dall'art. 16,
comma 3, c. strad., in base al disposto
dell'art. 234, comma 5, del codice, si
applica "successivamente alla
delimitazione dei centri abitati prevista
dall'art. 4 ed alla classificazione delle
strade prevista dall'art. 2, comma 2. Fino
all'attuazione di tali adempimenti si
applicano le previgenti disposizioni in
materia". La classificazione delle
strade in conformità alle indicazioni di cui
all'art. 2, comma 2, è demandata ad un
decreto del Ministro delle infrastrutture,
non emanato, con conseguente inapplicabilità
della norme richiamate (TAR Toscana Firenze,
sez. III, 12.07.2010, n. 2449).
Orbene l’art. 4 d.m. 01.04.1968 n. 1404 si
limita ad imporre il divieto di edificazione
senza ulteriormente specificare, onde deve
ritenersi l’irrilevanza del carattere
frontistante alla strada dell’ampliamento
(TAR Liguria, Sez.
I,
sentenza
13.02.2012 n. 281 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
pendenza del ricorso giurisdizionale avverso
l'ordinanza di demolizione non impedisce
all'Ente Locale di procedere negli
adempimenti per l'acquisizione al patrimonio
comunale dell'immobile abusivo.
Il giudice amministrativo nel procedimento
in esame è chiamato ha valutare la
legittimità del provvedimento emesso dal
Comune, con il quale dato atto dell’avvenuta
acquisizione al patrimonio dell’ente locale
dei beni ivi indicati, ha disposto la
trascrizione del provvedimento nei registri
immobiliari, l’immissione in possesso e lo
sgombero dei beni. Il ricorrente, quindi, si
duole che il provvedimento impugnato abbia
disposto gli adempimenti strumentali
rispetto all’acquisizione perfezionatasi in
conseguenza dell’inottemperanza
all’ordinanza di demolizione a suo tempo
impugnata con ricorso respinto dal Tribunale
con sentenza appellata davanti al Consiglio
di Stato.
Il Giudice ha rigettato le doglianze
formulate dal ricorrente richiamando l’art.
31 d.p.r. n. 380/2001 che prevede
l’acquisizione del bene al patrimonio
comunale quale conseguenza ex lege
dell’inottemperanza per 90 giorni del
responsabile dell’abuso in ordine
all’esecuzione dell’ordinanza di
demolizione. Da tale norma consegue ad
avviso del giudice l’automaticità
dell’effetto acquisitivo che, appunto,
induce a ritenere irrilevanti le circostanze
prospettate nel ricorso (quali la pendenza
del gravame avverso l’ordinanza di
demolizione, l’entità e la destinazione del
manufatto abusivo, l’utilità per l’ente
comunale) in quanto non previste dall’art.
31 d.p.r. n. 380/01 come condizionanti
l’acquisizione stessa (TAR Lazio-Roma, Sez.
I-quater,
sentenza 10.02.2012 n. 1355 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Cambio
al vertice dell’ente “pilotato” da politico:
è abuso d’ufficio. La Cassazione annulla con
rinvio una sentenza di assoluzione di un
politico/presidente di un ente locale
sospettato di aver sostituito un dirigente
con un suo “fedelissimo".
Il politico che fa
dimettere un dirigente di un ente per far
posto a un suo fedelissimo commette il reato
di abuso d’ufficio.
Lo afferma la sesta sezione penale della
Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con
sentenza 08.02.2012 n. 4933.
Il politico, presidente di un ente locale
siciliano, è infatti sospettato di aver
posto in essere atti di “moral suasion”
affinché un manager dirigente al vertice di
un ente controllato si dimettesse lasciando
così il posto ad un suo fedelissimo, il
quale lo avrebbe certamente favorito
nell’aumentare il proprio bacino di voti
all’interno della struttura in questione.
Tali atti sarebbero consistiti nell’aver
tagliato e bloccato unilateralmente i fondi
destinati all’ente, in modo da indurre alle
dimissioni l’incolpevole dirigente.
Tuttavia il politico in questione era stato
assolto dall’accusa di abuso d’ufficio “perché
il fatto non costituisce reato”; infatti
la sentenza che esclude la sua
responsabilità non considera le
testimonianze secondo cui, dopo il
“pilotato” cambio al vertice dell’ente, i
finanziamenti pubblici sarebbero tornati ad
affluire verso l’istituto. Secondo il
giudice d’appello l’imputato non avrebbe
interferito sulla sospensione dei pagamenti
né avrebbe influito sulle dimissioni
rassegnate dal dirigente.
Ma la Cassazione è di tutt’altro avviso e,
accogliendo il ricorso del procuratore
generale presso la Corte d’appello di
Palermo, ordina il rinnovo del giudizio.
Secondo la Suprema Corte, nel valutare la
colpevolezza o meno del politico
amministratore, il giudice del rinvio dovrà
prendere “in esame tutte le prove
legittimamente acquisite al processo” e
valutarle “secondo le regole della logica”.
Tutto si gioca nell’accertare i tre fatti
topici oggetto di prova: 1) se l’imputato ha
dato ordine di sospendere i pagamenti in
favore dell’ente; 2) se il manager ha
presentato le dimissioni per effetto
dell’ordine abusivo impartito dall’imputato;
3) se l’imputato ha agito per soddisfare un
interesse privato. Per la Suprema Corte,
qualora questi fatti fossero provati, ci si
troverebbe in presenza del reato di
concussione.
Da qui, l’annullamento della sentenza con
rinvio ad altra sezione della Corte
d’Appello (link a www.leggioggi.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della decorrenza del
termine per l’impugnazione del permesso di
costruire, ove se ne contesti il contenuto
specifico, la conoscenza dello stesso da
parte del proprietario limitrofo può
intendersi acquisita quando le opere abbiano
raggiunto uno stadio ed una consistenza tali
da renderne chiara l’illegittimità e la lesività
per le posizioni soggettive del confinante.
Secondo costante giurisprudenza, ai fini
della decorrenza del termine per
l’impugnazione del permesso di costruire,
ove se ne contesti il contenuto specifico,
la conoscenza dello stesso da parte del
proprietario limitrofo può intendersi
acquisita quando le opere abbiano raggiunto
uno stadio ed una consistenza tali da
renderne chiara l’illegittimità e la lesività per le posizioni soggettive del
confinante (in termini, tra le tante, Cons.
Stato, Sez. IV, 31.07.2008, n. 3849;
TAR Campania, Napoli, Sez. III, 01.12.2008,
n. 20723; TAR Liguria, Sez. I, 25.01.2010,
n. 192) (TAR Umbria,
sentenza 02.02.2012 n. 34 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Per "ristrutturazione urbanistica”
sono da intendere quegli interventi rivolti a
sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio, urbano o rurale, con
altro diverso, mediante un insieme
sistematico di interventi edilizi, anche con
la modifica e/o lo spostamento dell’area di
sedime e la modificazione del disegno dei
lotti.
Al contrario, per “ristrutturazione
edilizia” si intendono gli interventi
rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che
possono portare a un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente,
inclusa anche la integrale demolizione e
ricostruzione del fabbricato purché senza
modifiche di volumetria, area di sedime e
sagoma.
In qualche occasione la giurisprudenza,
anche di questo Tribunale Amministrativo, ha
qualificato tale tipo di ristrutturazione
come “ristrutturazione urbanistica”, a
descrivere quegli interventi rivolti a
sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio, urbano o rurale, con
altro diverso, mediante un insieme
sistematico di interventi edilizi, anche con
la modifica e/o lo spostamento dell’area di
sedime e la modificazione del disegno dei
lotti.
Al contrario, per “ristrutturazione
edilizia” si intendono gli interventi
rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che
possono portare a un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente,
inclusa anche la integrale demolizione e
ricostruzione del fabbricato purché senza
modifiche di volumetria, area di sedime e
sagoma (in termini TAR Umbria, 01.07.2010, n. 396; 13.01.2011,
n. 3)
(TAR Umbria,
sentenza 02.02.2012 n. 33 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La regola che governa l’azione
amministrativa è quella del tempus regit
actum e, dunque, la legittimità di un
provvedimento va verificata alla stregua
delle norme applicabili al momento
dell’adozione del provvedimento.
La regola
che governa l’azione amministrativa, come
noto, è quella del tempus regit actum, e
dunque la legittimità di un provvedimento va
verificata alla stregua delle norme
applicabili al momento dell’adozione del
provvedimento (in termini, tra le tante,
Cons. Stato, Sez. VI, 29.03.2011, n.
1900; Sez. VI, 02.03.2011, n. 1303;
indirettamente anche Cons. Stato, Ad. Plen.,
24.05.2011, n. 9)
(TAR Umbria,
sentenza 02.02.2012 n. 33 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Il committente privato è sempre
responsabile della morte in cantiere di un
lavoratore?
Durante l'esecuzione di un contratto d'opera
si è verificato un incidente che ha
provocato la morte di un lavoratore a
seguito della caduta dalla copertura di un
immobile di proprietà del committente.
La Corte di Appello di Catania confermando
quanto previsto dal Tribunale di primo
grado, condanna i proprietari, in qualità di
committenti, per omicidio colposo dovuto al
mancato adempimento degli obblighi normativi
in materia di prevenzione e sicurezza.
Gli imputati ricorrono in Cassazione.
Quest’ultima sottolinea che:
● la responsabilità del committente,
espressamente prevista dal D.Lgs. 626/1994
prima e dal D.Lgs. 81/2008 poi, non è
automatica, ma è necessario individuare
l'effettiva incidenza della condotta dello
stesso;
● il “dovere di sicurezza” è
riferibile sia al datore di lavoro che al
committente;
● vanno considerate tutte le circostanze
specifiche e le condizioni al contorno che
hanno caratterizzato l’infortunio.
Pertanto, la Corte Suprema annulla la
sentenza del Tribunale di prime cure perché
non hanno effettuato opportune valutazioni
circa le capacità tecniche e organizzative
della ditta e considerato che l’incidente
era avvenuto a lavori ultimati.
Pertanto annulla la Sentenza e rinvia ad
altra sezione della Corte di Appello per
nuovo giudizio (Corte di Cassazione, Sez. IV
penale,
sentenza 30.01.2012 n. 3563 -
commento tratto da e link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
“vicinitas” non può ex se radicare la
legittimazione al ricorso, in assenza di
prove in ordine ai pregiudizi derivanti dal
rilascio del titolo edilizio a terzi.
La Sezione ha avuto modo di statuire, in una
significativa decisione (n. 8364 del
30/11/2010 ) che la “vicinitas” non
può ex se radicare la legittimazione
al ricorso, in assenza di prove in ordine ai
pregiudizi derivanti dal rilascio del titolo
edilizio a terzi, ma non è questo il caso
che ci occupa.
In quella sede, invero, oggetto
dell’impugnativa principale era uno
strumento urbanistico attuativo che
disciplinava una vasta area ai fini del
recupero della stessa, senza che da ciò
potesse derivare detrimento ai vicini, ma
nella fattispecie all’esame, avuto riguardo
allo stato dei luoghi e alla natura degli
atti in rilievo, non può escludersi il
carattere lesivo dei provvedimenti
impugnati.
Più specificatamente, anche in relazione al
contenuto delle censure prospettate
(violazione delle prescrizioni regolatrici
delle distanze nell’edificazione ex Dm n.
1444/1968) vi è nella specie un rapporto di
contiguità spaziale tra il suolo oggetto di
trasformazione e quello su cui insistono le
proprietà immobiliari dei ricorrenti
(stabile collegamento) che si coniuga con
una situazione differenziata suscettibile di
essere incisa dal rilascio del titolo di
assenso edilizio (in tal senso, Cons. Stato,
Sez. VI, 24/09/2004 n. 6255)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.01.2012 n. 420 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
distanza minima di 10 metri tra fabbricati
imposta dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n.
1444 costituisce limite inderogabile che
prevale sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali e che la norma sopra
indicata si applica anche alle
sopraelevazioni.
Ai fini della verifica del rispetto delle
distanze tra edificio sono computabili,
rientrando nel concetto civilistico di
costruzione, le parti di edificio quali
scale, terrazze e corpi avanzati.
Invero, a voler tralasciare il fatto che
nella specie le terrazze prese in
considerazione sembrano costituire una
soluzione architettonica volta a consentire
il passaggio di luce ed aria proprio al fine
di evitare intercapedini igienicamente
dannose, rimane nella vicenda all’esame
applicabile la deroga prevista dall’ultimo
comma dell’art. 9 del citato D.M. secondo
cui “sono ammesse distanze inferiori a
quelle indicate nei precedenti commi, nel
caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piano particolareggiato con
previsioni planovolumetriche”, evenienza,
questa, che ricorre nel caso di specie in
cui viene in rilievo una variante
urbanistica ad un piano particolareggiato
con previsioni plano-volumetriche.
Sono noti alla
Sezione gli orientamenti giurisprudenziali
secondo i quali la distanza minima di 10
metri tra fabbricati imposta dall’art. 9 del
D.M. 02.04.1968 n. 1444 costituisce limite
inderogabile che prevale sulle contrastanti
previsioni dei regolamenti locali (Cons.
Stato, Sez. IV 02/11/2010 n. 7731) e che la
norma sopra indicata si applica anche alle
sopraelevazioni (Corte Costituzionale
19/05/2011 n. 173).
Parimenti questa Sezione ha avuto modo di
affermare che ai fini della verifica del
rispetto delle distanze tra edificio sono
computabili, rientrando nel concetto
civilistico di costruzione, le parti di
edificio quali scale, terrazze e corpi
avanzati (decisione 27/10/2010 n. 424; idem,
30/06/2005 n. 3539) ma le critiche formulate
dalla parte appellante (che prende a
riferimento della misurazione le terrazze)
non paiono cogliere nel segno.
Invero, a voler tralasciare il fatto che
nella specie le terrazze prese in
considerazione sembrano costituire una
soluzione architettonica volta a consentire
il passaggio di luce ed aria proprio al fine
di evitare intercapedini igienicamente
dannose, rimane nella vicenda all’esame
applicabile la deroga prevista dall’ultimo
comma dell’art. 9 del citato D.M. (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 02/11/2010 n. 7731)
secondo cui “sono ammesse distanze
inferiori a quelle indicate nei precedenti
commi, nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piano particolareggiato
con previsioni planovolumetriche”,
evenienza, questa che ricorre nel caso di
specie in cui viene in rilievo una variante
urbanistica ad un piano particolareggiato
con previsioni plano-volumetriche
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.01.2012 n. 420 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato che non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né una motivazione
sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l’esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare.
Resterebbe soltanto salva, secondo un
orientamento (comunque di frequente
contestato), l’ipotesi in cui, per il
protrarsi e il lungo lasso di tempo
trascorso dalla commissione dell'abuso e il
protrarsi della inerzia dell'amministrazione
preposta alla vigilanza, si sia ingenerata
una posizione di affidamento nel privato,
ipotesi questa sola, in relazione alla quale
potrebbe ravvisarsi un onere di congrua
motivazione che, avuto riguardo anche alla
entità e alla tipologia dell’abuso, indichi
il pubblico interesse, evidentemente diverso
da quello al ripristino della legalità,
idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato.
Ma, al riguardo, questo Tribunale ha da
tempo affermato che, in ogni
caso, la tutela dell’affidamento del privato
deve essere subordinata al rigoroso
accertamento dei suoi presupposti
giustificativi; in sostanza, quanto meno:
- il lasso di tempo trascorso dalla
realizzazione dell’opera senza che
l’amministrazione sia intervenuta in alcun
modo, deve essere considerevole, ed è onere
dell’interessato farlo constare in modo
ragionevolmente certo (non soltanto mediante
riferimenti documentali, diretti o
indiretti, ma anche sulla base di
considerazioni concernenti elementi
oggettivi, quali le tipologie e modalità
realizzative, i materiali impiegati, lo
stato di conservazione, etc.);
- la presenza dell’opera realizzata in
assenza del titolo edilizio necessario, deve
essere stata ritenuta, anche implicitamente,
regolare dalla stessa Amministrazione in
occasione dell’esame di precedenti pratiche
edilizie, di attività di vigilanza sul
territorio, o di altre attività
amministrative.
E’ consolidato l’indirizzo giurisprudenziale
secondo cui l'ordine di demolizione, come
tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest’ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di
fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare (cfr. tra le altre, Cons. Stato,
V, 11.01.2011, n. 79; IV, 31.08.2010, n. 3955).
Resterebbe soltanto salva, secondo un
orientamento (comunque di frequente
contestato), l’ipotesi in cui, per il
protrarsi e il lungo lasso di tempo
trascorso dalla commissione dell'abuso e il
protrarsi della inerzia dell'amministrazione
preposta alla vigilanza, si sia ingenerata
una posizione di affidamento nel privato,
ipotesi questa sola, in relazione alla quale
potrebbe ravvisarsi un onere di congrua
motivazione che, avuto riguardo anche alla
entità e alla tipologia dell’abuso, indichi
il pubblico interesse, evidentemente diverso
da quello al ripristino della legalità,
idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato (cfr., Cons.
Stato, IV, 06.06.2008, n. 2705).
E’ a questo orientamento che evidentemente
si appella il ricorrente.
Ma, al riguardo, questo Tribunale ha da
tempo affermato (cfr., sentt. 21.01.2010, n. 23; 18.08.2009, n. 492; 18.03.2008, nn. 102 e 103) che, in ogni
caso, la tutela dell’affidamento del privato
deve essere subordinata al rigoroso
accertamento dei suoi presupposti
giustificativi; in sostanza, quanto meno:
- il lasso di tempo trascorso dalla
realizzazione dell’opera senza che
l’amministrazione sia intervenuta in alcun
modo, deve essere considerevole, ed è onere
dell’interessato farlo constare in modo
ragionevolmente certo (non soltanto mediante
riferimenti documentali, diretti o
indiretti, ma anche sulla base di
considerazioni concernenti elementi
oggettivi, quali le tipologie e modalità
realizzative, i materiali impiegati, lo
stato di conservazione, etc.);
- la presenza dell’opera realizzata in
assenza del titolo edilizio necessario, deve
essere stata ritenuta, anche implicitamente,
regolare dalla stessa Amministrazione in
occasione dell’esame di precedenti pratiche
edilizie, di attività di vigilanza sul
territorio, o di altre attività
amministrative
(TAR Umbria,
sentenza 27.01.2012 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non costituisce violazione degli
art. 7 e ss., l. n. 241/1990 l'omessa
comunicazione formale, da parte della
Soprintendenza, dell'avvio del procedimento
di controllo di legittimità e di eventuale
annullamento del parere ambientale
rilasciato ex art. 32, l. n. 47/1985,
laddove il soggetto istante sia a conoscenza
che, nel contesto della procedura di condono
da egli stesso avviata, il predetto parere
ambientale é stato doverosamente trasmesso
dall'ente subdelegato (nel caso, la
Provincia) alla Soprintendenza per il
seguito di competenza, e sia, dunque, in
grado di esercitare, in concreto, le sue
facoltà partecipative nell'ambito di tale
procedimento di controllo.
Secondo costante giurisprudenza del
tribunale adito non costituisce violazione
degli art. 7 e ss., l. n. 241/1990 l'omessa
comunicazione formale, da parte della
Soprintendenza, dell'avvio del procedimento
di controllo di legittimità e di eventuale
annullamento del parere ambientale
rilasciato ex art. 32, l. n. 47/1985,
laddove il soggetto istante sia a conoscenza
che, nel contesto della procedura di condono
da egli stesso avviata, il predetto parere
ambientale é stato doverosamente trasmesso
dall'ente subdelegato (nel caso, la
Provincia) alla Soprintendenza per il
seguito di competenza, e sia, dunque, in
grado di esercitare, in concreto, le sue
facoltà partecipative nell'ambito di tale
procedimento di controllo (TAR Umbria
Perugia, 03.02.2009, n. 35) (TAR Umbria,
sentenza 27.01.2012 n. 14 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
E' da escludere l’obbligo
giuridico dei ricorrenti alla rimozione dei
rifiuti a carico dei proprietari del terreno
indipendentemente da ogni altra indagine
sulla condotta commissiva dolosa o colposa
circa l'abbandono degli stessi.
Il Collegio ha inoltre escluso
l’esistenza di un obbligo sul proprietario
del terreno in quanto abbia omesso di
recintarlo adeguatamente ovvero abbia omesso
di vigilare diligentemente affinché i
rifiuti non fossero abbandonati e/o
depositati sul suo terreno. Ai sensi
dell’art. 841 c.c., la chiusura di un fondo
costituisce una facoltà e non un obbligo del
proprietario.
Nella diligenza ordinaria, inoltre, non
possono certamente rientrare comportamenti
inesigibili come sarebbero quelli del
costante e continuativo controllo dei
terreni da parte dei rispettivi proprietari
affinché, non vengano ivi abbandonati
rifiuti di vario genere. Diversamente
opinando, si dovrebbe pensare a un'ipotesi
di responsabilità oggettiva del proprietario
che il nostro ordinamento, a parte la norma
eccezionale dell'art. 2049 c.c.,
notoriamente ripudia, sotto il profilo sia
privatistico sia pubblicistico.
---------------
In tema di abbandono di rifiuti, la costante
giurisprudenza prevede la corresponsabilità
solidale del proprietario o dei titolari di
diritti personali o reali di godimento
sull'area ove gli stessi sono stati
abusivamente abbandonati o depositati, solo
in quanto la violazione sia imputabile a
titolo di dolo o colpa: comprendendo
qualunque soggetto che si trovi con l'area
interessata in un rapporto, anche di mero
fatto, tale da consentirgli di esercitare
una funzione di protezione e custodia
finalizzata ad evitare che l'area medesima
possa essere adibita a discarica abusiva di
rifiuti nocivi per la salvaguardia
dell'ambiente.
Secondo la giurisprudenza del tribunale
adito, confermata in linea con quella del
giudice d’appello, è da escludere l’obbligo
giuridico dei ricorrenti alla rimozione dei
rifiuti a carico dei proprietari del terreno
indipendentemente da ogni altra indagine
sulla condotta commissiva dolosa o colposa
circa l'abbandono degli stessi (TAR Umbria
17.04.2003 n. 290; 10.03.2000 n. 253;
TAR Campania-Napoli 19.03.2004 n. 3042;
TAR Trentino Alto Adige-Trento 06.12.2003 n. 292; TAR Toscana Sez. II
07.06.2001 n. 1034).
Il Collegio ha inoltre escluso
l’esistenza di un obbligo sul proprietario
del terreno in quanto abbia omesso di
recintarlo adeguatamente ovvero abbia omesso
di vigilare diligentemente affinché i
rifiuti non fossero abbandonati e/o
depositati sul suo terreno. Ai sensi
dell’art. 841 c.c., la chiusura di un fondo
costituisce una facoltà e non un obbligo del
proprietario.
Nella diligenza ordinaria, inoltre, non
possono certamente rientrare comportamenti
inesigibili come sarebbero quelli del
costante e continuativo controllo dei
terreni da parte dei rispettivi proprietari
affinché, non vengano ivi abbandonati
rifiuti di vario genere. Diversamente
opinando, si dovrebbe pensare a un'ipotesi
di responsabilità oggettiva del proprietario
che il nostro ordinamento, a parte la norma
eccezionale dell'art. 2049 c.c.,
notoriamente ripudia, sotto il profilo sia
privatistico sia pubblicistico.
Inesigibilità che, nella specie, è
ravvisabile nella stessa qualità che
caratterizzava la relazione dei ricorrenti
con il terreno all’epoca in cui,
probabilmente, si sono svolti i fatti. Di
costoro, il sig. ... era
curatore del fallimento della società
“S.E.M. Società Edilizia moderna s.p.a.”
conduttrice del terreno e la sig.ra ... acquirente dello stesso
iure successionis: entrambi non erano nella
condizione di disporre del bene come è
necessario per esercitare lo jus prohibendi
di accedere all’immobile, la cui omissione
si imputa in ultima analisi nel
provvedimento impugnato.
In tema di abbandono di rifiuti, la
costante giurisprudenza (Cons. St., sez. V,
16/07/2010, n. 4614) prevede la
corresponsabilità solidale del proprietario
o dei titolari di diritti personali o reali
di godimento sull'area ove gli stessi sono
stati abusivamente abbandonati o depositati,
solo in quanto la violazione sia imputabile
a titolo di dolo o colpa: comprendendo
qualunque soggetto che si trovi con l'area
interessata in un rapporto, anche di mero
fatto, tale da consentirgli di esercitare
una funzione di protezione e custodia
finalizzata ad evitare che l'area medesima
possa essere adibita a discarica abusiva di
rifiuti nocivi per la salvaguardia
dell'ambiente.
Nel provvedimento impugnato nulla si
afferma in merito a tale rapporto di
contiguità fra i ricorrenti e il fondo
assoggettato a suo tempo al sequestro penale
perché adibito a discarica: l’unico indizio
è quello della sua appartenenza al sig.
... padre della ricorrente ... e titolare delle società di
cui l’altro ricorrente, sig. ... era il curatore fallimentare.
Circostanza quest’ultima inidonea a
raffigurare una responsabilità anche
indiretta dei ricorrenti e la destinazione
del terreno a discarica.
Poiché nel contesto della disciplina
applicata dal Comune resistente non era
consentito imporre agli interessati un
obbligo giuridico di rimozione dei rifiuti,
il ricorso deve essere accolto con il
conseguente annullamento dell'ordinanza
impugnata.
La presente pronuncia di annullamento,
mentre esclude che i ricorrenti debbano
sopportare il costo della rimozione dei
rifiuti, non esclude che, come del resto già
precisato in altre sentenze di questo
Tribunale (TAR Umbria n. 301 del 21.05.2002 e 17.04.2003 n. 290), che lo
stesso Comune possa ordinare ai propri
agenti ad introdursi nella proprietà privata
al fine di prelevare i rifiuti, asportarli e
provvedere alla ripulitura straordinaria del
sito.
Trattandosi di area privata, a parte
gli obblighi di ordinaria e straordinaria
manutenzione sicuramente gravanti sul
proprietario del fondo, una tale
intromissione autoritativa "extra ordinem"
per la rimozione di rifiuti abbandonati da
terzi può e deve essere attuata dal Comune
nell'esercizio dei suoi specifici poteri a
tutela dell'igiene, del decoro e della
salute pubblica (TAR Umbria,
sentenza 27.01.2012 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’autorizzazione
alla installazione di impianti pubblicitari
è subordinata alla valutazione in ordine
alla sua compatibilità con il diverso
interesse pubblico generale alla ordinata
regolamentazione degli spazi pubblicitari
(che non possono essere indiscriminatamente
lasciati alla libera iniziativa privata), e,
quindi, costituisce oggetto di una specifica
disciplina, non sovrapponibile o
confondibile con quella edilizia.
Il Comune è chiamato ad esercitare, al
riguardo, un potere discrezionale, in quanto
titolare sia delle funzioni relative alla
sicurezza della circolazione (ciò che
comporta la titolarità del potere
autorizzatorio dell'installazione di
impianti pubblicitari, nel rispetto delle
prescrizioni del Codice della Strada), sia
di quelle relative all'uso del proprio
territorio, anche sotto l’aspetto dei
monumenti, dell'estetica cittadina e del
paesaggio, ben potendo individuare
limitazioni e divieti per particolari forme
pubblicitarie, in connessione ad esigenze di
pubblico interesse.
Siffatto potere, inerente la ponderazione
comparativa degli interessi coinvolti,
quali, da un lato, quelli pubblici e,
dall’altro, quello privato, alla libertà di
iniziativa economica -di cui l'attività
pubblicitaria rappresenta estrinsecazione-
si esprime, innanzitutto, nella potestà
pianificatoria e, dunque, nella potestà
regolamentare, attraverso la quale il Comune
disciplina le modalità dello svolgimento
della pubblicità, la tipologia e quantità
degli impianti pubblicitari e le modalità
per ottenere l'autorizzazione
all'installazione di questi, senza violare
l’art. 41 Cost., ma, anzi, ponendosi
nell'ambito semantico della “utilità
sociale” e nel contesto di valori
costituzionali equiordinati, quali quello
alla difesa dell'ambiente e delle valenze
estetiche del patrimonio culturale della
Nazione, riconducibili all’art. 9 della
Costituzione.
Inoltre, nei casi in cui viene richiesta
l’affissione di impianti pubblicitari
direttamente su suolo pubblico,
l’Amministrazione -nella cui disponibilità,
oltretutto, si trova il suolo stesso- è
tenuta ad espletare una valutazione
complessiva, non limitata soltanto alla mera
compatibilità dell’impianto pubblicitario
con l’interesse pubblico (come nell’ipotesi
in cui il suolo si trovi nella disponibilità
dell’interessato), ma estesa anche alla
verifica che, attraverso detto uso privato
della risorsa pubblica, si realizzino quegli
interessi collettivi, di cui
l’Amministrazione stessa è portatrice.
Invero, in questi casi, viene richiesto un
esame più approfondito e attento, che si
articola nell’ambito di un procedimento
destinato a sfociare in un provvedimento non
già meramente autorizzatorio, ma di natura
concessoria, il cui rilascio presuppone la
canalizzazione dell’attività privata
nell’alveo del pubblico interesse, e non
solo la non incompatibilità dell’una
rispetto all’altro.
In altri termini, l’installazione di mezzi
pubblicitari su suolo pubblico postula un
provvedimento di concessione dell’uso del
medesimo, non bastando a tale scopo il solo
provvedimento autorizzatorio, poiché, mentre
il procedimento autorizzatorio si esaurisce
nel sopra menzionato giudizio di "non
incompatibilità" dell’attività privata con
l’interesse pubblico, il procedimento
concessorio involve la valutazione della
conformità di tale attività con il pubblico
interesse.
Ne segue che, quando l’esposizione degli
impianti di pubblicità avviene su suolo
pubblico, l’occupazione del predetto suolo
fa sì che non si possa in alcun modo
prescindere dalla citata valutazione di
conformità, la cui complessità non consente
che si possa formare tacitamente il
provvedimento finale concessorio, in quanto
involve l’esercizio di una potestà
discrezionale, escludente l’applicabilità
del regime del silenzio-assenso.
--------------
Si deve ritenere che non sussiste un
rapporto di tipo derogatorio fra la
normativa edilizia, oggi compendiata nel
D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e la normativa per
le pubbliche affissioni di cui al D.Lgs.
15.11.1993, n. 507, giacché trattasi di
discipline differenti, avente differenti
contenuti e finalità, che concorrono nella
valutazione della medesima fattispecie ai
fini della tutela di interessi pubblici
diversi nonché ai fini della definizione di
differenti procedimenti amministrativi.
Ed invero, la normativa edilizia trova
applicazione in tutte le ipotesi in cui si
configura un mutamento del territorio nel
suo contesto preesistente sia sotto il
profilo urbanistico che sotto quello
edilizio ed entro questi limiti pertanto
assume rilevanza la violazione dei
regolamenti edilizi.
Conseguentemente, nelle ipotesi in cui la
sistemazione di una insegna o di una tabella
(cosiddetta tabellone) pubblicitaria o di
ogni altro genere quando, per le sue
consistenti dimensioni, comporti un
rilevante mutamento territoriale, è
richiesto l’assenso mediante “permesso di
costruire” e mediante semplice s.c.i.a.
negli altri casi, in coerenza con le
previsioni della normativa edilizia di cui
agli artt. 2, 6 e 7 del D.P.R. n. 380 del
2001 e succ. mod..
---------------
La violazione della normativa antisismica di
cui alla legge 02.02.1974 n. 64, posta a
tutela della pubblica incolumità nelle zone
dichiarate sismiche, non può essere derogata
dalla normativa speciale di cui al D.Lgs.
15.11.1993, n. 507 e trova applicazione,
omnicomprensivamente, ai sensi dell'art. 3,
co. 1, a "tutte le costruzioni la cui
sicurezza possa comunque interessare la
pubblica incolumità", a nulla rilevando la
natura dei materiali impiegati e delle
relative strutture: anzi, proprio l'impiego,
come nel caso di specie, di elementi
strutturali meno solidi e duraturi di quelli
in cemento ed assimilati, rende vieppiù
necessari i controlli e le cautele
prescritte ai fini preventivi in questione.
... parte ricorrente deduce, in sintesi, che
l’attività di installazione di impianti
pubblicitari non sarebbe soggetta alla
normativa in materia edilizia e, in ogni
caso, nella specie, non inciderebbe
sull’assetto del territorio, trattandosi di
impianto soggetto ad uso precario e
temporaneo, benché munito di idonea
struttura di sostegno.
Il D.Lgs. 15.11.1993 n. 507, recante
revisione ed armonizzazione dell'imposta
comunale sulla pubblicità e del diritto
sulle pubbliche affissioni, con l’art. 3,
stabilisce che il Comune è tenuto ad
adottare apposito regolamento per
l'applicazione dell'imposta, con il quale
deve disciplinare "le modalità di
effettuazione della pubblicità e può
stabilire limitazioni e divieti per
particolari forme pubblicitarie in relazione
ad esigenze di pubblico interesse" (II°
comma) e "in ogni caso determinare la
tipologia e la quantità degli impianti
pubblicitari, le modalità per ottenere il
provvedimento per l'installazione ..." (III°
comma).
L'installazione di impianti pubblicitari è
attività "contingentata", non
sussumibile nella disciplina di cui all’art.
19 della legge n. 241 del 1990, in base alla
quale l'atto di consenso, cui sia
subordinato l'esercizio di un'attività
privata, s'intende sostituito dalla denuncia
di inizio di attività da parte
dell'interessato alla pubblica
amministrazione competente, sempre che il
suo rilascio "dipenda esclusivamente
dall'accertamento dei presupposti e dei
requisiti di legge, senza l'esperimento di
prove a ciò destinate che comportino
valutazioni tecniche discrezionali, e non
sia previsto alcun limite o contingente
complessivo".
Ed invero, l’autorizzazione alla
installazione di impianti pubblicitari è
subordinata alla valutazione in ordine alla
sua compatibilità con il diverso interesse
pubblico generale alla ordinata
regolamentazione degli spazi pubblicitari
(che non possono essere indiscriminatamente
lasciati alla libera iniziativa privata), e,
quindi, costituisce oggetto di una specifica
disciplina, non sovrapponibile o
confondibile con quella edilizia.
Il Comune è chiamato ad esercitare, al
riguardo, un potere discrezionale, in quanto
titolare sia delle funzioni relative alla
sicurezza della circolazione (ciò che
comporta la titolarità del potere
autorizzatorio dell'installazione di
impianti pubblicitari, nel rispetto delle
prescrizioni del Codice della Strada), sia
di quelle relative all'uso del proprio
territorio, anche sotto l’aspetto dei
monumenti, dell'estetica cittadina e del
paesaggio, ben potendo individuare
limitazioni e divieti per particolari forme
pubblicitarie, in connessione ad esigenze di
pubblico interesse (ex plurimis: TAR
Lombardia- Brescia, Sez. I, 28.02.2008 n.
174).
Siffatto potere, inerente la ponderazione
comparativa degli interessi coinvolti,
quali, da un lato, quelli pubblici e,
dall’altro, quello privato, alla libertà di
iniziativa economica -di cui l'attività
pubblicitaria rappresenta estrinsecazione-
si esprime, innanzitutto, nella potestà
pianificatoria e, dunque, nella potestà
regolamentare, attraverso la quale il Comune
disciplina le modalità dello svolgimento
della pubblicità, la tipologia e quantità
degli impianti pubblicitari e le modalità
per ottenere l'autorizzazione
all'installazione di questi, senza violare
l’art. 41 Cost., ma, anzi, ponendosi
nell'ambito semantico della “utilità
sociale” e nel contesto di valori
costituzionali equiordinati, quali quello
alla difesa dell'ambiente e delle valenze
estetiche del patrimonio culturale della
Nazione, riconducibili all’art. 9 della
Costituzione (conf.: Corte Cost. sent.
17.07.2002 n. 355).
Inoltre, nei casi in cui viene richiesta
l’affissione di impianti pubblicitari
direttamente su suolo pubblico,
l’Amministrazione -nella cui disponibilità,
oltretutto, si trova il suolo stesso- è
tenuta ad espletare una valutazione
complessiva, non limitata soltanto alla mera
compatibilità dell’impianto pubblicitario
con l’interesse pubblico (come nell’ipotesi
in cui il suolo si trovi nella disponibilità
dell’interessato), ma estesa anche alla
verifica che, attraverso detto uso privato
della risorsa pubblica, si realizzino quegli
interessi collettivi, di cui
l’Amministrazione stessa è portatrice.
Invero, in questi casi, viene richiesto un
esame più approfondito e attento, che si
articola nell’ambito di un procedimento
destinato a sfociare in un provvedimento non
già meramente autorizzatorio, ma di natura
concessoria, il cui rilascio presuppone la
canalizzazione dell’attività privata
nell’alveo del pubblico interesse, e non
solo la non incompatibilità dell’una
rispetto all’altro.
In altri termini, l’installazione di mezzi
pubblicitari su suolo pubblico postula un
provvedimento di concessione dell’uso del
medesimo, non bastando a tale scopo il solo
provvedimento autorizzatorio, poiché, mentre
il procedimento autorizzatorio si esaurisce
nel sopra menzionato giudizio di "non
incompatibilità" dell’attività privata
con l’interesse pubblico, il procedimento
concessorio involve la valutazione della
conformità di tale attività con il pubblico
interesse.
Ne segue che, quando –come nel caso di
specie– l’esposizione degli impianti di
pubblicità avviene su suolo pubblico,
l’occupazione del predetto suolo fa sì che
non si possa in alcun modo prescindere dalla
citata valutazione di conformità, la cui
complessità non consente che si possa
formare tacitamente il provvedimento finale
concessorio (TAR Lombardia, Milano, Sez. IV,
26.07.2005, n. 3421), in quanto involve
l’esercizio di una potestà discrezionale,
escludente l’applicabilità del regime del
silenzio-assenso (conf.: Corte Cost.
27.07.1995 n. 408).
In coerenza con i principi rivenienti
dall’art. 41 Cost., non può neanche
prescindere dalla tutela del catalogo dei
diritti e delle libertà della persona,
costituzionalmente garantiti, che delineano
lo "status civitatis" comune
all'intera Repubblica italiana.
A quest'ultimo ambito vanno certamente
ricondotte le disposizioni, sostanzialmente
afferenti alla materia urbanistica ed
edilizia (indipendentemente dalla
collocazione formale) che, al fine di
garantire la generale salubrità degli
ambienti di vita e di lavoro (ferme restando
le discipline relative a specifiche attività
e di tutela dei lavoratori), impongono
condizioni minime per l'abitabilità ed
agibilità degli edifici e rapporti minimi di
aerazione ed illuminazione dei locali, quali
requisiti di sicurezza per la loro
utilizzazione, che non consentono che i
manufatti pubblicitari possano oscurare le
facciate degli edifici munite di porte e
finestre.
In tale ottica, si deve ritenere che non
sussiste un rapporto di tipo derogatorio fra
la normativa edilizia, oggi compendiata nel
D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e la normativa per
le pubbliche affissioni di cui al D.Lgs.
15.11.1993, n. 507, giacché trattasi di
discipline differenti, avente differenti
contenuti e finalità, che concorrono nella
valutazione della medesima fattispecie ai
fini della tutela di interessi pubblici
diversi nonché ai fini della definizione di
differenti procedimenti amministrativi.
Ed invero, la normativa edilizia trova
applicazione in tutte le ipotesi in cui si
configura un mutamento del territorio nel
suo contesto preesistente sia sotto il
profilo urbanistico che sotto quello
edilizio ed entro questi limiti pertanto
assume rilevanza la violazione dei
regolamenti edilizi.
Conseguentemente, nelle ipotesi in cui la
sistemazione di una insegna o di una tabella
(cosiddetta tabellone) pubblicitaria o di
ogni altro genere quando, per le sue
consistenti dimensioni, comporti un
rilevante mutamento territoriale, è
richiesto l’assenso mediante “permesso di
costruire” e mediante semplice s.c.i.a.
negli altri casi, in coerenza con le
previsioni della normativa edilizia di cui
agli artt. 2, 6 e 7 del D.P.R. n. 380 del
2001 e succ. mod..
Analogamente, la violazione della normativa
antisismica di cui alla legge 02.02.1974 n.
64, posta a tutela della pubblica incolumità
nelle zone dichiarate sismiche, non può
essere derogata dalla normativa speciale di
cui al D.Lgs. 15.11.1993, n. 507 e trova
applicazione, omnicomprensivamente, ai sensi
dell'art. 3, co. 1, a "tutte le
costruzioni la cui sicurezza possa comunque
interessare la pubblica incolumità", a
nulla rilevando la natura dei materiali
impiegati e delle relative strutture: anzi,
proprio l'impiego, come nel caso di specie,
di elementi strutturali meno solidi e
duraturi di quelli in cemento ed assimilati,
rende vieppiù necessari i controlli e le
cautele prescritte ai fini preventivi in
questione.
Del resto, la normativa sismica ha una
portata ben più amia rispetto a quella di
cui alla legge 05.11.1971 n. 1086,
concernente i soli casi inerenti opere in
conglomerato cementizio armato.
Orbene, trattandosi, nel caso di specie, di
affissione di impianti pubblicitari
direttamente su suolo pubblico,
l’Amministrazione è tenuta ad espletare una
valutazione complessiva, non limitata
soltanto alla mera compatibilità
dell’impianto pubblicitario con l’interesse
pubblico (come nell’ipotesi in cui il suolo
si trovi nella disponibilità
dell’interessato), ma estesa anche alla
verifica che, attraverso detto uso privato
del suolo pubblico possa determinare la
realizzazione di interessi collettivi, per
cui il cui rilascio dell’atto concessorio
presuppone la canalizzazione dell’attività
privata nell’alveo del pubblico interesse, e
non solo un mero giudizio di compatibilità
fra i contrapposti interessi
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 26.01.2012 n. 58 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Sentenza
della Cassazione sull'utilizzo degli spazi.
Vietato pregiudicarne la destinazione. Parti
comuni, di tutti e nessuno.
Ogni condomino deve poter godere dei beni in
condivisione.
Ciascun condomino può usare le parti comuni
dell'edificio nel modo che ritenga più
opportuno, ma a condizione che l'utilizzo
concreto delle stesse non ne pregiudichi la
naturale destinazione e consenta anche agli
altri comproprietari di godere del bene.
Lo
ha ribadito la II Sez. civile della
Corte di Cassazione con la
sentenza
23.01.2012 n. 869 nella quale gli ermellini
hanno ritenuto legittimo l'utilizzo di una
parte del cortile condominiale per
l'apposizione di tavoli e sedie da bar.
La decisione della Suprema corte. Nel caso
in questione la società proprietaria di
alcuni locali siti al piano terra di un
edificio condominiale e adibiti a bar
dall'azienda conduttrice aveva impugnato
dinanzi al giudice di pace la deliberazione
assembleare con cui il condominio, revocando
uno specifico permesso assentito in passato,
aveva vietato ai gestori dell'esercizio
commerciale di continuare a occupare il
cortile con tavoli e sedie destinati alla
clientela. Il giudice di pace aveva respinto
l'impugnazione, giudicandola infondata. Il
ricorso in appello aveva invece portato il
tribunale a capovolgere la situazione,
dichiarando l'illegittimità della delibera
condominiale. Di qui il ricorso in
Cassazione da parte del condominio, che
aveva nuovamente contestato l'utilizzo
improprio del cortile da parte dei gestori
del bar, giudicato tale da comportare
l'impossibilità per gli altri comproprietari
di farne parimenti uso, oltre a presentare
due ulteriori motivi di doglianza.
Con il primo motivo, infatti, il condominio
aveva nuovamente lamentato l'errata
presentazione del ricorso al giudice di pace
invece che al tribunale del luogo in cui era
situato l'immobile, evidenziando quindi un
problema di competenza. Invero, come già
stabilito dai giudici di merito e ribadito
dalla Suprema corte, nel caso di specie, pur
essendo stata impugnata una delibera
assembleare, l'oggetto del contendere era
rappresentato dalle modalità di utilizzo di
un bene comune, ovvero del cortile
condominiale. Si tratta di un tipo di
controversia che rientra pacificamente nella
previsione di cui all'art. 7, comma 3, n. 2,
del codice di procedura civile, che appunto
assegna alla competenza funzionale del
giudice di pace questo tipo di liti (come
confermato, in una fattispecie analoga,
dalla stessa Cassazione con sentenza n. 7295
del 28/06/1995).
Con il secondo motivo di ricorso, invece, il
condominio aveva riproposto un'eccezione di
carenza di legittimazione attiva in capo
alla società proprietaria dei locali
condominiali, sul presupposto che, essendo
gli stessi stati concessi in locazione a un
soggetto terzo, soltanto quest'ultimo
avrebbe potuto legittimamente impugnare la
deliberazione assembleare.
Anche in questo caso la Suprema corte ha
però avuto gioco facile nel ribadire che,
stante la previsione di cui all'art. 1337
c.c., in merito al potere di impugnativa
della volontà dell'assemblea, l'unico caso
nel quale è ammessa la legittimazione attiva
del conduttore è quello relativo al servizio
di riscaldamento condominiale (e, per
analogia, a quello per il condizionamento
dell'aria, se comune), come già chiarito dai
medesimi giudici di legittimità con una
precedente sentenza del 1993 (n. 8755 del 18
agosto).
Quindi, giungendo al terzo motivo di
ricorso, relativo all'utilizzo improprio del
cortile condominiale da parte dei conduttori
dei locali siti al piano terreno, la seconda
sezione civile della Cassazione, vista anche
la mancanza di specificità del motivo, così
come articolato dal condominio ricorrente,
si è limitata a ribadire il principio di
diritto tradizionale di cui all'art. 1102
c.c., norma dettata dal legislatore in
materia di comunione ma applicabile anche in
materia condominiale giusto lo specifico
rimando di cui all'art. 1139 c.c.
In particolare, i giudici di legittimità
hanno ritenuto che la collocazione di tavoli
e sedie per i clienti in una porzione
limitata del cortile condominiale
rappresenti un uso proprio del bene comune,
di per sé non tale da impedire il pari uso
del medesimo da parte degli altri
comproprietari, salve sempre le specificità
del singolo caso concreto.
---------------
I limiti della legge e quelli del
regolamento interno.
L'uso delle parti comuni da parte di un
condomino può avvenire in modo particolare e
diverso da quello praticato dagli altri
condomini purché siano rispettati non solo i
limiti previsti dalla legge ma anche quelli
indicati nel regolamento di condominio,
documento che spesso è ignorato o poco
conosciuto dai comproprietari.
I limiti di legge. Il condomino per legge
non può utilizzare parti comuni in modo tale
da rendere impossibile o, comunque,
alterarne in modo apprezzabile la funzione
originaria. È chiaro, ad esempio, che è
ammissibile collocare nel pianerottolo uno
zerbino o una pianta ornamentale, mentre è
illecito occupare detto spazio con scarpiere
o oggetti ornamentali di dimensioni tali da
pregiudicare l'accesso al vano scale o
all'ascensore o costringere i vicini a
disagevoli movimenti in caso di trasloco.
Il
singolo condomino, non può pregiudicare né
la stabilità dell'edificio né il suo decoro
architettonico ma, entro questi rigorosi
limiti, può certamente modificare lievemente
i muri perimetrali. In ogni caso
l'alterazione della destinazione della cosa
comune può essere provocata non solo dal
mutamento della funzione, come nei casi
sopraddetti, ma anche dal suo
deterioramento.
I limiti del regolamento di condominio.
L'utilizzazione da parte del singolo
condomino delle cose comuni è legittima
purché non alteri la destinazione del bene e
non impedisca agli altri condomini di farne
un pari uso secondo il loro diritto: tale
regime legale delle cose comuni può essere
sottoposto a una diversa o più rigorosa
disciplina da parte del regolamento di
condominio.
Così, ad esempio, se il regolamento
proibisce il parcheggio nel cortile,
destinato a spazio giochi, non è possibile
nemmeno una breve sosta in detta area.
In ogni caso è possibile che una
disposizione del regolamento condominiale
vieti qualsiasi modifica delle cose comuni
nell'interesse del singolo condomino senza
la preventiva autorizzazione.
Tale norma, che prevede un limite all'uso
delle parti comuni più rigoroso rispetto
alla legge, ha carattere contrattuale e, se
predisposta dall'originario costruttore
dell'edificio, deve essere accettata dai
condomini nei rispettivi atti di acquisto
ovvero con atti separati; se invece è
deliberata dall'assemblea, la relativa
deliberazione deve essere approvata
all'unanimità, cioè da tutti i condomini,
nessuno escluso (articolo ItaliaOggi Sette del
20.02.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Procedimento amministrativo.
P.A., no al silenzio-rifiuto de relato.
Il Tribunale Amministrativo
Regionale per la Calabria ha precisato e ben
chiarito che le regole di correttezza e
buona amministrazione, cui è tenuta la
Pubblica Amministrazione, trovano
applicazione anche nel caso del silenzio
rifiuto che si realizza ogni qualvolta
l'Amministrazione non assume provvedimenti
espressi riscontrando l'istanza del
cittadino. Nel caso di specie non
è valso
richiamo ad altro procedimento, in essere
presso la stessa Amministrazione e connesso
col primo per il quale vi era stato
riscontro, a giustificare e legittimare il
silenzio serbato dalla Amministrazione su
quel procedimento. Il silenzio rifiuto è
ormai codificato ed oggetto di possibili
contenziosi innanzi al Giudice
Amministrativo.
Una chiara esemplificazione di ciò è offerta
dal TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, con la
sentenza 17.01.2012 n. 32.
La questione dedotta in giudizio è il
silenzio (inquadrabile come silenzio-rifiuto da parte della Pubblica
Amministrazione, nel caso di specie il
Dipartimento Ambiente della Regione),
serbato su una richiesta di privato
finalizzata all'ottenimento di
un'Autorizzazione Ambientale Integrata per
un progetto di ampliamento di una
piattaforma di smaltimento rifiuti non
pericolosi con selezione dei rifiuti urbani,
nonché altre lavorazioni.
Non alcun riscontro, né alcun esito vi è
stato sulla detta richiesta da parte
dell'Amministrazione competente.
Chiarisce parte ricorrente di essere in
possesso di decreto di compatibilità
ambientale per il suddetto progetto,
ottenuto ad esito e conclusione di
procedimento di VIA, sin dall'anno 2007 e
per il quale è in corso, presso l'Ente
Regione, procedimento per la concessione
della proroga dell'efficacia da tre a cinque
anni.
L'Ente Regione si è costituita per resistere
in giudizio adducendo a sostegno e
giustificazione del proprio operato che vi
era stata nota di comunicazione al
richiedente, sui motivi ostativi al rilascio
della proroga, quindi tale situazione
avrebbe escluso l'esame del procedimento di
ampliamento della piattaforma.
Il Collegio, a tal proposito, ha precisato,
dissentendo dalle difese di parte
resistente, affermando che due diversi
procedimenti devono avere due diverse
istruttorie e due procedimenti espressi di
conclusione.
Tanto, preliminarmente, precisato la Sezione
è passata all'esame approfondito sul
contenuto del merito del ricorso ed ha
evidenziato quanto segue: - anche in assenza
di disposizioni normative l'obbligo di far
conoscere al cittadino istante il contenuto
e le ragioni delle proprie determinazioni
sussiste in tutti i casi in cui, in
relazione alla correttezza ed alla buona
amministrazione, sorge per il privato una
legittima aspettativa (a sostegno
dell'assunto la sentenza cita il Consiglio
di Stato -Sezione Quinta- Dec. n. 1331 del 22.11.1991).
Il Giudicante, poi, si è soffermato sul
principio giuridico del silenzio - rifiuto
della Pubblica Amministrazione nel "rito
speciale" disciplinato dall'art. 117 del c.p.a., che è una procedura finalizzata ad
accertare se il silenzio della Pubblica
Amministrazione infrange l'obbligo di
adottare il provvedimento esplicito.
Scopo, quindi, della previsione di legge è
quello di assicurare al privato una
decisione nel merito di quanto dallo stesso
chiesto e non l'inerzia, l'inattività e
l'incertezza della Pubblica Amministrazione.
La Sentenza è ricca in questo caso di
citazione di precedenti giurisdizionali che
sono:
- Consiglio di Stato - Sezione Sesta - Dec.
n. 3279 del 10.06.2003;
- Consiglio di Stato - Sezione Quinta - Dec.
n. 6528 del 12.10.2004;
- Consiglio di Stato - Sezione Quinta - Dec.
n. 1913 del 26.04.2005;
- Consiglio di Stato - Sezione Quinta - Dec.
n. 457 del 05.02.2007.
Alla luce di quanto avanti riepilogato il
Giudicante ha ritenuto l'illegittimità
dell'inerzia della Amministrazione regionale
che sull'istanza di ampliamento della
piattaforma non ha espresso alcun
provvedimento, né ha realizzato
comunicazione circa l'attività istruttoria,
precisando che non può ascriversi alcuna
valenza ad atti di altro procedimento, come
asserito da parte resistente.
Il Tribunale Amministrativo Regionale ha
quindi accolto il ricorso ed oltre a
statuire la declaratoria dell'illegittimità
del silenzio serbato dalla Pubblica
Amministrazione ha, inoltre, imposto
l'obbligo, ordinando alla Regione
soccombente, di provvedere sull'istanza di
parte ricorrente nel termine di trenta
giorni dalla notifica della sentenza, a
mezzo determinazione del Dirigente
Responsabile del Dipartimento interessato (commento tratto da www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
basta la mancanza del certificato di
agibilità per consentire al Comune di
disporre la chiusura di un locale
commerciale.
Sulla mancanza del certificato di cui
all’art. 24 del DPR n. 380/2001 -la cui
funzione è quella di comprovare la
sussistenza delle condizioni di sicurezza,
igiene, salubrità, risparmio energetico
degli edifici e degli impianti negli stessi
installati- il giudice amministrativo nella
sentenza in esame ha richiamato
l'orientamento secondo cui prima di disporre
la chiusura dei locali commerciali, il
Comune deve completare speditamente la
procedura intesa al rilascio del certificato
di agibilità e, solo ove l’esito favorevole
di questo si sia rivelato impossibile, può e
deve disporre la cessazione dell’attività.
Ciò, non già per la ragione formale della
mancanza del certificato, bensì per quella
sostanziale dell'impossibilità di
conseguirlo per la carenza dei presupposti
oggettivi (TAR Campania Napoli, sez. III,
18.01.2011, n. 275) (TAR Campania-Napoli,
Sez. III,
sentenza 16.01.2012 n. 189 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Abusi edilizi - Obbligo della
P.A. di adottare provvedimenti repressivi
anche a distanza di tempo - Permane.
2. Abusi edilizi -
Potere sanzionatorio della P.A. in seguito
ad esaurimento del potere inibitorio -
Permane - Silenzio della P.A. su istanza
tesa a provocare intervento repressivo a
fronte di lavori abusivi conclamati tali -
Illegittimità.
1. A seguito dell'accertamento di episodi di
abusivismo la P.A. è obbligata ad adottare i
provvedimenti repressivi previsti
dall'ordinamento, mantenendo intatto nel
tempo il potere sanzionatorio per verificare
che i fatti denunciati e le opere eseguite
siano conformi alle fattispecie
regolamentari esistenti (cfr. Cons. di
Stato, sent. n. 986/2011).
2. La P.A., pur dopo l'esaurimento del
potere inibitorio, può sempre comunque
intervenire per sanzionare l'esistenza di
opere abusivamente realizzate ed ordinare in
proposito ciò che ritiene legittimo ed
opportuno per la risistemazione della
fattispecie -a seconda dei casi, ordine di
demolizione, pagamento di sanzione
pecuniaria, richiesta di permesso di
costruire, ecc.- (cfr. Cons. di Stato, sent.
n. 513/2008): deve, pertanto, ritenersi
impugnabile il silenzio-inadempimento
serbato dalla P.A. comunale su un'istanza
tesa a provocare un intervento repressivo, a
fronte di lavori abusivi eseguiti da
proprietari confinanti e conclamati tali a
seguito della revoca in autotutela del
permesso di costruire in precedenza
rilasciato dall'amministrazione
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.11.2011 n.
2899 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
1. Ricorso
giurisdizionale - Legittimazione attiva -
Comune - Ente esponenziale di interessi
della collettività - Sussiste - Condizioni.
2. Ricorso giurisdizionale - Legittimazione
attiva - Comune - Ente esponenziale di
interessi della collettività - In caso di
vicinanza di impianto di consistenti
dimensioni preposto alla produzione di
energia elettrica in Comune finitimo -
Legittimazione ad agire - Sussiste.
3. Ricorso giurisdizionale - Legittimazione
attiva - Comune - Ente esponenziale di
interessi della collettività - Condizioni -
Mera utilità ipotetica ed eventuale -
Legittimazione ad agire - Non sussiste -
Vicinitas - E' insufficiente.
1. La legittimazione a ricorrere avverso
provvedimenti di altra P.A. spetta al
Comune, quale ente esponenziale della
comunità municipale, in tutti i casi in cui
agisca a tutela di interessi collettivi,
purché si tratti di interesse differenziato
e qualificato, che ruota attorno
all'incidenza sul territorio comunale dei
provvedimenti impugnati.
E ciò, con
l'ulteriore precisazione che, nel caso in
cui la legittimazione sia ancorata alla vicinitas ed il Comune agisca in via
surrogatoria degli interessi dei cittadini
residenti nel proprio territorio, la
legittimazione del Comune, dovendo
modellarsi su quella ordinariamente
spettante ai soggetti surrogati, postula la
prospettazione di concrete ripercussioni sul
territorio, in relazione alle quali i
ricorrenti sono in posizione qualificata
(cfr. Cons. di Stato, sent. n. 492/2002, n.
98/2002; TAR Milano, sent. n. 383/2011,
n. 90/2011; Cons. di Stato, sent. n.
1548/2008, n. 6657/2002).
2. La vicinanza di un impianto di
consistenti dimensioni preposto alla
produzione di energia elettrica, radica in
capo al comune finitimo la legittimazione ad
agire, poiché essa non può essere
subordinata alla produzione di una prova
puntuale della concreta pericolosità
dell'impianto, reputandosi sufficiente la
prospettazione delle temute ripercussioni su
un territorio comunale collocato nelle
immediate vicinanze della centrale da
realizzare (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
3263/2004; TAR Roma, sent. n. 5481/2005;
TAR Bari, sent. n. 1098/2003).
3. Nel caso in cui l'utilità che il Comune
aspiri a conseguire dall'annullamento di
piani attuativi di altro Comune finitimo sia
meramente ipotetica ed eventuale -e da tali
piani non derivi la localizzazione di opere
che possano avere ripercussioni negative sul
Comune ricorrente- non è sufficiente la
condizione della vicinitas per
configurare in capo al Comune la
legittimazione ad agire.
Nel caso di specie, non sono stati ritenuti
sufficienti a configurare la legittimazione
ad agire in capo al Comune ricorrente le
future implicazioni derivanti dai piani
attuativi del comune finitimo, consistenti
nell'inevitabile incremento di popolazione
producibile dagli stessi, destinata a
riversarsi anche sulle proprie strade, sui
propri parchi o sulle scuole convenzionate
tra i Comuni viciniori (cfr. Cons. di Stato,
sent. n. 9537/2010, n. 5244/2009; TAR
Venezia, n. 265/2011; TAR Brescia, sent. n.
2238/2009)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.11.2011 n.
2898 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Abuso edilizio - Onere della
prova - A carico dell'autore - Sussiste - Ratio.
2. Abuso edilizio
- Onere della prova - Autodichiarazione
allegata alla domanda di condono edilizio -
Natura - Principio di prova.
3. Abuso edilizio
- Ingiunzione di demolizione - Soggetti
passivi - Ingiunzione verso il proprietario
non autore dell'abuso - Legittimità.
1. In materia di ripartizione dell'onere
della prova, rispetto al profilo specifico
della data di realizzazione delle opere da
sanare, l'onere grava sul richiedente la
sanatoria: ciò, perché, mentre la P.A. non è
normalmente in grado di accertare la
situazione edilizia di tutto il proprio
territorio alla data indicata dalla
normativa sul condono, colui che richiede la
sanatoria può, invece, fornire qualche
documentazione da cui si desuma che l'abuso
sia stato effettivamente realizzato entro la
data predetta, come ad es. fatture,
ricevute, bolle di consegna, relative
all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto
dei materiali.
Pertanto, colui che ha
commesso l'abuso non può trasferire il
suddetto onere in capo alla P.A. qualora non
sia in grado di fornire elementi e documenti
atti a sostenere la richiesta legittima di
condono edilizio (cfr. Cons. di Stato, sent.
n. 752/2011; TAR Milano, sent. n.
1003/2011, n. 94/2011, n. 980/2005).
2. In materia di ripartizione dell'onere
della prova, rispetto al profilo specifico
della data di realizzazione delle opere da
sanare, l'autodichiarazione del privato
allegata alla domanda di condono edilizio,
attestante la ultimazione delle opere
abusive entro la data prevista dalla legge,
non presenta valenza probatoria
privilegiata, bensì costituisce
esclusivamente un principio di prova,
destinato a cedere in presenza di più
consistenti elementi probatori in possesso
della P.A. (cfr. TAR Milano, sent. n.
1003/2011).
3. L'ordine di demolizione del manufatto
abusivo è legittimamente adottato nei
confronti del proprietario dell'immobile
indipendentemente dall'essere egli stato
anche autore dell'abuso, salva la facoltà
del medesimo di far valere, sul piano
civile, la responsabilità, contrattuale o
extracontrattuale, del proprio dante causa
(cfr. Cassaz. Pen., sent. n. 39322/2009)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 22.11.2011 n.
2829 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA -
URBANISTICA:
1. Ricorso
amministrativo - Legittimazione e interesse
a ricorrere - Ricorso avverso piani
attuativi - Condizioni - Pregiudizio
specifico e interesse concreto, attuale ed
immediato - Necessità.
2. Ricorso amministrativo - Legittimazione e
interesse a ricorrere - Ricorso avverso
provvedimenti in materia edilizia -
Possibilità di ricorrere per "chiunque" -
Condizioni - Situazione di stabile
collegamento con la zona interessata dal
provvedimento - Necessità.
3. Ricorso amministrativo - Legittimazione e
interesse a ricorrere - Ricorso avverso
piani urbanistici - Condizioni - Vicinitas -
Non sufficienza - Effettività del danno -
Necessità.
1. In materia di impugnazione di piani
attuativi, la sussistenza della legitimatio
ad causam postula la prospettazione di
concrete ripercussioni sul territorio, in
relazione alle quali il ricorrente deve
porsi in una posizione qualificata: infatti,
la legittimazione e l'interesse ad agire
devono attenere ad una situazione personale
e differenziata, nonché ad un interesse
concreto, attuale ed immediato di cui il
ricorrente deve essere portatore diretto
(cfr. Cons. di Stato, sent. n. 486/2011).
2. La possibilità riconosciuta a "chiunque"
di ricorrere avverso i provvedimenti in
materia edilizia, ex art. 31, comma 9, Legge
n. 1150/1942, come modificato dall'art. 10,
L. 06.08.1967 n. 765, deve essere intesa
nel senso di consentire l'impugnativa
soltanto a chi si trovi in una situazione di
stabile collegamento con la zona, data dalla
residenza, dal possesso o detenzione di
immobili o da altro titolo di collegamento
con l'ambito territoriale interessato (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 1189/2010, n.
9301/2009).
3. Ai fini della legittimazione
all'impugnazione di piani urbanistici, anche
attuativi, è necessario che l'esponente
fornisca la prova non solo della vicinanza
del proprio fondo a quello oggetto del
piano, ma anche dell'effettività del danno
derivante dall'intervento urbanistico;
quanto all'incisività dell'intervento, essa
non può di per sé, in mancanza di altri
elementi, assurgere a prova del concreto
nocumento a carico degli esponenti (cfr. TAR
Milano, sent. n. 90/2011, n. 1551/2008;
Cons. di Stato, sent. n. 1548/2008)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 22.11.2011 n.
2824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
1. Opere strategiche -
Normativa applicabile - E' disciplina
speciale - Differenze dal procedimento
ordinario - Possibilità di partecipazione di
soggetti privati - Non sussiste.
2. Opere pubbliche - Valutazione di impatto
ambientale - Finalità - Realizzazione della
migliore mediazione possibile tra le
esigenze funzionali dell'opera e l'impatto
che la sua esecuzione effettivamente
produce.
3. Opere strategiche - Valutazione di
impatto ambientale - Oggetto della
valutazione - Progetto preliminare -
Conseguenze.
4. Opere strategiche - Valutazione di
impatto ambientale - Necessità di nuovo
procedimento di V.I.A. in sede di progetto
definitivo - Non sussiste.
1. Il procedimento delle opere strategiche,
disciplinato dalla normativa speciale -in
particolare art. 3, D.Lgs. n. 190/2002
dettato in attuazione della Legge 443/2001
per la realizzazione delle infrastrutture e
degli insediamenti produttivi strategici di
interesse nazionale, norma poi abrogata
dall'art. 256, D.Lgs. 12.04.2006-
diverge significativamente dall'ordinario
procedimento, in quanto non è prevista
alcuna forma di partecipazione dei soggetti
privati; le maggiori differenze attengono,
poi, al progetto preliminare, che (i) deve
evidenziare tutta una serie di elementi
oltre a quanto previsto nell'art. 16 della
legge quadro, (ii) non è sottoposto a
conferenza di servizi, (iii) comporta
l'accertamento della compatibilità
ambientale, (iv) viene a comportare un
assoggettamento di tutti gli immobili in cui
è localizzata l'opera al vincolo preordinato
all'esproprio ai sensi dell'art. 10 D.P.R.
327/2001, con variazione automatica degli
strumenti urbanistici vigenti.
2. La valutazione dell'impatto ambientale,
quale prevista nelle indicate direttive
comunitarie n. 337/85 CEE e n. 11/97/CE e
dalla normativa interna di relativo
recepimento, è specificamente finalizzata
all'individuazione, descrizione e
quantificazione degli effetti che un
determinato progetto, opera o attività
potrebbero avere sull'ambiente: la procedura
tende ad accertare la sostenibilità
ambientale degli interventi, verificando,
per il singolo progetto, il suo inserimento
ottimale nel territorio e realizzando la
migliore mediazione possibile tra le
esigenze funzionali dell'opera e l'impatto
che la sua esecuzione effettivamente
produce.
3. Per le opere strategiche la VIA si svolge
sul progetto preliminare e non su quello
definitivo: è, quindi, nel primo livello di
progettazione che devono essere individuati
gli elementi che possono avere una incidenza
negativa sull'ambiente, in modo da poter
adeguare il progetto definitivo. Il tutto,
al fine di prevenire il danno ambientale,
con il passaggio da un sistema di
ripristino, a valle, del danno medesimo ad
un sistema di previsione-prevenzione, a
monte, dello stesso nella gestione del
territorio e delle risorse naturali.
4. Poiché per le infrastrutture strategiche
la procedura V.I.A. viene effettuata sul
progetto preliminare, in sede di progetto
definitivo la Commissione competente deve
limitarsi a verificare che il progetto
definitivo abbia rispettato le prescrizioni
contenute nel parere di compatibilità
ambientale, ma non viene previsto in alcun
caso un nuovo procedimento di V.I.A. (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 22.11.2011 n.
2822 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Legittimazione ad agire
delle associazioni ambientaliste -
Presupposti - Possibilità di fare valere
profili di illegittimità non attinenti al
profilo ambientale - Non sussiste.
Le associazioni ambientali sono
legittimate ad impugnare atti amministrativi
ritenuti illegittimi e lesivi degli
interessi sostanziali degli associati,
incidenti sull'ambiente, per profili
relativi a questi ultimi aspetti: pertanto,
non solo il provvedimento da esse impugnato
deve avere una diretta e immediata rilevanza
ambientale, ma devono essere dedotte censure
che concernono l'assetto normativo di tutela
dell'ambiente o la violazione di norme poste
a salvaguardia dell'ambiente.
Ciò porta ad
escludere la possibilità per una
associazione ambientale, già titolare di una
legittimazione ex lege per la tutela
dell'ambiente, di poter fare valere profili
di illegittimità degli atti impugnati che
non attengono appunto al profilo ambientale
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 22.11.2011 n.
2822 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Conflitto di interessi
degli amministratori locali - Dovere di
astensione - Quando è configurabile -
Stretta correlazione fra la previsione
urbanistica e lo specifico e particolare
interesse dell'amministratore o del suo
parente o affine - Necessità.
Ai sensi dell'art. 78, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, Testo Unico degli Enti
Locali, gli amministratori locali -nel caso
di specie i consiglieri comunali- devono
astenersi dal prendere parte alla
discussione e alla votazione di delibere
riguardanti interessi propri o di loro
parenti o affini sino al quarto grado:
tuttavia, ai fini dell'astensione, si
ritiene debba essere provata una stretta
correlazione fra la previsione urbanistica e
lo specifico e particolare interesse
dell'amministratore o del suo parente o
affine, per cui meri vantaggi indirettamente
ottenibili dalla deliberazione non
rappresentano un ostacolo alla
partecipazione ed alla votazione da parte
dell'amministratore stesso.
Tale
interpretazione restrittiva dell'art. 78 è
giustificata con la necessità di evitare,
soprattutto nei piccoli comuni, la
sostanziale paralisi dell'azione
amministrativa che deriverebbe da
un'interpretazione esageratamente
formalistica del summenzionato obbligo di
astensione (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
3663/2011, 133/2011, 6875/2010; TAR
Milano, sent. n. 4750/2009; TAR Catanzaro,
sent. n. 1386/2004)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 22.11.2011 n.
2821 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Decreto di occupazione
d'urgenza a seguito di dichiarazione di
urgenza ed indifferibilità dell'opera -
Motivazione - Non necessita.
In caso di intervenuta dichiarazione di
urgenza ed indifferibilità dell'opera, il
decreto di occupazione d'urgenza dei fondi
oggetto della procedura espropriativa si
pone quale ordinaria conseguenza, non
necessitando quindi di specifica ed
analitica motivazione, avendo la P.A., in un
precedente atto della procedura
espropriativa, già individuato le ragioni di
urgenza (cfr. TAR Catanzaro, sent. n.
312/2011; TAR Milano, sent. n. 101/2011)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 22.11.2011 n.
2821 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ricorso
amministrativo - Legittimazione e interesse
a ricorrere - Vicinitas - Insufficienza -
Pregiudizio specifico - Necessità.
La
vicinitas può legittimare un ricorso
solo qualora per effetto della realizzazione
della contestata costruzione la situazione,
anche urbanistica, dei luoghi assuma
caratteristiche tali da configurare una
pregiudizievole alterazione del preesistente
assetto edilizio ed urbanistico, che il
ricorrente intende invece conservare:
l'esistenza della vicinitas abilita, dunque,
il soggetto ad agire per il ripristino delle
norme edilizie ed urbanistiche che assume
violate, a condizione che vi sia un
interesse al mantenimento del preesistente
assetto edilizio (cfr. TAR Milano, sent.
n. 1244/2011, 90/2011; TAR Trento, sent. n.
80/2011)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 22.11.2011 n.
2811 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Parti comuni - Area
dell'appartamento a piano terra - Non è
parte comune - Area di sedime sottostante
l'edificio condominiale - E' parte comune.
In materia di condominio e parti comuni,
la parte comune del condominio non è l'area
dell'appartamento del piano terra, bensì
l'area di terreno sita in profondità su cui
posano le fondamenta dell'immobile, cioè
l'area di sedime sottostante l'edificio
condominiale (cfr. Corte d'Appello, Roma,
sent. n. 3354/2008; Cass. Civ., sent. n.
6921/2001)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 22.11.2011 n.
2811 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso agli atti -
Pareri o relazioni legali riservati -
Possibilità di accesso - Soltanto se posti
alla base del provvedimento finale.
I pareri legali o le relazioni legali
riservate sono suscettibili di accesso
soltanto se posti alla base del
provvedimento finale, costituendone parte
integrante della motivazione: in caso
contrario sono sottratti all'accesso atti
(cfr. Cons. di Stato, sent. n. 3812/2011 e
n. 2163/2004; TAR Catania, sent. n.
658/2011; TAR Napoli, sent. n. 5264/2007)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 18.11.2011 n.
2788 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
1. Gara d'appalto -
Requisiti di partecipazione - Potere di
riesame - Non fa venire meno - Avvicendarsi
delle fasi .
2. Gara d'appalto - Annullamento
aggiudicazione - Intervento in autotutela -
Ammesso.
1. L'avvicendarsi delle diverse fasi della
gara non preclude alla stazione appaltante
il potere di riesaminare anche in un momento
successivo a quello della verifica dei
requisiti di partecipazione la
documentazione allegata all'offerta per
disporre l'esclusione di un'impresa
concorrente che ne fosse priva.
2. La giurisprudenza amministrativa ammette
addirittura l'intervento della p.a. in via
di autotutela anche dopo la conclusione
della gara con l'annullamento
dell'aggiudicazione. Per conseguenza
l'esercizio del potere di verifica delle
offerte non può essere in alcun modo
impedito quando la gara è in corso e non si
sono ancora formate posizioni consolidate in
relazione al conseguimento della commessa (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 10.11.2011 n.
2715 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
1. Diritto di accesso -
Legittimazione - Riconosciuta a chiunque
possa dimostrare che gli atti procedimentali
oggetto dell'accesso abbiano spiegato o
siano idonei a spiegare effetti diretti o
indiretti nei suoi confronti e che se ne
possano eventualmente avvalere per la tutela
di una posizione soggettiva legittimante.
2. Diritto di accesso - Prevale sulle
esigenze di riservatezza del terzo qualora
venga in rilievo la cura o la difesa di
interessi giuridici del richiedente.
1.
Il diritto di accesso ai documenti
amministrativi è posto a garanzia della
trasparenza ed imparzialità della P.A. e
trova applicazione in ogni tipologia di
attività della P.A. Occorre, peraltro,
ricordare che il principio della trasparenza
amministrativa accolto dal nostro
ordinamento non è affatto assoluto e
incondizionato, ma subisce alcuni
temperamenti, basati, fra l'altro, sulla
limitazione dei soggetti attivi del diritto
di accesso, questione quest'ultima che
involge i profili della legittimazione
sostanziale ed dell'interesse ad agire.
In
particolare, anche se il diritto di accesso
è volto ad assicurare la trasparenza
dell'attività amministrativa e a favorirne
lo svolgimento imparziale, rimane fermo che
l'accesso è consentito soltanto a coloro ai
quali gli atti stessi, direttamente o
indirettamente si rivolgono, e che se ne
possano eventualmente avvalere per la tutela
di una posizione soggettiva legittimante.
Quest'ultima è costituita da una "situazione
giuridicamente rilevante" (comprensiva anche
degli interessi diffusi) e dal collegamento
qualificato tra questa posizione sostanziale
e la documentazione di cui si pretende la
conoscenza.
L'interesse, per la cui tutela è
attribuito il diritto di accesso, tuttavia,
è nozione diversa e più ampia rispetto
all'interesse all'impugnativa così che la
legittimazione all'accesso va riconosciuta a
chiunque possa dimostrare che gli atti
procedimentali oggetto dell'accesso abbiano
spiegato o siano idonei a spiegare effetti
diretti o indiretti nei suoi confronti,
indipendentemente dalla lesione di una
posizione giuridica, stante l'autonomia del
diritto di accesso inteso come interesse ad
un bene della vita distinto rispetto alla
situazione legittimante all'impugnativa
dell'atto" (ex plurimis, cfr. Consiglio di
Stato 27.10.2006 n. 6440).
E' bene
specificare che la posizione legittimante,
anche se non deve assumere necessariamente
la consistenza del diritto soggettivo o
dell'interesse legittimo, deve essere però
giuridicamente tutelata non potendo
identificarsi con il generico ed indistinto
interesse di ogni cittadino al buon
andamento dell'attività amministrativa. Deve
ritenersi, a questa stregua, che l'art. 22, co. 1, lett. b), l. n. 241/1990, quando
parla di "interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l'accesso", si
riferisca alla sussumibilità della pretesa
concreta in una fattispecie normativa,
secondo una valutazione prognostica e
secondo un rapporto di chiara percepibilità.
La previsione non fa invece riferimento a
ipotesi in cui la pretesa vantata non è a
prima lettura riconducibile ad una
previsione normativa, ma potrebbe esservi
ricondotta in virtù di una particolare
interpretazione che potrebbe essere
affermata in un giudizio sulla pretesa
(recentemente, a questo proposito, cfr. C.
Stato, sez. VI, 18.09.2009 n. 5625).
2. La giurisprudenza ha ripetutamente
chiarito (cfr. ad es. Cons. Stato V,
07.09.2004, n. 5873; id. VI, 16.02.2005, n. 504
Tar Lombardia Milano, III, 16.05.2007, n.
4458) che il diritto di accesso ai documenti
amministrativi prevale sulle esigenze di
riservatezza del terzo ogniqualvolta
l'accesso venga in rilievo per la cura o la
difesa di interessi giuridici del
richiedente (art. 22, comma 7, l. 241/1990).
In tale solco si è giunti ad affermare (v.
Cons. Stato, Sez. V, 14.11.2006, n. 6681) la
sussistenza del diritto di accesso anche a
dati particolarmente sensibili, quali la
documentazione medica attinente alla salute
mentale di taluni soggetti, allorché
preordinato alla tutela giudiziale di
interessi di pari dignità costituzionalmente
tutelati (ad esempio, nel caso di azione di
scioglimento del vincolo matrimoniale).
Il regolamento dell'INPS n. 1951/1994 ove
contrastante con il principio appena
formulato, è illegittimo e va disapplicato
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 24.10.2011 n.
2531 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Domanda risarcitoria nel
processo amministrativo - Dimostrazione del
an e del quantum sofferto.
Per costante giurisprudenza, chi propone la
domanda risarcitoria nel processo
amministrativo deve dimostrare non solo l'an
ma anche il quantum del danno sofferto,
atteso che, in applicazione del principio
della vicinanza della prova, i poteri
istruttori officiosi del giudice possono
essere attivati solo nelle controversie che
hanno per specifico oggetto l'esercizio del
potere amministrativo, al fine ovviare alla
disuguaglianza delle parti nel procedimento
amministrativo e all'impossibilità della
parte privata di disporre di materiale
probatorio di cui l'amministrazione ha
esclusivo possesso.
Quando invece viene
proposta la domanda risarcitoria, parte
privata e amministrazione si pongono sullo
stesso piano; ne consegue che la prima è
sempre in grado di produrre in giudizio le
prove a sostegno delle istanze formulate, in
quanto trattasi di elementi afferenti alla
propria sfera di controllo: deve quindi
trovare piena applicazione l'art. 2967,
comma primo, del codice civile in base al
quale chi vuol far valere un diritto in
giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento (cfr. ex multis
Consiglio Stato , sez. VI, 18.03.2011, n.
1672)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 24.10.2011 n.
2527 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione
paesaggistica - Idonea motivazione -
Specifiche valutazioni in ordine alla
condivisibilità delle affernazioni contenute
nell'elaborato tecnico.
Il potere di rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica non può essere esercitato
tenendo conto solo della documentazione
progettuale acquisita, ma deve essere
accompagnato da una idonea motivazione dalla
quale risulti che l'autorità sia del tutto
consapevole delle peculiarità dell'area e
dell'incidenza che su di essa determinerebbe
la realizzazione delle opere previste.
Non
è, quindi sufficiente il mero riferimento
alla relazione del progettista occorrendo
che l'Autorità di tutela del vincolo esterni
le specifiche valutazioni in ordine alla condivisibilità delle affermazioni contenute
nell'elaborato tecnico (Cons. Stato, VI,
23/02/2011 n. 1141)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 13.10.2011 n.
2428 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nella
Regione Lombardia, l’installazione di
stazioni radio base di telefonia cellulare
di potenza inferiore a 300 Watt, vista la
previsione dell’art. 4, comma 7°, della
legge regionale 11/2001, non richiede
specifica regolamentazione urbanistica, per
cui sono illegittime le disposizioni
pianificatorie o regolamentari comunali che
introducono divieti o limitazione di
installazione per simili impianti, anche
solo su talune porzioni del territorio
comunale.
Sicché, la norma regolamentare comunale del
tipo "tralicci e pali di sostegno degli
impianti per la telefonia cellulare dovranno
essere collocati a cinque metri dal confine
e/o comunque ad un distanza dal confine non
inferiore alla metà dell’altezza del palo"
deve interpretarsi nel senso che la
previsione di distanze minime degli impianti
dal confine non valgono per le stazioni di
potenza inferiore a 300 Watt, per le ragioni
suindicate.
Parimenti insussistente, in base a quanto
sopra esposto, è la presunta violazione
dell’art. 9 del DM 1444/1968, che non pare
in ogni caso applicabile alla presente
fattispecie, visto che lo stesso riguarda le
distanze fra <<fabbricati>> e non si ritiene
che il traliccio di cui è causa rientri in
tale nozione.
Con il primo motivo, si denuncia la
violazione dell’art. 80 del Regolamento
edilizio del Comune di Nova Milanese, in
forza del quale (comma 3, lett. b), tralicci
e pali di sostegno degli impianti per la
telefonia cellulare dovranno essere
collocati a cinque metri dal confine e/o
comunque ad un distanza dal confine non
inferiore alla metà dell’altezza del palo.
Nel caso di specie, essendo il palo alto
32,5 metri, la distanza dovrebbe essere di
circa 16 metri, mentre il traliccio di cui è
causa, a detta dell’esponente, si troverebbe
a soli 2,5 metri dal confine. Da qui la
lamentata violazione dell’art. 80 del
Regolamento comunale.
Il motivo è infondato, in quanto non appare
corretta l’interpretazione dell’art. 80 del
Regolamento sostenuta dalla società istante.
Infatti, il comma 1 del citato art. 80, fa
espressamente salva l’applicazione di una
serie di fonti normative di rango primario
–e quindi sovraordinate al Regolamento– fra
cui il D.Lgs. 259/2003 e la legge della
Regione Lombardia n. 11/2001.
L’interpretazione che la giurisprudenza,
anche di questa Sezione, offre delle
disposizioni legislative suindicate è nel
senso che, nella Regione Lombardia,
l’installazione di stazioni radio base di
telefonia cellulare di potenza inferiore a
300 Watt (come quella di cui è causa), vista
la previsione dell’art. 4, comma 7°, della
legge citata regionale 11/2001, non richiede
specifica regolamentazione urbanistica, per
cui sono illegittime le disposizioni
pianificatorie o regolamentari comunali che
introducono divieti o limitazione di
installazione per simili impianti, anche
solo su talune porzioni del territorio
comunale (cfr. TAR Lombardia, sez. IV,
02.07.2008, n. 2845, con la giurisprudenza
ivi richiamata).
Ciò premesso, la previsione del comma 3
dell’art. 80, di cui la società ricorrente
lamenta l’illegittimità, deve interpretarsi,
come correttamente fatto
dall’Amministrazione resistente, nel senso
che la previsione di distanze minime degli
impianti dal confine non valgono per le
stazioni di potenza inferiore a 300 Watt,
per le ragioni suindicate.
Parimenti insussistente, in base a quanto
sopra esposto, è la presunta violazione
dell’art. 9 del DM 1444/1968, che non pare
in ogni caso applicabile alla presente
fattispecie, visto che lo stesso riguarda le
distanze fra <<fabbricati>> e non si
ritiene che il traliccio di cui è causa
rientri in tale nozione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 23.01.2009 n.
210). |
AGGIORNAMENTO AL 20.02.2012 |
ã |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L. Spallino,
Procedimento amministrativo: la Lombardia
licenzia la nuova legge regionale
(link a http://studiospallino.blogspot.com).
---------------
Sull'argomento, si veda anche la
nota web esplicativa della
Regione Lombardia. |
APPALTI: A.
Galbiati,
Centrale di committenza: il Senato approva
l'emendamento ANCI (link a
http://studiospallino.blogspot.com). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Tirocini
formativi e art. 9, comma 28, D.L. 78/2010.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Toscana, con
il
parere 14.02.2012 n. 14 esamina il rapporto tra i
tirocini formativi e le disposizioni
limitative di spesa previste dall'art. 9,
comma 28, del d.l. 78/2010 ed il particolare
caso in cui l'ente, nel 2009, non abbia
sostenuto spese per le medesime finalità.
La Corte ritiene quanto segue:
- "... il carattere generale della locuzione
'altri rapporti formativi' utilizzata dal
legislatore sembra condurre ad
un'interpretazione del concetto in senso
ampio che possa ricomprendere al suo interno
qualunque forma di rapporto con intento
formativo che comporti una spesa a carico
dell'ente pubblico; difatti l'obiettivo
della norma di cui all'art. 9 .... è quello
di ridurre le spese a carico degli enti
pubblici destinatari. Nella fattispecie in
esame il tirocinio formativo, pur non
costituendo un rapporto di lavoro vero e
proprio, instaura un rapporto tra
l'amministrazione e il tirocinante dal quale
derivano specifici obblighi e diritti e che,
aldilà della tipologia contrattuale o
convenzionale adoperata per la sua nascita,
instaura una relazione che può considerarsi
rientrante nel concetto di rapporto
formativo in senso ampio."
Sulla specifica ipotesi di assenza di spesa
(allo stesso titolo) nell'anno 2009, ritiene
non si possa analogicamente estendere
l'orientamento espresso dalla Corte stessa
(Sezione Regionale Lombardia deliberazione
n. 227/2010) in tema di incarichi che ha
ritenuto possibile il conferimento, purché
adeguatamente motivato.
La Corte Toscana, esprime diverso avviso
nella fattispecie in argomento, alla luce
delle seguenti considerazioni:
- "Nell'operare un confronto in relazione
alle norme che disciplinano i due istituti
(incarichi esterni e rapporti formativi), il
collegio ritiene che i presupposti per
l'utilizzo dei medesimi sono differenti:
infatti, mentre il ricorso ad un incarico
esterno è una facoltà conferita
all'amministrazione per esigenze cui non può
far fronte con personale in servizio in
presenza di alta specializzazione,
dell'impossibilità oggettiva di utilizzare
le risorse umane interne, nonché di una
serie di altri requisiti, l'utilizzo di
personale con forme flessibili (quali i
rapporti formativi) non risponde
all'esigenza di realizzare competenze
attribuite dall'ordinamento
all'amministrazione conferente (art. 7
D.Lgs. 165/2001 e ss.mm. disciplinanti il
conferimento di incarichi esterni)";
- "Se la deliberazione della Sezione
Lombardia invita a non interpretare la norma
limitativa di cui all'art. 6 della L.
122/2010 quale impeditiva del ricorso ad
incarichi esterni sul presupposto che
l'esistenza dei presupposti di stretta
necessità, sia di carattere soggettivo sia
di tipo oggettivo, giustificano il ricorso
ad una professionalità esterna, lo stesso
non può dirsi in tema di ricorso a forme
flessibili di lavoro (tra le quali rientrano
i rapporti formativi) poiché i principi
delle norme in materia di pubblico impiego,
oltre a richiedere una riduzione della
relativa spesa, tendono pacificamente a
disincentivare il ricorso a forme flessibili
nel lavoro pubblico limitandole a casi
temporanei ed eccezionali. Su tali
presupposti deve rispondersi negativamente
alla possibilità di sostenere una spesa per
un rapporto formativo in violazione ai
requisiti stabiliti dall'art. 9, comma 28,
della L. 122/2010"
(tratto da www.publika.it). |
UTILITA' |
LAVORI PUBBLICI:
Le varianti in corso
d'opera ai lavori pubblici.
Quest’opera ha l’obiettivo di dare una
risposta ai dubbi interpretativi e
applicativi dovuti alla continua evoluzione
della normativa in materia di varianti in
corso d’opera nella disciplina dei lavori
pubblici.
Frutto del lavoro congiunto del Settore
Attività di supporto tecnico giuridico e
amministrativo (Direzione Opere Pubbliche,
Difesa del Suolo, Economia Montana e
foreste) e del Settore Attività legislativa
per la qualità della normazione (Direzione
Affari Istituzionali ed Avvocatura), essa
deriva dall’esperienza maturata nell’ambito
della Struttura tecnica regionale per
l’espressione dei pareri di cui all’art. 18
della l.r. n. 18/1984 (gennaio 2012 -
tratto da www.regione.piemonte.it). |
ENTI LOCALI: Piccoli
Comuni, i modelli di convenzione quadro per
le gestioni associate
(13.02.2012 - link a
www.anci.lombardia.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Regione Lombardia,
Progetto di legge “MISURE PER LA CRESCITA,
LO SVILUPPO E L’OCCUPAZIONE”.
---------------
La Giunta Regionale della Lombardia, venerdì
10.02.2012, ha approvato il Progetto di
Legge n. 0146 "MISURE PER LA CRESCITA, LO
SVILUPPO E L'OCCUPAZIONE".
Ora il
progetto di legge inizierà l’iter nella
commissione competente prima di
approdare in Consiglio Regionale.
Di particolare interesse risultano essere i
seguenti articoli:
● Art. 16 - (Modifiche all’articolo 10
della l.r. 21/2008 in tema di sale
cinematografiche);
● Art. 17 - (Disciplina dei titoli edilizi
di cui all’articolo 27, comma 1, lettera d),
della l. r. 11.03.2005, n. 12 "Legge per il
governo del territorio" a seguito della
sentenza della Corte Costituzionale n.
309/2011);
● Art. 18 - (Disposizioni in materia di
semplificazione urbanistico-edilizia);
● Art. 21 - (Istituzione del fondo per la
prevenzione del rischio idrogeologico);
● Art. 22 - (Modifiche agli articoli 29 e 30
della l.r. 26/2003 “Disciplina dei servizi
locali di interesse economico generale.
Norme in materia di gestione dei rifiuti, di
energia, di utilizzo del sottosuolo e di
risorse idriche”. Programma energetico
ambientale regionale (PEAR) e obiettivi in
materia di fonti rinnovabili “FER”);
● Art. 23 - (Inserimento dell’articolo 9-bis
nella l.r. 24/2006. Disposizioni in materia
di efficienza energetica in edilizia);
● Art. 24 - (Modifiche al Titolo III della
l.r. 26/2003 - Infrastrutture per la
distribuzione di energia elettrica);
● Art. 26 - (Sostituzione dell’articolo 31
della l.r. 7/2010. Competenze regionali in
materia di oli minerali);
● Art. 27 - (Modifiche all’articolo 10 della
l.r. 11.12.2006, n. 24 "Norme per la
prevenzione e la riduzione delle emissioni
in atmosfera a tutela della salute e
dell'ambiente". Sistemi geotermici a bassa
entalpia a circuito aperto con prelievo di
acqua dal sottosuolo);
● Art. 28 - (Inserimento dell’articolo
21-bis nella l.r. 26/2003. Incentivi per la
bonifica di siti contaminati);
● Art. 29 - (Inserimento dell’articolo 8-bis
nella l.r. 24/2006. Misure di
semplificazione per le autorizzazioni alle
emissioni in atmosfera);
● Art. 31 - (Modifiche all’articolo 11 della
l.r. 24/2006. Impianti a biomassa);
● TITOLO V - Interventi per il governo del
sottosuolo e per la diffusione sul
territorio regionale della banda ultra-larga
(artt. 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43,
44);
● Art. 55 - (Appalti per favorire l’accesso
alle micro, piccole e medie imprese). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
ENTI LOCALI - CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto:
legge 26.03.2010, n. 42 di conversione del
decreto-legge 25.01.2010, n. 2 recante:
"Interventi urgenti concernenti enti locali
e regioni". Numero consiglieri e assessori
comunali e provinciali (Ministero
dell'Interno,
nota 18.02.2012 n. 2915 di prot.).
---------------
Elezioni
amministrative: la circolare del Viminale. Ora
meno poltrone.
Assessori e consiglieri, tagli del 20%.
Il taglio del 20% del numero degli assessori
e consiglieri comunali e provinciali,
disposto dal dl n. 2/2010, scattato dallo
scorso anno, decorre in occasione del primo
rinnovo del consiglio. Il numero di
assessori, in particolare, non potrà
superare un quarto del numero dei rispettivi
consiglieri e in nessun caso superare il
numero massimo di 12 previsto dal Tuel.
È
quanto ricorda la
nota 18.02.2012 n. 2915 di prot. emanata
ieri dal Dipartimento per gli affari interni
e territoriali del Ministero dell'Interno
che ha ritenuto opportuno mettere nero su
bianco le novità introdotte dalla norma
sopra richiamata (a motivo dei numerosi
quesiti pervenuti da amministrazioni locali
interessate dalle prossime elezioni
amministrative).
Ai fini del taglio da operare sull'attuale
consistenza numerica della giunta e del
consiglio, il Viminale ha rilevato che
l'entità della riduzione è determinata con
arrotondamento all'unità superiore (nei casi
in cui le risultanze del calcolo diano luogo
ad una cifra decimale) e che, in tale
conteggio, non devono essere computati il
sindaco e il presidente della provincia. A
tal fine, il Viminale ha allegato alla
circolare apposite tabelle riepilogative con
le nuove composizioni di giunte e consigli,
in relazione alla popolazione residente.
Il
Viminale ha precisato inoltre che per gli
enti che vanno a rinnovo dal 2011 e per gli
anni a seguire, il numero massimo degli
assessori comunali e provinciali deve essere
rideterminato in misura pari ad un quarto
del numero dei consiglieri del comune e
della provincia. In questi casi, si
computano sia il sindaco che il presidente,
sempre arrotondando all'unità superiore. In
ogni caso, per effetto dell'articolo 47,
comma 1, del Tuel, tale numero non potrà
superare le dodici unità.
Qualche esempio.
Una città con popolazione superiore a 100
mila abitanti che sino ad oggi ha mantenuto
quaranta consiglieri comunali, a decorrere
dalle prossime consultazioni elettorali ne
dovrà eleggere 32. Le città con più di 250
mila abitanti, sino ad oggi con 46
consiglieri, ne dovranno eleggere 36. In
entrambi i casi, da questo computo deve
essere escluso il sindaco.
Per quanto riguarda le province, quelle con
popolazione superiore a 300 mila abitanti,
oggi con 30 consiglieri provinciali,
scenderanno a 24, mentre quelle con
popolazione superiore a 700 mila abitanti
con 36 consiglieri, ne dovranno eleggere 28,
presidente escluso. Per quanto riguarda gli
assessori, le tabelle allegate rilevano
come, per comuni con più di 500 mila
abitanti, da 12 si scende a 11, comuni con
più di 250 mila abitanti scendono a 10
comuni con più di 100 mila abitanti potranno
eleggere massimo nove assessori.
In provincia gli assessori dovranno essere
al massimo un quarto dei consiglieri: una
provincia con più di 1,4 milioni di abitanti
non potrà avere più di 10 assessori. Otto
quelle con popolazione superiore a 700 mila
abitanti e 7 quelle con popolazione
superiore a 300 mila abitanti
(articolo ItaliaOggi
del 18.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
OGGETTO: Trasmissione telematica delle
certificazioni di malattia all’Inps.
Ulteriori servizi per la consultazione degli
attestati di malattia (INPS,
circolare 16.02.2012 n. 23).
---------------
Dall'Inps
un sms a chi è malato.
Messaggio sul cellulare per comunicare
l'attestazione medica. Nota dell'Istituto
previdenziale spiega le nuove
implementazioni al sistema online dei
certificati.
A letto con la febbre? Il primo a dirti che
sei ammalato sarà l'Inps. Con un messaggino
al cellulare, infatti, l'istituto
comunicherà ai lavoratori il numero di
protocollo del loro certificato di malattia
inviato online dal medico curante.
La novità
è annunciata dall'Inps nella
circolare
16.02.2012 n. 23
di ieri, con cui, inoltre, informa di avere
esteso agli intermediari (consulenti ecc.)
la possibilità di consultare gli attestati
di malattia tramite Pec o su internet
(www.inps.it).
Malattia via sms. Si tratta di un nuovo
servizio, spiega l'Inps, che consente al
lavoratore di richiedere che il numero di
protocollo dei propri certificati di
malattia sia inviato via Sms ad un numero
telefonico da lui indicato. In questo modo,
dunque, al lavoratore è semplificata la
successiva ricerca del proprio attestato di
malattia che, eventualmente, dovrà
consegnare al proprio datore di lavoro.
Il
servizio può essere attivato tramite due
procedure: per i cittadini in possesso di
Pin, selezionando la nuova funzionalità
introdotta nel menu della consultazione dei
certificati di malattia; per chi non è
dotato di Pin inviando richiesta tramite
posta elettronica certificata rilasciata
(www.postacertificata.gov.it). La richiesta
deve essere inoltrata all'indirizzo Pec di
un ufficio territoriale Inps indicando i
propri dati anagrafici completi di codice
fiscale e del numero telefonico per ricevere
l'sms.
Intermediari aziende private. Altra novità,
spiega l'Inps, è l'estensione agli
intermediari della possibilità, già concessa
ai datori di lavoro, di consultare gli
attestati di malattia attraverso il: sistema
di invio dell'attestato con Pec; o il
sistema di accesso con Pin. Nel primo caso
(Pec), la richiesta di utilizzo del servizio
deve essere inoltrata all'indirizzo di posta
elettronica certificata di un ufficio
territoriale Inps tra quelli con cui le
aziende rappresentate dall'intermediario
hanno rapporti di adempimenti contributivi.
La richiesta, che va inviata utilizzando lo
stesso indirizzo di Pec al quale dovranno
essere trasmessi gli attestati di malattia
dei lavoratori, deve contenere i dati
anagrafici dell'intermediario, completi di
codice fiscale, e l'elenco delle matricole
aziendali per le quali si richiede il
servizio. Nel caso di richiesta di
consultazione tramite il sistema di accesso
con Pin, l'Inps spiega che le attestazioni
di malattia dei certificati trasmessi dal
medico curante sono disponibili direttamente
sul portale dell'Inps (servizi online).
Entrambi i predetti sistemi, precisa l'Inps,
sono resi disponibili agli intermediari
muniti di delega generale, da parte del
datore di lavoro, allo svolgimento di tutti
gli adempimenti in materia di lavoro,
previdenza e assistenza sociale nei
confronti dell'Inps e che abbiano comunicato
l'esistenza di tale delega all'istituto. Nel
caso in cui, invece, gli intermediari siano
anche titolari di un rapporto di lavoro
dipendente, presso un'azienda diversa da
quella rappresentata, e vengano delegati dal
proprio datore di lavoro alla consultazione
degli attestati di malattia dei dipendenti
di tale azienda, è necessaria apposita
delega personale da parte dello stesso
datore di lavoro.
Infine, i delegati
abilitati alla consultazione degli attestati
di malattia e i soggetti abilitati (delegati
aziendali e intermediari) alla ricezione
dell'attestato di malattia via Pec sono
tenuti a dare tempestiva comunicazione della
cessazione o della sospensione dell'attività
in modo tale che l'Inps possa provvedere
alla revoca dell'abilitazione.
Intermediari del settore agricolo. I
predetti servizi previsti per le aziende
private, spiega ancora l'Inps, sono estensi
anche ai datori di lavoro agricoli e agli
intermediari che hanno ottenuto
l'autorizzazione a svolgere gli adempimenti
per conto delle aziende agricole, con
riferimento ala consultazione degli
attestati di malattia degli operai con
rapporto di lavoro a tempo indeterminato
(cosiddetti Oti).
Intermediari di amministrazioni pubbliche.
Infine, l'Inps spiega che anche gli
intermediari delle pa possono presentare
richiesta di accesso ai servizi tramite Pin
e di invio degli attestati con Pec
inoltrando richiesta corredata di delega, a
una sede Inps
(articolo ItaliaOggi
del 17.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI:
Oggetto: art. 4, commi 2 e 3, D.P.R. n.
207/2010, recante "Regolamento di esecuzione
ed attuazione del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163" - intervento sostitutivo
della stazione appaltante in caso di
inadempienza (Ministero del Lavoro ed
elle Politiche Sociali, circolare
circolare
16.02.2012 n. 3/2012).
---------------
Durc negativo, addio
corrispettivo.
Bloccati i pagamenti alle imprese con debiti
contributivi. Il ministero spiega
l'intervento sostitutivo delle stazioni
appaltanti a favore di Inps, Inail e Casse edili.
Intervento sostitutivo anche per parziali
scoperture. La stazione appaltante, infatti,
può utilizzare le somme dovute all'impresa
appaltatrice anche per colmare solo parte
delle inadempienze evidenziate dal documento
di regolarità contributiva (Durc).
Lo
precisa, tra l'altro, il ministero del
lavoro nella
circolare
16.02.2012 n. 3/2012 fornendo
indicazioni operative all'articolo 4, commi
2 e 3, del dpr n. 207/2010 (regolamento di
esecuzione ed attuazione del dlgs n.
163/2006), a seguito dell'incontro con gli
enti e le autorità di vigilanza sui
contratti pubblici.
Intervento sostitutivo. Il citato articolo 4
del dpr n. 207/2010 ha introdotto un
particolare meccanismo attraverso il quale,
in presenza di un Durc che evidenzi delle
irregolarità nei versamenti dovuti agli
istituti previdenziali (Inps e Inail) e/o
alle casse edili, le stazioni appaltanti si
sostituiscono al debitore principale (le
imprese che detengono i lavori in appalto)
versando, in tutto o in parte, direttamente
ai predetti istituti e casse le somme dovute
in forza del contratto di appalto.
Quando opera il meccanismo. Il predetto
meccanismo (cosiddetto «intervento
sostitutivo»), spiega il ministero, oltre a
operare quando il debito delle stazioni
appaltanti nei confronti degli appaltatori
«copre» interamente quanto dovuto agli
istituti e alle casse edili, opera anche
quando lo stesso debito sia in grado solo in
parte di «colmare» le inadempienze
evidenziate nel Durc.
In tal caso, aggiunge
il ministero, le somme dovute dalla stazione
appaltante all'appaltatore andranno
ripartite tra gli istituti e casse edili
interessate (la normativa non dà indicazioni
di sorta sui criteri di precedenza nella
soddisfazione dei crediti). In particolare,
la ripartizione andrà eseguita in
proporzione dei crediti vantati da ciascun
istituto e cassa edile come evidenziati nel Durc o comunicati dagli stessi istituti e
cassa edili, a seguito di richiesta della
stazione appaltante.
Preavviso di pagamento. Al fine di
coordinare eventuali e contestuali
interventi sostitutivi da parte di più
stazioni appaltanti (possibilità che può
verificarsi, per esempio, per una stessa
impresa che ha in corso più appalti), il
ministero stabilisce che le stazioni
appaltanti, prima di procedere ai versamenti
nei confronti degli istituti e casse edili,
provvedano a preannunciare agli stessi
l'intenzione della sostituzione.
Il
«preavviso di pagamento», spiega il
ministero, consentirà di «rimodulare» i
crediti laddove un'altra stazione appaltante
sia intervenuta «ripianando» anche solo in
parte le posizioni dell'appaltatore nei
confronti di Inps, Inail e Casse edili.
Imprese subappaltatrici. Il ministero ancora
precisa che l'intervento sostitutivo opera
anche in relazione a eventuali posizioni
debitorie da parte di subappaltatori. In
questi casi, peraltro, nell'ambito degli
appalti pubblici, esiste anche il vincolo
della cosiddetta «responsabilità solidale»
tra appaltatore e subappaltatore.
Pertanto,
secondo il ministero l'intervento
sostitutivo deve aversi solo nelle ipotesi
di somme residue ed a seguito dell'eventuale
intervento sostitutivo attivato per
irregolarità del Durc dell'appaltatore, e
non può eccedere il valore del debito che
l'appaltatore ha nei confronti del
subappaltatore alla data di emissione del
Durc irregolare.
Infine, il ministero
precisa che nel caso in cui l'irregolarità
riguardi solo il subappaltatore e l'importo
dovuto a quest'ultimo risulti insufficiente
a «coprire» l'irregolarità attestata dal Durc, l'intervento sostitutivo, ancorché i
debiti contributivi del subappaltatore siano
soddisfatti solo in parte, svincola il
pagamento nei confronti dell'appaltatore.
Verifica irregolarità fiscale.
L'ultima precisazione del ministero spiega
che l'intervento sostitutivo non
interferisce con l'obbligo della verifica
delle irregolarità fiscali, cui sono tenute
al rispetto le amministrazioni pubbliche in
caso di pagamento di importi superiori ai 10
mila euro (articolo 48-bis del dpr n.
602/1973)
(articolo ItaliaOggi
del 18.02.2012). |
APPALTI:
Oggetto: D.L. n. 5/2012 (c.d. Decreto
semplificazioni) - novità in materia di
lavoro e legislazione sociale - primi
chiarimenti interpretativi per il personale
ispettivo (Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali,
circolare
16.02.2012 n. 2/2012).
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Sanzioni
civili senza solidarietà.
Negli appalti risponde solo il responsabile
della violazione. Nota del ministero del
lavoro sul dl semplificazioni. Da aprile le
Asl decidono sulle gravidanze difficili.
La responsabilità solidale negli appalti è
esclusa per le sanzioni civili; di esse,
risponde soltanto il responsabile
dell'inadempimento. Inoltre in merito al
trattamento di fine rapporto (tfr), la
solidarietà opera solo per le quote maturate
dai lavoratori nel periodo di vigenza
dell'appalto.
È il ministero del lavoro a
precisarlo nella
circolare
16.02.2012 n. 2/2012,
fornendo le prime istruzioni al dl n. 5/2012
(decreto semplificazioni), in vigore dal 10
febbraio, nelle more della conversione in
legge. Riguardo all'interdizione anticipata
dal lavoro per gravidanza difficile, il
ministero stabilisce che il previsto
passaggio di competenza, dalle attuali
direzioni territoriali (ex dpl) alle Asl,
decorrerà dal 1° aprile.
Responsabilità solidale. Due le novità
principali a modifica della disciplina sulla
responsabilità solidale negli appalti, che
vincola committenti, appaltatori e
subappaltatori a rispondere solidalmente per
gli adempimenti fiscali, contributi e
retributivi dei lavoratori impiegati
nell'appalto. La prima concerne il tfr: la
solidarietà, stabilisce il decreto
semplificazioni, comprende «le quote» del
trattamento di fine rapporto in relazione al
periodo d'esecuzione del contratto di
appalto.
La novità, spiega il ministero,
elimina ogni ipotesi interpretativa volta ad
addebitare al responsabile in solido
l'intero ammontare del tfr dovuto al
lavoratore dell'appaltatore/subappaltatore
che, durante il periodo di svolgimento
dell'appalto, abbia maturato il diritto al
trattamento. La seconda novità esclude
dall'ambito della responsabilità solidale
«qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di
cui risponde solo il responsabile
dell'inadempimento».
In pratica, spiega il
ministero, viene eliminata l'interpretazione
fornita dallo stesso ministero
nell'interpello n. 3/2010 (si veda ItaliaOggi del 10.04.2010) che invece
riteneva sussistere la solidarietà anche per
tali sanzioni in quanto aventi natura
risarcitoria.
Libro unico del lavoro (Lul). Il dl n.
5/2012, spiega il ministero, introduce
semplificazioni volte a tradurre in
disposizioni normative alcune indicazioni
interpretative fornite dallo stesso
ministero in relazione al regime
sanzionatorio. In particolare, definisce le
due nozioni di omessa e di infedele
registrazione (si veda tabella) con
ripercussioni sull'applicazione delle
sanzioni per violazioni in materia di Lul.
Co più facili nei pubblici esercizi. Il dl
semplificazioni, spiega ancora il ministero,
corregge una sovrapposizione di norme
relative agli obblighi di comunicazione di
assunzione (Co) nei settori del turismo e
dei pubblici esercizi. In base alle nuove
disposizioni, le assunzioni possono essere
comunicate anche incomplete di tutti i dati
del lavoratore e del datore di lavoro, anche
a prescindere dall'esistenza di un motivo di
urgenza, salvo provvedere all'integrazione
entro tre (e non cinque) giorni.
La cig stoppa la riserva disabili. In
presenza di crisi aziendale, ossia per le
imprese interessate da interventi di
integrazione salariale, è previsto lo stop
temporaneo degli obblighi del collocamento
obbligatorio (assunzione disabili), a
richiesta del datore di lavoro. Nel caso di
imprese aventi unità produttive ubicate in
più province, spiega il ministero, il
decreto semplificazioni stabilisce che le
predette richieste vadano presentate
direttamente al ministero del lavoro.
L'ufficio competente è la direzione generale
per il lavoro (ex direzione mercato del
lavoro).
Interdizione per gravidanza difficile.
Infine, il decreto semplificazioni devolve
alle Asl, in via esclusiva, tutta la
procedura di interdizione anticipata dal
lavoro per «gravi complicanze della
gravidanza o di persistenti forme morbose»,
compresa l'adozione del provvedimento finale
di astensione, oggi di competenza delle
direzioni territoriali del lavoro. Il
ministero stabilisce che tale passaggio di
competenza avverrà a far data dal 1° aprile.
A tal fine le dpl dovranno istruire
esclusivamente le richieste di astensione
definibili entro il 31 marzo, rimettendo
alle Asl l'istruttoria delle domande
destinate a essere definite con
provvedimenti da emanarsi dal 1° aprile
(articolo ItaliaOggi
del 17.02.2012). |
INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto:
Riforma delle professioni - Informativa n. 3
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
nota 31.01.2012 n.
U-nd/407/2012 di prot.).
--------------
Riforma delle
professioni e abolizione delle tariffe
professionali. Arrivano i chiarimenti del
Consiglio Nazionale degli Ingegneri.
Il Decreto Liberalizzazioni, in attesa di
opportuna legge di conversione, ha apportato
alcune novità al regime delle professioni
(v. art. “Decreto Legge liberalizzazioni:
tante le novità per imprese, professionisti,
pubbliche amministrazioni, banche e
cittadini”), tra cui:
● abolizione delle tariffe professionali;
● obbligo di preventivazione;
● obbligo di copertura assicurativa.
Il CNI (Consiglio Nazionale degli Ingegneri)
ha pubblicato una circolare finalizzata a
fornire indicazioni sulle nuove disposizioni
normative agli ingegneri iscritti agli albi
professionali.
Il CNI sottolinea che il nuovo Decreto non
cancella l’art. 2233 del codice civile:
resta pertanto inalterato il principio della
misura del compenso anche in relazione al
decoro della professione. Inoltre, non sono
cancellate le funzioni degli Ordini
provinciali nel rilascio dei pareri sulle
parcelle.
Nella circolare vengono fornite anche
indicazioni circa le modalità di pattuizione
del compenso e preventivazione
(commento tratto da www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: applicazione dell’art. 19-bis
della l.r. 23 del 2004, relativo alla
“Tolleranza costruttiva” (Regione Emilia
Romagna,
nota 27.12.2011 n. 312129 di prot.).
---------------
Anche se la nota inerisce ad una legge
legge regionale, la stessa offre ugualmente
spunti di riflessione in ordine al disposto
similare di cui all’art. 5, comma 2, lett.
a), legge n. 106/2011 (introduttivo del
comma 2-ter dell’art. 34 del DPR 380 del
2001 il quale così dispone: "2-ter.
Ai fini dell’applicazione del presente
articolo, non si ha parziale difformità del
titolo abilitativo in presenza di violazioni
di altezza, distacchi, cubatura o superficie
coperta che non eccedano per singola unità
immobiliare il 2 per cento delle misure
progettuali."). |
NEWS |
ENTI LOCALI: PATTO DI STABILITA' 2012/ Le indicazioni contenute
nella circolare della Ragioneria. Giro di vite
sulle pratiche elusive.
Gli amministratori pagano dieci volte
l'indennità di carica.
Il Mef affila le armi contro i «furbetti»
del Patto, enfatizzando il ruolo delle
misure antielusive e rafforzando le sanzioni
nei confronti degli enti inadempienti.
Potenziati anche i controlli sulle giacenze
di tesoreria. Strada in salita per il Patto
regionalizzato, la cui piena attuazione si
scontra con l'irragionevolezza dei termini
per le compensazioni fra gli obiettivi di
province e comuni, anche se un ordine del
giorno approvato dal Senato impegna il
Governo a definire una tempistica più
distesa.
Con la
circolare
14.02.2012 n. 5 (si veda ItaliaOggi di ieri), la Ragioneria generale
dello stato ha fornito agli enti locali i
primi chiarimenti sul Patto di stabilità
interno 2012-2014, quale disciplinato dagli
artt. da 30 a 32 della legge n. 183/2011
(legge di stabilità 2012).
Le regole del Patto. Nessuna sorpresa per
quanto concerne l'individuazione degli enti
soggetti e le regole di calcolo degli
obiettivi. Per il 2012, sono soggetti al
Patto le province e i comuni con più di
5.000 abitanti, mentre a decorrere dall'anno
prossimo entreranno anche i comuni con
popolazione compresa tra 1.001 e 5.000
abitanti. Dal 2013, poi, il Patto sarà
esteso anche ad aziende speciali ed
istituzioni, mentre per le società in house
in sono in arrivo regole ad hoc. Dal 2014,
infine, dovrebbero essere assoggettate anche
le unioni obbligatorie per i comuni fino a
1.000 abitanti, ma la legge di conversione
del decreto milleproroghe dovrebbe rinviare
questa scadenza, di fatto procrastinandola
al 2015.
Gli obiettivi saranno differenziati per gli
enti virtuosi (che potranno limitarsi a
raggiungere un saldo più basso, anche se non
necessariamente pari a 0) e per gli altri
enti. Questi ultimi dovranno realizzare un
saldo positivo pari o superiore al valore
determinato applicando alla spesa corrente
media 2006-2008 (calcolata in termini di
impegni a partire dai dati di consuntivo) un
moltiplicatore che sarà fissato da un
successivo decreto dello stesso Mef
all'interno di una forchetta.
Per le
province, la percentuale non potrà essere,
per il 2012, inferiore al 16,5% e superiore
al 16,9% e dal 2013 inferiore al 19,7% e
superiore al 20,1%. Per i comuni, i valori
minimi e massimi sono, per il 2012, 15,6 e
16% e dal 2013 15,4 e 15,8%. Il livello a
cui si collocherà l'asticella dipenderà dal
numero e dal peso degli enti virtuosi, i cui
sconti saranno «pagati» dagli altri enti con
la maggiorazione (entro il tetto dello 0,4%)
del rispettivo coefficiente di calcolo.
Dall'obiettivo così calcolato, potranno
essere detratti i tagli previsti dal dl
78/2010, ma non quelli ulteriori imposti dal
dl 201/2011.
La grammatica del Patto continua a essere la
competenza mista, che considera accertamenti
e impegni per la parte corrente del
bilancio, riscossioni e pagamenti per le
entrate e le spese in conto capitale, al
netto delle voci escluse che la circolare
elenca puntualmente: riscossioni e
concessioni di crediti, risorse connesse
alla dichiarazione di stato d'emergenza ed
all'organizzazione dei grandi eventi,
interventi finanziati dall'Ue (al netto dei
cofinanziamenti), censimento, risorse
destinate ai comuni dissestati della
provincia de L'Aquila, Efsa di Parma,
federalismo demaniale e (solo per il
2013-2014) investimenti infrastrutturali.
Misure antielusive e sanzioni. La parte
certamente più interessante e innovativa
della circolare è quella concernente le
misure antielusive previste dall'art. 31,
commi 30 e 31, della legge n. 183/2011. Il
comma 30 dispone la nullità dei contratti di
servizio e degli altri atti posti in essere
per aggirare le regole del Patto. Il comma
31, invece, introduce sanzioni pecuniarie a
carico degli amministratori e dei
responsabili del servizio
economico-finanziario che hanno posto in
essere gli atti elusivi: ai primi le sezioni
giurisdizionali regionali della Corte dei
conti possono chiedere fino a dieci volte
l'indennità di carica percepita al momento
di commissione dell'elusione, ai secondi
fino a tre mensilità di stipendio. Secondo
la circolare, si configura una fattispecie
elusiva del Patto ogni qualvolta siano
attuati comportamenti che, pur legittimi,
risultino intenzionalmente e strumentalmente
finalizzati ad aggirare i vincoli di finanza
pubblica.
Ne consegue che risulta
fondamentale la finalità
economico-amministrativa del provvedimento
adottato (e la relativa motivazione). La
circolare offre, al riguardo, un
interessante analisi casistica.
Innanzitutto, l'elusione è spesso realizzata
attraverso l'utilizzo dello strumento
societario, ad esempio quando spese valide
ai fini del Patto sono poste al di fuori del
bilancio dell'ente per trovare evidenza in
quello delle società da esso partecipate.
Frequenti anche i casi di evidente
sottostima dei costi dei contratti di
servizio tra l'ente e le sue diramazioni
societarie e para-societarie, nonché
l'illegittima traslazione di pagamenti
dall'ente a società esterne partecipate,
realizzate attraverso un utilizzo improprio
delle concessioni e riscossioni di crediti.
Altre comuni modalità di elusione sono
rappresentate dall'impropria imputazione di
poste in sezioni di bilancio, come le
«partite di giro», dalla sovrastima delle
entrate correnti e dal ricorso ad
accertamenti di entrate fittizie.
La
circolare cita, ancora, l'imputazione delle
spese di competenza di un esercizio
finanziario ai bilanci dell'esercizio o
degli esercizi successivi, ovvero quali
oneri straordinari della gestione corrente
(debiti fuori bilancio). Infine, sono da
ritenersi elusive, nell'ambito delle
valorizzazioni dei beni immobiliari, anche
le operazioni poste in essere dagli enti
locali con le società partecipate per
reperire risorse finanziarie senza giungere
ad una effettiva vendita del patrimonio.
Tali pratiche sono oggetto di un doppio
controllo: da un lato, le verifiche della
Corte dei conti, che possono estendersi
all'esame della natura sostanziale delle
entrate e delle spese escluse dai vincoli in
applicazione del principio generale di
prevalenza della sostanza sulla forma;
dall'altro, quelle che la Rgs provvede ad
effettuare, tramite i servizi ispettivi di
finanza pubblica, per accertare la
regolarità della gestione
amministrativo-contabile delle
amministrazioni pubbliche.
Pesanti le sanzioni per gli enti
inadempienti, che potranno essere irrogate
anche a distanza di tempo, qualora la
violazione emerga successivamente all'anno
seguente a quello cui essa si riferisce. Chi
non rispetta il Patto incappa, innanzitutto,
nella decurtazione del fondo sperimentale di
riequilibrio (o dei trasferimenti, per gli
enti locali siciliani e sardi) fino al 3%
delle entrate correnti registrate
nell'ultimo consuntivo; in caso di
incapienza, dei predetti fondi l'ente è
tenuto a versare le somme residue, presso la
competente sezione di tesoreria provinciale
dello Stato. Le altre sanzioni sono il
blocco totale delle assunzioni, il divieto
di ricorrere all'indebitamento e l'obbligo
di contenere gli impegni di spese correnti
entro la media dell'ultimo triennio.
Infine,
per gli amministratori in carica
nell'esercizio in cui è avvenuta la
violazione del Patto, è previsto il taglio
delle indennità e dei gettoni di presenza,
che dovranno essere ridotti del 30% rispetto
all'ammontare risultante alla data del 30.06.2010; la circolare precisa che tale
riduzione si applica agli importi
effettivamente erogati nel 2010 e quindi
comprensivi anche della eventuale riduzione
del 30% operata in caso di mancato rispetto
del Patto negli anni precedenti. Le sanzioni
sono ridotte a favore della provincia e del
comune di Milano, nel caso in cui la
violazione dipenda dagli oneri derivanti
dall'organizzazione dell'Expo 2015.
Tesoreria. È stata riproposta la norma che
autorizza il Mef ad adottare misure di
contenimento dei prelevamenti effettuati
dagli enti locali sui conti di tesoreria
statale, qualora si registrino scostamenti
rispetto agli obiettivi del Patto. Tale
misura, tuttavia, assume tutt'altra valenza
rispetto al passato, alla luce del previsto
(dal recente dl 1/2012) ritorno al vecchio
regime «accentrato» di tesoreria unica.
Patto regionalizzato. Per il 2012 sono
confermate le disposizioni in materia di
Patto regionalizzato verticale ed
orizzontale grazie alle quali le province e
i comuni soggetti possono beneficiare di
maggiori spazi finanziari ceduti,
rispettivamente, dalla regione e dagli altri
enti locali. La tempistica dei due strumenti
è, però, disallineata: mentre per il Patto
verticale potrà essere attuato entro il 31
ottobre, per il quello orizzontale la dead line è fissata al 30 giugno, termine
evidentemente irrealistico se si pensa che
esso coincide con la scadenza per
l'approvazione dei preventivi fissata dalla
legge di conversione del milleproroghe.
Va,
però, segnalato che un ordine del giorno
votato dal Senato nel corso dei lavori
relativi a quest'ultimo provvedimento
impegna il governo a ridefinire il timing,
spostando i predetti termini,
rispettivamente, al 30 novembre ed al 31
ottobre.
A partire dal 2013, invece, è prevista
l'introduzione del cd Patto regionale
integrato, in base al quale le regioni
potranno concordare con lo Stato le modalità
di raggiungimento dei propri obiettivi e di
quelli degli enti locali del proprio
territorio
(articolo ItaliaOggi
del 17.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Aumenti
solo se si lavora di più.
Compiti aggiuntivi giustificano incrementi
per i dirigenti. L'effetto
del combinato disposto delle previsioni sui
tetti dettate dal decreto 78 del 2010.
La retribuzione di posizione dei dirigenti e
dei titolari di posizione organizzativa non
può aumentare, tranne che siano loro
affidati compiti aggiuntivi. Un aumento può
venire probabilmente sulla retribuzione di
risultato dalla utilizzazione di una quota
dei risparmi derivanti dai piani di
razionalizzazione e riorganizzazione.
È
questo l'effetto determinato dal «combinato
disposto» delle previsioni dettate dal dl n.
78/2010 sul tetto al trattamento economico
individuale e del divieto di aumentare la
misura di questa indennità in caso di cambio
o di conferma del dirigente, nonché della
possibilità prevista dal dl n. 98/2011 di
aumentare i fondi per la contrattazione
decentrata con le risorse derivanti dalla
concretizzazione dei piani di risparmio. Da
ricordare inoltre che il legislatore ha
disposto il divieto di aumentare i fondi per
la contrattazione decentrata integrativa,
sia dei dirigenti che dei dipendenti, con il
che si determina una ulteriore limitazione
della possibilità di accrescere il salario
accessorio di dirigenti e posizioni
organizzative.
Quindi, i vertici delle
amministrazioni pubbliche non possono
contare sulla possibilità di aumentare il
proprio trattamento economico, visto che per
il triennio 2011/2013 è stato anche
stabilito il blocco della contrattazione
collettiva e, quindi, degli stipendi. E
l'unica possibilità di aumento si ha con la
realizzazione degli obiettivi di risparmio
fissati dall'ente ed a condizione che
quest'ultimo destini una quota, non
superiore al 50%, alla incentivazione del
personale e dei dirigenti.
Per il triennio 2011/2013 l'articolo 9 del
dl n. 78/2010 dispone che il trattamento
economico individuale dei dipendenti
pubblici non possa aumentare rispetto
all'anno 2010. Questo vincolo riguarda non
solo lo stipendio, ma anche le forme di
salario accessorio che hanno un carattere
non occasionale, che non sono strettamente
collegate ad attività svolte e che non sono
collegate a modifiche delle mansioni. Per
cui, come è stato chiarito dalla Ragioneria
generale dello stato, la indennità di
posizione sia dei dirigenti che dei titolari
di posizione organizzativa non può essere
modificata in aumento.
Le eccezioni sono
costituite dalla variazione dei compiti
assegnati alle figure di vertice delle
amministrazioni, variazioni che devono
determinare un aumento delle responsabilità.
Il che, di regola, non può che determinare
diminuzioni del trattamento accessorio dei
dirigenti e dei titolari di posizione
organizzativa che hanno avuto una riduzione
delle responsabilità. In conseguenza di
questa disposizione una modifica della
«pesatura» delle posizioni dirigenziali e predirigenziali con aumento del salario
accessorio in presenza di una invarianza dei
compiti assegnati non è da ritenere come
legittima. Per i dirigenti questo divieto
assume un carattere che deve essere
considerato come permanente e non limitato
esclusivamente al triennio 2011/2013.
Occorre inoltre considerare che, sulla base
della lettura delle previsioni contrattuali
date dall'Aran e dalla sezione
giurisdizionale della Corte dei conti della
Campania, la remunerazione del conferimento
ad interim di incarichi ai dirigenti può
essere remunerata solamente con un aumento
della retribuzione di risultato e non con
l'incremento di quella di posizione.
Oltre all'aumento dei compiti, un aumento
del salario accessorio dei dirigenti e delle
posizioni organizzative può probabilmente
arrivare dai risparmi derivanti dalla
concretizzazione dei piani di
razionalizzazione e riorganizzazione, sulla
base delle previsioni di cui all'articolo 16
del dl n. 98/2011. Ricordiamo che questa
norma consente agli enti di destinare non
più della metà dei proventi derivanti dalla
concretizzazione dei piani di risparmio alla
incentivazione del personale, riservando il
50% di questi aumenti alle fasce di merito,
che per il resto sono state rinviate al
nuovo contratto nazionale. La disposizione
non prevede espressamente la possibilità di
destinare queste risorse anche alla
incentivazione dei dirigenti e dei titolari
di posizione organizzativa; ma il dettato
normativo sembra consentirlo nella forma
dell'incremento del fondo per la
contrattazione decentrata e, quindi, della
indennità di risultato.
Occorre comunque che questa possibilità sia
chiarita e sia, inoltre, precisato se negli
enti senza i dirigenti queste risorse
possano incrementare anche la retribuzione
di posizione dei responsabili (articolo ItaliaOggi
del 17.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Una serie di risposte sui
rapporti tra amministrazione e
assessore-socio. Incompatibilità esclusa.
Se non c'è un contratto tra ditta e comune.
Un assessore comunale al commercio e alle
attività produttive ha preso parte a due
delibere di giunta nelle quali si è
disposto, nella prima, la concessione di un
contributo a favore di una parrocchia del
cui consiglio per gli affari economici egli
è componente; nella seconda, l'assegnazione
di una quota parte degli oneri di
urbanizzazione secondaria ad un ente di cui
lo stesso è presidente e legale
rappresentante. Inoltre l'ente locale ha
affidato un'attività concernente beni di
proprietà del comune ad una ditta,
costituita da una società di persone,
all'interno della quale l'assessore è un
«socio non addetto alle lavorazioni». In
tali casi esiste l'ipotesi d'incompatibilità
ex art. 63, comma 1, nn. 1 e 2 dlgs
267/2000? Nelle prime due circostanze
rappresentate è ravvisabile la violazione
del dovere di astensione di cui all'art. 78
del Tuoel?
Quanto alla prima delibera, se l'assessore
non riveste alcuna carica di amministratore,
bensì è componente del consiglio per gli
affari economici della parrocchia, che ha
solo funzioni consultive, per tale ipotesi
non sono rinvenibili profili di
incompatibilità, per carenza del requisito
soggettivo previsto dal citato art. 63,
comma 1, n. 2 Tuoel.
Inoltre non è stato
violato il dovere di astensione da parte
dell'amministratore locale a prender parte
alla discussione e alla votazione delle
delibere riguardanti la parrocchia, in
quanto il dovere di astensione di cui al
citato comma 2 dell'art. 78 fa riferimento
esclusivamente alle delibere riguardanti
interessi propri o di parenti e affini sino
al quarto grado, né la parrocchia può essere
ricompresa fra le aziende comunali
amministrate o soggette all'amministrazione
o vigilanza del comune.
Quanto al secondo
quesito, se l'ente in questione non è
soggetto a vigilanza da parte del comune e
questo contribuisce alla sovvenzione
dell'ente con una percentuale inferiore al
10% delle entrate complessive, non si può
configurare un'ipotesi d'incompatibilità ai
sensi dell'art. 63, comma 1, n. 1 del dlgs
267/2000.
In merito, poi, alla violazione
dell'obbligo di astensione di cui al comma 2
dell'art. 78 -anche qualora si assuma che
la delibera non riguarda interessi propri
dell'amministratore e il suo voto favorevole
sia comunque irrilevante nell'adozione della
delibera, in quanto adottata all'unanimità
dalla giunta comunale- si osserva che la
norma citata mira a prevenire il conflitto
d'interessi ed è finalizzata a salvaguardare
il buon andamento e l'imparzialità
dell'attività dell'ente locale, che ricorre
ogniqualvolta vi sia una correlazione
immediata e diretta tra la situazione
personale del titolare della carica pubblica
e l'oggetto specifico della deliberazione
(intesa come attività volitiva a rilevanza
esterna).
A tal proposito la sentenza 7050 – IV sez. del
04/11/2003, del Consiglio di
stato ha evidenziato che la regola
dell'astensione dell'amministratore deve
trovare applicazione in tutti i casi in cui
egli, per ragioni di ordine obiettivo, non
si trovi in posizione di assoluta serenità
rispetto alla decisione da adottare. Lo
stesso Consesso ha successivamente ribadito
che «_ la regola che vuole l'astensione dei
soggetti interessati è di carattere generale
e tende a evitare che, partecipando gli
stessi alla discussione e all'approvazione
del provvedimento, essi possano condizionare
nel complesso la formazione della volontà
dell'assemblea, concorrendo a determinare un
assetto complessivo dello stesso
provvedimento non coerente con la volontà
che sarebbe scaturita senza la loro presenza_» (Cfr. C. d. S., IV, sent. 21.06.2007, n. 3385, cit.).
Rileva in
materia, inoltre, in ogni caso, la personale
responsabilità politica e deontologica dei
soggetti interessati, tenuti tutti, come i
pubblici amministratori, ad adottare
comportamenti improntati all'imparzialità e
al principio di buona amministrazione, in
virtù di quanto espressamente dispone il 1°
comma del richiamato art. 78 del T.u. In
ordine al terzo caso prospettato non è
ravvisabile l'ipotesi d'incompatibilità di
cui all'art. 63, comma 1, n. 2 del dlgs
267/2000, in quanto non sussiste un rapporto
contrattuale particolare tra la ditta e il
comune.
L'art. 63, comma 1, n. 2 del dlgs 267/2000
stabilisce che non può ricoprire cariche
elettive locali colui che, come titolare,
amministratore, dipendente con poteri di
rappresentanza o di coordinamento abbia
parte, direttamente o indirettamente, in
servizi, esazioni di diritti,
somministrazioni o appalti, nell'interesse
del comune. La fattispecie contrattuale
rappresentata, pertanto, non configura un
rapporto di «durata», cioè non
sussiste nell'ipotesi in questione il
requisito previsto dalla disposizione
normativa che consiste nella partecipazione,
diretta o indiretta, in servizi, esazioni di
diritti, somministrazioni o appalti,
nell'interesse del comune.
Sono, inoltre, irrilevanti tanto la
circostanza che l'amministratore in
questione sia un socio non partecipante
all'attività lavorativa dell'impresa, quanto
la circostanza che la società sia una
società di persone, circostanza che
assumerebbe rilievo in presenza di un
contratto di appalto o di servizi
(articolo ItaliaOggi
del 17.02.2012). |
ENTI LOCALI:
Nuovo patto, premiati i virtuosi.
Obiettivi differenziati e gioco a somma zero
per gli sconti. La circolare della
Ragioneria generale dello stato sui vincoli
della nuova legge di stabilità.
Patto di stabilità con
un occhio di riguardo per gli enti virtuosi.
Vincoli di bilancio meno stringenti per le
amministrazioni con più autonomia
finanziaria, bilanci equilibrati e buona
capacità di riscuotere le proprie entrate. E
dal prossimo anno, regole di finanza
pubblica applicate anche ai comuni tra 1.001
e 5 mila abitanti e alle aziende speciali.
Con la
circolare
14.02.2012 n. 5, diramata ieri,
la Ragioneria generale dello stato ha
fornito le indicazioni operative di inizio
anno, che tengono conto della nuova
disciplina del Patto contenuta nella legge
di stabilità 2012. Alle province, il Patto
chiede 1.200 mln di euro per il 2012 e 1.300
mln a partire dal 2013, mentre i comuni sono
chiamati a contribuire, rispettivamente, per
4.200 e 4.500 mln.
Gli obiettivi 2012 sono stati alleggeriti
grazie ai proventi della Robin Hood tax (150
mln per le province e 520 per i comuni) e al
fondo di cui all'art. 20, comma 3, del dl
98/2011 (20 mln alle province e 65 ai
comuni), ma l'effetto di tali misure è già
incorporato nei coefficienti per il calcolo.
Non sono più previsti sconti generalizzati.
Buone notizie solo per gli enti (sono circa
70) coinvolti nella sperimentazione dei
nuovi sistemi contabili, che potranno
spartirsi una torta da 20 mln, ma
soprattutto per quelli che saranno
identificati come virtuosi.
Enti virtuosi.
È questa la novità più significativa. Agli
enti che verranno collocati nella prima
classe di merito (in origine ne erano
previste 4, poi ridotte a 2) sarà richiesto
uno sforzo più modesto. La selezione sarà
operata da un decreto del Mef sulla base dei
4 parametri previsti dall'art. 20, comma 2,
del dl 98/2011 sopravvissuti alla novella
operata dalla legge 183/2011, ovvero: 1)
rispetto del Patto; 2) autonomia
finanziaria; 3) equilibrio di parte
corrente; 4) rapporto tra riscossioni e
accertamenti delle entrate di parte
corrente.
Obiettivi differenziati.
Il meccanismo di calcolo degli obiettivi,
che continuano a essere declinati in termini
di competenza mista (accertamenti e impegni
per la parte corrente, riscossioni e
pagamenti per la il conto capitale), è stato
costruito per tenere conto della presenza di
due classi di enti.
Poiché i virtuosi non sono ancora stati
individuati, è stato necessario prevedere
due sottofasi. Nella prima, che scatta
subito, si determineranno i target per gli
enti; successivamente, si procederà a
differenziarli, migliorando quelli dei
virtuosi e peggiorando quelli dei non
virtuosi. Il gioco deve essere a somma zero
e il peso degli sconti riservati ai primi
sarà a carico dei secondi.
Nella prima sottofase, si assume come
parametro di riferimento la spesa corrente
media in termini di impegni registrata nel
triennio 2006-2008. Applicando a tale valore
(desunto dai consuntivi), il prescritto
coefficiente si ottiene l'obiettivo. Per le
province, il coefficiente è pari al 16,5%
per il 2012 e al 19,7% dal 2013, mentre per
i comuni è fissato, rispettivamente, al 15,6
e al 15,4%.
La seconda sottofase scatterà con
l'individuazione degli enti virtuosi, che
potranno limitarsi a raggiungere un saldo
obiettivo pari a 0 o a un valore leggermente
superiore (comunque più basso di quello
imposto agli altri): la legge 183/2011,
infatti, ha previsto che la maggiorazione
dei coefficienti di calcolo degli obiettivi
dei non virtuosi, necessaria per compensare
gli sconti ai virtuosi, non possa superare
lo 0,4%. Le percentuali, pertanto, potranno
arrivare fino al 16,9% ed al 20,1% per le
province e al 16% e 15,8 per i comuni.
Poiché il bilancio di previsione deve essere
coerente con il Patto fin dalla sua
approvazione, la circolare suggerisce a
tutti gli enti di utilizzare
prudenzialmente, nelle more
dell'individuazione dei virtuosi, i
coefficienti maggiorati previsti per i non
virtuosi, apportando in seguito le opportune
rettifiche.
Sterilizzazione dei tagli.
Ai fini del calcolo degli obiettivi, i non
virtuosi potranno portare in detrazione
rispetto al prodotto del coefficiente di
calcolo e della spesa corrente media
2006-2008 il taglio previsto (inizialmente a
valere sui trasferimenti erariali e ora a
carico del fondo sperimentale di
riequilibrio) dall'art. 14 del dl 78/2010.
Il relativo riparto sarà definito con dm e
nelle more gli enti possono agevolmente
stimare il taglio aggiuntivo 2012 applicando
al taglio 2011 il coefficiente 66,67%.
La circolare tace sul trattamento degli
ulteriori tagli previsti dal dl 201/2011
(pari a 415 milioni per le province e a
1.450 milioni per i comuni). Il Mef,
rispondendo ai quesiti di alcuni enti, ha
precisato che tali importi non possono
essere sottratti dagli obiettivi del Patto,
con evidente, ulteriore penalizzazione per
gli enti.
Enti soggetti.
Per il 2012 sono assoggettati al Patto le
province e i comuni con più di 5 mila
abitanti, mentre a decorrere dall'anno
prossimo entreranno anche i comuni con
popolazione compresa tra 1.001 e 5 mila
abitanti, i quali, peraltro, già da
quest'anno devono tenere conto dei relativi
vincoli in sede di predisposizione del
bilancio pluriennale.
Dal 2013 il Patto sarà esteso anche ad
aziende speciali e istituzioni, mentre per
le società in house il Mef dovrà
definire regole ad hoc. Dal 2014, infine,
dovrebbero essere assoggettate anche le
unioni obbligatorie per i comuni con meno di
1.000 abitanti. Ma la partita legata alla
riforma di cui all'art. 16 del dl 138/2011,
quasi certamente sarà rinviata ai
supplementari dal Milleproroghe (articolo
ItaliaOggi del 16.02.2012 -
tratto da
www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
CONSIGLIERI COMUNALI: Ambito,
modalità e limiti alla revoca degli
assessori degli enti territoriali.
La questione di diritto sottesa al gravame
in trattazione consiste nello stabilire la
natura, l’ambito ed i confini del potere di
revoca degli assessori da parte dei vertici
delle amministrazioni territoriali, le
garanzie esigibili dai revocandi, ed i
limiti del sindacato esercitabile su tali
atti da parte del giudice amministrativo.
Su tutti questi punti il Consiglio di Stato
nella sentenza in esame non si è discostata
dal consolidato compendio dei principi
elaborati dalla giurisprudenza (cfr. ex
plurimis Cons. Stato, sez. V,
25.08.2011, n. 4905; sez. V, 27.07.2011, n.
4502; sez. V, 27.04.2010, n. 2357; sez. V,
12.10.2009, n. 6253; sez. V, 27.08.2009, n.
4378/ord.; sez. V, 15.07.2009, n. 3646/ord.;
sez. V, n. 21.01.2009, n. 280), secondo cui:
a) gli atti di nomina e revoca degli
assessori degli enti territoriali non hanno
natura politica in quanto non sono liberi
nella scelta dei fini essendo
sostanzialmente rivolti al miglioramento
della compagine di ausilio al vertice
dell’ente e sottoposti alle eventuali
specifiche prescrizioni dettate dalle fonti
primarie e secondarie (in particolare gli
statuti degli enti medesimi);
b) la valutazione degli interessi coinvolti
nel procedimento di revoca di un assessore è
rimessa in via esclusiva al titolare
politico dell’amministrazione, cui competono
in via autonoma la scelta e la
responsabilità della compagine di cui
avvalersi per l’amministrazione dell’ente
nell’interesse della comunità locale;
c) il merito delle opzioni politiche sottese
alla scelta operata dal vertice
istituzionale sono rimesse unicamente alla
valutazione dell’organo consiliare di
controllo;
d) attesa la natura ampiamente discrezionale
del provvedimento di revoca dell’incarico di
assessore, la relativa motivazione può
basarsi sulle più ampie valutazioni di
opportunità politico-amministrativa rimesse
in via esclusiva al vertice dell’ente, in
quanto aventi ad oggetto un incarico
fiduciario; pertanto la motivazione
dell’atto di revoca può anche rimandare
esclusivamente a valutazioni di opportunità
politica;
e) il sindaco ha l’onere formale di
comunicare al consiglio comunale la
decisione di revocare un assessore ex art.
46 cit., visto che è soltanto quest’ultimo
organo che potrebbe opporsi (tramite una
mozione di sfiducia) all’atto di revoca;
f) il procedimento di revoca dell’incarico
assessorile deve essere semplificato al
massimo per consentire una immediata
soluzione della crisi politica nell’ambito
del governo dell’ente territoriale, pertanto
l’inizio di tale procedimento non deve
essere comunicato all’interessato, ai sensi
dell’art. 7, l. n. 241 del 1990, restando
del tutto indifferente acquisire la sua
opinione;
g) nella materia in questione il giudice
amministrativo è sfornito del sindacato di
merito tassativamente previsto dalla legge
per altre ipotesi (cfr. art. 134 cod. proc.
amm.) ed il suo controllo sull’esercizio
della funzione pubblica è condizionato dal
connotato latamente politico della scelta
che, pertanto, è insindacabile in sede di
legittimità se non per profili puramente
formali concernenti:
I) la violazione di specifiche disposizione normative dettate per
la nomina e la revoca degli assessori;
II) la manifesta abnormità e discriminatorietà del provvedimento
oggetto di impugnativa.
Facendo applicazione dei suesposti principi
al caso di specie il Consiglio di Stato ha
ritenuto che il riferimento del sindaco alle
mutate esigenze programmatiche, ovvero a
fattori squisitamente politici, integra
adeguata motivazione della revoca e che il
ricorrente non ha provato, pur essendone
onerato ai sensi dell’art. 2697, co. 1, c.c.
(ora art. 64, co. 1, cod. proc. amm.), il
carattere discriminatorio della revoca
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.02.2012 n. 803 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
giudice nel processo avverso gli atti di
gara non può sostituirsi alla stazione
appaltante nella valutazione sul merito
dell'offerta presentata dai partecipanti
salvo il caso di macroscopici errori.
Nel processo avverso gli atti di gara
pubblica non è consentito al giudice
amministrativo sostituirsi alla stazione
appaltante nella valutazione sul merito
dell'offerta presentata dall'impresa
partecipante, con una illegittima invasione
degli spazi riservati all'Amministrazione
(cfr. Consiglio di Stato, sez. III,
28.03.2011, n. 1862).
L'ambito del controllo giurisdizionale in
detta materia non può, dunque, essere esteso
al merito amministrativo, benché ciò non
voglia dire che le scelte effettuate
dall'Amministrazione siano sottratte anche
al controllo di legittimità, cioè alla
verifica che le medesime siano conformi alle
norme ed ai principi che regolano
l'esercizio della discrezionalità, e non
siano invece il frutto di valutazioni
macroscopicamente incoerenti o
irragionevoli, così da comportare un vizio
della funzione (cfr. Consiglio di Stato,
sez. V, 16.02.2009, n. 837) (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 16.02.2012 n. 799 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione
edilizia in sanatoria su area sottoposta a
vincolo ambientale-paesaggistico: il parere
dell'organo preposto alla tutela del vincolo
non e' immediatamente impugnabile ma solo
unitamente al provvedimento finale.
Diversamente da quanto ritenuto dal primo
giudice ad avviso del Consiglio di Stato la
concessione edilizia in sanatoria in ordine
ad un manufatto realizzato su area
sottoposta a vincolo
ambientale–paesaggistico presuppone, a
termini dell’art. 32 della Legge n. 47 del
28.02.1985, il parere dell’organo preposto
alla tutela del vincolo e i provvedimenti
successivamente adottati costituiscono atti
necessari e non superflui.
Il parere dell'organo preposto non ha natura
provvedimentale e non è l’atto conclusivo
del procedimento attivato con la istanza di
permesso di costruire o di sanatoria
edilizia presentate all’amministrazione
comunale, ma è un atto di natura
endoprocedimentale che ha effetti sulla
determinazione conclusiva del procedimento,
di spettanza dell’autorità adita. Il parere,
quantunque vincolante, non è immediatamente
lesivo e non è, in quanto tale, suscettibile
di impugnazione autonoma in via
giurisdizionale, ma bensì lo è unitamente al
provvedimento finale concretamente lesivo
della sfera giuridica del richiedente (Cons.
Stato, sez. V, n. 4412/2005; n. 480/2004; n.
1511/2000; sez. VI, n. 114/1998).
In conclusione, il parere dell’organo
preposto alla tutela del vincolo, reso ai
sensi dell’art. 3 della legge n. 47/1985 per
le opere edilizie abusive ricadenti appunto
su aree sottoposte a vincolo è obbligatorio,
ma l’atto che incide sulla sfera giuridica
del richiedente è il provvedimento
concessorio o negatorio della sanatoria
richiesta (C. Stato, Sezione VI, 24.09.1996,
n. 1248) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.02.2012 n. 794
- massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Negli appalti di servizi e'
inammissibile l'offerta contrattuale se le
quote di partecipazione all’ATI e le parti
del servizio da eseguire non sono indicate
già in sede di offerta e la singola impresa
componente dell’ATI non abbia la qualifica,
ovvero i requisiti di ammissione, in misura
corrispondente alla quota di partecipazione.
Il Consiglio di Stato interviene nuovamente
sulla dibattuta questione concernente il
criterio di corrispondenza tra quota di
qualificazione, quota di partecipazione e
quota di esecuzione (anche) negli appalti di
servizi (v. sentenze 11.05.2011 n. 2804 e
15.07.2011 n. 4323) nel senso di richiedere
che le quote di partecipazione all’ATI e le
parti del servizio da eseguire siano
indicate già in sede di offerta, anche in
assenza di una espressa previsione del bando
o della lettera d’invito, e che la singola
impresa componente dell’ATI abbia la
qualifica, ovvero i requisiti di ammissione,
in misura corrispondente alla quota di
partecipazione, il tutto a garanzia della
stazione appaltante e del buon esito del
programma contrattuale nella fase di
esecuzione.
Dalla mancata osservanza di tale obbligo
–che, si è affermato, discende dall’art. 37,
commi 4 e 13, del Codice dei contratti e che
trova applicazione anche ai raggruppamenti
di tipo orizzontale- deriva la conseguenza
che l’offerta contrattuale, che provenga da
un’associazione di più imprese in termini
che non assicurino la predetta, effettiva,
corrispondenza, è inammissibile, perché
comporta l’esecuzione della prestazione da
parte di un’impresa priva (almeno in parte)
di qualificazione in una misura simmetrica
alla quota di prestazione ad essa devoluta
dall’accordo associativo ovvero dall’impegno
delle parti a concludere l’accordo stesso
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 16.02.2012 n. 793 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
CASSAZIONE/ No alla duplicazione
in azienda. Imprenditori in cella se copiano
i software.
Rischia il carcere l'imprenditore che compra
un software con una sola licenza e poi lo
copia per installarlo sulle macchine
aziendali. Vìola la legge sul diritto
d'autore anche un solo back up.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione
-Sez. III penale- che, con la
sentenza 15.02.2012 n.
5879, ha reso definitiva la condanna
a quattro mesi (e 1.000 euro di multa)
pronunciata dalla Corte d'Appello di Bologna
a carico di un imprenditore.
L'uomo aveva acquistato un programma
Microsoft con una sola licenza e poi lo
aveva copiato per installarlo su tutte le
macchine aziendali.
Per questo erano scattate la accuse a suo
carico: violazione delle norme poste a
tutela del diritto d'autore.
Contro la doppia conforme di merito lui ha
presentato ricorso in Cassazione ma senza
successo. La terza sezione penale lo ha
dichiarato inammissibile.
In particolare ad avviso degli Ermellini, la
ricostruzione del fatto operata dalla Corte
bolognese conduce a ritenere che
l'imprenditore abbia acquistato una sola
copia di ciascuno dei nove programmi
informatici prodotti dalla «Microsoft Co»
e di ciascun originale abbia poi effettuato
plurime copie che ha installato su più
computer della sua azienda.
In particolare, la sentenza di primo grado,
che i giudici di appello richiamano in punto
di fatto e che la Cassazione ha esaminato «attesa
la continuità fra le due decisioni di
condanna», afferma che sui fatti
contestati e asseverati dai risultati
peritali l'imputato ha reso piena
ammissione, con la conseguenza che, alla
luce delle conclusioni della sentenza di
appello, «tali profili debbono essere
considerati fuori discussione e si rende
palesemente infondata la prospettazione
difensiva contenuta nel secondo motivo di
ricorso sia con riferimento alla sola copia
di “back up” sia con riferimento ad asserite
deficienze dell'accertamento tecnico».
Dunque correttamente i giudici di merito
hanno escluso che la contestazione
attribuisca rilievo alla presenza o meno del
marchio Siae e hanno ritenuto che «la
condotta illecita contestata e accertata
consista esclusivamente nella illecita
duplicazione dei programmi al fine di essere
utilizzati su plurimi apparecchi; si tratta
di violazione prevista dalla prima parte del
primo comma dell'arti 71-bis della legge
22.04.1941, n. 633».
Anche la Procura generale della Suprema
corte, nell'udienza tenutasi al Palazzaccio
lo scorso 19 dicembre, ha chiesto la
conferma della condanna (articolo
ItaliaOggi del 16.02.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
materia ambientale la legittimazione a
ricorrere spetta anche alle persone fisiche.
Ad avviso del Consiglio di Stato in materia
ambientale va riconosciuta la legittimazione
a ricorrere anche delle persone fisiche in
quanto ciò si palesa in linea con
l’orientamento della giurisprudenza secondo
cui la legittimazione in materia ambientale
va riconosciuta in base al criterio della “prossimità
dei luoghi interessati”, ovvero della
sussistenza di uno “stabile collegamento”
con la zona interessata dalla realizzazione
dell’opera (cfr. da ultimo Cons. St. VI,
16.09.2011, n. 5192) (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 15.02.2012 n. 784 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
dipendente pubblico non può rivendicare la
retribuzione di prestazioni poste in essere
senza autorizzazione in surplus rispetto
all'orario di lavoro seppur effettuate per
apprezzabili scopi.
Con riferimento alla domanda diretta al
corresponsione di somme per le prestazioni
rese in surplus dal dipendente pubblico, il
Consiglio di Stato ha affermato che occorre
accertare se l’attività svolta in plus
orario e/o quale lavoro straordinario avesse
a presupposto specifiche ordinanze e/o
autorizzazioni in tal senso, posto che le
PP.AA., come unanimemente riconosciuto,
agiscono, in specie nei rapporti di lavoro,
attraverso specifiche valutazioni delle
esigenze organizzative e di servizio da
constare in atti formali, anche a sanatoria
ma sempre motivata, a tutela dell’erario e
dello stesso personale, che non può quindi
rivendicare la retribuzione di prestazioni
poste in essere autonomamente seppure per
asseriti apprezzabili scopi.
D’altra parte l’ordinamento, proprio a
scanso della paventata responsabilità, offre
più strumenti sollecitatori dell’attività
amministrativa della P.A., non essendo
consentita la “sostituzione”
dell’Amministrazione ad opera del dipendente
soprattutto se l’organizzazione del servizio
riguarda direttamente il dipendente che
svolge funzioni apicali.
E' indubbio che le prestazioni in surplus
necessitano di un preventivo atto di
autorizzazione, quanto meno ai fini della
giustificazione della spesa a carico del
bilancio dell’Amministrazione, non potendosi
erogare somme che non trovino copertura,
formale e sostanziale, in un esplicito
provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 15.02.2012 n. 783 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Non
solo l'Agenzia delle Entrate ma anche il
concessionario per la riscossione (ad
esempio Equitalia) non possono rifiutare
l'accesso del contribuente al ruolo
integrale sulla cui base e' stata emessa la
cartella di pagamento.
La vicenda attenzionata dal Consiglio di
Stato riguarda l'appello proposto da una
concessionaria per la riscossione contro la
sentenza di primo grado che aveva accolto il
ricorso proposto da una società volto a far
dichiarare il suo diritto all’accesso
mediante rilascio di copia, tra l'altro,
dell’originale del ruolo che aveva dato
luogo all’emissione di una cartella di
pagamento.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l'appello
affermando che il contribuente vanta un
interesse concreto ed attuale all’ostensione
di tutti gli atti relativi alle fasi di
accertamento, riscossione e versamento,
dalla cui conoscenza possano emergere vizi
sostanziali procedimentali tali da palesare
l’illegittimità totale o parziale della
pretesa impositiva (in tal senso, l’art. 22,
comma 1, lett. b), l. n. 241 del 1990).
La giurisprudenza ha chiarito che il divieto
di accesso agli atti del procedimento
tributario, sancito dall'art. 24 l.
07.08.1990 n. 241, va inteso secondo una
lettura costituzionalmente orientata, alla
stregua della quale l'inaccessibilità agli
atti in questione è temporalmente limitata
alla sola fase di pendenza del procedimento
tributario, non rilevandosi esigenze di
segretezza nella fase che segue la
conclusione del procedimento di adozione del
provvedimento definitivo di accertamento
dell'imposta dovuta, sulla base degli
elementi reddituali che conducono alla
quantificazione del tributo (in tal senso:
Cons. Stato, IV, 11.02.2011, n. 925; id.,
13.01.2010, n. 53).
Ciò posto nella vicenda in esame il Collegio
ha ritenuto che in via di principio un tale
interesse sussisteva in capo alla ricorrente
in ordine agli atti all’origine dei fatti di
causa. Per quanto concerne, in particolare,
la richiesta di copia del ruolo integrale,
il Collegio ha ritenuto che non si può
affermare che un siffatto interesse viene
meno per essere stato notificato al
contribuente un estratto del ruolo. Al
contrario, è dal carattere di ‘estratto’ del
documento posto a disposizione del
contribuente che emerge l’interesse in capo
a questi a disporre del documento integrale,
al fine di verificare l’effettiva
coincidenza fra le risultanze del ruolo
integrale e quelle trasfuse nell’estratto.
Affermare il contrario (ossia, basare il
diniego di accesso sull’asserita continenza
del meno –l’estratto del ruolo– nel più –il
ruolo integrale-) vale a consentire
all’Amministrazione finanziaria e all’agente
della riscossione di opporre un
generalizzato quanto apodittico divieto di
accesso, non consentendo in alcun modo al
contribuente di fornire la prova contraria,
la quale resterebbe comunque nell’esclusiva
disponibilità dell’Amministrazione. Infine,
il Consiglio di Stato ha rigettato
l'eccezione di carenza di legittimazione
passiva del concessionario della riscossione
nell’ambito delle domande per l’accesso, il
quale sarebbe consentito unicamente nei
confronti del soggetto che ha formato il
ruolo (l’Agenzia delle entrate).
Al contrario, non si può negare che verso
l’agente della riscossione la domanda di
accesso possa certamente essere formulata,
ai sensi dell’articolo 25, comma 2, l. n.
241 del 1990, secondo cui la domanda di
accesso deve essere rivolta
all’amministrazione che ha formato il
documento ovvero (come nel caso in esame)
nei confronti di quella che “lo detiene
stabilmente” (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 15.02.2012 n. 766 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
decorso del tempo non fa venir meno il
potere di intervento della P.A. con atti che
incidono sulle posizioni di legittimo
affidamento del privato purché venga assolto
l'obbligo di specifica motivazione.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in
esame ha rilevato come i poteri
dell’Amministrazione volti alla cura di
interessi di rilievo pubblico non vengono
meno col decorso del tempo.
La giurisprudenza ha affermato l’obbligo di
corredare di specifica motivazione l’atto
che incide a notevole distanza di tempo su
una situazione di legittimo affidamento del
privato (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.02.2012 n. 755 - massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Svolgimento
di mansioni superiori: individuazione del
differente trattamento, anche ai fini
retributivi, del dipendente pubblico
rispetto al dipendente privato.
Il prevalente indirizzo giurisprudenziale
esclude la corresponsione del trattamento
economico, corrispondente a funzioni
superiori alla qualifica di appartenenza, in
assenza di esplicite disposizioni normative
al riguardo.
La questione sottoposta all’esame del
Collegio concerne infatti la nota
problematica dello svolgimento di funzioni
superiori, rispetto a quelle proprie della
qualifica di appartenenza: questione da
tempo oggetto di contenzioso, sotto il
duplice profilo del riconoscimento sia del
superiore livello professionale di fatto
raggiunto, sia del trattamento economico
corrispondente alle mansioni svolte.
Sotto il primo profilo, è oggetto di
pacifica giurisprudenza l’inammissibilità
della pretesa, in quanto riferita ad una
posizione lavorativa definita con
provvedimento autoritativo di inquadramento,
quale atto di carattere auto-organizzatorio
contestabile entro gli ordinari termini di
decadenza, con correlativa posizione di
interesse legittimo non suscettibile di
azione di accertamento (Cons. St., Ad .Plen.
20.03.1989, n. 8 e successiva giurisprudenza
pacifica; cfr., fra le tante, Cons. St.,
sez. IV, 17.12.1991, n. 1124 e 17.04.1990,
n. 279; sez. VI, 10.04.1997, n. 573).
Per quanto riguarda, inoltre, la
retribuzione delle mansioni superiori alla
qualifica di fatto svolte, il Collegio
stesso ritiene condivisibile l’indirizzo
giurisprudenziale, largamente prevalente per
il periodo che qui interessa, che nega in
ordine all’espletamento di dette mansioni –
per il periodo di cui trattasi – qualsiasi
rilevanza anche economica. (cfr. in tal
senso Cons. St., sez. IV, 29.01.1993, n.
119, 22.02.1993, n. 203, 14.05.1993, n. 536,
30.06.1993, nn. 646, 647 e 648; 13.06.1994,
nn. 492 e 493; sez. V, 23.11.1994, n. 1362,
18.01.1995, n. 89, 22.03.1995, n. 452,
30.04.1997, n. 429, 17.05.1997, n. 515,
nonché Ad. Plen. 18.11.1999, n. 22).
In rapporto a quanto sopra, sembra opportuno
sottolineare come il quadro normativo di
riferimento vedesse -quale principio
generale, per i rapporti di lavoro
instaurati presso pubbliche amministrazioni-
l’affermazione di un vero e proprio diritto
del dipendente stesso all’esercizio delle
funzioni, inerenti alla qualifica
formalmente rivestita (art. 31, c.1, D.P.R.
n. 3/1957), con ben precise regole per il
passaggio a qualifiche funzionali diverse,
essendo oggetto di consolidata
giurisprudenza -anche prima di
esplicitazioni legislative al riguardo- che
sia l’immissione nei ruoli
dell’Amministrazione, sia il successivo
sviluppo della carriera debbano avvenire per
concorso, tenuto conto della peculiarità ed
indisponibilità degli interessi, inerenti
all’attività dei pubblici funzionari (cfr.
al riguardo Cons. St., sez. V, 30.04.1997,
n. 429).
Il trattamento economico dei dipendenti in
questione, inoltre, è correlato ad una
capacità di diritto pubblico e non di
diritto comune dell’Ente datore di lavoro,
con conseguente inderogabilità del medesimo,
di modo che il pagamento spettante a titolo
di retribuzione può avvenire solo nei modi e
con l’entità previsti dalla legge, tenuto
conto degli atti di inquadramento nelle
qualifiche (Cons. St., sez. V, 09.04.1994,
n. 272; 18.01.1995, n. 89 e 17.05.1997, n.
515).
Può essere dunque individuato, in base alle
argomentazioni sinora svolte, uno dei più
significativi punti di diversificazione fra
lavoratori, che operino presso un soggetto
pubblico o privato, essendo applicabile solo
nei confronti di quest’ultimo l’art. 2103
cod. civ. - nel testo sostituito dall’art.
13 L. 20.05.1970, n. 300, ritenuto
inestensibile al rapporto di pubblico
impiego (Cons. St. sez. V, 11.01.1985, n. 12
e 10.06.1982, n. 521; sez. VI, 07.07.1981,
n. 392, Corte Cost. ord. 23.12.1987, n. 601;
Cons. St., sez. VI, 31.03.1987, n. 217;
Cons. St., sez. V, 05.10.1987, n. 604,
02.12.1987, n. 937; 10.06.1982, n. 52 e
07.07.1981, n. 392). Detta diversificazione
trova ragione profonda nella sostanziale
assenza per gli apparati pubblici del
rischio di impresa e comunque in una
specifica scelta legislativa.
Nemmeno appare invocabile nella materia di
cui trattasi l’art. 36 della Costituzione,
sia per assenza di un diritto soggettivo in
rapporto agli atti con cui l’Amministrazione
ha proceduto all’organizzazione dei propri
uffici, predisponendo la pianta organica ed
operando i relativi inquadramenti (Cons. St.
sez. V, 11.01.1985, n. 12), sia perché detta
norma costituzionale pone solo un parametro
di riscontro, per verificare che in sede
legislativa o regolamentare non siano state
operate discriminazioni fra lavoratori, e
non sorregge anche la pretesa ad una
retribuzione superiore rispetto a quella
normativamente spettante (Cons.St., Ad. Plen.
05.05.1978, n. 16 e 04.11.1977, n. 17; Cons.
St. sez. IV, 15.10.1990, n. 768; sez. V,
22.03.1995, n. 452; 24.05.1996, n. 587;
30.04.1997, n. 429; 17.05.1997, n. 515), sia
infine perché la retribuzione è collegata
non solo alla “quantità”, ma anche
alla “qualità” del lavoro svolto:
requisito, quest’ultimo, che non può essere
presunto senza alcun nesso con la
riconosciuta idoneità allo svolgimento di
una certa prestazione lavorativa.
Rilevano a quest’ultimo riguardo numerose
pronunce della Corte dei Conti (cfr. C.d.C.,
sez. II, 23.01.1991, n. 58 e 09.10.1989, n.
242), secondo le quali l’assunzione, da
parte di pubblici dipendenti, di mansioni
superiori alla qualifica comporterebbe un
danno erariale, non potendo ritenersi utili,
per l’Amministrazione, prestazioni
lavorative rese in maniera difforme da
quella prevista dall’ordinamento (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.02.2012 n. 748
- massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
violazione dei principi comunitari non e' un
motivo di nullità del provvedimento
amministrativo.
La violazione del diritto comunitario
implica solo un vizio di legittimità, con
conseguente annullabilità dell'atto
amministrativo.
L’art. 21-septies l. 07.08.1990, n. 241,
introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15, ha
posto un numero chiuso di ipotesi di nullità
del provvedimento amministrativo e non vi
rientra la violazione del diritto
comunitario (Cons. Stato, VI, 31.03.2011, n.
1983; 22.11.2006, n. 6831; 31.05.2008, n.
2623) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.02.2012 n. 750
- massima
tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: La motivazione degli atti amministrativi
costituisce, per pacifica giurisprudenza,
uno strumento di verifica del rispetto dei
limiti della discrezionalità, anche allo
scopo, costituzionalmente garantito, di far
conoscere agli interessati le ragioni che
impongono le restrizioni delle rispettive
sfere giuridiche o che ne impediscono
l'ampliamento. È, quindi, attraverso la
motivazione che si rende possibile il
sindacato di legittimità da parte del
giudice amministrativo sull’attività
funzionale dell’amministrazione.
Consegue da ciò che, ove l'organo competente
per il rilascio del permesso di costruire si
discosti, sia pure in parte, dalle
risultanze dell'istruttoria condotta da
altri organi o uffici (nella specie, dal
parere favorevole rilasciato dall’Ufficio
edilizia privata, nella persona del
responsabile del procedimento), lo stesso
deve indicare nella motivazione del
provvedimento le ragioni della mancata
adesione a quanto rappresentato dall’ufficio
dotato di competenza specifica in materia.
Ai sensi dell’art. 3 della legge n. 241/1990: <<1. Ogni provvedimento
amministrativo, compresi quelli concernenti
l'organizzazione amministrativa, lo
svolgimento dei pubblici concorsi ed il
personale, deve essere motivato, … 2. La
motivazione deve indicare i presupposti di
fatto e le ragioni giuridiche che hanno
determinato la decisione
dell'amministrazione, in relazione alle
risultanze dell'istruttoria>>.
La motivazione degli atti amministrativi
costituisce, per pacifica giurisprudenza,
uno strumento di verifica del rispetto dei
limiti della discrezionalità, anche allo
scopo, costituzionalmente garantito, di far
conoscere agli interessati le ragioni che
impongono le restrizioni delle rispettive
sfere giuridiche o che ne impediscono
l'ampliamento. È, quindi, attraverso la
motivazione che si rende possibile il
sindacato di legittimità da parte del
giudice amministrativo sull’attività
funzionale dell’amministrazione.
Consegue da ciò che, ove l'organo competente
per il rilascio del permesso di costruire si
discosti, sia pure in parte, dalle
risultanze dell'istruttoria condotta da
altri organi o uffici (nella specie, dal
parere favorevole rilasciato dall’Ufficio
edilizia privata, nella persona del
responsabile del procedimento), lo stesso
deve indicare nella motivazione del
provvedimento le ragioni della mancata
adesione a quanto rappresentato dall’ufficio
dotato di competenza specifica in materia
(cfr. in caso analogo, TAR Sicilia
Palermo, sez. II, 13.02.2001, n. 206).
E’ pur vero che, nel caso in esame, accanto
al parere favorevole dell’ufficio edilizia
privata è stato richiamato anche quello
sfavorevole della commissione edilizia, ma
proprio quest’ultimo si è rivelato inidoneo
a rappresentare le ragioni della contrarietà
del progetto in contestazione a “quegli
interessi pubblici dei quali le norme del
regolamento edilizio sono espressione” (cfr.
Consiglio di Stato IV, 04.10.2011,
n. 5443, riportata nella memoria di parte
resistente. Nella cit. decisione, in
effetti, è stato ritenuto legittimo
l’operato dell’amministrazione proprio sul
presupposto che la stessa non avesse negato
il titolo edilizio per “questioni
prettamente estetiche”, avendo fatto
legittima applicazione di norme del
regolamento edilizio).
Nel caso in esame, invece, il contenuto del
predetto parere (del 30.06.2011) –in
disparte i profili di contraddittorietà
lamentati dalla società rispetto a quanto in
precedenza (nel parere del 05.05.2011)
rappresentato a proposito della eliminazione
della copertura a falde– non consente di
comprendere quali siano le norme tecniche
violate dall’intervento in questione (cfr.
da ultimo TAR Trentino Alto Adige Trento,
sez. I, 24.11.2010, n. 226, per cui: <<Il giudizio che la Commissione Edilizia
Comunale è chiamata ad esprimere sul
rispetto dei criteri di tutela ambientale
non si traduce nell'espressione di una
discrezionalità amministrativa, in quanto
non è diretto ad una ponderazione degli
interessi finalizzata alla scelta della
soluzione più satisfattiva dell'interesse
pubblico dell'Amministrazione, ma in una
valutazione di carattere sostanzialmente
tecnico, che ricorre quando
l'Amministrazione, per provvedere su un
determinato oggetto, deve applicare norme
tecniche cui una norma giuridica conferisce
rilevanza diretta o indiretta>>; cfr.
altresì, TAR Liguria Genova, sez. I, 20.04.2010, n. 1834, per cui: <<È
illegittimo il diniego di sanatoria di opere
di chiusura parziale di una tettoia, in
mancanza di una puntuale motivazione sul
giudizio estetico negativo che deve fare
riferimento a precisi aspetti previsti e
disciplinati dalla normativa edilizia o
paesaggistica>>).
Sicché, anche a prescindere dal tenore
letterale dell’atto finale, nel caso che qui
occupa non è possibile, neanche attraverso
l’esame dei documenti elaborati in fase
istruttoria, ricavare elementi sufficienti
ed univoci dai quali inferire le concrete
ragioni e l'iter motivazionale della
determinazione assunta (cfr. Consiglio di
stato, sez. V, 20.05.2010, n. 3190).
Ne consegue che, l’amministrazione dovrà
rideterminarsi sulla domanda di permesso di
costruire presentata dalla società, previa
acquisizione di un nuovo parere da parte
della competente commissione edilizia, che
tenga conto dei criteri contenuti nel
Regolamento edilizio comunale.
Indi, l’organo deputato all’adozione del
provvedimento finale dovrà motivare le
ragioni della propria determinazione, specie
ove la stessa si discosti dalle risultanze
dell’istruttoria, secondo quanto in
precedenza evidenziato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.02.2012 n. 543 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La
legittimazione a ricorrere avverso i
provvedimenti in materia edilizia richiede
una situazione di stabile collegamento (cd. vicinitas) con la zona,
data dalla residenza, dal possesso o
detenzione di immobili o da altro titolo di
collegamento con l'ambito territoriale
interessato.
Tale situazione, quindi, deve essere
necessariamente intesa non come stretta
contiguità, bensì come stabile e
significativo collegamento, da verificare
caso per caso, del ricorrente con la zona il
cui ambiente s'intende proteggere.
Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, la legittimazione a
ricorrere avverso i provvedimenti in materia
edilizia richiede una situazione di stabile
collegamento (cd. vicinitas) con la zona,
data dalla residenza, dal possesso o
detenzione di immobili o da altro titolo di
collegamento con l'ambito territoriale
interessato.
Tale situazione, quindi, deve
essere necessariamente intesa non come
stretta contiguità, bensì come stabile e
significativo collegamento, da verificare
caso per caso, del ricorrente con la zona il
cui ambiente s'intende proteggere (cfr.
Consiglio Stato, sez. V, 31.03.2011, n.
1979)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.02.2012 n. 537 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
decorso del termine annuale di decadenza del
titolo edilizio presuppone l'efficacia del
titolo stesso, con l'effetto che la
sospensione, disposta dal Comune, arresta al
contempo la possibilità dell'interessato di
porre in essere una legittima attività
edilizia ed il procedere del tempo assegnato
per darvi inizio.
... per l'annullamento del provvedimento
prot. n. 67840 dell’01.08.1991 del Sindaco
di Salerno, che ha decretato la decadenza
della concessione edilizia commissariale n.
191/1989, ...
...
Assume rilievo viziante, con assorbimento di
ogni altra censura, quanto articolato dal
ricorrente al secondo motivo di ricorso a
proposito della insussistenza del
presupposto dell’impugnato provvedimento,
ovverosia l’inerzia del titolare della
concessione edilizia. Invero, come può
agevolmente desumersi dalla narrazione dei
fatti di causa, il lasso temporale di un
anno per l’inizio dei lavori assentiti
mediante titolo edilizio a norma dell’art.
31, comma 11, della l.n. 1150/1942, è stato
interessato nel caso di specie da taluni
provvedimenti interdittivi emessi dal Comune
di Salerno che hanno impedito il naturale
inizio dei lavori, peraltro oggetto di
comunicazione da parte del ricorrente già in
data 7 agosto 1989.
Invero il Sindaco di Salerno ha disposto in
data 07.09.1989 la sospensione dei lavori,
con ordinanza n. 229, mentre, in data
03.12.1990, è stato effettuato il sequestro
del cantiere ad opera della Polizia
Municipale.
La giurisprudenza (TAR Toscana Firenze, sez.
III, 12.07.2010, n. 2447) ha avuto modo di
affermare, del tutto condivisibilmente, che
“il decorso del termine annuale di
decadenza del titolo edilizio presuppone
l'efficacia del titolo stesso, con l'effetto
che la sospensione, disposta dal Comune,
arresta al contempo la possibilità
dell'interessato di porre in essere una
legittima attività edilizia ed il procedere
del tempo assegnato per darvi inizio”
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 10.02.2012 n. 188 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Ingegneri junior abilitati a
progettare nelle zone sismiche.
Il Consiglio di stato
abilita gli ingegneri e gli architetti
junior a operare «in proprio senza
collaborare o concorrere con alcuno».
Seppure in alcune precise attività.
Con la recente
sentenza
09.02.2012 n. 686, infatti,
i giudici di Palazzo Spada -Sez. IV- stabiliscono che
gli iscritti alla sezione B dell'Albo hanno
autonoma capacità progettuale e che questa è
estesa alle zone sismiche purché, certo, si
operi nell'ambito «di costruzioni civili
semplici e con l'utilizzo di metodologie
standardizzate». La vicenda prende il
via da un progetto di un'abitazione rurale
presentato da un ingegnere junior a un
comune e al Servizio Sismico della Regione.
Il prospetto non era stato autorizzato
perché le amministrazioni competenti avevano
ritenuto che la progettazione in zona
sismica non rientrasse nella sua competenza.
Così l'ingegnere, con il sostegno del
Sind.In.Ar 3, il Sindacato nazionale
ingegneri juniores e architetti juniores,
aveva fatto ricorso al Tar. Il Tribunale
regionale, però, ricorrendo in un difetto di
forma, aveva rigettato il ricorso. Il Cds
seppure partendo dagli stessi principi
contenuti nel provvedimento in questione e
ricordando le competenze contenute nel dpr
328/01 rispettivamente degli iscritti alle
sezioni A e B, sottolinea che l'elencazione
delle attività attribuite agli iscritti ai
diversi settori delle due sezioni ha il solo
scopo di ripartire le competenze,
esplicitando quelle maggiormente
caratterizzanti la professione.
I giudici di Palazzo Spada, dunque, nella
sentenza concordano sull'assenza, nelle
norme che disciplinano l'attività degli
juniores, di qualsivoglia preclusione alle
costruzioni in area sismica e dicono, pur
riconoscendo la specificità della
progettazione in area sismica, che è
necessaria una valutazione caso per caso dei
progetti in zona sismica, che tenga conto in
concreto dell'opera prevista, delle
metodologie di calcolo utilizzate, e che
potrà essere tanto più rigida quanto
maggiore sia il rischio sismico in cui
l'area è classificata.
E in questo caso, dice la sentenza, tale
valutazione è del tutto mancata. I giudici
di ultimo grado, quindi, hanno accolto
l'appello e annullato il diniego obbligando
l'amministrazione a ripronunciarsi sul
progetto (articolo
ItaliaOggi del 16.02.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: In
presenza della clausola di concessione
edilizia che impone l’inizio dei lavori
entro un anno dal rilascio e della clausola
che subordina l’inizio dei lavori
comportanti “la mutazione dei suoli nella
loro natura ivi compreso il naturale
deflusso delle acque superficiali”
all’ottenimento del n.o. idrogeologico,
l’unica interpretazione che permette di
evitare l’intrinseca illogicità del
provvedimento è quella di ritenere che il
termine di un anno sia sospeso sino al
rilascio del n.o. idrogeologico.
Sicché è illegittimo il provvedimento del
comune che ha dichiarato la decadenza della
concessione edilizia nel presupposto che i
lavori non siano stati iniziati nel termine
di un anno dal suo rilascio e ingiunto alla
ricorrente il ripristino dello stato dei
luoghi.
... per l’annullamento, previa sospensione
dell’esecuzione dell’ordinanza n. 40 del
09.05.2005 recante decadenza della
concessione edilizia n. 348 del 23.04.2001 e
intimazione al ripristino dello stato dei
luoghi e di ogni altro atto e/o
provvedimento presupposto, connesso e /o
consequenziale e per la condanna
dell’amministrazione al risarcimento dei
danni.
...Il Collegio condivide le argomentazioni
della ricorrente in punto di interpretazione
coordinata e sistematica della clausole
della concessione edilizia nel senso che, in
presenza della clausola che imponeva
l’inizio dei lavori entro un anno dal
rilascio e della clausola che subordinava
l’inizio dei lavori comportanti “la
mutazione dei suoli nella loro natura ivi
compreso il naturale deflusso delle acque
superficiali” all’ottenimento del n.o.
idrogeologico, l’unica interpretazione che
permette di evitare l’intrinseca illogicità
del provvedimento è quella di ritenere che
il termine di un anno fosse sospeso sino al
rilascio del n.o. idrogeologico.
In questa prospettiva sarebbe inutile
chiedersi se a impedire la decadenza fossero
sufficienti i lavori compatibili con il
punto 4, a) della concessione il cui inizio
è stato comunicato dalla ricorrente sin dal
24.04.2001, tanto più che non è chiarito in
cosa questi lavori consistessero e
francamente appare dubitabile che fossero
possibili lavori non incidenti sul naturale
deflusso delle acque (anche l’eliminazione
della vegetazione e il semplice scavo per le
fondazioni incide sul deflusso delle acque).
E’ più corretto ritenere che la concessione
implicasse per la Monte Ducale l’onere di
attivarsi per ottenere il n.o.
idrogeologico, coltivando il relativo
procedimento, e che per il periodo di
pendenza di tale procedimento il termine di
inizio dei lavori fosse sospeso; né potrebbe
sostenersi che in capo alla ricorrente
gravasse l’onere di compulsare la provincia
di Latina attraverso atti di diffida et
similia e l’instaurazione del giudizio
sul silenzio, dato che l’obbligo di
concludere il procedimento effettivamente
discende dalla legge che le amministrazioni
sono obbligate a rispettare e
dall’amministrato può pretendersi solo la
normale diligenza nel coltivare il
procedimento (cosa che non risulta che la
Monte Ducale non abbia fatto)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 09.02.2012 n. 104 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Se
la traccia è errata candidato subito
all'orale.
Se la traccia del concorso verte su
argomenti non compresi nel programma
esplicitato nel bando, il concorso è da
rifare. E nel frattempo, il candidato
bocciato allo scritto sulla base della
traccia errata, va ammesso alle prove orali.
È quanto si evince dalla
sentenza 08.02.2012 n.
54 del TAR
Basilicata.
La
questione riguardava un concorso promosso da
un ente a partecipazione interamente
pubblica, la Società energetica lucana, che
aveva indetto un concorso per il
reclutamento di un ingegnere.
Alla selezione si erano presentati solo
dieci aspiranti, tra cui il ricorrente, che
però non aveva superato le prove scritte. Di
qui l'esperimento dell'azione giudiziale e
l'ammissione con riserva alle prove orali
del ricorrente in via d'urgenza. Già in sede
cautelare, infatti, il collegio aveva
ritenuto che la non ammissione del
ricorrente alle prove orali fosse immotivata
(ordinanza sospensiva 251/2010).
E adesso il Tar, in sede di giudizio di
ottemperanza, ha spiegato il perché. Secondo
i giudici amministrativi, ferma la
discrezionalità tecnica della commissione
d'esame, nel caso di specie l'illegittimità
rilevava fin dall'origine. La traccia,
infatti, non era conforme al programma
indicato nel bando, perché verteva su
argomenti non compresi in tale programma. Di
qui la conferma dell'ammissione alle prove
scritte.
Quanto agli effetti della sentenza, il
collegio ha spiegato che essi non vanno
oltre l'ammissione alle prove. E ciò vale
anche se il candidato ammesso con riserva
abbia superato le prove. L'assunzione vera e
propria, infatti, potrà avvenire solo dopo
che la sentenza sarà passata in giudicato.
Perché alle sentenze del giudice
amministrativo si applica l'articolo 366 del
codice civile (effetto espansivo esterno).
E quindi c'è sempre il rischio che nei
successivi gradi di giudizio possa
intervenire una riforma della sentenza di
primo grado in senso sfavorevole al
ricorrente. Riforma che, qualora dovesse
verificarsi, estenderebbe i suoi effetti
anche ai provvedimenti e agli atti
dipendenti dalla sentenza di I grado. In ciò
vanificando anche le prove d'esame già
effettuate dal ricorrente.
A nulla rilevando la valutazione positiva
delle prove concorsuali svolte in esecuzione
della pronuncia di primo grado «trattandosi
di provvedimento destinato a venir meno in
virtù della riforma della sentenza»
(articolo ItaliaOggi
del 17.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI:
E' consentita la partecipazione
dei soggetti affidatari diretti di servizi
pubblici locali alla prima gara svolta per
l'affidamento del medesimo servizio anche in
presenza di altri affidamenti in corso (art.
23-bis, c. 9, del d.l. n. 112/2008).
In caso di società affidatarie dirette di
più servizi pubblici locali, il legislatore
(art. 23-bis, c. 9, del d.l. n. 112/2008)
non ha imposto la cessazione di tali
affidamenti come condizione per partecipare
alla "prima gara", ma si è limitato a
consentire tale partecipazione a condizione,
appunto, che fosse la "prima gara svolta
per l'affidamento, mediante procedura
competitiva ad evidenza pubblica, dello
specifico servizio già a loro affidato".
Deve ritenersi maggiormente coerente con la
ratio della disciplina all'epoca
vigente l'interpretazione, secondo cui la
partecipazione alla prima gara per
l'affidamento dello stesso servizio già
affidato è possibile anche in presenza di
altri affidamenti in corso, comunque
destinati a nuove anticipate scadenze.
Una diversa interpretazione condurrebbe a
ritenere che le società affidatarie dirette
di più servizi non possano partecipare alle
nuove gare, anche se gli affidamenti stanno
progressivamente scadendo, finché tale
condizione non si realizzi per tutti gli
affidamenti, rispetto ai quali è anche
dubitabile che le società possano
unilateralmente sciogliersi dai vincoli
contrattuali (solo il vigente art. 4 del
d.l. n. 138/2011 ha previsto, come
condizione per la partecipazione degli
affidatari diretti alle nuove gare, che "sia
stata indetta la procedura competitiva ad
evidenza pubblica per il nuovo affidamento
del servizio o, almeno, sia stata adottata
la decisione di procedere al nuovo
affidamento attraverso la predetta procedura")
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.02.2012 n. 640 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il certificato di agibilità non
assume alcun rilievo sotto il profilo
urbanistico edilizio, assolvendo
all'esclusiva funzione di controllo
sanitario-urbanistico rispetto alla
concessione edilizia a monte rilasciata e
con opere concluse.
Sicché, il ricorso proposto avverso
quest’ultimo non è ammissibile in quanto il
rilascio del certificato di agibilità non
può causare alcun effetto lesivo nei
confronti del ricorrente (avendo tale
certificato l'esclusiva funzione di
accertare la rispondenza di quanto
concretamente realizzato rispetto alla
normativa esistente in epoca ante 1967,
nonché ad accertare il rispetto delle
condizioni igienico-sanitarie).
L’impugnazione avverso il certificato di
agibilità contrasta altresì con
l'orientamento giurisprudenziale che ha
rilevato come il certificato di agibilità
non assuma “alcun rilievo sotto il
profilo urbanistico edilizio, assolvendo
all'esclusiva funzione di controllo
sanitario-urbanistico rispetto alla
concessione edilizia a monte rilasciata e
con opere concluse” (TAR Sardegna
Cagliari, 26.11.2002, n. 1699)
Da ciò ne discende che il ricorso, proposto
avverso quest’ultimo non sia ammissibile, in
quanto il rilascio del certificato di
agibilità non può causare alcun effetto
lesivo nei confronti del ricorrente (avendo
tale certificato l'esclusiva funzione di
accertare la rispondenza di quanto
concretamente realizzato rispetto alla
normativa esistente in epoca ante 1967,
nonché ad accertare il rispetto delle
condizioni igienico-sanitarie).
Peraltro, l'assenza di legittimazione, in
capo al terzo, ad impugnare il certificato
di agibilità è stata affermata dalla
giurisprudenza addirittura in relazione alla
mancata osservanza, all'interno degli
edifici, dei requisiti di carattere
igienico-sanitario necessari per il rilascio
del certificato, in quanto ritenuto
provvedimento non lesivo di alcun interesse
di terzi (cfr. Tar Lombardia, sez. Brescia,
26-05-1992, n. 498)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 26.01.2012 n. 146 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI
PROFESSIONALI:
Delibera della Giunta comunale
con cui si affida un incarico professionale.
Illegittimità per omesso esperimento di una
procedura di evidenza pubblica e per
incompetenza dell’esecutivo comunale.
E’ illegittima una deliberazione con la
quale la Giunta comunale ha affidato ad un
ingegnere, in via diretta, l’incarico
professionale per la realizzazione del piano
strutturale comunale; detto provvedimento,
infatti, da una parte, in ossequio ai
principi generali di concorrenza "per il
mercato", avrebbe dovuto essere adottato
dall’ente locale rispettando le regole che
presiedono allo svolgimento delle procedure
di evidenza pubblica e, dall’altra, è
illegittimo per incompetenza della Giunta in
quanto, pur trattandosi di una attività di
gestione, gli atti del procedimento sono
stati adottati non dall’organo burocratico
ma dall’organo politico, con conseguente
violazione dell’art. 107 del D.lgs. n. 267
del 2000 (Testo unico sull’ordinamento degli
enti locali) (massima tratta da
www.regione.piemonte.it -
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza
31.12.2011 n. 1680 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare da aggiudicare con il
criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa. Potere della commissione
giudicatrice di introdurre elementi di
specificazione dei criteri generali di
valutazione delle offerte e fissare il
metodo di attribuzione dei punteggi.
Nel caso di gare da aggiudicare con il
criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, la commissione giudicatrice può
introdurre elementi di specificazione e
integrazione dei criteri generali di
valutazione delle offerte già indicati nel
bando di gara o nella lettera d'invito,
oppure fissare sottocriteri di adattamento
di tali criteri o regole specifiche sulle
modalità di valutazione, a condizione però
che vi provveda prima dell'apertura delle
buste recanti le offerte stesse e che non
introduca nuovi elementi di valutazione non
previsti dal bando (1). In particolare, è
ammissibile che la commissione di gara,
prima dell'apertura dei plichi contenenti le
offerte, specifichi i criteri motivazionali
previsti dal bando (2).
Nel caso di gare da aggiudicare con il
criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, può ritenersi ammesso che la
commissione di gara fissi la metodologia di
attribuzione dei punteggi, per rendere più
trasparente il proprio apprezzamento, a
garanzia della par condicio dei concorrenti;
la mancata fissazione dei criteri
motivazionali, d'altra parte, non inficia
l'operato della medesima commissione, ove
quest'ultima fornisca comunque
un'argomentata motivazione circa i giudizi
formulati.
Il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, disciplinato dalla normativa
comunitaria e nazionale, non presuppone
inderogabilmente una puntualizzazione dei
criteri di valutazione delle offerte a tal
punto dettagliati da predeterminare in
maniera rigida e stringente il giudizio
sulle singole voci, quasi a trasformarsi,
anche in rapporto alla valutazione del
merito tecnico, in un criterio automatico di
selezione; invero, l'art. 83, del D.L.vo n.
163 del 2006 impone alla stazione appaltante
di valutare le offerte secondo parametri
attinenti all'oggetto dell'appalto sotto il
profilo quantitativo (prezzo, costo di
utilizzazione, redditività, data di
consegna, termine di esecuzione) e sotto il
profilo qualitativo (qualità, pregio
tecnico, caratteristiche estetiche,
funzionali ed ambientali, servizio
successivo, assistenza tecnica).
Nel caso di gare da aggiudicare con il
criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, per ciò che concerne l'esame
dell'aspetto qualitativo, la stazione
appaltante, onde identificare in concreto
l'offerta economicamente più vantaggiosa,
può considerare ogni singolo elemento
offerto, valutandone ogni concreta ed
effettiva caratteristica e qualità con
diretta incidenza ed utilità rispetto a
quello da aggiudicarsi, trattandosi pur
sempre dell'aspetto qualitativo dell'offerta
e dovendosi scegliere quella concretamente
più vantaggiosa per la p.a. (3).
---------------
(1) Corte di Giust., sez. II, 24.11.2005,
C-331/04, secondo cui la commissione di gara
può integrare e specificare i criteri di
bando, con il solo limite di non poter
introdurre nuovi criteri di qualificazione,
né modificare i limiti di punteggio massimo
e minimo stabiliti nel bando.
(2) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 13.07.2010 n.
4502; sez. V, 16.06.2010 n. 3806; sez. VI,
17.05.2010 n. 3052; sez. VI, 11.03.2010 n.
1443; sez. V, 15.02.2010 n. 810
(3) Cons. Stato, sez. VI, 15.09.2011, n.
5157; sez. V, 08.09.2008, n. 4271;
11.05.2010, n. 2826 (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 13.12.2011 n. 1281
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
CONSIGLIO DI STATO/ Concessioni
edilizie. Il costo di costruzione segue
l'immobile.
Il costo di costruzione?
Segue l'immobile, non le persone. Chi chiede
la concessione edilizia ma poi la cede a un
terzo non può essere «inseguito» come
debitore dal Comune per il pagamento
dell'onere: è escluso, infatti, che si
configuri una responsabilità solidale tra
chi ha soltanto chiesto il titolo
abilitativo e chi lo ha concretamente
utilizzato.
È quanto emerge dalla
sentenza
30.11.2011 n. 6333 della V
Sez. del Consiglio di stato.
Si conclude con la netta sconfitta dell'ente
locale la controversia che riguarda un'area
edificabile in un comune brianzolo.
Ha sbagliato l'amministrazione per anni a «perseguitare»
il cittadino chiedendogli il versamento di
una somma in realtà non dovuta (la vicenda,
fra l'altro, ha origine quasi trentacinque
anni orsono). In base all'articolo 3 della
legge 10/1977 la concessione edilizia
comporta la corresponsione di un contributo
commisurato all'incidenza delle spese di
urbanizzazione e al costo di costruzione.
Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel
ritenere che il costo di costruzione è una
prestazione patrimoniale di natura
impositiva e trova la sua ratio
nell'incremento patrimoniale che il titolare
del permesso di costruire consegue in
dipendenza dell'intervento edilizio: la
condizione di esigibilità, quindi, è la
sussistenza di un titolo abilitativo valido
ed efficace e la concreta fruizione del
titolo da parte del concessionario, vale a
dire la circostanza che la costruzione
risulti effettivamente realizzata; deve
pertanto essere escluso che chi ha chiesto
la voltura della concessione edilizia a un
terzo subito dopo l'ottenimento possa essere
ritenuto soggetto obbligato per legge al
versamento del contributo commisurato al
costo di costruzione: il cittadino del
comune brianzolo, nella specie, non ha
nemmeno ritirato il titolo.
Deve infine essere smentita anche l'ipotesi
di una responsabilità solidale successiva
alla voltura della concessione: la
solidarietà, infatti, si configura quando
più debitori sono per legge o per titolo
obbligati tutti per la stessa prestazione
(articolo 1292 Cc), sicché non c'è
solidarietà se manca in uno dei soggetti,
pur astrattamente collegati al rapporto, la
qualità di debitore.
Nel nostro caso è l'effettiva fruizione del
titolo edilizio che rappresenta il fatto
costitutivo della fonte dell'obbligazione
pecuniaria: chi non ha utilizzato il titolo
non assume neppure la qualifica di soggetto
coobbligato e, dunque, non è tenuto al
pagamento (articolo
ItaliaOggi del 16.02.2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Abusi edilizi -
Obbligo della P.A. di adottare provvedimenti
repressivi anche a distanza di tempo -
Permane.
2. Abusi edilizi -
Potere sanzionatorio della P.A. in seguito
ad esaurimento del potere inibitorio -
Permane - Silenzio della P.A. su istanza
tesa a provocare intervento repressivo a
fronte di lavori abusivi conclamati tali -
Illegittimità.
1. A seguito dell'accertamento di episodi di
abusivismo la P.A. è obbligata ad adottare i
provvedimenti repressivi previsti
dall'ordinamento, mantenendo intatto nel
tempo il potere sanzionatorio per verificare
che i fatti denunciati e le opere eseguite
siano conformi alle fattispecie
regolamentari esistenti (cfr. Cons. di
Stato, sent. n. 986/2011).
2.
La P.A., pur dopo l'esaurimento del potere
inibitorio, può sempre comunque intervenire
per sanzionare l'esistenza di opere
abusivamente realizzate ed ordinare in
proposito ciò che ritiene legittimo ed
opportuno per la risistemazione della
fattispecie -a seconda dei casi, ordine di
demolizione, pagamento di sanzione
pecuniaria, richiesta di permesso di
costruire, ecc.- (cfr. Cons. di Stato, sent.
n. 513/2008): deve, pertanto, ritenersi
impugnabile il silenzio-inadempimento
serbato dalla P.A. comunale su un'istanza
tesa a provocare un intervento repressivo, a
fronte di lavori abusivi eseguiti da
proprietari confinanti e conclamati tali a
seguito della revoca in autotutela del
permesso di costruire in precedenza
rilasciato dall'amministrazione
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 24.11.2011 n.
2899 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
1. Ricorso giurisdizionale - Legittimazione
attiva - Comune - Ente esponenziale di
interessi della collettività - Sussiste -
Condizioni.
2. Ricorso giurisdizionale - Legittimazione
attiva - Comune - Ente esponenziale di
interessi della collettività - In caso di
vicinanza di impianto di consistenti
dimensioni preposto alla produzione di
energia elettrica in Comune finitimo -
Legittimazione ad agire - Sussiste.
3. Ricorso giurisdizionale - Legittimazione
attiva - Comune - Ente esponenziale di
interessi della collettività - Condizioni -
Mera utilità ipotetica ed eventuale -
Legittimazione ad agire - Non sussiste -
Vicinitas - E' insufficiente.
1. La legittimazione a ricorrere avverso
provvedimenti di altra P.A. spetta al
Comune, quale ente esponenziale della
comunità municipale, in tutti i casi in cui
agisca a tutela di interessi collettivi,
purché si tratti di interesse differenziato
e qualificato, che ruota attorno
all'incidenza sul territorio comunale dei
provvedimenti impugnati.
E ciò, con
l'ulteriore precisazione che, nel caso in
cui la legittimazione sia ancorata alla vicinitas ed il Comune agisca in via
surrogatoria degli interessi dei cittadini
residenti nel proprio territorio, la
legittimazione del Comune, dovendo
modellarsi su quella ordinariamente
spettante ai soggetti surrogati, postula la
prospettazione di concrete ripercussioni sul
territorio, in relazione alle quali i
ricorrenti sono in posizione qualificata
(cfr. Cons. di Stato, sent. n. 492/2002, n.
98/2002; TAR Milano, sent. n. 383/2011,
n. 90/2011; Cons. di Stato, sent. n.
1548/2008, n. 6657/2002).
2. La vicinanza di un impianto di
consistenti dimensioni preposto alla
produzione di energia elettrica, radica in
capo al comune finitimo la legittimazione ad
agire, poiché essa non può essere
subordinata alla produzione di una prova
puntuale della concreta pericolosità
dell'impianto, reputandosi sufficiente la
prospettazione delle temute ripercussioni su
un territorio comunale collocato nelle
immediate vicinanze della centrale da
realizzare (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
3263/2004; TAR Roma, sent. n. 5481/2005;
TAR Bari, sent. n. 1098/2003).
3. Nel caso in cui l'utilità che il Comune
aspiri a conseguire dall'annullamento di
piani attuativi di altro Comune finitimo sia
meramente ipotetica ed eventuale -e da tali
piani non derivi la localizzazione di opere
che possano avere ripercussioni negative sul
Comune ricorrente- non è sufficiente la
condizione della vicinitas per configurare
in capo al Comune la legittimazione ad
agire.
Nel caso di specie, non sono stati ritenuti
sufficienti a configurare la legittimazione
ad agire in capo al Comune ricorrente le
future implicazioni derivanti dai piani
attuativi del comune finitimo, consistenti
nell'inevitabile incremento di popolazione
producibile dagli stessi, destinata a
riversarsi anche sulle proprie strade, sui
propri parchi o sulle scuole convenzionate
tra i Comuni viciniori (cfr. Cons. di Stato,
sent. n. 9537/2010, n. 5244/2009; TAR
Venezia, n. 265/2011; TAR Brescia, sent. n.
2238/2009)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
24.11.2011 n.
2898 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Abuso edilizio
- Onere della prova - A carico dell'autore -
Sussiste - Ratio.
2. Abuso edilizio
- Onere della prova - Autodichiarazione
allegata alla domanda di condono edilizio -
Natura - Principio di prova.
3. Abuso edilizio
- Ingiunzione di demolizione - Soggetti
passivi - Ingiunzione verso il proprietario
non autore dell'abuso - Legittimità.
1. In materia di ripartizione dell'onere
della prova, rispetto al profilo specifico
della data di realizzazione delle opere da
sanare, l'onere grava sul richiedente la
sanatoria: ciò, perché, mentre la P.A. non è
normalmente in grado di accertare la
situazione edilizia di tutto il proprio
territorio alla data indicata dalla
normativa sul condono, colui che richiede la
sanatoria può, invece, fornire qualche
documentazione da cui si desuma che l'abuso
sia stato effettivamente realizzato entro la
data predetta, come ad es. fatture,
ricevute, bolle di consegna, relative
all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto
dei materiali.
Pertanto, colui che ha
commesso l'abuso non può trasferire il
suddetto onere in capo alla P.A. qualora non
sia in grado di fornire elementi e documenti
atti a sostenere la richiesta legittima di
condono edilizio (cfr. Cons. di Stato, sent.
n. 752/2011; TAR Milano, sent. n.
1003/2011, n. 94/2011, n. 980/2005).
2. In materia di ripartizione dell'onere
della prova, rispetto al profilo specifico
della data di realizzazione delle opere da
sanare, l'autodichiarazione del privato
allegata alla domanda di condono edilizio,
attestante la ultimazione delle opere
abusive entro la data prevista dalla legge,
non presenta valenza probatoria
privilegiata, bensì costituisce
esclusivamente un principio di prova,
destinato a cedere in presenza di più
consistenti elementi probatori in possesso
della P.A. (cfr. TAR Milano, sent. n.
1003/2011).
3. L'ordine di demolizione del manufatto
abusivo è legittimamente adottato nei
confronti del proprietario dell'immobile
indipendentemente dall'essere egli stato
anche autore dell'abuso, salva la facoltà
del medesimo di far valere, sul piano
civile, la responsabilità, contrattuale o
extracontrattuale, del proprio dante causa
(cfr. Cassaz. Pen., sent. n. 39322/2009)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.11.2011 n.
2829 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: 1. Ricorso amministrativo - Legittimazione e
interesse a ricorrere - Ricorso avverso
piani attuativi - Condizioni - Pregiudizio
specifico e interesse concreto, attuale ed
immediato - Necessità.
2. Ricorso amministrativo - Legittimazione e
interesse a ricorrere - Ricorso avverso
provvedimenti in materia edilizia -
Possibilità di ricorrere per "chiunque" -
Condizioni - Situazione di stabile
collegamento con la zona interessata dal
provvedimento - Necessità.
3. Ricorso amministrativo - Legittimazione e
interesse a ricorrere - Ricorso avverso
piani urbanistici - Condizioni - Vicinitas -
Non sufficienza - Effettività del danno -
Necessità.
1. In materia di impugnazione di piani
attuativi, la sussistenza della legitimatio
ad causam postula la prospettazione di
concrete ripercussioni sul territorio, in
relazione alle quali il ricorrente deve
porsi in una posizione qualificata: infatti,
la legittimazione e l'interesse ad agire
devono attenere ad una situazione personale
e differenziata, nonché ad un interesse
concreto, attuale ed immediato di cui il
ricorrente deve essere portatore diretto
(cfr. Cons. di Stato, sent. n. 486/2011).
2. La possibilità riconosciuta a "chiunque"
di ricorrere avverso i provvedimenti in
materia edilizia, ex art. 31, comma 9, Legge
n. 1150/1942, come modificato dall'art. 10,
L. 06.08.1967 n. 765, deve essere intesa
nel senso di consentire l'impugnativa
soltanto a chi si trovi in una situazione di
stabile collegamento con la zona, data dalla
residenza, dal possesso o detenzione di
immobili o da altro titolo di collegamento
con l'ambito territoriale interessato (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 1189/2010, n.
9301/2009).
3. Ai fini della legittimazione
all'impugnazione di piani urbanistici, anche
attuativi, è necessario che l'esponente
fornisca la prova non solo della vicinanza
del proprio fondo a quello oggetto del
piano, ma anche dell'effettività del danno
derivante dall'intervento urbanistico;
quanto all'incisività dell'intervento, essa
non può di per sé, in mancanza di altri
elementi, assurgere a prova del concreto
nocumento a carico degli esponenti (cfr.
TAR Milano, sent. n. 90/2011, n. 1551/2008;
Cons. di Stato, sent. n. 1548/2008)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.11.2011 n.
2824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: 1. Opere strategiche - Normativa applicabile
- E' disciplina speciale - Differenze dal
procedimento ordinario - Possibilità di
partecipazione di soggetti privati - Non
sussiste.
2. Opere pubbliche - Valutazione di impatto
ambientale - Finalità - Realizzazione della
migliore mediazione possibile tra le
esigenze funzionali dell'opera e l'impatto
che la sua esecuzione effettivamente
produce.
3. Opere strategiche - Valutazione di
impatto ambientale - Oggetto della
valutazione - Progetto preliminare -
Conseguenze.
4. Opere strategiche - Valutazione di
impatto ambientale - Necessità di nuovo
procedimento di V.I.A. in sede di progetto
definitivo - Non sussiste.
1. Il procedimento delle opere strategiche,
disciplinato dalla normativa speciale -in
particolare art. 3, D.Lgs. n. 190/2002
dettato in attuazione della Legge 443/2001
per la realizzazione delle infrastrutture e
degli insediamenti produttivi strategici di
interesse nazionale, norma poi abrogata
dall'art. 256, D.Lgs. 12.04.2006-
diverge significativamente dall'ordinario
procedimento, in quanto non è prevista
alcuna forma di partecipazione dei soggetti
privati; le maggiori differenze attengono,
poi, al progetto preliminare, che (i) deve
evidenziare tutta una serie di elementi
oltre a quanto previsto nell'art. 16 della
legge quadro, (ii) non è sottoposto a
conferenza di servizi, (iii) comporta
l'accertamento della compatibilità
ambientale, (iv) viene a comportare un
assoggettamento di tutti gli immobili in cui
è localizzata l'opera al vincolo preordinato
all'esproprio ai sensi dell'art. 10 D.P.R.
327/2001, con variazione automatica degli
strumenti urbanistici vigenti.
2. La valutazione dell'impatto ambientale,
quale prevista nelle indicate direttive
comunitarie n. 337/85 CEE e n. 11/97/CE e
dalla normativa interna di relativo
recepimento, è specificamente finalizzata
all'individuazione, descrizione e
quantificazione degli effetti che un
determinato progetto, opera o attività
potrebbero avere sull'ambiente: la procedura
tende ad accertare la sostenibilità
ambientale degli interventi, verificando,
per il singolo progetto, il suo inserimento
ottimale nel territorio e realizzando la
migliore mediazione possibile tra le
esigenze funzionali dell'opera e l'impatto
che la sua esecuzione effettivamente
produce.
3. Per le opere strategiche la VIA si svolge
sul progetto preliminare e non su quello
definitivo: è, quindi, nel primo livello di
progettazione che devono essere individuati
gli elementi che possono avere una incidenza
negativa sull'ambiente, in modo da poter
adeguare il progetto definitivo.
Il tutto,
al fine di prevenire il danno ambientale,
con il passaggio da un sistema di
ripristino, a valle, del danno medesimo ad
un sistema di previsione-prevenzione, a
monte, dello stesso nella gestione del
territorio e delle risorse naturali.
4. Poiché per le infrastrutture strategiche
la procedura V.I.A. viene effettuata sul
progetto preliminare, in sede di progetto
definitivo la Commissione competente deve
limitarsi a verificare che il progetto
definitivo abbia rispettato le prescrizioni
contenute nel parere di compatibilità
ambientale, ma non viene previsto in alcun
caso un nuovo procedimento di V.I.A.
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.11.2011 n.
2822 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Legittimazione
ad agire delle associazioni ambientaliste -
Presupposti - Possibilità di fare valere
profili di illegittimità non attinenti al
profilo ambientale - Non sussiste.
2. Ricorso per
motivi aggiunti - Deposito tempestivo di
atti in giudizio - Termine di impugnazione -
Decorrenza - Alla scadenza del termine
previsto per il deposito.
1. Le associazioni ambientali sono
legittimate ad impugnare atti amministrativi
ritenuti illegittimi e lesivi degli
interessi sostanziali degli associati,
incidenti sull'ambiente, per profili
relativi a questi ultimi aspetti: pertanto,
non solo il provvedimento da esse impugnato
deve avere una diretta e immediata rilevanza
ambientale, ma devono essere dedotte censure
che concernono l'assetto normativo di tutela
dell'ambiente o la violazione di norme poste
a salvaguardia dell'ambiente. Ciò porta ad
escludere la possibilità per una
associazione ambientale, già titolare di una
legittimazione ex lege per la tutela
dell'ambiente, di poter fare valere profili
di illegittimità degli atti impugnati che
non attengono appunto al profilo ambientale.
2. Nel caso di deposito di documenti in
giudizio entro i termini ordinatori, essendo
configurabile un onere del ricorrente di
accertare in segreteria l'eventuale
deposito, il termine per la proposizione di
motivi aggiunti decorre dalla data del
deposito stesso (cfr. TAR Perugia, sent.
n. 199/2009; TAR Brescia, sent. n. 687/2006)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.11.2011 n.
2822 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Conflitto di
interessi degli amministratori locali -
Dovere di astensione - Quando è
configurabile - Stretta correlazione fra la
previsione urbanistica e lo specifico e
particolare interesse dell'amministratore o
del suo parente o affine - Necessità.
Ai sensi dell'art. 78, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, Testo Unico degli Enti
Locali, gli amministratori locali -nel caso
di specie i consiglieri comunali- devono
astenersi dal prendere parte alla
discussione e alla votazione di delibere
riguardanti interessi propri o di loro
parenti o affini sino al quarto grado:
tuttavia, ai fini dell'astensione, si
ritiene debba essere provata una stretta
correlazione fra la previsione urbanistica e
lo specifico e particolare interesse
dell'amministratore o del suo parente o
affine, per cui meri vantaggi indirettamente
ottenibili dalla deliberazione non
rappresentano un ostacolo alla
partecipazione ed alla votazione da parte
dell'amministratore stesso.
Tale
interpretazione restrittiva dell'art. 78 è
giustificata con la necessità di evitare,
soprattutto nei piccoli comuni, la
sostanziale paralisi dell'azione
amministrativa che deriverebbe da
un'interpretazione esageratamente
formalistica del summenzionato obbligo di
astensione (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
3663/2011, 133/2011, 6875/2010; TAR
Milano, sent. n. 4750/2009; TAR Catanzaro,
sent. n. 1386/2004)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.11.2011 n.
2821 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Decreto
di occupazione d'urgenza a seguito di
dichiarazione di urgenza ed indifferibilità
dell'opera - Motivazione - Non necessita.
In caso di intervenuta dichiarazione di
urgenza ed indifferibilità dell'opera, il
decreto di occupazione d'urgenza dei fondi
oggetto della procedura espropriativa si
pone quale ordinaria conseguenza, non
necessitando quindi di specifica ed
analitica motivazione, avendo la P.A., in un
precedente atto della procedura
espropriativa, già individuato le ragioni di
urgenza (cfr. TAR Catanzaro, sent. n.
312/2011; TAR Milano, sent. n. 101/2011)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.11.2011 n.
2821 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Ricorso amministrativo - Legittimazione e
interesse a ricorrere - Vicinitas -
Insufficienza - Pregiudizio specifico -
Necessità.
La
vicinitas può legittimare un ricorso
solo qualora per effetto della realizzazione
della contestata costruzione la situazione,
anche urbanistica, dei luoghi assuma
caratteristiche tali da configurare una
pregiudizievole alterazione del preesistente
assetto edilizio ed urbanistico, che il
ricorrente intende invece conservare:
l'esistenza della vicinitas abilita, dunque,
il soggetto ad agire per il ripristino delle
norme edilizie ed urbanistiche che assume
violate, a condizione che vi sia un
interesse al mantenimento del preesistente
assetto edilizio (cfr. TAR Milano, sent.
n. 1244/2011, 90/2011; TAR Trento, sent. n.
80/2011)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.11.2011 n.
2811 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Parti comuni - Area
dell'appartamento a piano terra - Non è
parte comune - Area di sedime sottostante
l'edificio condominiale - E' parte comune.
In materia di condominio e parti comuni,
la parte comune del condominio non è l'area
dell'appartamento del piano terra, bensì
l'area di terreno sita in profondità su cui
posano le fondamenta dell'immobile, cioè
l'area di sedime sottostante l'edificio
condominiale (cfr. Corte d'Appello, Roma,
sent. n. 3354/2008; Cass. Civ., sent. n.
6921/2001)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.11.2011 n.
2811 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
agli atti - Pareri o relazioni legali
riservati - Possibilità di accesso -
Soltanto se posti alla base del
provvedimento finale.
I pareri legali o le relazioni legali
riservate sono suscettibili di accesso
soltanto se posti alla base del
provvedimento finale, costituendone parte
integrante della motivazione: in caso
contrario sono sottratti all'accesso atti
(cfr. Cons. di Stato, sent. n. 3812/2011 e
n. 2163/2004; TAR Catania, sent. n.
658/2011; TAR Napoli, sent. n. 5264/2007)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
18.11.2011 n.
2788 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Fascia di
rispetto cimiteriale - Divieto di
edificazione - Art. 338, R.D. n. 1265/1934 -
Applicabilità - Non sussiste.
2. Fascia di
rispetto cimiteriale - Vincolo di inedificabilità - Peculiarità.
1. Laddove la disciplina urbanistica di zona
vieti qualunque edificazione all'interno
della fascia di rispetto cimiteriale, non è
possibile applicare la previsione dell'art.
338, R.D. n. 1265/1934, essendosi comunque
in presenza di un organismo che integra una
"nuova costruzione", ai sensi dell'art. 3,
comma 1, lett. e), D.P.R. n. 380/2001.
2. Il vincolo di inedificabilità derivante
dalla fascia di rispetto cimiteriale deve
dirsi peculiare rispetto ad analoghi
vincoli, attesa la necessità di
salvaguardare, tra l'altro, la tranquillità
e il decoro dei luoghi di sepoltura (cd.
pietas dei defunti)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
14.11.2011 n.
2734 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Piscina -
Contrasto con le prescrizioni di zona -
Vincolo pertinenziale - Non sussiste.
Non si configura vincolo pertinenziale
tra l'abitazione (cosa principale) e la
piscina (pertinenza) in caso di contrasto di
quest'ultima con le prescrizioni
urbanistiche di zona
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
14.11.2011 n.
2734 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di
costruire - Interventi relativi a manufatti
interrati - Trasformazione durevole
dell'area di pertinenza - Necessità del
permesso di costruire - Sussiste.
Rappresentano interventi soggetti a permesso
di costruire non soltanto quelli relativi a
manufatti che si elevino al di sopra del
suolo, ma anche quelli in tutto o in parte
interrati, ove gli stessi siano volti a
trasformare in modo durevole l'area di
pertinenza
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
14.11.2011 n.
2734 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di
costruire - Variante - Mutamento delle
caratteristiche di utilizzazione dell'opera
- Variante essenziale - Sussiste.
Una variante al permesso di costruire che
dà luogo a un mutamento delle
caratteristiche di utilizzazione dell'opera,
quali quelle intercorrenti tra una piscina e
un laghetto ornamentale, è riconducibile
alla nozione di "variante essenziale", in
toto equiparabile a un intervento di nuova
costruzione, di cui all'art. 32, comma 1),
lett. d), D.P.R. n. 380/2001
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
14.11.2011 n.
2734 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di
demolizione - Misura dell'area da acquisire
- Carattere meramente indicativo - Sussiste
- Art. 31, D.P.R. n. 380/2001 - Procedimento
sanzionatorio - Corretta determinazione
della misura.
La misura dell'area da acquisire contenuta
nell'ordine di demolizione deve reputarsi
meramente indicativa, in quanto la corretta
determinazione potrà avvenire soltanto dopo
il rituale accertamento, da parte del
Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione,
allorché sarà avviato, nell'ambito del
procedimento sanzionatorio di cui all'art.
31, D.P.R. n. 380/2001, un sub-procedimento
specificamente finalizzato alla precisa
individuazione delle aree da acquisire
gratuitamente, ai sensi del comma
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
14.11.2011 n.
2734 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso agli atti
- Procedimento di localizzazione di impianto
- V.I.A. - Atti privi di valore
provvedimentale - Carenza di interesse -
Inammissibilità.
Nonostante l'ampiezza attribuita
all'istituto dell'accesso agli atti
(riconosciuto a chiunque possa dimostrare
che gli atti procedimentali oggetto
dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei
a spiegare effetti diretti o indiretti nei
suoi confronti indipendentemente dalla
lesione di una posizione giuridica), lo
stesso non può, per abnormità della
richiesta, mettere in crisi l'organizzazione
dell'Ente, dovendosi ritenere, in merito al
procedimento di localizzazione di una
centrale di cogenerazione che potrebbe
essere realizzata su un'area limitrofa ad
insediamenti residenziali della ricorrente,
non sussistente un interesse ad accedere
agli ulteriori atti, privi di valore
provvedimentale, connessi al decreto
conclusivo del procedimento di valutazione
d'impatto ambientale (V.I.A.) conosciuto con
l'accesso
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.11.2011 n.
2661 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso di
costruire - Impugnazione - Decorrenza del
termine dalla data di inizio lavori - Non
sussiste - Decorrenza del termine dalla
piena conoscenza della lesività dell'opera -
Sussiste.
Poiché il
dies a quo del ricorso per
l'annullamento prende a decorrere solo dal
momento della piena conoscenza dell'adozione
dell'atto lesivo, in materia edilizia la
decorrenza del termine non può essere fatta
coincidere con la data in cui i lavori hanno
avuto inizio, in quanto il termine inizia a
decorrere quando la costruzione realizzata
rivela in modo certo ed univoco le
essenziali caratteristiche dell'opera e
l'eventuale non conformità della stessa al
titolo e alla disciplina urbanistica
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.11.2011 n.
2660 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio
- Immobile appartenente a più proprietari -
Pluralità di domande di permesso di
costruire in sanatoria - Limite del 20%
della volumetria originaria ex L.R. n.
13/2009 - Necessità di computo con
riferimento alle singole domande di
sanatoria - Sussiste.
Nel caso di immobile appartenente a più
proprietari che abbiano presentato separate
domande di permesso di costruire in
sanatoria, il limite massimo del 20% della
volumetria della costruzione originaria
previsto dalla L.R. n. 13/2009 deve essere
computato con riferimento alle singole
domande di sanatoria presentate da soggetti
differenti
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.11.2011 n.
2660 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. D.I.A. - Ordine
di sospensione lavori - Sopravvenuta carenza
di interesse - Art. 34 c.p.a. - Interesse a
un risarcimento del danno - Prospettazione -
Improcedibilità.
2. D.I.A. -
Annullamento di titolo edilizio - Contrasto
con valori paesaggistici - Carenza di
motivazione - Illegittimità.
1. Sebbene l'art. 34, c. 3, c.p.a. rimetta,
nel caso di sopravvenuta carenza di
interesse, al giudice di accertare
"l'illegittimità dell'atto se sussiste
l'interesse ai fini risarcitori", laddove
tale interesse non sia stato concretizzato
dalla ricorrente tramite la presentazione
formale di una specifica domanda (la quale è
proponibile entro il termine di cui all'art.
30, c. 5, c.p.a.) non si può affermare che
competa al Giudice rilevare ex officio
l'ipotetica presenza di un interesse la cui azionabilità è ancora in potere della parte
interessata, né è sufficiente la semplice
segnalazione in tal senso della parte per
evitare che il ricorso sia dichiarato
improcedibile.
2. L'annullamento di un titolo edilizio
fondato proprio sul contrasto con i valori
paesaggistici non può apoditticamente
affermare che la realizzazione del progetto
pregiudica i valori ambientali e
paesaggistici, ma deve basarsi sulla
esistenza di circostanze di fatto o di
elementi specifici, che nel caso di specie
dovrebbero essere stati individuati dalla
competente Commissione del Paesaggio
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.11.2011 n.
2656 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Impugnazione
atti amministrativi - Motivazione del
provvedimento - Pluralità di motivi -
Legittimità di un solo motivo - Salvezza del
provvedimento - Sussiste - Infondatezza del
ricorso - Sussiste.
In caso di impugnazione giurisdizionale di
atti amministrativi fondati su una pluralità
di considerazioni motivazionali, ciascuna
delle quali di per sé idonea a supportare la
parte dispositiva del provvedimento, è
sufficiente che una sola resista al vaglio
giurisdizionale perché il provvedimento
resti indenne e il ricorso venga dichiarato
infondato
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.11.2011 n.
2655 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Piano di
Recupero - Proprietario limitrofo -
Limitazione della veduta - Interesse a
ricorrere - Mancanza di danno - Sussiste.
2. Piano di
Recupero - Violazione distanza tra gli
edifici - Intervento di ristrutturazione -
Art. 9 d.m. n. 1444/1968 - Sopraelevazione -
Illegittimità.
1. Sussiste l'interesse a ricorrere avverso
l'approvazione di un Piano di Recupero in
capo al proprietario limitrofo che,
lamentando la lesione dell'interesse a
godere della veduta, dimostri la titolarità
di una costruzione in area limitrofa a
quella dell'esecuzione dei lavori, anche se
non abbia fornito la prova che questi ultimi
abbiano cagionato un danno.
2. Tutti gli interventi edilizi che
comportino l'ampliamento di edifici
all'esterno della sagoma esistente sono
soggetti alla disciplina delle distanze tra
gli edifici, in quanto l'art. 9 d.m. 02.04.1968
n. 1444, pur riferendosi alla realizzazione
di nuovi edifici è applicabile anche agli
interventi di sopraelevazione e, dunque,
anche alle ristrutturazioni, quando
comportano un incremento dell'altezza del
fabbricato, risultando conseguentemente
illegittima l'approvazione del progetto di
Piano di Recupero che autorizza tale
ristrutturazione in violazione delle
distanze minime tra gli edifici (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.11.2011 n.
2654 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. Cambio di
destinazione d'uso in violazione del P.R.G.
- Sanzione Amministrativa - Valore degli
immobili - Perizia di stima -
Discrezionalità tecnica - Legittimità.
2. Cambio di
destinazione d'uso in violazione del P.R.G.
- Sanzione Amministrativa - Valore degli
immobili - Osservatorio del Mercato
Immobiliare - Organismo pubblico -
Legittimità.
1. Non sussistendo radicale diversità tra la
destinazione commerciale e quella terziaria,
risulta legittima la perizia di stima del
valore degli immobili effettuata
dell'Agenzia del Territorio che, essendo
espressione di discrezionalità tecnica è
censurabile soltanto in caso di evidenti
errori o macroscopiche illogicità, non
riscontrabili nel caso di specie, risultando
conseguente legittima la sanzione
amministrativa impugnata.
2. Non è viziata da difetto di motivazione
la perizia di stima del valore degli
immobili dell'Agenzia del Territorio che
richiama i dati dell'Osservatorio del
Mercato Immobiliare, senza sottoporli ad
adeguata valutazione, in quanto
l'Osservatorio è un organismo pubblico,
istituito presso l'Amministrazione
Finanziaria ai fini di agevolare l'attività
di stima degli immobili svolta dall'Agenzia
del Territorio le cui valutazioni, seppure
non vincolanti, hanno carattere di
ufficialità
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.11.2011 n.
2649 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Valutazioni
tecniche dell'Agenzia del Territorio - Censurabilità
- Solo in caso di evidenti errori o
macroscopiche illogicità.
Le valutazioni tecniche espresse
dall'Agenzia del Territorio in ordine alla
stima di un immobile del rappresentano
manifestazione di discrezionalità tecnica,
censurabile soltanto in caso di evidenti
errori o macroscopiche illogicità (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.11.2011 n.
2648 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rilascio del
certificato di agibilità/abitabilità - Artt.
24 e 25, D.P.R. n. 380/2001 - Sanzione
pecuniaria ex art. 53, L.R. 12/2005 -
Autonomia dei procedimenti - Sussiste -
Ritardo nel rilascio del certificato -
Illegittimità del provvedimento
sanzionatorio - Non sussiste.
Il procedimento di rilascio del
certificato di agibilità/abitabilità, di cui
agli artt. 24 e 25, D.P.R. n. 380/2001, e il
procedimento di irrogazione della sanzione
pecuniaria di cui all'art. 53, L.R. 12/2005,
appaiono autonomi e distinti fra loro, per
cui l'eventuale ritardo nel rilascio del
certificato stesso può dare luogo alla
responsabilità risarcitoria
dell'Amministrazione, ma non incide sulla
legittimità del provvedimento sanzionatorio
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.11.2011 n.
2648 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. Condono edilizio
- Zone soggette a vincolo idrogeologico -
Art. 32, comma 27, D.L. n. 269/2003 -
Sanabilità - Non sussiste.
2. Condono edilizio
- Zone soggette a vincolo idrogeologico -
Mancato accertamento di compatibilità
dell'immobile con le ragioni del vincolo -
Discrezionalità della P.A. - Non sussiste.
3. Condono edilizio
- Riscossione dell'I.C.I. sull'immobile
abusivo - Ammissione di regolarità
dell'opera - Non sussiste.
1. A norma dell'art. 32, comma 27, D.L. n.
269/2003, gli abusi edilizi realizzati in
zone soggette a vincolo idrogeologico non
sono in alcun caso sanabili, non potendo
limitarsi l'applicazione della norma
soltanto ai casi di contrasto urbanistico e
non anche a quelle di rilievo meramente
edilizio.
2. Deve ritenersi corretto l'operato
dell'Autorità preposta alla tutela del
vincolo che non abbia svolto accertamenti
sulle caratteristiche dell'immobile oggetto
dell'istanza di condono che insiste in area
sottoposta a vincolo idrogeologico, al fine
di valutare la sua eventuale compatibilità
con le ragioni del vincolo stesso, non
disponendo, al riguardo, l'amministrazione
di alcun margine di discrezionalità.
3. La riscossione dell'I.C.I. sull'immobile
abusivo da parte del Comune non rappresenta
ammissione, neppure implicita, di regolarità
dell'opera realizzata, a fronte
dell'illecito permanente rappresentato dalla
persistenza nel tempo dell'opera priva del
necessario titolo edilizio, che preserva il
potere-dovere dell'Amministrazione di
intervenire nell'esercizio dei suoi poteri
sanzionatori
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.11.2011 n.
2618 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ordinanze contingibili e urgenti - Necessità di una
situazione di effettivo pericolo di danno
grave e imminente per l'incolumità pubblica
non ordinariamente fronteggiabile - Sussiste
- Necessità di approfondita istruttoria e
motivazione - Sussiste.
Il potere sindacale di emanare ordinanze
contingibili e urgenti, tali da prescindere
anche dalle comunicazioni preventive di
avvio del procedimento ex art. 7 e ss., L.
n. 241/1990, richiede l'imprescindibile
sussistenza di una situazione di effettivo
pericolo di danno grave e imminente per
l'incolumità pubblica, non fronteggiabile
con gli ordinari strumenti di
amministrazione attiva, debitamente motivato
a seguito di adeguata e approfondita
istruttoria
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
27.10.2011 n.
2579 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Denuncia di
inizio attività - Impugnazione del terzo -
Necessità di proporre azione ex art 29 cod.
proc. amm. - Sussiste - Decorrenza del
termine decadenziale dalla piena conoscenza
dell'atto lesivo - Sussiste.
Il terzo leso da una d.i.a. deve esperire
un'azione impugnatoria ex art 29 cod. proc.
amm., da proporre nell'ordinario termine
decadenziale, decorrente dal momento della
piena conoscenza dell'atto lesivo, e quindi,
in edilizia, quando la costruzione
realizzata rivela in modo certo ed univoco
le essenziali caratteristiche dell'opera e
l'eventuale non conformità della stessa al
titolo o alla disciplina urbanistica
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
19.10.2011 n.
2482 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Violazione delle
distanze e della disciplina urbanistica -
Proprietari confinanti - Legittimazione al
ricorso - Sussiste -Rilevanza del possibile
futuro utilizzo dell'area - Non sussiste.
Il criterio della "vicinitas"
e il danno concreto risentito dai confinanti
dalla realizzazione dell'opera in ritenuta
violazione delle distanze e della disciplina
urbanistica integrano la legittimazione al
ricorso e l'interesse concreto ed attuale
all'impugnativa, mentre non ha alcun rilievo
il possibile futuro utilizzo dell'area (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
19.10.2011 n.
2482 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Impianto di
autolavaggio - Realizzazione - Rappresenta
nuova costruzione ex art. 3, comma 1, lett.
e.5), D.P.R. n. 380/2001.
La realizzazione di un impianto di
autolavaggio ricade nel novero degli
interventi di nuova costruzione di cui
all'art. 3 comma 1, lett. e.5), D.P.R. n.
380/2001, trattandosi di manufatto
stabilmente infisso al suolo e dotato di
allacciamenti fognari, elettrici e idrici
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
19.10.2011 n.
2482 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Delibera
C.I.P.E. di approvazione progetto
urbanistico - Ente rappresentativo di
interessi diffusi - art. 13 e 18 L. n.
349/1986 - Provvedimento ad efficacia
territoriale limitata - Articolazione
territoriale - Carenza di legittimazione -
Sussiste.
La rappresentanza degli interessi diffusi in
materia ambientale è appannaggio esclusivo
delle associazioni riconosciute ex artt. 13
e 18 L. n. 349/1986, e non già delle loro
articolazioni territoriali, le quali
possono, al massimo, essere dotate di una
legittimazione processuale a rappresentare
l'Associazione nazionale laddove lo statuto
lo consenta, ma alle quali non può essere
riconosciuta una legittimazione ad agire in
proprio neppure se prevista nello statuto e
neppure per l'impugnazione di un
provvedimento ad efficacia territoriale
limitata
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
19.10.2011 n.
2481 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Opere in
difformità dal progetto - Ordinanza di
demolizione - Interesse ad agire in capo al
proprietario o al soggetto legittimato
all'utilizzo delle opere - Sussiste -
Interesse ad agire in capo all'impresa
costruttrice o al progettista - Non
sussiste.
2. Opere in
difformità dal progetto - Parziale
difformità - Esclusione per difformità non
eccedenti il 2 per cento delle misure
progettuali - Art. 5, comma 2, lettera a)
n. 5), D.L. n. 70/2011 - Art. 34, comma
2-ter, D.P.R. n. 380/2001 - Applicabilità
alle singole unità immobiliari - Sussiste -
Possibilità di interpretazione estensiva -
Non sussiste.
1. L'interesse all'impugnazione delle
ordinanze di demolizione deve essere
riconosciuto al proprietario e a chi abbia
un titolo legittimo all'utilizzo delle opere
medesime, e riceva dunque un nocumento dalla
loro demolizione, mentre altri soggetti,
quali l'impresa costruttrice e il
progettista, non hanno alcun interesse
giuridicamente rilevante.
2. La disposizione dell'art. 5, comma 2,
lettera a) n. 5), D.L. n. 70/2011,
introduttivo del comma 2-ter dell'art. 34,
D.P.R. n. 380/2001, che esclude la parziale
difformità in presenza di violazioni di
altezza, distacchi, cubatura o superficie
coperta che non eccedano per singola unità
immobiliare il 2 per cento delle misure
progettuali, stante la natura eccezionale e
derogatoria al regime sanzionatorio, non può
avere una interpretazione estensiva (e cioè
considerare il "surplus" come
riferito al complesso intero), ma può essere
applicata solo alle singole unità
immobiliari
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
19.10.2011 n.
2479 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: 1. Piano di
Recupero - Permesso di costruire - Nullità
sopravvenuta - Impossibilità dell'oggetto -
Legittimità.
2. Piano di
Recupero - Permesso di costruire -
Qualificazione dell'interevento -
Ristrutturazione edilizia - Divieto di
demolizione - Vincolo conformativo delle
N.T.A. al P.R.G. - Sopralzo - Legittimità.
1. Nel caso di accertata sopravvenuta
impossibilità, per fatto imputabile alla
ricorrente, di realizzare il progetto di cui
al permesso di costruire rilasciato,
l'Amministrazione può legittimamente
rivedere la pianificazione attuativa
dell'area interessata dall'interevento e,
prendendo atto del venire meno di un
elemento essenziale del titolo abilitativo,
comminare la nullità dell'atto
amministrativo privo degli elementi
essenziali ai sensi dell'art. 21-septies L.
n. 241/1990, segnatamente del permesso di
costruire affetto da nullità per
sopravvenuta impossibilità dell'oggetto.
Di
conseguenza risulta legittima la
declaratoria di parziale nullità del
permesso di costruire impugnata, a
prescindere dal nomen juris di revoca
parziale attribuito dall'Amministrazione al
momento dell'adozione.
2. L'intervento edilizio autorizzato, benché
definito "ristrutturazione" (in ragione
dalla possibilità di effettuare un sopralzo
dell'edificio) non include la possibilità di
demolizione (e ricostruzione) nel caso in
cui le previsioni delle N.T.A. al P.R.G.
pongano il vincolo di consentire il solo
restauro di parte dell'immobile, norme di
grado prevalente rispetto a quelle del Piano
di Recupero e conformanti il permesso di
costruire.
Con la conseguenza che, demolita la parte di
edificio da restaurare, elemento
qualificante del progetto approvato nel
Piano di Recupero e, quindi del permesso di
costruire rilasciato in attuazione del Piano
stesso, l'Amministrazione ha legittimamente
preso atto del venire meno, sia pure in
parte, dell'oggetto stesso dell'intervento
edilizio, rappresentato proprio dal
recupero, mediante intervento di restauro
conservativo, dell'immobile
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
19.10.2011 n.
2478 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: D.I.A. - Ordine
inibitorio - Termine perentorio -
Perfezionamento del processo decisionale
pubblico - Successiva effettiva conoscenza -
Irrilevanza - Legittimità.
Il rispetto del termine perentorio di trenta
giorni per l'adozione del provvedimento
inibitorio dei lavori di una D.I.A. riguarda
il perfezionamento del momento decisionale
pubblico, e, tutt'al più, la sua spedizione,
mentre la notifica, ossia la materiale
conoscenza dell'ordine da parte del privato,
può ragionevolmente avvenire, in
considerazione degli ordinari tempi tecnici,
anche successivamente a tale termine
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
19.10.2011 n.
2478 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. Condono edilizio
- Domanda di permesso di costruire in
sanatoria - Art. 36, D.P.R. n. 380/2001 -
Obbligo per la P.A. di adottare un nuovo
provvedimento sulla domanda - Sussiste -
Inefficacia dell'ingiunzione di demolizione
- Sussiste.
2. Abuso edilizio -
Ordinanza di demolizione - Onere di
analitica descrizione degli abusi -
Sussiste.
1. La presentazione di domanda di permesso
di costruire in sanatoria ex art. 36 del
D.P.R. n. 380/2001 pone in capo
all'Amministrazione l'obbligo di adottare un
nuovo provvedimento sulla domanda medesima,
con perdita di efficacia della pregressa
ingiunzione di demolizione.
2. Sussiste in capo alla P.A. un onere di
analitica descrizione degli abusi compiuti,
da indicarsi nell'ordine di demolizione,
atteso che vi è differenza della disciplina
sanzionatoria, in base agli artt. 31 e 37,
D.P.R. n. 380/2001, tra gli illeciti
riconducibili alla realizzazione di nuove
costruzioni, e quelli consistenti in
modifiche agli edifici esistenti, modifiche
che -in base alle regole generali- non sono
soggette necessariamente a permesso di
costruire, ma anche a semplice denuncia di
inizio attività ai sensi dell'art. 22, commi
1° e 2° del D.P.R. n. 380/2001
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
18.10.2011 n.
2467 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. Condono edilizio
- Art. 32, D.L. n. 269/2003 - Condizioni -
Pagamento oneri - Onere di pagamento
dell'intera somma dovuta - Sussiste.
2. Condono edilizio
- Art. 32, comma 40, D.L. n. 269/2003 -
Incremento percentuale - Applicabilità agli
oneri concessori relativi all'intervento
edilizio - Non sussiste - Applicabilità ai
diritti ed oneri correlati alla istruttoria
della domanda - Sussiste.
1. Qualora il richiedente la sanatoria ai
sensi del D.L. n. 269/2003 intenda giovarsi
della fattispecie di silenzio-assenso di cui
all'art. 32 del medesimo decreto, avrà
l'onere di provvedere al pagamento
dell'intera somma dovuta a titolo di oneri
di urbanizzazione, salvo il conguaglio
eventualmente esigibile dal Comune, non
essendo sufficiente il pagamento del solo
acconto dei suddetti oneri.
2. L'incremento percentuale di cui all'art.
32, comma 40, D.L. n. 269/2003, è
applicabile non agli oneri concessori
relativi all'intervento edilizio, ma ai
diritti ed oneri correlati alla istruttoria
delle domande finalizzate al rilascio del
titolo abilitativo; diritti ed oneri che il
Comune ha facoltà di incrementare in
relazione al maggior impiego di risorse
(personale e mezzi) che qualsiasi sanatoria
-implicante un afflusso eccezionale di
istanze da istruire ed evadere in aggiunta
all'attività ordinaria- notoriamente
richiede
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
13.10.2011 n.
2426 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di
destinazione d'uso - Variazione degli
standard - Configurabilità come nuova
costruzione - Sussiste.
Il mutamento di destinazione d'uso da locali
senza permanenza di persone in locali
abitabili rientra nel concetto di nuova
costruzione, che riguarda non soltanto la
realizzazione di un manufatto su area
libera, ma include ogni intervento di
ristrutturazione che renda un manufatto
oggettivamente diverso da quella
preesistente. Detta oggettiva diversità
sussiste ogniqualvolta si abbia un mutamento
di destinazione d'uso che implichi la
variazione degli standard, poiché detta
destinazione d'uso rappresenta in elemento
determinante della tipologia del manufatto
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
13.10.2011 n.
2426 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. Domanda di
permesso di costruire in sanatoria -
Ordinanza di ripristino dello stato dei
luoghi - Rigetto dell'istanza di
compatibilità paesaggistica - Aumento della s.l.p. e del volume - Non sussiste -
Illegittimità.
2. Domanda di
permesso di costruire in sanatoria -
Ordinanza di ripristino dello stato dei
luoghi - Rigetto dell'istanza di
compatibilità paesaggistica - Parere
favorevole della Soprintendenza - Art. 181,
comma 1-quater, d.lgs. n. 42/2004 -
Illegittimità.
1. Nel caso in cui oggetto della sanatoria
siano delle strutture di protezione dagli
agenti atmosferici, facilmente rimuovibili,
anzi più correttamente agevolmente apribili
e richiudibili (segnatamente degli
ombrelloni), che non appaiono idonei a
determinare una durevole trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio, non
risultano creati nuove ed effettive
superficie utili e/o volumi, ostativi, come
tali, all'accoglimento della domanda di
compatibilità paesaggistica.
2. Risulta illegittimo il rigetto
dell'istanza di compatibilità paesaggistica
comunale impugnato nell'ipotesi in cui, in
seguito al preventivo parere positivo
rilasciato dalla Soprintendenza, vincolante
ai sensi dell'art. 181, comma 1-quater,
d.lgs. n. 42/2004, il Comune se ne sia
discostato senza addurre alcuna specifica
motivazione sul punto
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.10.2011 n.
2469 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Adozione
di P.R.G. - Destinazione urbanistica di
un'area - Legittimo affidamento - Precedente
variante urbanistica - Piano di
Lottizzazione - Concessioni in sanatoria -
Non sussiste.
In occasione dell'adozione del P.R.G. non
sussiste una fondata aspettativa sulla
destinazione di un'area, reclamata da parte
ricorrente, né facendo leva su una
precedente variante generale al P.R.G., mai
attuata in quanto il Piano di lottizzazione
collegato alla stessa si è fermato alla fase
di mero progetto (inidoneo a far sorgere in
capo all'esponente una situazione giuridica
di fondata aspettativa), né in ragione dei
condoni edilizi nel tempo conseguiti.
In
particolare, il rilascio di una concessione
in sanatoria rappresenta l'espressione di un
potere vincolato alla verifica dei
presupposti normativamente richiesti,
disancorato da una visione urbanistica
complessiva dell'area di riferimento e,
quindi, inidoneo a condizionare le scelte
spettanti all'Amministrazione nell'esercizio
di pianificazione del territorio
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.10.2011 n.
2379 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Fascia di
rispetto dell'argine trasversale di un fiume
-Vincolo di inedificabilità - Art. 96, comma
f), R.D. 25.07.1904 n. 523 e s.m.i. -
Provvedimento inteso alla salvaguardia del
vincolo - Giurisdizione del Tribunale
superiore delle acque pubbliche - Sussiste.
2. Fascia di
rispetto dell'argine trasversale di un fiume
-Vincolo di inedificabilità - Art. 96, comma
f), R.D. 25.07.1904 n. 523 e s.m.i. -
Rilevanza della conformazione del corpo
superficiario - Non sussiste.
1. Compete al Tribunale superiore delle
acque pubbliche e non agli organi ordinari
della giustizia amministrativa la cognizione
delle controversie aventi per oggetto la
domanda di annullamento di provvedimenti
adottati da un Comune per la salvaguardia
del vincolo di inedificabilità assoluta
della fascia di rispetto dell'argine
trasversale di un fiume ex art. 96, comma
f), R.D. 25.07.1904 n. 523 e s.m.i..
2. La disciplina delle acque pubbliche di
cui all'art. 96, comma f), R.D. 25.07.1904 n. 523 e s.m.i., che impone un vincolo
di inedificabilità entro la fascia di
rispetto fluviale, ne impone
inderogabilmente la tutela, senza che
residuino margini per attribuire rilievo
alla conformazione del corpo superficiario
(e, quindi, al fatto che esso si presenti
con argini o sponde, con tombinatura o
senza), atteso che, per il rispetto della
fascia, è vietata qualsiasi costruzione e,
persino, qualunque deposito di terre o di
altre materie, a distanza di metri dieci dal
corso d'acqua
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.10.2011 n.
2378 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione -
Opere abusive - Precarietà - Utilizzazione
duratura - Legittimità.
L'esclusione dal regine del permesso di
costruire sussiste soltanto per i manufatti
di assoluta ed evidente precarietà,
desumibile dall'uso realmente precario e
temporaneo, per fini specifici e
cronologicamente delimitati, sicché tale
precarietà va esclusa quando si tratta di
opere oggetto di duratura utilizzazione,
risultando, di conseguenza, legittimamente
adottato l'ordine di demolizione comunale
impugnato
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.10.2011 n.
2377 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. Contributo per
oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione - Art. 133, comma 1, lett. f),
D. Lgs. n. 104/2010 - Giurisdizione del G.A.
- Sussiste.
2. Contributo per
oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione - Opere pubbliche - Art. 17,
comma 3, lett. c), D.P.R. n. 380/2001 -
Esonero - Legame tra soggetti realizzatori e
finalità pubbliche - Deve sussistere ab
initio.
3. Contributo per
oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione - Opere pubbliche - Art. 19,
D.P.R. n. 380/2001 - Determinazione del
contributo - Qualificabilità della
destinazione a sede universitaria come
industriale - Non sussiste.
1. Le controversie sull'an e/o sul quantum
del contributo per oneri di urbanizzazione e
costo di costruzione, vertendo
sull'accertamento della consistenza delle
rispettive posizioni di credito (di natura,
quindi, paritetica), sono riconducibili alla
giurisdizione esclusiva del Giudice
amministrativo come oggi descritta dall'art.
133, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 104/2010.
2. Ai fini dell'esonero dal pagamento del
contributo di costruzione previsto dall'art.
17, comma 3, lett. c), T.U. dell'edilizia,
in relazione agli impianti, attrezzature ed
opere pubbliche o di interesse generale
realizzate "dagli Enti istituzionalmente
competenti" (in modo da assicurare che il
vantaggio dell'esenzione sia riversato a
favore della collettività), non è possibile
recuperare ex post il legame tra soggetti
realizzatori e finalità pubbliche, che deve
contraddistinguere l'intervento edilizio ab
initio.
3. Ai fini della determinazione del
contributo di costruzione per opere o
impianti non destinati alla residenza ex
art. 19, D.P.R. n. 380/2001, la destinazione
a sede universitaria non può essere
catalogata come destinazione industriale ai
sensi del comma 1 di detta norma, atteso che
tale disposizione coniuga l'attività
industriale volta alla prestazione di
servizi a quella volta alla trasformazione
di beni, impedendo una lettura della prima
avulsa dalla seconda, onde in presenza di
costruzioni o impianti destinati allo
svolgimento di servizi, soccorre la
previsione del comma 2
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.10.2011 n.
2376 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Disposizioni
contenute nel PRG e nei piani attutivi -
Prescrizioni che, in via immediata,
stabiliscono le potenzialità edificatorie
della porzione di territorio interessata -
Onere di immediata impugnativa - Sussiste.
In tema di disposizioni dirette a
regolamentare l'uso del territorio per gli
aspetti urbanistici ed edilizi, contenute
nel piano regolatore, nei piani attuativi o
in altro strumento generale individuato
dalla normativa statale e regionale, si
impone un onere di immediata impugnativa
avverso le prescrizioni che, in via
immediata, stabiliscono le potenzialità
edificatorie della porzione di territorio
interessata, nel cui ambito rientrano le
norme di c.d. "zonizzazione", di
destinazione di aree a soddisfare gli
standard urbanistici, di localizzazione di
opere pubbliche o di interesse collettivo:
ciò, a causa dell'immediato effetto conformativo dello
ius aedificandi che ne deriva (cfr.
TAR Milano, sent. n. 845/2010; Cons. di
Stato, sent. n. 5258/2009)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
26.09.2011 n.
2305 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di
destinazione d'uso - Oneri di urbanizzazione
- Supplemento di contributo urbanistico - In
caso di aumento del carico urbanistico -
Legittimità.
In caso di mutamento della destinazione
d'uso dell'immobile -nel caso di specie da
residenza a studio medico- che comporti un
incremento del carico urbanistico è
legittima la richiesta della P.A. circa la
corresponsione di un supplemento del
contributo pari alla differenza tra il
contributo previsto per la nuova
destinazione e quello relativo alla
precedente (cfr. TAR Milano, sent. n.
2989/2006, 1115/2005, 1100/2005, 145/2005)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
20.09.2011 n.
2236 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nuova
costruzione - Nozione - In caso di mutamento
di destinazione d'uso con variazione degli
standard - Sussiste.
La realizzazione di un nuovo insediamento
non consegue necessariamente ad una nuova
edificazione, ben potendo configurarsi anche
ove venga mutata la destinazione d'uso di
edificio già esistente -nel caso di specie
creazione di insediamento non residenziale
derivante da insediamento residenziale-
(cfr. TAR Milano, sent. n 1069/2011)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
20.09.2011 n.
2236 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: 1. Art. 11, L.R.
n. 12/2005 - Perequazione urbanistica -
Riduzione delle volumetrie realizzabili
rispetto alla disciplina urbanistica
previgente - Possibilità.
2. Art. 11, L.R.
n. 12/2005 - Perequazione urbanistica -
Previsione del meccanismo perequativo solo
per alcuni ambiti di trasformazione -
Possibilità.
1. La norma di cui all'art. 11, comma 2,
L.R. n. 12/2005, nel disporre che la P.A. -ove attribuisca alle aree del territorio
comunale un identico indice di edificabilità
territoriale, inferiore a quello minimo
fondiario, differenziato per parti del
territorio comunale- disciplini il rapporto
con la volumetria degli edifici esistenti,
in relazione ai vari tipi di intervento
previsti, non pone affatto un obbligo di
conservare la volumetria esistente: infatti,
l'art. 11 prevede, espressamente, la
conferma delle volumetrie degli edifici
esistenti solo "se mantenuti".
La P.A.,
dunque, specie laddove -come nel caso di
specie- muti la destinazione delle aree,
ben può ridurre le volumetrie realizzabili
rispetto a quanto previsto dalla disciplina
urbanistica previgente.
2. E' legittima la decisione della P.A. di
non estendere il meccanismo perequativo
all'intero territorio comunale e prevederlo
solo per alcuni ambiti di trasformazione:
infatti, l'art. 11, L.R. n. 12/2005 -nel
disporre che la P.A. possa attribuire un
identico indice di edificabilità
territoriale, inferiore a quello minimo
fondiario, differenziato per parti del
territorio comunale a tutte le aree del
territorio comunale, con eccezione delle
aree destinate all'agricoltura e di quelle
non soggette a trasformazione urbanistica-
attribuisce una facoltà alla P.A., facoltà
che non deve essere necessariamente
esercitata sull'intero territorio comunale
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
16.09.2011 n.
2233 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1.
Restauro e risanamento conservativo -
Presupposti.
2. Restauro e risanamento conservativo -
Nozione - Finalità.
1. Ai sensi dell'art. 3, lett. c), D.P.R. n.
380/2001, gli interventi di restauro e
risanamento conservativo presuppongono la
conservazione di elementi, anche
strutturali, degli edifici, che siano
comunque preesistenti, ovvero l'inserimento
di elementi nuovi, che abbiano tuttavia
carattere accessorio (cfr. Cons. di Stato,
sent. n. 577/2001; TAR Napoli, sent. n.
27997/2010, n. 20563/2008; TAR, sent. n.
654/2005).
2. Possono qualificarsi come interventi di
restauro e risanamento conservativo solo
quegli interventi sistematici i quali, pur
con rinnovo di elementi costitutivi
dell'edificio preesistente, ne conservano
tipologia, forma e struttura: la finalità
specifica degli interventi di risanamento e
restauro -che è appunto quella di rinnovare
l'edificio in modo sistematico e globale-
va, difatti, perseguita nel rispetto dei
suoi elementi essenziali dal punto di vista
tipologico, formale e strutturale (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 2981/2008) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n. 2192 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Serre
bioclimatiche - L.R. n. 39/2004 - Non
computabilità ai fini volumetrici in quanto
volumi tecnici - Possibilità di ulteriori
deroghe rispetto allo strumento urbanistico
per aspetti differenti da quello volumetrico
- Non sussiste.
La L.R. n. 39/2004 -le cui disposizioni
prevalgono sui regolamenti e sulle altre
norme comunali- dispone che le serre
bioclimatiche, laddove abbiano determinati
requisiti, sono considerate volumi tecnici e
non sono, quindi, computabili ai fini
volumetrici: la legge consente perciò una
deroga alla normativa urbanistica comunale
solamente per quanto riguarda la
qualificazione quale volume tecnico delle
serre, ma non una deroga generalizzata alle
previsioni dettate dallo strumento
urbanistico per regolare aspetti differenti
da quello volumetrico
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n.
2192 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Provvedimento amministrativo - Motivi
autonomi - Legittimità di un solo motivo -
Annullabilità in sede giurisdizionale - Inconfigurabilità.
2. Procedimento amministrativo - Potere di
autotutela - Principio della non doverosità
dell'esercizio del potere di autotutela -
Conseguenze.
1. In presenza di un provvedimento sostenuto
da più motivi, ciascuno autonomamente idoneo
a darne giustificazione, è sufficiente che
sia verificata la legittimità di uno di
essi, per escludere che l'atto possa essere
annullato in sede giurisdizionale (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 3259/2006; TAR
Milano, sent. n. 2191/2011, n. 92/2011, n.
89/2011, n. 2210/2010, n. 1730/2010, n.
269/2010, n. 22/2010, n. 4647/2009).
2. Per il principio della non doverosità
dell'esercizio del potere di autotutela, la
mera presentazione di un'istanza di riesame
e di ulteriori elementi istruttori non
obbliga la P.A. a rivedere i propri
provvedimenti inibitori (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n.
2192 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Denuncia di
inizio attività - In caso di assenza delle
condizioni richieste ex lege - Ordine di non
effettuare il previsto intervento -
Necessità - Mera sospensione dell'attività -
Inconfigurabilità.
Ai sensi dell'art. 23, D.P.R. n. 380/2001,
laddove la P.A. riscontri l'assenza di una o
più delle condizioni stabilite in materia di
D.I.A., deve notificare all'interessato
l'ordine motivato di non effettuare il
previsto intervento ed il procedimento deve
concludersi entro il termine perentorio
previsto dalla legge, mentre non è
consentito alla P.A. limitarsi a sospendere
l'attività edilizia
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n.
2192 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Provvedimento amministrativo - Motivi
autonomi - Legittimità di un solo motivo -
Annullabilità in sede giurisdizionale - Inconfigurabilità.
In presenza di un provvedimento sostenuto
da più motivi, ciascuno autonomamente idoneo
a darne giustificazione, è sufficiente che
sia verificata la legittimità di uno di
essi, per escludere che l'atto possa essere
annullato in sede giurisdizionale (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 3259/2006; TAR
Milano, sent. n. 92/2011, n. 89/2011, n.
2210/2010, n. 1730/2010, n. 269/2010, n.
22/2010, n. 4647/2009)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n.
2191 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: 1. Programma
Integrato di Intervento - Valutazione della
Provincia di incompatibilità del p.i.i.
rispetto al p.t.c.p. basata su prescrizioni
prive di carattere prescrittivo ai sensi
dell'art. 18, L.R. n. 12/2005 -
Discrezionalità del Comune di aderire alla
valutazione - Sussiste.
2. Programma
Integrato di Intervento - Valutazione della
Provincia di incompatibilità del p.i.i.
rispetto al p.t.c.p. - Obbligo del Comune di
motivare la propria adesione alle
valutazioni della Provincia - Non sussiste.
1. Anche nel caso in cui la Provincia abbia
posto a base della propria valutazione di
incompatibilità di un p.i.i. con il p.t.c.p.
prescrizioni prive di carattere prescrittivo
ai sensi dell'art. 18, L.R. n. 12/2005,
rientra -comunque- tra i poteri
discrezionali del Comune decidere di aderire
alla valutazione provinciale, non avendo, lo
stesso, alcun obbligo di discostarsene.
2. Nel caso in cui il Comune aderisca alle
valutazioni di non compatibilità e di
incidenza ambientale negativa di un p.i.i.
rispetto al p.t.c.p., facendo proprie tutte
le ragioni poste alla base del parere
provinciale, non sussiste alcun onere
aggravato di motivazione in capo al Comune:
infatti, tale motivazione è necessaria solo
qualora l'amministrazione comunale abbia
inteso discostarsi da quanto affermato dal
parere espresso dalla Provincia ed abbia,
quindi, ritenuto di approvare un programma
integrato di intervento nonostante la
molteplicità di aspetti di incompatibilità
con il piano territoriale di coordinamento
provinciale e nonostante la valutazione di
incidenza ambientale negativa
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n.
2191 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione
paesaggistica - Non necessità
dell'autorizzazione - Solo in caso di
interventi inerenti l'esercizio di attività agro-silvo-pastorale che non comportino
alterazione permanente dello stato dei
luoghi né dell'assetto idrogeologico del
territorio.
Alla luce della disciplina prevista
dall'art. 152, lett. b), D.Lgs. n. 490/1999,
trasfusa nel D.Lgs. n. 42/2004, all'art.
149, lett. b), continua ad essere esclusa la
necessità dell'autorizzazione prescritta
dagli artt. 146, 147 e 159 unicamente per
gli interventi inerenti l'esercizio
dell'attività agro-silvo-pastorale che non
comportino alterazione permanente dello
stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed
altre opere civili, e sempre che si tratti
di attività ed opere che non alterino
l'assetto idrogeologico del territorio
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n.
2190 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Opera edilizia
precaria che non necessiti di titolo
edilizio - Presupposti - Temporaneità della
funzione - Fattispecie.
La precarietà di un manufatto, la cui
realizzazione non necessita di titolo
edilizio, non comportando una trasformazione
del territorio, non dipende dalla sua facile removibilità,
ma dalla temporaneità della funzione, in
relazione ad esigenze di natura contingente:
la precarietà va, pertanto, esclusa quando
-come nel caso di specie, in cui le canaline
sono esistenti ormai da molti anni e sono
stabilmente destinate a servizio della
strada- si tratti di un'opera destinata a
dare un'utilità prolungata nel tempo (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 3029/2009 e n.
2705/2008; Cass. Pen., sent. n. 22054/2009;
TAR Milano, sent. n. 3266/2010 e n.
3253/2010)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n.
2190 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Quantificazione
oneri concessori - Possibilità del privato
di versare la maggiore somma da lui
quantificata - Sussiste - Possibilità di
revisione dell'importo per volontà
unilaterale del privato - Non sussiste - Ratio.
2. Concessione di
costruzione - Contributi - Pagamento -
Ritardo - Escussione fideiussione - Obbligo
della P.A. - Non sussiste - Ratio.
3. Concessione di
costruzione - Contributi - Diritto di
credito della P.A. - Termine di prescrizione
decennale.
4. Concessione di
costruzione - Contributi - Pagamento -
Ritardo o omissione - Sanzioni pecuniarie -
Termine di prescrizione quinquennale.
5. Concessione di
costruzione - Contributi - Pagamento -
Omissione - Sanzioni pecuniarie - Termine di
prescrizione quinquennale - Dies a quo.
6. Oblazione e
oneri concessori - Controversie in tema di
corretta quantificazione - Attengono a
diritti soggettivi delle parti -
Configurabilità del vizio di difetto di
motivazione - Non sussiste - Ratio.
1. Qualora si verta in tema di diritti
disponibili, la parte promittente può
liberamente assumere impegni patrimoniali a
prescindere da un obbligo normativo o,
comunque, più onerosi rispetto a quelli
astrattamente previsti dalla legge (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 4015/2005, n.
1209/1999; TAR Milano, sent. n.
196/2010): in particolare, a fronte di un
atto con cui il privato ha quantificato
l'ammontare del contributo dovuto per il
rilascio di un permesso di costruire ed ha
assunto con la P.A. l'impegno a versare la
somma così quantificata, non è, quindi,
consentito alla parte promittente porre
unilateralmente in discussione, in un
momento successivo, quanto da essa stessa
dichiarato e sottrarsi ad obblighi
liberamente assunti, a meno che faccia
valere una causa di invalidità o un motivo
di risoluzione dell'accordo.
2. A fronte del ritardato pagamento degli
oneri concessori, la P.A. non ha un obbligo
di attivarsi nei confronti del garante per
il recupero di quanto dovuto (cfr. TAR,
Milano, sent. n. 4405/2009, n. 4306/2009;
Cons. di Stato, sent. n. 4419/2007, n.
6345/2005; TAR Salerno, sent.n.
1936/2008).
Infatti, la fideiussione che
accompagna la rateizzazione del pagamento
degli oneri di urbanizzazione non ha la
finalità di agevolare l'adempimento del
soggetto obbligato al pagamento, bensì
costituisce una garanzia personale prestata
unicamente nell'interesse della P.A., sulla
quale non incombe, quindi, alcun obbligo di
preventiva escussione del fideiussore; la
garanzia sussidiaria serve a scongiurare che
il Comune possa irrimediabilmente perdere
una entrata di diritto pubblico, ma non
alleggerisce affatto la posizione del
soggetto tenuto al pagamento, né attenua i
doveri di diligenza sullo stesso incombenti,
né estingue di per sé l'obbligazione
principale (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
6345/2005).
3. Il diritto di credito della P.A. comunale
avente ad oggetto il pagamento del
contributo dovuto per il rilascio della
concessione edilizia è soggetto
all'ordinario termine decennale di
prescrizione, decorrente dalla data di
rilascio della concessione edilizia (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 2686/2008, n.
4302/2000).
4. Le sanzioni pecuniarie previste all'art.
42, D.P.R. n. 380/2001 per i casi di
ritardato o omesso versamento del contributo
di costruzione sono soggette -in mancanza
di una diversa disciplina legale- al
termine di prescrizione di cinque anni
stabilito dall'art. 28, Legge n. 689/1981
(cfr. Cass. Civ., sent. n. 23633/2006;
TAR Cagliari, sent. n. 70/2008; TAR,
Salerno, sent. n. 647/2005; TAR
Catanzaro, sent. n. 1514/2001; TAR
Catania, sent. n. 701/2006).
5. In caso di omesso pagamento del
contributo, il dies a quo del termine di
prescrizione quinquennale va individuato
nella scadenza del termine di 240 giorni
successivi alla data prevista per il
pagamento del contributo (cfr. TAR
Potenza, sent. n. 141/2008).
6. Le controversie relative all'an ed
al quantum delle somme dovute a
titolo di oblazione e di oneri concessori,
riservate dalla legge alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo,
riguardano diritti soggettivi delle parti,
rispetto alle quali non è configurabile il
vizio di difetto di motivazione: infatti, le
operazioni di corretta quantificazione
dell'oblazione e degli atti concessori si
esauriscono in una mera operazione materiale
che, se errata, può comportare soltanto la
violazione dei criteri fissati dalla
normativa ovvero dalla P.A. con norme di
natura regolamentare e, quindi, la
sussistenza del solo vizio di violazione di
legge, potendo l'interessato, sulla base dei
predetti criteri generali, contestare
l'erroneità della quantificazione operata
dalla P.A., evidenziando ad esempio
l'erroneità dei calcoli ovvero dei
presupposti di fatto o di diritto (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 4217/2000; TAR
Milano, sent. n. 97/2011 e n. 4455/2009)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n.
2189 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Distanze -
Pareti finestrate e edifici antistanti -
Art. 9, D.M. n. 1444 del 1968 -
Inderogabilità.
2. Distanze -
Aggetti che estendano il volume edificatorio
- Applicabilità normativa sulle distanze
legali - Necessità.
1. La distanza di dieci metri tra le pareti
finestrate di edifici antistanti prevista
dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444,
va rispettata in tutti i casi, trattandosi
di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
6909/2005; TAR Milano, sent. n.
1419/2011).
2. Gli aggetti presenti sull'edificio che
estendano il volume edificatorio non possono
considerarsi meri elementi decorativi: al
contrario, essi costituiscono corpo di
fabbrica e vanno, pertanto, conteggiati nel
calcolo della distanza
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n.
2187 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: 1. Valutazione
ambientale strategica - Ambito di
applicazione - Applicabilità ai piani
urbanistici conformi alla strumentazione
urbanistica comunale - Possibilità -
Condizioni.
2. Valutazione
ambientale strategica - Ambito di
applicazione - Applicabilità a tutti i piani
e programmi di cui alla direttiva
2001/42/CEE.
1. E' conforme alla normativa in materia di
valutazione ambientale strategica la
previsione di sottoporre anche i piani
urbanistici di particolare complessità e
impatto, pur se conformi alla strumentazione
urbanistica comunale, a procedura di v.a.s.
e di verifica di esclusione (il Collegio si
discosta dall'orientamento di cui alla
sentenza del 26.11.2009, n. 5171, con
cui si affermava la non necessità della
valutazione ambientale strategica quando lo
strumento attuativo non fosse in variante
allo strumento urbanistico generale):
infatti, né la definizione di piani e
programmi contenuta nell'art. 5, D.Lgs. n.
152/2006, né le previsioni di cui agli artt.
6 e 7 dello stesso decreto consentono di
escludere dalla valutazione ambientale
strategica i piani urbanistici che non
comportino variante al piano regolatore
generale, laddove possano avere
significativi impatti sull'ambiente e sul
patrimonio culturale.
2. L'art. 4, comma 2, della L.R. 12/2005, se
da un lato prevede l'obbligo di
sottoposizione alla v.a.s. del piano
territoriale regionale, dei piani
territoriali regionali d'area e dei piani
territoriali di coordinamento provinciali,
del documento di piano di cui all'articolo
8, nonché le varianti agli stessi,
dall'altro non detta un'elencazione
tassativa delle tipologie di piano
sottoposte a valutazione ambientale
strategica, che, come previsto dallo stesso
articolo al comma 1, sono tutti "i piani
e programmi di cui alla direttiva
2001/42/CEE", tra i quali rientrano
anche i piani conformi allo strumento
urbanistico
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n.
2186 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. Realizzazione
di veranda chiusa sui lati - Trasformazione edilizio-urbanistica - Sussiste - Permesso
costruire - Necessità.
2. Manutenzione
ordinaria - Presupposti - Possibilità di
ampliamento - Non sussiste.
1. E' necessario un titolo edilizio per la
realizzazione di una veranda, chiusa sui
lati, in quanto essa costituisce una
trasformazione urbanistico-edilizia del
preesistente manufatto idonea a creare nuovo
volume.
2. La manutenzione ordinaria presuppone
opere di riparazione, rinnovamento e
sostituzione delle finiture degli edifici, e
quelle necessarie ad integrare o mantenere
in efficienza gli impianti tecnologici
esistenti, senza che possa essere ammesso
alcun ampliamento (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n.
2183 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ordinanza di
demolizione di opere abusive - Atto
vincolato che non richiede una motivazione
diversa dall'accertamento dell'abuso -
Esigenza di tutela dell'affidamento - Non
sussiste.
Il provvedimento di demolizione, al pari di
tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo ammettersi l'esistenza di alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 2497/2011; TAR
Milano, sent. n. 1729/2011 e n. 702/2008)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n.
2183 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: 1. Piano di
lottizzazione - Scadenza del termine di
attuazione - Potere-dovere della P.A. di
dare nuovo assetto urbanistico alla parti
non realizzate - Sussiste.
2. Piano integrato
di recupero - Interesse al ricorso - Vicinitas - Insufficienza a sostenere
l'interesse - Necessità di dimostrare la
specificità della lesione rispetto all'area
di proprietà o ad altri interessi del
ricorrente - Sussiste.
1. In presenza di un piano di lottizzazione
scaduto per decorrenza del termine
decennale, la P.A. non perde il potere di
rilasciare provvedimenti funzionali al
completamento del piano stesso, ferma
restando la disciplina urbanistico-edilizia
dell'area da esso dettata che, anche per la
parte rimasta inattuata, continua a trovare
applicazione fino all'approvazione di un
nuovo piano urbanistico (cfr. TAR Milano,
sent. 1001/2010).
2. In materia di interventi di recupero
urbanistico derivanti da un P.I.R., il
criterio della vicinitas, seppur idoneo a
supportare la legittimazione al ricorso, non
esaurisce gli ulteriori profili
dell'interesse concreto all'impugnazione,
costituito dalla lesione effettiva e
documentata delle facoltà dominicali del
ricorrente (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
9537/2010; TAR Milano, sent. n. 1244/2011)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
2154 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Impianto di radiodiffusione sonora -
Scostamento dai parametri di emissione
autorizzati - Controllo degli Ispettorati
Territoriali del Ministero - Provvedimento
sanzionatorio definitivo - In assenza di
comunicazione di avvio del procedimento -
Illegittimità.
In materia di impianti di radiodiffusione,
in presenza di uno scostamento dai parametri
tecnici di emissione autorizzati, l'attività
di controllo degli organi ministeriali a ciò
preposti si esplica, non già con l'adozione
di provvedimenti sanzionatori definitivi,
bensì mediante la diffida al ripristino
delle modalità di esercizio dell'impianto in
conformità del titolo, accompagnata dalla
disattivazione dell'impianto sino al
predetto ripristino.
Nel caso di specie,
l'Ispettorato Territoriale del Ministero ha
illegittimamente adottato un provvedimento
definitivo, non preceduto dall'avviso di
avvio del procedimento e non riconducibile
all'attività di controllo di spettanza degli
organi periferici del Ministero, cui pertiene,
semmai, il potere di diffida
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
2153 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Giustizia
amministrativa - Ricorso giurisdizionale -
Interesse a ricorrere - Presupposti -
Soddisfacimento interesse sostanziale del
ricorrente - E' sufficiente.
L'interesse al ricorso non si concentra
unicamente sul risultato formale
dell'annullamento dell'atto, ma include fra
le sue componenti anche l'affidamento in
ordine alle attività che, in esecuzione del
giudicato, la P.A. è tenuta o facultata a
svolgere e dalle quali potrà derivare il
soddisfacimento dell'interesse sostanziale
(cfr. Cons. di Stato, Ad. Pl., sent. n.
4/1970; TAR Milano, sent. n. 4605/2009): nel
caso di specie, è stato ritenuto sussistente
l'interesse del ricorrente ad ottenere
l'annullamento dell'atto impugnato, laddove
quest'ultimo risulta idoneo a legittimare
l'adeguamento dell'immobile alla
destinazione a carrozzeria, risultando tale
destinazione pregiudizievole al diritto di
proprietà dell'istante
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
2150 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Industria
insalubre - Localizzazione in centro abitato
- Possibilità - Presupposti - Verifica
compatibilità con salute dei residenti.
Ai sensi dell'art. 216, comma 5, R.D.
1265/1934 è consentita la permanenza di
un'industria insalubre di prima classe
nell'abitato, allorché sia provato che il
suo esercizio, per le speciali cautele
introdotte, non rechi danno alla salute dei
residenti: pertanto, l'insediamento di
un'attività insalubre nell'ambito di centri
abitati o di aree paesaggisticamente
sensibili non è vietato in assoluto, essendo
subordinato alla verifica di compatibilità
dell'impianto con il contesto di riferimento
(cfr. TAR Brescia, sent. n. 420/2010 e n.
671/2008)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
2150 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. Ricorso giurisdizionale - Ricorso avverso
atti abilitativi dell'edificazione - Termine
per l'impugnazione - Decorrenza dalla data
di palesamento ed oggettiva apprezzabilità
della lesione del bene della vita protetto -
Fattispecie.
2. Atto amministrativo - Atti presupposti -
Vizi - Invalidità del titolo edilizio
originario - Effetto caducante delle
varianti leggere - Sussiste - Effetto
caducante delle varianti essenziali - Non
sussiste.
1. La decorrenza del termine per ricorrere
in sede giurisdizionale avverso atti
abilitativi dell'edificazione si ha, per i
soggetti diversi da quelli a favore dei
quali l'atto è rilasciato, dalla data in cui
si renda palese ed oggettivamente
apprezzabile la lesione del bene della vita
protetto: ciò si verifica quando sia
percepibile dal controinteressato la
concreta entità del manufatto e la sua
incidenza effettiva sulla propria posizione
giuridica (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
18/2011).
Nel caso di specie, è da escludere
che possano avere rilievo determinante gli
elementi forniti dalla controinteressata in
ordine all'esposizione del cartello di
cantiere con l'indicazione dell'intervento
di recupero autorizzato, in quanto gli
stessi non consentivano alla ricorrente di
rendersi conto dell'entità dell'opera, né,
quindi, della sua incidenza sui suoi
interessi protetti.
2. Non sempre all'annullamento del titolo
edilizio originario consegue necessariamente
l'insanabile invalidità derivata del secondo
titolo edilizio: difatti, mentre
l'annullamento di una concessione sortisce
sicuramente l'effetto della caducazione
delle "varianti leggere", ossia,
quelle non essenziali e quelle in corso
d'opera, poiché prive di una loro autonomia
dispositiva, non altrettanto si verifica,
invece, nel caso della cd. "variante
essenziale", poiché in quest'ultima
l'entità qualitativa e quantitativa delle
modifiche apportate al primitivo assenso
segna indubbiamente una cesura nel rapporto
di continuità fra i titoli edilizi
succedutisi nel tempo (cfr. Cons. di Stato,
sent. n. 1023/2005)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
2149 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Intervento di
recupero abitativo di sottotetto -
Presupposti - Preesistenza del volume
sottotetto, praticabilità e abitabilità
originarie - Necessità.
Presupposto per il recupero abitativo dei
sottotetti, è che sia identificabile come
già esistente un volume sottotetto passibile
di recupero, cioè di riutilizzo a fini
abitativi: ciò richiede che il sottotetto
abbia, in partenza, dimensioni tali da
essere praticabile e da poter essere
abitabile, sia pure con gli aggiustamenti
che occorrono per raggiungere i requisiti
minimi di abitabilità - altezza media
ponderale m. 2.40, ex art. 63, ultimo comma, L.R. n. 12/2005.
Diversamente, l'intervento
si risolverebbe non già nel recupero di un
piano sottotetto, ma nella realizzazione di
un piano aggiuntivo, che eccede i caratteri
della ristrutturazione per integrare un
intervento di nuova costruzione (cfr. TAR
Milano, sent. n. 970/2010; Cons. di Stato,
sent. n. 2767/2005)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
2149 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
1. Ricorso
giurisdizionale - Interesse a ricorrere -
Progettista - Interesse legittimo
differenziato - Non sussiste - Intervento ad adiuvandum - Possibilità.
2. Ricorso
giurisdizionale - Interesse a ricorrere -
Progettista - Interesse legittimo
differenziato - Interesse morale - Non
sussiste - Fattispecie.
1. E' esclusa in capo al progettista la
titolarità di un interesse legittimo
differenziato che gli consenta
l'impugnazione di provvedimenti relativi ad
interventi edilizi, potendo semmai il
progettista stesso proporre intervento "ad adiuvandum" nel giudizio promosso dal
committente proprietario (cfr. TAR
Milano, sent. n. 484/2011 e 265/2011; TAR
Parma, sent. n. 61/2010; TAR Firenze,
sent. n. 986/2009; TAR Catania, sent. n.
523/2001, Cons. di Stato, sent. n.
1250/2001).
2. Non sussiste un interesse, neppure
morale, in capo al professionista
progettista, all'impugnazione del diniego di
intervento edilizio, richiesto da un terzo e
respinto dal comune, anche nel caso in cui
si trattasse di errore di rappresentazione
progettuale, in quanto tale diniego
inciderebbe sullo "ius aedificandi"
e non sull'esercizio della professione del
progettista, né sulle sue qualità e il suo
prestigio, che non possono reputarsi
chiamate in causa da un rilievo tecnico
operato dall'amministrazione per uno scopo
del tutto diverso, cioè il perseguimento del
corretto uso del territorio (cfr. TAR
Milano, sent. n. 484/2011; TAR Firenze,
sent. n. 986/2009).
Nel caso di specie, la circostanza che la
demolizione sia stata disposta per una
difformità nella realizzazione
dell'intervento, non fa sorgere in capo al
direttore dei lavori una posizione
qualificata, dal momento che l'eventuale
annullamento dell'atto produrrebbe effetti
solo sulla sfera giuridica del proprietario,
mentre nulla toglierebbe o aggiungerebbe
alle doti professionali del direttore lavori
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
2148 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: 1. Art. 26, comma
3-ter, L.R. 12/2005 - Interpretazione -
Piano attuativo in variante - Procedura in
corso - Configurabilità.
2. Pianificazione
territoriale - Scelta dello strumento
attuativo - E' attività discrezionale della
P.A. - Scelta di ricorrere ad una variante -
Sindacato di legittimità - Inconfigurabilità.
1. L'art. 26, comma 3-ter, L.R. 12/2005 si
riferisce esclusivamente ai procedimenti di
variante urbanistica e non include i piani
attuativi, essendo la ratio della norma
quella di limitare il ricorso alle varianti,
nella fase di predisposizione del PGT:
pertanto, possono essere portate a
conclusione le varianti il cui procedimento
sia ancora in corso al termine previsto.
2. Poiché rientra nella più ampia
discrezionalità della P.A. la scelta sullo
strumento procedimentale con cui attuare la
pianificazione, nonché i tempi di
attuazione, ne deriva che la scelta di
ricorrere ad una variante non può essere
censurata in sede di legittimità
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
2147 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. Abusi edilizi -
Ordinanza di demolizione - E' atto vincolato
- Demolizione o sanzione pecuniaria - Scelta
- E' fase successiva alla diffida a
demolire.
2. Abusi edilizi -
Ordinanza di demolizione - E' atto vincolato
- Necessità di motivazione - Non sussiste.
3. Abusi edilizi -
Tutela dell'affidamento - In presenza di
certificato di abitabilità - Inconfigurabilità.
1. Da una corretta interpretazione dell'art.
34, D.P.R. n. 380/2001 si desume che nella
fase della contestazione dell'abuso la P.A.
non può far altro che ordinarne la
demolizione, mentre l'applicazione della
sanzione pecuniaria in luogo della
demolizione costituisce una misura destinata
ad operare in un momento successivo
all'adozione dell'ordine di demolizione, nel
caso in cui risulti che non sia possibile
darvi esecuzione (cfr. TAR Milano, sent.
n. 5264/2007; TAR Napoli, sent. n.
5244/2008; TAR Roma, sent. n. 3327/2007;
TAR Brescia, sent. n. 2213/2002).
2. L'ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia, è atto vincolato e, quindi, non
richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendosi ammettere alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva.
3. Nessuna posizione di affidamento
qualificato può derivare dal certificato di
abitabilità, che costituisce un'attestazione
da parte dei competenti uffici tecnici
comunali in ordine alla sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e
risparmio energetico degli edifici e degli
impianti tecnologici in essi installati,
alla stregua della normativa vigente,
assolvendo in tal modo funzioni ben diverse
da quelle relative alla certificazione della
conformità urbanistica ed edilizia
dell'opera
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
2145 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nuovo titolo
edilizio - Impugnazione diretta di terzo -
Presupposti - Vicinitas e utilità
dell'annullamento.
In materia edilizia, secondo l'orientamento
tradizionale della c.d. vicinitas, va
riconosciuta la sussistenza della
legittimazione del terzo per il fatto stesso
che egli si trovi in una situazione di
stabile collegamento con la zona interessata
dalla costruzione, collegamento che radica
una posizione di interesse differenziato
rispetto a quella posseduta dal quisque de
populo.
Tuttavia, per l'individuazione della
posizione legittimante del terzo rispetto al
rilascio di un nuovo titolo edilizio, il
criterio della vicinitas non può
totalmente prescindere dalla valutazione
anche dell'utilità che il ricorrente ricava
dall'annullamento del titolo edilizio (cfr.
Cons. di Stato., sent. n. 2565/2010)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
2143 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: 1.
Occupazione temporanea di terreno limitrofo
alle aree di realizzazione dell'opera
pubblica - Finalità - Decorrenza del periodo
autorizzato - Restituzione del terreno
previo ripristino status quo ante -
Necessità.
2.
Occupazione temporanea di terreno limitrofo
alle aree di realizzazione dell'opera
pubblica - Indipendenza del procedimento di
occupazione temporanea rispetto alla
procedura espropriativa - Sussiste -
Conseguenze.
3.
Occupazione temporanea di terreno limitrofo
alle aree di realizzazione dell'opera
pubblica - Proroga dei termini per il
completamento delle opere - Proroga dei
termini dell'occupazione - Art. 20, Legge n.
865/1971 - Legittimità.
1. L'occupazione temporanea è un
procedimento destinato a consentire l'uso di
terreni di proprietà privata per scopi
connessi all'esecuzione di un'opera
dichiarata di pubblica utilità realizzata su
altra proprietà e quindi limitato nel tempo:
pertanto, decorso il periodo di tempo
autorizzato (ovvero, se ciò avviene in un
momento anteriore, venuta meno l'esigenza
per effetto dell'avvenuta esecuzione
dell'opera) il terreno così occupato e
destinato agli specifici usi espressamente
previsti nel provvedimento autorizzatorio
deve essere restituito nella disponibilità
del proprietario, previo ripristino dello
status quo ante, ovvero indennizzo degli
eventuali danni cagionati.
2. Per sua stessa natura il procedimento di
occupazione temporanea è pienamente autonomo
ed indipendente da un'eventuale procedura
espropriativa: può verificarsi, infatti,
come è avvenuto nel caso in esame, che
l'occupazione temporanea si sia resa
necessaria pur in assenza di qualsiasi
procedura espropriativa, essendo prevista,
la realizzazione dell'opera, interamente su
altre proprietà: pertanto, il proprietario
dei terreni occupati temporaneamente è
legittimato a censurare i correlati
provvedimenti solo con riferimento a profili
di illegittimità propri degli stessi e
limitati al loro specifico oggetto.
3. L'art. 20, Legge n. 865/1971, nel
prevedere che l'occupazione può essere
protratta fino a cinque anni dalla data di
immissione in possesso, non esclude la
prorogabilità del termine quando siano
contestualmente prorogati i termini per il
completamento delle opere e delle
espropriazioni: pertanto, in caso di
occupazione d'urgenza strumentale al
completamento dei lavori e delle
espropriazione relativi ad altre proprietà,
la proroga dei termini relativi ai lavori ed
agli espropri è atta a legittimare anche la
proroga dell'occupazione d'urgenza, giacché
non avrebbe senso differire il termine
finale di completamento dei lavori se non si
potesse prolungare l'occupazione (cfr. TAR
Milano, sent. n. 4406/2009)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
2135 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: 1. Valutazione
ambientale strategica - Necessità - Quando
sussiste - Ratio.
2. Valutazione
ambientale strategica - Differenze dalla
valutazione di impatto ambientale -
Conseguenze.
1. La valutazione ambientale strategica è
necessaria per il piano territoriale
regionale, i piani territoriali regionali
d'area e i piani territoriali di
coordinamento provinciali, il documento di
piano di cui all'articolo 8, L.R. 12/2005,
nonché per le varianti agli stessi, con
esclusione degli atti che non costituiscono
variante al PRG: tale scelta trova una
giustificazione nella funzione e nella
natura della stessa VAS, che costituisce un
atto di valutazione interno al procedimento
di pianificazione, cioè una valutazione
degli effetti ambientali conseguenti
all'esecuzione delle previsioni ivi
contenute.
2. Dal momento che la VAS si colloca al
livello di macroterritorio, tendente ad
esaminare gli impatti strategici delle
scelte di pianificazione, essa si differenza
della VIA, che opera a livello di uno
specifico progetto: pertanto, va esclusa la
necessità di una valutazione strategica
qualora lo strumento attuativo non abbia
modificato la disciplina di pianificazione e
programmazione (cfr. TAR Milano, sent. n.
5171/2009)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
2134 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 16.02.2012 |
ã |
dite la vostra
... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
APPALTI:
Centrali di committenza.
Spettabile redazione sito PTPL,
vorrei segnalare un’eccezionale opportunità
contenuta in una delle c.d. “manovre
Monti” è più precisamente una norma
contenuta nella Legge 22.12.2011 n. 214 ...
(...
continua
cliccando qui)
(14.02.2012 - Pagliaro Roberto
- responsabile UT comune del
bergamasco). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Le acque paesaggisticamente vincolate
(spunto di riflessione all’indomani della
emanazione della deliberazione della Giunta
Regionale della Lombardia 22/12/2011, n. IX/2727
– Sospetta illegittimità costituzionale in
parte qua) (link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Albanese,
Antenne e disponibilità di aree gravate da
uso civico (link a
www.lexambiente.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni a tempo determinato ex art. 90 TUEL e art. 9, comma 28, D.L. 78/2010.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Marche, con
il
parere 10.02.2012 n. 6, si occupa del limite di spesa
applicabile al personale da assumere a tempo
determinato in posizione di staff al
Sindaco.
Le conclusioni del parere sono le
seguenti:
"La Sezione esprime l'avviso che, ai sensi
dell'art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010,
convertito in legge 122/2010, come
modificato dall'art. 4, comma 102, lett.
"b", della legge 183/2011, costituisca, per
gli enti locali, principio generale ai fini
della finanza pubblica il vincolo di
avvalersi di personale a tempo determinato
nel limite del 50 per cento della spesa
sostenuta per le stesse finalità nell'anno
2009".
Nelle argomentazioni la Corte ricorda le
condizioni legittimanti le possibilità
assunzionali (cui devono aggiungersi il
rispetto del limite di spesa di personale di
cui all'art. 1, commi 557 o 562, della legge
n. 296/2006 ed il rispetto del patto di
stabilità interno per gli enti soggetti),
ovvero:
- la programmazione triennale ed il piano
annuale delle assunzioni
- un rapporto inferiore al 50% tra spese di
personale e spese correnti
- gli adempimenti in materia di
rideterminazione della pianta organica
- l'adozione ed il rispetto del piano
triennale delle azioni positive tendenti ad
assicurare la pari opportunità tra uomini e
donne
- la ricognizione annuale di eventuali
eccedenze di personale
per le immissioni in ruolo, inoltre:
- gli adempimenti in materia di previa
verifica di personale in mobilità (tratto da www.publika.it). |
ENTI LOCALI:
Calcolo spesa di personale/spesa
corrente e stabilizzazione LSU/LPU.
La Corte dei Conti Sez. Reg.le Calabria, con
il
parere 26.01.2012
n. 3, risponde a diversi quesiti su
quanto in oggetto formulati dal Comune di
Cardeto (ente con popolazione inferiore a
5000 abitanti).
Dal parere della Corte si evince quanto
segue:
- il rapporto del 50% tra spesa del
personale e spesa corrente si applica a
decorrere dal 01.01.2012, mentre per tutto
il 2011 il rapporto è stato del 40% (fino al
31.12.2010 era invece il 50%)
- nel conteggio previsto dall'art. 76, comma
7, della legge n. 133/2008 (spesa di
personale/spesa corrente) vanno comprese le
spese per il personale utilizzato in comando
o in convenzione, vanno escluse quelle per
il personale comandato o assegnato ad altro
ente in convenzione
- il divieto di assunzione di cui al
precitato art. 76, comma 7, si applica anche
al personale LSU - LPU da stabilizzare; la
norma limitativa della facoltà di assumere
va applicata anche a queste tipologie
contrattuali, seppur in presenza di un
contributo regionale a favore del Comune
- i lavoratori LSU - LPU che dovessero
venire stabilizzati diventerebbero comunque
a tutti gli effetti pubblici dipendenti e
quindi graverebbero il bilancio dell'ente
stabilizzatore contribuendo a determinare
l'ammontare delle spese complessive del
personale da includere nel parametro di cui
all'art. 76, comma 7, della legge n.
133/2008 seppure in presenza di una forma di
cofinanziamento della Regione (tratto da www.publika.it). |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
Vincolo paesaggistico.
Domanda.
Il potere che il ministero dei beni
culturali e ambientali ha di imporre il
vincolo paesaggistico, ai sensi
dell'articolo 138 del decreto legislativo
22.01.2004, numero 42, è autonomo rispetto a
quello che ha la regione in sede di
pianificazione urbanistica?
Risposta.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar)
Lazio, Roma, sezione II-quater, con la
sentenza numero 33709, del 22.11.2010, ha
affermato, in tema di vincolo paesaggistico
e autorizzazione paesaggistica, ha
puntualizzato che la potestà del Ministero
dei beni culturali e ambientali di imporre
il vincolo paesaggistico, ai sensi
dell'articolo 138 del decreto legislativo
22.01.2004, numero 42, è del tutto autonoma
rispetto a quella che ha la Regione in sede
di pianificazione urbanistica. Il suo
esercizio, pertanto, non viene a costituire
una indebita interferenza nella
pianificazione urbanistica.
Detta potestà, per i giudici amministrativi,
alla luce del citato decreto legislativo
numero 42, del 2004, così come modificato
dal decreto legislativo 26.03.2008, numero
63, deve essere esercitata quando il
ministero, sulla base di valutazioni
assolutamente discrezionali, ritenga che
possa essere a rischio l'interesse
costituzionalmente affidato allo stato.
Aggiungono, poi i giudici laziali; che la
potestà suddetta di imporre il vincolo
paesaggistico ai sensi dell'articolo 138 del
decreto legislativo 22.01.2004, numero 42,
comprende anche il potere di indicare le
norme d'uso dei singoli beni e gli indirizzi
finalizzati alla conservazione dei valori
espressi dall'insieme dei beni stessi;
che i vincoli suddetti possono essere
apposti pure al solo fine di prevenire
l'aggravamento della situazione allo stato
esistente, nonché al fine di perseguire il
possibile recupero delle aree interessate.
Il lettore può consultare, pure, la sentenza
del Tribunale regionale amministrativo (Tar)
Lombardia, Milano, sezione, VI, del
28.10.2010, numero 7148, nonché la sentenza
del Tribunale regionale amministrativo (Tar)
Lazio, Roma, sezione II-quater, numero
36581, del 14.12.2010 (articolo
ItaliaOggi Sette del 13.02.2012). |
URBANISTICA:
Valutazione ambientale strategica.
Domanda.
In qualità di proprietario del terreno
interessato da strumento urbanistico, posso
vantare un interesse strumentale
all'impugnazione di uno strumento
urbanistico al fine di una riedizione del
potere amministrativo pianificatorio, che
abbia come risultato finale un provvedimento
a me più favorevole?
Risposta.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar)
Lombardia, Milano, Sezione II, con la
sentenza numero 188, del 27.01.2010,
aveva riconosciuto al ricorrente portatore
di un interesse strumentale all'impugnazione
di uno strumento urbanistico al fine di una
riedizione del potere amministrativo pianificatorio detto interesse strumentale.
Detta decisione teneva presente il
precedente pronunciamento del Consiglio di
stato, sezione V, espresso con la sentenza
del 15.11.2001, numero 5839.
Ora, il Consiglio di stato, sezione IV, con
la sentenza del 12.01.2011, numero 133,
dopo avere evidenziato che la Valutazione
ambientale strategica (Vas) non è
configurata come un procedimento o un sub
procedimento autonomo rispetto alla
procedura di pianificazione, ha affermato
che è legittima, e anzi quasi fisiologica
l'evenienza che l'Autorità competente alla
Valutazione ambientale strategica (Vas) sia
identificata in un organo o ufficio interno
alla stessa Autorità procedente.
I Supremi
giudici amministrativi, hanno affermato,
poi, che l'interesse cosiddetto strumentale
all'impugnazione di uno strumento
urbanistico sussiste soltanto se sussistono
specifici vizi in ordine alle determinazioni
che riguardano il regime dei suoli di
proprietà del privato ricorrente. Pertanto,
per il Consiglio di stato, il cosiddetto
interesse strumentale «non può fondarsi sul
generico interesse ad una migliore
pianificazione del proprio suolo, che in
quanto tale non si differenzia dall'eguale
interesse che il quisque de populo potrebbe
nutrire».
«In altri termini, aggiungono i
Supremi giudici, l'utilità comunque
rappresentata dal possibile vantaggio che
astrattamente il ricorrente potrebbe
ottenere per effetto della riedizione
dell'attività amministrativa non è ex se
indicativa della titolarità di una posizione
di interesse giuridicamente qualificata e
differenziata, idonea, a legittimare la
tutela giurisdizionale». Il lettore può
consultare, anche, la sentenza del Consiglio
di stato, Sezione IV, del 13.07.2010,
numero 4546 (articolo ItaliaOggi
Sette del 13.02.2012). |
URBANISTICA:
Diritto all'ambiente salubre.
Domanda.
In quanto residente in un determinato ambito
territoriale, ho diritto a impugnare un
piano territoriale che violi il mio diritto
all'ambiente salubre?
Risposta.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar),
Trento, sezione I, con la sentenza del 09.12.2010, numero 230, ha riconosciuto,
a coloro che risiedono in un determinato
ambito territoriale, la titolarità
dell'interesse legittimo rispetto all'azione
di programmazione territoriale.
Scrivono i giudici trentini: «Al riguardo, è
sufficiente rammentare l'insegnamento
giurisprudenziale al quale questo tribunale
ha da tempo aderito, secondo cui, in materia
urbanistica, l'ordinamento riconosce una
posizione qualificata e differenziata a
tutti coloro che si trovino in una
situazione di stabile collegamento
(residenza, possesso o detenzione di
immobili, o altro titolo di qualificata
frequentazione) con la zona interessata
dall'operazione contestata». (Le proprie
sentenze, richiamate dai giudici di Trento,
sono la numero 8, del 25.03.2009, e la
numero 262, del 21.10.2009).
È necessario, però, che vi sia una
«specifica lesione di posizioni giuridiche
soggettive differenziate che distingua la
sfera del ricorrente rispetto alla
collettività indistinta». Questo stabile
collegamento con la zona interessata dal
nuovo intervento «non postula
necessariamente l'adiacenza fra gli
immobili, essendo sufficiente la semplice
prossimità, senza che sia necessario
dimostrare ulteriormente la sussistenza di
un interesse qualificato alla tutela
giurisdizionale», come affermato dal
consiglio di stato, sezione IV, con la
sentenza del 16.03.2010, numero 1535.
Pertanto, sono legittimati all'impugnazione
tutti coloro che possono lamentare una
alterazione pregiudizievole del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio causa della
realizzazione dell'intervento controverso,
come sostenuto dal consiglio di stato,
sezione IV, con la sentenza del 10.04.2008, numero 1548. E non è necessario
«richiedere la prova di un danno specifico,
essendo insito nella violazione edilizia il
danno a tutti i membri di quella
collettività», come bene sottolineato dal
consiglio di stato, sezione VI, con la
sentenza numero 400, dell'01.02.2010 (articolo ItaliaOggi
Sette del 13.02.2012). |
NEWS |
APPALTI: Piccoli
Comuni. Centrali uniche di committenza -
Gli acquisti unificati slittano a marzo 2013.
La proroga generalizzata agli obblighi di
Unione e associazione per i Comuni fino a
5mila abitanti imbarca al Senato un nuovo
capitolo: slitta a fine marzo 2013, grazie a
un emendamento approvato ieri in
commissione, l'obbligo per i piccoli enti di
creare centrali uniche per l'acquisizione di
lavori, servizi e forniture.
Il rinvio nasce
per evidenti problemi di coordinamento con
la cura delle Unioni e associazioni
obbligatorie scritta nella manovra estiva, e
rinviata di nove mesi dai correttivi al Milleproroghe approvati alla Camera. Il tema
è quello sollevato dall'articolo 16 del Dl
138/2011, che imporrebbe agli enti fino a
mille abitanti di confluire in Unioni (di
almeno 5mila residenti, 3mila in montagna)
per gestire tutte le attività, e a quelli
fra mille e 5mila di dare vita a gestioni
associate (di almeno 10mila abitanti) per le
funzioni fondamentali.
Dopo il primo
passaggio parlamentare del Milleproroghe, la
partita è stata spostata al 2013, e gli
amministratori locali contano di sfruttare i
tempi supplementari per rivedere a fondo
tutta la disciplina. In questo quadro,
mantenere l'obbligo di centrale unica a
partire da marzo avrebbe significato
introdurre un vincolo parziale mentre la
cornice generale era saltata
(articolo Il Sole 24
Ore del 15.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
PUBBLICO IMPIEGO: Semplificazioni.
Effetto combinato tra le norme sugli iter
conclusi oltre i termini e la riforma
Brunetta.
Il ritardo «licenzia» il dirigente.
La valutazione negativa per due anni può far
scattare la sanzione.
Il decreto legge sulle semplificazioni
pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» di
giovedì mette in campo una serie di nuove
tutele nei confronti del cittadino che
presenta una istanza alla Pubblica
Amministrazione.
Dall'introduzione del potere sostitutivo del
dirigente individuato dall'amministrazione,
o in mancanza, predefinito dal legislatore
stesso, il cittadino allo scadere del
termine per l'emanazione del provvedimento
di suo interesse può investire direttamente
il sostituto e ottenere quanto gli
necessita, con un minimo di attesa ulteriore
comunque pari a non oltre la metà del tempo
fissato dalla legge o dal regolamento
dell'amministrazione. Al verificarsi di un
tale ritardo maturano in primo luogo gli
elementi costitutivi della responsabilità
amministrativa del dirigente o del
funzionario che avrebbe dovuto provvedervi,
e scatta la segnalazione alla Corte dei
Conti che potrà condannare il lavoratore a
risarcire un danno al suo ente di
appartenenza.
Il ritardo o l'assenza del provvedimento
finale costituisce anche elemento di
valutazione negativa della prestazione del
dirigente o del funzionario per l'anno in
cui esso si verifica, e può comportare una
riduzione dell'indennità di risultato; si
tratta in queste ipotesi di responsabilità
«dirigenziale» che si aggiunge alla
responsabilità amministrativa.
In casi
estremi si può verificare per l'interessato
una valutazione talmente negativa da
determinare, qualora si ripeta per almeno
due anni, anche non consecutivi, una
valutazione di insufficiente rendimento:
un'eventualità che rende il dirigente
suscettibile di licenziamento disciplinare,
come previsto dal decreto Brunetta (nel
nuovo articolo 55-quater, comma 2, Dlgs
165/2001). Dal ritardo o dall'omissione del
provvedimento richiesto dal cittadino, anche
prima del decreto semplificazione e
sviluppo, sorgeva a dire il vero in capo al
dirigente o al funzionario responsabile
anche una responsabilità di natura
disciplinare.
Occorre però distinguere il comportamento
del lavoratore che ha semplicemente
ritardato nell'emanare un atto dovuto
dall'ipotesi in cui il ritardo o l'omissione
abbia anche comportato per il cittadino un
danno ingiusto. Nella prima ipotesi la
responsabilità disciplinare deriva dal
comportamento scarsamente diligente
nell'esecuzione dei suoi compiti e nella
trattazione ordinata delle pratiche che
potrà comportare dal minimo del richiamo
verbale al massimo della multa fino a
quattro ore di retribuzione.
Qualora invece
il cittadino investa il giudice civile,
richiedendo un risarcimento alla Pa per il
danno subito, al dirigente o al funzionario
potrà venire contestata una diversa figura
di responsabilità disciplinare. Anch'essa é
stata introdotta dal decreto Brunetta, tra
le ipotesi di «responsabilità per
comportamento pregiudizievole per
l'amministrazione» (articolo 55-sexies,
comma 1, Dlgs 165/2001). Questa ipotesi di
responsabilità disciplinare tuttavia
richiede una sentenza favorevole al
cittadino, che accerti il fatto che si sia
verificato ai suoi danni un danno quale
diretta conseguenza del ritardo o
dell'omissione nell'emettere il
provvedimento richiesto.
Come previsto
dall'articolo 2-bis della legge 241/1990,
modificata dalla legge 69/2009, il ritardo o
l'omissione devono essere frutto di dolo o
colpa, anche lieve, del dipendente pubblico.
Richiede pertanto che il giudice si esprima
in tal senso, avuto riguardo al
comportamento complessivo del lavoratore e
alle eventuali attenuanti dovute, ad
esempio, a carenze organizzative a lui non
imputabili.
L'entità del risarcimento
riconosciuto con sentenza a favore del
cittadino determina infine la gravità della
sanzione disciplinare applicabile in queste
ipotesi. Sanzione che varia da un minimo di
tre giorni a un massimo di tre mesi di
sospensione dal servizio e dalla
retribuzione per il dirigente o funzionario
responsabile del ritardo. Questo può tuttora
costituire un problema, tenuto conto degli
attuali tempi medi della giustizia, che
rendono di fatto inefficace il meccanismo.
---------------
L'incrocio delle regole
01 | LE SANZIONI
In caso di procedimenti conclusi in ritardo
rispetto ai tempi fissati da leggi o
regolamenti, può maturare per il dirigente o
funzionario responsabile la responsabilità
amministrativa, e scatta la segnalazione
alla Corte dei conti che in caso di danno
può stabilire la necessità di un
risarcimento a favore dell'ente
02 | LA VALUTAZIONE
L'esistenza di procedimenti che arrivano in
ritardo alla conclusione viene considerata
obbligatoriamente nella valutazione della
performance del dirigente responsabile
03 | LE CONSEGUENZE
La prima conseguenza diretta è di tipo
economico, perché una valutazione negativa
può ridurre fino ad annullare la
retribuzione di risultato riconosciuta al
dirigente
04 | RIFORMA BRUNETTA
L'entità dell'eventuale danno arrecato
all'ente, invece, può determinare in capo al
dirigente una sanzione aggiuntiva da tre
giorni a tre mesi di sospensione dal
servizio e dalla retribuzione. Nei casi più
gravi, una valutazione negativa protratta
per due anni può portare al licenziamento
disciplinare
(articolo Il Sole 24
Ore del 13.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI SERVIZI: A
rischio caos il calendario dei servizi
pubblici.
TEMPI SERRATI/
Il Governo deve fissare le regole per i
Comuni entro la fine di marzo e la Regione
individua gli «ambiti» a maggio.
Il susseguirsi di interventi normativi sui
servizi pubblici locali non contribuisce
certo a fare chiarezza e a dare stabilità
agli operatori, che si trovano sempre più
sospesi tra novità e rinvii.
Da questo punto di vista il Dl sulle
liberalizzazioni non rappresenta, purtroppo,
un'eccezione: crea non poche incertezze e
costringe i diversi attori istituzionali a
un tour de force che rischia di portare a
scelte poco ponderate e di rendere comunque
inevitabile un'ennesima proroga di scadenze
piuttosto che la definitiva messa a regime
del sistema.
In ogni caso l'articolo 3-bis introdotto nel
Dl 138/2011, che introduce una nuova forma
di «ambiti ottimali» la cui definizione è
affidata alle Regioni, richiede di essere
interpretato con attenzione. Si noti,
anzitutto, che qui non si applicano le
esclusioni previste al comma 34
dell'articolo successivo. Pertanto il 3-bis
e riguarda anche i settori non ricompresi
nell'articolo 4 (energia elettrica, gas,
farmacie e, parzialmente, l'idrico).
Per contro, la richiesta che le Regioni
«organizzino lo svolgimento dei servizi
pubblici locali in ambiti o bacini
territoriali ottimali» (di dimensione almeno
provinciale) non intende che tutti i servizi
debbano essere gestiti a livello di ambito,
ma solo quelli che la Regione giudicherà
tali e quindi, probabilmente, quelli già
così regolamentati: rifiuti, trasporto
locale, acqua, eccetera Altrimenti,
rischieremmo di assistere alla nascita di
società cimiteriali di ambito e ad altre
amenità del genere, vanificando l'autonomia,
costituzionalmente garantita, dei Comuni.
Un'interpretazione omnicomprensiva di
servizio pubblico andrebbe in contraddizione
con le norme, compreso lo stesso articolo
3-bis, comma 2, che prevedono invece la
possibilità dei Comuni di procedere ad
affidamenti di servizi pubblici locali.
Cerchiamo di capire, infine, quali sono i
«momenti chiave» del processo immaginato
dagli articoli 3-bis e 4 in materia di
servizi locali.
Il primo passo spetterà al Governo che,
entro il 31 marzo, deve scrivere un decreto
in cui illustrare con quali criteri i Comuni
devono «individuare i contenuti specifici
degli obblighi di servizio pubblico e
universale, verificano la realizzabilità di
una gestione concorrenziale» e, se del caso,
decidono di attribuire il diritto di
esclusiva su certi servizi (articolo 4,
comma 1) ed emanare in proposito una
delibera quadro (comma 2).
Il secondo spetta invece alla Regione che,
in base all'articolo 3-bis, comma 1, dovrà
individuare i servizi per i quali sia
opportuna una dimensione almeno provinciale
dell'ambito di affidamento e, quindi,
emanare delle norme in proposito. Le Regioni
dovranno fare tutto ciò entro il 30 giugno.
Se questo non accade, sarà il Governo a
intervenire con l'esercizio di un potere
sostitutivo (ma che, immaginiamo, richiederà
un po' di tempo per potersi dispiegare).
A seguito di ciò dovrà iniziare il lavoro di
istruzione e di deliberazione dei Comuni
che, preso atto del decreto governativo e di
quanto regolamentato dalle Regioni, potranno
formulare le loro scelte. I Comuni con oltre
10mila abitanti dovranno però richiedere, in
base all'articolo 4, comma 3, il parere
obbligatorio (ma non vincolante)
dell'Autorità Garante per la Concorrenza
che, a sua volta, si pronuncerà entro 60
giorni di tempo. Fatto questo, ci dovranno
essere le gare per l'affidamento del
servizio o con doppio oggetto, con i tempi
che ne derivano.
Tutto ciò è realisticamente realizzabile? In
effetti si ipotizza una tempistica non
proprio compatibile con la prevista
decadenza al 31.12.2012 degli affidamenti
in house. E bene ha fatto il legislatore
a introdurre un nuovo comma 32-ter
all'articolo 4, che prevede una sorta di
proroga di fatto degli affidamenti in
essere, fino alla conclusione di questo
laborioso iter burocratico
(articolo Il Sole 24
Ore del 13.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI: Appalti.
Le nuove procedure.
Nel contratto di disponibilità il pubblico
si lega al privato.
L'ACCORDO/
Con l'intesa l'affidatario mette l'opera a
disposizione dell'amministrazione in cambio
di canoni, contributi o prezzo di
trasferimento.
Il pacchetto normativo contenuto nei decreti
sulle liberalizzazioni e sulle
semplificazioni ha prodotto molte
innovazioni nel Codice dei contratti
pubblici, sia procedurali sia relative a
nuove soluzioni per definire i rapporti tra
stazioni appaltanti e appaltatori.
La nuova configurazione dell'appalto
riguarda soprattutto i lavori pubblici, per
i quali l'articolo 52 del Dl 1/2012 ha
previsto una revisione dell'articolo 93 del
Codice, che consente l'aggregazione dei
livelli progettuali (preliminare con
definitivo e definitivo con esecutivo), a
condizione che sia garantita la completezza
degli elementi descrittivi e tecnici. Anche
l'approvazione del progetto può essere
ottimizzata in rapporto all'aggregazione dei
livelli, con una scelta di maggior
dettaglio.
Questi aspetti incidono anche sulla
programmazione, per la quale le nuove
disposizioni richiedono che per i lavori
sotto al milione di euro di valore sia
elaborato almeno uno studio di fattibilità,
e per i lavori di importo superiore almeno
un progetto preliminare.
Alcune fasi della gestione della procedura
selettiva sono state semplificate, con
riferimento ai controlli sui requisiti di
ordine generale e di capacità
(economico-finanziaria e
tecnico-professionale), rafforzando le
previsioni del Codice sulla banca dati
nazionale degli appalti. Questa sarà l'unica
fonte di verifica dei requisiti dal 2013,
secondo un processo regolato dall'Autorità
per la vigilanza sui contratti pubblici. Il
riscontro di requisiti secondo le modalità
tradizionali, con la collaborazione degli
operatori economici concorrenti sarà
possibile solo per le informazioni non
presenti nella banca dati nazionale.
Un'importante innovazione riguarda anche il
procedimento gestito dall'Avcp per
l'esclusione dalle gare di un'impresa che
abbia reso false dichiarazioni in sede di
gara: l'interdizione di un anno è ora
riconfigurata come termine massimo deciso
dalla stessa Autorità in rapporto alla
gravità della situazione rilevata (ad
esempio potendo differenziare se la falsa
dichiarazione deriva da dolo o da colpa
grave).
La selezione dell'appaltatore può condurre
ora a nuove forme di relazione con
l'amministrazione, maggiormente improntate
alla valorizzazione della partnership
pubblico-privato.
In tale prospettiva assume rilevanza
l'innovazione dell'articolo 44 del Dl
1/2012, con la disciplina del «contratto di
disponibilità». In questo rapporto sono
affidate, a rischio e a spesa
dell'affidatario, la costruzione e la messa
a disposizione a favore dell'amministrazione
aggiudicatrice di un'opera di proprietà
privata destinata all'esercizio di un
pubblico servizio, a fronte di un
corrispettivo.
Per «messa a disposizione» la norma intende
l'onere assunto a proprio rischio
dall'affidatario di assicurare
all'amministrazione la costante fruibilità
dell'opera, nel rispetto dei parametri di
funzionalità previsti dal contratto,
garantendo la manutenzione e la risoluzione
di tutti gli eventuali vizi, anche
sopravvenuti.
La disponibilità dell'opera è retribuibile
con tre forme diverse, che vanno dal
semplice canone al riconoscimento di un
contributo in corso d'opera, sino alla
corresponsione di un prezzo di
trasferimento.
La sostanziale innovazione rispetto a
soluzioni di partnership già presenti nel
codice (ad esempio locazione finanziaria o
project financing) è rinvenibile nella
previsione per cui nel contratto
l'affidatario assume il rischio della
costruzione (comprensivo della progettazione
e dello sviluppo della gara) e della
gestione tecnica dell'opera per il periodo
di messa a disposizione dell'amministrazione
aggiudicatrice.
La finalità realizzativa di opere con
elevato livello qualitativo comporta
l'utilizzo del metodo dell'offerta
economicamente più vantaggiosa per la
valutazione delle offerte, mentre sul piano
operativo la norma prevede che gli oneri
connessi agli eventuali espropri siano
considerati nel quadro economico degli
investimenti e finanziati nell'ambito del
contratto di disponibilità
(articolo Il Sole 24
Ore del 13.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Scarichi e
rumori, sconti alle pmi.
Assimilazione tra acque reflue industriali e
quelle domestiche. Autorizzazioni semplificate:
autocertificazione invece della
documentazione di impatto acustico.
Dal 18 febbraio le piccole e medie imprese a
ridotto impatto ambientale potranno godere
di un regime autorizzatorio «light» per
scarichi idrici e inquinamento acustico.
Ad
aprire alle pmi le porte delle
semplificazioni burocratiche ambientali è il
dpr 227/2011, emanato in attuazione del dl
78/2010 (il noto decreto legge in materia di
competitività). Il provvedimento, pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale del 03.02.2012
n. 28 e in vigore dal successivo giorno 18,
incide (derogandola) sulla disciplina
ordinaria contenuta nel dlgs 152/2006 (cd.
«Codice ambientale») in materia di acque
reflue industriali e sulla disciplina
dettata dalla legge 447/1995 in materia di
inquinamento acustico.
Acque industriali «come» domestiche.
Attraverso l'assimilazione ex lege di alcune
acque reflue industriali alle acque reflue
domestiche, il nuovo dpr 227/2011 consente
ai titolari dei relativi insediamenti
produttivi di ottenere il permesso allo
scarico in base al più leggero iter
burocratico speciale stabilito dalle regioni
in attuazione del «Codice ambientale»
(istruttoria semplificata e rinnovo tacito)
in luogo del più severo regime ordinario
stabilito dal dlgs 152/2006 (autorizzazione
dietro presentazione di analitica
documentazione, da rinnovare poi ogni
quattro anni dietro nuova domanda presentata
un anno prima della scadenza).
Per godere
delle semplificazione le pmi dovranno
soddisfano contemporaneamente due
condizioni. La prima è quella di avere acque
reflue che rispettano comunque i limiti
massimi di inquinanti previsti dall'articolo
101 del dlgs 152/2006.
La seconda è quella
di avere acque reflue che rientrano in
almeno una delle tre categorie previste dal
nuovo dpr 227/2011, ossia: acque reflue che
prima di ogni trattamento depurativo
presentano livelli inquinanti rientranti nei
parametri disegnati dal nuovo dpr 227/2011;
acque reflue che derivano da attività di
servizi igienici, cucine e mense; acque
reflue che provengono da una delle 35
attività elencate dallo stesso decreto (tra
cui: alberghiere, ristorative, ricreative,
turistiche, sportive, artigianali, di
vendita al dettaglio, agroalimentari,
ospedaliere, di intermediazione
assicurativa).
Rinnovi «soft» per scarichi. Oltre ai
vantaggi dell'assimilazione, le pmi titolari
di scarichi industriali non contenenti
sostanze pericolose e non soggetti a
modifiche quali/quantitative (come volume
delle acque, sostanze in esse contenute)
potranno ottenere il rinnovo della relativa
autorizzazione presentando solo sei mesi
prima della scadenza (in luogo dell'anno
previsto dal regime ordinario del dlgs
152/2006) una semplice istanza recante, in
autodichiarazione ex dpr 445/2000, i dati
precisati dal nuovo dpr 227/2011 (e ciò in
luogo della nuova e ordinaria domanda
prevista di «default» dal dlgs 152/2006).
Deroghe all'impatto acustico. Le attività
commerciali e artigianali definite «a bassa
rumorosità» dal nuovo dpr 227/2011, attività
coincidenti in linea di massima con le
tipologie produttive più sopra descritte
(con l'eccezione di quelle ristorative e
ricreative con impianti di diffusione
sonora, qui escluse) non dovranno più
presentare alle pubbliche autorità la
«documentazione di impatto acustico»
prevista dall'articolo 8 della legge
447/1995.
La stessa «documentazione di
impatto acustico» potrà invece essere
prodotta in semplice autocertificazione da
parte delle pmi commerciali e artigiane che
non superano comunque i limiti di emissione
stabiliti dalla classificazione acustica
comunale (e, ove non effettuata, rispettose
comunque dei previsti dal dpcm 14.11.1997).
Competenza dello «Sportello unico». Il dpr
227/2011 prevede infine la convergenza delle
procedure amministrative relative alle
descritte autorizzazioni in materia di acque
e rumore presso lo «Sportello unico per le
attività produttive», l'ufficio istituito
dal dpr 160/2010 e meglio noto con
l'acronimo «Suap» (articolo ItaliaOggi Sette
del 13.02.2012). |
GIURISPRUDENZA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Organizzazione
degli uffici e dei sevizi degli enti locali:
limiti alla scelte politiche nella
riorganizzazione dell'Ufficio legale degli
enti pubblici.
L’Amministrazione pubblica gode, ai sensi
dell’art. 97 della Costituzione, di un ampio
margine di auto-organizzazione degli uffici
e del personale, il che è stato
ulteriormente ribadito dalla legge n. 127
del 1997 che, nel modificare l’art. 51 della
legge n. 142 del 1990, ha modificato la
competenza ad adottare il regolamento degli
uffici e dei servizi, attribuendolo (unico
fra tutti i regolamenti) alla Giunta,
proprio per porre in evidenza che la
organizzazione degli uffici degli enti
locali è vicenda operativa intrinsecamente
collegata con il potere operativo e non può
sottostare alle discussioni di
un’approvazione assembleare. Ma se ciò è
vero, come è indubitabile, è anche vero che
l’esercizio in concreto di tale
discrezionalità non è senza limiti,
altrimenti essa si tramuterebbe in una
incondizionata licenza, senza alcun limite e
senza alcuna possibilità di controllo.
Pertanto, pur nella notevole discrezionalità
che caratterizza la materia, essa incontra
due limiti: uno è quello della
ragionevolezza, nel senso che, qualora si
dovessero riscontrare patenti violazione
dell’ordine logico e si dovesse individuare
una organizzazione che non si presenta
rispettosa dei principi di cui all’art. 97
Cost., allora l’esame del provvedimento di
macro-organizzazione diventa non solo
necessario, ma addirittura indispensabile;
l’altro limite, si potrebbe dire,
naturalmente, è quello del rispetto delle
statuizioni esistenti e, in particolare, nel
caso che interessa in questa sede, delle
guarentigie attribuite a determinate
categorie di soggetti operanti nell’ambito
della pubblica amministrazione.
Nel caso di specie il Consiglio di Stato ha
rilevato come la normativa attualmente
vigente (con particolare riferimento, oltre
alla natura dell’attività tipica di un
ufficio legale, ricavabile dal principi
generali dell’ordinamento giuridico,
dall’art. 3 del r.d. n. 1578 del 1933 e
dall’art. 15, comma 2, della legge n. 70 del
1975) prevede che gli uffici legali degli
enti pubblici devono godere di autonomia e
di indipendenza, per cui, al di là delle
scelte politiche, la parte squisitamente
tecnica non può essere sottoposta né a
condizionamenti, né a valutazioni che
possano in qualche modo svilirne il modo di
essere. Indubbiamente, l’Ufficio legale è
sempre un ufficio dell’Amministrazione e non
può sottrarsi alle indicazioni degli organi
di vertice, nel senso di agire al di fuori
di quelle indicazioni, ma tali indicazioni
non possono mai intaccare la visione
autonoma delle vicende che sono sottoposte
alla sua cognizione.
Mentre nella vicenda che interessa la
presente fattispecie, il Consiglio di Stato
ha rilevato come si sia assistito, non tanto
all’allontanamento, del dirigente
dell’Avvocatura, per il quale non vi è
giurisdizione del giudice amministrativo, ma
soprattutto allo smembramento dell’Ufficio,
che finisce di essere un vero e proprio
ufficio legale, sia per la sottoposizione al
coordinamento e alla sovrintendenza del
direttore generale, sia per la sottrazione
dei pareri legali (affidati addirittura ad
un ufficio archivio e protocollo), sia per
la sottrazione del contenzioso in materia di
controversie di lavoro, affidato al settore
risorse umane, e sia, ancora, per
l’affidamento all’ufficio legale in materia
di costituzione in giudizio, di un mero
parere amministrativo, mentre la tecnicità
dell’ufficio prevederebbe invece un parere
di natura tecnico-giuridica.
Da ciò consegue a dire del Collegio che il
provvedimento di macro-organizzazione posto
in essere nel caso di specie dalla Provincia
di Salerno, oltre a violare le guarentigie
dell’Ufficio legale, si prospetta anche
particolarmente perplesso, in ordine al
raggiungimento degli interessi pubblici che
sono collegati con un’attività di tipo
giuridico e non può, conseguentemente,
essere considerato legittimo (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 14.02.2012 n. 730 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Caratteri
distintivi che consentono di qualificare una
strada come "strada pubblica" o "strada
privata sottoposta a servitù di passaggio
pubblico".
La giurisprudenza insegna che costituisce
una strada pubblica quel tratto viario che
non è cieco, ma assume una esplicita
finalità di collegamento, essendo destinato
al transito di un numero indifferenziato di
persone: C.d.S., V, 07.12.2010, n. 8624; che
il connotato di interclusione dell'area
servita esclude che vi possa sorgere un uso
stradale in favore di una collettività
indeterminata, e fa invece concludere per
un'utilità limitata ai soli proprietari
frontisti: C.d.S., V, 18.12.2006, n. 7601;
che un'area privata può ritenersi
assoggettata ad uso pubblico di passaggio
quando l'uso avvenga ad opera di una
collettività indeterminata di soggetti
considerati uti cives, ossia quali
titolari di un pubblico interesse di
carattere generale, e non uti singuli,
ossia quali soggetti che si trovano in una
posizione qualificata rispetto al bene
gravato; oppure quando vi sia stato, con la
cosiddetta dicatio ad patriam,
l'asservimento del bene da parte del
proprietario all'uso pubblico, analogamente,
di una comunità indeterminata di soggetti
considerati sempre uti cives, di
talché il bene stesso viene ad assumere
caratteristiche analoghe a quelle di un bene
demaniale: Cassazione civile, sez. II,
21.05.2001, n. 6924; che ai fini della
dicatio ad patriam occorre pur sempre il
requisito dell’idoneità intrinseca del bene
a soddisfare un’esigenza comune della
collettività dei consociati uti cives:
Cass. Civ., II, 13.02.2006, n. 3075.
In coerenza con gli enunciati appena
esposti, la giurisprudenza afferma in
definitiva che, perché un'area privata possa
ritenersi sottoposta ad una servitù pubblica
di passaggio, è necessario, oltre
all'intrinseca idoneità del bene, che l'uso
avvenga ad opera di una collettività
indeterminata di persone e per soddisfare un
pubblico, generale interesse.
Ne consegue che deve escludersi l'uso
pubblico quando il passaggio venga
esercitato unicamente dai proprietari di
determinati fondi in dipendenza della
particolare ubicazione degli stessi, o da
coloro che abbiano occasione di accedere ad
essi per esigenze connesse alla loro privata
utilizzazione (Cass. Civ., II, 23.05.1995,
n. 5637), oppure, infine, rispetto a strade
destinate al servizio di un determinato
edificio o complesso di edifici (Cass. civ.,
I, 22.06.1985, n. 3761) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 14.02.2012 n. 728 -
massima tratta da
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APPALTI: L'aggiudicazione
definitiva della gara può, ove previsto dal
bando, essere comunicata via fax ed il
relativo rapporto di trasmissione via fax è
strumento idoneo a far decorrere i termini
di impugnativa.
In base alla più recente normativa (d.p.r.
28.12.2000, n. 445) il fax è strumento
ordinario di comunicazione di atti e
documenti, in quanto soddisfa sia la forma
scritta che la fonte di provenienza. In
forza dell’art. 43, comma 6, un fax deve
presumersi giunto al destinatario quando il
rapporto di trasmissione indica che questa è
avvenuta regolarmente. In materia di
procedure ad evidenza pubblica, l’art. 77
del d. lgv. n. 163 del 2006 stabilisce che è
in facoltà delle stazioni appaltanti e degli
operatori economici inviare le comunicazioni
via telefax, purché di ciò si dia
comunicazione nel bando o nell’invito.
Sulla scorta della normativa citata, la
giurisprudenza ha ritenuto che il rapporto
di trasmissione via fax è strumento idoneo a
garantire con sufficiente certezza
l’effettività della comunicazione e, quindi,
a far decorrere i termini di impugnativa,
senza che il soggetto che ha trasmesso il
fax debba fornire ulteriore prova oltre
quella risultante dal rapporto di
trasmissione che indichi le regolari
avvenute trasmissione e ricezione. Grava,
invece, sul ricevente che assume la mancata
ricezione fornirne la prova contraria (Cons.
Stato, sez. V, 18.08.2010, n. 5845;
24.04.2002, n. 2202).
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.02.2012 n. 722 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Principi
giurisprudenziali consolidati in tema di
verifica della anomalia della offerta.
Nella sentenza in esame il Consiglio di
Stato procede nella rassegna di principi
ormai acquisiti dalla giurisprudenza
rilevando:
- che le valutazioni della stazione
appaltante circa la verifica della anomalia
dell’offerta sono espressione di
discrezionalità amministrativa non
sindacabile in sede giurisdizionale se non
in presenza di una manifesta illogicità
(cfr. Cons. St. V, 21.01.2009, n. 278);
- che quando si tratti di giudizio
favorevole (in tema di anomalia della
offerta) esso non richiede di regola una
motivazione puntuale ed analitica, anche
perché le giustificazioni presentate possono
costituire motivazione “per relationem”
del provvedimento (cfr. Cons. St. V,
11.07.2008, n. 3481);
- che in ogni caso il giudizio di verifica
della congruità di un’offerta che si assume
anomala ha natura globale e sintetica, sì
che l’attendibilità della offerta va
valutata nella sua globalità (cfr. Cons. St.
V, 12.06.2009, n. 3762);
- che conseguentemente l’esito della gara
può essere travolto dalla pronuncia del
giudice amministrativo solo quando il
giudizio negativo sul piano della
attendibilità riguardi voci che, per la loro
rilevanza ed incidenza complessiva, rendano
l’intera operazione economica non plausibile
(cfr. Cons. St. V, 28.10.2010, n. 7631)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 14.02.2012 n. 710 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
E' necessaria la querela di falso
per contestare il verbale di sopralluogo
redatto dagli agenti e tecnici comunali
attestante l'esistenza di manufatti abusivi
in quanto essendo un atto pubblico esso fa
piena prova fino a querela di falso delle
circostanze di fatto in esse accertate sia
relativamente allo stato di fatto e sia
rispetto allo status quo ante.
In materia di edilizia ed urbanistica, è
sufficientemente motivato il provvedimento
che, a fronte di un abuso edilizio, ne
ordina la demolizione con richiamo al
verbale di sopralluogo dei tecnici comunali
dato che, com’è noto, il provvedimento
sanzionatorio in materia edilizia ha natura
del tutto vincolata giacché è conseguente ad
un accertamento tecnico della consistenza
delle opere abusive realizzate.
Il verbale redatto e sottoscritto dagli
agenti e dai tecnici del comune a seguito di
sopralluogo, attestante l'esistenza di
manufatti abusivi, costituisce atto
pubblico, fidefaciente fino a querela di
falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c., delle
circostanze di fatto in esse accertate sia
relativamente allo stato di fatto e sia
rispetto allo status quo ante. In
sostanza il verbale ben può rilevare la
presenza di interventi edilizi su strutture
preesistenti che modificano la situazione di
fatto notoriamente in essere in precedenza,
ovvero quella risultante da atti comunali,
dagli atti catastali, dai registri della
proprietà, ecc. ecc..
Pertanto, in difetto della predetta querela
di falso del verbale, esattamente il TAR
-anche in assenza di costituzione del
Comune- ha posto a base della decisione il
predetto verbale. Ma anche a voler
prescindere dal rilievo che precede, si deve
rilevare che, contrariamente a quanto
mostrano di intendere le ricorrenti, trovava
integrale applicazione anche nel processo
amministrativo la disciplina contenuta
nell'art. 2697 c.c. (corrispondente, ora,
all'art. 64, comma 1, d.lgs. n. 104/2010)
secondo la quale spetta a chi agisce in
giudizio indicare e provare i fatti (cfr.
Consiglio Stato , sez. IV, 11.02.2011, n.
924; Consiglio Stato, sez. IV, 27.01.2011,
n. 618). Ciò implica che chi agisce in
giudizio debba comunque fornire gli elementi
probatori a favore delle proprie tesi.
Nel giudizio di impugnazione dell’ordinanza
repressiva di un abuso edilizio è onere del
privato quindi fornire la prova dello "status
quo ante", in quanto la p.a. non può di
solito materialmente accertare quale fosse
la situazione dell'intero suo territorio.
Chi realizza interventi, ritenuti abusivi,
su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare
rigorosamente, se intende evitare le misure
repressive di legge, lo stato della
preesistenza, proprio in applicazione del
principio generale di cui all'art. 2697 c.c.
(arg. ex Consiglio Stato, sez. IV,
27.11.2010, n. 8298).
In tali casi, il privato dispone, ed è
normalmente in grado di esibire, la
documentazione idonea al fine di fornire
utili elementi di valutazione quali ad es. o
ancora anche fotografie con data certa
dell’immobile; estratti delle planimetri
catastali; il progetto originario e i suoi
allegati, ecc.. Le ricorrenti, a
dimostrazione dell’assenza dell’abuso,
avrebbero cioè dovuto allegare gli elementi
di prova (fotografie, documenti di
proprietà, certificazioni catastali, titoli
edilizi, ecc.) idonei a smentire i
presupposti di fatto dell’ordinanza.
Pertanto, ad avviso del Consiglio di Stato
erroneamente le ricorrenti –a fronte di un
verbale a fede privilegiata– pretenderebbero
che, con un’inammissibile integrazione
dell’atto, l’Amministrazione provasse
giudizialmente i fatti posti a base della
sua azione, perché ciò si risolverebbe in
un’inammissibile assoluta inversione
dell'onere della prova. L’amministrazione
infatti non ha un dovere di costituirsi
necessariamente in giudizio impugnatorio,
per cui il privato che contesta la
legittimità del provvedimento deve comunque
allegare al gravame gli elementi probatori
in grado di contrastare le conclusioni ed i
presupposti dell’atto impugnato (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.02.2012 n. 703 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Pubblica in bacheca comunale
l’atto amministrativo contenente le
infermità del dipendente: sì al risarcimento
per diffusione di dati sensibili.
Così ha stabilito la I Sez. civile della
Corte di Cassazione, pronunciandosi, con
sentenza 13.02.2012 n.
2034, sul risarcimento dei danni non
patrimoniali, riconosciuti nel precedente
grado di giudizio ad un dipendente del
Comune, cui gli era stata negata la
dipendenza da causa di servizio per una
patologia da cui era affetto.
Il dichiarato danno non patrimoniale,
conseguente alla lesione del proprio diritto
alla riservatezza, sopraggiungeva dal
momento in cui la responsabile dell’area
direzionale del Comune, che appunto aveva
negato il riconoscimento, riportava
nell’atto amministrativo diagnosi, cure,
natura ed effetti della patologia e ne
disponeva la pubblicazione nell’Albo
Pretorio del Comune per 15 giorni.
La Corte di cassazione ha ribadito
l’illiceità del comportamento per violazione
dell’art. 2 della Costituzione e delle
disposizioni di cui al D.Lgs. 193/2003
(Codice della privacy), cioè per illegittima
divulgazione dei dati personali e sensibili
riguardanti la salute.
In particolare, la pubblica amministrazione
ha violato il principio di pertinenza e di
non eccedenza, principio secondo cui
commette un illecito se effettua il
trattamento di un dato che risulti eccedente
le finalità pubbliche da soddisfare. Nella
fattispecie, il trattamento dei dati
sensibili è risultato eccedente la funzione
pubblica (quella della pubblicazione
dell’atto).
La pubblicazione della determinazione
amministrativa, infatti, era avvenuta in
modo tale per cui chiunque avrebbe potuto
leggerne la motivazione e apprendere le
informazioni sulla salute del soggetto
interessato. Di conseguenza, un ulteriore
pregiudizio derivava proprio dalla specifica
preoccupazione dell’attore della possibile
lettura dell’atto amministrativo da parte di
un numero indeterminato di soggetti, e
dunque dal fatto di non sapere quali e
quante persone avevano in realtà conosciuto
la propria situazione di salute.
D’altronde le stesse motivazione dell’atto
si sarebbero potute egualmente esprimere
adottando una differente modalità di
notificazione o più semplicemente sarebbe,
bastato per tutelare il soggetto
interessato, l’utilizzo di “omissis”.
Debole è apparsa la difesa della
responsabile dell’area direzionale del
Comune, la quale, oltre a sosteneva che il
pregiudizio arrecato non fosse stato
minimamente provato, ma solo supposto,
ribatteva che gli incaricati dell’affissione
all’albo degli atti comunali avevano sì
affisso la determinazione, ma in parte
sovrapposta ad altra deliberazione, per cui
in concreto non sarebbe stato possibile al
pubblico accertare il contenuto della
motivazione contenente la pretesa violazione
del diritto alla riservatezza (tratto da
www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La congruità del termine
assegnato dall'Ente Locale per l'esecuzione
della demolizione va valutato con esclusivo
riferimento alla tipologia delle opere da
rimuovere.
Nella vicenda in esame i ricorrenti hanno
prospettano l’incongruità del termine di
trenta giorni assegnato dal Comune per
l’esecuzione della demolizione delle opere
abusive in quanto lo stesso sarebbe
inferiore al termine previsto per
l’impugnativa giurisdizionale e, comunque,
non consentirebbe loro di reperire un’idonea
situazione alloggiativa.
Il Giudice ha ritenuto il motivo in esame
infondato in quanto, a suo dire, la
congruità del termine va valutata con
esclusivo riferimento alla natura
dell’adempimento da espletare e, quindi,
alla tipologia delle opere da rimuovere
senza alcuna rilevanza del periodo di tempo
previsto per l’impugnazione (che,
altrimenti, interferirebbe con l’esecutività
dei provvedimenti amministrativi stabilita
dalla legge) e delle necessità abitative dei
ricorrenti, le quali ultime costituiscono
circostanze di fatto non valutabili ai fini
dell’individuazione del termine per la
demolizione (TAR Campania, Napoli sentenza
n. 3530/09) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 10.02.2012 n. 1373 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Il Sindaco e il Presidente della
Provincia hanno la rappresentanza in
giudizio dell'Ente Locale senza necessità di
preventiva autorizzazione salvo diversa
previsione statutaria.
Negli enti locali, nella vigenza della legge
n. 142/1990, il potere di autorizzazione a
stare in giudizio era di competenza della
Giunta Comunale e il potere di conferire la
procura del Sindaco (Cass. civ., sez. I,
21.12.2002 n. 18224 e 10.09.2003 n.13218).
Dopo l’entrata in vigore del Testo Unico
Enti Locali (d.lgs. n. 267/2000), la
giurisprudenza ha affermato che la
rappresentanza in giudizio dell’ente locale
spetta al Sindaco o al Presidente della
Provincia, senza necessità di preventiva
autorizzazione a stare in giudizio, e ciò
salvo diversa previsione dello Statuto, il
quale può sia prevedere la necessità della
persistenza dell’autorizzazione,
attribuendone il relativo potere, sia
affidare la rappresentanza dell’ente ad un
dirigente, o anche al dirigente dell’ufficio
legale, con riferimento all’intero
contenzioso (Cass. Sez. Un., 27.06.2005 n.
13710; Cons. St., sez. V, 07.09.2007 n.
4721; Cass. civ., sez. I, 13.01.2010 n. 387;
sez. III, 05.08.2010 n. 18158) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 10.02.2012 n. 701 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Anche il
tempo è un bene della vita per il cittadino
ed il ritardo nella conclusione di un
qualunque procedimento è sempre un costo,
dal momento che il fattore tempo costituisce
una essenziale variabile nella
predisposizione e nell’attuazione di piani
finanziari relativi a qualsiasi intervento,
condizionandone la relativa convenienza
economica.
Per ogni ipotesi di responsabilità della
p.a. per i danni causati per l’illegittimo
esercizio (o, come nel caso di specie,
mancato esercizio) dell’attività
amministrativa, spetta al ricorrente fornire
in modo rigoroso la prova dell'esistenza del
danno, non potendosi invocare il c.d.
principio acquisitivo perché tale principio
attiene allo svolgimento dell'istruttoria e
non all'allegazione dei fatti; se anche può
ammettersi il ricorso alle presunzioni
semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la
prova del danno subito e della sua entità, è
comunque ineludibile l'obbligo di allegare
circostanze di fatto precise e quando il
soggetto onerato della allegazione e della
prova dei fatti non vi adempie non può darsi
ingresso alla valutazione equitativa del
danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma
presuppone l'impossibilità di provare
l'ammontare preciso del pregiudizio subito,
né può essere invocata una consulenza
tecnica d’ufficio, diretta a supplire al
mancato assolvimento dell’onere probatorio
da parte del privato.
L''onere probatorio può ritenersi assolto
allorché il ricorrente indichi, a fronte di
un danno certo nella sua verificazione,
taluni criteri di quantificazione dello
stesso, salvo il potere del giudice di
vagliarne la condivisibilità attraverso
l'apporto tecnico del consulente o,
comunque, quando il ricorrente fornisca un
principio di prova della sussistenza e
quantificazione del danno.
Nel caso di specie, ricorre l’ipotesi in cui
il privato invoca la tutela risarcitoria per
i danni conseguenti al ritardo con cui
l'amministrazione ha adottato un
provvedimento a lui favorevole, ma emanato
appunto con ritardo rispetto al termine
previsto per quel determinato procedimento.
Il ritardo procedimentale ha, quindi,
determinato un ritardo nell’attribuzione del
c.d. "bene della vita", costituito
nel caso di specie dalla possibilità di
avviare la costruzione e l’esercizio di un
impianto fotovoltaico.
In questi casi la giurisprudenza è pacifica
nell’ammettere il risarcimento del danno da
ritardo (a condizione ovviamente che tale
danno sussista e venga provato) e
l’intervenuto art. 2-bis, comma 1, della
legge n. 241/1990, introdotto dalla legge n.
69/2009, conferma e rafforza la tutela
risarcitoria del privato nei confronti dei
ritardi delle p.a., stabilendo che le
pubbliche amministrazioni e i soggetti
equiparati sono tenuti al risarcimento del
danno ingiusto cagionato in conseguenza
dell’inosservanza dolosa o colposa del
termine di conclusione del procedimento.
Secondo la giurisprudenza più recente del
Consiglio di Stato (sentenza 28.02.2011 n.
1271) la norma presuppone che anche il tempo
è un bene della vita per il cittadino e che
il ritardo nella conclusione di un qualunque
procedimento, è sempre un costo, dal momento
che il fattore tempo costituisce una
essenziale variabile nella predisposizione e
nell’attuazione di piani finanziari relativi
a qualsiasi intervento, condizionandone la
relativa convenienza economica (Cons. Giust.
Amm. reg. Sic., 04.11.2010 n. 1368, che,
traendo argomenti dal citato art. 2-bis, ha
aggiunto che il danno sussisterebbe anche se
il procedimento autorizzatorio non si fosse
ancora concluso e finanche se l’esito fosse
stato in ipotesi negativo).
Nel caso di specie, non rileva la questione
della risarcibilità del danno da ritardo in
caso di non spettanza del c.d. "bene
della vita" e della compatibilità dei
principi affermati dalla decisione
dell’Adunanza plenaria n. 7/2005 con il
nuovo art. 2-bis della legge n. 241/1990,
avendo la stessa amministrazione
riconosciuto tale spettanza con il (tardivo)
rilascio dell’autorizzazione unica di cui
all’art. 12 del d.lgs. 387 del 2003.
Si deve, quindi, passare a verificare gli
elementi probatori in ordine all’esistenza
del danno e al rapporto di causalità con il
menzionato ritardo.
Per ogni ipotesi di responsabilità della
p.a. per i danni causati per l’illegittimo
esercizio (o, come nel caso di specie,
mancato esercizio) dell’attività
amministrativa, spetta al ricorrente fornire
in modo rigoroso la prova dell'esistenza del
danno, non potendosi invocare il c.d.
principio acquisitivo perché tale principio
attiene allo svolgimento dell'istruttoria e
non all'allegazione dei fatti; se anche può
ammettersi il ricorso alle presunzioni
semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la
prova del danno subito e della sua entità, è
comunque ineludibile l'obbligo di allegare
circostanze di fatto precise e quando il
soggetto onerato della allegazione e della
prova dei fatti non vi adempie non può darsi
ingresso alla valutazione equitativa del
danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma
presuppone l'impossibilità di provare
l'ammontare preciso del pregiudizio subito,
né può essere invocata una consulenza
tecnica d’ufficio, diretta a supplire al
mancato assolvimento dell’onere probatorio
da parte del privato (Cons. Stato, V,
13.06.2008 n. 2967).
La stessa richiamata giurisprudenza ha anche
precisato che l'onere probatorio può
ritenersi assolto allorché il ricorrente
indichi, a fronte di un danno certo nella
sua verificazione, taluni criteri di
quantificazione dello stesso, salvo il
potere del giudice di vagliarne la
condivisibilità attraverso l'apporto tecnico
del consulente o, comunque, quando il
ricorrente fornisca un principio di prova
della sussistenza e quantificazione del
danno (TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 10.02.2012 n. 111 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Annullamento d’ufficio di un
illegittimo provvedimento di inquadramento,
non è necessario motivare l’interesse
pubblico all’intervento in autotutela.
Il potere di autotutela
decisoria in capo all'Amministrazione non ha
come unica finalità il mero ripristino della
legalità, costituendo una potestà
discrezionale che deve contemplare la
verifica di determinate condizioni, previste
dall'ordinamento e concernenti l'opportunità
di correggere l'azione amministrativa
svoltasi illegittimamente; l'annullamento è
stato, pertanto, connotato dall’art.
21-nonies, comma 1, L. 241/1990 in termini
di rinnovata manifestazione, entro un
termine ragionevole, della funzione
amministrativa. In tale ambito rilevano,
oltre all'attualità di un interesse pubblico
distinto ed ulteriore rispetto al mero
ripristino della legalità violata, anche gli
interessi di tutte le parti coinvolte e il
tempo trascorso dalla determinazione
viziata.
Lo ha puntualizzato il TAR Campania-Napoli,
Sez. V,
sentenza
09.02.2012 n. 703.
Deve pertanto ritenersi che il potere di
autotutela, quale trova fondamento nel
principio costituzionale di buon andamento,
impegna la P.A. ad adottare gli atti il più
possibile rispondenti ai fini da conseguire
ed autorizza quindi anche il riesame degli
atti adottati, ove reso opportuno da
circostanze sopravvenute ovvero da un
diverso apprezzamento della situazione
preesistente.
In particolare, in caso di annullamento
d’ufficio di un illegittimo provvedimento di
inquadramento, in materia di pubblico
impiego, non occorre una specifica
motivazione sull’interesse pubblico
all’intervento in autotutela
in quanto tale interesse è in re ipsa,
ed è quello di risparmiare ed evitare spese
non giustificate in base alla normativa, il
che significa che per procedere
all’annullamento d’ufficio di un
inquadramento illegittimo è sufficiente
l’esigenza di ripristinare la legalità.
(cfr. Cons. Stato, VI, n. 1550/2009) (tratto
da www.diritto.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Concorso per dirigente tecnico:
per la prova orale la Commissione
esaminatrice non e' vincolata dal curriculum
del partecipante il quale deve essere pronto
a rispondere su tutte le materie previste
dal Bando.
In base al principio di imparzialità del
concorso, i curricula “studiorum” e
professionali dei singoli candidati non
possono comunque costituire un limite o
comunque un vincolo per la Commissione
esaminatrice nella formulazione delle prove
del colloquio.
Nella sostanza delle cose dunque, chi
partecipa ad un concorso per posti di
dirigente tecnico, deve essere pronto a
rispondere su tutte le materie comunque
previste del bando. Del tutto legittimamente
qui la Commissione, nell’ambito delle
materie della prova orale, ha proceduto ad
accertare la specifica qualificazione
professionale di coloro che sarebbero stati
destinati ad assicurare le funzioni
dirigenziali dell’amministrazione (quali i
servizi catasto - tecnico erariale -
registri immobiliari - gestione immobili
dello stato, ecc. ecc.) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 09.02.2012 n. 694 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Con l'approvazione di un nuovo
Piano Regolatore le nuove norme prevalgono e
sostituiscono integralmente le precedenti
con impossibilita' del Comune di
disapplicarle non sussistendo una "ultrattività"
del precedente PRG.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in
esame rileva come in linea di principio, in
base al principio della successione nel
tempo delle norme, con l’approvazione di un
nuovo Piano Regolatore, le disposizioni
successivamente intervenute sostituiscono
integralmente le precedenti prescrizioni del
vecchio Piano riguardanti la zona medesima,
che vengono del tutto meno per la
fondamentale ragione che la pianificazione
urbanistica, che ha per sua natura carattere
dinamico, ha proprio la finalità di adeguare
la disciplina del territorio alle
sopravvenute esigenze.
Pertanto, essendo espressione di valutazione
all’attualità delle esigenze in ordine
all'utilizzazione del territorio, le nuove
previsioni del Piano Regolatore: -- hanno un
carattere di assoluta prevalenza, -- non
possono essere disapplicate dallo stesso
Comune, in favore di una "ultrattività"
del precedente PRG; -- si sostituiscono
integralmente (salvo il caso di una
specifica norma transitoria ad hoc)
alle precedenti disposizioni le quali non
possono comunque conservare alcuna
efficacia.
In ogni caso, i proprietari degli immobili,
che non possono avere alcuna legittima
aspettativa all'immutabilità della
pianificazione urbanistica, non possono “scegliersi”
la normativa edilizia che disciplina
l’edificazione dei propri terreni. Per il
noto principio tempus regit actum, la
legittimità del rigetto del permesso di
costruire deve infatti essere rapportata
alla situazione di diritto riscontrabile
alla data della relativa emanazione per cui
è evidente come, nel caso, l’istanza
edilizia doveva essere esaminata alla luce
del PRG, (e delle ulteriori sopravvenute
misure di salvaguardia) vigenti al momento
della sua introduzione.
Né peraltro risulta per il caso sottoposto
all'attenzione del Collegio che,
relativamente venir meno della
fabbricabilità dell’area, l’appellante abbia
tempestivamente gravato il sopravvenuto
piano regolatore generale e la relativa
variante di adeguamento. Sotto il profilo
sostanziale dunque l’appellante non aveva
alcun titolo giuridico su cui fondare la sua
pretesa all’edificazione de qua.
Esattamente l’Amministrazione Comunale ha
dunque respinto un’istanza di permesso
edilizio fondata dal privato su di un PRG
non solo mai diventato efficace, ma anche
superato dalla successiva disciplina
urbanistica (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.02.2012 n. 693 -
massima tratta da
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ESPROPRIAZIONE:
Individuazione degli elementi
indispensabili per la legittimità della
comunicazione di avvio del procedimento di
occupazione d'urgenza ai fini espropriativi.
L’avviso di cui all’art. 11 DPR n. 327/2001
deve contenere, per essere legittimo e
coerente con il citato articolato normativo
oltre che con gli artt. 7 e 8 l. n.
241/1990, l’indicazione delle particelle e
dei nominativi, quali indefettibili elementi
diretti ad individuare i soggetti
espropriandi ed i beni oggetto del
procedimento amministrativo, e ciò sia che
la comunicazione avvenga personalmente, sia
che essa avvenga in forma collettiva
mediante avviso pubblico (Cfr. Cons. di
Stato, IV, 08/06/2011, n. 3500).
E’ evidente infatti che le modalità di
comunicazione, seppur semplificate nella
forma e nel numero, devono in ogni caso
essere idonee a raggiungere lo scopo della
effettiva conoscenza, di guisa che il
proprietario inciso sia posto in grado di
optare o meno per la partecipazione
procedimentale in chiave difensiva
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.02.2012 n. 691 -
massima tratta da
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Diritto di accesso: il
proprietario dell'immobile sovrastante
l'unita' autorizzata dal Comune al cambio di
destinazione d'uso ha diritto di richiedere
all'amministrazione il certificato di
agibilità di tale unità per la quale e'
stata assentita la trasformazione e ove
inesistente l’Amministrazione comunale e'
tenuta ad attestare la circostanza relativa
al mancato rilascio.
Ai sensi delle disposizioni di cui all’art.
22 e ss. della legge n. 241 del 1990 la
richiesta di esercizio dell’accesso può
avere ad oggetto i documenti amministrativi
formati e detenuti da un soggetto della
pubblica amministrazione e presuppone nel
richiedente un situazione giuridicamente
rilevante ad ottenere l’ostensione di detti
documenti.
Secondo un più che consolidato indirizzo
giurisprudenziale, la situazione sottesa
alla domanda di accesso si configura come un
vero e proprio diritto soggettivo meritevole
di tutela le quante volte la conoscenza
degli atti oggetto della formulata
richiesta, fatta eccezione per gli atti
normativamente sottratti all’accesso, è
strumentale all’esercizio di difesa dei
propri interessi in sede giurisdizionale e/o
in altra sede e comunque si rivela rilevante
ai fini del conseguimento da parte
dell’interessato di un bene della vita (ex
plurimis, Cons. Stato Sez. VI 27.10.2006
n. 6440 ).
Sotto l’aspetto testé illustrato il
Consiglio d Stato ha ritenuto la richiesta
di accesso del ricorrente ammissibile,
insorgendo la legittimazione del medesimo
dall’essere proprietario dell’unità
immobiliare sovrastante quella in cui è
stato autorizzato il cambio di destinazione
d’uso da garage ad ufficio, lì dove dai
titoli di assentimento potrebbe derivare una
lesione alle posizioni giuridiche soggettive
vantate dall’originario ricorrente.
Quanto poi alla questione qui
specificatamente sollevata, quella relativa
ad una pretesa inesistenza del certificato
di agibilità, la richiesta di accesso in via
amministrativa del ricorrente e la
successiva actio ad exibendum da lui
attivata si appalesano ammissibili oltreché
fondate nel merito. Invero, relativamente
all’oggetto della domanda di accesso,
occorre far presente che lo scopo della
richiesta presuppone in colui che la produce
un situazione di ignoranza nel senso che è
normale che il richiedente non sa se detto
documento esista o meno. D’altra parte una
richiesta fatta in condizioni di ignoranza
non può qualificarsi come “impossibile”
dal momento che essa è ancorata comunque a
dati normativi certi ed inequivocabili che a
monte contemplano la presenza di un siffatto
documento abilitativo.
In particolare, avuto riguardo alla
fattispecie all’esame, l’istanza del
ricorrente muove dal presupposto che il
documento richiesto è espressamente previsto
dalle vigenti disposizioni legislative
recate dal Testo Unico sull’edilizia di cui
al DPR. n. 380 del 06.06.2001 (ma anche
dalla normativa previgente al t.u.) che
assoggetta a tale certificazione ogni
organismo edilizio destinato ad un utilizzo
che comporta la permanenza dell’uomo nelle
strutture edilizie autorizzate, al fine di
attestare la sussistenza delle condizioni di
sicurezza, igiene, salubrità e risparmio
energetico (art. 24, 1° comma, del citato
DPR). Trattasi, allora, di una
certificazione assolutamente necessaria ai
fini dell’uso legittimo e conforme dei
locali per i quali viene assentito la
realizzazione e la trasformazione e della
stessa è lecito e doveroso presumerne la
esistenza.
Se così è non può parte appellante al fine
di inficiare la fondatezza e prima ancora
l’ammissibilità della richiesta avanzata
dalla parte controinteressata invocare la
inesistenza di tale documento, giacché una
tale evenienza (peraltro del tutto
eventuale) è irrilevante, nel senso che la
legittimità dell’esercizio del diritto di
accesso va collegata ad un momento
precedente alle vicende amministrative con
cui soggetto pubblico ha definito o non
definito il rapporto giuridico relativo
all’agibilità dell’immobile per il quale
sono stati rilasciati pure gli altri i
titoli ad aedificandum (anche ai soli
fini di cambio di destinazione d’uso) e
fermo restando che una tale situazione può
benissimo non essere conosciuta
dall’interessato richiedente l’accesso.
Ovviamente, nell’ipotesi che effettivamente
il certificato de quo non sia stato
rilasciato, l’Amministrazione comunale avrà
cura di attestare in favore dell’appellato
la circostanza relativa al mancato rilascio
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.02.2012 n. 690 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
I geometri non sono abilitati
alla progettazione in aree sismiche salvo
che per le “costruzioni civili semplici, con
l'uso di metodologie standardizzate” da
valutarsi caso per caso.
Il Consiglio di Stato, nella sentenza in
esame ha evidenziato come la giurisprudenza
amministrativa, ma anche la Suprema Corte di
Cassazione hanno più volte chiarito la
particolarità e specificità dell’attività di
progettazione direzione di lavori, etc, con
riferimento ad opere da erigersi in zona
sismica. Si è così pervenuti ad una serie di
affermazioni, tutte tra loro legate da un
comune filo conduttore, volto a valorizzare
la specificità di tale attività.
Si è pertanto affermato che:
- “il criterio per accertare se una
costruzione sia da considerare modesta -e
quindi se la sua progettazione rientri nella
competenza professionale dei geometri, ai
sensi dell'art. 16, lett. m, r.d. 11.02.1929
n. 274- consiste nel valutare le difficoltà
tecniche che la progettazione e l'esecuzione
dell'opera comportano e le capacità
occorrenti per superarle; a questo fine,
mentre non è decisivo il mancato uso del
cemento armato (ben potendo anche una
costruzione «non modesta» essere realizzata
senza di esso), assume significativa
rilevanza il fatto che la costruzione sorga
in zona sismica, con conseguente
assoggettamento di ogni intervento edilizio
alla normativa di cui alla l. 02.02.1974 n.
64, la quale impone calcoli complessi che
esulano dalle competenze professionali dei
geometri. -Nella specie, la S.C. ha
confermato la sentenza di merito che aveva
dichiarato nullo, ex art. 2231 c.c., il
contratto d'opera stipulato da un geometra,
ed avente ad oggetto la trasformazione di un
fabbricato artigianale fatiscente in un
complesso residenziale-.” (Cassazione
civile, sez. II, 08.04.2009, n. 8543);
- “la realizzazione di una struttura in
cemento armato dalle notevoli dimensioni
(tre piani con fondamenta del tutto nuove),
per di più localizzata in una zona sismica,
non può farsi rientrare nella nozione di
"modeste costruzioni civili", per le quali
sono abilitati alla progettazione i geometri
a tenore dell'art. 16 r.d. 11.02.1929 n. 274.”
(Consiglio Stato, sez. V, 30.10.2003, n.
6747);
- “l'acquisizione della relazione
geologica non può essere soggetta a
valutazioni discrezionali da parte della
p.a., essendo essa obbligatoriamente
prevista in ciascuna delle fasi della
progettazione in zona sismica.”
(Consiglio Stato, sez. VI, 23.09.2009, n.
5666).
Escluso quindi che una costruzione in zona
sismica possa considerarsi “modesta”,
ed escluso quindi che i geometri siano
abilitati alla progettazione in dette aree,
non pare al Collegio di potere stabilire
(siccome sostanzialmente avvenuto nella
decisione di primo grado) una equivalenza
tra la qualificazione di “non modestia”
affermata dalla giurisprudenza e quella di “semplice”
individuata ex lege. Ciò, a tacere
d’altro, giungerebbe alla illogica
conclusione di sovrapporre la preclusione
vigente per i geometri a quella
asseritamente attingente le categorie
juniores, di fatto equiparando queste ultime
a quella dei geometri.
Ciò appare conseguenza non voluta dalla
legge, tanto più laddove si consideri che,
che, a seguito del Decreto del Ministero
delle Infrastrutture 14.01.2008 n. 29581
(recante Approvazione delle nuove norme
tecniche per le costruzioni),
sostanzialmente non esistono più aree del
territorio italiano non classificate quali “zone
sismiche”, ma soltanto zone a basso
rischio sismico.
Se così è, una affermazione “categoriale”
assoluta appare non aderente al dato
normativo, finendo con l’introdurre un
divieto non espressamente previsto ex
lege ed al di fuori da un quadro
legislativo e regolamentare (ma anche
giurisprudenziale) che autorizzi una simile
drastica conclusione. Tanto più che è
rimasta incontestata la deduzione degli
appellanti secondo cui anche per le
costruzioni in area sismica può farsi
riferimento a metodologie di calcolo
standardizzate.
Traendo le conclusioni da quanto sinora
rappresentato, il Collegio ha ritenuto che,
non sottacendosi la specificità della
progettazione in area sismica, la ricorrenza
del criterio legittimante previsto ex
lege -“costruzioni civili semplici,
con l'uso di metodologie standardizzate”-
non possa essere aprioristicamente escluso
sempre e comunque, allorché si verta nel
campo della progettazione e direzione dei
lavori in dette aree, e necessiti di una
valutazione caso per caso, che tenga conto
in concreto dell’opera prevista, delle
metodologie di calcolo utilizzate, e che
potrà essere tanto più rigida e “preclusiva”,
allorché l’area sia classificata con un
maggiore rischio sismico.
Tale valutazione deve specificamente
riferirsi, di volta in volta, al singolo
progetto presentato, con motivazione che,
ancorché sintetica, abbia portata “individualizzante”
(sia in ipotesi di favorevole delibazione,
ovviamente, che in ipotesi di riscontrata
preclusione) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.02.2012 n. 686 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il dies a quo da prendere come
riferimento per la decorrenza del termine di
impugnazione del bando di gara è, ai sensi
dell'art. 66, comma 8, d.lgs. n. 163 del
2006, la data di pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana.
La mancata partecipazione alla gara
d'appalto rende inammissibile il ricorso
contro le clausole del bando di gara e le
modalità di svolgimento della stessa per
carenza di interesse.
Le clausole del bando di gara, che fissano
requisiti di partecipazione ritenuti da un
concorrente troppo restrittivi, non
impediscono materialmente, pure a chi non
possieda il requisito contestato, di
presentare l'offerta; pertanto chi è
interessato a partecipare deve, a pena di
inammissibilità del ricorso, presentare
l'offerta, salvo impugnare la clausola del
bando e l'eventuale atto di esclusione.
Conseguentemente risulta inammissibile per
carenza di interesse il ricorso proposto
avverso le clausole di un bando di gara, le
modalità di svolgimento della stessa ed il
criterio di aggiudicazione, da un'impresa
che non abbia presentato domanda di
partecipazione alla gara pubblica, atteso
che il nostro ordinamento non tutela
l'interesse oggettivo alla legittimità
dell'azione amministrativa, ma piuttosto
l'esistenza di una situazione giuridica
soggettiva differenziata rispetto a quella
delle altre ditte presenti sul mercato e,
nella specie, di un interesse legittimo
giudizialmente tutelato.
Risulta invece fondata l'eccezione di
tardività del ricorso nella parte in cui si
impugna il bando di gara, considerato che
l'impugnazione è stata proposta oltre il
termine di 30 giorni dalla pubblicazione del
bando nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana, dovendo trovare
applicazione nel caso di specie l'articolo
66, comma 8, del decreto legislativo n.
163/2006, secondo cui “Gli effetti
giuridici che l'ordinamento connette alla
pubblicità in ambito nazionale decorrono
dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica italiana.” (cfr. TAR
Lazio-Roma, sez. II, 09.12.2008, n. 11147,
secondo cui il dies a quo da prendere
come riferimento per la decorrenza del
termine di impugnazione del bando di gara è,
ai sensi dell'art. 66, comma 8, d.lgs. n.
163 del 2006, la data di pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana).
Considerato che il bando d'asta pubblica è
stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
dell'01.07.2011 e che il ricorso in esame è
stato notificato in data 14.10.2011, il
ricorso in esame, in tale parte, risulta
ampiamente tardivo, per cui devono essere
disattese le contrarie argomentazioni
espresse dalla ricorrente nella propria
memoria del 19.12.2011, trattandosi altresì
di termine di impugnazione stabilito per
legge, la cui congruità e ragionevolezza è
stata quindi valutata dal legislatore
medesimo.
Il ricorso in esame, nella restante parte,
risulta invece inammissibile, considerato
che la mancata partecipazione alla gara
d'appalto rende inammissibile il ricorso
contro le clausole del bando di gara e le
modalità di svolgimento della stessa per
carenza di interesse (TAR Veneto Venezia,
sez. I, 28.05.2004, n. 1733).
Le clausole del bando di gara, che fissano
requisiti di partecipazione ritenuti da un
concorrente troppo restrittivi, non
impediscono materialmente, pure a chi non
possieda il requisito contestato, di
presentare l'offerta; pertanto chi è
interessato a partecipare deve, a pena di
inammissibilità del ricorso, presentare
l'offerta, salvo impugnare la clausola del
bando e l'eventuale atto di esclusione (TAR
Umbria Perugia, sez. I, 17.12.2009, n. 799).
Conseguentemente risulta inammissibile per
carenza di interesse il ricorso proposto
avverso le clausole di un bando di gara, le
modalità di svolgimento della stessa ed il
criterio di aggiudicazione, da un'impresa
che non abbia presentato domanda di
partecipazione alla gara pubblica, atteso
che il nostro ordinamento non tutela
l'interesse oggettivo alla legittimità
dell'azione amministrativa, ma piuttosto
l'esistenza di una situazione giuridica
soggettiva differenziata rispetto a quella
delle altre ditte presenti sul mercato e,
nella specie, di un interesse legittimo
giudizialmente tutelato (TAR Campania
Napoli, sez. I, 20.06.2006, n. 7088) (TAR
Sardegna, Sez. I,
sentenza 09.02.2012 n. 108 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La pubblica amministrazione,
nella predisposizione del bando di gara,
esercita un potere attinente al merito
amministrativo laddove inserisce
disposizioni ulteriori rispetto al contenuto
minimo "ex lege" previsto; pertanto, atteso
che il sindacato del giudice amministrativo
sulle clausole del bando di gara incontra
gli stessi limiti sussistenti nei confronti
di ogni atto amministrativo, le disposizioni
ulteriori inserite nel bando saranno
censurabili in sede giurisdizionale allorché
appaiano viziate da eccesso di potere, ad
esempio per illogicità, irragionevolezza o
incongruenza rispetto al fine pubblico della
gara.
Non sfugge al Collegio quella giurisprudenza
(peraltro più volte recepita da questa
Sezione) che afferma che la pubblica
amministrazione, nella predisposizione del
bando di gara, esercita un potere attinente
al merito amministrativo laddove inserisce
disposizioni ulteriori rispetto al contenuto
minimo "ex lege" previsto; pertanto,
atteso che il sindacato del giudice
amministrativo sulle clausole del bando di
gara incontra gli stessi limiti sussistenti
nei confronti di ogni atto amministrativo,
le disposizioni ulteriori inserite nel bando
saranno censurabili in sede giurisdizionale
allorché appaiano viziate da eccesso di
potere, ad esempio per illogicità,
irragionevolezza o incongruenza rispetto al
fine pubblico della gara (ex multis,
Consiglio Stato , sez. V, 21.09.2010, n.
7031) (TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 08.02.2012 n. 96 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La legittimazione ad agire delle
associazioni e/o comitati ambientalisti
spetta non solo con riferimento alla tutela
degli interessi ambientali in senso stretto,
ma anche con riferimento alla tutela
ambientale in senso lato, che implica in
quanto tale la possibilità di impugnare atti
aventi finalità urbanistica, ove si
riconnettano specifici interessi ambientali
-debitamente evidenziati in ricorso, a pena
di inammissibilità- da tutelare anche in via
strumentale ed indiretta attraverso
l'annullamento, totale o parziale, dello
strumento urbanistico.
Come affermato da questa stessa Sezione
(cfr. TAR Sardegna, Sez. II, 06.10.2008, n.
1816), “la legittimazione ad agire delle
associazioni e/o comitati ambientalisti
spetta non solo con riferimento alla tutela
degli interessi ambientali in senso stretto,
ma anche con riferimento alla tutela
ambientale in senso lato, che implica in
quanto tale la possibilità di impugnare atti
aventi finalità urbanistica (nella specie un
piano urbanistico comunale), ove si
riconnettano specifici interessi ambientali
-debitamente evidenziati in ricorso, a pena
di inammissibilità- da tutelare anche in via
strumentale ed indiretta attraverso
l'annullamento, totale o parziale, dello
strumento urbanistico”. Fermo restando
che in questi casi saranno da ritenere in
concreto ammissibili solo censure inerenti
profili di illegittimità in qualche modo
incidenti sulla tutela degli interessi di
natura ambientale rappresentati
dall’associazione.
Tale impostazione trova conferma in un ormai
consolidato orientamento giurisprudenziale,
formatasi in relazione all’art. 18, comma 5,
della legge n. 349/1986 (norma sopravvissuta
alla novella introdotta dal del d.lgs.
03.04.2006, n. 152, cfr. art. 318), a mente
del quale “Le associazioni individuate in
base all'articolo 13 della presente legge
possono intervenire nei giudizi per danno
ambientale e ricorrere in sede di
giurisdizione amministrativa per
l'annullamento di atti illegittimi”; la
giurisprudenza ha poi valorizzato la portata
di tale disposizione normativa, ravvisando
il richiesto collegamento con interessi
propriamente ambientali nel caso, ad
esempio, di atti con cui era stato disposto
l’inserimento nel programma triennale
comunale di un’opera pubblica lesiva dei
valori ambientali (cfr. Cons. Stato,
23.10.2002 n. 5824, che ha ammesso un
ricorso di Italia Nostra in quella materia),
nonché nel caso di atti che, pur non essendo
di “contenuto ambientale in senso stretto”,
riguardassero la conservazione e
valorizzazione dei beni culturali,
dell'ambiente in senso ampio (quale
paesaggio urbano, rurale e naturale), dei
monumenti e dei centri storici e della
qualità della vita, intesi tutti come beni e
valori ideali idonei a caratterizzare in
modo originale, peculiare ed irripetibile un
certo ambito geografico e territoriale
rispetto ad ogni altro ambito geografico e
territoriale (Consiglio di Stato, Sez. IV,
09.10.2002, n. 5365, sempre con ricorrente
Italia Nostra).
Un simile allargamento della sfera d’azione
degli enti ambientalistici è stato ritenuto
indispensabile per “raggiungere
l’effettiva tutela del patrimonio
ambientale, culturale, storico e artistico,
che sarebbe esposto a gravissimi rischi di
sopravvivenza se la legittimazione ad agire
fosse circoscritta ai singoli cittadini
direttamente e autonomamente lesi da
provvedimenti amministrativi” (così
Consiglio di Stato, Sez. IV, 02.10.2006, n.
5760, a proposito della impugnazione di una
variante al piano regolatore che prevedeva
la realizzazione di un nuovo tracciato
stradale).
E tale orientamento ha poi trovato
definitiva conferma nell’art. 310, comma 1,
del d.lgs. n. 152/2004, secondo cui: “I
soggetti di cui all'articolo 309, comma 1,
[Le regioni, le province autonome e gli enti
locali, anche associati, nonché le persone
fisiche o giuridiche: n.d.r.] sono
legittimati ad agire, secondo i principi
generali, per l'annullamento degli atti e
dei provvedimenti adottati in violazione
delle disposizioni di cui alla parte sesta
del presente decreto, nonché avverso il
silenzio inadempimento del Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio
e per il risarcimento del danno subito a
causa del ritardo nell'attivazione, da parte
del medesimo Ministro, delle misure di
precauzione, di prevenzione o di
contenimento del danno ambientale”.
Pertanto può ritenersi oggi consolidata una
“nozione allargata” di interesse
ambientale, affidato alle cura degli enti
esponenziali, nei termini sopra descritti
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 06.02.2012 n. 91 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il comune non può negare
l'autorizzazione paesaggistica su opere
conformi agli strumenti urbanistici.
E’ fondata la censura (secondo motivo del
ricorso introduttivo del giudizio e terzo
motivo del ricorso per motivi aggiunti
portato alla notifica in data 29/12/2010)
con cui la ricorrente sostiene che
l’intimata Soprintendenza prima e il comune
di Olbia poi, non avrebbero potuto, in sede
di rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, esprimere una valutazione
negativa sulla realizzabilità stessa
dell’intervento, essendo quest’ultimo
conforme agli strumenti urbanistici della
zona, a suo tempo approvati anche sotto il
profilo paesistico.
In punto di diritto giova ricordare che in
base ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale, allorché sia stato già
espresso in sede di approvazione degli
strumenti urbanistici un giudizio favorevole
sulla compatibilità paesistica delle opere
ivi previste, la valutazione di
compatibilità paesaggistica richiesta ai
fini del rilascio dell’autorizzazione dei
singoli interventi edilizi rientranti
nell’ambito del piano già approvato, è
limitata al modo di essere ed alle concrete
modalità esecutive del manufatto da
realizzare (cfr. TAR Sardegna, II Sez.,
06/10/2010 n. 2335; Cons. Stato, VI Sez.,
15/03/2010 n. 1491 e 01/10/2008, n. 4726).
Con la precisazione che tanto più puntuale e
dettagliato è il giudizio di compatibilità
paesaggistica reso in sede di approvazione
del piano, tanto più ridotti saranno i
margini di ulteriore apprezzamento
consentiti con riguardo ai singoli
interventi rientranti nel piano stesso;
viceversa, a fronte di valutazioni meno
dettagliate, se non generiche, rese a monte,
si imporrà un più incisivo apprezzamento di
coerenza paesaggistica a valle, volto a
verificare, dandone adeguatamente conto in
sede motivazionale, se con le ragioni di
tutela sottese all’apposizione del vincolo
siano coerenti quelle modalità realizzative
dei singoli interventi edilizi non
dettagliatamente prese in considerazione nel
giudizio sul piano (cfr citata sent. n.
1491/2010) (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 06.02.2012 n. 90 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il
termine per l’impugnazione di varianti a
contenuto generale degli strumenti di
pianificazione territoriale decorre per
tutti gli interessati (ivi compresi i
proprietari di terreni colpiti da vincoli
preordinati all’espropriazione) decorre
dalla data della pubblicazione sul
Bollettino Ufficiale della Regione (o sulla
Gazzetta Ufficiale) del provvedimento col
quale la variante stessa è stata
definitivamente approvata.
Hanno natura di varianti a contenuto
generale quelle attraverso cui
l’amministrazione comunale disciplina ampie
zone territoriali o comunque compie scelte
pianificatorie in base ad una considerazione
globale del territorio.
... a) che in base ad un consolidato
indirizzo giurisprudenziale, da cui il
Collegio non ritiene di doversi discostare,
il termine per l’impugnazione di varianti a
contenuto generale degli strumenti di
pianificazione territoriale decorre per
tutti gli interessati (ivi compresi i
proprietari di terreni colpiti da vincoli
preordinati all’espropriazione) decorre
dalla data della pubblicazione sul
Bollettino Ufficiale della Regione (o sulla
Gazzetta Ufficiale) del provvedimento col
quale la variante stessa è stata
definitivamente approvata (cfr. TAR
Sardegna, II Sez., 19/10/2006 n. 2248; Cons.
Stato, V Sez., 28/04/2011 n. 2534; IV Sez.,
21/05/2010 n. 3233 e 27/07/2007 n. 4198; VI
Sez., 10/02/2010 n. 663);
b) che hanno natura di varianti a contenuto
generale quelle attraverso cui
l’amministrazione comunale disciplina ampie
zone territoriali o comunque compie scelte
pianificatorie in base ad una considerazione
globale del territorio (TAR Sardegna, Sez.
II,
sentenza 06.02.2012 n. 88 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Per individuare la disciplina da
applicare negli appalti misti rileva il
carattere accessorio o meno delle
prestazioni.
Come ha avuto occasione di rilevare la
giurisprudenza (cfr. Cons. St. V,
30.05.2007, n. 2765) negli appalti misti, al
fine di individuare la disciplina da
applicare non viene in rilievo l’aspetto
quantitativo delle prestazioni, ma il
carattere accessorio o meno delle
prestazioni.
Pertanto nella fattispecie in esame la
percentuale più elevata del costo dei lavori
non vale a modificare l’oggetto
dell’appalto, stante che nell’appalto in
esame, destinato essenzialmente alla “fornitura
di tutti i componenti…per il corretto e
razionale funzionamento del blocco
operatorio”, come specificato nel
capitolato, hanno un ruolo accessorio
rispetto al valore delle forniture essendo
strumentali alla installazione di quanto
necessario per il funzionamento delle sale
operatorie.
E’ dunque del tutto ininfluente
sull’inquadramento dell’appalto come
fornitura la circostanza che le percentuali
di forniture e lavori siano diverse da
quelle indicate in via presuntiva dalla
stazione appaltante (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 03.02.2012 n. 630 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Differenza tra "nuova
costruzione" e "pertinenza".
Ciò che caratterizza una “nuova
costruzione”, è il carattere di
stabilità e permanenza del manufatto, tale
da implicare una trasformazione del
territorio.
Quanto al concetto di “pertinenza”,
ai sensi e per i fini di cui all’art. 7 d.l.
n. 9/1982, conv. in l. n. 92/1982, tale da
richiedere non già la concessione edilizia,
bensì la mera “autorizzazione”, la
giurisprudenza amministrativa ne ha rilevato
la differenza da quello di cui all’art. 817
cod. civ., affermando che esso è
caratterizzato sia da un oggettivo nesso
funzionale e strumentale tra cosa accessoria
e principale, cioè da un nesso che non
consenta, per natura e struttura
dell'accessorio, altro che la destinazione
della cosa ad un uso pertinenziale durevole;
sia dalle dimensioni ridotte e modeste del
manufatto rispetto alla cosa cui esso
inerisce, per cui soggiace a concessione
edilizia la realizzazione di un'opera di
rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto
del territorio e che occupa aree e volumi
diversi rispetto alla "res principalis",
indipendentemente dal vincolo di servizio o
d'ornamento nei riguardi di essa (Cons.
Stato, sez. II, 12.05.1999 n. 729; sez. V,
23.03.2000 n. 1600).
Nel caso di specie, il Collegio ha ritenuto
che il manufatto per cui e' causa non possa
essere definito quale “pertinenza”,
posto che esso è di notevoli dimensioni
(oltre 180 mq. di superficie), è stabilmente
collegato al suolo, rappresenta di fatto uno
stabile ampliamento dell’immobile cui
inerisce ed è tale da comportare una
durevole e non irrilevante trasformazione
del territorio (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.02.2012 n. 615 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Ammissibile in sede di controllo
dell'anomalia dell'offerta l'allegazione di
elementi giustificativi.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in
esame ha ritenuto ammissibile, in sede di
controllo dell'anomalia dell'offerta,
l’allegazione di elementi giustificativi
(come, ad esempio, quelli relativi alla
prestazione di ‘servizi aggiuntivi’),
la cui pertinenza emerga da un oggettivo
collegamento economico degli stessi con gli
elementi costitutivi dell'offerta (i.e., in
definitiva, con l'oggetto del contratto), sì
da determinare una connessione la quale, sul
piano della produzione del servizio, li
collochi come giustificazione all'interno
del processo produttivo prefigurato in modo
unitario ed in concreto inscindibile (in tal
senso: Cons. Stato, VI, 04.08.2008, n. 3896;
id., VI, 07.08.2008, n. 3901) (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 02.02.2012 n. 586 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Responsabilità
proprietario terreno.
Risponde del reato di gestione non
autorizzata di rifiuti il proprietario che
conceda in locazione un terreno a terzi per
svolgervi un'attività di smaltimento di
rifiuti, in quanto incombe sul primo, anche
al fine di assicurare la funzione sociale
della proprietà (art. 42 Cost.), l'obbligo
di verificare che il concessionario sia in
possesso dell'autorizzazione per l'attività
di gestione dei rifiuti e che questi
rispetti le prescrizioni contenute nel
titolo abilitativo e quindi almeno sotto il
profilo della culpa in vigilando (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.01.2012 n.
3580 - tratto da www.lexambiente.it). |
APPALTI: Appalti, l'urgenza va motivata.
I presupposti per ricorrervi sono di stretta
interpretazione. Pronuncia del Tar del Lazio
sui termini di utilizzabilità della
procedura negoziata senza gara.
Nelle procedure negoziate l'urgenza non deve
essere addebitabile alla stazione appaltante
e i presupposti per ricorrervi sono di
stretta interpretazione e impongono una
adeguata motivazione.
È quanto stabilisce,
con una articolata pronuncia, il TAR
Lazio-Roma, Sez. III-quater (sentenza
30.01.2012 n. 989) che ha efficacemente
riassunto i termini relativi
all'utilizzabilità della procedura negoziata
senza gara prevista dall'art. 57, comma 2,
lett. c), del Codice dei contratti pubblici.
In primo luogo i giudici hanno affermato che
il ricorso alla procedura negoziata senza
previa pubblicazione di un bando di gara,
possibile nella misura strettamente
necessaria, quando l'estrema urgenza,
risultante da eventi imprevedibili per le
stazioni appaltanti, non è compatibile con i
termini imposti dalle procedure ordinarie e
a condizione che l'estrema urgenza non sia
addebitabile alla stazione appaltante, si
sostanzia in una vera e propria trattativa
privata, rappresenta un'eccezione al
principio generale della pubblicità e della
massima concorsualità tipica della procedura
aperta. Da ciò i giudici fanno discendere
che i presupposti fissati dalla legge per la
sua ammissibilità devono essere accertati
con il massimo rigore e non sono
suscettibili di interpretazione estensiva.
In particolare, per quanto riguarda
l'urgenza di provvedere, essa non deve
essere addebitabile in alcun modo
all'amministrazione per carenza di adeguata
organizzazione o programmazione ovvero per
sua inerzia o responsabilità. Per il Tar del
Lazio, infatti, la procedura di evidenza
pubblica costituisce un presidio
indispensabile a garanzia del corretto
dispiegarsi della libertà di concorrenza e
della trasparenza dell'operato delle
amministrazioni dalla quale si può
prescindere, ai sensi dell'art. 57, comma 2,
del codice degli appalti solo
eccezionalmente.
Dal punto di vista dell'accertamento dei
presupposti fissati dalla legge per la sua
ammissibilità, il Tar afferma che devono
essere accertati con il massimo rigore e non
sono suscettibili di interpretazione
estensiva. Segue da ciò anche la necessità
di motivare congruamente l'esistenza dei
presupposti richiesti dal legislatore per
derogare alla regola del massimo
coinvolgimento degli operatori economici,
non essendo sufficiente un mero richiamo,
nella delibera di affidamento con la
procedura negoziata senza previa
pubblicazione del bando, all'urgenza di
provvedere, occorrendo piuttosto una
motivazione dettagliata che specifichi i
presupposti di fatto dell'urgenza stessa.
Infine la sentenza precisa che l'urgenza di
procedere deve essere, oltre che concreta e
motivata, anche non addebitabile alla
stazione appaltante per carenza di adeguata
organizzazione o programmazione ovvero per
sua inerzia o responsabilità. Tali
presupposti devono sussistere entrambi, con
la conseguenza che è sufficiente, a rendere
illegittimo il ricorso alla procedura
dell'art. 57, comma 2, del codice degli
appalti, la mancanza (e la mancata
motivazione) dell'urgenza, indipendentemente
dall'individuazione del soggetto al quale la
stessa sia imputabile
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Non è consentita l'integrazione
postuma della motivazione dell'atto
amministrativo discrezionale, dovendo la
stessa, in considerazione della funzione che
gli è propria (esternare le ragioni poste a
fondamento della determinazione assunta),
precedere e non seguire il provvedimento
adottato.
... che in base ad un consolidato
orientamento giurisprudenziale non è
consentita l'integrazione postuma della
motivazione dell'atto amministrativo
discrezionale, dovendo la stessa, in
considerazione della funzione che gli è
propria (esternare le ragioni poste a
fondamento della determinazione assunta),
precedere e non seguire il provvedimento
adottato (cfr. TAR Sardegna, II Sez.
25/11/2011 n. 1132; Cons. Stato, VI Sez.
13/05/2011 n. 2935; 03/03/2010 n. 1241 e
17/10/2008 n. 5044; IV Sez. 24/05/2005 n.
2630) (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 27.01.2012 n. 69 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Nel caso di decesso di un
familiare, il diritto a conoscere i dati
relativi alle condizioni di salute del de
cuius non è disciplinato dalla normativa
ereditaria, ma inerendo alla semplice
qualità di congiunto, spetta autonomamente a
chiunque si trovi in tale relazione di
parentela con la persona deceduta.
... che ai sensi dell’art. 9, comma 3, D.
Lgs. 30/06/2003 n. 196 i diritti di cui al
precedente articolo 7 riferiti a dati
personali concernenti persone decedute
possono essere esercitati da chi ha un
interesse proprio, o agisce a tutela
dell'interessato o per ragioni familiari
meritevoli di protezione;
che, pertanto, nel caso di decesso di un
familiare, il diritto a conoscere i dati
relativi alle condizioni di salute del de
cuius non è disciplinato dalla normativa
ereditaria, ma inerendo alla semplice
qualità di congiunto, spetta autonomamente a
chiunque si trovi in tale relazione di
parentela con la persona deceduta (cfr. TAR
Lazio – Roma, Sez. III, 30/01/2003 n. 535)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 27.01.2012 n. 67 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il comma 1 dell'art. 38, d.lgs.
n. 163 del 2006 ricollega l'esclusione dalla
gara al dato sostanziale del mancato
possesso dei requisiti indicati, mentre il
comma 2 non prevede analoga sanzione per
l'ipotesi della mancata o non perspicua
dichiarazione: da ciò discende che solo
l'insussistenza, in concreto, delle cause di
esclusione previste dall'art. 38 comporta,
ope legis, l'effetto espulsivo.
Quando, al contrario, il partecipante sia in
possesso di tutti i requisiti richiesti e la
lex specialis non preveda espressamente la
pena dell'esclusione in relazione alla
mancata osservanza delle puntuali
prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto
delle dichiarazioni da fornire, facendo
generico richiamo all'assenza delle cause
impeditive di cui alla normativa in esame,
l'omissione o l'incompletezza in ordine a
non produce alcun pregiudizio agli interessi
presidiati dalla norma, ricorrendo
un'ipotesi di mero formalismo come tale
insuscettibile, in carenza di una espressa
previsione legislativa o —si ripete— della
legge di gara, a fondare l'esclusione, le
cui ipotesi sono tassative.
Il Collegio ricorda che il comma 1 dell'art.
38, d.lgs. n. 163 del 2006 ricollega
l'esclusione dalla gara al dato sostanziale
del mancato possesso dei requisiti indicati,
mentre il comma 2 non prevede analoga
sanzione per l'ipotesi della mancata o non
perspicua dichiarazione: da ciò discende che
solo l'insussistenza, in concreto, delle
cause di esclusione previste dall'art. 38
comporta, ope legis, l'effetto
espulsivo.
Quando, al contrario, il partecipante sia in
possesso di tutti i requisiti richiesti e la
lex specialis non preveda
espressamente la pena dell'esclusione in
relazione alla mancata osservanza delle
puntuali prescrizioni sulle modalità e
sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire,
facendo generico richiamo all'assenza delle
cause impeditive di cui alla normativa in
esame, l'omissione o l'incompletezza in
ordine a non produce alcun pregiudizio agli
interessi presidiati dalla norma, ricorrendo
un'ipotesi di mero formalismo come tale
insuscettibile, in carenza di una espressa
previsione legislativa o —si ripete— della
legge di gara, a fondare l'esclusione, le
cui ipotesi sono tassative (TAR Sardegna,
Sez. I,
sentenza 27.01.2012 n. 61 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In tema di risarcimento del danno
per lesione di interessi legittimi.
La domanda pone, innanzitutto, la questione
della prova della quantificazione del danno,
sia sotto il profilo del danno emergente che
sotto quello del mancato guadagno. La
ricorrente chiede, infatti, i “danni
legati al mancato percepimento dell’utile
derivante dalla esecuzione del contratto,
nonché delle spese sostenute per la
partecipazione alla procedura”; nonché
il danno all’immagine.
Tuttavia, non è allegato alcun elemento di
prova, riguardo ai danni asseritamente
subiti.
Questo Tribunale, muovendo dal pacifico
presupposto che, in tema di risarcimento del
danno per lesione di interessi legittimi,
ricade interamente sul ricorrente l’onere
della prova dell’esistenza e della
quantificazione del danno (esigenza ribadita
dall'art. 124 del c.p.a.: «...il giudice
... dispone il risarcimento del danno per
equivalente, subito e provato»), ha in
primo luogo affermato come sia ammissibile
sopperire a tale prova (con riferimento al
lucro cessante), richiamando l'art. 345 l.
20.03.1865 n. 2248 all. F, «solo qualora
il danno sia di ammontare incerto, ovvero,
in relazione alla peculiarità del caso
concreto, la precisa determinazione di esso
sia difficoltosa, in quanto altrimenti il
ricorrente potrebbe invocare il potere del
giudice di liquidare il danno in via
equitativa per sottrarsi al proprio onere
probatorio» (così già in sez. I,
09.05.2006, n. 892).
La statuizione è stata compiutamente
argomentata con la successiva sentenza di
questa Sezione (sez. I, 08.10.2009 n. 1498)
nella quale, «ricordato che in base al
principio generale sancito dall’art. 2697
c.c, ai fini del risarcimento dei danni
provocati da illegittimo esercizio del
potere amministrativo, il ricorrente deve
fornire in modo rigoroso la prova
dell’esistenza del danno, non potendosi
invocare il principio acquisitivo perché
tale principio attiene allo svolgimento
dell’istruttoria e non all’allegazione dei
fatti (Cons. Stato, 06.04.2009 n. 2143,
Cons. St., sez. V, 13.06.2008, n. 2967; sez.
V, 07.05.2008, n. 2080; ad. plen.,
30.07.2007, n. 10; sez. VI, 02.03.2004, n.
973)», si ammette «la possibilità di
ricorrere alle presunzioni semplici ex art.
2729 c.c. per fornire la prova del danno
subito e della sua entità» fermo
restando l’obbligo del ricorrente di «allegare
circostanze di fatto precise».
In tal senso, e condivisibilmente, è stato
richiamato un consistente orientamento del
Consiglio di Stato che considera infondata
la domanda risarcitoria formulata in maniera
del tutto generica, senza alcuna allegazione
dei fatti costitutivi (Cons. Stato,
06.04.2009 n. 2143, Cons. Stato, sez. V,
13.06.2008, n. 2967; sez. IV, 04.02.2008, n.
306).
Anche l’individuazione dei presupposti in
presenza dei quali è possibile operare la
valutazione equitativa dei danni è stata
oggetto di esame da parte della Sezione,
osservandosi come «pur apparendo certa
l’esistenza dei danni lamentati (Cass. Civ.,
sez. I, 29.07.2009, n. 17677), non si può
giungere alla loro liquidazione equitativa
ai sensi dell’art. 1226 del codice civile
(quando non ricorra) l’ulteriore presupposto
richiesto dalla norma codicistica,
costituito dalla relativa impossibilità di
fornire la prova del danno da parte del
ricorrente ( si veda sul punto Cass. Civ.,
sez. III, 15.05.2009, n. 11331)» (così
sez. I, 30.12.2009, n. 2682; ma, in
precedenza, si veda nello stesso senso la
citata sez. I, 08.10.2009 n. 1498) (TAR
Sardegna, Sez. I,
sentenza 24.01.2012 n. 50 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere precarie.
L'opera precaria, sottratta al regime
concessorio, è quella oggettivamente
finalizzata a soddisfare esigenze improvvise
o transeunti e quindi non è destinata a
produrre, infatti, quegli effetti sul
territorio che la normativa urbanistica e
rivolta a regolare.
Ai fini del riscontro del connotato della
precarietà e della relativa esclusione della
modifica dell'assetto del territorio, non
sono rilevanti le caratteristiche
costruttive, i materiali impiegati e
l'agevole rimovibilità, ma le esigenze
temporanee alle quali l'opera eventualmente
assolva (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza
23.01.2012 n. 2693 - tratto da
www.lexambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La violazione dell'art. 10-bis,
l. n. 241 del 1990 non può ritenersi tale da
produrre ex se l'illegittimità del
provvedimento finale, dovendo la
disposizione sul preavviso di rigetto,
essere interpretata alla luce del successivo
art. 21-octies, comma 2, che impone al
giudice di valutare il contenuto sostanziale
del provvedimento e di non annullare l'atto
nel caso in cui le violazioni formali non
abbiano inciso sulla legittimità sostanziale
del medesimo; l'art. 21-octies rende,
quindi, irrilevante la violazione delle
norme sul procedimento o sulla forma
dell'atto per il fatto che il contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
Per giurisprudenza pacifica, la violazione
dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 —che
prevede, nei procedimenti ad istanza di
parte la comunicazione, prima della formale
adozione di un provvedimento negativo, agli
istanti dei motivi che ostano
all'accoglimento della domanda— non può
ritenersi tale da produrre ex se
l'illegittimità del provvedimento finale,
dovendo la disposizione sul preavviso di
rigetto essere interpretata alla luce del
successivo art. 21-octies, comma 2, che
impone al giudice di valutare il contenuto
sostanziale del provvedimento e di non
annullare l'atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo; l'art.
21-octies rende, quindi, irrilevante la
violazione delle norme sul procedimento o
sulla forma dell'atto per il fatto che il
contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto
adottato (da ultimo: TAR Lazio Roma, sez.
III, 14.03.2011, n. 2253) (TAR Sardegna,
Sez. II,
sentenza 23.01.2012 n. 46 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Infiltrazioni, tutti pagano i danni.
Il raccordo scarico-tubi è considerato
proprietà comune. La Cassazione
fa chiarezza sul riparto delle
responsabilità in caso di guasti alle
tubazioni.
La braga di raccordo tra l'impianto di
scarico condominiale e le tubazioni
derivanti dai singoli appartamenti deve
considerarsi di proprietà comune ove faccia
parte integrante, dal punto di vista
funzionale, dell'impianto stesso. Di
conseguenza i danni provenienti da eventuali
infiltrazioni derivanti dalla braga dovranno
essere risarciti al singolo proprietario
dalla collettività condominiale (che, a sua
volta, potrebbe essere manlevata dalla
compagnia con la quale sia stata stipulata
una copertura assicurativa del fabbricato).
Lo ha chiarito la II Sez. civile
della Corte di Cassazione nella recente ordinanza 19.01.2012 n. 778.
Il provvedimento
giudiziale in questione rappresenta dunque
un'opportunità per fare maggiore chiarezza
sul riparto delle responsabilità in caso di
guasti alle tubazioni in condominio.
Il caso concreto. Nel caso in questione il
proprietario di un appartamento che aveva
ricevuto infiltrazioni di acqua dallo
scarico aveva portato in giudizio il
condominio per sentirlo condannare al
risarcimento dei danni. La sentenza di primo
grado aveva dato ragione al condomino sulla
base dell'espletata consulenza tecnica
d'ufficio, la quale aveva accertato che le
lamentate infiltrazioni non derivavano da
condotte delle unità immobiliari bensì dalla
braga nella quale si innestavano detti
condotti per scaricare nell'impianto
condominiale.
Nella descrizione della
colonna condominiale, la perizia depositata
in giudizio aveva chiarito che la stessa non
era costituita da un'unica tubazione
continua, bensì da una serie di tratti di
tubo che, in corrispondenza dei vari piani,
risultavano tra loro collegati da un
particolare tipo di braga. Fallito anche
l'appello, il condominio, lamentando che il
giudice di primo grado avesse erroneamente
ritenuto condominiale una braga che non era
utilizzata dalla collettività (che era
invece servita dalla colonna di scarico
verticale), ma che serviva unicamente a
convogliare nell'impianto comune gli
scarichi di provenienza dei singoli
appartamenti, aveva quindi presentato
ricorso in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. Anche la
Cassazione, tuttavia, con l'ordinanza in
questione, ha confermato la tesi del
proprietario, ritenendo il ricorso
infondato. I giudici di legittimità hanno,
infatti, evidenziato come il giudice di
appello avesse considerato condominiale la
braga in questione in relazione alla sua
funzione, ritenuta prevalente, di raccordo
tra le singole parti e la conduttura
verticale di scarico. Infatti, secondo la
Suprema corte, in assenza della braga, nel
caso di specie non vi sarebbe stato raccordo
tra le tubazioni di scarico verticale poste
in corrispondenza dei singoli piani
dell'edificio condominiale.
In sostanza è
stato quindi ritenuto corretto il
procedimento logico seguito nel giudizio di
secondo grado volto ad assegnare la
prevalenza alla specifica conformazione
della colonna verticale di scarico della
quale faceva parte la braga di collegamento
(e senza la quale il funzionamento della
colonna stessa sarebbe venuto meno) rispetto
alla funzione di collegamento con gli
scarichi delle singole unità immobiliari.
Nel caso in questione la seconda sezione
civile della Cassazione, pur riconoscendo la
validità dei precedenti giurisprudenziali di
legittimità citati dal condominio in merito
alla natura presuntivamente comune della
braga dell'impianto di scarico condominiale,
ha quindi ribadito che occorre comunque fare
riferimento, caso per caso, all'oggettiva
conformazione della colonna di scarico e
alla conseguente funzione prevalente svolta
dalla braga.
Nel caso di specie, a conferma
del collegamento sostanziale tra la braga e
l'impianto comune, è stato anche osservato
come le lamentate infiltrazioni di acqua si
verificassero indipendentemente dall'uso
degli scarichi dei singoli appartamenti,
rendendo quindi ancora più evidente il fatto
che la perdita fosse riferibile a un guasto
di tenuta dello scarico verticale nel suo
complesso considerato.
---------------
I principi generali. Parti comuni, prevale il criterio dei millesimi.
Le fognature e i canali di scarico sono
oggetto di proprietà comune fino al punto di
diramazione degli impianti ai locali di
proprietà esclusiva dei singoli, cioè con
esclusione delle condutture che, diramandosi
dalle tubazioni condominiali, servono i
singoli appartamenti.
Comprendere se una parte della conduttura è
comune o di proprietà del singolo condominio
è fondamentale quando si verifica la rottura
di una tubazione (canale di scarico o tubo
di adduzione dell'acqua) e quindi si deve
individuare il soggetto responsabile dei
danni e obbligato quindi alla conseguente
riparazione.
Tubazioni e spese: in generale. Le tubazioni
verticali per lo smaltimento delle acque sia
chiare che scure rivestono il carattere di
beni comuni, in quanto raccogliendo le acque
provenienti dai singoli appartamenti
presentano l'attitudine all'uso e al
godimento collettivo
Di conseguenza sono a carico di tutti i
condomini, in proporzione della quota
millesimale di proprietà, le spese per le
riparazioni alle tubature comuni e per il
risarcimento dei danni subiti dal singolo
condomino, in quanto l'impianto di scarico
fornisce la medesima utilità a tutti i
condomini interessati.
Naturalmente tale principio opera anche in
relazione alle spese per la costruzione di
nuovi canali di scarico e di nuova
fognatura, necessari per sostituire il
preesistente sistema divenuto obsoleto o nel
caso in cui un condomino non utilizzi
l'impianto (perché collegato anche a un
scarico relativo a un altro edificio). In
quest'ultimo caso, se l'appartamento risulta
comunque regolarmente collegato all'impianto
condominiale e, quindi, quest'ultimo
potrebbe essere utilizzato dal condomino, lo
stesso non può dirsi esonerato dal
partecipare alle spese per guasti (e danni
conseguenti), obbligo che trova la sua fonte
nel diritto di comproprietà sulla conduttura
comune.
Sono invece a carico dei rispettivi
proprietari i contributi per le riparazioni
effettuate nelle parti in cui le tubazioni
si diramano verso i singoli appartamenti.
La braga. Nell'ambito delle tubazioni
private si devono fare rientrare anche le
braghe, cioè gli elementi di raccordo fra la
tubatura orizzontale di pertinenza del
singolo appartamento e la tubatura
verticale, di pertinenza condominiale, come,
per esempio, il tratto obliquo che convoglia
le acque del lavandino di proprietà
esclusiva alla colonna condominiale.
La braga, quindi, serve soltanto a
convogliare gli scarichi di pertinenza del
singolo appartamento, a differenza della
colonna verticale che, raccogliendo gli
scarichi di tutti gli appartamenti, serve
all'uso di tutti i condomini.
Tale principio non può valere se, come è
avvenuto nel caso esaminato dalla Corte di
cassazione nell'ordinanza n. 778/2012, il
guasto riguarda lo scarico verticale, nel
suo complesso considerato, che si innesta
nella braga: in tale ipotesi è evidente la
responsabilità del condominio.
Le tubazioni comuni solo ad alcuni
condomini. In relazione all'impianto
fognario, frequentemente si può verificare
un'ipotesi di c.d. condominio parziale,
allorquando alla tubazione di scarico siano
allacciati solo alcuni condomini.
È evidente allora che in base ai principi
generali le spese per tali tratti di
tubazione che servono solo un singolo
condomino o un gruppo di condomini saranno a
carico soltanto dei condomini utilizzatori
(e naturalmente il principio vale anche per
i danni a terzi).
E non è tenuto a sostenere le spese per
l'impianto fognario (e i danni conseguenti
alla rottura dei canali di scarico) quel
condomino (o quel gruppo di condomini) la
cui proprietà, pur inclusa nelle tabelle
millesimali, non utilizza la tubazione rotta
o non è collegata all'impianto in questione
(per esempio cantine, box ecc.).
Lo stesso principio vale ovviamente non solo
per gli impianti idraulici di scarico, ma
anche per quelli di adduzione dell'acqua,
così come di ogni altra utenza (energia
elettrica, gas, televisione, citofoni ecc.).
Risulta infine ininfluente che gli impianti
in oggetto siano stati un tempo di uso
collettivo dell'intero condominio e siano
stati solo in seguito utilizzati dal singolo
inquilino o da una parte soltanto degli
inquilini del condominio: ciò che conta è lo
stato dei luoghi al momento in cui si
verifica il danno.
Tubatura comune all'interno di una proprietà
esclusiva. È possibile che una tubatura
passi sotto il pavimento di un locale posto
al piano terra, cioè si trovi a passare in
una proprietà esclusiva (per esempio un
negozio, un magazzino, un'autorimessa ecc.)
ma in realtà sia contenuta nella base di
appoggio delle strutture dell'edificio
condominiale (fondamenta) e assolva la
funzione di drenaggio dell'acqua di
infiltrazione sotterranea: in tal caso le
spese per la sostituzione o manutenzione
della tubazione o per i danni conseguenti,
anche se a trarre immediato beneficio dalla
sostituzione/riparazione sia anzitutto il
locale del singolo condomino, gravano su
tutti i condomini.
In particolare, ogni spesa per tali
tubazioni orizzontali dell'impianto
fognario, in assenza di particolari clausole
del regolamento di condominio, deve
ripartirsi per millesimi e non per quote
uguali (articolo ItaliaOggi
Sette del 13.02.2012). |
LAVORI PUBBLICI:
La facoltà di produrre
certificazione sostituitiva anche per la SOA
è ammessa dal sistema normativo (cfr. art.
47 DPR 445 28.12.2000) che disciplina le
“autodichiarazioni”, sia dalla
giurisprudenza, per facilitare la massima
partecipazione alle gare (salva ovviamente
la verifica successiva).
Non è corretto ricostruire in termini
privatistici il rapporto Soa-Impresa, in
quanto l'attestazione di qualità è
certificazione a rilevanza pubblica. Le Soa,
infatti, e la ratio della disciplina vigente
lo dimostra, pur essendo organismi privati,
rilasciano «attestazioni» aventi contenuto
vincolato e rilievo pubblicistico,
nell'esercizio di una funzione pubblicistica
di certificazione, che sfocia in una
attestazione con valore di atto pubblico. Da
ciò discende che non vi è motivo di ritenere
che la prescritta certificazione non possa
essere effettuata mediante il sistema
dell'autocertificazione.
È illegittima l'esclusione di un
concorrente da una gara d'appalto di opere
pubbliche per la produzione di una
dichiarazione sostitutiva al posto
dell'attestato Soa del quale riproduce
integralmente il contenuto.
Le s.o.a., «pur essendo organismi
privati, rilasciano «attestazioni» aventi
contenuto vincolato e rilievo pubblicistico,
nell'esercizio di una funzione pubblicistica
di certificazione (che sfocia in una
attestazione con valore di atto
pubblico)».Tale certificato possiede la
qualificazione di atto (certificatorio)
rilasciato da una pubblica amministrazione,
secondo la lettera dell'art. 19, d.P.R. n.
445 del 2000, e ciò a fronte di una forma di
attestazione della conformità della copia
all'originale, quella appunto ex art. 19,
cit., consentita da una previsione
legislativa che, in linea di principio,
trova applicazione anche in carenza di un
espresso richiamo da parte del bando e della
disciplina di gara in genere, e che è capace
di soddisfare l'interesse della stazione
appaltante di disporre di adeguata certezza
in ordine al possesso dei requisiti tecnici
dell'impresa concorrente.
Come già
riconosciuto da questo TAR con la sentenza I
sez. n. 68 del 27/01/2011:
- “La facoltà di produrre certificazione
sostituitiva anche per la SOA è ammessa dal
sistema normativo (cfr. art. 47 DPR 445
28.12.2000) che disciplina le
“autodichiarazioni”, sia dalla
giurisprudenza, per facilitare la massima
partecipazione alle gare (salva ovviamente
la verifica successiva)".
- “Non è corretto ricostruire in termini
privatistici il rapporto Soa-Impresa, in
quanto l'attestazione di qualità è
certificazione a rilevanza pubblica. Le Soa,
infatti, e la ratio della disciplina vigente
lo dimostra, pur essendo organismi privati,
rilasciano «attestazioni» aventi contenuto
vincolato e rilievo pubblicistico,
nell'esercizio di una funzione pubblicistica
di certificazione, che sfocia in una
attestazione con valore di atto pubblico. Da
ciò discende che non vi è motivo di ritenere
che la prescritta certificazione non possa
essere effettuata mediante il sistema
dell'autocertificazione.” (cfr. TAR
Lazio Roma, sez. III, 15.05. 2007, n. 4374).
- “È illegittima l'esclusione di un
concorrente da una gara d'appalto di opere
pubbliche per la produzione di una
dichiarazione sostitutiva al posto
dell'attestato Soa del quale riproduce
integralmente il contenuto” (cfr. TAR
Sicilia Catania, sez. IV, 23.02.2006, n.
265).
- “Le s.o.a., «pur essendo organismi
privati, rilasciano «attestazioni» aventi
contenuto vincolato e rilievo pubblicistico,
nell'esercizio di una funzione pubblicistica
di certificazione (che sfocia in una
attestazione con valore di atto
pubblico)».Tale certificato possiede la
qualificazione di atto (certificatorio)
rilasciato da una pubblica amministrazione,
secondo la lettera dell'art. 19, d.P.R. n.
445 del 2000, e ciò a fronte di una forma di
attestazione della conformità della copia
all'originale, quella appunto ex art. 19,
cit., consentita da una previsione
legislativa che, in linea di principio,
trova applicazione anche in carenza di un
espresso richiamo da parte del bando e della
disciplina di gara in genere, e che è capace
di soddisfare l'interesse della stazione
appaltante di disporre di adeguata certezza
in ordine al possesso dei requisiti tecnici
dell'impresa concorrente.” (Consiglio
Stato, sez. VI, 19.01.2007, n. 121) (TAR
Sardegna, Sez. I,
sentenza 13.01.2012 n. 28 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In sede di presentazione della
documentazione, solo in base al combinato
disposto degli art. 19, 19-bis, 38 e 47
d.P.R. 28.12.2000 n. 445 l'imprenditore può
dichiarare la conformità di copie di
certificati e attestati agli originali
custoditi nei propri uffici, possibilità non
contemplata dalla l. 04.01.1968 n. 15.
La presentazione della dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà equivale,
in virtù di un effetto legale tipico, alla
esibizione dei documenti dichiarati conformi
all'originale in forma autenticata.
Pertanto, allorquando il disciplinare di
gara relativo all'aggiudicazione di un
appalto pubblico richieda, a pena di
esclusione, copia autentica dell'atto
costitutivo della società consortile, è
illegittima l'esclusione della concorrente
che abbia presentato dichiarazione
sostitutiva relativa al predetto atto, posto
che siffatta clausola concerne un documento
che, essendo conservato presso il registro
delle imprese, rientra tra quelli che
possono essere sostituiti da una
dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà, secondo l'art. 19, d.P.R. n. 445
del 2000.
Come già riconosciuto da questo TAR con la
sentenza I sez. n. 68 del 27/01/2011:
- “In sede di presentazione della
documentazione, solo in base al combinato
disposto degli art. 19, 19-bis, 38 e 47
d.P.R. 28.12.2000 n. 445 l'imprenditore può
dichiarare la conformità di copie di
certificati e attestati agli originali
custoditi nei propri uffici, possibilità non
contemplata dalla l. 04.01.1968 n. 15"
(Consiglio Stato, sez. IV, 10.05.2007, n.
2254).
- “La presentazione della dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà equivale,
in virtù di un effetto legale tipico, alla
esibizione dei documenti dichiarati conformi
all'originale in forma autenticata.
Pertanto, allorquando il disciplinare di
gara relativo all'aggiudicazione di un
appalto pubblico richieda, a pena di
esclusione, copia autentica dell'atto
costitutivo della società consortile, è
illegittima l'esclusione della concorrente
che abbia presentato dichiarazione
sostitutiva relativa al predetto atto, posto
che siffatta clausola concerne un documento
che, essendo conservato presso il registro
delle imprese, rientra tra quelli che
possono essere sostituiti da una
dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà, secondo l'art. 19, d.P.R. n. 445
del 2000” (TAR Calabria Catanzaro, sez.
II, 20.01.2009, n. 57) (TAR Sardegna, Sez.
I,
sentenza 13.01.2012 n. 28 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordinanza recante l'ingiunzione
a demolire un'opera realizzata in assenza di
titolo abilitativo costituisce atto
sanzionatorio dovuto, per la cui formazione
non è richiesto alcun apporto partecipativo
del destinatario.
Deve anzitutto rilevarsi l’infondatezza
dell’argomento relativo all'omessa
comunicazione dell'avvio del procedimento,
non sussistendo alcuna violazione delle
regole procedimentali dettate dalla legge n.
241/1990 dal momento che l'ordinanza recante
l'ingiunzione a demolire un'opera realizzata
in assenza di titolo abilitativo costituisce
atto sanzionatorio dovuto, per la cui
formazione non è richiesto alcun apporto
partecipativo del destinatario (cfr. ex
multis "l'ordine di demolizione di
opere edilizie abusive non deve essere
preceduto dall'avviso ex art. 7 l. n. 241
del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che
viene emesso quale sanzione per
l'accertamento della inosservanza di
disposizioni urbanistiche secondo un
procedimento di natura vincolata
precisamente tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato della legge;
peraltro, trattandosi di un atto volto a
reprimere un abuso edilizio, esso sorge in
virtù di un presupposto di fatto, ossia
l'abuso, di cui il ricorrente doveva essere
ragionevolmente a conoscenza, rientrando
nella propria sfera di controllo" - TAR
Campania Napoli, sez. IV, 10.12.2007, n.
15871) (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 13.01.2012 n. 15 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Trasporti pericolosi.
Pieno solo al distributore: nel bagagliaio
tanica da non più di 10 litri.
E' reato trasportare mediante
taniche posizionate all'interno di un
veicolo una quantità di carburante
superiore a quella consentita, di regola,
contenuta nel serbatoio normale del veicolo
medesimo. Integra il reato previsto dall'art.
40, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n.
504/1995, il trasporto mediante taniche
posizionate all'interno di un veicolo di una
quantità di carburante superiore a quella
consentita, di regola, contenuta nel
serbatoio normale del veicolo medesimo.
Singolare il caso trattato dalla Suprema
Corte con la sentenza in esame e relativo al
trasporto abusivo di carburante contenuto in
alcune taniche posizionate all'interno di un
veicolo.
La Corte, in particolare, ha annullato la
sentenza con la quale il giudice di merito
aveva assolto l'imputato per insussistenza
del fatto, affermando il principio di
diritto secondo cui è consentito il
trasporto a bordo di un veicolo del solo
carburante contenuto nel serbatoio normale,
laddove, diversamente, il trasporto del
carburante in taniche a bordo del veicolo
integra l'illecito penale, ove il carburante
sia stato sottratto al pagamento dell'accisa
prevista dalla legge, punito dal d. lgs. n.
504 del 1995.
Il fatto
La vicenda processuale in questione è
abbastanza semplice. Durante un controllo
eseguito dalla Guardia di Finanza di
un'autovettura privata in ingresso al
Confine di Stato di Trieste (Fernetti),
veniva accertato che all'interno del veicolo
si trovavano tre taniche contenenti 60 litri
di gasolio.
I finanzieri, nel ritenere che il gasolio
contenuto nelle taniche non fosse destinato
ad alimentare il veicolo e ma a fini
commerciali, contestava al conducente la
violazione dell'art. 40, lett. b), del D.Lgs.
n. 504/1995, per essere stato sottratto il
carburante al pagamento delle accise
previste dalla legge. Il giudice di merito,
però, in accoglimento della tesi difensiva,
assolveva l'imputato ritenendo,
diversamente, che il gasolio fosse destinato
ad essere commercializzato.
Il ricorso
La sentenza veniva impugnata dal Pubblico
Ministero, censurando in particolare
l'interpretazione che della disposizione in
esame era stata offerta dal giudice di
merito, in quanto il combinato disposto
degli artt. 10, 11 e 40, lett. b), del D.Lgs. n. 504/1995 comporta la presunzione «juris
et de jure» di destinazione al commercio di
quantitativi di prodotti petroliferi
trasportati con modalità atipiche, con
conseguente errata applicazione della legge
da parte del giudice di merito.
La decisione della Cassazione
La tesi della Procura è stata condivisa
dagli Ermellini.
Per meglio comprendere le ragioni della
scelta della Cassazione è utile procedere ad
un inquadramento normativo. Il D.Lgs. 26.10.1995, n. 504 reca il "Testo unico
delle disposizioni legislative concernenti
le imposte sulla produzione e sui consumi e
relative sanzioni penali e amministrative"
(S.O. alla G.U. 29.11.1995, n. 279).
L'art. 10 di tale decreto prevede, in
generale, che "Sono soggetti ad accisa i
prodotti immessi in consumo in un altro
Stato membro che vengono detenuti a scopo
commerciale nel territorio dello Stato".
Il comma 2 del medesimo articolo, precisa,
poi, che per «detenzione per scopi
commerciali» si intende (lett. b) "la
detenzione da parte di un privato di
prodotti sottoposti ad accisa, dal medesimo
acquistati, non per uso proprio, in
quantitativi superiori a quelli indicati
dall'articolo 11, dallo stesso trasportati e
non destinati ad essere forniti a titolo
oneroso".
A sua volta, l'art. 11, comma 2, del
medesimo decreto stabilisce che "Possono
considerarsi acquistati per uso proprio i
prodotti acquistati e trasportati da privati
entro i seguenti quantitativi:
a) bevande spiritose, 10 litri;
b) prodotti alcolici intermedi, 20 litri;
c) vino, 90 litri, di cui 60 litri, al
massimo, di vino spumante;
d) birra, 110 litri;
e) sigarette, 800 pezzi;
f) sigaretti, 400 pezzi;
g) sigari, 200 pezzi;
h) tabacco da fumo, 1 chilogrammo".
Per quanto concerne, in particolare, il
carburante, rileva il comma 4 della norma in
questione.
Tale disposizione prevede, infatti, che "I
prodotti acquistati, non per uso proprio, e
trasportati in quantità superiore ai limiti
stabiliti nel comma 2 si considerano
acquistati per fini commerciali e per gli
stessi devono essere osservate le
disposizioni di cui all'articolo 10. Le
medesime disposizioni si applicano ai
prodotti energetici trasportati dai privati
o per loro conto con modalità di trasporto
atipico.
È considerato atipico il trasporto del
carburante in contenitori diversi dai
serbatoi normali, dai contenitori per usi
speciali o dall'eventuale bidone di scorta,
di capacità non superiore a 10 litri, nonché
il trasporto di prodotti energetici liquidi
destinati al riscaldamento con mezzi diversi
dalle autocisterne utilizzate per conto di
operatori professionali".
Infine, il comma 5 dell'art. 11, precisa che
ai fini del comma 4 sono considerati
“serbatoi normali” di un autoveicolo quelli
permanentemente installati dal costruttore
su tutti gli autoveicoli dello stesso tipo e
la cui sistemazione permanente consente
l'utilizzazione diretta del carburante sia
per la trazione dei veicoli che,
all'occorrenza, per il funzionamento,
durante il trasporto, dei sistemi di
refrigerazione o di altri sistemi.
Sono, parimenti, considerati “serbatoi
normali” i serbatoi di gas installati su
veicoli a motore che consentono
l'utilizzazione diretta del gas come
carburante, nonché i serbatoi adattati agli
altri sistemi di cui possono essere dotati i
veicoli e quelli installati permanentemente
dal costruttore su tutti i contenitori per
usi speciali, dello stesso tipo del
contenitore considerato, la cui sistemazione
permanente consente l'utilizzazione diretta
del carburante per il funzionamento, durante
il trasporto, dei sistemi di refrigerazione
e degli altri sistemi di cui sono dotati i
contenitori per usi speciali.
Ai fini del comma 4 è considerato
“contenitore per usi speciali” qualsiasi
contenitore munito di dispositivi
particolari, adattati ai sistemi di
refrigerazione, ossigenazione, isolamento
termico o altro.
Alla stregua delle predette disposizioni
normative, dunque, ben si giustifica la
soluzione adottata dalla Cassazione nel caso
in esame.
In particolare, pare evidente che il
trasporto di tre taniche contenenti
complessivamente 60 litri di gasolio per
autotrazione a bordo di un'autovettura,
integrasse all'evidenza la violazione
dell'art. 40, comma 1, lett. b), D.Lgs. n.
504/1995 -che punisce con la reclusione da
sei mesi a tre anni e con la multa dal
doppio al decuplo dell'imposta evasa, non
inferiore in ogni caso a 7746 euro, chiunque
(omissis) sottrae con qualsiasi mezzo i
prodotti energetici, compreso il gas
naturale, all'accertamento o al pagamento
dell'accisa-, posto che l'eccedenza
quantitativa del carburante trasportato ne
rendeva «atipico» il trasporto ai sensi del
richiamato art. 11, comma 4, con conseguente
presunzione della destinazione a fini
commerciali del carburante trasportato.
La decisione merita di essere condivisa,
tenuto conto della giurisprudenza
progressivamente formatasi in materia che,
peraltro, ritiene configurabile il reato di
sottrazione all'accertamento o al pagamento
dell'accisa sugli oli minerali, da chiunque
ponga in essere la condotta vietata, atteso
che non sono richieste per la sua
integrazione né l'immissione in commercio né
la destinazione al commercio dei prodotti
sottratti al pagamento dell'accisa (Cass.,
Sez. III, n. 10909 del 15/03/2007, imp. D.P., in Ced Cass., n. 236089).
In precedenza, conforme alla decisione in
commento, anche un'altra sentenza (Cass.,
Sez. III, n. 40982 del 19/11/2001, PM in
proc. O.R., in Ced Cass., n. 220305)
relativa ad una fattispecie in cui la Corte
ha ritenuto "atipiche" le modalità del
trasporto di ca. 132 litri di gasolio da
riscaldamento effettuato a mezzo di taniche
e non mediante autocisterna utilizzata da
operatore professionale, come invece
previsto dall'art. 11, comma 3, del decreto
legislativo n. 504 del 1995, affermando il
principio secondo cui deve ritenersi
integrata la violazione in esame
nell'ipotesi di trasporto del prodotto
effettuato con modalità "atipiche" e senza
la prescritta documentazione in quanto gli
oli minerali trasportati con tali modalità
vanno considerati detenuti per scopo
commerciale, e quindi soggetti ancora al
pagamento dell'accisa sebbene acquistati in
paese comunitario, con presunzione iuris et
de iure ai sensi dell'art. 9, comma 3, della
Direttiva CEE n. 92/12 e degli artt. 10 e 11,
commi 1 e 3 del d.lgs. n. 504/1995 (Corte di Cassazione penale,
sentenza
11.01.2012 n. 442 - tratto da www.ipsoa.it). |
URBANISTICA:
L’art. 35 legge 22.10.1971, n.
865 esprime il principio generale secondo
cui il prezzo per la cessione del diritto di
superficie sulle aree deve «assicurare la
copertura delle spese sostenute dal comune o
dal consorzio per l'acquisizione delle aree
comprese in ciascun piano approvato a norma
della legge 18.04.1962, n. 167 (…)».
Sulla base dell’art. 35 cit., quindi, la
determinazione del prezzo a carico del
concessionario è modulato sul costo di
acquisizione delle aree (oltre che sul costo
delle opere di urbanizzazione, elemento che
nel caso di specie non rileva), nel quale
debbono rientrare tutti gli elementi di
costo, compresa la voce dell’indennità di
occupazione d’urgenza e i corrispettivi
dovuti ai proprietari che hanno concluso
accordi transattivi con il Comune, in quanto
direttamente riferibili alla acquisizione
delle aree oggetto della concessione.
Come si è avuto occasione di rilevare
recentemente (TAR Sardegna Cagliari, sez. I,
14.06.2010, n. 1485), l’art. 35 legge
22.10.1971, n. 865 esprime il principio
generale secondo cui il prezzo per la
cessione del diritto di superficie sulle
aree deve «assicurare la copertura delle
spese sostenute dal comune o dal consorzio
per l'acquisizione delle aree comprese in
ciascun piano approvato a norma della legge
18.04.1962, n. 167 (…)» (sulla
condivisibile qualificazione di tale norma
come espressione di un principio generale si
veda anche TAR Toscana, 13.07.2006, n.
3100).
Sulla base dell’art. 35 cit., quindi, la
determinazione del prezzo a carico del
concessionario è modulato sul costo di
acquisizione delle aree (oltre che sul costo
delle opere di urbanizzazione, elemento che
nel caso di specie non rileva), nel quale
debbono rientrare tutti gli elementi di
costo, compresa la voce dell’indennità di
occupazione d’urgenza e i corrispettivi
dovuti ai proprietari che hanno concluso
accordi transattivi con il Comune, in quanto
direttamente riferibili alla acquisizione
delle aree oggetto della concessione.
Come ha statuito di recente il Consiglio di
Stato, con argomentazioni condivise dal
Collegio e dalla quale non vi è ragione di
discostarsi nel caso di specie (cfr. Cons.
St. sez. IV 22.07.2010, n. 4815) la
prescrizione contenuta nell’art. 35 cit. «non
è idonea a rendere immune l’azione dell’ente
pubblico dalle sue responsabilità per
l’azione illegittima, tant’è che si è
espressamente statuito che nell’ipotesi in
cui l’acquisizione delle aree da destinare
alla realizzazione dei piani di edilizia
economica e popolare avvenga “non già
attraverso le procedure espropriative di
legge, bensì come effetto di un fatto
illecito che, da un lato, determina
l'acquisto della proprietà del suolo di mano
pubblica e, dall'altro, fa sorgere nei
proprietari delle aree il diritto al
risarcimento del danno per la perdita della
proprietà ai sensi dell'art. 2043 c.c., il
principio dell’integrale copertura dei costi
sostenuti per l'acquisto viene meno, atteso
che si è fuori dalla lettera e dalla ratio
dell'art. 35 L. 865/1971, non potendosi fare
ricadere sui concessionari delle aree e loro
aventi causa i maggiori costi determinatisi
in forza di una acquisizione delle aree
realizzate attraverso un fatto
civilisticamente illecito, quale
l'occupazione acquisitiva” (Consiglio di
Stato, sez. IV, 21.02.2005, n. 577). Il
principio dell’integrale copertura dei costi
di acquisto delle aree è quindi espressione
di una garanzia economica nei confronti
dell’ente procedente, ma contiene in sé
anche un principio di garanzia giuridica
verso il beneficiario, che è tenuto verso il
Comune nei soli limiti impostigli dalla
legge e dal corretto comportamento
dell’amministrazione, legato alla corretta
acquisizione delle aree nel rispetto della
procedura espropriativa prevista dalla legge.»
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 10.01.2012 n. 13 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Interessante
pronuncia circa la natura giuridica della
conferenza dei servizi (se istruttoria o
decisoria) in ambito autorizzazione unica
F.E.R. (Fonte Energetica Rinnovabile).
---------------
Circa
l'autorizzazione rilasciata da parte della
provincia per costruire ed esercire un
impianto di cogenerazione alimentato da
fonte rinnovabile (biomassa legnosa), non
può essere disconosciuta la legittimazione
ad agire del comune, sia nella qualità di
ente esponenziale degli interessi dei
residenti che potrebbero subire danni dalla
concreta individuazione delle aree per
l'attivazione dell’impianto di
cogenerazione, sia nella veste di ente
titolare del potere di pianificazione
urbanistica, sul quale certamente incide la
collocazione dell'impianto medesimo.
---------------
Alla conferenza di servizi disciplinata
dall’art. 12 del D.Lgs. 387/2003 va
attribuita natura decisoria. A ciò si
perviene a seguito dell'analisi normativa che segue.
L'art. 12 del predetto decreto ha previsto
il rilascio da parte della regione o della
provincia delegata di un’”autorizzazione
unica”, che sostituisce tutti i pareri e le
autorizzazioni altrimenti necessari e in cui
confluiscono, con il meccanismo della
conferenza di servizi, anche le valutazioni
di carattere paesaggistico e quelle relative
all’esistenza di vincoli di carattere
storico-artistico.
Sulla natura giuridica di detta conferenza
si registrano opinioni non univoche nella
giurisprudenza amministrativa, una parte di
essa affermandone la natura “istruttoria”,
altra, invece, la natura “decisoria”.
La preferenza per l’una o per l’altra
opzione interpretativa ha rilevanti
conseguenze giuridiche in ordine alle
modalità di formazione del consenso e di
superamento dell’eventuale dissenso
formulato in seno alla conferenza da una o
più delle amministrazioni coinvolte.
Com’è noto, alla conferenza “istruttoria” si
ricorre nel caso in cui sia opportuno un
esame contestuale di vari interessi pubblici
coinvolti in un procedimento amministrativo
o in più procedimenti amministrativi
connessi (art. 14, commi 1 e 3, L.
241/1990); alla conferenza “decisoria”,
invece, si ricorre quando l’amministrazione
procedente debba acquisire intese, concerti,
nulla osta o assensi comunque denominati di
altre pubbliche amministrazione pubbliche e
non li ottenga entro trenta giorni dalla
ricezione della richiesta (oppure quando
intervenga un espresso dissenso nel predetto
termine), ovvero quando l’attività del
privato sia subordinata ad atti di consenso,
comunque denominati, di competenza di più
amministrazioni pubbliche (art. 14 commi 2 e
4, L. 241/1990).
Entrambi gli istituti hanno la finalità di
semplificare e velocizzare il procedimento
amministrativo, ma con la rilevante
differenza che nel primo caso vi è un’unica
amministrazione competente a decidere
(cosiddetta decisione “monostrutturata”) la
quale, però, prima di decidere, può
acquisire contestualmente tramite la
conferenza di servizi le valutazioni
istruttorie delle altre amministrazioni
interessate; nel secondo caso, invece, vi
sono più amministrazioni competenti ad
assentire, sotto distinti profili, il
medesimo intervento o la medesima attività,
ancorché il rilascio del provvedimento
finale sia di competenza di una sola di esse
(cosiddetta decisione “pluristrutturata”); e
da ciò consegue che nel primo caso
l’amministrazione procedente rimane libera
di determinare il contenuto del
provvedimento conclusivo, dal momento che
questo rimane un atto di sua esclusiva
competenza, salva la facoltà degli
interessati di impugnare il provvedimento
conclusivo che si discosti immotivatamente o
irragionevolmente da quanto emerso in sede
di conferenza di servizi; nel secondo caso,
invece, il provvedimento finale deve tenere
conto delle posizioni prevalenti espresse in
seno alla conferenza di servizi, così come
riassunte dal responsabile del procedimento
nella determinazione conclusiva della
conferenza medesima, e ove poi il dissenso
sia espresso da amministrazioni preposte
alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale o del patrimonio
storico-artistico, sono dettate specifiche
norme procedurali per il superamento di tale
dissenso.
L’art. 12 del D.Lgs. 387/2003 non offre
elementi univoci dai quali poter desumere a
quale delle due fattispecie il legislatore
abbia inteso ricondurre la conferenza di
servizi preordinata all’esame di istanze di
autorizzazione alla realizzazione di
produzione di energia elettrica da fonte
rinnovabile, e ciò spiega la
contrapposizione interpretativa venutasi a
delineare nell’ambito della giurisprudenza
amministrativa tra la tesi della conferenza
“istruttoria” e quella della conferenza
“decisoria”, entrambe sostenute con
argomentazioni plausibili e ragionevolmente
ancorate al (generico e ambivalente) dato
normativo.
Osserva però il collegio che entrambi gli
orientamenti si sono formati in epoca
antecedente l’introduzione del Decreto
Ministeriale 10.09.2010 n. 47987 il quale,
nel dettare le linee guida statali per
l'autorizzazione degli impianti alimentati
da fonti rinnovabili, offre oggi alcuni
elementi testuali in favore della tesi della
natura “decisoria” della conferenza di
servizi qui in esame.
Si tratta, in particolare, di due
disposizioni contenute nella parte III del
predetto decreto ministeriale, concernenti
la disciplina del procedimento unico di cui
all’art. 12 citato:
- la prima è quella contenuta nell’art.
14.6, nella parte in cui si prevede che la
conferenza di servizi “si svolge con le
modalità di cui agli articoli 14 e seguenti
della legge 241 del 1990 e successive
modificazioni ed integrazioni”;
- la seconda è quella contenuta nell’art.
15.1, in cui si prevede che
“l'autorizzazione unica, conforme alla
determinazione motivata di conclusione
assunta all'esito dei lavori della
conferenza di servizi, sostituisce a tutti
gli effetti ogni autorizzazione, nulla osta
o atto di assenso comunque denominato di
competenza delle amministrazioni coinvolte”.
A ben guardare, entrambe le disposizioni
sopra menzionate appaiono compatibili solo
con la natura decisoria della conferenza di
servizi.
In particolare, il rinvio integrale, senza
specificazioni o eccezioni di sorta, alla
disciplina di cui agli articoli 14 e
seguenti della L. 241/1990 presuppone un
implicito riferimento anche alle norme di
cui agli artt. 14-ter e 14-quater di detta
legge relativamente alle modalità di
formazione del consenso tra le
amministrazioni partecipanti e agli effetti
dell’eventuale dissenso manifestato da una
di esse: norme compatibili solo con il
carattere polistrutturato della conferenza
di servizi “decisoria” e inapplicabili,
invece, alle ipotesi di conferenza
“istruttoria”, all’esito della quale
l’autorità procedente resta libera di
determinare il contenuto del provvedimento
finale a prescindere da ogni eventuale
dissenso delle altre amministrazioni
coinvolte: il quale, infatti, laddove
espresso, non impone l’adozione di
particolari modalità procedimentali per il
suo superamento al di fuori della necessità
che l’atto conclusivo adottato
dall’amministrazione procedente sia
adeguatamente motivato in relazione alle
risultanze istruttorie acquisite in seno
alla conferenza.
Analogamente, la previsione che la
conferenza di servizi debba concludersi con
una determinazione motivata di conclusione
da parte del responsabile del procedimento e
che l'autorizzazione unica debba conformarsi
a detta determinazione, è anch’essa
compatibile solo con la natura decisoria
della conferenza di servizi, e così anche la
previsione secondo cui l’autorizzazione
unica sostituisce ogni autorizzazione, nulla
osta o atto di assenso comunque denominato
di competenza delle amministrazioni
coinvolte: specificazione che, nel
riprodurre l’analoga disposizione contenuta
nell’art. 14-ter, comma 9, della L.
241/1990, non avrebbe ragion d’essere se la
conferenza di servizi qui in esame avesse
natura istruttoria, posto che in tal caso
non vi sarebbero più amministrazioni
competenti ad assentire, sotto diversi
profili, la medesima attività del privato,
ma una sola amministrazione titolare in via
esclusiva del potere decisorio con facoltà
di acquisire, ove ritenuto “opportuno”, le
valutazioni istruttorie di altre
amministrazioni eventualmente interessate.
---------------
E’ vero che l’art. 12 del D.Lgs. 387/2003
prevede che l’autorizzazione unica
“costituisce, ove occorra, variante allo
strumento urbanistico”, ma tale norma va
letta secondo canoni di ragionevolezza e
alla luce dei principi di (mera)
semplificazione procedimentale che la
ispirano.
L’autorizzazione unica, infatti, si
inserisce nella pianificazione urbanistica e
può variare quest’ultima soltanto se,
nell’ambito del relativo procedimento, si
sia giunti ad una ponderata valutazione
circa la coerenza sostanziale
dell’autorizzazione unica con le esigenze
della pianificazione, con la conseguenza che
l’effetto di variante dell’autorizzazione
unica è soltanto un meccanismo di
semplificazione.
L’effetto di variante dell’autorizzazione
unica non significa prevalenza sostanziale
di questo procedimento sulle scelte di
pianificazione, quasi che la realizzazione
di un impianto di cogenerazione potesse
stravolgere le linee di programmazione
dell’uso del territorio che ciascuna
amministrazione correttamente si pone: se
così non fosse, se l’eventuale dissenso del
Comune sotto il profilo urbanistico potesse
essere superato sul semplice rilievo che, in
ogni caso, l’autorizzazione unica produce di
diritto la variazione delle previsioni
urbanistiche ostative alla realizzazione
dell’impianto, tanto varrebbe non invitarla
neppure, l’Amministrazione Comunale, a
partecipare ai lavori della conferenza.
Né si può ritenere che le esigenze connesse
all’approvvigionamento energetico da fonte
rinnovabile –che sono certamente prioritarie
e di rilievo comunitario e che proprio per
questo hanno ispirato la semplificazione
procedimentale delineata dal legislatore
statale nel citato articolo 12 D.Lgs.
387/2003– siano talmente preminenti da
legittimare la totale pretermissione delle
esigenze di tutela del territorio,
dell’ambiente e della salute pubblica
connesse alla pianificazione territoriale.
Ciò non significa, peraltro, che
l’amministrazione comunale sia titolare di
un potenziale potere di “veto” in ordine
alla realizzazione dell’impianto: significa
soltanto che, nell’ambito della conferenza
di servizi decisoria di cui al citato art.
12, l’eventuale dissenso del Comune deve
essere preso in adeguata considerazione,
attentamente ponderato ed eventualmente
superato nella determinazione conclusiva, ma
sempre sulla scorta di una motivazione
adeguata che dia conto delle posizioni
prevalenti emerse in seno alla conferenza e
delle ragioni per cui l’insediamento è stato
ritenuto, nel confronto dialettico dei vari
interessi pubblici, compatibile con le
caratteristiche dell’area interessata; una
volta che in esito alla conferenza di
servizi l’autorità procedente sia pervenuta
a siffatta (motivata) conclusione, per il
rilascio dell’autorizzazione unica non sarà
necessario attivare la complessa procedura
di variazione dello strumento urbanistico,
ma la stessa autorizzazione unica
determinerà di diritto l’effetto di variante
urbanistica.
1. Il Comune di Luserna S. Giovanni impugna
il provvedimento con cui la Provincia di
Torino ha autorizzato l’Azienda Agricola
Merlo Guido a costruire ed esercire un
impianto di cogenerazione alimentato da
fonte rinnovabile (biomassa legnosa) su
terreni siti nel territorio del Comune
medesimo.
2. Costituendosi in giudizio, l’impresa
controinteressata ha eccepito in via
preliminare l’inammissibilità del ricorso
per difetto di legittimazione attiva e di
interesse a ricorrere.
L’eccezione non può essere condivisa.
Ritiene il collegio che non possa essere
disconosciuta la legittimazione ad agire
dell’ente ricorrente, sia nella qualità di
ente esponenziale degli interessi dei
residenti che potrebbero subire danni dalla
concreta individuazione delle aree per
l'attivazione dell’impianto di
cogenerazione, sia nella veste di ente
titolare del potere di pianificazione
urbanistica, sul quale certamente incide la
collocazione dell'impianto medesimo.
Tale legittimazione sussiste a maggior
ragione nella fattispecie in esame, nella
quale il Comune agisce a tutela dei
peculiari interessi pubblici rappresentati
in sede procedimentale e asseritamente
disattesi dal provvedimento impugnato.
3. Passando all’esame del merito del
gravame, è opportuno premettere alcune
considerazioni di ordine generale.
3.1. In ossequio a impegni internazionali e
comunitari finalizzati alla riduzione
dell'inquinamento anche mediante lo sviluppo
delle fonti rinnovabili di energia, il
legislatore statale, in attuazione di
direttiva comunitaria, ha varato il D.Lgs.
n. 387/2003, ispirato a principi di
semplificazione e accelerazione delle
procedure finalizzate alla realizzazione e
gestione degli impianti di energia elettrica
prodotta da fonti energetiche rinnovabili.
In particolare, l'art. 12 del predetto
decreto ha previsto il rilascio da parte
della regione o della provincia delegata di
un’”autorizzazione unica”, che
sostituisce tutti i pareri e le
autorizzazioni altrimenti necessari e in cui
confluiscono, con il meccanismo della
conferenza di servizi, anche le valutazioni
di carattere paesaggistico e quelle relative
all’esistenza di vincoli di carattere
storico-artistico.
3.2. Sulla natura giuridica di detta
conferenza si registrano opinioni non
univoche nella giurisprudenza
amministrativa, una parte di essa
affermandone la natura “istruttoria”
(TAR Campania Napoli, sez. VII, nn.
9345/2009 e 9367/2009 e 157/2010; Consiglio
di Stato sez. VI, n. 3502/2004 e C.G.A. nn.
295/2008 e 763/2008), altra, invece, la
natura “decisoria” (Cons. Stato, sez.
VI, 22.02.2010, n. 1020; TAR Campania Napoli,
sez. V, n. 1479/2010; TAR Sicilia Palermo,
sez. II, n. 1539/2009).
La preferenza per l’una o per l’altra
opzione interpretativa ha rilevanti
conseguenze giuridiche in ordine alle
modalità di formazione del consenso e di
superamento dell’eventuale dissenso
formulato in seno alla conferenza da una o
più delle amministrazioni coinvolte.
3.3. Com’è noto, alla conferenza “istruttoria”
si ricorre nel caso in cui sia opportuno un
esame contestuale di vari interessi pubblici
coinvolti in un procedimento amministrativo
o in più procedimenti amministrativi
connessi (art. 14, commi 1 e 3, L.
241/1990); alla conferenza “decisoria”,
invece, si ricorre quando l’amministrazione
procedente debba acquisire intese, concerti,
nulla osta o assensi comunque denominati di
altre pubbliche amministrazione pubbliche e
non li ottenga entro trenta giorni dalla
ricezione della richiesta (oppure quando
intervenga un espresso dissenso nel predetto
termine), ovvero quando l’attività del
privato sia subordinata ad atti di consenso,
comunque denominati, di competenza di più
amministrazioni pubbliche (art. 14 commi 2 e
4, L. 241/1990).
Entrambi gli istituti hanno la finalità di
semplificare e velocizzare il procedimento
amministrativo, ma con la rilevante
differenza che nel primo caso vi è un’unica
amministrazione competente a decidere
(cosiddetta decisione “monostrutturata”)
la quale, però, prima di decidere, può
acquisire contestualmente tramite la
conferenza di servizi le valutazioni
istruttorie delle altre amministrazioni
interessate; nel secondo caso, invece, vi
sono più amministrazioni competenti ad
assentire, sotto distinti profili, il
medesimo intervento o la medesima attività,
ancorché il rilascio del provvedimento
finale sia di competenza di una sola di esse
(cosiddetta decisione “pluristrutturata”);
e da ciò consegue che nel primo caso
l’amministrazione procedente rimane libera
di determinare il contenuto del
provvedimento conclusivo, dal momento che
questo rimane un atto di sua esclusiva
competenza, salva la facoltà degli
interessati di impugnare il provvedimento
conclusivo che si discosti immotivatamente o
irragionevolmente da quanto emerso in sede
di conferenza di servizi; nel secondo caso,
invece, il provvedimento finale deve tenere
conto delle posizioni prevalenti espresse in
seno alla conferenza di servizi, così come
riassunte dal responsabile del procedimento
nella determinazione conclusiva della
conferenza medesima, e ove poi il dissenso
sia espresso da amministrazioni preposte
alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale o del patrimonio
storico-artistico, sono dettate specifiche
norme procedurali per il superamento di tale
dissenso.
3.4. L’art. 12 del D.Lgs. 387/2003 non offre
elementi univoci dai quali poter desumere a
quale delle due fattispecie il legislatore
abbia inteso ricondurre la conferenza di
servizi preordinata all’esame di istanze di
autorizzazione alla realizzazione di
produzione di energia elettrica da fonte
rinnovabile, e ciò spiega la
contrapposizione interpretativa venutasi a
delineare nell’ambito della giurisprudenza
amministrativa tra la tesi della conferenza
“istruttoria” e quella della
conferenza “decisoria”, entrambe
sostenute con argomentazioni plausibili e
ragionevolmente ancorate al (generico e
ambivalente) dato normativo.
3.5. Osserva però il collegio che entrambi
gli orientamenti si sono formati in epoca
antecedente l’introduzione del Decreto
Ministeriale 10.09.2010 n. 47987 il quale,
nel dettare le linee guida statali per
l'autorizzazione degli impianti alimentati
da fonti rinnovabili, offre oggi alcuni
elementi testuali in favore della tesi della
natura “decisoria” della conferenza
di servizi qui in esame.
3.6. Si tratta, in particolare, di due
disposizioni contenute nella parte III del
predetto decreto ministeriale, concernenti
la disciplina del procedimento unico di cui
all’art. 12 citato:
- la prima è quella contenuta
nell’art. 14.6, nella parte in cui si
prevede che la conferenza di servizi “si
svolge con le modalità di cui agli articoli
14 e seguenti della legge 241 del 1990 e
successive modificazioni ed integrazioni”;
- la seconda è quella contenuta
nell’art. 15.1, in cui si prevede che “l'autorizzazione
unica, conforme alla determinazione motivata
di conclusione assunta all'esito dei lavori
della conferenza di servizi, sostituisce a
tutti gli effetti ogni autorizzazione, nulla
osta o atto di assenso comunque denominato
di competenza delle amministrazioni
coinvolte”.
3.7. A ben guardare, entrambe le
disposizioni sopra menzionate appaiono
compatibili solo con la natura decisoria
della conferenza di servizi.
3.8. In particolare, il rinvio integrale,
senza specificazioni o eccezioni di sorta,
alla disciplina di cui agli articoli 14 e
seguenti della L. 241/1990 presuppone un
implicito riferimento anche alle norme di
cui agli artt. 14-ter e 14-quater di detta
legge relativamente alle modalità di
formazione del consenso tra le
amministrazioni partecipanti e agli effetti
dell’eventuale dissenso manifestato da una
di esse: norme compatibili solo con il
carattere polistrutturato della conferenza
di servizi “decisoria” e
inapplicabili, invece, alle ipotesi di
conferenza “istruttoria”, all’esito
della quale l’autorità procedente resta
libera di determinare il contenuto del
provvedimento finale a prescindere da ogni
eventuale dissenso delle altre
amministrazioni coinvolte: il quale,
infatti, laddove espresso, non impone
l’adozione di particolari modalità
procedimentali per il suo superamento al di
fuori della necessità che l’atto conclusivo
adottato dall’amministrazione procedente sia
adeguatamente motivato in relazione alle
risultanze istruttorie acquisite in seno
alla conferenza.
3.9 Analogamente, la previsione che la
conferenza di servizi debba concludersi con
una determinazione motivata di conclusione
da parte del responsabile del procedimento e
che l'autorizzazione unica debba conformarsi
a detta determinazione, è anch’essa
compatibile solo con la natura decisoria
della conferenza di servizi, e così anche la
previsione secondo cui l’autorizzazione
unica sostituisce ogni autorizzazione, nulla
osta o atto di assenso comunque denominato
di competenza delle amministrazioni
coinvolte: specificazione che, nel
riprodurre l’analoga disposizione contenuta
nell’art. 14-ter, comma 9, della L.
241/1990, non avrebbe ragion d’essere se la
conferenza di servizi qui in esame avesse
natura istruttoria, posto che in tal caso
non vi sarebbero più amministrazioni
competenti ad assentire, sotto diversi
profili, la medesima attività del privato,
ma una sola amministrazione titolare in via
esclusiva del potere decisorio con facoltà
di acquisire, ove ritenuto “opportuno”,
le valutazioni istruttorie di altre
amministrazioni eventualmente interessate.
3.10 Alla luce di tali considerazioni,
ritiene il collegio -conformemente a quanto
affermato dalla più recente e attenta
dottrina- che alla conferenza di servizi
disciplinata dall’art. 12 del D. Lgs.
387/2003 vada attribuita natura decisoria.
Tale opzione ermeneutica assume rilievo ai
fini della decisione del ricorso qui in
esame, per le ragioni che saranno qui di
seguito evidenziate.
3.11 Tanto premesso, è possibile passare
alla disamina dei singoli motivi di ricorso.
---------------
5. Con il secondo motivo, parte ricorrente
ha lamentato la violazione dell’art. 12,
commi 3, 4 e 4-bis, del D.Lgs. 29.12.2003,
n. 387 e dei principi di coordinamento e di
buon andamento dell’azione amministrativa,
nonché vizi di eccesso di potere per
manifesta irragionevolezza e difetto
d’istruttoria: secondo parte ricorrente la
determinazione impugnata sarebbe illegittima
perché affetta da carenza di istruttoria e
di motivazione; in particolare, essa
difetterebbe di adeguata motivazione:
a) circa la ritenuta compatibilità
urbanistica dell’impianto e, soprattutto,
circa le ragioni della prevalenza accordata
all’interesse pubblico alla realizzazione
dell’impianto rispetto ai concorrenti
interessi pubblici connessi alla disciplina
del territorio e alla tutela della salute
pubblica;
b) circa le carenze progettuali sotto il
profilo edilizio rilevate dal Comune e dalla
stessa Provincia in sede istruttoria e non
sanate dall’impresa richiedente (che si è
limitata a dichiarare che le integrazioni
richieste sarebbero state consegnate
soltanto prima dell’inizio dei lavori
all’ufficio tecnico comunale), tenuto conto
che l’autorizzazione impugnata è stata
rilasciata con l’espressa indicazione che la
stessa costituisce “titolo a costruire”;
c) circa l’effettiva “disponibilità del
suolo” su cui realizzare sia l’impianto di
cogenerazione sia la rete di
teleriscaldamento, così come prescritto
dall’art. 12, comma 4-bis, D.Lgs. 387/2003;
d) infine, circa l’entità delle “emissioni
in atmosfera” che saranno prodotte
dall’impianto.
5.1. La censura è fondata nei limiti qui di
seguito precisati.
5.2.. Quanto alla conformità urbanistica
dell’impianto.
In seno alla conferenza di servizi del 28.10.2010, il rappresentante del Comune
di Luserna ha fatto presente che il
progettato impianto di cogenerazione non
risultava conforme con la destinazione
urbanistica dell’area oggetto
dell’insediamento (classificata come “area
per attrezzature di interesse generale
comunale e intercomunale, campeggi e
attrezzature varie, con destinazione d’uso
parco gioco, parcheggio o pozzo acquedotto
comunale”), evidenziando che la relativa
tabella di zona prescrive che “non sono
ammessi interventi se non connessi con la
formazione del servizio”.
Nella determinazione conclusiva impugnata
nel presente giudizio, la Provincia di
Novara ha ritenuto che il rilievo formulato
dal rappresentante comunale non costituisse
ragione ostativa al rilascio
dell’autorizzazione unica dal momento che
questa, ai sensi dell’art. 12, comma 3, del D.Lgs. 29.12.2003, n. 387, “costituisce,
ove occorra, variante allo strumento
urbanistico”.
Ritiene il collegio che tale motivazione sia
del tutto carente.
E’ vero che l’art. 12 del D.Lgs. 387/2003
prevede che l’autorizzazione unica
“costituisce, ove occorra, variante allo
strumento urbanistico”, ma tale norma va
letta secondo canoni di ragionevolezza e
alla luce dei principi di (mera)
semplificazione procedimentale che la
ispirano.
L’autorizzazione unica, infatti, si
inserisce nella pianificazione urbanistica e
può variare quest’ultima soltanto se,
nell’ambito del relativo procedimento, si
sia giunti ad una ponderata valutazione
circa la coerenza sostanziale
dell’autorizzazione unica con le esigenze
della pianificazione, con la conseguenza che
l’effetto di variante dell’autorizzazione
unica è soltanto un meccanismo di
semplificazione.
L’effetto di variante dell’autorizzazione
unica non significa prevalenza sostanziale
di questo procedimento sulle scelte di
pianificazione, quasi che la realizzazione
di un impianto di cogenerazione potesse
stravolgere le linee di programmazione
dell’uso del territorio che ciascuna
amministrazione correttamente si pone: se
così non fosse, se l’eventuale dissenso del
Comune sotto il profilo urbanistico potesse
essere superato sul semplice rilievo che, in
ogni caso, l’autorizzazione unica produce di
diritto la variazione delle previsioni
urbanistiche ostative alla realizzazione
dell’impianto, tanto varrebbe non invitarla
neppure, l’Amministrazione Comunale, a
partecipare ai lavori della conferenza.
Né si può ritenere che le esigenze connesse
all’approvvigionamento energetico da fonte
rinnovabile –che sono certamente
prioritarie e di rilievo comunitario e che
proprio per questo hanno ispirato la
semplificazione procedimentale delineata dal
legislatore statale nel citato articolo 12
D.Lgs. 387/2003– siano talmente preminenti
da legittimare la totale pretermissione
delle esigenze di tutela del territorio,
dell’ambiente e della salute pubblica
connesse alla pianificazione territoriale.
Ciò non significa, peraltro, che
l’amministrazione comunale sia titolare di
un potenziale potere di “veto” in ordine
alla realizzazione dell’impianto: significa
soltanto che, nell’ambito della conferenza
di servizi decisoria di cui al citato art.
12, l’eventuale dissenso del Comune deve
essere preso in adeguata considerazione,
attentamente ponderato ed eventualmente
superato nella determinazione conclusiva, ma
sempre sulla scorta di una motivazione
adeguata che dia conto delle posizioni
prevalenti emerse in seno alla conferenza e
delle ragioni per cui l’insediamento è stato
ritenuto, nel confronto dialettico dei vari
interessi pubblici, compatibile con le
caratteristiche dell’area interessata; una
volta che in esito alla conferenza di
servizi l’autorità procedente sia pervenuta
a siffatta (motivata) conclusione, per il
rilascio dell’autorizzazione unica non sarà
necessario attivare la complessa procedura
di variazione dello strumento urbanistico,
ma la stessa autorizzazione unica
determinerà di diritto l’effetto di variante
urbanistica.
Nel caso in esame, tale valutazione è
mancata del tutto, anche perché la
conferenza di servizi non è si è conclusa -come invece avrebbe dovuto, attesa la sua
natura decisoria- con la determinazione
conclusiva del responsabile del procedimento
che desse conto delle posizioni prevalenti
emerse in seno alla stessa: di modo che i
rilievi istruttori concernenti le
caratteristiche dell’area oggetto
dell’insediamento, esposti nelle pagine
iniziali del verbale della conferenza, sono
rimaste oggetto delle valutazioni
contrapposte dell’amministrazione
provinciale e di quella comunale, senza che
tale contrapposizione fosse risolta dal
responsabile del procedimento con la
formulazione sintetica delle posizioni
prevalenti emerse in seno alla stessa, che
consentisse in definitiva di comprendere le
ragioni dell’autorizzazione conclusiva.
In tal modo, l’effetto di variante
automatica dello strumento urbanistico
sancito dall’art. 12 è stato utilizzato in
modo improprio per aggirare, senza alcuna
motivazione, le valutazioni svolte dal
Comune in seno alla conferenza di servizi,
finendo per vanificare la stessa utilità
della partecipazione comunale alla
conferenza medesima.
Alla luce di tali considerazioni, ritiene il
collegio che la censura in esame sia fondata
e vada accolta
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 21.12.2011 n. 1342 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: La cefalea non impedisce
di mandare il certificato. Sentenza del Tar
Lazio: legittimo il benservito alla
dipendente pubblica.
L'amministrazione dà il benservito al travet
specializzato nel «marcare visita». Il
bello, o se si vuole il brutto, è che
l'impiegata pubblica non comunica
tempestivamente le assenze dal servizio:
sostiene che la sua malattia le impedisce di
prevedere quando sarà assente dal servizio.
E allora giù contestazioni disciplinari,
multe e infine il licenziamento: legittimo,
stavolta, perché la dipendente dell'ente non
può invocare lo stato di necessità che
esonera il lavoratore di dare tempestiva
comunicazione al datore in caso di malattia.
La cefalea, per quanto grave e cronica, non
impedisce di alzare il telefono o di mandare
il certificato in ufficio.
È quanto emerge
dalla
sentenza
20.12.2011 n. 9940 della Sez. III-quater
del TAR Lazio-Roma.
Dipendente inadempiente.
Inutile per l'impiegata in rotta con
l'amministrazione sostenere che il diniego
del part-time richiesto al dirigente abbia
innescato un meccanismo di contrasto con
l'ente, sfociando nella sua recidiva. In
effetti la conversione del contratto da
tempo pieno a parziale non è affatto dovuta,
ma rientra nelle scelte organizzative
dell'amministrazione: non giova alla
licenziata eccepire che l'ente datore non
avrebbe tenuto conto delle precarie
condizioni di salute della dipendente; in
realtà la signora spesso e volentieri viene
meno ai suoi obblighi di comunicazione delle
assenze e risulta spesso oggetto di
provvedimenti disciplinari: l'incolpata ben
avrebbe potuto impugnare le sanzioni di
fronte al collegio arbitrale.
La malattia,
per quanto seria, non configura un fattore
ostativo tale da non consentire
l'adempimento degli oneri burocratici in
tema di malattia entro i termini del
regolamento. Nel frattempo la signora
accumula dieci giorni di sospensione dal
servizio in due anni:
inevitabile il licenziamento con preavviso.
A questo proposito il punto 7 dell'articolo
2 del codice disciplinare dispone che il
licenziamento con preavviso può essere
disposto «per violazioni di gravità tale da
compromettere gravemente il rapporto di
fiducia con l'Amministrazione e da non
consentire la prosecuzione del rapporto di
lavoro, tra queste sono da ricomprendersi in
ogni caso: a) recidiva, nel biennio, in
una mancanza tra quelle previste nel
medesimo comma, che abbia comportato
l'applicazione della sanzione di dieci
giorni di sospensione dal servizio e dalla
retribuzione». Inevitabile il recesso
dell'ente. Spese di giudizio compensate
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI: Commissione
di gara - Competenza tecnica - Valutazione
di adeguatezza - Non implica esperienze
specifiche in capo ad ogni commissario -
Necessità di una valutazione dell'organo nel
suo complesso.
Il giudizio di adeguatezza della Commissione
sotto lo specifico profilo della competenza
tecnica necessaria, come la giurisprudenza
ha avuto modo di rilevare, non implica che
ciascun Commissario debba possedere tutte le
cognizioni rilevanti in relazione allo
specifico oggetto dell'appalto, ma che tale
competenza debba risultare dall'insieme
delle esperienze di ciascun componente e
come tale riferibile all'organo nel suo
complesso
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 29.11.2011 n.
2952 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Offerta
economicamente più vantaggiosa - legittimità
dell'esclusione delle offerte che non
raggiungono un punteggio tecnico minimo
(c.d. clausola di sbarramento) -
Contraddittorio non necessario se non
previsto dalla lex specialis.
Con riferimento all'aggiudicazione con il
sistema dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, la giurisprudenza ha ritenuto
legittime le clausole del bando che
prevedono la valutazione dell'offerta
economica solo in caso di un punteggio
minimo raggiunto dall'offerta, considerata
la rilevanza che può avere l'aspetto della
qualità tecnica per la amministrazione
aggiudicatrice (cfr. Consiglio Stato, sez.
V, 03.03.2004, n. 1040, che ha affermato la
legittimità di una clausola di sbarramento,
prevista nel capitolato speciale per una
gara di appalto per l'aggiudicazione di un
servizio all'offerta economicamente più
vantaggiosa, che non consente la valutazione
del prezzo nel caso di offerte che sotto il
profilo qualitativo non raggiungano un
punteggio minimo; TAR Lazio, Roma, Sez. III,
26.01.2009, n. 630).
Una volta determinato lo standard cui
l'offerta deve conformarsi, il mancato
raggiungimento dei livelli minimi prescritti
è, infatti, elemento di per sé legittimante
l'esclusione del concorrente senza necessità
di instaurare alcun confronto in
contraddittorio se non previsto dalle norme
di gara
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 18.11.2011 n.
2802 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
1. Art. 120, comma 5, c.p.a. -
Appalti di servizi - Termine dimidiato a 30
giorni - Applicabilità anche al ricorso
incidentale.
2. Art. 17, comma 3, L. 555/1990 - Divieto
di partecipazione alle gare in caso di
intestazioni fiduciarie - Art. 1, comma 1,
DPCM 187/1997 - Obbligo informativo delle
intestazioni fiduciarie prima della stipula
del contratto - Art. 9, comma 63, L.
415/1998 - Solo obbligo di comunicare
l'identità del socio fiduciario per le
fiduciarie autorizzate.
1.
Ai sensi dell'art. 120, comma 5, c.p.a. è
dimidiato il termine per la proposizione di
ricorso e motivi aggiunti ai fini
dell'impugnazione degli atti concernenti le
procedure di affidamento di servizi
pubblici: esso è perciò pari a 30 giorni,
così sottraendosi all'eccezione introdotta
dall'art. 119, comma 2, c.p.a. In
giurisprudenza è discusso se il termine
dimidiato sia applicabile anche alla
proposizione del ricorso incidentale, che
non viene espressamente menzionato dall'art.
120, comma 5 (in senso favorevole, Tar
Catania n. 1475 del 2011; in senso
contrario, Tar Lecce n. 113 del 2011).
Il Tribunale è dell'opinione positiva: da un
punto di vista letterale, proprio il
confronto con l'art. 119, comma 2, ove sono
menzionati "ricorso introduttivo" e "ricorso
incidentale" dimostra che la più ampia
espressione "ricorso" contenuta senza
altra specificazione nell'art. 120, comma 5,
è idonea a comprendere l'uno e l'altro.
2.
L'art. 17, comma 3, della L. n. 55 del 1990,
recante disposizioni in materia di
prevenzione della delinquenza di tipo
mafioso e di altre gravi forme di
manifestazione di pericolosità sociale, ha
vietato la partecipazione alle gare
concernenti opere pubbliche in caso di
intestazione fiduciaria: è palese la
finalità della norma, la quale intende
prevenire l'accesso al remunerativo
meccanismo di aggiudicazioni pubbliche di
soggetti criminali, mascherati dietro un
mandatario (Tribunale civile di Milano,
sentenza 13.02.2008).
Sulla base dell'art. 17, comma 3, è stato
poi emanato il regolamento ivi previsto con
il D.P.C.M. 11.05.1997, n. 187, il cui art.
1, comma 1, ha posto un obbligo informativo
a carico delle società aggiudicatarie, "prima
della stipula del contratto",
concernente le intestazioni fiduciarie,
collegato all'onere stabilito dal successivo
art. 4, comma 1, di far cessare entro 90
giorni l'intestazione, al fine di poter
legalmente contrarre con la P.A. In seguito,
l'art. 9, comma 63, della L. n. 415 del 1998
ha allentato il divieto originario,
distinguendo la posizione delle fiduciarie
autorizzate ai sensi della L. n. 1966 del
1939: in tal caso, permane il solo obbligo
di comunicare l'identità del socio
fiduciario entro 30 giorni dalla richiesta a
tal fine formulata dall'Amministrazione.
In giurisprudenza si è perciò già rilevato
che, allo stato, l'art. 17, comma 3, prevede
due differenti situazioni: un divieto
assoluto di intestazione fiduciaria, che
comporta l'immediata esclusione dalla gara;
un mero obbligo comunicativo, susseguente
all'aggiudicazione e da assolversi,
pertanto, a seguito di essa e prima della
stipula del contratto, nel rispetto del
termine di legge (Cons. Stato, sez. V, n.
4010 del 2002)
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 18.11.2011 n.
2797 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Ferie non godute: diritto
sopravvive al trasferimento per mobilità.
Il trasferimento per
mobilità interna presso una pubblica
amministrazione non comporta novazione del
rapporto di lavoro.
In tal caso si avrà solo sostituzione del
datore di lavoro con la conseguenza che il
lavoratore trasferito conserverà ogni suo
diritto maturato presso il precedente
datore, ivi comprese le ferie non godute.
Così il TRIBUNALE di Brindisi, nella sezione
lavoro, con la
sentenza 10.11.2011 n. 4190.
Il prestatore di lavoro ha diritto ad
usufruire presso la pubblica amministrazione
di destinazione, delle ferie maturate e non
godute presso quella di provenienza.
Anche la prescrizione è stata interrotta;
nella decisione che si annota il Tribunale
ha rigettato anche l'eccezione di
prescrizione quinquennale sollevata da parte
convenuta, poiché la ricorrente ha
interrotto la decorrenza del termine, con la
presentazione della richiesta del godimento
delle ferie.
Vi è anche di più per la prova del diritto
alle ferie, ossia la confessione del datore
di lavoro; il giudice ha riconosciuto
provato il diritto alla ferie anche perché
la ricorrente ha dimostrato i fatti
costitutivi, mediante produzione del
documento con efficacia confessoria
(proveniente direttamente dal datore di
lavoro) in cui veniva indicato espressamente
il periodo maturato dal lavoratore.
Il Tribunale ha, quindi, accolto il ricorso,
accertando il diritto del godimento delle
ferie maturate e non godute (link a
www.altalex.com). |
APPALTI: Direttiva
2004/18/CE - Art. 68 D.lgs. 163/2006 -
Necessità di assicurare una concorrenza
effettiva tramite la partecipazione del
maggior numero possibile di offerenti -
Necessità per le stazioni appaltanti di
specificare le proprie esigenze in termini
di prestazioni - Sussiste - Art. 68
costituisce norma imperativa e di
eterointegrazione.
Il comma 4 dell'art. 68 D.Lgs. n. 163/2006
prevede che "quando si avvalgono della
possibilità di fare riferimento alle
specifiche di cui al comma 3, lettera a), le
stazioni appaltanti non possono respingere
un'offerta per il motivo che i prodotti e i
servizi offerti non sono conformi alle
specifiche alle quali hanno fatto
riferimento, se nella propria offerta
l'offerente prova in modo ritenuto
soddisfacente dalle stazioni appaltanti, con
qualsiasi mezzo appropriato, che le
soluzioni da lui proposte ottemperano in
maniera equivalente ai requisiti definiti
dalle specifiche tecniche".
Parimenti, per il successivo comma 7 del
medesimo articolo, quando si avvalgono della
facoltà, prevista al comma 3, di definire le
specifiche tecniche in termini di
prestazioni o di requisiti funzionali, le
stazioni appaltanti non possono respingere
un'offerta di lavori, di prodotti o di
servizi conformi ad una norma nazionale che
recepisce una norma europea, ad
un'omologazione tecnica europea, ad una
specifica tecnica comune, ad una norma
internazionale o ad un riferimento tecnico
elaborato da un organismo europeo di
normalizzazione se tali specifiche
contemplano le prestazioni o i requisiti
funzionali da esse prescritti. Per il
successivo comma, in tale ipotesi, nella
propria offerta l'offerente è tenuto a
provare in modo ritenuto soddisfacente dalle
stazioni appaltanti e con qualunque mezzo
appropriato, che il lavoro, il prodotto o il
servizio conforme alla norma ottempera alle
prestazioni o ai requisiti funzionali
prescritti.
Il predetto articolato è diretta espressione
della normativa comunitaria, che in sede di
emanazione della Direttiva 2004/18/CE, posta
a base del codice dei contratti, ha
significativamente innovato la materia
rispetto al passato, sul rilievo che le
disposizioni precedentemente applicabili
obbligavano i committenti pubblici a far
riferimento a taluni strumenti
esaustivamente elencati, ma che
l'applicazione di tali disposizioni
conduceva a situazioni limitative della
scelta del committente all'acquisto dei soli
prodotti conformi alla norma tecnica. E'
pertanto apparso necessario semplificare
tali disposizioni, privilegiando un
approccio che consenta di assicurare una
concorrenza effettiva tramite la
partecipazione del maggior numero possibile
di offerenti, permettendo ai committenti
pubblici anche di specificare le proprie
esigenze in termini di prestazioni.
Nella Direttiva pertanto la definizione
delle specifiche tecniche tramite rinvio ad
una certa normativa è stato posto in termini
meramente alternativi rispetto alla facoltà
di indicare determinate "prestazioni"
o "requisiti funzionali", senza che
il richiamo a questi ultimi possa ritenersi
eccezionale o derogatorio (v. il nuovo
articolo 23, comma 2 secondo cui "le
specifiche tecniche devono consentire pari
accesso agli offerenti e non devono
comportare la creazione di ostacoli
ingiustificati all'apertura degli appalti
pubblici alla concorrenza").
L'art. 68 del codice dei contratti
costituisce, in ogni caso, una norma
imperativa, per la quale opera il principio
di eterointegrazione, trovando applicazione
a prescindere dal suo mancato riferimento
nella "lex specialis" (TAR Sicilia
Palermo, Sez. I, 15.03.2010 n. 2932). Anche
se le norme destinate a disciplinare la gara
hanno infatti valore di "lex specialis",
le medesime devono essere integrate da
quelle imperative, ai sensi dell'art. 1339
c.c. (TAR Campania Napoli, Sez. I,
11.01.2001 n. 116)
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 03.11.2011 n.
2633 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gara
pubblica - Partecipazione da parte di
associazioni di volontariato - Legittimità -
Condizioni - Esercizio di un'attività
economica.
Con riferimento alla possibilità che le
associazioni di volontariato partecipino a
gare pubbliche, la Corte di Giustizia CE ha
chiarito che le disposizioni della direttiva
2004/18 devono essere interpretate nel senso
di consentire a soggetti che non perseguono
preminente scopo di lucro, che non
dispongono della struttura organizzativa di
un'impresa e che non assicurano una presenza
regolare sul mercato, di partecipare ad un
appalto pubblico di servizi (sentenza
23.12.2009, C 305/08).
In senso conforme si è espresso anche il
Consiglio di Stato che, con indirizzo cui si
aderisce, ha precisato che "l'assenza di
fini di lucro non esclude che le
associazioni di volontariato possano
esercitare un'attività economica, né rileva
la carenza di iscrizione alla Camera di
Commercio o al registro delle imprese, che
non costituiscono requisito indefettibile di
partecipazione alle gare di appalto (Cons.
St. 4236/2009) né, nella fattispecie, ciò
era espressamente stabilito dalle norme di
gara" (Cons. St., Sez. V, 26.08.2010, n.
5956).
Il connotato rilevante ai fini dell'odierna
decisione tesa a sancire la legittimità o
meno della partecipazione di un'associazione
di volontariato, non è, pertanto, la
ricorrenza in capo al soggetto di uno "scopo
di lucro" ma l'esercizio da parte del
partecipante alla gara, di un'attività
definibile come "economica":
quest'ultima certamente non esclusa in
difetto del primo
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 03.11.2011 n.
2614 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gare
pubbliche - Ricorso giurisdizionale - Per
l'annullamento dell'aggiudicazione e, in
subordine, dell'intera gara -
Inammissibilità.
Laddove sia impugnato l'esito di una
procedura di gara, non può essere
soddisfatta la pretesa del ricorrente di
vedere esaminata con precedenza la censura
che conduca al conseguimento
dell'aggiudicazione e, solo in caso di
mancato accoglimento, di ottenere che venga
preso in considerazione un motivo di
illegittimità riguardante l'intera
procedura; ciò in quanto non si può
conseguire un'aggiudicazione a seguito di
una selezione la cui procedura sia
integralmente viziata (cfr., Cons. Stato,
sez. V, 07.07.2011, n. 4052; id. 06.04.2009,
n. 2143)
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 03.11.2011 n.
2607 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Ufficiali
di Polizia giudiziaria - Attività di
indagine dirette dal P.M. - Rapporto di
subordinazione funzionale con l'A.G. -
Sussiste - Condotta dell'ufficiale che abbia
informato direttamente il P.M. in merito ad
eventuali difficoltà organizzative -
Legittima - Obbligo dell'ufficiale di
informare previamente il proprio dirigente
responsabile - Non sussiste.
L'ufficiale di polizia giudiziaria,
incaricato dal P.M. di attività di indagine,
si trova in un rapporto di subordinazione
funzionale con l'Autorità giudiziaria, che
si affianca al rapporto di subordinazione
gerarchica con il corpo di appartenenza. Per
tale ragione, egli è tenuto ad informare il
P.M. di ogni difficoltà che possa insorgere
nell'espletamento dell'attività delegata e,
dunque, anche delle difficoltà organizzative
che gli siano state prospettate dai propri
dirigenti.
Non ricorre, quindi, alcun profilo di
illecito disciplinare nell'ipotesi in cui
l'ufficiale abbia reso edotto direttamente
P.M. in merito alla situazione organizzativa
critica dell'ufficio con riferimento
all'indagine in corso (senza, cioè,
previamente riferire al proprio dirigente
responsabile)
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 03.11.2011 n.
2604 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti
- Ordinanza di sgombero - Emessa nei
confronti del proprietario di un capannone
concesso in locazione - Motivazione del
provvedimento - Indicazione dei profili di
responsabilità del proprietario -
Necessaria.
È illegittima l'ordinanza di sgombero di
rifiuti emanata nei confronti del
proprietario di un capannone concesso in
locazione qualora la stessa non rechi alcuna
motivazione -né indicazione in fatto- che
consenta di attribuire al proprietario un
concorso, sia pure per culpa in vigilando,
nel comportamento illecito tenuto dal
conduttore (Nella specie, l'ordinanza de
qua era stata adottata in forza dell'art.
14, D. Lgs. 05.02.1997, n. 22 che prevedeva
l'obbligo solidale del proprietario di
rimuovere i rifiuti, purché ne sussistesse
il dolo o la colpa)
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 03.11.2011 n.
2602 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1.
Contratti della P.A. - Gara - Offerte -
Verifica di anomalia - Termini per il
deposito delle giustificazioni - Carattere
ordinatorio.
2. Contratti della P.A. - Verifica di
anomalia - Obbligo di motivazione analitica
- Sussiste solo nel caso in cui la stazione
appaltante esprima un giudizio negativo.
1.
I termini per il deposito delle
giustificazioni richieste in sede di
verifica dell'anomalia delle offerte non
sono perentori (cfr., TAR Lazio Roma, Sez.
III, 09.12.2010 n. 35952).
2.
La verifica di anomalia di un'offerta
richiede una motivazione analitica solamente
nei casi in cui essa non sia giustificata da
elementi congrui e che quindi si concluda
negativamente per gli interessati.
Nel caso in cui la valutazione si esaurisca
in un giudizio di congruità, non è
necessario che il provvedimento finale sia
sorretto da una motivazione articolata che
dia conto delle singole giustificazioni
corredandole con apprezzamenti ulteriori,
essendo sufficiente anche una motivazione
espressa per relationem alle
giustificazioni, quando esse siano perspicue
(cfr., TAR Liguria Genova, sez. II,
20.04.2011, n. 645)
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 27.10.2011 n.
2583 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Responsabilità
extracontrattuale - Appalto - Gara - Danno
da mancata aggiudicazione - Dimostrazione -
Mancato utilizzo dei mezzi e della
manodopera per lo svolgimento di altre
commesse - Necessaria.
Il danno derivante ad un'impresa dal mancato
affidamento di un appalto è quantificabile
nella misura dell'utile non conseguito, solo
se e in quanto l'impresa possa documentare
di non aver potuto utilizzare mezzi e
maestranze (lasciati disponibili) per
l'espletamento di altri servizi.
Mentre quando tale dimostrazione non sia
stata offerta è da ritenere che l'impresa
possa avere ragionevolmente riutilizzato
mezzi e manodopera per lo svolgimento di
altri, analoghi servizi, così vedendo in
parte ridotta la propria perdita di utilità,
con conseguente riduzione in via equitativa
del danno risarcibile (cfr., Cons. Stato, V,
24.10.2002, n. 5860; Cons. Stato, Sez. VI,
09.11.2006, n. 6607)
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 21.10.2011 n.
2524 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratti
della P.A. - Partecipazione alla gara - Art.
48, comma 1, D. Lgs. 12 aprile 2006, n. 163
- Cauzione provvisoria - Incameramento da
parte della P.A. - Finalità.
L'incameramento della cauzione provvisoria
da parte dell'Amministrazione, prevista
dall'art. 48, comma 1, D.Lgs. 12.04.2006, n.
163, costituisce, in primo luogo, una
garanzia del rispetto dell'ampio patto
d'integrità cui si vincola chi partecipa a
gare pubbliche. In secondo luogo, è
congruente rispetto alla funzione di
garantire la serietà e l'affidabilità
dell'offerta, sanzionando la violazione
dell'obbligo di diligenza gravante
sull'offerente, mediante l'anticipata
liquidazione dei danni subiti dalla stazione
appaltante, tenuto conto che l'operatore
economico, con la domanda di partecipazione,
sottoscrive e si impegna ad osservare le
regole della relativa procedura delle quali
ha, dunque, contezza.
Inoltre, è preordinato ad assicurare il
regolare e rapido espletamento della
procedura e la tempestiva liquidazione dei
danni prodotti dall'alterazione della stessa
a causa della mancanza dei requisiti da
parte dell'offerente e, quindi, la norma è
strumentale rispetto all'esigenza di
garantire l'imparzialità e il buon andamento
dell'azione amministrativa (cfr., Corte
Cost., 13.07.2011, n. 211; sul punto v.
anche, ex multis, TAR Sardegna, sez.
I, 17.06.2011, n. 594; TAR Sicilia Palermo,
sez. III, 18.03.2011, n. 504)
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 21.10.2011 n.
2513 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Contratti della P.A. - Appalto -
Gara - Provvedimento di esclusione -
Determina una lesione attuale e concreta -
Conseguenza - Onere di impugnazione
immediato - Sussiste - Anche in pendenza
della procedura.
Il provvedimento di esclusione dalla gara
disposto nei confronti di un'impresa
concorrente determina un definitivo arresto
procedimentale a danno dell'interessata e,
quindi, una lesione immediata e concreta del
proprio interesse, che le impone di
ricorrere subito contro di esso, senza
attendere l'esito della gara
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 28.09.2011 n.
2314 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1.
Contratti della P.A. - Appalto - Gara - Fase
di prequalifica - Finalità.
2. Avvalimento - Onere di documentazione
nella fase di prequalifica - In presenza di
clausole del bando che prevedano una
semplice autodichiarazione - Non sussiste.
3. Contratti della P.A. - Appalto - Gara -
Avvalimento - Contratto - Libertà di forme -
Sussiste - Ammissibilità di qualunque mezzo
di prova idoneo.
1.
La fase di prequalifica è finalizzata alla
valutazione in merito alla sussistenza o
meno dei requisiti tecnici e morali di
accesso alla procedura e a far conoscere
all'Amministrazione la disponibilità del
mercato, per cui il criterio interpretativo
delle indicazioni di gara deve essere
indirizzato a favorire la più ampia
partecipazione alla gara.
2.
Non è richiesta, nella fase di prequalifica,
la documentazione dei requisiti da parte
delle imprese concorrenti, qualora il bando
preveda una semplice dichiarazione del loro
possesso. (Fattispecie in tema di
dichiarazione di avvalimento ex art. 49,
comma 2, lett. g), D.Lgs. n. 163/2006)
(cfr., Cons. Stato, Sez. IV, ord.
22.07.2008, n. 3886).
3.
L'ordinamento non prevede uno schema o un
tipo specifico di contratto di avvalimento
tra imprese. Questo, perciò, conformemente
alla lettera f), del comma 2, dell'art. 49,
D.Lgs. n. 163/2006 rientra tra gli atti da
presentare a cura dell'impresa concorrente
ad una gara pubblica d'appalto, e può
rivestire qualunque forma -anche non
documentale- ed essere provato in qualunque
modo idoneo
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 14.09.2011 n.
2217 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratti
della P.A. - Appalto di servizi - Bando -
Clausola attributiva dello ius variandi alla
stazione appaltante - Legittima - Condizioni
- Esigenze sopravvenute.
Si deve ritenere legittima, anche negli
appalti di servizi, l'apposizione di una
clausola del disciplinare che permetta alla
stazione appaltante di modificare l'oggetto
del contratto, purché non ne venga alterata
in modo assoluto la natura.
Nel contempo, per assicurare sul piano del
diritto comunitario che la variazione non
divenga uno strumento di elusione della
libertà di concorrenza affidato
all'esclusiva discrezionalità del soggetto
pubblico è necessario che lo ius variandi
sia impiegato per far fronte ad esigenze
sopravvenute alla predisposizione del
regolamento di gara (cfr., TAR Lombardia
Milano, Sez. I, 14.09.2011, n. 2215)
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 14.09.2011 n.
2214 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratti
della P.A. - Appalto - Ius variandi della
stazione appaltante - Sussiste -
Limitazioni.
Sulla base di un bilanciamento degli
interessi in gioco deve ritenersi che:
a) alla stazione appaltante pubblica spetta
lo ius variandi, purché esso sia
contenuto, sulla base della legge o comunque
del regolamento di gara, entro limiti
quantitativi non manifestamente
sproporzionati e perciò stesso contrari al
diritto dell'Unione;
b) non si può escludere che, per valutare
l'identità tra oggetto della gara e oggetto
del contratto, a seguito di variazioni, si
debba tener conto anche delle varianti in
diminuzione, che a propria volta, per quanto
non onerose economicamente, possano mutare
il volto reale dell'affidamento alla luce
del diritto dell'Unione;
c) la variazione, in conformità al diritto
comune, si apprezza sul piano quantitativo,
con riguardo agli effetti che essa produce
sul corrispettivo pattuito;
d) in ogni caso, non sono ammesse varianti
qualitative, pur contenute nei limiti di cui
sopra, se si prova che esse stravolgano la
natura dell'opera (cfr. art. 1661, comma 2,
c.c.), ovvero operino su requisiti
contrattuali introdotti nel regolamento di
gara dalla stazione appaltante allo scopo di
circoscrivere illegittimamente la platea dei
concorrenti, e con l'animo di rinunciarvi
successivamente;
e) le circostanze che giustificano lo ius
variandi debbono manifestarsi
successivamente alla predisposizione del
regolamento di gara (cfr., TAR Lombardia
Milano, Sez. I, 14.09.2011, n. 2215; TAR
Lombardia Milano, Sez. I, 14.09.2011, n.
2214)
(massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 14.09.2011 n.
2213 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 13.02.2012 |
ã |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Guida per l'installazione degli
impianti fotovoltaici - Edizione anno 2012
(Ministero dell'Interno,
nota 07.02.2012 n.
1324 di prot.).
---------------
Dai VV.F. la guida per
l'installazione degli impianti fotovoltaici.
Gli impianti fotovoltaici non rientrano fra
le attività soggette ai controlli di
prevenzione incendi.
Tuttavia, l'installazione di un impianto
fotovoltaico, a seconda dei casi, potrebbe
comportare un aggravio del preesistente
livello di rischio di incendio
dell'attività.
L’installazione di un impianto fotovoltaico
a servizio di un’attività soggetta ai
controlli di prevenzione incendi richiede
gli adempimenti previsti dal nuovo
regolamento antincendio (D.P.R. 151/2011).
I Vigili del Fuoco hanno pubblicato, con
Lettera Circolare 1324/2012, la nuova guida
per l’installazione degli impianti
fotovoltaici nelle attività soggette ai
controlli di prevenzione incendi.
La guida, redatta da un gruppo di lavoro
costituito da esperti del settore elettrico
ed approvata dal C.C.T.S., recepisce i
contenuti del D.P.R. 151/2011 e tiene conto
delle varie problematiche emerse in sede
periferica a seguito delle installazioni di
impianti fotovoltaici.
Questa guida sostituisce quella emanata con
nota prot. n. 5158 del 26.03.2010. La guida
è così strutturata:
● Premessa
● Campo di applicazione
● Requisiti tecnici
● Documentazione
● Verifiche
● Segnaletica di sicurezza
● Salvaguardia operatori VV.F
● Impianti esistenti (commento tratto da
www.acca.it). |
CORTE DEI
CONTI |
SEGRETARI COMUNALI:
Per i segretari-direttori
un taglio basta e avanza. Sezioni riunite:
niente decurtazione per l'indennità da dg.
Ai segretari comunali cui siano state
conferite le funzioni di direttore generale
non si applica il taglio della retribuzione
del 10% prevista dall'articolo 6, comma 3,
del dl 78/2010, per tutti coloro che
rivestano incarichi pubblici.
Lo chiarisce definitivamente la Corte dei
conti, sezioni riunite, con la
deliberazione 03.02.2012 n. 5.
Dunque, per i
segretari-direttori generali (figura che
progressivamente si restringe ai soli comuni
con oltre 100.000 abitanti e alle province)
è operante solo un taglio stipendiale. Si
tratta di quello del 5% sulla retribuzione
eccedente i 90.000 euro, o del 10% sulla
retribuzione superiore ai 150.000 euro,
previsto dall'articolo 9, comma 2, sempre
del dl 78/2010.
Alla limatura stipendiale dell'articolo 9,
comma 2, del decreto, pertanto, non è
legittimo si aggiunga anche quella prevista
dall'articolo 6, comma 3.
Le sezioni riunite spiegano molto
chiaramente le motivazioni del loro parere.
A ben vedere, al segretario comunale
incaricato delle funzioni di direttore
generale spetta, secondo quanto prevede la
contrattazione collettiva, un'eventuale
compenso, che si aggiunge alle retribuzioni
di posizione e risultato connesse alle
funzioni di segretario.
Le sezioni riunite non hanno dubbio alcuno
nell'affermare che l'indennità connessa
all'incarico di direzione generale altro non
è se non un corrispettivo avente natura
retributiva, sebbene di portata ampiamente
variabile, come in precedenza sancito dalle
sezioni riunite in sede giurisdizionale,
sentenza n. 2/2009/QM.
Di conseguenza, la remunerazione per le
funzioni di direttore generale non ha nulla
a che vedere con i compensi per i titolari
«di incarichi qualsiasi tipo» di cui si
occupa l'articolo 6, comma 3, del dl
78/2010. Tale ultima norma, infatti, si
riferisce ad incarichi non connessi a
prestazioni di lavoro subordinato e, dunque,
non remunerati con compensi aventi natura
retributiva.
Come è noto, in precedenza la sezione
regionale di controllo della Lombardia col
parere 27.05.2011, n. 315 in merito
all'applicabilità dell'articolo 6, comma 3,
ai segretari comunali e direttori generali
aveva espresso un avviso diametralmente
opposto, a termini del quale l'espressione
«incarichi di qualsiasi tipo» si dovesse
riferire ad ogni genere di incarico, sebbene
rientrante nelle prestazioni lavorative
subordinate, regolate da contratti di
lavoro. Sicché al contributo di solidarietà
disciplinato dall'articolo 9, comma 2, si
sarebbe aggiunto anche il taglio del 10%.
La sezione Lombardia aveva successivamente
rivisto in senso diametralmente opposto la
propria posizione, col parere 28.09.2011, n. 495. Ma, nel frattempo, altre
sezioni regionali avevano abbracciato la
visione restrittiva inizialmente proposta.
Con la conseguenza che molte amministrazioni
locali hanno applicato il duplice taglio ai
segretari-direttori generali o hanno
congelato quota parte delle loro
retribuzioni.
Col parere delle sezioni riunite ogni
equivoco o dubbio deve ritenersi risolto.
Compreso il dubbio se l'articolo 6, comma 3,
possa applicarsi ai dirigenti o titolari di
posizioni organizzative, soggetti ai quali
spetta una retribuzione di posizione
connessa ad un incarico.
È evidente che a maggior ragione per questi
soggetti il taglio del 10% non è operante,
dovendosi applicare solo l'articolo 9, comma
2, del d.l. 78/2010 (articolo ItaliaOggi
del 10.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Partecipate, non si torna
indietro. Gli enti non possono reinternalizzare
i servizi e assumere. Per la Corte dei conti
non è possibile immettere nei ruoli comunali
il personale delle società.
Gli enti locali non possono reinternalizzare
servizi affidati in precedenza a società
partecipate e conseguentemente assumere il
personale dei tali società e in deroga ai
limiti di spesa per il personale previsti
dalle norme.
Le
deliberazioni 02.02.2012 n. 3 e
03.02.2012 n. 4 della Corte
dei conti, sezioni riunite chiudono la porta
alla possibilità che comuni e province, una
volta scelto di rinunciare a gestire i
servizi mediante partecipate, possano
immettere nei loro ruoli il personale da
queste, nel frattempo assunto.
Le sezioni riunite sottolineano come, in
questi ultimi anni, le disposizioni
normative abbiano creato una linea di vero e
proprio disfavore dell'ordinamento verso
l'affidamento dei servizi locali a società
partecipate. Non solo perché risulta più
complesso il sistema per giungere alle
esternalizzazioni, ma, in particolare,
perché per gli enti con popolazione
inferiore ai 30.000 abitanti è espressamente
previsto l'obbligo di sciogliere le società
da essi create. In più, le più recenti
disposizioni introdotte dalla legge 111/2011
hanno segnato ormai la necessità di
comprendere la spesa del personale delle
partecipate entro quella dell'ente dominus e
di estendere alle società le regole per il
patto di stabilità.
Nei fatti, viene a mancare nei soggetti
privati costituiti dagli enti locali per
gestire servizi pubblici economici o anche
solo per demandare loro lo svolgimento di
attività di supporto, il requisito della
maggiore flessibilità ed agilità nella
gestione, dipendente dall'applicazione delle
più semplici regole gestionale proprie del
diritto privato. La contabilità delle
società è destinata ad essere sempre più
influenzata dalle regole pubblicistiche,
mentre per assumere ed acquisire appalti
ormai debbono sostanzialmente applicare le
medesime regole pubbliche proprie delle
amministrazioni.
Non è, allora, un caso, che molti enti
stiano pensando di riportare al proprio
interno la gestione diretta di servizi prima
esternalizzati. Ma, le norme vigenti che
pongono tetti alle spese di personale, come
l'obbligo di riduzione annuale del tetto
complessivo, il vincolo a rispettare un
rapporto tra spese di personale e spese
correnti non superiore al 50% e il tetto
alle assunzioni pari al 20% del costo delle
cessazioni, impediscono che alla
reinternalizzazione corrisponda il
trasferimento all'ente locale di personale
assunto direttamente dalla società
affidataria di servizi.
Le ragioni di salvaguardia della finanza
pubblica, comunque, non sono le uniche ad
impedire l'immissione del personale delle
società nei ruoli pubblici, secondo le
sezioni riunite. La delibera 4/2012
evidenzia l'impossibilità di derogare al
principio costituzionale del pubblico
concorso, cosa che avverrebbe se si
ammettesse l'assunzione diretta del
personale assunto dalle società disciolte,
specie se selezionato con procedure poco
compatibili con i concorsi.
Né per effetto della reinternalizzazione dei
servizi possono operare le disposizioni
dell'articolo 31 del dlgs 165/2001 e
dell'articolo 2112 del codice civile, i
quali ammettono il passaggio diretto dei
dipendenti nel caso di cessione di ramo
d'azienda solo se l'ente pubblico
esternalizza, non nel caso inverso.
Le sezioni riunite non si mostrano, invece,
contrarie alla riassunzione del personale a
suo tempo già in servizio presso l'ente e
trasferito alla società all'epoca dell'
esternalizzazione. Infatti, si tratta di
personale essendo transitato dai ruoli
dell'ente locale, si presume sia stato
mediante concorso.
Tale posizione non appare, però, del tutto
condivisibile e coerente. Infatti, gli enti
che avessero, come dovuto, ridotto le
dotazioni organiche e i fondi per la
contrattazione in conseguenza delle
esternalizzazioni vedrebbero aumentata la
spesa di personale oltre i limiti e vincoli
previsti dalla legge. In secondo luogo, se
il trasferimento al momento
dell'esternalizzazione fosse stato
effettuato in modo corretto, il rapporto di
lavoro pubblico si sarebbe risolto e i
dipendenti sarebbero dovuti transitare verso
una regolazione del rapporto di lavoro
totalmente privatistica, tale da impedire
radicalmente una reintegrazione nell'ente di
appartenenza. Si tratta, a quel punto, di
lavoratori privati, soggetti alla disciplina
ed alle tutele (mobilità, cassa
integrazione, disoccupazione) applicabile
alle aziende private.
In ogni caso, le sezioni riunite non
nascondono la difficoltà rilevantissima che
incontrano gli enti locali intenzionati a
reinternalizzare le funzioni. Anche laddove
si riuscisse, infatti, a dimostrare una
maggiore economicità della gestione diretta,
i rischi evidenti della crescita della spesa
di personale finiscono, in assenza di una
legislazione più chiara, per sconsigliare le
reinternalizzazioni. E ciò tenendo conto, si
deve aggiungere, dell'impatto occupazionale
conseguente da tali decisioni (articolo ItaliaOggi
del 10.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
NEWS |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Pa, via alla cura anti-ritardi.
Commissari e sanzioni ai funzionari se la
procedura è troppo lenta. Semplificazioni.
Le prime regole operative dopo la
pubblicazione in «Gazzetta» (Dl 5/2012).
La cura «anti-ritardi» per la burocrazia, lo
snellimento delle pratiche con la nuova
spinta alla Scia e le novità su documenti e
assunzioni partono ufficialmente oggi. Con
l'entrata in vigore del decreto sulle
semplificazioni varato in via definitiva
venerdì scorso dal consiglio dei ministri e
pubblicato ieri in «Gazzetta Ufficiale» (è
il Dl 5/2012) dopo l'esame puntuale del
Quirinale e la firma del capo dello Stato,
partono davvero i primi ingredienti della
ricetta che, insieme al decreto
liberalizzazioni che ora impegna il
Parlamento, dovrebbe aiutare la ripresa del
nostro Pil oggi in sofferenza.
Un gruppo consistente di norme ha bisogno di
decreti e altri provvedimenti attuativi, per
disciplinare per esempio il cambio di
residenza in tempo reale o l'unificazione
delle autorizzazioni ambientali, ma molte
regole partono subito, senza bisogno di
passaggi ulteriori.
Tra queste, una posizione di spicco va senza
dubbio assegnata alla cura «anti-ritardi»,
che anche per il suo valore "strategico"
occupa il primo articolo del decreto
pubblicato ieri. Le procedure portate a
termine oltre i tempi previsti da leggi o
regolamenti, o quelle che addirittura
sprofondano nelle sabbie mobili fino a
produrre un silenzio-inadempimento,
incontrano con il nuovo decreto una doppia
penalità. La prima è organizzativa, e porta
alla possibile diffusione di una serie di
"commissariamenti" in cui i vertici delle
amministrazioni sostituiscono i dirigenti e
i funzionari che guidano le strutture
ritardatarie.
I «sostituiti» si vedono
macchiata la pagella che riporta i dati
sulle loro performance, sulla cui base viene
distribuita la retribuzione di risultato, e
possono andare incontro alla responsabilità
amministrativa e a quella
amministrativo-contabile. La sanzione,
insomma, punta dritta sul portafoglio dei
dirigenti o funzionari responsabili, con
conseguenze potenziali ancora più pesanti
quando l'inerzia dell'amministrazione
produce un ricorso in via amministrativa
(nella nuova disciplina la tutela contro i
silenzi della Pa è disciplinata dal Codice
del diritto amministrativo scritto nel Dlgs
104/2010): se il ricorso ha successo, la
sentenza passata in giudicato viene girata
in automatico alla Corte dei conti, che può
quindi procedere per i profili di competenza
(danno erariale causato da dolo o colpa
grave).
Un'ultima sanzione è d'immagine, e
costringe l'ufficio ritardatario a
rilasciare i documenti con l'indicazione dei
tempi previsti dalla legge e di quelli, più
lunghi, utilizzati in concreto per portare a
dama il provvedimento. Sempre sul fronte
della burocrazia, cambiano le scadenze dei
documenti, che vanno a coincidere con il
compleanno del titolare, e viene portata a
dieci anni la validità delle tessere di
riconoscimento (con fotografia) rilasciate
dalle Pubbliche amministrazioni.
L'entrata in vigore del decreto porta con sé
anche la riforma dei controlli, che amplia
gli spazi per il revisore unico sia nelle
Srl sia nelle Spa a scapito dei collegi (gli
attuali, però, rimangono in carica fino alla
scadenza). Nelle università, cadute le
previsioni sul riordino del Cun e sui limiti
alla partecipazione dei professori alle
commissioni di reclutamento, l'entrata in
vigore del provvedimento porta con sé come
primi effetti lo stop alla possibilità di
affidare attività di tutoraggio o didattica
integrativa ai ricercatori a tempo
indeterminato. Novità anche in campo
assunzioni: la notizia-clou sul punto è la
proroga di un anno del bonus Sud, che
attende però l'accordo con le Regioni per la
ripartizione dei fondi (articolo Il Sole 24
Ore del 10.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri senza
paura.
Non automatica l'incompatibilità da
litispendenza. La deroga si impone se
l'amministratore ha agito nell'interesse
pubblico.
Alcuni consiglieri comunali hanno presentato
ricorso al Tar avverso una delibera di
variazione del prg, successivamente revocata
per motivi di opportunità; a seguito della
revoca il comune ha presentato
controricorso, per danni patrimoniali e
all'immagine derivanti dalla vicenda,
avverso gli stessi consiglieri che ne hanno
eccepito l'inammissibilità.
Sussiste, nei
confronti di tali consiglieri, una
situazione di litispendenza, ascrivibile tra
le cause di incompatibilità ai sensi
dell'art. 63, comma 1, punto 4 del Tuel?
In merito al caso di specie, la Cassazione
civ. (sez. I, sent. n. 12014 del 26.11.1998)
ha affermato che la pendenza della lite va
ravvisata tanto nell'ipotesi in cui l'eletto
assume la veste di attore, quanto in quella
in cui sia l'ente locale a promuovere la
lite. Da ciò consegue che la rimozione della
causa d'incompatibilità può avvenire, nel
primo caso, per opera dell'«eletto», mentre
nel secondo caso comporta l'iniziativa
dell'ente che potrà, eventualmente, essere
provocata dall'eletto attraverso gli stessi
mezzi che sono a disposizione di qualsiasi
convenuto (ad esempio mediante transazione)
e si esprimerà attraverso i tipici atti
estintivi del giudizio o dell'azione.
Secondo l'attuale orientamento
giurisprudenziale è stato ritenuto che ad
integrare gli estremi della causa di
incompatibilità di cui al comma 1, n. 4) del
citato articolo 63 del decreto legislativo
267/2000, «non basta la pura e semplice
contestazione dell'esistenza di un
procedimento civile o amministrativo nel
quale risultino coinvolti, attivamente o
passivamente, l'eletto o l'ente, ma occorre
che a tale dato formale corrisponda una
concreta contrapposizione di parti, ossia
una reale situazione di conflitto: solo in
tal caso sussiste l'esigenza di evitare che
il conflitto di interessi nella lite
medesima possa orientare le scelte
dell'eletto in pregiudizio dell'ente
amministrativo, o comunque possa ingenerare
all'esterno sospetti al riguardo» (cfr.
Cass. civ., sez. I, 28.07.2001, n.
10335).
È stato, inoltre, affermato (cfr. Cass.,
sez. I, 19.05.2001, n. 6880) che
«l'accertamento ulteriore che questa
giurisprudenza prescrive non è finalizzato
alla ricerca di un conflitto sostanziale,
che prescinda dalla esistenza di un
processo, bensì alla verifica di segno
opposto (pur sempre, comunque, ispirata da
un favore verso l'eletto), della
corrispondenza della situazione di formale
pendenza della lite a un contenzioso
effettivo, attraverso la valutazione di
quegli elementi, di palmare evidenza, che
potrebbero evidenziare che la vertenza si è
sostanzialmente esaurita (per l'intervenuta
transazione, rinunzia) ovvero che è
assolutamente pretestuosa (per essere stato
investito, ad esempio, un giudice privo di
giurisdizione nel caso in esame (cfr. n.
4533, n. 4724/1999; n. 9789/2000)».
Quanto alle disposizioni di cui all'art. 63,
comma 3, del Tuel, si richiama
l'orientamento della Cassazione (cfr. Cass.
civ., sez., I, 16.08.2005, n. 16956),
secondo cui tale ipotesi costituisce una
deroga «della quale è evidente la ratio,
consistente nell'intento di escludere fra le
cause di incompatibilità quelle controversie
insorte per il perseguimento degli interessi
generali e non già per fini personali
dell'amministratore». In sintonia con la sua
«ratio» la norma, infatti, va letta tenendo
presente che la deroga, volta a
salvaguardare il libero esercizio delle
funzioni dal timore di incorrere in
situazioni di incompatibilità, magari
artatamente predisposte nell'ambito della
lotta politica, deve ritenersi sussistere
tutte le volte che l'amministratore abbia
agito nell'interesse pubblico.
Per completezza si chiarisce anche che la
rinuncia al ricorso, nel processo
amministrativo, non necessita
dell'accettazione della controparte (Cons.
stato, sez. V, 27/01/2006, n. 250), ma non
può essere sottoposta a condizioni (Cons.
stato sez. VI, 19/12/1986, n. 914) e, una
volta espressa e portata a conoscenza delle
controparti nelle forme di rito, depositata
nella segreteria del giudice, non può essere
revocata (Cons. stato, sez. VI, 23/09/2002,
n. 4805).
Ciò premesso, in conformità al principio
generale per cui ogni organo collegiale
delibera sulla regolarità dei titoli di
appartenenza dei propri componenti, la
verifica delle cause ostative
all'espletamento del mandato è compiuta con
la procedura consiliare prevista dall'art.
69 del dlgs n. 267/2000 che garantisce il
contraddittorio tra organo e amministratore,
assicurando a quest'ultimo l'esercizio del
diritto di difesa e salva la possibilità di
contestare per vie giudiziali la causa di
incompatibilità riscontrata (articolo ItaliaOggi del
10.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Certificati ancora obbligatori per i
cittadini extracomunitari.
I cittadini stranieri
che si rivolgono alla questura per avviare
una pratica inerente alla loro condizione
amministrativa non possono utilizzare le
dichiarazioni sostitutive di certificazioni
e di atti di notorietà. In questo caso
infatti serviranno ancora i classici
certificati per attestare i precedenti
penali, l'idoneità abitativa e tutti gli
altri stati del soggetto richiamati dalla
normativa in materia di immigrazione.
Lo ha chiarito il ministero dell'interno con
la circolare 24.01.2012.
La legge di stabilità 2012, n. 183/2011, in
vigore dal 1° gennaio scorso, ha disposto
che nei rapporti con gli organi della
pubblica amministrazione «i certificati e
gli atti di notorietà sono sempre sostituiti
dalle dichiarazioni sostitutive di
certificazione e dalle dichiarazioni
sostitutive dell'atto di notorietà». Ma
esistono delle eccezioni espresse alla
regola. Se n'è accorto il Viminale con la
nota di fine gennaio.
L'art. 15 della legge 183/2011, specifica la
nota centrale, ha modificato in alcune parti
il decreto del presidente della repubblica
28.12.2000, n. 445, ma non ha cambiato i
punti focali dedicati agli extracomunitari.
Appare opportuno evidenziare, specifica
infatti la circolare, «che la legge in
analisi, pur avendo inciso in modo evidente
sul testo degli articoli 40 e 43 del citato
dpr n. 445/2000, non è intervenuta sulla
previsione contenuta nel precedente articolo
3 ove sono chiaramente individuati i
soggetti cui il T.U. in materia di
documentazione amministrativa si applica».
In buona sostanza questo articolo evidenzia
che per gli extracomunitari l'accesso alla
semplificazione prevista non è scontata. Gli
stranieri possono utilizzare le
dichiarazioni sostitutive limitatamente agli
stati, alle qualità personali e ai fatti
certificabili o attestabili da parte dei
soggetti pubblici italiani. Ma con espressa
esenzione delle disposizioni contenute nelle
legge e nei regolamenti concernenti la
disciplina dello straniero. A parere del
ministero dell'interno nei procedimenti
amministrativi inerenti la condizione degli
stranieri non potranno essere accettate
dalle questure le dichiarazioni sostitutive
di certificazione ma solo i tradizionali
certificati. Quindi nessuna semplificazione
per l'attestazione dei dati derivanti dal
casellario giudiziale e sul certificato
delle iscrizioni relative ai procedimenti
penali in corso.
Esclusi dall'autocertificazione anche le
attestazioni sulla conformità igienico
sanitaria e sull'idoneità degli immobili, la
certificazione attestante l'iscrizione nelle
liste o nell'elenco anagrafico finalizzato
al collocamento del lavoratore licenziato,
dimesso o invalido per il rilascio del
permesso di soggiorno (articolo ItaliaOggi del
10.02.2012). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: L’Amministrazione
comunale è certamente chiamata allo
svolgimento di un’attività istruttoria per
accertare la sussistenza del titolo
legittimante, anche se all’Ente pubblico
spetta soltanto la verifica, in capo al
richiedente, di un titolo sostanziale idoneo
a costituire la posizione legittimante,
senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine
che si estenda fino alla ricerca di
eventuali fattori limitativi, preclusivi o
estintivi del titolo di disponibilità
dell’immobile, allegato da chi presenta
istanza edilizia.
La disposizione dell’art. 11 dpr 380/2001 è interpretata
dalla giurisprudenza amministrativa nel
senso che l’Amministrazione comunale è
certamente chiamata allo svolgimento di
un’attività istruttoria per accertare la
sussistenza del titolo legittimante, anche
se all’Ente pubblico spetta soltanto la
verifica, in capo al richiedente, di un
titolo sostanziale idoneo a costituire la
posizione legittimante, senza alcuna
ulteriore e minuziosa indagine che si
estenda fino alla ricerca di eventuali
fattori limitativi, preclusivi o estintivi
del titolo di disponibilità dell’immobile,
allegato da chi presenta istanza edilizia
(cfr. sul punto, Consiglio di Stato, sez. IV,
08.06.2011, n. 3508; TAR Campania, Napoli,
sez. II, 06.12.2010, n. 26817 e TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 31.03.2010, n.
842, con la giurisprudenza ivi richiamata)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
10.02.2012 n.
496 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
richiesta per un'istanza di condono
edilizio, ai fini della configurabilità di
un titolo edilizio tacito, la presentazione,
da parte dell’autore dell’abuso, di tutta la
documentazione prevista dalla legge (in
particolare, quella di cui al comma 37°
dell’art. 32 del citato decreto legge),
oltre che il pagamento integrale delle somme
dovute a titolo di oblazione e di contributo
di concessione.
Se non si forma il silenzio-assenso sulla
domanda di condono presentata legittimamente
il Comune determina la misura degli oneri
concessori e del contributo al momento del
rilascio del titolo in sanatoria.
Sulla formazione del silenzio assenso sulla domanda di condono
edilizio, ai sensi del DL 269/2003 e della
LR 31/2004, la giurisprudenza di questa
Sezione è pacifica nel senso di richiedere,
ai fini della configurabilità di un titolo
edilizio tacito, la presentazione, da parte
dell’autore dell’abuso, di tutta la
documentazione prevista dalla legge (in
particolare, quella di cui al comma 37°
dell’art. 32 del citato decreto legge),
oltre che il pagamento integrale delle somme
dovute a titolo di oblazione e di contributo
di concessione (sul punto, si vedano le
sentenze della II Sezione di questo TAR,
numero 7219/2010, 7388/2010, 7390/2010,
6955/2010, 473/2011 e soprattutto n.
263/2011 e n. 2280 del 23.09.2011,
costituenti precedenti specifici che qui si
richiamano).
Ciò premesso, nel caso di specie il Comune
ha escluso la formazione del silenzio-assenso, non avendo la ricorrente, entro il
termine del 31.10.2005 (termine
previsto dal citato comma 37° dell’art. 32
del DL 269/2003), provveduto al deposito
della documentazione attinente all’ICI ed
alla tassa sui rifiuti solidi urbani (cfr.
doc. 6 del resistente, dal quale risulta
l’omessa trasmissione dei documenti
suindicati).
A nulla rileva la circostanza che tale
documentazione sarebbe già stata depositata
presso gli uffici comunali, in quanto il
citato comma 37° dell’art. 32 impone
espressamente che la domanda di condono sia
corredata dei documenti ICI e TARSU; si
tratta di una norma speciale, attinente ad
un procedimento di condono di carattere
eccezionale, da osservarsi a pena di
impossibilità di formazione del silenzio
assenso.
D’altronde, l’esponente ha depositato prima
del 31.10.2005 parte della documentazione
necessaria (in particolare la scheda
catastale, cfr. doc. 2 del resistente),
sicché non si comprende perché analogo
deposito non sia stato effettuato anche per
i documenti relativi ad ICI e TARSU.
Si rileva ancora, sempre in ordine alla
questione del silenzio-assenso, che entro il
termine del 31.10.2005 neppure sono state
interamente versate le somme dovute a titolo
di oneri concessori, ma soltanto quelle da
corrispondersi a titolo di oblazione (cfr.
ancora il doc. 6 del resistente ed il doc.
30 della ricorrente, dal quale si rileva che
soltanto in data 15.12.2011 è stata versata
la seconda rata – di euro 8.811,60 –
dell’anticipazione degli oneri concessori,
liquidata in complessivi euro 17.623,20
nella domanda di condono, cfr. doc. 1 del
resistente).
Non essendosi formato –di conseguenza-
silenzio-assenso sulla domanda di condono di
cui è causa, legittimamente il Comune ha
determinato la misura degli oneri concessori
e del contributo al momento del rilascio del
titolo in sanatoria, conformemente alla
giurisprudenza di questo Tribunale (cfr.,
fra le tante, TAR Lombardia, sez. II,
7221/2010, costituente precedente specifico
al quale è fatto in questa sede espresso
richiamo ai sensi dell’art. 74 del D.Lgs.
104/2010).
Non può ritenersi neppure prescritto il
diritto al conguaglio da parte del Comune,
in quanto la disposizione dell’art. 32,
comma 36°, del DL 269/2003, invocata
dall’esponente, attiene all’oblazione e non
alle somme dovute a titolo di oneri
concessori (cfr. TRGA Trentino Alto-Adige,
09.12.2010, n. 234)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
10.02.2012 n.
491 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: E'
legittimo il recupero delle somme
indebitamente erogate non tenendo conto
della buona fede del percipiente,
considerando il recupero come un atto dovuto
non rinunziabile espressione di una funzione
pubblica vincolata.
La buona fede rileva invece, ai sensi
dell'art. 2033 ultimo periodo Cod. Civ.,
riguardo agli interessi sulle somme erogate.
Detta disposizione infatti, nei casi di
indebito oggettivo in cui la percezione
delle somme sia avvenuta con affidamento e
buona fede, prevede il calcolo
dell'accessorio al credito principale dalla
data della domanda di restituzione
dell'indebito.
Al riguardo va richiamato il prevalente orientamento giurisprudenziale
(già condiviso anche da questo Tribunale)
che ritiene comunque legittimo il recupero
delle somme indebitamente erogate non
tenendo conto della buona fede del
percipiente, considerando il recupero come
un atto dovuto non rinunziabile espressione
di una funzione pubblica vincolata (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 24.05.2007 n. 2651; id.
12.05.2006 n. 2679; 22.09.2005 nn. 4964 e
4983; TAR Campania Napoli, Sez. V,
07.04.2011 n. 1986; TAR Toscana, Sez. I,
08.11.2004 n. 5465; TAR Sicilia, Catania,
Sez. II, 12.08.2003, n. 1272; TAR Marche,
18.04.1997 n. 246; TAR Lazio, Latina,
11.02.1993 n. 143).
La buona fede rileva invece, ai sensi
dell'art. 2033 ultimo periodo Cod. Civ.,
riguardo agli interessi sulle somme erogate.
Detta disposizione infatti, nei casi di
indebito oggettivo in cui la percezione
delle somme sia avvenuta con affidamento e
buona fede, prevede il calcolo
dell'accessorio al credito principale dalla
data della domanda di restituzione
dell'indebito (cfr. Cons. Stato, Sez. VI,
24.11.2010 n. 8215)
(TAR Marche,
sentenza 10.02.2012 n. 122 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' illegittima la composizione in numero
pari della Commissione aggiudicatrice se il
Bando di gara non prevede nulla per evitare
lo stallo valutativo.
L’art. 84 del nuovo codice dei controlli
pubblici approvato con il D. L.vo n. 163 del
2006, in recepimento delle direttive
comunitarie, ha disciplinato in modo
uniforme la composizione della Commissione
di gara per ogni procedura ad evidenza
pubblica.
Il Collegio, sulla scorta di una
giurisprudenza amministrativa da cui non ha
motivo di discostarsi rileva, nel caso in
esame, l’illegittima composizione della
Commissione di gara i cui membri risultano
in numero pari (quattro), mentre le
Commissioni stesse debbono necessariamente
essere composte di un numero dispari onde
assicurare la funzionalità del principio
maggioritario per la formazione del quorum
strutturale ai fini del calcolo della
maggioranza assoluta dei componenti (cfr.
Cons. Stato, Sez.V – 06.04.2009 n. 2143 –
Sez. VI – 22.10.2007 n. 5502).
Al suddetto requisito non risponde la
Commissione giudicatrice di cui trattasi,
composta da quattro membri e dal segretario
verbalizzante, che, in quanto tale, era
privo del diritto di voto. Per completezza
di indagine, premesso che tale principio non
appare assoluto, nel senso che possono
prevedersi dei correttivi, in caso di parità
delle votazioni, come quello della
prevalenza del voto del presidente, va
osservato che nel caso di specie il bando
nulla prevedeva, determinando in questo modo
quella possibilità di stallo valutativo che
il principio del numero dispari dei
componenti della commissione aggiudicatrice
tende ad evitare (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis,
sentenza
09.02.2012
n. 1321 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Prescrizione
quinquennale per il recupero da parte della
P.A. degli importi indebitamente erogati al
dipendente a titolo di trattamento
retributivo.
Per pacifica giurisprudenza non vi è obbligo
di specifica motivazione per il recupero di
emolumenti non dovuti. Inoltre vi è
rilevanza della buona fede dei percettori
soltanto ai fini della modalità di
esecuzione del recupero delle somme
indebitamente percepite ed il recupero non
deve essere preceduto dall'avviso
dell'inizio di procedimento, trattandosi di
atto vincolato (v. da ultimo Tar Campania,
Napoli, 25.07.2011, n. 3987).
Ad avviso del giudice peraltro l’eccezione
di prescrizione quinquennale formulata dal
dipendente è fondata in quanto ai sensi
degli artt. 2948, numero 4), e 2943 del
codice civile il diritto
dell’Amministrazione a ripetere gli
emolumenti non dovuti al ricorrente ma ad
esso corrisposti prima del quinquennio
anteriore alla comunicazione della richiesta
di restituzione si è estinto per
prescrizione.
Conseguentemente: - è illegittima la
richiesta di questa parte di emolumenti,
trattandosi di credito ormai prescritto; -
la porzione di questa parte di emolumenti
che sia stata già percepita dal ricorrente
va ad esso restituita, con gli accessori di
legge.
Parimenti fondata è la prospettazione del
ricorrente circa la illegittimità della
ripetizione di somme lorde anziché nette:
l'Amministrazione, nel procedere al recupero
di somme indebitamente erogate ai propri
dipendenti, deve effettuare il recupero al
netto delle ritenute fiscali, previdenziali
e assistenziali, giacché è al netto di
queste ritenute che gli emolumenti in più
sono stati corrisposti, e la ripetizione
dell'indebito deve necessariamente riferirsi
soltanto alle somme effettivamente percepite
in eccesso (confr. C.d.S., Sez. VI,
02.03.2009, n. 1164) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis,
sentenza 09.02.2012 n. 1317
-
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Comune non può rilasciare una
concessione edilizia in sanatoria per una
destinazione d'uso diversa da quella
richiesta.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in
esame ha fatto proprio l'orientamento
giurisprudenziale consolidato a tenore del
quale "Il Comune non può rilasciare una
concessione edilizia in sanatoria (condono)
per una destinazione d'uso diversa da quella
richiesta, a nulla rilevando, ai fini del
rilascio o meno della concessione in
sanatoria per una determinata destinazione
d'uso, la concreta utilizzazione alla quale
sia stato adibito l'immobile abusivo prima
del condono; ed invero la sanatoria prevista
dalla l. 28.02.1985 n. 47, come si desume
dall'art. 31 stessa legge, ha carattere
generale (salvo i vincoli di inedificabilità
di cui all'art. 33) e non può escludersi per
una specifica destinazione d'uso (la quale,
se in atto insussistente o non conforme alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici,
incide soltanto sulla misura dell'oblazione
da versare), salvo la mancanza di
un'oggettiva conformazione strutturale
dell'immobile coerente con l'uso per il
quale è stata avanzata domanda.“
(Consiglio Stato, Sez. V, 01.10.2001 n.
5190) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.02.2012 n. 683 - massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza
di demolizione non deve essere sorretta da
una specifica motivazione circa la
sussistenza dell'interesse pubblico a
disporre la sanzione, in quanto non può
annettersi alcun legittimo affidamento alla
conservazione di una situazione di fatto
abusiva che il tempo non può "ex se"
legittimare, con la conseguenza che, ove
sussistano i presupposti per l'adozione del
provvedimento di riduzione in pristino, lo
stesso costituisce atto dovuto,
sufficientemente motivato con l'affermazione
della abusività dell'opera.
L'ordine di demolizione, quale sanzione
finalizzata a riportare "in pristino" la
situazione esistente e ad eliminare opere
abusive in contrasto con l'ordinato assetto
del territorio, essendo misura
amministrativa ripristinatoria della
legalità violata, non può soggiacere al
divieto di retroattività della legge. Del
resto, l’art. 2 della L. n. 47/1985 dispone
che “le disposizioni di cui al capo I della
presente legge sostituiscono quelle di cui
all'art. 32, L. 17.08.1942, n. 1150, ed agli
articoli 15 e 17, L. 28.01.1977, n. 10”,
sicché è chiaro l’intento di estenderne
l’applicazione anche agli abusi eseguiti nel
vigore delle leggi nn. 1150/1942 e 10/1977,
senza che ciò trovi ostacolo nel principio
di irretroattività della legge, che è
inderogabile soltanto in materia di sanzioni
penali (art. 25, comma 2, Cost.).
In ragione del contenuto rigidamente
vincolato che li caratterizza, gli atti
sanzionatori in materia edilizia, tra cui
l'ordine di demolizione di costruzione
abusiva, non devono essere preceduti dalla
comunicazione di avvio del relativo
procedimento.
In caso di accertamento di opere abusive,
l’adozione dei conseguenti provvedimenti
sanzionatori è doverosa per
l’amministrazione: l’accertamento negativo
della (doppia) conformità delle opere alla
normativa urbanistica non si pone dunque
come presupposto dell’ingiunzione di
demolizione, costituendo oggetto di una
specifica istanza del responsabile
dell’abuso ex art. 13 L. 47/1985, da
presentarsi prima dell’adozione del
provvedimento sanzionatorio.
Per costante e sedimentata
giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione
non deve essere sorretta da una specifica
motivazione circa la sussistenza
dell'interesse pubblico a disporre la
sanzione, in quanto non può annettersi alcun
legittimo affidamento alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva che il tempo
non può "ex se" legittimare, con la
conseguenza che, ove sussistano i
presupposti per l'adozione del provvedimento
di riduzione in pristino, lo stesso
costituisce atto dovuto, sufficientemente
motivato con l'affermazione della abusività
dell'opera (così TAR Puglia-Lecce, III,
09.02.2011, n. 240, nello stesso senso già
Cons. di St., 19.03.1996, n. 270).
Innanzitutto, i ricorrenti non hanno
fornito alcuna prova certa circa la
realizzazione dell’abuso in epoca anteriore
all’entrata in vigore della L. n. 47/1985
(come visto ut supra, ancora in data 10.03.1983
il piano seminterrato era destinato a
cantina).
In ogni caso, si osserva che l'ordine di
demolizione, quale sanzione finalizzata a
riportare "in pristino" la situazione
esistente e ad eliminare opere abusive in
contrasto con l'ordinato assetto del
territorio, essendo misura amministrativa ripristinatoria della legalità violata, non
può soggiacere al divieto di retroattività
della legge (TAR Sicilia, II, 18.01.2003,
n. 29).
Del resto, l’art. 2 della L. n. 47/1985
dispone che “le disposizioni di cui al capo
I della presente legge sostituiscono quelle
di cui all'art. 32, L. 17.08.1942, n.
1150, ed agli articoli 15 e 17, L. 28.01.1977, n. 10”, sicché è chiaro
l’intento di estenderne l’applicazione anche
agli abusi eseguiti nel vigore delle leggi nn. 1150/1942 e 10/1977, senza che ciò trovi
ostacolo nel principio di irretroattività
della legge, che è inderogabile soltanto in
materia di sanzioni penali (art. 25, comma 2,
Cost.).
Per costante giurisprudenza, anche della
Sezione, in ragione del contenuto
rigidamente vincolato che li caratterizza,
gli atti sanzionatori in materia edilizia,
tra cui l'ordine di demolizione di
costruzione abusiva, non devono essere
preceduti dalla comunicazione di avvio del
relativo procedimento (TAR Liguria, I,
22.4.2011, n. 666)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 09.02.2012 n. 271 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI -
EDILIZIA PRIVATA:
La competenza ad adottare
l’ordinanza di demolizione –già attribuita
al sindaco dall’art. 7 della legge
28.2.1985, n. 47- è stata definitivamente
trasferita ai dirigenti a seguito
dell’entrata in vigore dell'art. 2, comma
12, l. 18.06.1998, n. 191.
Il ricorso è fondato, sotto l’assorbente profilo, dedotto con il primo
motivo di ricorso, concernente
l’incompetenza del sindaco a disporre la
demolizione.
In effetti, la competenza ad adottare
l’ordinanza di demolizione –già attribuita
al sindaco dall’art. 7 della legge
28.2.1985, n. 47- è stata definitivamente
trasferita ai dirigenti a seguito
dell’entrata in vigore dell'art. 2, comma
12, l. 18.06.1998, n. 191 (così TAR Lazio-Latina, I,
05.06.2007, n. 412; id.,
24.08.1998, n. 664) (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 09.02.2012 n. 264 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sul divieto ex art. 4, c. 33, del
D.L. 13.08.2011 n. 138, conv. con L.
14.09.2011, n. 148, di partecipazione alle
gare per l'affidamento della gestione dei
servizi pubblici locali per le società
affidatarie dirette di tali servizi.
L'art. 4, c. 33, del D.L. 13.08.2011 n. 138,
conv. con L. 14.09.2011, n. 148, prevede il
divieto di partecipazione alle gare per
l'affidamento della gestione dei servizi
pubblici locali per le società affidatarie
dirette di tali servizi. Pertanto, nel caso
di specie, è legittimo il provvedimento con
cui il comune ha revocato il provvedimento
di aggiudicazione provvisoria del servizio
di raccolta, trasporto smaltimento e
recupero dei rifiuti urbani nei confronti di
una ATI, in quanto la società mandante della
costituenda A.T.I., svolgeva il servizio di
gestione del centro comunale di raccolta
rifiuti di un altro ente locale mediante
affidamento diretto.
Il servizio di raccolta, trasporto
smaltimento e recupero dei rifiuti urbani
(sostanzialmente di gestione della
piattaforma ecologica di un comune) rientra,
infatti, pienamente nel concetto di servizio
pubblico. A nulla rileva la circostanza che
l'onere di remunerare l'attività svolta dal
privato sia assunto direttamente
dall'amministrazione, dato che il costo del
servizio è comunque finanziato dagli utenti
tramite il versamento al comune delle tasse
rifiuti urbani, comunque denominate, in
quanto rientrante nel ciclo di raccolta dei
rifiuti urbani e assimilati.
Del pari irrilevante è la circostanza che il
suddetto affidamento sia avvenuto con
strumento contrattale privatistico
(contratto d'appalto di servizi) piuttosto
che con un unilaterale atto amministrativo
di concessione. Infatti, in base all'art. 4,
c. 33, del D.L. n. 138/2011, è ininfluente
il titolo dell'affidamento ("gestiscono
di fatto o per disposizione di legge, di
atto amministrativo o per contratto servizi
pubblici locali ... ""), mentre è
rilevante che esso sia avvenuto come
affidamento diretto senza alcuna gara (TAR
Friuli Venezia Giulia,
sentenza 09.02.2012 n. 60 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
VARI:
Procedimento amministrativo,
garanzie estese ai professionisti. La
Cassazione interviene su una vertenza tra un
geometra e il proprio Collegio.
Estese ai procedimenti
disciplinari contro i professionisti tutte
le garanzie del procedimento amministrativo.
Infatti, è legittima l'impugnazione tardiva
della sanzione disciplinare se l'Ordine ha
emesso un atto privo del termine entro cui
proporre l'opposizione e dell'autorità
competente a conoscerla. Si tratta di un
«errore scusabile».
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione -Sez.
III civile- che,
con
sentenza
08.02.2012 n. 1766, ha accolto il
ricorso di un geometra. La sentenza estende
ai professionisti, per la prima volta e a
trecentosessanta gradi, le garanzie
predisposte sul procedimento amministrativo.
In fondo alle motivazioni si legge infatti
che «la totale inosservanza dell'art. 3
della l. n. 241, da parte
dell'amministrazione, comporta il
riconoscimento della scusabilità dell'errore
in cui sia eventualmente incorso il
destinatario nella individuazione della
Autorità, amministrativa e non giudiziaria,
cui rivolgersi per l'impugnazione dello
stesso provvedimento, risultando altrimenti
leso l'affidamento che il destinatario
ripone nel corretto operare
dell'amministrazione e la stessa possibilità
di tutela giurisdizionale, garantita
dall'art. 24 Cost.; conseguentemente, non
potendo tale provvedimento essere ritenuto
definitivo per omessa impugnazione
giurisdizionale nei termini, nell'ipotesi in
cui sia stato integrato dalla stessa
Autorità con successivo provvedimento che,
richiamando per il merito il precedente, lo
integri con l'indicazione dei termini e
dell'autorità presso cui impugnare, e
l'impugnazione giurisdizionale avverso
quest'ultimo sia stata tempestivamente
proposta, l'impugnazione deve essere
esaminata nel merito, considerando il
secondo provvedimento integrativo del primo».
La vicenda riguarda un geometra al quale era
stata notificata una censura. Il
professionista aveva notato che l'atto era
privo del termine per proporre l'opposizione
e dell'autorità competente. Per questo aveva
chiesto e ottenuto l'annullamento della
censura. Alla fine della controversia con il
Collegio dei geometri la Suprema corte ha
dato ragione al professionista (articolo ItaliaOggi del
10.02.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: Il Comune deve esaminare la domanda di
condono edilizio presentata dall'originario
proprietario dell'immobile abusivo non
essendo il nuovo acquirente abilitato a
presentare una propria ed ulteriore domanda.
Nel giudizio in esame il ricorrente lamenta
l’illegittimità dell’intera procedura che ha
condotto all'emanazione del provvedimento di
diniego di sanatoria dell'immobili in quanto
a suo dire l’Amministrazione si è limitata a
esaminare la domanda originaria di condono
presentata dal precedente proprietario e non
quella del ricorrente medesimo, che ha
acquistato il bene all’esito di una
procedura esecutiva.
Ad avviso del giudice
amministrativo il motivo è infondato, in
quanto, qualora la domanda di sanatoria sia
stata presentata dall’originario titolare, è
su di essa che l’Amministrazione è tenuta a
pronunciarsi, mentre l’acquirente del bene
non è abilitato a presentare una domanda
propria - che si risolverebbe in
un’inammissibile duplicazione, ad eccezione
dell’ipotesi di cui all’art. 40, ultimo
comma, della l. n. 47/1985, nella quale
manca appunto la presentazione della domanda
originaria da parte del titolare esecutato
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza
08.02.2012
n. 1264 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Diniego di sanatoria edilizia:
Inutile
invocare l'anteriorità dell'edificio
rispetto al vincolo paesistico.
L'anteriorità dell’edificio rispetto al
vincolo secondo la giurisprudenza più
autorevole non è dirimente (per tutte,
C.d.S. Ad.Plen. 07.06.1999 n. 20), in quanto
nessun affidamento può sorgere
dall’anteriorità di una situazione di
abusivismo edilizio, configurante un
illecito permanente, rispetto alla
successiva legittima conformazione del
territorio per finalità d’interesse pubblico
generale, a maggior ragione quando, come nel
caso di specie, l’apposizione del vincolo
risponde ad una pregressa ed intrinseca
caratteristica del bene ambientale tutelato
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza
08.02.2012
n. 1259 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nei confronti dell'acquirente di un immobile
abusivo, non responsabile dell'abuso, che
non esegua l'ordine di demolizione, l'Ente
Locale non può procedere all'acquisizione
dell'area al patrimonio.
Alla stregua di costante indirizzo
giurisprudenziale, che fa applicazione dei
principi vigenti nelle fattispecie
successorie (inter vivos e mortis causa),
l’acquirente di un immobile abusivo, o del sedime su cui sia stato realizzato il
manufatto, succede in tutti i rapporti
giuridici attivi e passivi facenti capo al
precedente proprietario e relativi al bene
ceduto, compresa l’abusiva trasformazione.
Consegue che l’ingiunzione a demolire
produce validi effetti nei confronti del
proprietario attuale della res immobilis,
ancorché l’abuso sia stato commesso prima
della traslazione del diritto di proprietà
(tra le ultime pronunce: TAR Lombardia,
Milano, IV, 09.03.2011 n. 644).
D’altronde
occorre distinguere tra l’illecito edilizio
commesso, che ha carattere permanente, e
l’ordine di demolizione, che invece è una
misura ripristinatoria che può essere posta
a carico solo di chi è nella materiale
disponibilità del bene e prescinde dal dolo
e dalla colpa dell’obbligato (TAR Puglia,
Bari, III, 28.04.2011 n. 673).
Ma seguendo la
medesima logica il giudice ha escluso che in
caso di inottemperanza all’ordine il
proprietario attuale della res, non colpevole
per l’abuso, debba subire l’effetto
sostanzialmente sanzionatorio
dell’acquisizione al patrimonio comunale
dell’area di sedime, essendo sufficiente, in
tal caso, l’occupazione temporanea della
medesima per l’esercizio del potere-dovere
sostitutivo di esecuzione d’ufficio
dell’ordine demolitorio da parte degli
organi comunali (TAR Puglia, Bari, III,
n. 673/2011 cit.; TAR Campania, Napoli, II,
06.05.2011 n. 2581)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza
08.02.2012
n. 1246 -
massima tratta da
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EDILIZIA PRIVATA:
Nelle zone vincolate la
mancanza del parere favorevole della
competente autorità impedisce giuridicamente
la formazione del silenzio assenso sulla
domanda di sanatoria edilizia.
Ad avviso del giudice amministrativo
sussiste impossibilità giuridica di
formazione di provvedimento tacito di
assenso su domande di sanatoria edilizia
relative a immobili in aree sottoposte a
vincoli, come nell’ermeneutica normativa
avallata da consolidato indirizzo
giurisprudenziale per l’ipotesi della
mancanza di espresso parere favorevole,
giacché il rilascio della concessione in
sanatoria per abusi in zone vincolate
presuppone necessariamente il parere
favorevole della competente autorità,
laddove l’inerzia o la lentezza dei comuni
nel provvedere sulle istanze di condono
edilizio non può assicurare agli interessati
un risultato che gli stessi non potrebbero
conseguire in virtù di provvedimento
espresso e, in particolare, non può
consentire di superare la mancanza dei
prescritti pareri favorevoli (tra le tante
pronunce: TAR Toscana, III, 27.02.2009 n.
350).
La lettura combinata dell’art. 32,
comma primo, e dell’art. 35 della legge
28.2.1985 n. 47 esclude che il mancato
rilascio del parere favorevole sulle domande
di sanatoria per opere realizzate in aree
sottoposte a vincoli determini
l’accoglimento tacito delle istanze. L’art.
32, nel testo riformato dalla L. n.
326/2003, al primo comma qualifica come
silenzio rifiuto la situazione lesiva
generata dall’inerzia dell’autorità
competente ad esprimere il parere, al
secondo comma indica gli immobili
suscettibili di sanatoria insistenti in aree
vincolate, tra i quali non rientrano gli
immobili siti in zone soggette a tutela
ambientale, che dunque debbono essere
compresi (terzo comma) tra quelli per cui la
sanatoria non è consentita ai sensi
dell’art. 33.
L’art. 35, comma 17, inibisce,
infine ed espressamente, la formazione di
assenso tacito per le domande di sanatoria
relative ad immobili per i quali è vietata.
Tanto premesso, onde escludere la rilevanza
dell’inerzia amministrativa ai fini della
sanatoria per gli immobili insistenti in
aree soggette a vincoli d’interesse
ambientale, come per la fattispecie, il
giudice ha proceduto all'esame del contenuto
motivazionale del provvedimento negativo di
rilascio della sanatorio ritenendolo esente
da vizi (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 08.02.2012 n.
1237 -
massima tratta da
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URBANISTICA: Le
scelte di pianificazione urbanistica
generale, anche in caso di modifica in senso
peggiorativo delle prescrizioni esistenti,
non necessitano di particolare e specifica
motivazione se non nel caso di aspettative
qualificate del privato proprietario,
aspettative che sono da tempo state
individuate e tipizzate dalla giurisprudenza
medesima (ad esempio, esistenza di una
lottizzazione già approvata, di un giudicato
di annullamento di un diniego di titolo
edilizio oppure titolarità in capo al
privato di un’area non edificata, interclusa
però fra fondi ormai completamente
edificati).
A parziale temperamento di tale indirizzo
giurisprudenziale, non mancano decisioni per
le quali, pur non sussistendo le citate
aspettative qualificate, è necessaria una
pur generica motivazione delle scelte
urbanistiche, che possa evincersi dai
criteri seguiti per la redazione dello
strumento urbanistico.
Come noto, secondo la prevalente giurisprudenza
amministrativa, le scelte di pianificazione
urbanistica generale, anche in caso di
modifica in senso peggiorativo delle
prescrizioni esistenti, non necessitano di
particolare e specifica motivazione se non
nel caso di aspettative qualificate del
privato proprietario, aspettative che sono
da tempo state individuate e tipizzate dalla
giurisprudenza medesima (ad esempio,
esistenza di una lottizzazione già
approvata, di un giudicato di annullamento
di un diniego di titolo edilizio oppure
titolarità in capo al privato di un’area non
edificata, interclusa però fra fondi ormai
completamente edificati; cfr., fra le tante,
Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche,
30.08.2011, n. 86; Consiglio di Giustizia
Amministrativa per la Regione Siciliana,
04.07.2011, n. 473; Consiglio di Stato, sez. IV,
05.08.2005, n. 4166; TAR Piemonte, sez. I,
22.07.2011, n. 804 e TAR Sicilia, Catania,
sez. I, 07.07.2011, n. 1682).
Peraltro, a parziale temperamento di tale
indirizzo giurisprudenziale, non mancano
decisioni per le quali, pur non sussistendo
le citate aspettative qualificate, è
necessaria una pur generica motivazione
delle scelte urbanistiche, che possa
evincersi dai criteri seguiti per la
redazione dello strumento urbanistico (così,
fra le più recenti, TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 10.01.2011, n. 18)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.02.2012 n.
437 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Pregnanti
esigenze di certezza delle situazioni
giuridiche impongono…che ciascun
provvedimento di revisione della
pianificazione urbanistica debba ritenersi
autonomo rispetto ai precedenti … anche
quando non dispone specifiche variazioni di
singole particelle rispetto ai precedenti
assetti.
Va al riguardo condiviso l’orientamento
richiamato dalla difesa della Regione,
secondo il quale “Pregnanti esigenze di
certezza delle situazioni giuridiche
impongono…che ciascun provvedimento di
revisione della pianificazione urbanistica
debba ritenersi autonomo rispetto ai
precedenti … anche quando non dispone
specifiche variazioni di singole particelle
rispetto ai precedenti assetti.” (cfr.
C.d.S., V, n. 5347/2011)
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza
08.02.2012 n. 213 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
ricostruzione di ruderi deve essere
considerata, a tutti gli effetti,
realizzazione di una nuova costruzione, non
essendo equiparabile alla ristrutturazione
edilizia, con la conseguenza che per la sua
realizzazione è necessario il permesso di
costruzione, non essendo possibile far
ricorso alla denuncia di inizio di attività,
ai sensi dell'art. 1, comma 6, l. 21.12.2001 n. 443.
... costituisce giurisprudenza consolidata e condivisibile che “la
ricostruzione di ruderi deve essere
considerata, a tutti gli effetti,
realizzazione di una nuova costruzione, non
essendo equiparabile alla ristrutturazione
edilizia, con la conseguenza che per la sua
realizzazione è necessario il permesso di
costruzione, non essendo possibile far
ricorso alla denuncia di inizio di attività,
ai sensi dell'art. 1, comma 6, l. 21.12.2001 n. 443” (C.d.S., IV, 15.09.2006,
n. 5375; conf. C.d.S., V, 10.02.2004,
n. 475; TAR Campania Napoli, sez. VIII,
04.03.2010, n. 1286)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
08.02.2012 n. 207 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sanzione amministrativa, alternativa alla
demolizione, attualmente disciplinata
dall’art. 38 del d.P.R. 380/2001 (per cui, in
caso di annullamento del permesso di
costruire, “qualora non sia possibile, in
base a motivata valutazione, la rimozione
dei vizi delle procedure amministrative o la
restituzione in pristino, il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale
applica una sanzione pecuniaria pari al
valore venale delle opere o loro parti
abusivamente eseguite”), ha natura ripristinatoria e reale,
e può essere perciò irrogata anche nei
confronti degli attuali proprietari del
bene, pur se questi si trovino in stato di
incolpevole buona fede.
... è allora opportuno ricordare anzitutto che la sanzione
amministrativa in questione, alternativa
alla demolizione, attualmente disciplinata
dall’art. 38 del d.P.R. 380/2001 (per cui, in
caso di annullamento del permesso di
costruire, “qualora non sia possibile, in
base a motivata valutazione, la rimozione
dei vizi delle procedure amministrative o la
restituzione in pristino, il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale
applica una sanzione pecuniaria pari al
valore venale delle opere o loro parti
abusivamente eseguite”), ha natura ripristinatoria e reale (TAR Liguria
Genova, I, 12.03.2009, n. 306), e può
essere perciò irrogata anche nei confronti
degli attuali proprietari del bene, pur se
questi si trovino in stato di incolpevole
buona fede (conf., ex multis, TAR
Piemonte, I, 09.04.2003, n. 528)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
08.02.2012 n. 204 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
normalmente “l'ordine di demolizione di opera edilizia
abusiva è sufficientemente motivato con
l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera”, una giustificazione specifica
può essere tuttavia richiesta “nel caso in
cui, per il protrarsi e il lungo lasso di
tempo trascorso dalla commissione dell'abuso
e il protrarsi della inerzia
dell'Amministrazione preposta alla
vigilanza, si sia ingenerata una posizione
di affidamento nel privato, ipotesi questa
in cui è ravvisabile un onere di congrua
motivazione che, avuto riguardo anche alla
entità e alla tipologia dell'abuso, indichi
il pubblico interesse, diverso da quello al
ripristino della legalità, idoneo a
giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato.
Invero, se normalmente “l'ordine di demolizione di opera edilizia
abusiva è sufficientemente motivato con
l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera”, una giustificazione specifica
può essere tuttavia richiesta “nel caso in
cui, per il protrarsi e il lungo lasso di
tempo trascorso dalla commissione dell'abuso
e il protrarsi della inerzia
dell'Amministrazione preposta alla
vigilanza, si sia ingenerata una posizione
di affidamento nel privato, ipotesi questa
in cui è ravvisabile un onere di congrua
motivazione che, avuto riguardo anche alla
entità e alla tipologia dell'abuso, indichi
il pubblico interesse, diverso da quello al
ripristino della legalità, idoneo a
giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato” (così, da ultimo, C.d.S. IV,
12.04.2011, n. 2266)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
08.02.2012 n. 203 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Nella
stima dei terreni espropriati ai fini della
determinazione dell'indennità, non si può
tener conto del vincolo espropriativo, né di
vincoli d'inedificabilità previsti da
strumenti generali preordinati
all'espropriazione, ma deve tenersi conto
soltanto dei vincoli previsti da strumenti
urbanistici di ordine generale non
preordinati all'esproprio, esistenti al
momento del verificarsi della vicenda
ablativa, nonché delle concrete ed
intrinseche caratteristiche dei terreni che
incidono sull'edificabilità di fatto degli
stessi.
---------------
Per quanto attiene al terreno occupato
assoggettato ai limiti propri delle fasce di
rispetto stradale, la giurisprudenza è
concorde nel ritenere che il vincolo di
inedificabilità ad esso connesso non abbia
natura espropriativa, ma unicamente
conformativa, in quanto riguarda una
generalità di beni e di soggetti ed abbia,
quindi, una funzione di salvaguardia della
circolazione, indipendentemente dalla
eventuale instaurazione di procedure
espropriative. Anche in questo caso, quindi,
il valore delle aree dovrà essere
quantificato prescindendo dalla presenza
della fascia di rispetto e considerando,
quindi, le stesse come edificabili.
Le aree con “destinazione a impianti
sportivi all’interno del perimetro di Piano
attuativo residenziale”, infine, non possono
nemmeno esse essere sottratte alla
qualificazione come edificabili, proprio in
ragione della loro inclusione nel perimetro
del piano attuativo stesso. Ciononostante,
nella determinazione del loro valore di
mercato, che, si ribadisce, deve essere
effettuata con riferimento al momento
attuale (o meglio al momento in cui avverrà
l’adozione dell’atto di acquisizione), non
si potrà trascurare che lo stesso è
sicuramente influenzato dalla circostanza
per cui il piano attuativo approvato alcuni
mesi dopo l’occupazione risulta aver
traslato la potenzialità edificatoria
collegata a tale area su altra di proprietà
delle odierne ricorrenti.
---------------
Nessun risarcimento è dovuto per
l’imposizione di fasce di rispetto stradale.
Come chiarito dalla giurisprudenza, da tempo
costante, non sono indennizzabili “i vincoli
posti a carico di intere categorie di beni
(tra questi, i vincoli urbanistici di tipo
conformativo, e i vincoli relativi ai beni
culturali e paesaggistici). In altri
termini, in tema di imposizione di vincoli
urbanistici, non vi è il presupposto per un
indennizzo quando i modi di godimento e i
limiti imposti (direttamente dalla legge
ovvero mediante un particolare procedimento
amministrativo) riguardino intere categorie
di beni secondo caratteristiche loro
intrinseche, con carattere di generalità ed
in modo obiettivo; in questi casi, le
limitazioni delle facoltà del proprietario
ricadono nella previsione non del comma
terzo, bensì del comma secondo, dell'art.
42, Cost. Pertanto, i limiti non ablatori
normalmente posti nei regolamenti
urbanistici o nella pianificazione
urbanistica e relative norme tecniche,
riguardanti altezza, cubatura, superficie
coperta, distanze, zone di rispetto, indici
di fabbricabilità, limiti e rapporti per
zone territoriali omogenee e simili, sono
vincoli conformativi, connaturali alla
proprietà, e non comportano indennizzo.”
Invero il provvedimento impugnato trova origine nella sentenza del
Consiglio di Stato n. 2420 del 2009, nella
quale si legge che, non avendo il Comune
adottato il provvedimento ex art. 43, esso
ha procrastinato nel tempo l’illecito da cui
sorge, in capo allo stesso, l’obbligo della
restituzione del terreno e del risarcimento
del danno medio tempore prodotto,
considerato che, contrariamente a quanto
affermato nella sentenza di primo grado, il
relativo diritto non può più, dopo il
superamento della teoria dell’accessione
invertita, ritenersi prescritto.
La sentenza ha, quindi, riconosciuto, come
possibili strade alternative alla
restituzione del bene, l’adozione di tale
atto (e la conseguente corresponsione del
risarcimento del danno), oppure il
raggiungimento di un accordo per definire il
trasferimento della proprietà.
Il Consiglio di Stato ha, inoltre, precisato
che, in entrambe i casi, l’acquisto della
proprietà non avrebbe comunque potuto che
essere subordinato alla corresponsione del
risarcimento del danno, quantificabile
tenuto conto della “destinazione urbanistica
delle aree al momento dell’inizio della
procedura espropriativa, tenendo conto della
sentenza della Corte Costituzionale n. 349
del 2007, che ha dichiarato incostituzionale
l’art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333
del 1992”.
Il giudicato così formatosi deve, però,
essere coordinato con le conseguenze della
sopravvenuta dichiarazione di
incostituzionalità dell’art. 43 del DPR
327/2001 e il successivo intervento del
legislatore mediante l’introduzione
dell’art. 42-bis nel medesimo testo unico.
L’avvenuta censura della legittimità del
provvedimento ex art. 43 del DPR 327/2001
adottato dal Comune nel caso di specie,
infatti, ha impedito il consolidamento degli
effetti del provvedimento, con la
conseguenza che l’avvenuta dichiarazione di
incostituzionalità della norma fondante non
può che estendere la sua efficacia caducatoria anche nei confronti del
medesimo.
È pur vero che l’art. 42-bis espressamente
prevede che: “Le disposizioni del presente
articolo trovano altresì applicazione ai
fatti anteriori alla sua entrata in vigore
ed anche se vi è già stato un provvedimento
di acquisizione successivamente ritirato o
annullato”, ma, continua ancora la norma in
parola, “deve essere comunque rinnovata la
valutazione di attualità e prevalenza
dell'interesse pubblico a disporre
l'acquisizione; in tal caso, le somme già
erogate al proprietario, maggiorate
dell'interesse legale, sono detratte da
quelle dovute ai sensi del presente
articolo”.
Ciò vale a dire che il Collegio, annullato
il provvedimento impugnato in ragione della
dichiarazione di incostituzionalità della
norma che ne ha legittimato l’adozione, non
può che, ancora una volta, rimettere
all’Amministrazione di adottare la soluzione
ritenuta maggiormente idonea per addivenire
al ripristino della corrispondenza tra
situazione di fatto e situazione di diritto
(restituendo i terreni o acquisendo la
proprietà), non senza precisare che ciò
rappresenta un dovere per l’Amministrazione,
come recentemente affermato in modo
esplicito dalla pronuncia del Consiglio di
Stato, che si ritiene pienamente
condivisibile, n. 6351 dell'01.12.2011.
In nessun caso, infatti, si può giungere ad
una condanna puramente risarcitoria a carico
dell’Amministrazione, poiché una tale
pronuncia presuppone un avvenuto
trasferimento della proprietà del bene o per
fatto illecito coincidente con
l’irreversibile destinazione ad uso pubblico
del terreno di proprietà privata (precluso
dal primo protocollo addizionale della
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e
dalla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo, come si legge nelle
sentenze TAR Lazio, Roma, II-quater, 14.04.2011, n. 3260, TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
01.07.2010,
n. 1418) o mediante la stipula di un
contratto o l’adozione di un provvedimento
traslativo della proprietà (in entrambe i
casi attività rimesse all’Amministrazione e
che non possono essere sostituite
dall’intervento del giudice).
Da qui la necessità di un passaggio
intermedio, finalizzato all’acquisto della
proprietà del bene da parte dell’ente
espropriante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.11.2007, n. 5830; TAR Campania-Napoli, Sez. V,
05.06.2009, n.
3124).
Entro quarantacinque giorni dalla
comunicazione della presente sentenza,
dunque, il Comune dovrà optare per una delle
due soluzioni rappresentate, provvedendo a
stipulare un contratto (laddove sia
possibile ottenere la disponibilità delle
controparti), a notificare l’avviso di avvio
del procedimento preordinato
all’acquisizione ex art. 42-bis (assegnando
alle proprietarie un tempo non inferiore a
dieci giorni per la formulazione delle
proprie osservazioni, anche con riferimento
alla quantificazione del risarcimento del
danno offerta in tale occasione) ovvero ad
adottare un atto formale attestante la
scelta della restituzione del terreno.
Da tutto ciò discende, però, la necessità di
procedere anche all’adeguamento dei criteri
e dei parametri di cui l’Amministrazione
dovrà tenere conto nella quantificazione del
risarcimento del danno da offrire alle
proprietarie, che dovrà avvenire alla luce
delle novità introdotte dal legislatore.
A tale proposito deve essere preliminarmente
chiarito, però, che, annullato il decreto ex
art. 43 del D.P.R. 327/2001, qualora il Comune
dovesse optare per la restituzione dei
terreni, lo stesso sarà comunque tenuto a
risarcire il danno per l’illegittima
occupazione, calcolandone l’ammontare
secondo il criterio di cui si darà conto nel
prosieguo.
Qualora, invece, si dovesse optare per
l’acquisto dei terreni occupati, si rende
necessario puntualizzare che l’art. 42-bis
del DPR 327/01, in modo del tutto
innovativo, ha espressamente previsto che
l’acquisto al patrimonio indisponibile
dell’ente utilizzatore degli immobili
trasformati, ma non espropriati, debba
avvenire in modo non retroattivo.
Una tale precisazione (connessa al
perseguimento dell’obiettivo di evitare
possibili censure di incompatibilità del
modo di acquisto della proprietà così
disciplinato con i principi che regolano la
materia, discendenti dall’art. 42 della
Costituzione e dall’art. 1 del primo
protocollo allegato alla CEDU) implica che,
al contrario di quanto asserito da parte
ricorrente, per la quantificazione del
risarcimento del danno, il valore di mercato
dei terreni occupati debba essere quello
rilevabile al momento della traslazione
della proprietà, ovvero quello proprio del
momento in cui sarà adottato il
provvedimento che dispone l’acquisizione ex
art. 42-bis citato (in tal senso Cons.
Stato, IV, 02.12.2011, n. 6375).
In tal modo viene meno ogni necessità di
attualizzare i valori.
Specificato il momento di riferimento, il
valore di mercato dovrà, quindi, essere
ricercato tenendo conto della destinazione
urbanistica delle aree alla data
dell’immissione in possesso (rimanendo
ininfluenti, come da sempre affermato dalla
giurisprudenza, le successive vicende
urbanistiche dell’area).
A tale data la destinazione urbanistica
delle aree interessate dalla realizzazione
dell’opera pubblica è descritta (nella
perizia di stima del Comune, ma anche negli
atti delle ricorrenti) in parte quale sede
stradale (1400 mq), in parte quale fascia di
rispetto stradale (555 mq) e per 578 mq
quale area a standard urbanistici per
attrezzature di interesse collettivo, con
specifica destinazione a impianti sportivi
all’interno del perimetro di Piano attuativo
residenziale.
Il Collegio ritiene, però, che tale
descrizione incorra in un errore di fondo,
che prende le mosse dalla convinzione che la
presenza dei vincoli determini anche la
destinazione urbanistica delle aree. Invero
solo la “destinazione a impianti sportivi
all’interno del perimetro di Piano attuativo
residenziale” è una vera e propria
destinazione urbanistica. La “retinatura”
che individuava la sede stradale aveva,
invece, l’effetto di imporre un vincolo
preordinato all’esproprio, ma non ha
conferito all’area una nuova destinazione
urbanistica, tanto più che la viabilità in
questione risulta essere strumentale a
garantire un’adeguata circolazione a favore
di un’area edificabile.
E, peraltro, è principio ormai consolidato
in giurisprudenza quello per cui, nella
stima dei terreni espropriati ai fini della
determinazione dell'indennità, non si può
tener conto del vincolo espropriativo, né di
vincoli d'inedificabilità previsti da
strumenti generali preordinati
all'espropriazione, ma deve tenersi conto
soltanto dei vincoli previsti da strumenti
urbanistici di ordine generale non
preordinati all'esproprio, esistenti al
momento del verificarsi della vicenda
ablativa, nonché delle concrete ed
intrinseche caratteristiche dei terreni che
incidono sull'edificabilità di fatto degli
stessi (cfr., ex multis e tra le più
recenti, Cass. 15.01.2000, n. 425; 10.02.1999, n. 1113;
09.02.1999, n.
1090).
Dovendosi prescindere dal vincolo
espropriativo ricadente specificamente sui
suoli de quibus, quindi, la possibilità
legale di edificazione deve essere desunta
proprio dalla zona in cui essi erano
collocati, per cui, se essa è classificata
come edificabile dal P. di F. da assumersi
come riferimento nel caso di specie, anche
le superfici acquisite per la realizzazione
della strada inserita nell’ambito di tale
zona debbono essere qualificate come
edificabili.
Nel caso in esame, quindi, dovendosi
prescindere dal vincolo preordinato
all’esproprio discendente dalla previsione
urbanistica relativa alla realizzazione
della strada (o meglio, del raccordo tra via
Dosie e via Marchesi), non può trascurarsi
come l’area espropriata confini sui due lati
di via Dosie e sul lato in cui quest’ultima
via si innesta nella via Marchesi, lungo il
confine con questa, con aree a destinazione
edificabile. In ragione di ciò e del fatto
che il terreno espropriato risulta essere
inserito in una zona conformata come
edificabile dalla variante del Piano
regolatore approvata il 29.02.1984, la
destinazione a strada deve essere ritenuta
quale vincolo espropriativo, da cui
prescindere ai fini della quantificazione
del risarcimento del danno (così come di
quella che avrebbe dovuto essere l’indennità
di espropriazione), dovendosi qualificare il
terreno come a vocazione edificatoria (in
termini del tutto analoghi si confronti la
sentenza della Cassazione n. 434/2002).
Per quanto attiene al terreno occupato
assoggettato ai limiti propri delle fasce di
rispetto stradale, la giurisprudenza è
concorde nel ritenere che il vincolo di
inedificabilità ad esso connesso non abbia
natura espropriativa, ma unicamente
conformativa, in quanto riguarda una
generalità di beni e di soggetti ed abbia,
quindi, una funzione di salvaguardia della
circolazione, indipendentemente dalla
eventuale instaurazione di procedure
espropriative (v. TAR Milano, 21.04.2011, n. 1019, TAR Puglia Lecce Sez. I,
Sent., 19.10.2011, n. 1798). Anche in
questo caso, quindi, il valore delle aree
dovrà essere quantificato prescindendo dalla
presenza della fascia di rispetto e
considerando, quindi, le stesse come
edificabili.
Le aree con “destinazione a impianti
sportivi all’interno del perimetro di Piano
attuativo residenziale”, infine, non possono
nemmeno esse essere sottratte alla
qualificazione come edificabili, proprio in
ragione della loro inclusione nel perimetro
del piano attuativo stesso. Ciononostante,
nella determinazione del loro valore di
mercato, che, si ribadisce, deve essere
effettuata con riferimento al momento
attuale (o meglio al momento in cui avverrà
l’adozione dell’atto di acquisizione), non
si potrà trascurare che lo stesso è
sicuramente influenzato dalla circostanza
per cui il piano attuativo approvato alcuni
mesi dopo l’occupazione risulta (e non è
stato fornito alcun principio di prova
contrario) aver traslato la potenzialità
edificatoria collegata a tale area su altra
di proprietà delle odierne ricorrenti.
Nella quantificazione del risarcimento del
danno, quindi, per la porzione di proprietà
occupata allora soggetta a tale
destinazione, il Comune dovrà verificare se,
al momento dell’occupazione, al terreno
fosse collegata una potenzialità
edificatoria (per cui, anche se utilizzabile
su altro terreno, ciò incideva sul valore
incrementandolo) e la realizzazione
dell’opera abbia comportato la perdita della
volumetria connessa: in tal caso il valore
di tale terreno deve essere considerato pari
a quello delle aree edificabili. Se, invece,
la potenzialità edificatoria risultasse
essere stata sfruttata, anche in conseguenza
della sua traslazione su altro terreno,
allora tale circostanza non può che
diminuire il valore di mercato del terreno,
fino a parificarlo, sostanzialmente, a
quello delle aree agricole.
Lo stesso valore, sostanzialmente pari al
prezzo di mercato delle aree agricole, dovrà
essere riconosciuto per le fasce vincolate a
verde di rispetto, trattandosi in questo
caso di un vincolo conformativo della
proprietà conseguente alla inclusione delle
aree nel Piano attuativo ed in alcun modo
connesso (per quanto riguarda l’incidenza
sul loro valore) con la realizzazione della
strada.
Nessuna contestazione è mossa alla
quantificazione dei frutti pendenti, con la
conseguenza che rimane fermo l’ammontare del
risarcimento fissato dal Comune in misura
pari al controvalore in euro di 1.000.000 di
Lire.
Nessun risarcimento è dovuto per
l’imposizione di fasce di rispetto stradale.
Come chiarito dalla, da tempo costante,
giurisprudenza, non sono indennizzabili “i
vincoli posti a carico di intere categorie
di beni (tra questi, i vincoli urbanistici
di tipo conformativo, e i vincoli relativi
ai beni culturali e paesaggistici). In altri
termini, in tema di imposizione di vincoli
urbanistici, non vi è il presupposto per un
indennizzo quando i modi di godimento e i
limiti imposti (direttamente dalla legge
ovvero mediante un particolare procedimento
amministrativo) riguardino intere categorie
di beni secondo caratteristiche loro
intrinseche, con carattere di generalità ed
in modo obiettivo; in questi casi, le
limitazioni delle facoltà del proprietario
ricadono nella previsione non del comma
terzo, bensì del comma secondo, dell'art.
42, Cost. Pertanto, i limiti non ablatori
normalmente posti nei regolamenti
urbanistici o nella pianificazione
urbanistica e relative norme tecniche,
riguardanti altezza, cubatura, superficie
coperta, distanze, zone di rispetto, indici
di fabbricabilità, limiti e rapporti per
zone territoriali omogenee e simili, sono
vincoli conformativi, connaturali alla
proprietà, e non comportano indennizzo.”
(così TAR Umbria, 12.07.2007, n. 554,
ma anche, da ultimo, Cons. Stato, VI, 04.04.2011, n. 2083).
In modo del tutto analogo e coerente, non
sono suscettibili di indennizzo nemmeno i
limiti derivanti dall’imposizione di una
fascia di rispetto conseguente direttamente
all’avvenuta realizzazione dell’opera
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 08.02.2012 n. 200 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Premesso
che la nozione di rete di telecomunicazione,
per definizione, richiede una distribuzione
capillare nei diversi punti del territorio,
ed è assimilata, in via normativa, alle
infrastrutture di reti pubbliche di
telecomunicazione alle opere di
urbanizzazione primaria (art. 86, comma 3,
del D.lgs. n. 259/2003), devono ritenersi
illegittime le prescrizioni di piano e di
regolamento che si traducono in limiti alla
localizzazione e allo sviluppo della rete
per intere zone, per di più con scelta
generale ed astratta ed in assenza di
giustificazioni afferenti alla specifica
tipologia dei luoghi o alla presenza di siti
che per destinazioni d' uso possano essere
qualificati come sensibili.
Nella materia la giurisprudenza ha
condivisibilmente affermato:
- che i "criteri di localizzazione" degli
impianti non possono trasformarsi in
"limitazioni alla localizzazione", così da
configurarsi incompatibili con la
possibilità di realizzare una rete completa
di infrastrutture per la telecomunicazione;
- che non può tradursi la determinazione a
regime di limiti di localizzazione degli
impianti -atteso il suo carattere
generalizzato e il riferimento al dato
oggettivo dell'esistenza di insediamenti
abitativi- in una misura surrettizia di
tutela della popolazione da immissioni
radioelettriche, che l'art. 4 della legge n.
36/2000 riserva allo Stato attraverso
l'individuazione di puntuali limiti di
esposizione, valori di attenzione ed
obiettivi di qualità, da introdursi con
D.P.C.M., su proposta del Ministro
dell'Ambiente di concerto con il Ministro
della Salute;
- che la scelta dei criteri di insediamento
degli impianti deve tenere conto della
nozione di "rete di telecomunicazione, che
richiede una diffusione capillare sul
territorio”;
- che deve tenersi conto, infine, anche del
fatto che l'assimilazione in via normativa
delle infrastrutture di reti pubbliche di
telecomunicazione alle opere di
urbanizzazione primaria, implica che le
medesime non siano avulse dall'insediamento
abitativo, ma debbano porsi al servizio
dello stesso.
Il Comune, ancorché mantenga intatte le
proprie competenze in materia di governo del
territorio, per espressa valutazione
legislativa, non può interferire con le
competenze relative alla installazione delle
reti di telecomunicazione e, in particolare,
non può determinare vincoli e limiti così
stringenti da concretizzarsi in un divieto
di carattere generalizzato di installazione
degli impianti in zone urbanistiche
identificate (senza prevedere alcuna
possibile localizzazione alternativa) in
contrasto con le esigenze tecniche
necessarie a consentire la realizzazione
effettiva della rete di telefonia cellulare
che assicuri la copertura del servizio
nell'intero nel territorio comunale.
Ai sensi del D.lgs. n. 259/2003, gli
impianti in questione e le opere accessorie
occorrenti per la loro funzionalità hanno
"carattere di pubblica utilità", con
possibilità, quindi, di essere ubicati in
qualsiasi parte del territorio comunale,
essendo compatibili con tutte le
destinazioni urbanistiche.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, condiviso dal
Collegio, premesso che la nozione di rete di
telecomunicazione, per definizione, richiede
una distribuzione capillare nei diversi
punti del territorio, ed è assimilata, in
via normativa, alle infrastrutture di reti
pubbliche di telecomunicazione alle opere di
urbanizzazione primaria (art. 86, comma 3,
del D.lgs. n. 259/2003), devono ritenersi
illegittime le prescrizioni di piano e di
regolamento che si traducono in limiti alla
localizzazione e allo sviluppo della rete
per intere zone, per di più con scelta
generale ed astratta ed in assenza di
giustificazioni afferenti alla specifica
tipologia dei luoghi o alla presenza di siti
che per destinazioni d' uso possano essere
qualificati come sensibili (cfr. Cons. di
Stato, VI, n. 1567/2007).
Nella materia la giurisprudenza ha condivisibilmente affermato:
- che i "criteri di localizzazione" degli
impianti non possono trasformarsi in
"limitazioni alla localizzazione", così da
configurarsi incompatibili con la
possibilità di realizzare una rete completa
di infrastrutture per la telecomunicazione
(cfr. Corte Costituzionale, sentenza
15.10/7.11.2003 n. 331 e 07.10.2003 n. 307);
- che non può tradursi la determinazione a
regime di limiti di localizzazione degli
impianti -atteso il suo carattere
generalizzato e il riferimento al dato
oggettivo dell'esistenza di insediamenti
abitativi- in una misura surrettizia di
tutela della popolazione da immissioni
radioelettriche, che l'art. 4 della legge n.
36/2000 riserva allo Stato attraverso
l'individuazione di puntuali limiti di
esposizione, valori di attenzione ed
obiettivi di qualità, da introdursi con D.P.C.M., su proposta del Ministro
dell'Ambiente di concerto con il Ministro
della Salute (cfr., Cons. di Stato, VI, n.
7274 /2002; n. 4159/2005);
- che la scelta dei criteri di insediamento
degli impianti deve tenere conto della
nozione di "rete di telecomunicazione, che
richiede una diffusione capillare sul
territorio”;
- che deve tenersi conto, infine, anche del
fatto che l'assimilazione in via normativa
delle infrastrutture di reti pubbliche di
telecomunicazione alle opere di
urbanizzazione primaria, implica che le
medesime non siano avulse dall'insediamento
abitativo, ma debbano porsi al servizio
dello stesso (cfr. Cons. di Stato, VI,
08.09.2009, n. 5258) .
Alla stregua dei predetti principi, la
scelta operata nella specie dal Comune
resistente non sfugge dunque alle doglianze
di violazione dell'art. 86 del D.lgs. n.
259/2003 e della legge n. 36/2001 dedotte
nel ricorso, né si configura conforme a
criteri di ragionevolezza, di adeguatezza e
di proporzionalità delle misure stabilite
negli atti impugnati, in quanto il Comune,
ancorché mantenga intatte le proprie
competenze in materia di governo del
territorio, per espressa valutazione
legislativa, non può interferire con le
competenze relative alla installazione delle
reti di telecomunicazione e, in particolare,
non può determinare vincoli e limiti così
stringenti da concretizzarsi in un divieto
di carattere generalizzato di installazione
degli impianti in zone urbanistiche
identificate (senza prevedere alcuna
possibile localizzazione alternativa) in
contrasto con le esigenze tecniche
necessarie a consentire la realizzazione
effettiva della rete di telefonia cellulare
che assicuri la copertura del servizio
nell'intero nel territorio comunale (cfr.
Cons. di Stato, VI, 08.09.2009 , n. 5258).
Vi è, infine, da osservare che, ai
sensi del D.lgs. n. 259/2003, gli impianti
in questione e le opere accessorie
occorrenti per la loro funzionalità hanno
"carattere di pubblica utilità", con
possibilità, quindi, di essere ubicati in
qualsiasi parte del territorio comunale,
essendo compatibili con tutte le
destinazioni urbanistiche (residenziale,
verde, agricola, ecc.: cfr. in tal senso, C.G.A. ordinanza
05.07.2006, n. 543; Cons.
Stato, VI, 04.09.2006, n. 5096; TAR
Campania, Napoli, VII, 10.06.2011, n. 3074;
TAR Sicilia, Palermo II, 09.03.2011, n.
419).
Il Collegio ritiene, pertanto, che il
Comune resistente abbia errato
nell’interpretazione e nell’applicazione
delle disposizioni delle N.T.A. richiamate
nel diniego impugnato laddove ha incluso tra
gli interventi vietati, di cui al secondo
comma dell’art. 30 delle N.T.A., anche le
S.R.B. per la telefonia mobile. Ne discende,
quindi, sotto tale profilo la carenza di
interesse della società ricorrente, una
volta ottenuto l’annullamento del diniego
impugnato per le ragioni suesposte,
all’eliminazione anche delle predette N.T.A.
in quanto non contenenti specifiche
disposizioni in materia di installazione
delle S.R.B.
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
08.02.2012 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
procedura di aggiudicazione non possa dirsi
conclusa sino a che non sia intervenuta
l’aggiudicazione definitiva.
Qualora la prova del possesso dei requisiti
di capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa non sia fornita,
ovvero non vi sia conferma delle
dichiarazioni contenute nella domanda di
partecipazione o nell'offerta, si deve
procedere all'esclusione del concorrente
dalla gara e all'escussione della cauzione
provvisoria. Quest'ultima conseguenza ha la
funzione di garantire la veridicità delle
dichiarazioni fornite dalle imprese in sede
di partecipazione alla gara in ordine al
possesso dei requisiti prescritti dal bando
o dalla lettera di invito, così da
assicurare l'affidabilità dell'offerta, il
cui primo indice è rappresentato proprio
dalla correttezza e dalla serietà del
comportamento del concorrente. Pertanto, la
mancata dimostrazione, nel previsto termine
legale, del possesso dei requisiti
prescritti dal bando, legittima l'esclusione
dalla gara e, quale automatica conseguenza
discendente ex lege, l'escussione della
cauzione senza che possa darsi positivo
rilievo né al carattere psicologico della
violazione né all'effettivo possesso dei
requisiti da parte dell'impresa, ovvero alla
produzione di documenti prescritti.
Nel caso di specie, infatti, non solo non vi è stata la
stipulazione del contratto –che normalmente
rappresenta il discrimine tra ambito di
competenza del giudice amministrativo
(avente cognizione sul procedimento che
conduce all’individuazione del contraente) e
del giudice ordinario (avente cognizione su
ogni questione relativa all’adempimento del
contratto stipulato)– ma non è nemmeno
intervenuta l’aggiudicazione definitiva, per
cui deve ritenersi che si controverta ancora
nell’ambito del procedimento di
aggiudicazione dell’appalto.
A sostegno di tale conclusione basti
ricordare la copiosa giurisprudenza dalla
quale si inferisce come la procedura di
aggiudicazione non possa dirsi conclusa sino
a che non sia intervenuta l’aggiudicazione
definitiva (in tal senso, tra le altre,
TAR Toscana Firenze, sez. II, 29.01.2009, n. 149).
Il corretto inquadramento della fattispecie
in termini di verifica delle ragioni che
hanno determinato la mancata adozione
dell’aggiudicazione definitiva e la
conseguente mancata stipulazione del
contratto, consente, pertanto, non solo di
risolvere puntualmente la questione
dell’individuazione del giudice competente,
ma anche di ricondurre la medesima ad un
ipotesi di violazione degli obblighi
precontrattuali gravanti sull’odierna
ricorrente e correlati alla diligenza
imposta alle parti nel porre in essere le
attività cui sono tenute per addivenire alla
stipula del contratto.
Ravvisata la giurisdizione di questo
Tribunale, deve, peraltro, darsi atto di
come nel caso di specie l’escussione della
cauzione fosse già, prima della notifica del
ricorso in esame, sub judice del giudice
ordinario, adito per ottenere l’adozione di
un decreto ingiuntivo. Non può, però,
ritenersi sussistere la litispendenza nel
senso invocato da parte resistente.
Tra i due giudizi non si pone un problema di
violazione del principio del ne bis in idem,
in quanto l’accertamento della legittimità
del titolo escusso (e cioè della
determinazione sulla scorta della quale si è
ritenuto sussistere l’inadempimento
dell’obbligo di stipulare) deve ritenersi
precluso al giudice ordinario, mentre
l’esito dell’opposizione al decreto
ingiuntivo non potrebbe avere alcuna refluenza sulla legittimità degli atti
prodromici che hanno condotto all’escussione
della cauzione (sulla natura
dell’opposizione al decreto ingiuntivo di
escussione della cauzione cfr. Tribunale
Roma, II 18.09.2006).
Ciò precisato in rito, una corretta
comprensione della controversia in esame
richiede preliminarmente di sottolineare
come, nonostante parte ricorrente tenti di
ricondurre la vicenda ad un’ipotesi di
decadenza del termine di validità
dell’offerta per fatto imputabile alla
stazione appaltante, l’amministrazione abbia
fondato i propri provvedimenti sulla
constatazione della mancata produzione dei
documenti attestanti il possesso dei
requisiti richiesti. In particolare, nella
fattispecie, le imprese –che avevano
presentato la propria offerta dichiarando
l’intenzione di costituirsi in forma di
raggruppamento temporaneo– avevano,
successivamente all’aggiudicazione
provvisoria, manifestato la volontà di
costituire una società di progetto: ipotesi
avvallata dall’amministrazione, che,
nonostante quanto dedotto dalle ricorrenti,
sostiene di aver fornito tutti i chiarimenti
a ciò necessari.
A prescindere dall’accertamento della
veridicità di tale affermazione, ciò che
rileva in concreto è la circostanza, non
smentita dalle imprese ricorrenti, della
mancata produzione della documentazione
relativa alla costituzione di tale società,
in ordine alla quale a nulla rileva
l’asserita mancata comunicazione dei
chiarimenti richiesti, del tutto generici.
Diversamente opinando lo spirito della norma
risulterebbe frustrato, in quanto il termine
di vincolatività dell’offerta finirebbe
paradossalmente per trasformarsi in
un’opportunità per l’aggiudicatario di
liberarsi da ogni impegno contrattuale
assunto in sede di presentazione
dell’offerta: basterebbe, infatti, allo
stesso procrastinare la produzione dei
documenti necessari alla stipula per poi
poter invocare la sopravvenuta scadenza del
termine per la produzione della
documentazione e svincolarsi da ogni obbligo
assunto con la presentazione dell’offerta.
In altre parole, come costantemente
affermato dalla giurisprudenza in argomento,
“Qualora la prova del possesso dei requisiti
di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa non sia fornita, ovvero non vi
sia conferma delle dichiarazioni contenute
nella domanda di partecipazione o
nell'offerta, si deve procedere
all'esclusione del concorrente dalla gara e
all'escussione della cauzione provvisoria.
Quest'ultima conseguenza ha la funzione di
garantire la veridicità delle dichiarazioni
fornite dalle imprese in sede di
partecipazione alla gara in ordine al
possesso dei requisiti prescritti dal bando
o dalla lettera di invito, così da
assicurare l'affidabilità dell'offerta, il
cui primo indice è rappresentato proprio
dalla correttezza e dalla serietà del
comportamento del concorrente. Pertanto, la
mancata dimostrazione, nel previsto termine
legale, del possesso dei requisiti
prescritti dal bando, legittima l'esclusione
dalla gara e, quale automatica conseguenza
discendente ex lege, l'escussione della
cauzione senza che possa darsi positivo
rilievo né al carattere psicologico della
violazione né all'effettivo possesso dei
requisiti da parte dell'impresa, ovvero alla
produzione di documenti prescritti” (le
parole sono della sentenza TAR Lazio
Roma, sez. III, 02.03.2009, n. 2113).
Nel merito, quindi, la questione risulta
essere incentrata sulla riconducibilità a
fatto del raggruppamento ricorrente
dell’impossibilità di addivenire
all’aggiudicazione definitiva quale
conseguenza della mancata produzione della
documentazione a tale fine necessaria,
espressamente richiesta dalla stazione
appaltante e mai prodotta
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 08.02.2012 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere di sospensione dei lavori in corso,
attribuito all'autorità comunale dall'art.
27, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, è di
tipo cautelare, in quanto destinato ad
evitare che la prosecuzione dei lavori
determini un aggravarsi del danno
urbanistico, e alla descritta natura
interinale del potere segue che il
provvedimento emanato nel suo esercizio ha
la caratteristica della provvisorietà, fino
all'adozione dei provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a
seguito dello spirare del termine di 45
giorni, ove l'amministrazione non abbia
emanato alcun provvedimento sanzionatorio
definitivo, l'ordine in questione perde ogni
efficacia, mentre, nell'ipotesi di emanazione
del provvedimento sanzionatorio, è in virtù
di quest'ultimo che viene a determinarsi la
lesione della sfera giuridica del
destinatario con conseguente
"assorbimento" dell'ordine di
sospensione dei lavori.
... secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza,
condiviso dal Collegio, il potere di
sospensione dei lavori in corso, attribuito
all'autorità comunale dall'art. 27, comma 3,
del D.P.R. n. 380/2001, è di tipo cautelare,
in quanto destinato ad evitare che la
prosecuzione dei lavori determini un
aggravarsi del danno urbanistico, e alla
descritta natura interinale del potere segue
che il provvedimento emanato nel suo
esercizio ha la caratteristica della
provvisorietà, fino all'adozione dei
provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a
seguito dello spirare del termine di 45
giorni, ove l'amministrazione non abbia
emanato alcun provvedimento sanzionatorio
definitivo, l'ordine in questione perde ogni
efficacia (cfr. tra le tante TAR Campania
Salerno, sez. II, 06.10.2005, n.
1901), mentre, nell'ipotesi di emanazione
del provvedimento sanzionatorio, è in virtù
di quest'ultimo che viene a determinarsi la
lesione della sfera giuridica del
destinatario (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II, 21.07.2005, n. 5810) con conseguente
"assorbimento" dell'ordine
di sospensione dei lavori
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
08.02.2012 n. 198 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
certificato di agibilità attesta la
corrispondenza dell’opera realizzata al
progetto assentito, dal punto di vista
dimensionale, della destinazione d’uso e
delle eventuali prescrizioni contenute nel
titolo, nonché certifica la sussistenza
delle condizioni di sicurezza, igiene,
salubrità degli edifici, di risparmio
energetico e di sicurezza degli impianti
installati, alla stregua della normativa
vigente.
Siccome la conformità dei manufatti alle
norme urbanistico-edilizie costituisce
presupposto indispensabile per il legittimo
rilascio del certificato di agibilità, come
si evince dall’art. 24 del D.P.R. n.
380/2001, ne discende che in assenza del
titolo edilizio per la realizzazione delle
opere necessarie al cambio di destinazione
d’uso, correttamente l’Amministrazione
comunale ha constatato l’assenza di
agibilità per il fabbricato
dell’Associazione ricorrente.
Il
certificato di agibilità attesta la
corrispondenza dell’opera realizzata al
progetto assentito, dal punto di vista
dimensionale, della destinazione d’uso e
delle eventuali prescrizioni contenute nel
titolo, nonché certifica la sussistenza
delle condizioni di sicurezza, igiene,
salubrità degli edifici, di risparmio
energetico e di sicurezza degli impianti
installati, alla stregua della normativa
vigente (cfr. TAR Umbria, 18.11.2010, n.
512).
Orbene, siccome la conformità dei manufatti
alle norme urbanistico-edilizie costituisce
presupposto indispensabile per il legittimo
rilascio del certificato di agibilità, come
si evince dall’art. 24 del D.P.R. n.
380/2001, ne discende che in assenza del
titolo edilizio per la realizzazione delle
opere necessarie al cambio di destinazione
d’uso, correttamente l’Amministrazione
comunale ha constatato l’assenza di
agibilità per il fabbricato
dell’Associazione ricorrente.
Né d’altro canto spiega alcuna incidenza
sulla predetta constatazione l’esistenza del
certificato di agibilità rilasciato nel 1997
in relazione al medesimo immobile, essendo
lo stesso relativo allo stato dei luoghi e
alla destinazione d’uso antecedente alle
modifiche apportate con le opere oggetto
della SCIA n. 482/2010
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
08.02.2012 n. 198 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sono
da ritenersi illegittime tutte quelle
prescrizioni a contenuto generale che
rendono impossibile collocare qualsiasi tipo
di cartello pubblicitario entro un'ampia
fascia di territorio comunale, in quanto ciò
determina un'irragionevole compressione del
diritto di iniziativa economica.
Tale diritto si deve coniugare, con
riferimento all'installazione di mezzi
pubblicitari lungo le strade, con il solo
limite (secondo quanto previsto dall'art. 23
del codice della strada) del divieto
scaturente dalla possibilità che l'impianto
stesso arrechi pregiudizio alla sicurezza
stradale o alla visuale.
Invero l'art. 3 del d.lgs. n. 507/1993
consente all'ente locale anche di imporre
limitazioni, ma solo per particolari forme
di pubblicità ed esclusivamente laddove ciò
possa rispondere ad esigenze di pubblico
interesse.
Questo Tribunale ha già avuto modo di precisare, consolidando un
orientamento da cui non si ravvisano ragioni
di discostarsi, “che sono da ritenersi
illegittime tutte quelle prescrizioni a
contenuto generale che rendono impossibile
collocare qualsiasi tipo di cartello
pubblicitario entro un'ampia fascia di
territorio comunale, in quanto ciò determina
un'irragionevole compressione del diritto di
iniziativa economica” (cfr TAR Brescia
Sez. II, 26.11.2010, n. 4671).
Tale diritto si deve coniugare, con
riferimento all'installazione di mezzi
pubblicitari lungo le strade, con il solo
limite (secondo quanto previsto dall'art. 23
del codice della strada) del divieto
scaturente dalla possibilità che l'impianto
stesso arrechi pregiudizio alla sicurezza
stradale o alla visuale.
Invero l'art. 3 del d.lgs. n. 507/1993
consente all'ente locale anche di imporre
limitazioni, ma solo per particolari forme
di pubblicità ed esclusivamente laddove ciò
possa rispondere ad esigenze di pubblico
interesse.
Nel caso di specie il provvedimento di
diniego si fonda esclusivamente
sull’esistenza della norma regolamentare, la
quale, a sua volta, si limita ad introdurre
un divieto generalizzato che, in forza di
quanto ora rappresentato, non può avere
cittadinanza nell’ordinamento: entrambe gli
atti, sia quello a contenuto generale, che
quello esecutivo, risultano, quindi, essere
privi del necessario fondamento giuridico e
debbono, pertanto, essere annullati.
Rispetto al censurato diniego risulta,
infatti, esclusa ogni valutazione in
concreto di contrasto del posizionamento dei
mezzi pubblicitari in questione con
l’interesse alla sicurezza della
circolazione espressamente tutelato; ciò
integra un’illegittima lesione
dell’iniziativa privata che impone la
caducazione dei provvedimenti impugnati
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 08.02.2012 n. 198 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Con
l'introduzione del Capo IV-bis della legge
n. 241/1990 ad opera della legge n. 15/2005,
nella specie con l'art. 21-nonies, il
legislatore ha dettato norme in tema di
autotutela amministrativa, recependo i
principi giurisprudenziali e la prassi
amministrativa formatisi in assenza di una
disciplina normativa.
Tra questi, la regola secondo la quale il
provvedimento di annullamento in autotutela
costituisce manifestazione della
discrezionalità dell'Amministrazione, nel
senso che essa non è obbligata a ritirare
gli atti illegittimi o inopportuni in quanto
tali, ma deve valutare, di volta in volta,
se esista un interesse pubblico alla loro
eliminazione diverso dal semplice
ristabilimento della legalità violata.
Siffatto interesse pubblico non è
esplicitato a priori dalla norma, ma deve
essere ricavato dalla stessa
Amministrazione, caso per caso, attraverso
un'attività di "comparazione tra l'interesse
pubblico al ripristino della legalità e gli
interessi dei destinatari del provvedimento
e dei controinteressati"; il tutto, tenendo
nella debita considerazione anche la
circostanza che il provvedimento da
annullare possa avere prodotto effetti
favorevoli, valutandone la rilevanza, e che
sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo
(fattore di stabilizzazione) dal momento
della sua emissione.
Tali elementi, infatti, integrano la nozione
di "stabilità della situazione venutasi a
creare per effetto del provvedimento
favorevole" e rappresentano un limite
all'esercizio del potere di autoannullamento.
Pertanto, nella comparazione tra le esigenze
sottese a un intempestivo e pregiudizievole
annullamento in autotutela dell'atto e
quelle sottese alla conservazione di
quest'ultimo, l'Amministrazione, in forza
del citato art. 21-nonies, è tenuta a optare
per la soluzione che meglio contemperi la
necessità del ripristino della legittimità e
la salvezza degli altri interessi
concorrenti.
Pertanto, il vigente art. 21-nonies esclude
che si possa procedere all'annullamento
d'ufficio in difetto di tutti requisiti ivi
individuati.
In via di inquadramento generale, il
Collegio ricorda che con l'introduzione del
Capo IV-bis della legge n. 241/1990 ad opera
della legge n. 15/2005, nella specie con
l'art. 21-nonies, il legislatore ha dettato
norme in tema di autotutela amministrativa,
recependo i principi giurisprudenziali e la
prassi amministrativa formatisi in assenza
di una disciplina normativa.
Tra questi, la regola secondo la quale il
provvedimento di annullamento in autotutela
costituisce manifestazione della
discrezionalità dell'Amministrazione, nel
senso che essa non è obbligata a ritirare
gli atti illegittimi o inopportuni in quanto
tali, ma deve valutare, di volta in volta,
se esista un interesse pubblico alla loro
eliminazione diverso dal semplice
ristabilimento della legalità violata.
Siffatto interesse pubblico non è
esplicitato a priori dalla norma, ma deve
essere ricavato dalla stessa
Amministrazione, caso per caso, attraverso
un'attività di "comparazione tra
l'interesse pubblico al ripristino della
legalità e gli interessi dei destinatari del
provvedimento e dei controinteressati";
il tutto, tenendo nella debita
considerazione anche la circostanza che il
provvedimento da annullare possa avere
prodotto effetti favorevoli, valutandone la
rilevanza, e che sia trascorso un
apprezzabile lasso di tempo (fattore di
stabilizzazione) dal momento della sua
emissione.
Tali elementi, infatti, integrano la nozione
di "stabilità della situazione venutasi a
creare per effetto del provvedimento
favorevole" e rappresentano un limite
all'esercizio del potere di autoannullamento.
Pertanto, nella comparazione tra le esigenze
sottese a un intempestivo e pregiudizievole
annullamento in autotutela dell'atto e
quelle sottese alla conservazione di
quest'ultimo, l'Amministrazione, in forza
del citato art. 21-nonies, è tenuta a optare
per la soluzione che meglio contemperi la
necessità del ripristino della legittimità e
la salvezza degli altri interessi
concorrenti.
Pertanto, come recentemente affermato anche
da questa Sezione, il vigente art. 21-nonies
esclude che si possa procedere
all'annullamento d'ufficio in difetto di
tutti requisiti ivi individuati (cfr. TAR
Veneto, II, 30.09.2010, n. 5242; TAR Veneto,
II, 02.04.2010, n. 1268; Cons. Stato, sez.
IV, 31.10.2006, n. 6465) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza
08.02.2012 n. 197 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell'abuso edilizio ed il
protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione
preposta alla vigilanza, comporta la nascita
di una posizione di affidamento nel privato
cittadino, in relazione alla quale
l'esercizio del potere repressivo è
subordinato ad un onere di congrua
motivazione che, avuto riguardo anche
all'entità e alla tipologia dell'abuso,
indichi il pubblico interesse, evidentemente
diverso da quello ripristino della legalità,
idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato.
Secondo
l'orientamento della giurisprudenza
condiviso dal Collegio, il lungo lasso di
tempo trascorso dalla commissione dell'abuso
edilizio ed il protrarsi dell'inerzia
dell'Amministrazione preposta alla
vigilanza, comporta la nascita di una
posizione di affidamento nel privato
cittadino, in relazione alla quale
l'esercizio del potere repressivo è
subordinato ad un onere di congrua
motivazione che, avuto riguardo anche
all'entità e alla tipologia dell'abuso,
indichi il pubblico interesse, evidentemente
diverso da quello ripristino della legalità,
idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato (cfr. (TAR
Campania, Napoli, IV, 09.04.2010, n. 1890;
TAR Campania, Napoli, IV, 24.05.2010, n.
8343) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza
08.02.2012 n. 197 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
presentazione della domanda di
partecipazione ad un gara di appalto non è
necessaria a dimostrare la sussistenza di un
interesse concreto ed attuale
all’annullamento della stessa in presenza di
una clausola del bando la cui natura
escludente non può essere negata in ragione
della possibilità di sopperire alla carenza
del requisito mediante il ricorso al
raggruppamento o all’avvalimento.
Il Collegio, in sede cautelare, ha quindi ritenuto, anche alla luce
della giurisprudenza che ha ormai chiarito
come la presentazione della domanda non sia
necessaria a dimostrare la sussistenza di un
interesse concreto ed attuale
all’annullamento in presenza di una clausola
del bando la cui natura escludente non può
essere negata in ragione della possibilità
di sopperire alla carenza del requisito
mediante il ricorso al raggruppamento o all’avvalimento
(cfr. TAR Lombardia Milano Sez. I, 09.06.2011, n. 1493, in applicazione del
principio di cui alla sentenza Cons. Stato,
Ad. Plen. n. 4 del 2011) che il ricorso
fosse ammissibile
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 08.02.2012 n. 197 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il riesame
dell'abusività dell'opera edilizia,
provocato dall'istanza di sanatoria
dell'autore dell'abuso, determina la
necessaria formazione di un nuovo
provvedimento che vale comunque a rendere
inefficace il provvedimento sanzionatorio in
precedenza emanato con la conseguenza che,
in caso di rigetto dell'istanza,
l'Amministrazione deve emanare un nuovo
provvedimento sanzionatorio, disponendo
nuovamente la demolizione dell'opera
edilizia ritenuta abusiva, con
l'assegnazione di un nuovo termine per
adempiere.
- considerato che successivamente all’adozione del provvedimento impugnato,
diffida a demolire del 19.12.2011, il Comune
intimato (come documentato in atti) ha
definito la pratica relativa all’istanza di
sanatoria -presentata, ai sensi dell’art.
36 del D.P.R. 380/2001, dalla ricorrente per
l’abuso contestato- con provvedimento di
rigetto datato 20.12.2011, successivamente
notificato;
-
atteso quindi che il provvedimento impugnato
è comunque intervenuto prima che
l’amministrazione si fosse definitivamente
determinata in ordine alla richiesta di
sanatoria,
il ricorso è meritevole di accoglimento, in
quanto la diffida risulta illegittimamente
assunta nei confronti della ricorrente,
stanti gli effetti dell’avvenuta
presentazione della richiesta di sanatoria.
Invero, per un principio giurisprudenziale
consolidato nella materia, "Il riesame
dell'abusività dell'opera edilizia,
provocato dall'istanza di sanatoria
dell'autore dell'abuso, determina la
necessaria formazione di un nuovo
provvedimento che vale comunque a rendere
inefficace il provvedimento sanzionatorio in
precedenza emanato con la conseguenza che,
in caso di rigetto dell'istanza,
l'Amministrazione deve emanare un nuovo
provvedimento sanzionatorio, disponendo
nuovamente la demolizione dell'opera
edilizia ritenuta abusiva, con
l'assegnazione di un nuovo termine per
adempiere." ( Consiglio di Stato, sez. IV,
03.12.2010, n. 8502).
Ne deriva che, essendo divenuto inefficace
l’iniziale ordine di demolizione per effetto
del riesame dell'abusività dell'intervento
edilizio di cui trattasi, provocato
dall'istanza di accertamento di conformità
presentata dalla ricorrente (sulla quale
l'Amministrazione si è pronunciata
negativamente con la determinazione n. 46404
in data 20.12.2011), l'Amministrazione
avrebbe dovuto adottare un nuovo ordine di
demolizione, assegnando alla ricorrente un
nuovo termine di 90 giorni per provvedere
spontaneamente alla rimozione delle opere
abusive, e, quindi, evitare l'adozione del
provvedimento di acquisizione gratuita al
patrimonio comunale delle stesse e della
relativa area di sedime
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
08.02.2012 n. 193 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini della decorrenza del termine di
impugnazione di un permesso di costruire, il
requisito della piena conoscenza non postula
necessariamente la conoscenza di tutti i
suoi elementi, essendo sufficiente quella
degli elementi essenziali quali l'autorità
emanante, la data, il contenuto dispositivo
e il suo effetto lesivo, salva la
possibilità di proporre motivi aggiunti ove
dalla conoscenza integrale del provvedimento
e degli atti presupposti emergano ulteriori
profili di illegittimità.
E d’altra parte è noto che “ai fini della
decorrenza del termine di impugnazione di un
permesso di costruire, il requisito della
piena conoscenza non postula necessariamente
la conoscenza di tutti i suoi elementi,
essendo sufficiente quella degli elementi
essenziali quali l'autorità emanante, la
data, il contenuto dispositivo e il suo
effetto lesivo, salva la possibilità di
proporre motivi aggiunti ove dalla
conoscenza integrale del provvedimento e
degli atti presupposti emergano ulteriori
profili di illegittimità" (Consiglio di
Stato V Sezione 12.07.2010 n. 4482)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.02.2012 n.
427 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'omessa
indicazione del termine e dell'autorità cui
ricorrere non determina l'illegittimità del
provvedimento amministrativo, ma solo una
mera irregolarità, in quanto la disposizione
dell'art. 3 comma 4, l. n. 241 del 1990 non
influisce sull'individuazione e sulla cura
dell'interesse pubblico concreto cui è
finalizzato il provvedimento, né sulla
riconducibilità dello stesso all'autorità
amministrativa, ma tende semplicemente ad
agevolare il ricorso alla tutela
giurisdizionale (sicché l'omissione di cui
si duole il ricorrente potrebbe semmai dar
luogo, nel concorso di significative
ulteriori circostanze, alla concessione del
beneficio della rimessione in termini).
E' pacifico come l'omessa indicazione del
termine e dell'autorità cui ricorrere non
determina l'illegittimità del provvedimento
amministrativo, ma solo una mera
irregolarità, in quanto la disposizione
dell'art. 3 comma 4, l. n. 241 del 1990 non
influisce sull'individuazione e sulla cura
dell'interesse pubblico concreto cui è
finalizzato il provvedimento, né sulla
riconducibilità dello stesso all'autorità
amministrativa, ma tende semplicemente ad
agevolare il ricorso alla tutela
giurisdizionale (sicché l'omissione di cui
si duole il ricorrente potrebbe semmai dar
luogo, nel concorso di significative
ulteriori circostanze, alla concessione del
beneficio della rimessione in termini)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.02.2012 n.
423 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
tema di appalti pubblici deve ritenersi
sussistente l'obbligo previsto dall'art. 38
dlgs 163/2006 non soltanto da parte di chi
rivesta formalmente la carica di
amministratore, ma anche da parte di colui
che, in qualità di procuratore speciale,
abbia ottenuto il conferimento di poteri
consistenti nella rappresentanza
dell'impresa e nel compimento di atti
decisionali; nelle ipotesi in cui la legge
speciale di gara commini in modo espresso
l'esclusione dalla procedura in relazione al
solo dato della mancata dichiarazione non
trovano applicazione gli orientamenti
giurisprudenziali sul falso innocuo, in base
ai quali la predetta misura non sarebbe
giustificata in caso di mancato pregiudizio
agli interessi presidiati dalla norma in
parola.
... considerato che i predetti principi sono
stati anche di recente affermati dal
Consiglio di Stato (confronta sentenza
18.01.2012, Sez. VI, n. 178): "in tema di
appalti pubblici deve ritenersi sussistente
l'obbligo previsto dall'articolo 38 non
soltanto da parte di chi rivesta formalmente
la carica di amministratore, ma anche da
parte di colui che, in qualità di
procuratore speciale, abbia ottenuto il
conferimento di poteri consistenti nella
rappresentanza dell'impresa e nel compimento
di atti decisionali; nelle ipotesi in cui la
legge speciale di gara commini in modo
espresso l'esclusione dalla procedura in
relazione al solo dato della mancata
dichiarazione non trovano applicazione gli
orientamenti giurisprudenziali sul falso
innocuo, in base ai quali la predetta misura
non sarebbe giustificata in caso di mancato
pregiudizio agli interessi presidiati dalla
norma in parola”
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza
06.02.2012 n. 173 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'art. 38, I comma, lett. i) del
codice dei contratti è interpretato nel
senso che il principio dell'autonomia del
procedimento di rilascio del DURC impone che
la stazione appaltante debba basarsi sulle
certificazioni risultanti da quest'ultimo
documento, prendendole come un dato di fatto
inoppugnabile, dovendo limitarsi a valutare
soltanto se sussistono procedimenti diretti
a contestare gli accertamenti degli enti
previdenziali riportati nel DURC o condoni
(ai fini della “definitività”), e, inoltre,
se la violazione riportata nel DURC risulti
o meno "grave".
Ai sensi del D.M. 24.10.2007 (emanato in
attuazione dell’art. 1, comma 1176, della
legge 27.12.2006 n. 296) sono state definite
le modalità di rilascio ed i contenuti
analitici del DURC e, a tal fine, è stata
fissata una soglia di “gravità” delle
violazioni, ritenendosi le violazioni al di
sotto di tale soglia non ostative al
rilascio del DURC: non si considera, in
particolare, grave lo scostamento inferiore
o pari al 5% tra le somme dovute e quelle
versate con riferimento a ciascun periodo di
paga o di contribuzione o, comunque, uno
scostamento inferiore a 100 euro, fermo
restando l’obbligo di versamento del
predetto importo entro i trenta giorni
successivi al rilascio del DURC (art. 8, III
comma, del DM cit.).
Quanto al requisito della “definitività”, la
pendenza di qualsiasi contenzioso impedisce
di ritenere il soggetto in posizione
irregolare: quindi fino alla decisione che
respinge il ricorso, può essere dichiarata
la regolarità contributiva (art. 8, II
comma, lett. a).
Pertanto, dopo il DM del 2007, il DURC
attesta solo le irregolarità contributive
“definitivamente accertate” e solo quelle
che superano la “soglia di gravità” fissata
dal citato decreto: dopo tale decreto,
pertanto, una declaratoria di non regolarità
contributiva certifica che, ai fini
dell’art. 38, I comma, lett. i) del codice
appalti, è stata commessa una violazione
contributiva “grave” e “definitivamente
accertata”.
--------------
La regolarità contributiva costituisce
requisito sostanziale di partecipazione alla
gara, avendo il legislatore ritenuto tale
regolarità indice dell'affidabilità,
diligenza e serietà dell'impresa e della sua
correttezza nei rapporti con le maestranze:
è quindi totalmente irrilevante l'eventuale
adempimento tardivo dell'obbligazione
contributiva, quand'anche ricondotto, quanto
ad efficacia, al momento della scadenza del
termine di pagamento, che, se può essere
satisfattivo per l'Ente previdenziale, non
lo è ai fini della legittimità del subentro
in un contratto di appalto, non essendo
ammesse postume sanatorie all'affidabilità,
alla serietà, alla continuità dell'attività
d'impresa.
... il Collegio deve rilevare che, per
giurisprudenza consolidata, l'art. 38, I
comma, lett. i) del codice dei contratti è
interpretato nel senso che il principio
dell'autonomia del procedimento di rilascio
del DURC impone che la stazione appaltante
debba basarsi sulle certificazioni
risultanti da quest'ultimo documento,
prendendole come un dato di fatto
inoppugnabile, dovendo limitarsi a valutare
soltanto se sussistono procedimenti diretti
a contestare gli accertamenti degli enti
previdenziali riportati nel DURC o condoni
(ai fini della “definitività”), e,
inoltre, se la violazione riportata nel DURC
risulti o meno "grave" (CdS,. IV,
15.09.2010 n. 6907; V, 04.08.2010 n. 5213;
VI, 06.04.2010 n. 1934).
A tal proposito deve rammentarsi che, ai
sensi del D.M. 24.10.2007 (emanato in
attuazione dell’art. 1, comma 1176, della
legge 27.12.2006 n. 296) sono state definite
le modalità di rilascio ed i contenuti
analitici del DURC e, a tal fine, è stata
fissata una soglia di “gravità” delle
violazioni, ritenendosi le violazioni al di
sotto di tale soglia non ostative al
rilascio del DURC: non si considera, in
particolare, grave lo scostamento inferiore
o pari al 5% tra le somme dovute e quelle
versate con riferimento a ciascun periodo di
paga o di contribuzione o, comunque, uno
scostamento inferiore a 100 euro, fermo
restando l’obbligo di versamento del
predetto importo entro i trenta giorni
successivi al rilascio del DURC (art. 8, III
comma, del DM cit.).
Quanto al requisito della “definitività”,
la pendenza di qualsiasi contenzioso
impedisce di ritenere il soggetto in
posizione irregolare: quindi fino alla
decisione che respinge il ricorso, può
essere dichiarata la regolarità contributiva
(art. 8, II comma, lett. a).
Pertanto, dopo il DM del 2007, il DURC
attesta solo le irregolarità contributive “definitivamente
accertate” e solo quelle che superano la
“soglia di gravità” fissata dal
citato decreto: dopo tale decreto, pertanto,
una declaratoria di non regolarità
contributiva certifica che, ai fini
dell’art. 38, I comma, lett. i) del codice
appalti, è stata commessa una violazione
contributiva “grave” e “definitivamente
accertata” (CdS, VI, 04.08.2009 n.
4906).
---------------
Giova in
proposito osservare che la regolarità
contributiva costituisce requisito
sostanziale di partecipazione alla gara,
avendo il legislatore ritenuto tale
regolarità indice dell'affidabilità,
diligenza e serietà dell'impresa e della sua
correttezza nei rapporti con le maestranze (CdS,
IV, 15.09.2010 n. 6907): è quindi totalmente
irrilevante l'eventuale adempimento tardivo
dell'obbligazione contributiva, quand'anche
ricondotto, quanto ad efficacia, al momento
della scadenza del termine di pagamento,
che, se può essere satisfattivo per l'Ente
previdenziale, non lo è ai fini della
legittimità del subentro in un contratto di
appalto, non essendo ammesse postume
sanatorie all'affidabilità, alla serietà,
alla continuità dell'attività d'impresa
(TAR
Veneto, Sez. I,
sentenza
03.02.2012 n. 134 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
denuncia o l’esposto non possono
considerarsi un fatto circoscritto al solo
autore, all’Amministrazione competente al
suo esame e all’apertura dell’eventuale
procedimento, ma riguardano direttamente
anche i soggetti denunciati, i quali ne
risultano comunque incisi.
Nell’ordinamento delineato dalla legge n.
241/1990, ispirato ai principi della
trasparenza, del diritto di difesa e della
dialettica democratica, ogni soggetto deve,
pertanto, poter conoscere con precisione i
contenuti e gli autori di segnalazioni,
esposti o denunce che, fondatamente o meno,
possano costituire le basi per l’avvio di un
procedimento ispettivo o sanzionatorio, non
la P.A. precedente opporre all’interessato
esigenze di riservatezza.
... Il Collegio rileva in primis che
la Commissione per l’accesso ai documenti
amministrativi ha già disposto "che con
riferimento alle relazioni si osserva che le
medesime, qualora si traducano in rapporti
informativi, sono sottratte all’accesso ai
sensi della disposizione regolamentare
citata.
Per quanto concerne gli esposti e denunce
questa Commissione ribadisce l’adesione al
prevalente orientamento della giurisprudenza
secondo il quale “La denuncia o l’esposto
non possono considerarsi un fatto
circoscritto al solo autore,
all’Amministrazione competente al suo esame
e all’apertura dell’eventuale procedimento,
ma riguardano direttamente anche i soggetti
denunciati, i quali ne risultano comunque
incisi. Nell’ordinamento delineato dalla
legge n. 241/1990, ispirato ai principi
della trasparenza, del diritto di difesa e
della dialettica democratica, ogni soggetto
deve, pertanto, poter conoscere con
precisione i contenuti e gli autori di
segnalazioni, esposti o denunce che,
fondatamente o meno, possano costituire le
basi per l’avvio di un procedimento
ispettivo o sanzionatorio, non la P.A.
precedente opporre all’interessato esigenze
di riservatezza” (Tar Lombardia, sent.
1469/2008). Si ritiene, pertanto, che detti
documenti siano ostensibili.
In ordine, infine, ai documenti oggetto di
corrispondenza si evidenzia che la loro
accessibilità è connessa alla
riconducibilità di tali documenti alle
categorie sottratte all’accesso ai sensi
dell’art. 24 della L. 241/1990 a garanzia di
superiori interessi; pertanto, spetta
all’Amministrazione tale verifica"
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza
03.02.2012 n. 116 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Rifiuti, salvi i professionisti.
Stop al Comune che tartassa senza spiegare.
I presidenti dei vari ordini, dagli avvocati
agli ingegneri, fanno annullare la delibera
che fissa ai livelli massimi la tariffa per
la raccolta dei rifiuti solidi urbani
relativi a utenze non domestiche come gli
studi professionali, ma anche uffici e
agenzie. Accade a Prato, ma interessa
sicuramente altre città.
È quanto emerge
dalla
sentenza 02.02.2012 n. 539, pubblicata dalla V
Sez. del Consiglio di stato.
C'è il presidente locale del Cup, il
Comitato unitario dei professionisti, a
guidare il ricorso oggi vittorioso degli
ordini contro l'amministrazione locale,
salvata in primo grado dal Tar. È
indiscutibile che la tariffa per la raccolta
dei rifiuti deve essere differenziata per
zone, con riferimento alla destinazione a
livello di pianificazione urbanistica e
territoriale, alla densità abitativa, alla
frequenza e qualità dei servizi da fornire.
E oggi Palazzo Spada annulla il
provvedimento dell'ente che fissa ai
parametri massimi la tariffa per gli studi
professionali senza però spiegare in alcun
modo perché.
La tariffa, riferiscono i
giudici, è composta da una parte fissa e da
una parte variabile: la prima è determinata
in relazione alle componenti essenziali del
costo del servizio, riferite in particolare
agli investimenti per le opere e dai
relativi ammortamenti; la seconda è
rapportata alle quantità di rifiuti
conferiti, al servizio fornito e all'entità
dei costi di gestione.
È vero, il comune ha
ampia discrezionalità su attività tipiche
come l'individuazione dei costi da coprire,
la ripartizione tra le categoria di utenza
domestica e non domestica, e l'articolazione
della tariffa rispetto alle caratteristiche
delle diverse zone del territorio
amministrato, secondo la loro destinazione
urbanistica. Ma non si può certo pretendere
che le scelte dell'ente siano sottratte a
ogni forma di controllo: significherebbe
rinnegare i principi fondamentali di
legalità, imparzialità e buon andamento che
devono caratterizzare l'azione
amministrativa in base all'articolo 97 della
Costituzione.
Insomma, ecco perché il comune
avrebbe dovuto illustrare l'iter logico che
ha condotto alla scelta per i parametri
massimi della tariffa. Sbagliano qualcosa
anche i professionisti: è da escludersi che
il potere di determinare la tariffa per la
gestione dei rifiuti spettasse all'autorità
di ambito territoriale ottimale, il locale
consorzio Ato (articolo ItaliaOggi
del 10.02.2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia urbanistica il
presupposto per l'esistenza di un volume
edilizio è costituito dalla costruzione di
almeno un piano di base e due superfici
verticali contigue, così da ottenere una
superficie chiusa su un minimo di tre lati.
La tamponatura di un porticato dà vita ad un
nuovo volume edilizio entro il perimetro di
uno spazio in origine aperto, quale quello
ricompreso nel porticato, per cui se diviene
un volume chiuso con pareti fisse, come tale
è rilevante ai sensi dell'art. 3, comma 1,
lett. e.1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (e già
prima art. 1 l. n. 10 del 1977) sul piano
edilizio ed urbanistico.
Il ricorso in esame è rivolto avverso un ordine di demolizione emesso sul
presupposto di un avvenuto aumento
volumetrico per effetto della chiusura di un
porticato.
La ricorrente sostiene che, nella specie, il
porticato in questione dovesse essere
considerato come già facente parte del
volume dell’abitazione, onde l’assenza del
contestato aumento volumetrico.
In realtà in materia urbanistica il
presupposto per l'esistenza di un volume
edilizio è costituito dalla costruzione di
almeno un piano di base e due superfici
verticali contigue, così da ottenere una
superficie chiusa su un minimo di tre lati
(TAR Piemonte 12.07.2005 n. 2484).
Nel caso di specie invece è la stessa
ricorrente ad ammettere che l’area in
questione fosse chiusa soltanto da due lati,
onde precedentemente non poteva ritenersi
esistente un volume edilizio.
Ne consegue che la chiusura dello stesso ha
comportato l’aumento volumetrico contestato.
La tamponatura del porticato, infatti, dà
vita ad un nuovo volume edilizio entro il
perimetro di uno spazio in origine aperto,
quale quello ricompreso nel porticato, per
cui se diviene un volume chiuso con pareti
fisse, come tale è rilevante ai sensi
dell'art. 3, comma 1, lett. e.1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (e già prima art. 1 l. n.
10 del 1977) sul piano edilizio ed
urbanistico (TAR Liguria Genova, sez. I,
09.10.2008, n. 1769) (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 01.02.2012 n. 238 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le sanzioni amministrative pecuniarie previste dall'art. 3 l. 28.02.1985
n. 47 per i
casi di ritardo del versamento del
contributo di concessione edilizia, che si
distinguono, nell'ammontare, a seconda che
il ritardo superi 120, 180 o 240 giorni dal
termine legale di adempimento, sono
soggette, in mancanza di una diversa
disciplina legale, al termine di
prescrizione di cinque anni stabilito
dall'art. 28 l. 24.11.1981 n. 689,
decorrente, in relazione a ciascuna
fattispecie di ritardo, dal giorno
dell'intervenuto pagamento del contributo.
Le sanzioni amministrative pecuniarie previste dall'art. 3 l. 28.02.1985 n. 47 -abrogato a decorrere
dal 30.06.2002 dall'art. 136, comma 2,
lett. f, d.P.R. 06.06.2001 n. 380- per i
casi di ritardo del versamento del
contributo di concessione edilizia, che si
distinguono, nell'ammontare, a seconda che
il ritardo superi 120, 180 o 240 giorni dal
termine legale di adempimento, sono
soggette, in mancanza di una diversa
disciplina legale, al termine di
prescrizione di cinque anni stabilito
dall'art. 28 l. 24.11.1981 n. 689,
decorrente, in relazione a ciascuna
fattispecie di ritardo, dal giorno
dell'intervenuto pagamento del contributo
(Cassazione civile, sez. I, 06.11.2006, n.
23633) (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 01.02.2012 n. 237 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nell'esegesi
della disposizione contenuta nell'art. 48,
comma 1, d.lgs. n.
163/2006 -corrispondente al pregresso art.
10, comma 1-quater, l. n. 109/1994- è ormai
principio consolidato che il termine di
10 giorni, entro il quale l'impresa
offerente, sorteggiata a campione per il
controllo in ordine al possesso dei
requisiti di capacità economico-finanziaria
e tecnico-organizzativa, è tenuta ad
ottemperare alla richiesta della stazione
appaltante, ha natura perentoria, e che le
sanzioni conseguenti alla sua inosservanza
non vanno applicate solo in caso di
comprovata impossibilità per l'impresa di
produrre la documentazione non rientrante
nella sua disponibilità.
La funzione della disposizione e quindi del
termine ivi previsto è quella di assicurare
il regolare e rapido espletamento della
procedura e la tempestiva liquidazione dei
danni prodotti dalla alterazione della
stessa a causa della mancanza di requisiti
da parte di uno dei concorrenti.
L'esclusione dalla gara, derivante
dall’inosservanza del termine così
stabilito, rientra fra le cause di
esclusione previste direttamente dalla legge
e quindi non incorre nelle ipotesi di
nullità previste dal comma 1-bis dell’art.
46 del Codice dei Contratti.
L’eventuale concessione della proroga del
termine di cui sopra può eventualmente
essere concessa dalla stazione appaltante
con atto motivato, laddove l'impresa
richiedente comprovi un impedimento a
rispettare il termine, che non sia meramente
soggettivo (ad es. disfunzioni organizzative
interne all'impresa), ma che evidenzi
un'oggettiva impossibilità ad osservarlo (ad
es. diniego o ritardo nel rilascio della
richiesta documentazione da parte della
p.a.), purché la richiesta di proroga venga
presentata prima della scadenza del termine,
ché, diversamente, le imprese diverrebbero
arbitre di dettare il corso temporale del
procedimento di verifica e potrebbero
procrastinare ad libitum il tempo stabilito
per il verificarsi dell'effetto preclusivo
voluto dalla legge a garanzia del celere e
trasparente svolgimento della gara nel
rispetto della par condicio dei concorrenti.
Il termine di 10 giorni non risulta
eccessivamente breve, rientrando invero
nella normale diligenza di ciascuna impresa
partecipante di attivarsi tempestivamente
per procurarsi tutti gli opportuni documenti
onde poterli esibire per tempo ove, dopo il
sorteggio, sopravvenga la richiesta della
stazione appaltante.
Risulta legittima, per violazione del
termine di cui al primo comma art. 48 dlgs
163/2006, la disposta esclusione della
ricorrente dalla gara, con tutte le
conseguenze da ciò derivanti (incameramento
cauzione e segnalazione all’Autorità di
Vigilanza), così come prescritte dalla
norma.
- condiviso l’orientamento interpretativo secondo il quale, in linea di
diritto, nell'esegesi della disposizione
contenuta nell'art. 48, comma 1, d.lgs. n.
163/2006 -corrispondente al pregresso art.
10, comma 1-quater, l. n. 109/1994- è ormai
principio consolidato che il termine di
10 giorni, entro il quale l'impresa
offerente, sorteggiata a campione per il
controllo in ordine al possesso dei
requisiti di capacità economico-finanziaria
e tecnico-organizzativa, è tenuta ad
ottemperare alla richiesta della stazione
appaltante, ha natura perentoria, e che le
sanzioni conseguenti alla sua inosservanza
non vanno applicate solo in caso di
comprovata impossibilità per l'impresa di
produrre la documentazione non rientrante
nella sua disponibilità (v., ex plurimis,
C.d.S., Sez. VI, 15.06.2009, n. 3804);
-
che detta conclusione è stata recentemente
avvalorata dalla pronuncia della Corte
Costituzionale n. 211 del 13.07.2011, la
quale, nel pronunciarsi in ordine alla
legittimità costituzionale della norma
citata, ha ribadito che la funzione della
disposizione e quindi del termine ivi
previsto è quella di assicurare il regolare
e rapido espletamento della procedura e la
tempestiva liquidazione dei danni prodotti
dalla alterazione della stessa a causa della
mancanza di requisiti da parte di uno dei
concorrenti;
-
ritenuto che la disposta esclusione,
derivante dall’inosservanza del termine così
stabilito, rientri fra le cause di
esclusione previste direttamente dalla legge
e quindi non incorra nelle ipotesi di
nullità previste dal comma 1-bis dell’art.
46 del Codice dei Contratti;
-
ritenuto, proprio in considerazione delle
argomentazioni difensive dedotte da parte
ricorrente circa le ragioni del ritardo, che
l’eventuale concessione della proroga del
termine possa eventualmente essere concessa
dalla stazione appaltante con atto motivato,
laddove l'impresa richiedente comprovi un
impedimento a rispettare il termine, che non
sia meramente soggettivo (ad es. disfunzioni
organizzative interne all'impresa), ma che
evidenzi un'oggettiva impossibilità ad
osservarlo (ad es. diniego o ritardo nel
rilascio della richiesta documentazione da
parte della p.a.; v., oltre alla decisione
sopra citata, C.d.S., Sez. IV, 06.06.2001, n. 3066; C.d.S., Sez. V, 15.05.2001, n. 2714), purché la richiesta di
proroga venga presentata prima della
scadenza del termine, ché, diversamente, le
imprese diverrebbero arbitre di dettare il
corso temporale del procedimento di verifica
e potrebbero procrastinare ad libitum il
tempo stabilito per il verificarsi
dell'effetto preclusivo voluto dalla legge a
garanzia del celere e trasparente
svolgimento della gara nel rispetto della
par condicio dei concorrenti;
-
che una richiesta in tal senso non è stata
presentata dalla ricorrente;
-
ritenuto che il termine di 10 giorni non
risulta eccessivamente breve, rientrando
invero nella normale diligenza di ciascuna
impresa partecipante di attivarsi
tempestivamente per procurarsi tutti gli
opportuni documenti onde poterli esibire per
tempo ove, dopo il sorteggio, sopravvenga la
richiesta della stazione appaltante (v.
oltre a C.d.S. n. 3804/2009 cit., C.d.S.,
Sez. VI, 18.05.2001, n. 2780);
-
osservato che proprio sul punto lo stesso
bando (pag. 12) aveva sollecitato i
concorrenti (senza comunque obbligarli, a
pena di esclusione), al fine di agevolare e
accelerare le procedure di verifica dei
requisiti speciali, a presentare sin da
subito la prescritta documentazione di
comprova, inserendo tale documentazione
nella busta A;
-
che, pertanto, era evidente la rilevanza del
tempestivo adempimento e quindi l’onere che
gravava su tutti i concorrenti di
predisporre la documentazione richiesta in
modo tale da adempiere entro il termine
assegnato all’obbligo di comprova dei
requisiti;
-
per detti motivi il ricorso deve essere
respinto, risultando legittima, per
violazione del termine di cui al primo comma
art. 48, la disposta esclusione della
ricorrente dalla gara, con tutte le
conseguenze da ciò derivanti (incameramento
cauzione e segnalazione all’Autorità di
Vigilanza), così come prescritte dalla norma
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza
31.01.2012 n. 100 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - ESPROPRIAZIONE: L’art.
42-bis, VIII comma, del DPR n.
327/2001 prevede che l’istituto
dell’acquisizione sanante ivi disciplinato
trova applicazione anche ai fatti anteriori
all’entrata in vigore della norma ed anche
se vi è già stato un provvedimento di
acquisizione successivamente annullato,
previa, comunque, rinnovazione della
valutazione di attualità e prevalenza
dell'interesse pubblico a disporre
l'acquisizione (da effettuarsi da parte
dell’organo competente ex lege) e
condizionatamente, altresì, alla
corresponsione al proprietario di un
indennizzo per i pregiudizi patrimoniale e
non patrimoniale determinati, il primo “in
misura corrispondente al valore venale del
bene utilizzato per scopi di pubblica
utilità”, ed il secondo in misura forfetaria
pari al dieci per cento del valore venale
del bene; oltre al risarcimento del danno
per l’occupazione abusiva da liquidarsi
nella misura del cinque per cento sempre in
relazione al valore venale del bene.
Ai fini del computo del “valore venale
del bene” deve aversi riguardo ai criteri
indicati dal medesimo DPR n. 327/2001, il
quale stabilisce che nell'ipotesi di
espropriazione di un’area non edificabile
coltivata (come quella di specie)
l’indennità è determinata in relazione al
valore agricolo del terreno tenendo conto
delle colture effettivamente praticate (art.
40, I comma), a cui va aggiunta un’indennità
per il fittavolo pari a quella spettante al
proprietario (art. 42).
---------------
E' illegittima, per violazione dell’art. 42,
II comma, lett. l), del DLgs n. 267/2000, la
delibera di Giunta Comunale con cui è stata
rinnovata la valutazione di attualità e
prevalenza dell'interesse pubblico a
disporre l'acquisizione delle aree di cui è
causa: il Consiglio comunale, infatti, è
chiamato ad esprimere gli indirizzi politici
ed amministrativi di rilievo generale che si
traducono in atti fondamentali di natura
programmatoria o aventi elevato contenuto di
indirizzo politico, tassativamente elencati,
mentre la Giunta ha una competenza residuale
in quanto compie tutti gli atti non
riservati dalla legge al Consiglio o non
ricadenti nelle competenze, previste dalle
leggi o dallo statuto, del Sindaco o di
altri organi.
In quest'ottica, pertanto, va affermata la
competenza del Consiglio comunale, e non
della Giunta, in materia di alienazioni ed
acquisiti immobiliari, giusta, altresì, la
puntuale determinazione contenuta nel
richiamato art. 42, II comma, lett. l), del
DLgs n. 267/2000.
... considerato:
-
che, pregiudizialmente, il collegio non
ritiene di condividere l’eccezione di
incostituzionalità dell’art. 42-bis del DPR
n. 327/2001, atteso che i principi
comunitari impongono che i modi di acquisto
della proprietà siano previsti –e nel
nostro ordinamento sono previsti– dalla
legge e che il proprietario espropriato sia
congruamente risarcito;
-
che, in punto di diritto, va premesso che
l’art. 42-bis, VIII comma, del DPR n.
327/2001 prevede che l’istituto
dell’acquisizione sanante ivi disciplinato
trova applicazione anche ai fatti anteriori
all’entrata in vigore della norma ed anche
se vi è già stato un provvedimento di
acquisizione successivamente annullato,
previa, comunque, rinnovazione della
valutazione di attualità e prevalenza
dell'interesse pubblico a disporre
l'acquisizione (da effettuarsi da parte
dell’organo competente ex lege) e
condizionatamente, altresì, alla
corresponsione al proprietario di un
indennizzo per i pregiudizi patrimoniale e
non patrimoniale determinati, il primo “in
misura corrispondente al valore venale del
bene utilizzato per scopi di pubblica
utilità”, ed il secondo in misura forfetaria
pari al dieci per cento del valore venale
del bene; oltre al risarcimento del danno
per l’occupazione abusiva da liquidarsi
nella misura del cinque per cento sempre in
relazione al valore venale del bene;
-
che ai fini del computo del “valore venale
del bene” deve aversi riguardo ai criteri
indicati dal medesimo DPR n. 327/2001, il
quale stabilisce che nell'ipotesi di
espropriazione di un’area non edificabile
coltivata (come quella di specie)
l’indennità è determinata in relazione al
valore agricolo del terreno tenendo conto
delle colture effettivamente praticate (art.
40, I comma), a cui va aggiunta un’indennità
per il fittavolo pari a quella spettante al
proprietario (art. 42);
-
che nel determinare gli importi dovuti a
titolo indennitario e risarcitorio per la
disposta acquisizione l’impugnato
provvedimento appare rispettoso delle
prescrizioni commisuratorie individuate dal
predetto art. 42-bis del DPR n. 327/2001 con
riguardo al valore dei beni abusivamente
utilizzati dal Comune di Colognola ai Colli,
fatta eccezione per l’indennità aggiuntiva
dovuta al fittavolo, di cui non pare essersi
tenuto conto;
-
che, nel merito, è fondato il motivo di
censura con cui i ricorrenti denunciano
l’illegittimità, per violazione dell’art.
42, II comma, lett. l), del DLgs n. 267/2000,
della delibera giuntale n. 113/2011 con cui
è stata rinnovata la valutazione di
attualità e prevalenza dell'interesse
pubblico a disporre l'acquisizione delle
aree di cui è causa: il Consiglio comunale,
infatti, è chiamato ad esprimere gli
indirizzi politici ed amministrativi di
rilievo generale che si traducono in atti
fondamentali di natura programmatoria o
aventi elevato contenuto di indirizzo
politico, tassativamente elencati, mentre la
Giunta ha una competenza residuale in quanto
compie tutti gli atti non riservati dalla
legge al Consiglio o non ricadenti nelle
competenze, previste dalle leggi o dallo
statuto, del Sindaco o di altri organi.
In
quest'ottica, pertanto, va affermata la
competenza del Consiglio comunale, e non
della Giunta, in materia di alienazioni ed
acquisiti immobiliari, giusta, altresì, la
puntuale determinazione contenuta nel
richiamato art. 42, II comma, lett. l), del
DLgs n. 267/2000: con correlata
illegittimità derivata del consequenziale
provvedimento dirigenziale, analogamente
impugnato
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza
31.01.2012 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di un pergolato
mediante una solida struttura in legno di
dimensioni non trascurabili, che fa desumere
una permanenza prolungata nel tempo del
manufatto stesso e delle utilità che esso è
destinato ad arrecare, comportando una
trasformazione edilizia del territorio, dev’essere
qualificata come intervento di nuova
costruzione, che necessita di concessione
edilizia.
Per costante giurisprudenza, la realizzazione di un pergolato mediante
una solida struttura in legno di dimensioni
non trascurabili, che fa desumere una
permanenza prolungata nel tempo del
manufatto stesso e delle utilità che esso è
destinato ad arrecare, comportando una
trasformazione edilizia del territorio, dev’essere
qualificata come intervento di nuova
costruzione, che necessita di concessione
edilizia (Cons. di St., IV, 02.10.2008, n.
4793; TAR Campania-Napoli, IV, 25.03.2011,
n. 1746; TAR Emilia Romagna, II,
19.01.2011, n. 36).
Né può ritenersi che l’opera in questione
fosse soggetta al regime autorizzatorio di
cui all’art. 7, comma 2, lett. a), del D.L.
23.01.1982, n. 9 (conv. in L. 25.03.1982, n.
94), vuoi perché non conforme alle
prescrizioni dello strumento urbanistico
allora vigente (che classifica l’area come
verde di salvaguardia inedificabile, cfr.
art. 25 allegato alla domanda di sanatoria),
vuoi perché ricadente in area sottoposta a
vincolo dalla legge 29.06.1939, n. 1497 (cfr.
l’autorizzazione regionale di cui al doc. 4
delle produzioni 14.11.1996), vuoi, infine,
perché il rapporto di pertinenzialità è
predicabile soltanto rispetto ad un
edificio, non già –secondo la tesi esposta
in ricorso- rispetto ad un fondo rustico
(cfr. TAR Liguria, I, 23.05.2011, n. 812).
Ed è appena il caso di osservare che la
mancata sussumibilità dell’intervento
nell’ambito delle opere pertinenziali
soggette ad autorizzazione gratuita lo fa
ricadere automaticamente nell’ambito di
quelle soggette a concessione edilizia.
Ne consegue l’infondatezza delle censure
dedotte avverso il diniego di sanatoria ex
art. 13 L. n. 47/1985, legittimamente emesso
nei confronti di un intervento non conforme
alla vigente normativa di zona del P.R.G..
Ne consegue altresì l’infondatezza delle
censure mosse avverso l’ordine di
demolizione ex art. 7 L. n. 47/1985,
legittimamente emesso per sanzionare
l’esecuzione di opere in assenza di
concessione edilizia (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 27.01.2012 n. 195 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini del conseguimento della
sanatoria, “si intendono ultimati gli
edifici nei quali sia stato eseguito il
rustico e completata la copertura, ovvero,
quanto alle opere interne agli edifici già
esistenti e a quelle non destinate alla
residenza, quando esse siano state
completate funzionalmente”.
Ciò posto, si osserva che le opere interne
abusive, per essere complete, debbono
risultare tali da permettere l'uso in
relazione alla funzione cui sono destinate e
quindi contenere tutti gli elementi
essenziali alla loro destinazione d'uso.
Le disposizioni di cui al D.M. 05.07.1975
integrano una normativa di rango primario in
virtù del rinvio disposto dall’art. 218 del
R.D. 27.7.1934, n. 1265, e pertanto,
diversamente dalle disposizioni integrative
e supplementari portate dai regolamenti
comunali di igiene (espressione di esigenze
locali e comunque non attuative di norme di
legge gerarchicamente sovraordinate), sono
inderogabili –ex art. 35, comma 20, L. n.
47/1985- anche in sede di rilascio del
certificato di abitabilità a seguito del
condono.
Con ricorso notificato in data 07.11.2008 la signora
... ha
impugnato il provvedimento 18.08.2008 prot.
20561, con il quale il comune di Finale
Ligure ha respinto la domanda di condono
edilizio ai sensi dell’art. 32 D.L.
30.09.2003, n. 269 volta al cambio di
destinazione d’uso di un prefabbricato in
lamiera in località Monte, già condonato
come magazzino e da destinare ad abitazione,
con la motivazione che gli interventi
trasformativi oggetto di sanatoria non
risulta conferiscano all’opera le
caratteristiche minime indispensabili
affinché possa essere adibita ad uso
abitativo.
...
Il ricorso è infondato.
Innanzitutto, non può dirsi formato il
silenzio assenso sull’istanza di sanatoria
(primo motivo).
Si tratta infatti di intervento in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico, sicché
il termine di ventiquattro mesi per la
formazione del silenzio assenso decorre –ex
art. 31, comma 19, L. n. 47/1985-
dall’emissione del parere favorevole
dell’amministrazione preposta alla tutela
del vincolo.
Nel caso di specie, non è dedotta né provata
l’emissione del parere favorevole
dell’amministrazione comunale.
Quanto al secondo ed al terzo motivo di
ricorso, che possono essere trattati
congiuntamente attesa la loro connessione
logica, giova richiamare l’art. 31, comma 2,
della legge 28.02.1985, n. 47 (applicabile
anche all’ultimo condono edilizio), a mente
del quale, ai fini del conseguimento della
sanatoria, “si intendono ultimati gli
edifici nei quali sia stato eseguito il
rustico e completata la copertura, ovvero,
quanto alle opere interne agli edifici già
esistenti e a quelle non destinate alla
residenza, quando esse siano state
completate funzionalmente”.
Ciò posto, si osserva che, per costante
giurisprudenza, le opere interne abusive,
per essere complete, debbono risultare tali
da permettere l'uso in relazione alla
funzione cui sono destinate e quindi
contenere tutti gli elementi essenziali alla
loro destinazione d'uso (cfr. Cons. di St.,
V, 21.06.2007, n. 3315; id., 08.05.2007, n.
2120; TAR Campania-Napoli, IV, 06.04.2011,
n. 1928).
Nel caso di specie, non è contestabile che
il manufatto in questione non presenti le
caratteristiche necessarie e sufficienti per
assolvere alla destinazione d’uso abitativa,
difettando dell’altezza minima interna e di
una superficie minima non inferiore a mq.
28, requisiti stabiliti dall’art. 3 del D.M.
05.07.1975, emanato in esecuzione dell’art.
218 del R.D. 27.07.1934, n. 1265 (testo unico
delle leggi sanitarie).
Del resto, le disposizioni di cui al D.M.
05.07.1975 integrano una normativa di rango
primario in virtù del rinvio disposto
dall’art. 218 del R.D. 27.7.1934, n. 1265, e
pertanto, diversamente dalle disposizioni
integrative e supplementari portate dai
regolamenti comunali di igiene (espressione
di esigenze locali e comunque non attuative
di norme di legge gerarchicamente sovraordinate), sono inderogabili –ex art.
35, comma 20, L. n. 47/1985- anche in sede di
rilascio del certificato di abitabilità a
seguito del condono (cfr. Cons. di St., IV,
03.05.2011, n. 2620).
Sicché, nel caso di specie, qualora il
comune avesse concesso la sanatoria
straordinaria, avrebbe comunque dovuto
successivamente negare l’abitabilità del
manufatto (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 27.01.2012 n. 194 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
zona paesaggisticamente vincolata, è
illegittimo il diniego vincolante espresso
dalla Soprintendenza (per la messa in opera
di pannelli fotovoltaici integrati nella
falda di tetto) poiché appare viziato da
travisamento e difetto di motivazione ed è
evidentemente fondato sul
postulato che la presenza dei pannelli
fotovoltaici costituisca comunque un degrado
per l’ambiente circostante, quale che siano
la modalità di installazione e le loro
dimensioni: ciò che, viceversa, secondo
ragionevolezza ed esperienza, non si può
affermare per la gran parte degli stessi –ormai diffusamente presenti sul territorio,
e largamente incentivati dalle leggi statali
e regionali– e comunque per l’impianto de
quo.
I Sigg. ... sono
proprietari di una villetta d’abitazione
monofamiliare a Colfosco di Susegana
(Treviso), in un’area residenziale, nella
quale è presente un cospicuo numero di altre
costruzioni consimili, e che è soggetta a
vincolo paesaggistico, istituito con d.m. 06.11.1965, e relativo alla zona che
circonda il castello di Collalto.
I consorti ... hanno deciso
d’installare dei pannelli fotovoltaici,
integrati con il tetto dell’abitazione, ed
hanno perciò richiesto una prima
autorizzazione paesaggistica, sulla quale si
è pronunciata negativamente la
Soprintendenza per i beni architettonici e
paesaggistici per le province di Venezia,
Belluno, Padova e Treviso con parere 07.04.2011, prot. n. 9306, assumendo che
l’intervento sarebbe stato incompatibile con
i valori paesaggistici tutelati.
Ne è seguito il provvedimento 12.05.2011, prot. n. 7816, a firma del
responsabile del procedimento dell'Area IV -
gestione del territorio del Comune di
Susegana, con il quale è stata comunicata la
determinazione definitiva di diniego
sull'istanza di autorizzazione
paesaggistica: atto che, insieme al parere,
è stato impugnato con il ricorso principale
in esame.
...
Il parere sfavorevole e vincolante della Soprintendenza appare
viziato da travisamento e difetto di
motivazione ed è evidentemente fondato –come osservato dai ricorrenti- sul
postulato che la presenza dei pannelli
fotovoltaici costituisca comunque un degrado
per l’ambiente circostante, quale che siano
la modalità di installazione e le loro
dimensioni: ciò che, viceversa, secondo
ragionevolezza ed esperienza, non si può
affermare per la gran parte degli stessi –ormai diffusamente presenti sul territorio,
e largamente incentivati dalle leggi statali
e regionali– e comunque per l’impianto de
quo.
Infatti, nel secondo progetto, i pannelli
fotovoltaici costituiscono l’omogenea
copertura di una sola falda del tetto –con
cui fanno dunque corpo– della costruzione,
la quale a sua volta appartiene alla
tipologie delle villette unifamiliari su due
piani, di recente e normale fattura, posta
al lato di una strada totalmente urbanizzata
(dove si contano decine di costruzioni
consimili) e non lontana da una scuola e da
una chiesa: la stessa Soprintendenza, del
resto, riconosce che è fuori del nucleo
abitato in cui si trova la costruzione
interessata che il sito assume connotati di
rara bellezza naturalistica.
Affermare che un simile intervento
possa alterare il panorama della zona non
pare ragionevolmente sostenibile,
considerato che il Castello di Collalto,
ragione e perno del vincolo, si trova a
chilometri di distanza: la presenza dei
pannelli fotovoltaici appoggiati sul tetto
di una qualsiasi abitazione, e formanti
corpo con esso, è insignificante in un
siffatto contesto, tanto più considerata
l’ampia ed acquisita presenza sul territorio
regionale di impianti simili, di contenute
analoghe dimensioni, tali da essere ormai
divenuti un elemento architettonico
sostanzialmente insignificante.
In altri termini, non s’intende
affermare che, nello specifico contesto,
quei pannelli non aggravano un ipotetico
preesistente degrado, ma invece che gli
stessi si pongono come un intervento che non
altera il contesto perché, in concreto, non
lo trasforma.
I pareri 19.07.2011 prot. n. 20050
e 30.08.2011 prot. 23631, della
Soprintendenza ed il provvedimento 21.09.2011, prot. n. 15701 del Comune di
Susegana vanno dunque annullati.
Per effetto dell’annullamento
giurisdizionale, che, stante l'originaria
illegittimità dell'atto amministrativo,
produce i suoi effetti ex tunc, si deve
ritenere definitivamente consumato il potere
della Soprintendenza di ripronunciare un
ulteriore parere, in conformità al disposto
di cui all’art. 146, comma V segg, del d.
lgs. 42/2004: su tale fondamento il Comune
dovrà riprovvedere sull’autorizzazione
paesaggistica richiesta
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
25.01.2012 n. 48 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
31, comma 2, della legge n. 47/1985
-richiamato dall'art. 39 della legge n.
724/1994 e poi dalla legge n. 326/2003-
stabilisce che, ai fini dell'applicazione
delle regole sul condono, "si intendono
ultimati gli edifici nei quali sia stato
eseguito il rustico e completata la
copertura, ovvero, quanto alle opere interne
agli edifici già esistenti e a quelle non
destinate alla residenza, quando esse siano
state completate funzionalmente".
La norma citata introduce -in alternativa al
criterio dell'esecuzione al rustico e
completamento della copertura dell'edificio-
il parametro del completamento funzionale
dell'opera: per i mutamenti di destinazione
d' uso di edifici residenziali è condonabile
la struttura in cui le opere, pur se non
perfette nelle finiture, possano dirsi
individuabili nei loro elementi strutturali
con le caratteristiche necessarie e
sufficienti ad assolvere alla funzione cui
sono destinate. Il criterio del
"completamento funzionale" anticipa, quindi,
la data di ultimazione delle opere ai fini
dell'ammissione al condono, per cui un
intervento non ancora completato può
tuttavia essere giudicato sanabile dal punto
di vista funzionale.
Ne discende, quindi, che entro il termine
stabilito dalla legge, anche se le attività
edilizie siano ancora in corso, l'immobile
deve essere già fornito degli elementi
indispensabili a rendere effettivamente
possibile un uso diverso da quello assentito
-in modo tale da risultare incompatibile con
l'originaria destinazione- pur se non siano
stati ancora realizzati gli impianti e le
rifiniture di carattere complementare ed
accessorio.
L’onere della prova circa la data di
realizzazione dell’immobile abusivo (o anche
della attività edilizia abusiva da sanare)
spetta a colui che ha commesso l’abuso e
solo la deduzione, da parte di quest’ultimo,
di concreti elementi, che non possono
limitarsi a sole allegazioni documentali a
sostegno delle proprie affermazioni,
trasferisce il suddetto onere in capo
all’Amministrazione.
La pubblica amministrazione non può di
solito materialmente accertare quale fosse
la situazione dell’intero suo territorio a
quella data prevista dalla legge, mentre il
privato, che propone l’istanza di sanatoria,
è normalmente in grado di fornire idonea
documentazione che comprovi l’ultimazione
dell’abuso entro la data di riferimento,
vale a dire nel caso di specie il
31.03.2003, spettando a costui l’onere di
fornire quantomeno un principio di prova su
tale ultimazione e in caso contrario
restando integro il potere di non concedere
il condono e di irrogare la sanzione
prescritta.
Orbene, l'art. 31, comma 2, della legge
n. 47/1985 -richiamato dall'art. 39 della
legge n. 724/1994 e poi dalla legge n.
326/2003- stabilisce che, ai fini
dell'applicazione delle regole sul condono,
"si intendono ultimati gli edifici nei
quali sia stato eseguito il rustico e
completata la copertura, ovvero, quanto alle
opere interne agli edifici già esistenti e a
quelle non destinate alla residenza, quando
esse siano state completate funzionalmente".
Secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa in tema di
ultimazione delle opere condonabili, dal
quale il Collegio non ravvisa ragioni per
discostarsi, la norma citata introduce -in
alternativa al criterio dell'esecuzione al
rustico e completamento della copertura
dell'edificio- il parametro del
completamento funzionale dell'opera: per i
mutamenti di destinazione d' uso di edifici
residenziali è condonabile la struttura in
cui le opere, pur se non perfette nelle
finiture, possano dirsi individuabili nei
loro elementi strutturali con le
caratteristiche necessarie e sufficienti ad
assolvere alla funzione cui sono destinate.
Il criterio del "completamento funzionale"
anticipa, quindi, la data di ultimazione
delle opere ai fini dell'ammissione al
condono, per cui un intervento non ancora
completato può tuttavia essere giudicato
sanabile dal punto di vista funzionale (cfr.
TAR Liguria, sez. I, 06.05.2010 n. 2295).
Ne discende, quindi, che entro il termine
stabilito dalla legge, anche se le attività
edilizie siano ancora in corso, l'immobile
deve essere già fornito degli elementi
indispensabili a rendere effettivamente
possibile un uso diverso da quello assentito
-in modo tale da risultare incompatibile con
l'originaria destinazione (cfr. TAR Abruzzo
Pescara, 22.10.2007 n. 837)- pur se non
siano stati ancora realizzati gli impianti e
le rifiniture di carattere complementare ed
accessorio (cfr. TAR Veneto, sez. II,
28.05.2008 n. 1631).
Costituisce, infine, principio consolidato
della giurisprudenza che l’onere della prova
circa la data di realizzazione dell’immobile
abusivo (o anche della attività edilizia
abusiva da sanare) spetti a colui che ha
commesso l’abuso e solo la deduzione, da
parte di quest’ultimo, di concreti elementi,
che non possono limitarsi a sole allegazioni
documentali a sostegno delle proprie
affermazioni, trasferisce il suddetto onere
in capo all’Amministrazione (cfr. Consiglio
di Stato, IV, 13.01.2010, n. 45; Consiglio
di Stato, V, 09.11.2009, n.6984).
E, infatti, la pubblica amministrazione non
può di solito materialmente accertare quale
fosse la situazione dell’intero suo
territorio a quella data prevista dalla
legge, mentre il privato, che propone
l’istanza di sanatoria, è normalmente in
grado di fornire idonea documentazione che
comprovi l’ultimazione dell’abuso entro la
data di riferimento, vale a dire nel caso di
specie il 31.03.2003, spettando a costui
l’onere di fornire quantomeno un principio
di prova su tale ultimazione e in caso
contrario restando integro il potere di non
concedere il condono e di irrogare la
sanzione prescritta (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.01.2012 n. 46 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
controversia derivante dall’impugnazione di
un permesso di costruire da parte del vicino
che lamenti la violazione delle distanze
legali costituisce una disputa non già tra
privati ma tra privato e pubblica
amministrazione, nella quale la posizione
del primo si atteggia a interesse legittimo,
con conseguente spettanza della
giurisdizione al giudice amministrativo.
La controversia derivante dall’impugnazione
di un permesso di costruire da parte del
vicino che lamenti la violazione delle
distanze legali costituisce una disputa non
già tra privati ma tra privato e pubblica
amministrazione, nella quale la posizione
del primo si atteggia a interesse legittimo,
con conseguente spettanza della
giurisdizione al giudice amministrativo
(cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV,
28.01.2011, n. 678)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.01.2012 n. 43 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso in cui dopo il rilascio della
concessione edilizia sopravvengono nuove
norme sulla distanze tra gli edifici, o
sulla loro volumetria od altezza, il
costruttore deve conformarsi allo "ius
superveniens", salvo che la costruzione sia
già iniziata, perché in tal caso, se la
nuova disciplina è più restrittiva della
precedente, non può esplicare efficacia
retroattiva su situazioni consolidatesi.
Posto, infatti,
che i requisiti di legittimità di una
concessione edilizia devono essere accertati
al momento del suo rilascio, l'adozione di
un nuovo piano regolatore non ha rilevanza
alcuna ai fini dell'annullamento delle
concessioni validamente rilasciate
anteriormente (art. 11 delle disposizioni
sulla legge in generale).
In particolare, in materia, vige il
principio secondo il quale nel caso in cui
dopo la concessione edilizia sopravvengono
nuove norme sulla distanze tra gli edifici,
o sulla loro volumetria od altezza, il
costruttore deve conformarsi allo "ius
superveniens", salvo che la costruzione
sia già iniziata, perché in tal caso, se la
nuova disciplina è più restrittiva della
precedente, non può esplicare efficacia
retroattiva su situazioni consolidatesi
(cfr. TAR Sicilia Palermo, sez. II,
13.05.2003, n. 781; Cass. Civ., Sez. II,
04.08.1997 n. 7185; Cass. Civ., sez. II,
04.08.1988 n. 4838)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.01.2012 n. 43 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di interventi in
assenza o in difformità dalla D.I.A.
comporta l’irrogazione della sola sanzione
pecuniaria e non di quella ripristinatoria.
... appare allora fondata la dedotta
violazione dell’art. 37 del d.P.R. n.
380/2001, ai sensi del quale la
realizzazione di interventi in assenza o in
difformità dalla D.I.A. comporta
l’irrogazione della sola sanzione pecuniaria
e non di quella ripristinatoria.
E, infatti, non può essere considerata
applicabile la disposta sanzione demolitoria,
la quale si riferisce, al massimo (per
effetto del richiamo contenuto nell'art. 33
cit., comma 6-bis, all'art. 22, comma 3, e
quindi all'articolo 10, comma primo, lett.
c, dello stesso D.P.R.) agli interventi di
ristrutturazione edilizia che comportino
aumento di unità immobiliari, ovvero
modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici (e, quindi, per
quanto sopra, ad interventi diversi da
quello realizzato nel caso di specie).
Poiché, invece, nella specie, si tratta
tutt’al più di intervento eseguito in
assenza di denuncia di inizio attività, la
sanzione applicabile è quella pecuniaria di
cui al citato art. 37 (cfr. TAR Campania,
Napoli, sez. IV, 05.05.2011 , n. 2528) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 25.01.2012 n. 42 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
nozione di interesse giuridicamente
rilevante ai sensi dell’art. 22 della legge
n. 241/1990 si configura come il complesso
di situazioni soggettive che, più che
fornire utilità finali, risultano
caratterizzate per il fatto di offrire al
titolare dell’interesse poteri di natura
procedimentale, volti in senso strumentale
alla tutela di altri interessi
giuridicamente rilevanti, che vengano a
collidere con l’esercizio di pubbliche
funzioni.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale,
condiviso dal Collegio, la nozione di
interesse giuridicamente rilevante ai sensi
dell’art. 22 della legge n. 241/1990 si
configura come il complesso di situazioni
soggettive che, più che fornire utilità
finali, risultano caratterizzate per il
fatto di offrire al titolare dell’interesse
poteri di natura procedimentale, volti in
senso strumentale alla tutela di altri
interessi giuridicamente rilevanti, che
vengano a collidere con l’esercizio di
pubbliche funzioni (cfr. Cons. Giust. Amm.
Reg. Sic., 16.11.2011, n. 846; Cons. Stato,
V, 14.02.2011, n. 942) (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.01.2012 n. 41 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’art.
22 della legge n. 241/1990 riconosce il
diritto di accesso in capo a “tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori
di interessi pubblici o diffusi, che abbiano
un interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l’accesso”.
Non è, dunque, sufficiente il generico e
indistinto interesse di ogni cittadino al
buon andamento dell'attività amministrativa:
la legittimazione all’accesso presuppone la
sussistenza di una posizione differenziata e
la titolarità di una situazione
giuridicamente rilevante, che significa non
titolarità di un diritto soggettivo o di un
interesse legittimo (ossia di posizioni
giuridiche soggettive piene e fondate), ma
di una posizione giuridica soggettiva allo
stato anche meramente potenziale.
---------------
L'accesso ai documenti amministrativi è
condizionato ad una apposita domanda
presentata dal soggetto interessato, recante
l’indicazione del documento di cui egli
chiede di prendere visione ed eventualmente
di estrarre copia, della ragione sottesa
all'istanza ed indirizzata all'organo
pubblico che detto documento detiene.
L'onere di specificazione dei documenti per
i quali si esercita il diritto di acceso non
implica la formale indicazione di tutti gli
estremi identificativi (organo emanante,
numero di protocollo, data di adozione
dell'atto), ma deve ritenersi assolto anche
solo con l'indicazione dell'oggetto e dello
scopo proprio dell'atto in questione ove,
nei singoli casi di specie, risulti
formulata in modo tale da mettere
l'Amministrazione in condizione di
comprendere la portata ed il contenuto della
domanda.
Occorre, innanzitutto, premettere che l’art.
22 della legge n. 241/1990 riconosce il
diritto di accesso in capo a “tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori
di interessi pubblici o diffusi, che abbiano
un interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l’accesso”.
Non è, dunque, sufficiente il generico e
indistinto interesse di ogni cittadino al
buon andamento dell'attività amministrativa:
la legittimazione all’accesso presuppone la
sussistenza di una posizione differenziata e
la titolarità di una situazione
giuridicamente rilevante, che significa non
titolarità di un diritto soggettivo o di un
interesse legittimo (ossia di posizioni
giuridiche soggettive piene e fondate), ma
di una posizione giuridica soggettiva allo
stato anche meramente potenziale (cfr. Cons.
Stato, V, 07.09.2004, n. 5873; Cons. Stato,
V, 10.08.2007, n. 4411; Cons. Stato, VI,
09.02.2009, n. 737).
---------------
L'accesso ai
documenti amministrativi è condizionato ad
una apposita domanda presentata dal soggetto
interessato, recante l’indicazione del
documento di cui egli chiede di prendere
visione ed eventualmente di estrarre copia,
della ragione sottesa all'istanza ed
indirizzata all'organo pubblico che detto
documento detiene.
Tanto premesso va, però, evidenziato che,
secondo l’orientamento della giurisprudenza
condiviso dal Collegio, l'onere di
specificazione dei documenti per i quali si
esercita il diritto di acceso non implica la
formale indicazione di tutti gli estremi
identificativi (organo emanante, numero di
protocollo, data di adozione dell'atto), ma
deve ritenersi assolto anche solo con
l'indicazione dell'oggetto e dello scopo
proprio dell'atto in questione ove, nei
singoli casi di specie, risulti formulata in
modo tale da mettere l'Amministrazione in
condizione di comprendere la portata ed il
contenuto della domanda (cfr. Cons. Stato,
VI, 27.10.2006 n. 6441; TAR Lazio, III,
16.06.2006 n. 4667)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.01.2012 n. 40 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittimo il parere contrario reso dalla
Soprintendenza in quanto formulato senza
chiarire in che modo specifico un intervento
caratterizzato da vetrate trasparenti, prive
di strutture e profili verticali e ancorate
esclusivamente al soffitto con un profilo in
alluminio di 4 cm, sia “una superfetazione
incongrua, particolarmente visibile dal
fronte mare”, e quale dovrebbe essere il
valore formale e architettonico che lo
stesso dovrebbe presentare per poter
risultare compatibile con l'imposto vincolo.
Tali considerazioni risultano vieppiù
rafforzate dall’assenza di qualsiasi
valutazione da parte dell’Amministrazione
del fatto che l’opera progettata prevede
l’uso di materiale già utilizzato nel
medesimo edificio per la tamponatura della
sovrastante terrazza.
Anzi, a ben guardare, per giustificare il
parere contrario sarebbe stata necessaria da
parte della Soprintendenza una compiuta
confutazione sul piano oggettivo del diverso
opinare degli organi comunali –che hanno
ritenuto la conformità dell’intervento alle
disposizioni urbanistiche vigenti- con
specifica e puntuale indicazione degli
aspetti progettuali in contrasto con il
contenuto del vincolo.
La Soprintendenza basa il parere contrario
all’intervento sulla non conformità dello
stesso con le disposizioni di cui al D.M.
05.05.1959 e con il vincolo generalizzato ex
art. 142, comma 1, lettera a), del D.lgs.
42/2004, nonché sulla valutazione
dell’erigenda struttura come una “superfetazione
incongrua particolarmente visibile dal
fronte mare, che trasforma il porticato
libero aperto in un volume chiuso, alterando
la facciata dell’edificio”, tipico
esempio di architettura del dopoguerra “connotato
dalla presenza di ampi spazi aperti a
terrazza e porticati che ne garantiscono un
buon inserimento nel contesto paesaggistico
del litorale”.
Orbene, ad avviso del Collegio,
l'argomentazione utilizzata dalla
Soprintendenza per giustificare il parere
contrario risulta anodina e apodittica, in
quanto è stata formulata senza chiarire in
che modo specifico un intervento
caratterizzato da vetrate trasparenti, prive
di strutture e profili verticali e ancorate
esclusivamente al soffitto con un profilo in
alluminio di 4 cm, sia “una
superfetazione incongrua, particolarmente
visibile dal fronte mare”, e quale
dovrebbe essere il valore formale e
architettonico che lo stesso dovrebbe
presentare per poter risultare compatibile
con l'imposto vincolo. Tali considerazioni
risultano vieppiù rafforzate dall’assenza di
qualsiasi valutazione da parte
dell’Amministrazione del fatto che l’opera
progettata prevede l’uso di materiale già
utilizzato nel medesimo edificio per la
tamponatura della sovrastante terrazza.
Anzi, a ben guardare, per giustificare il
parere contrario sarebbe stata necessaria da
parte della Soprintendenza una compiuta
confutazione sul piano oggettivo del diverso
opinare degli organi comunali –che hanno
ritenuto la conformità dell’intervento alle
disposizioni urbanistiche vigenti- con
specifica e puntuale indicazione degli
aspetti progettuali in contrasto con il
contenuto del vincolo (cfr. TAR Campania,
Napoli, sez. VII, 24.11.2010, n. 25733) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 25.01.2012 n. 39 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Un
vincolo diretto esteso ad un’area tanto
vasta da doversene indicare gli estremi con
riferimento all’intero foglio di mappa
catastale, deve basarsi su fatti concreti e
presupposti specifici e deve, altresì,
evidenziare nella motivazione sia gli
elementi di fatto assunti alla base del
giudizio di “importante interesse” che
giustifica il vincolo sia il tipo di
interesse pubblico perseguito e la necessità
o l’adeguatezza del mezzo prescelto rispetto
alla finalità di tutela di tale interesse.
L'obbligo della motivazione del
provvedimento d'imposizione di vincolo
diretto su beni di rilevante interesse
storico culturale obbedisce all'esigenza di
limitare entro il necessario il sacrificio
imposto ai privati proprietari, sicché dalla
motivazione deve risultare la correlazione
tra estensione del bene tutelato ed
estensione degli immobili vincolati.
Come evidenziato anche dal giudice
d’appello, infatti, un vincolo diretto
esteso ad un’area tanto vasta da doversene
indicare gli estremi con riferimento
all’intero foglio di mappa catastale, deve
basarsi su fatti concreti e presupposti
specifici e deve, altresì, evidenziare nella
motivazione sia gli elementi di fatto
assunti alla base del giudizio di “importante
interesse” che giustifica il vincolo sia
il tipo di interesse pubblico perseguito e
la necessità o l’adeguatezza del mezzo
prescelto rispetto alla finalità di tutela
di tale interesse (cfr., ex multis,
Cons. St., sez. VI, 05.10.1984, n. 553).
Il Collegio osserva, altresì, che l'obbligo
della motivazione del provvedimento
d'imposizione di vincolo diretto su beni di
rilevante interesse storico culturale
obbedisce all'esigenza di limitare entro il
necessario il sacrificio imposto ai privati
proprietari, sicché dalla motivazione deve
risultare la correlazione tra estensione del
bene tutelato ed estensione degli immobili
vincolati (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.01.2012 n. 38 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’irrogazione
della sanzione pecuniaria correlata ad abusi
edilizi sanati ai sensi dell’art. 36 sopra
citato, costituendo esercizio di un potere
autoritativo, va impugnata entro il termine
decadenziale, non essendo consentito
contestare in un momento successivo
l’ammontare richiesto a tale titolo
dall’amministrazione al fine di censurare
surrettiziamente la condizione presupposta
al rilascio del permesso di costruire in
sanatoria.
L’oblazione di cui all’art. 36 del d.p.r. n.
380 del 2001 comprende l’assolvimento sia
dell’originario obbligo contributivo sia
della sanzione.
Come evidenziato anche dal giudice
d’appello, l’irrogazione della sanzione
pecuniaria correlata ad abusi edilizi sanati
ai sensi dell’art. 36 sopra citato,
costituendo esercizio di un potere
autoritativo, va impugnata entro il termine
decadenziale, non essendo consentito
contestare in un momento successivo
l’ammontare richiesto a tale titolo
dall’amministrazione al fine di censurare
surrettiziamente la condizione presupposta
al rilascio del permesso di costruire in
sanatoria (Cons. St., sez. IV, 19.12.2007,
n. 6559).
Come
affermato dalla consolidata giurisprudenza
di questa Sezione, l’oblazione di cui
all’art. 36 del d.p.r. n. 380 del 2001
comprende l’assolvimento sia dell’originario
obbligo contributivo sia della sanzione (TAR
Veneto, sez. II, 08.11.2005, n. 3862)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.01.2012 n. 34 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ente
non paga i danni da ritardo. Tar Lazio:
serve la lesione patrimoniale.
No al permesso di
costruire: il comune sbaglia ma non paga,
neppure il danno da ritardo. Il tempo perso
dall'ente non è di per sé risarcibile: serve
una lesione patrimoniale all'interessato
dovuta all'inerzia
Il comune non risarcisce il danno da
ritardo, anche se ha sbagliato. E ciò
nonostante che il permesso di costruire
risulti negato troppo frettolosamente al
cittadino interessato, mentre gli uffici
dell'ente dovranno tornare a pronunciarsi
sull'istanza di natura urbanistica.
È quanto emerge dalla
sentenza 24.01.2012 n. 762,
pubblicata dalla Sez. II-quater del TAR
Lazio-Roma.
Natura controversa.
È vero, nell'ordinamento è stato introdotta
poco meno di tre anni or sono una
fattispecie definita per comodità «danno
da ritardo». A farlo è stata la legge
69/2009, quella che ha riformato il processo
civile, che ha aggiunto un articolo nuovo di
zecca, il 2-bis, alla legge 241/1990 (un
istituto «discusso», commentano i
giudici amministrativi).
La novella, in ogni caso, stabilisce solo
che «le pubbliche amministrazioni» e
altri soggetti assimilati «sono tenuti al
risarcimento del danno ingiusto cagionato in
conseguenza dell'inosservanza dolosa o
colposa del termine di conclusione del
procedimento».
In altre parole, il tempo perso dalle
amministrazioni non fa scattare di per sé il
danno da ritardo: ai fini del risarcimento,
infatti, risulta necessario che nella sfera
giuridica dell'interessato si verifichi un
pregiudizio di natura patrimoniale
determinato dalla colpevole inerzia
dell'ente, il quale non si cura dell'inutile
decorso del tempo.
Amministrazione salva.
Il cittadino interessato ottiene
l'annullamento del provvedimento
amministrativo ma non il risarcimento.
Eppure l'ente ha inutilmente insistito sul
fatto che agli atti mancano gli elaborati
grafici originali allegati alle concessioni
edilizie, salvo poi concludere ugualmente
per la non conformità della richiesta
rispetto alle norme urbanistiche.
Tutte le circostanze dedotte non sono
comunque sufficienti a far scattare
l'obbligo di risarcimento in capo all'ente:
l'interessato lamenta infatti che nel
frattempo ha venduto il bene a prezzo meno
favorevole, affrontato un mutuo più oneroso
e pagato un affitto; si tratta, però, di
censure tutte rivolte sullo stato giuridico
del cespite, su cui l'amministrazione dovrà
nuovamente deliberare (articolo
ItaliaOggi dell'11.02.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: L'essere
proprietario di un terreno confinante con
quello oggetto dei lavori assentiti col
provvedimento impugnato è qualità di per sé
idonea a dimostrare la sussistenza di una
situazione soggettiva ed oggettiva di
stabile collegamento con la zona coinvolta
dai lavori (cd. “vicinitas”) ed a radicare
la legittimazione e l’interesse
all’impugnazione del titolo edilizio
relativo all’immobile limitrofo, senza
bisogno di procedere ad ulteriori indagini,
in quanto l’eventuale illegittimità
dell’atto di assenso è idonea di per sé ad
arrecare pregiudizio ai valori urbanistici
tutelati dalle previsioni vigenti nella
zona.
Con riguardo all’eccepita carenza di prova
circa la propria legittimazione attiva, la
ricorrente ... ha dimostrato (versando in
giudizio l’atto di divisione, stipulato in
data 25.09.1981 innanzi al notaio E. Ruocco,
n. 693 di repertorio e n. 423 della
raccolta, e l’atto di compravendita del
31.05.1993, rogato dallo stesso notaio con
n. 1891 di repertorio e n. 344 di raccolta)
di essere proprietaria di un terreno
(individuato in catasto al foglio 22,
particelle 53, 54 e 147) confinante con
quello oggetto dei lavori assentiti col
provvedimento impugnato (riportato in
catasto allo stesso foglio 22, particella
56).
Osserva il Collegio che la suddetta qualità
è di per sé idonea a dimostrare la
sussistenza di una situazione soggettiva ed
oggettiva di stabile collegamento con la
zona coinvolta dai lavori (cd. “vicinitas”)
ed a radicare la legittimazione e
l’interesse all’impugnazione del titolo
edilizio relativo all’immobile limitrofo,
senza bisogno di procedere ad ulteriori
indagini, in quanto l’eventuale
illegittimità dell’atto di assenso è idonea
di per sé ad arrecare pregiudizio ai valori
urbanistici tutelati dalle previsioni
vigenti nella zona (cfr., per tutte,
Consiglio di Stato, Sezione V, 13.07.2000,
n. 3904; Sezione IV, 31.05.2007, n. 2849;
TAR Campania, Napoli, Sezione II,
07.03.2008, n. 1172)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 20.01.2012 n. 302 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Si
ha ristrutturazione edilizia solo in caso di
preesistenza di un organismo edilizio dotato
di mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura, e non anche nelle ipotesi di
ricostruzione su ruderi di un edificio già
da tempo demolito o diruto.
Il concetto di ristrutturazione edilizia
comprende anche la demolizione seguita dalla
fedele ricostruzione del manufatto, purché
tale ricostruzione venga effettuata in un
tempo ragionevolmente prossimo a quello
della demolizione. Invero, la nozione di
ristrutturazione, sebbene ulteriormente
estesa per effetto delle disposizioni
contenute nell'art. 3 d.P.R. 06.06.2001 n.
380, si distingue pur sempre da quella di
nuova costruzione per la necessità che la
ricostruzione sia identica per sagoma,
volumetria e superficie al fabbricato
demolito, per cui essa postula che le due
fasi siano temporalmente contestualizzate
nell’ambito di un intervento unitario, onde
evitare ogni incertezza sulla fedeltà
dell’attività ricostruttiva.
Come ribadito
dalla costante giurisprudenza, anche di
questo Tribunale, si ha ristrutturazione
edilizia solo in caso di preesistenza di un
organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e
copertura, e non anche nelle ipotesi di
ricostruzione su ruderi di un edificio già
da tempo demolito o diruto (cfr. Consiglio
di Stato, Sezione V, 15.04.2004 n. 2142;
Sezione IV, 13.10.2010, n. 7476; TAR
Campania, Napoli, Sezione II, 11.09.2009 n.
4949; Sezione IV, 23.12.2010 n. 28002 e
15.06.2011 n. 3184; Sezione VI, 09.11.2009
n. 7049).
La giurisprudenza ha, inoltre, evidenziato
l’importanza del fattore temporale nel senso
che il concetto di ristrutturazione edilizia
comprende anche la demolizione seguita dalla
fedele ricostruzione del manufatto, purché
tale ricostruzione venga effettuata in un
tempo ragionevolmente prossimo a quello
della demolizione (TAR Campania, Salerno,
Sezione II, 21.10.2010 n. 11911). Invero, la
nozione di ristrutturazione, sebbene
ulteriormente estesa per effetto delle
disposizioni contenute nell'art. 3 d.P.R.
06.06.2001 n. 380, si distingue pur sempre
da quella di nuova costruzione per la
necessità che la ricostruzione sia identica
per sagoma, volumetria e superficie al
fabbricato demolito, per cui essa postula
che le due fasi siano temporalmente
contestualizzate nell’ambito di un
intervento unitario, onde evitare ogni
incertezza sulla fedeltà dell’attività
ricostruttiva.
Né rileva che l’abbattimento sia avvenuto
sulla base della richiamata ordinanza
sindacale, atteso che l’evocata ratio
prescinde dalle ragioni che hanno
determinato il crollo del manufatto,
sussistendo la medesima esigenza di certezza
sia quando la demolizione sia avvenuta per
volontà del titolare sia quando la rovina
sia stata determinata da cause naturali
(cfr. Consiglio di Stato, Sezione V,
23.03.2000 n. 1610; 03.07.1996 n. 819), alla
quale può essere equiparata la forza
maggiore determinata da factum principis.
Non giova al controinteressato neppure il
precedente giurisprudenziale (Consiglio di
Stato, Sezione V, 11.05.2009 n. 2870)
richiamato nell’ultima memoria difensiva,
riferito a fattispecie nella quale la
demolizione del manufatto primigenio era
intervenuta per ragioni di sanità pubblica.
Invero, nel caso oggetto della citata
decisione, il rispetto della sagoma e del
volume preesistenti non erano oggetto di
contestazione, sicché il Giudice d’appello
ha reputato di non attribuire valenza
ostativa al mero lasso temporale intercorso,
sussistendo comunque “[…]un’unitaria
programmazione della demolizione e della
ricostruzione che ne consente la
riconduzione al concetto ampio di
ristrutturazione abbracciato dal piano di
recupero […]”. Invece, nell’odierna
fattispecie, la ricorrente ha specificamente
contestato la consistenza del preesistente
manufatto, così come rappresentata nei
documenti allegati all’istanza edificatoria,
esibendo perizia tecnica (datata 10.11.2009)
sulle sue dimensioni, come desumibili da
rilievi aerofotogrammetrici del marzo 1981,
tanto che pende procedimento penale dinanzi
al Tribunale di Nola per i reati di cui agli
artt. 110, 48 e 480 del c.p. e 44, lett. B,
del D.P.R. n. 380/2001 (cfr. decreto di
sequestro preventivo del 19.01.2010 ed
avviso agli indagati ex art. 415-bis del
c.p.p. del 20.01.2010).
L’intervento deve considerarsi quindi come
nuova costruzione e, in quanto tale, deve
essere rispettoso delle previsioni
urbanistiche vigenti (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 20.01.2012 n. 302 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
fattispecie di lottizzazione abusiva si
riferisce alla mancanza dell’autorizzazione
specifica alla lottizzazione, inizialmente
prevista dall'art. 28 della legge
urbanistica 17.08.1942 n. 1150 e confermata
da tutta la legislazione statale e regionale
in tema di pianificazione attuativa, sicché
alcun rilievo sanante sull'abuso in
questione può rivestire il rilascio di una
eventuale concessione edilizia in quanto,
ove manchi la specifica autorizzazione a
lottizzare, la lottizzazione abusiva
sussiste e deve essere sanzionata anche se,
per le singole opere facenti parte di tale
lottizzazione, sia stata rilasciata una
concessione edilizia.
La stessa formulazione dell'art. 30 del
d.P.R. n. 380/2001 consente di affermare che
può integrare ipotesi di lottizzazione
abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto
idonee a stravolgere l'assetto del
territorio preesistente, a realizzare un
nuovo insediamento abitativo e, in ultima
analisi, a determinare sia un concreto
ostacolo alla futura attività di
programmazione (che viene posta di fronte al
fatto compiuto), sia un carico urbanistico
che necessita di adeguamento degli standard.
Il concetto di "opere che comportino
trasformazione urbanistica o edilizia" dei
terreni deve essere dunque interpretato in
maniera "funzionale" alla ratio della norma,
il cui bene giuridico tutelato è costituito
dalla necessità di preservare la potestà
pianificatoria attribuita
all'amministrazione nonché l'effettivo
controllo del territorio da parte del
soggetto titolare della stessa funzione di
pianificazione (cioè il comune), al fine di
garantire un’ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio
e uno sviluppo degli insediamenti abitativi
e dei correlativi standard compatibili con
le esigenze di finanza pubblica.
Ne consegue che la verifica circa la
conformità della trasformazione realizzata e
la sua rispondenza o meno alle previsioni
delle norme urbanistiche vigenti deve essere
effettuata con riferimento non già alle
singole opere in cui si è compendiata la
lottizzazione, in ipotesi anche regolarmente
assentite (giacché tale difformità è
specificamente sanzionata dagli artt. 31 e
seguenti d.P.R. n. 380/2001), bensì alla
complessiva trasformazione edilizia che di
quelle opere costituisce il frutto, sicché
essa ben può mancare anche nei casi in cui
per le singole opere facenti parte della
lottizzazione sia stato rilasciato il
permesso di costruire.
Con riguardo alla pretesa insussistenza dei
vizi ravvisati dall’atto di annullamento nel
permesso di costruire annullato.
“È utile premettere che, secondo il
provvedimento impugnato, le opere
controverse configurano una lottizzazione
abusiva ex art. 30 d.P.R. n. 380/2001,
avendo trasformato una zona agricola in
residenziale in contrasto con le previsioni
del P.T.C.P., che fissa un regime di
mantenimento per l’intera zona.
“Orbene, la tesi del ricorrente si sostanzia
nell’affermazione per cui, poiché
l’intervento è stato realizzato nel rispetto
dello strumento urbanistico a seguito di
regolare concessione edilizia rilasciata dal
comune di Dolcedo, non sussisterebbe
l’affermata lottizzazione abusiva di terreni
a scopo edificatorio.
In realtà, le norme sulla lottizzazione
abusiva (da ultimo, art. 30 d.P.R.
06.06.2001, n. 380) mirano a prevenire e
reprimere le condotte materiali e giuridiche
intese a infittire la trama dell’edificato
sul territorio, senza che sussista una
previa pianificazione capace di tenere conto
delle conseguenze dell’edificazione in
termini di esigenza di nuovi servizi e opere
di urbanizzazione, che il costruttore non ha
(e non può avere) adeguatamente riscontrato.
“Dunque, la fattispecie di lottizzazione
abusiva si riferisce alla mancanza
dell’autorizzazione specifica alla
lottizzazione, inizialmente prevista
dall'art. 28 della legge urbanistica
17.08.1942 n. 1150 e confermata da tutta la
legislazione statale e regionale in tema di
pianificazione attuativa, sicché alcun
rilievo sanante sull'abuso in questione può
rivestire il rilascio di una eventuale
concessione edilizia in quanto, ove manchi
la specifica autorizzazione a lottizzare, la
lottizzazione abusiva sussiste e deve essere
sanzionata anche se, per le singole opere
facenti parte di tale lottizzazione, sia
stata rilasciata una concessione edilizia
(in tal senso cfr. TAR Campania, Sez. IV,
10.11.2006, n. 9458, che richiama Cons. di
Stato, Sez. V, 26.03.1996 n. 301).
“Secondo quanto già più volte affermato in
giurisprudenza (cfr. TAR Lazio, Sez. I,
09.10.2009, nn. 9859 e 9860; TAR
Puglia-Bari, Sez. III, 24.04.2008, n. 1017),
la stessa formulazione dell'art. 30 del
d.P.R. n. 380/2001 consente di affermare che
può integrare ipotesi di lottizzazione
abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto
idonee a stravolgere l'assetto del
territorio preesistente, a realizzare un
nuovo insediamento abitativo e, in ultima
analisi, a determinare sia un concreto
ostacolo alla futura attività di
programmazione (che viene posta di fronte al
fatto compiuto), sia un carico urbanistico
che necessita di adeguamento degli standard.
“Il concetto di "opere che comportino
trasformazione urbanistica o edilizia"
dei terreni deve essere dunque interpretato
in maniera "funzionale" alla ratio
della norma, il cui bene giuridico tutelato
è costituito dalla necessità di preservare
la potestà pianificatoria attribuita
all'amministrazione nonché l'effettivo
controllo del territorio da parte del
soggetto titolare della stessa funzione di
pianificazione (cioè il comune), al fine di
garantire un’ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio
e uno sviluppo degli insediamenti abitativi
e dei correlativi standard compatibili con
le esigenze di finanza pubblica.
“Ne consegue che la verifica circa la
conformità della trasformazione realizzata e
la sua rispondenza o meno alle previsioni
delle norme urbanistiche vigenti deve essere
effettuata con riferimento non già alle
singole opere in cui si è compendiata la
lottizzazione, in ipotesi anche regolarmente
assentite (giacché tale difformità è
specificamente sanzionata dagli artt. 31 e
seguenti d.P.R. n. 380/2001), bensì alla
complessiva trasformazione edilizia che di
quelle opere costituisce il frutto, sicché
essa ben può mancare anche nei casi in cui
per le singole opere facenti parte della
lottizzazione sia stato rilasciato il
permesso di costruire (TAR Bari, Sez. III,
n. 1017/2008 cit.)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 20.01.2012 n. 160 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se il termine di prescrizione per
la riscossione degli oneri concessori
decorre dalla data di emanazione del
provvedimento, non può ragionevolmente
ritenersi che il termine per il pagamento
decorra da una data diversa.
L’art. 16 del D.P.R. 380 del 2001
(Contributo per il rilascio del permesso di
costruire), che corrisponde agli artt. 3, 5
comma 1 e 6, commi 1, 4 e 5 della legge
28.01.1977, n. 10, dopo aver previsto (comma
1) che “il rilascio del permesso di
costruire comporta la corresponsione di un
contributo commisurato all'incidenza degli
oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione, secondo le modalità indicate
nel presente articolo”, stabilisce
(comma 2) che “la quota di contributo
relativa agli oneri di urbanizzazione è
corrisposta al comune all'atto del rilascio
del permesso di costruire e, su richiesta
dell'interessato, può essere rateizzata…….”
La questione dunque si incentra
sull’interpretazione dell’espressione “all’atto
del rilascio”, che dalla legge è
lasciata genericamente vaga, in quanto la
disposizione in questione non individua con
esattezza se il rilascio (e quindi, il
momento di decorrenza del termine per il
pagamento degli oneri concessori) coincida
col momento della emanazione della
concessione edilizia, o con quello della
notifica/comunicazione ovvero ancora, come
sostenuto dalla ricorrente, dal momento
della sua “efficacia”.
Sulla questione il collegio esprime le
seguenti considerazioni.
Il termine “rilascio” lo si rinviene
anche nell’art. 12 del D.P.R. 380 del 2001
(“Presupposti per il rilascio del
permesso di costruire”) e nelle
disposizioni successive.
In particolare l’art. 15 del D.P.R. 380/2001
stabilisce al comma 2 che “il termine per
l'inizio dei lavori non può essere superiore
ad un anno dal rilascio del titolo”,
rilascio che, in base all’art. 20, viene
fatto coincidere con la sua emanazione, in
quanto “il provvedimento finale, che lo
sportello unico provvede a notificare
all'interessato, e' adottato dal dirigente o
dal responsabile dell'ufficio”……
In realtà in giurisprudenza la questione non
è pacifica, in quanto, a fronte di un
orientamento che nega la recettizietà della
concessione, “essendo di per sé idonea a
produrre gli effetti suoi propri fin dalla
data della sua emanazione indipendentemente
dalla comunicazione all'interessato“
(così TAR Liguria, sez. I, 11.03.2003, n.
279), esistono altri orientamenti favorevoli
a far coincidere il rilascio con la consegna
del provvedimento all’interessato, nelle
forme facenti fede, almeno ai fini del
decorso del termine di decadenza per
l’inizio e l’ultimazione dei lavori (TAR
Liguria, sez. I, 17.02.2011, n. 322; TAR
Salerno, sez. II, 16.12.2009, n. 7923; TAR
Catania, sez. I, 07.04.2009, n. 678).
Il collegio ritiene che questo secondo
orientamento sia fortemente influenzato
dalla opportunità di evitare al destinatario
del provvedimento concessorio di incorrere
in una decadenza per un fatto in qualche
modo ascrivibile all’amministrazione
procedente, in quanto la stessa deve mettere
in condizione il privato richiedente di
venire a conoscenza del contenuto del
provvedimento concessorio, al fine di poter
procedere con i lavori entro gli effettivi
termini di legge (termini che non sarebbero
effettivi se si facessero decorrere dalla
data di emanazione della concessione
edilizia).
È invece più coerente con il sistema
ritenere che determinati effetti automatici
del provvedimento, indipendenti dall’apporto
del destinatario dello stesso, dipendano
dalla data di materiale emissione del
provvedimento amministrativo. Tra questi
effetti, vi è anche il decorso del termine
per il pagamento degli oneri concessori, che
sono calcolati dal Comune e collegati
direttamente alla venuta in essere del
permesso di costruire.
In questo senso la liquidazione dei
contributi per oneri concessori discende
direttamente e automaticamente dal rilascio
della concessione edilizia, la quale si
configura quale fatto costitutivo
dell’obbligo giuridico del concessionario di
corrispondere quanto determinato a titolo di
contributo (in questi termini, CGA,
13.12.2010 n. 1483), e non con la successiva
ed eventuale attuazione di esso, in quanto
la realizzazione delle opere assentite può
difettare per fatto del concessionario.
Coerentemente con questo, in giurisprudenza
si è detto che l'ordinario termine di
prescrizione decennale per la riscossione
degli oneri di urbanizzazione decorre dalla
data di emanazione del provvedimento
concessorio (cfr. Tar Napoli, sez. II,
20.07.2007 n. 6891; id., 11.07.2006, n.
7392; Tar Catanzaro 22.11.2000 n. 1439; Tar
Pescara 10.05.2002 n. 477).
Se dunque il termine di prescrizione per la
riscossione degli oneri concessori decorre
dalla data di emanazione del provvedimento,
non può ragionevolmente ritenersi che il
termine per il pagamento decorra da una data
diversa, anche per le ragioni sopra esposte
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 18.01.2012 n. 126 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La prevista comunicazione al
pubblico mediante affissione (“dell'avvenuto
rilascio del permesso di costruire e' data
notizia al pubblico mediante affissione
all'albo pretorio”) non integra un elemento
essenziale di formazione del provvedimento,
consistendo in una forma di pubblicità
notizia necessaria, per taluna parte della
giurisprudenza, ai fini del decorso del
termine di impugnazione.
Deve altresì aggiungersi che la società
ricorrente prospetta che la condicio
iuris per la piena efficacia del
provvedimento concessorio sarebbe costituita
dal decorso del tempo per la pubblicazione
della concessione nell’albo pretorio nonché
dal conseguimento dell’autorizzazione del
Genio Civile, ai sensi della legge 64 del
1974.
In ordine alla prima affermazione, questo
collegio ricorda che la prevista
comunicazione al pubblico mediante
affissione (“dell'avvenuto rilascio del
permesso di costruire e' data notizia al
pubblico mediante affissione all'albo
pretorio”) non integra un elemento
essenziale di formazione del provvedimento
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.05.1999 n.
582), consistendo in una forma di pubblicità
notizia necessaria, per taluna parte della
giurisprudenza, ai fini del decorso del
termine di impugnazione (cfr. TAR Liguria,
sez. I, 25.07.2008, n. 1543; TAR Brescia,
sez. I, 16.03.2010, n. 1216).
In ordine alla seconda, va precisato che la
natura di “condicio iuris” del nulla
osta per le costruzioni antisismiche, ai
sensi della l. 64 del 1974, si atteggia
quale condizione di efficacia (appunto, “condicio
iuris“) in relazione alla concreta
realizzabilità di un intervento edilizio
(Tar Catanzaro, 22.06.1995, n. 704), ma non
di validità della concessione edilizia cui
afferisce, onde il suo rilascio tardivo non
invalida quest'ultima, perché ne investe la
fase attuativa (Cons. St., sez. V,
06.08.1997, n. 875), né tantomeno modifica
la data di decorrenza dei termini collegati
automaticamente alla concessione medesima
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 18.01.2012 n. 126 - link
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EDILIZIA PRIVATA:
Il comma 2 dell’art. 16 del
d.P.R. 380 del 2001 stabilisce che “a
scomputo totale o parziale della quota
dovuta, il titolare del permesso può
obbligarsi a realizzare direttamente le
opere di urbanizzazione, nel rispetto
dell'articolo 2, comma 5, della legge
11.02.1994, n. 109, e successive
modificazioni, con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune, con conseguente
acquisizione delle opere realizzate al
patrimonio indisponibile del comune”.
La giurisprudenza ha costantemente
interpretato il suddetto articolo nel senso
che il tipo e l’entità delle opere ammesse a
scomputo, nonché la quota di oneri che su
tale presupposto non è dovuta, debbono
essere concordati formalmente con il Comune,
dovendovi essere un espresso atto di
«accettazione» consensuale da parte della
stessa Amministrazione, anche informale
purché esplicito, con la conseguenza che, in
assenza di qualsivoglia partecipazione
consensuale dell'Ente, anche solo ex post,
gli oneri contributivi, così come
determinati, devono essere integralmente
corrisposti.
Le suddette opere devono, quindi, essere
dettagliatamente individuate, e non è
considerato sufficiente un mero computo
estimativo.
... la società Carlotta ha contestato la
violazione dell’art. 16 del d.P.R. 380 del
2001 sotto il profilo del mancato scomputo
dalle somme dovute a titolo di oneri
concessori di alcune opere di urbanizzazione
primaria asseritamente contenute nel computo
metrico estimativo vistato dall’organo
tecnico comunale competente.
Più precisamente, il Comune avrebbe dovuto
scomputare il costo degli spazi di sosta e
parcheggio, realizzati dalla ditta Carlotta,
per un totale di € 52.687,06, da sottrarre
alla somma addebitata alla società per il
pagamento e rateizzata (€ 137.438,67),
sicché la somma finale avrebbe dovuto essere
pari a € 84.571,61.
Il motivo non merita accoglimento.
Il comma 2 dell’art. 16 del d.P.R. 380 del
2001 stabilisce che “a scomputo totale o
parziale della quota dovuta, il titolare del
permesso può obbligarsi a realizzare
direttamente le opere di urbanizzazione, nel
rispetto dell'articolo 2, comma 5, della
legge 11.02.1994, n. 109, e successive
modificazioni, con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune, con conseguente
acquisizione delle opere realizzate al
patrimonio indisponibile del comune”.
La giurisprudenza ha costantemente
interpretato il suddetto articolo nel senso
che il tipo e l’entità delle opere ammesse a
scomputo, nonché la quota di oneri che su
tale presupposto non è dovuta, debbono
essere concordati formalmente con il Comune
(Cons. St., sez. V, 01.06.1998 n. 701),
dovendovi essere un espresso atto di «accettazione»
consensuale da parte della stessa
Amministrazione (TAR Napoli, sez. VIII,
07.07.2010, n. 16606), anche informale
purché esplicito (Tar Napoli, sez. VIII,
17.09.2009, n. 4983), con la conseguenza
che, in assenza di qualsivoglia
partecipazione consensuale dell'Ente, anche
solo ex post, gli oneri contributivi,
così come determinati, devono essere
integralmente corrisposti.
Le suddette opere devono, quindi, essere
dettagliatamente individuate, e non è
considerato sufficiente un mero computo
estimativo (TAR Napoli, sez. II, 11.09.2009,
n. 4934) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 18.01.2012 n. 126 - link
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EDILIZIA PRIVATA:
La salvaguardia dell'area di
rispetto cimiteriale di 200 metri prevista
dall'art. 338 del R.D. 1265/1934 consiste in
un vincolo assoluto di inedificabilità che
non consente la collocazione di edifici o
comunque di opere ad esso incompatibili, in
considerazione dei molteplici interessi
pubblici che s’intendono tutelare e che
possono enuclearsi nelle esigenze di natura
igienico-sanitaria, nella salvaguardia della
peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati all'inumazione ed alla sepoltura,
nel mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale.
In particolare, “il vincolo di rispetto
cimiteriale, riguarda non solo i centri
abitati, ma anche i fabbricati sparsi” e “lo
stesso vincolo preclude il rilascio della
concessione, anche in sanatoria (ai sensi
dell'art. 33 L. 28.02.1985 n. 47), senza
necessità di compiere valutazioni in ordine
alla concreta compatibilità dell'opera con i
valori tutelati dal vincolo”.
Ed invero, questo tribunale, in fattispecie
analoga alla presente (v. sentenza n. 14149
del 26.11.2010) ha avuto occasione di
precisare che l’art. 338 del RD 27/07/1934
n. 1265, Parte 2, prescrive che i cimiteri
devono essere collocati alla distanza di
almeno 200 metri dal centro abitato.
Di conseguenza, è vietato costruire intorno
ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di
200 metri dal perimetro dell'impianto
cimiteriale, quale risultante dagli
strumenti urbanistici vigenti nel comune o,
in difetto di essi, comunque quale esistente
in fatto, salve le deroghe ed eccezioni
previste dalla legge.
La salvaguardia dell'area di rispetto
cimiteriale di 200 metri (nel caso di
specie, 150 mt.) prevista dal richiamato
art. 338 del R.D. 1265/1934 consiste,
infatti, in un vincolo assoluto di
inedificabilità che non consente la
collocazione di edifici o comunque di opere
ad esso incompatibili, in considerazione dei
molteplici interessi pubblici che
s’intendono tutelare e che possono
enuclearsi nelle esigenze di natura
igienico-sanitaria, nella salvaguardia della
peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati all'inumazione ed alla sepoltura,
nel mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale (cfr.,
altresì, TAR Lombardia Milano, sez. IV,
02.04.2010, n. 962, 10.09.2010, n. 5656;
Cons. Stato, sez. IV, 08.10.2007, n. 5210;
sez. V, 14.09.2010, n. 6671). In
particolare, in quest’ultima sentenza si
precisa che “il vincolo di rispetto
cimiteriale, riguarda non solo i centri
abitati, ma anche i fabbricati sparsi” e
che “lo stesso vincolo preclude il
rilascio della concessione, anche in
sanatoria (ai sensi dell'art. 33 L.
28.02.1985 n. 47), senza necessità di
compiere valutazioni in ordine alla concreta
compatibilità dell'opera con i valori
tutelati dal vincolo”.
Pertanto, nel caso di specie non occorre
svolgere ulteriori considerazioni per
confutare la tesi di fondo del ricorrente,
secondo cui dovrebbe essere consentito il
mantenimento (e quindi la sanatoria) del
fabbricato abusivo destinato ad “attività
produttiva”. Peraltro, appare evidente
come proprio la “lavorazione del marmo”,
per le sue stesse rumorose caratteristiche,
possa compromettere la peculiare sacralità
dei luoghi che il citato art. 338 intende,
appunto, salvaguardare (TAR Sicilia-Palermo,
Sez. III,
sentenza 18.01.2012 n. 77 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I provvedimenti repressivi di
abusi edilizi non devono essere preceduti
dall'avviso dell'inizio del procedimento,
trattandosi di procedimenti tipizzati e
vincolati e considerato che i provvedimenti
sanzionatori presuppongono un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle
opere realizzate, nonché sul carattere non
assentito delle medesime.
Quanto, infine, al secondo, autonomo motivo
dedotto nel terzo ricorso (violazione e
falsa applicazione dell’art. 8 della L.r. n.
10/1991 e dell’art. 7 della L. n. 2411990),
non può che ribadirsi il costante
orientamento giurisprudenziale, secondo il
quale i provvedimenti repressivi di abusi
edilizi non devono essere preceduti
dall'avviso dell'inizio del procedimento,
trattandosi di procedimenti tipizzati e
vincolati e considerato che i provvedimenti
sanzionatori presuppongono un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle
opere realizzate, nonché sul carattere non
assentito delle medesime (cfr., da ultimo,
TAR Sicilia, sez. II, 08.06.2010, n. 7244;
sez. III, 04.01.2012, n. 4) (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 18.01.2012 n. 77 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Se
è vero che le scelte urbanistiche sono
caratterizzate da un amplissimo margine di
discrezionalità e non possono essere
sottoposte al sindacato giurisdizionale del
g.a., salvo che sotto il profilo della
palese illogicità ed irragionevolezza delle
determinazioni assunte o per essere le
determinazioni stesse inficiate da errori di
fatto, la funzione di strumento
particolareggiato ed attuativo delle
prescrizioni del p.r.g. rivestita dal piano
di lottizzazione comporta la necessità che
il provvedimento di diniego di approvazione
di quest'ultimo sia congruamente istruito e
motivato con valutazione comparata degli
interessi pubblici coinvolti in modo da
consentire al richiedente di rendersi conto
degli ostacoli, che si frappongano alla
estrinsecazione del suo "ius aedificandi".
Trattasi, dunque, di esercizio di potere
discrezionale, che pacificamente dev'essere
accompagnato da congrua e completa
motivazione e che altrettanto pacificamente
è sottoposto al sindacato del giudice
amministrativo, cui spetta, su impulso della
parte, verificare se le ragioni poste a
fondamento del diniego possano, in concreto,
supportare le determinazioni assunte: ambito
di scrutinio, questo, costantemente ritenuto
estraneo al merito dell'azione
amministrativa.
Così come l'assenso dell'Autorità Comunale
al piano di lottizzazione non è atto dovuto
pur se conforme al p.r.g., esso è pur sempre
espressione del potere discrezionale della
stessa circa l'opportunità di dare
attuazione alle previsioni dello strumento
urbanistico generale e di conseguenza deve
essere motivato per contrasto con norme di
legge, regolamento o dello strumento
urbanistico, tanto più che -in sede di
rilascio del provvedimento abilitativo-
l'Amministrazione non ha il potere di
introdurre limiti alle facoltà edificatorie
dei privati, ulteriori rispetto a quelli di
fonte legale o pianificatoria
Sia pure espresso con riferimento alla
diversa ipotesi del diniego di piano di
lottizzazione, essendo nella specie
contestata invece la prescrizione aggiuntiva
concernente la imposta realizzazione di una
piscina comunale coperta, appare opportuno
richiamare quell’orientamento
giurisprudenziale a mente del quale se è
vero che le scelte urbanistiche sono
caratterizzate da un amplissimo margine di
discrezionalità e non possono essere
sottoposte al sindacato giurisdizionale del
g.a., salvo che sotto il profilo della
palese illogicità ed irragionevolezza delle
determinazioni assunte o per essere le
determinazioni stesse inficiate da errori di
fatto, la funzione di strumento
particolareggiato ed attuativo delle
prescrizioni del p.r.g. rivestita dal piano
di lottizzazione comporta la necessità che
il provvedimento di diniego di approvazione
di quest'ultimo sia congruamente istruito e
motivato con valutazione comparata degli
interessi pubblici coinvolti in modo da
consentire al richiedente di rendersi conto
degli ostacoli, che si frappongano alla
estrinsecazione del suo "ius aedificandi";
trattasi, dunque, di esercizio di potere
discrezionale, che pacificamente dev'essere
accompagnato da congrua e completa
motivazione e che altrettanto pacificamente
è sottoposto al sindacato del giudice
amministrativo, cui spetta, su impulso della
parte, verificare se le ragioni poste a
fondamento del diniego possano, in concreto,
supportare le determinazioni assunte: ambito
di scrutinio, questo, costantemente ritenuto
estraneo al merito dell'azione
amministrativa (cfr. Consiglio Stato, sez.
IV, 04.05.2010 , n. 2545).
Così come, per costante giurisprudenza,
l'assenso dell'Autorità Comunale al piano di
lottizzazione non è atto dovuto pur se
conforme al p.r.g., esso è pur sempre
espressione del potere discrezionale della
stessa circa l'opportunità di dare
attuazione alle previsioni dello strumento
urbanistico generale e di conseguenza deve
essere motivato per contrasto con norme di
legge, regolamento o dello strumento
urbanistico, tanto più che -in sede di
rilascio del provvedimento abilitativo-
l'Amministrazione non ha il potere di
introdurre limiti alle facoltà edificatorie
dei privati, ulteriori rispetto a quelli di
fonte legale o pianificatoria (cfr. TAR
Campania Napoli, sez. III, 10.05.2010, n.
3367).
In sostanza, il Collegio vuole intendere che
ben può motivatamente l’amministrazione
comunale di Longobardi, atteso il carattere
negoziale delle convenzioni di
lottizzazione, non approvare il progetto
proposto, ma ciò tuttavia non leva la
sindacabilità della scelta, pur
discrezionale, operata che vede in sede di
approvazione del piano imporre prescrizioni
che incidono significativamente sull’assetto
di interessi sotteso alla lottizzazione.
In altri termini, ritiene il Collegio
illegittima la delibera consiliare nella
parte impugnata, appunto relativa alla
integrazione di cui è questione,
assolutamente carente di motivazione vieppiù
necessaria in ragione del suo impatto e
dunque viziata, per come fondatamente
dedotto dalla ricorrente, per difetto di
motivazione. Come deve ritenersi fondato il
dedotto profilo attinente la
irragionevolezza ed illogicità della
integrazione che, a tacer d’altro, non si
spiega innanzitutto con la già prevista
realizzazione di una non distante piscina
condominiale, avuto anche riguardo al dato
della popolazione residente (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 17.01.2012 n. 30 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Rientra
nella potestà di pianificazione urbanistica
la valorizzazione e la salvaguardia delle
bellezze naturali e degli interessi storici
e ambientali, tale competenza spettando, per
giurisprudenza pacifica, oltre che allo
Stato anche al Comune ed alla Regione in
sede di approvazione del piano regolatore
generale e delle sue varianti.
Ne consegue che l'autorità titolare del
potere di pianificazione urbanistica è
sicuramente da ritenersi legittimata a
valutare autonomamente gli interessi
storici, ambientali e paesistici e ad
imporre, in sede di piano regolatore
generale, limitazioni a tutela di quegli
interessi.
Sotto il primo profilo si osserva, come
correttamente evidenziato
dall’Amministrazione resistente, che rientra
nella potestà di pianificazione urbanistica
la valorizzazione e la salvaguardia delle
bellezze naturali e degli interessi storici
e ambientali, tale competenza spettando, per
giurisprudenza pacifica, oltre che allo
Stato anche al Comune ed alla Regione in
sede di approvazione del piano regolatore
generale e delle sue varianti (cfr. TAR
Trentino Alto Adige, Trento, 05.06.2009, n.
184; TAR Lombardia Brescia, 01.03.2001, n.
93; TAR Catania, sez. I, 30.12.2004, n.
4087).
Ne consegue che l'autorità titolare del
potere di pianificazione urbanistica è
sicuramente da ritenersi legittimata a
valutare autonomamente gli interessi
storici, ambientali e paesistici e ad
imporre, in sede di piano regolatore
generale, limitazioni a tutela di quegli
interessi, così come è avvenuto nel caso di
specie
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 16.01.2012 n. 88 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: In
sede di adozione di strumenti urbanistici
generali o delle loro successive varianti,
le scelte discrezionali del pianificatore
riguardo alla destinazione di singole aree
non necessitano di apposita motivazione,
oltre quella che si può evincere dai criteri
generali -di ordine tecnico-discrezionale-
seguiti nell'impostazione del piano stesso.
Del resto, nemmeno la L. n. 241/1990 sul
procedimento amministrativo si è discostata
da tale principio, precedentemente elaborato
dalla giurisprudenza amministrativa, posto
che, all’art. 3, ha esonerato dall'obbligo
della motivazione gli atti a contenuto
generale, tra cui sono ricompresi quelli di
pianificazione territoriale ed urbanistica.
Solo in alcuni casi l'Amministrazione ha un
obbligo di motivazione più specifico, tra
cui l'ipotesi di affidamento qualificato del
privato, quale l'ipotesi di precedente
convenzione di lottizzazione o di accordi di
diritto privato intercorsi tra Comune e
privati.
--------------
Non può invece ritenersi qualificato
l'interesse del privato proprietario
correlato ad una precedente previsione
urbanistica che consenta un utilizzo
dell'area in modo più proficuo, poiché in
tal caso viene in considerazione
un’aspettativa generica del privato alla non
reformatio in pejus delle destinazioni di
zona edificabili, cedevole dinanzi alla
discrezionalità del potere pubblico di
pianificazione urbanistica e per il quale
vale il principio generale della non
necessità di motivazione ulteriore rispetto
a quelle che si possono evincere dai criteri
di ordine tecnico urbanistico seguiti per la
redazione del progetto di strumento.
In particolare, per ciò che riguarda la
preesistenza di un piano di lottizzazione è
necessario che lo stesso sia stato non solo
approvato, ma anche convenzionato (quindi,
divenuto operativo) in epoca anteriore
all’adozione del P.R.G..
Nel caso in esame, il piano di lottizzazione
è stato semplicemente approvato, ma non è
intervenuta la stipulazione di una
convenzione con l’Amministrazione comunale
e, pertanto, non è ravvisabile l’obbligo
dell’amministrazione di dare una specifica
motivazione sulle esigenze che hanno indotto
a modificare la previsione urbanistica
preesistente, non essendosi verificata
quella condizione cui la giurisprudenza
collega l'insorgenza di una situazione di
aspettativa qualificata, che è alla base
dell'obbligo di motivazione specifica delle
scelte urbanistiche operate.
Il piano di lottizzazione è, infatti, uno
strumento attuativo dello strumento
urbanistico generale che esprime scelte
concordate tra l’amministrazione e i
proprietari delle aree interessate e si
esplica attraverso atti negoziali (cessione
gratuita delle aree necessarie alla
realizzazione di opere di urbanizzazione
ovvero assunzione degli oneri finanziari per
la realizzazione delle stesse) che vengono
definiti all’interno della convenzione di
lottizzazione.
Solo quest’ultima, in quanto espressione di
potere di regolamentazione dell’attività di
trasformazione edilizia del territorio, è
idonea a radicare il legittimo affidamento
all’edificabilità dell'area.
Sotto un
profilo d’ordine generale, il Collegio
rileva, nel costante indirizzo della
giurisprudenza amministrativa, che in sede
di adozione di strumenti urbanistici
generali o delle loro successive varianti,
le scelte discrezionali del pianificatore
riguardo alla destinazione di singole aree
non necessitano di apposita motivazione,
oltre quella che si può evincere dai criteri
generali -di ordine tecnico-discrezionale-
seguiti nell'impostazione del piano stesso
(cfr. ex multis questa Sezione
27.10.2010, n. 4242 ).
Del resto, nemmeno la L. n. 241/1990 sul
procedimento amministrativo si è discostata
da tale principio, precedentemente elaborato
dalla giurisprudenza amministrativa, posto
che, all’art. 3, ha esonerato dall'obbligo
della motivazione gli atti a contenuto
generale, tra cui sono ricompresi quelli di
pianificazione territoriale ed urbanistica.
Solo in alcuni casi l'Amministrazione ha un
obbligo di motivazione più specifico, tra
cui l'ipotesi di affidamento qualificato del
privato, quale l'ipotesi di precedente
convenzione di lottizzazione o di accordi di
diritto privato intercorsi tra Comune e
privati.
In tale prospettiva non può invece ritenersi
qualificato l'interesse del privato
proprietario correlato ad una precedente
previsione urbanistica che consenta un
utilizzo dell'area in modo più proficuo,
poiché in tal caso viene in considerazione
un’aspettativa generica del privato alla
non reformatio in pejus delle
destinazioni di zona edificabili, cedevole
dinanzi alla discrezionalità del potere
pubblico di pianificazione urbanistica e per
il quale vale il principio generale della
non necessità di motivazione ulteriore
rispetto a quelle che si possono evincere
dai criteri di ordine tecnico urbanistico
seguiti per la redazione del progetto di
strumento (TAR Toscana, sez. I, 13.07.2009,
n. 1227).
In particolare, per ciò che riguarda la
preesistenza di un piano di lottizzazione è
necessario che lo stesso sia stato non solo
approvato, ma anche convenzionato (quindi,
divenuto operativo) in epoca anteriore
all’adozione del P.R.G. (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 12.03.2009, n. 1431, 08.06.2007, n.
2999 e 26.04.2006, n. 2301; TAR Sicilia-
Catania, sez. I, 16.04.2007, n. 638; TAR
Lombardia Milano, sez. II, 06.03.2006, n.
58).
Nel caso in esame, il piano di lottizzazione
è stato semplicemente approvato, ma non è
intervenuta la stipulazione di una
convenzione con l’Amministrazione comunale
e, pertanto, non è ravvisabile l’obbligo
dell’amministrazione di dare una specifica
motivazione sulle esigenze che hanno indotto
a modificare la previsione urbanistica
preesistente, non essendosi verificata
quella condizione cui la giurisprudenza
collega l'insorgenza di una situazione di
aspettativa qualificata, che è alla base
dell'obbligo di motivazione specifica delle
scelte urbanistiche operate.
Il piano di lottizzazione è, infatti, uno
strumento attuativo dello strumento
urbanistico generale che esprime scelte
concordate tra l’amministrazione e i
proprietari delle aree interessate e si
esplica attraverso atti negoziali (cessione
gratuita delle aree necessarie alla
realizzazione di opere di urbanizzazione
ovvero assunzione degli oneri finanziari per
la realizzazione delle stesse) che vengono
definiti all’interno della convenzione di
lottizzazione.
Solo quest’ultima, in quanto espressione di
potere di regolamentazione dell’attività di
trasformazione edilizia del territorio, è
idonea a radicare il legittimo affidamento
all’edificabilità dell'area.
Di conseguenza, nel caso in esame, non
essendo stata sottoscritta alcuna
convenzione di lottizzazione, nessun
affidamento qualificato deriva dalla
circostanza che al momento dell'adozione del
piano regolatore il piano di lottizzazione
fosse stato soltanto approvato
(TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 16.01.2012 n. 88 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte pianificatorie operate
dall’Amministrazione costituiscono
apprezzamento di merito sottratto al
sindacato di legittimità, salvo che non
siano inficiate da errori di fatto, o
abnormi illogicità, ovvero da arbitrarietà,
irrazionalità o manifesta irragionevolezza,
in relazione alle esigenze che si intendono
concretamente soddisfare.
Esse, inoltre, quando si concentrano nella
destinazione di singole aree, non
necessitano di apposita motivazione, oltre
quella che si può evincere dai criteri
generali di ordine tecnico-discrezionale
seguiti nell’impostazione del piano stesso.
Le scelte discrezionali effettuate non sono
sindacabili, salvo che risultino incoerenti
con l’impostazione di fondo dell’intervento
pianificatorio o manifestamente
incompatibili con le caratteristiche
oggettive del territorio.
Si sottraggono ai principi di cui sopra solo
le particolari situazioni che abbiano creato
aspettative o affidamenti in favore di
soggetti le cui posizioni appaiono
meritevoli di specifiche considerazioni,
quali l’esistenza di una convenzione di
lottizzazione o di una sentenza dichiarativa
dell’obbligo di stipulare la convenzione
urbanistica, un giudicato di annullamento di
diniego di concessione, la decadenza di un
vincolo preordinato all’espropriazione.
--------------
L’esercizio dello "jus variandi" in sede
pianificatoria include il potere di mutare
discrezionalmente il regime
giuridico-urbanistico dell'area, nel senso
di cambiare la sua "vocazione" in senso
giuridico.
Argomentando diversamente, ossia sostenendo
che la nuova destinazione debba trovare
motivazione nella vocazione giuridica
precedentemente individuata, indurrebbe a
negare il fondamento stesso del potere
conformativo che trova espressione nella
potestà pianificatoria.
In tema di approvazione dello strumento
urbanistico generale la giurisprudenza è
pacifica nel senso che le scelte
pianificatorie operate dall’Amministrazione
costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo
che non siano inficiate da errori di fatto,
o abnormi illogicità, ovvero da
arbitrarietà, irrazionalità o manifesta
irragionevolezza, in relazione alle esigenze
che si intendono concretamente soddisfare
(cfr., tra le tante, da ultimo, Cons. Stato,
IV, 26.05.2003, n. 2827; 06.05.2003, n.
2386; VI, 07.08.2003, n. 4568).
Esse, inoltre, quando si concentrano nella
destinazione di singole aree, non
necessitano di apposita motivazione, oltre
quella che si può evincere dai criteri
generali di ordine tecnico-discrezionale
seguiti nell’impostazione del piano stesso
(per tutte, cfr. Cons. Stato, IV,
25.07.2001, n. 4077). Le scelte
discrezionali effettuate non sono
sindacabili, salvo che risultino incoerenti
con l’impostazione di fondo dell’intervento
pianificatorio o manifestamente
incompatibili con le caratteristiche
oggettive del territorio (tra le tante, cfr.
Cons. Stato, IV, 14.06.2001, n. 3146).
Si sottraggono ai principi di cui sopra,
come da Corte Cost. n. 179/1999, solo le
particolari situazioni che abbiano creato
aspettative o affidamenti in favore di
soggetti le cui posizioni appaiono
meritevoli di specifiche considerazioni,
quali l’esistenza di una convenzione di
lottizzazione o di una sentenza dichiarativa
dell’obbligo di stipulare la convenzione
urbanistica, un giudicato di annullamento di
diniego di concessione, la decadenza di un
vincolo preordinato all’espropriazione (per
tutte, cfr. Cons. Stato, IV, 06.05.2003, n.
2386; 15.05.2003, n. 2827; V, 23.05.2000, n.
2982).
---------------
L’esercizio
dello "jus variandi" in sede
pianificatoria include il potere di mutare
discrezionalmente il regime
giuridico-urbanistico dell'area, nel senso
di cambiare la sua "vocazione" in
senso giuridico.
Argomentando diversamente, ossia sostenendo
che la nuova destinazione debba trovare
motivazione nella vocazione giuridica
precedentemente individuata, indurrebbe a
negare il fondamento stesso del potere
conformativo che trova espressione nella
potestà pianificatoria (cfr. Cons. Stato
sez. IV, 16.02.2011, n. 1015) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 12.01.2012 n. 99 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Lo
schema ablatorio-espropriativo con le
connesse garanzie costituzionali anche in
termini di indennizzo riguarda solo i
vincoli suscettibili di essere attuati
tramite procedura espropriativa ad
iniziativa pubblica. Dette garanzie non
includono altresì i vincoli che, pur
importando una destinazione (anche di
contenuto specifico) realizzabile ad
iniziativa privata o promiscua
pubblico-privata, e non comportino
necessariamente espropriazione o interventi
ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi
siano attuabili anche dal soggetto privato e
senza necessità di previa ablazione del
bene.
Si è difatti affermato che: “le destinazioni
a parco urbano, a parcheggio e a viabilità
non comportano automaticamente l’ablazione
dei suoli ed ammettono, anzi, chiaramente la
realizzazione, anche da parte di privati in
regime di economia di mercato, delle
relative attrezzature destinate all’uso
pubblico, per escludere che l’imposizione
dei relativi vincoli necessitasse della
contestuale previsione dell’indennizzo e di
una puntuale motivazione sulle ragioni
assunte a base della loro reiterazione".
Come noto, lo schema ablatorio-espropriativo
con le connesse garanzie costituzionali
anche in termini di indennizzo riguarda solo
i vincoli suscettibili di essere attuati
tramite procedura espropriativa ad
iniziativa pubblica. Dette garanzie non
includono altresì i vincoli che, pur
importando una destinazione (anche di
contenuto specifico) realizzabile ad
iniziativa privata o promiscua
pubblico-privata, e non comportino
necessariamente espropriazione o interventi
ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi
siano attuabili anche dal soggetto privato e
senza necessità di previa ablazione del bene
(cfr. C.d.S. sez. IV, 22.06.2011. n. 3797).
Si è difatti affermato che: “le
destinazioni a parco urbano, a parcheggio e
a viabilità non comportano automaticamente
l’ablazione dei suoli ed ammettono, anzi,
chiaramente la realizzazione, anche da parte
di privati in regime di economia di mercato,
delle relative attrezzature destinate
all’uso pubblico, per escludere che
l’imposizione dei relativi vincoli
necessitasse della contestuale previsione
dell’indennizzo e di una puntuale
motivazione sulle ragioni assunte a base
della loro reiterazione" (cfr., C.d.S.
sez. IV 10.07.2007 n. 5059, in fattispecie
analoga, C.d.S., sez. IV, 28.02.2995, n.
693) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 12.01.2012 n. 99 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La regola secondo cui il termine
per impugnare lo strumento urbanistico
generale o le sue varianti decorre dal
giorno di scadenza del periodo di
pubblicazione è derogata in due casi: il
primo si verifica quando il piano impone
un vincolo espropriativo su uno specifico
immobile; la seconda deroga,
riferibile alla fattispecie controversa, si
profila nell'ipotesi in cui, accanto a
prescrizioni che definiscono gli assetti
generali del territorio, il piano o la sua
variante contengono anche prescrizioni di
dettaglio che disciplinano aspetti
strettamente edilizi dell'attività
edificatoria: in quest’ultimo caso, il
termine per l'impugnazione decorre dal
momento in cui le prescrizioni edilizie
divengono concretamente lesive per i
ricorrenti, ossia dal momento della
conoscenza del titolo edilizio che le ha
recepite.
La giurisprudenza amministrativa, tuttavia,
ha chiarito che la regola secondo cui il
termine per impugnare lo strumento
urbanistico generale o le sue varianti
decorre dal giorno di scadenza del periodo
di pubblicazione è derogata in due casi: il
primo si verifica quando il piano impone un
vincolo espropriativo su uno specifico
immobile; la seconda deroga, riferibile alla
fattispecie controversa, si profila
nell'ipotesi in cui, accanto a prescrizioni
che definiscono gli assetti generali del
territorio, il piano o la sua variante
contengono anche prescrizioni di dettaglio
che disciplinano aspetti strettamente
edilizi dell'attività edificatoria: in
quest’ultimo caso, il termine per
l'impugnazione decorre dal momento in cui le
prescrizioni edilizie divengono
concretamente lesive per i ricorrenti, ossia
dal momento della conoscenza del titolo
edilizio che le ha recepite (Cons. Stato,
sez. IV, 23.12.2010, n. 9375)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 12.01.2012 n. 17 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il
vincolo di inedificabilità relativa posto
dall'art. 49 DPR 753/1980 (distanza minima
dalla ferrovia) è determinato da ragioni di
sicurezza, non di tutela dell’ordinato
assetto del territorio, e può essere
derogato, quando la situazione concreta lo
consenta, su autorizzazione degli uffici
ferroviari preposti alla tutela del vincolo
stesso: é evidente come l’esercizio di
quest’ultimo potere, previsto dall’art. 60
del d.P.R. n. 753/1980, non possa essere
condizionato dalla circostanza che le norme
urbanistiche locali non vi abbiano fatto
espresso riferimento.
Con il secondo
motivo di ricorso, gli esponenti denunciano
la violazione della vigente prescrizione
urbanistica di livello locale che impone di
costruire ad una distanza non inferiore a
metri 30 dalla linea ferroviaria, mentre il
nuovo edificio disterebbe appena metri 15
dalla più vicina rotaia.
Più precisamente, gli esponenti rilevano
come l’art. 19 delle n.t.a. richiami
puntualmente il divieto stabilito dall’art.
49 del d.P.R. n. 753/1980, senza tuttavia
contemplare le possibilità di deroga
previste da quest’ultima disposizione, con
la conseguenza che il citato limite di metri
30 non potrebbe essere superato neppure in
forza di apposita autorizzazione
dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo.
L’accennata prospettazione è priva di pregio
giuridico.
Il vincolo di inedificabilità relativa posto
dal citato art. 49 è determinato, infatti,
da ragioni di sicurezza, non di tutela
dell’ordinato assetto del territorio, e può
essere derogato, quando la situazione
concreta lo consenta, su autorizzazione
degli uffici ferroviari preposti alla tutela
del vincolo stesso: é evidente come
l’esercizio di quest’ultimo potere, previsto
dall’art. 60 del d.P.R. n. 753/1980, non
possa essere condizionato dalla circostanza
che le norme urbanistiche locali non vi
abbiano fatto espresso riferimento.
Nel caso in esame, pertanto, l’edificazione
è stata legittimamente assentita in deroga
alla distanza minima dalla linea
ferroviaria, sulla base di specifica
autorizzazione in deroga rilasciata da
R.F.I. in data 13.01.2011, in atti (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 12.01.2012 n. 17 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 9 dm 1444/1968 riferisce
letteralmente il limite corrispondente
all’altezza dell’edificio più alto ai soli
edifici ricadenti nelle zone C.
Trattandosi nella fattispecie di edificio
ricadente in zona B, si applica, invece, il
solo limite di 10 metri fra pareti
finestrate.
Con il nono e
decimo motivo di ricorso, viene denunciata
la violazione dell’art. 9 del d.M. lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444, che prevede
una distanza minima assoluta di metri 10 tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti ovvero, quando uno degli edifici
che si fronteggiano abbia altezza superiore
a metri 10, una distanza almeno pari
all’altezza del fabbricato più alto.
Sarebbero pertanto illegittime, ad avviso di
parte ricorrente, le impugnate varianti
parziali al P.R.G.C. che hanno consentito
una distanza fra gli edifici di 10 metri,
mentre avrebbero dovuto imporre il rispetto
di una distanza pari all’altezza del
fabbricato maggiormente sviluppato in
altezza, ossia di oltre 22 metri.
Ne conseguirebbe, inoltre, l’illegittimità
derivata del permesso di costruire
rilasciato alla controinteressata.
La censura non considera esattamente il
tenore testuale della disposizione normativa
che si assume violata.
Il citato art. 9, infatti, riferisce
letteralmente il limite corrispondente
all’altezza dell’edificio più alto ai soli
edifici ricadenti nelle zone C.
Trattandosi nella fattispecie di edificio
ricadente in zona B, si applica, invece, il
solo limite di 10 metri fra pareti
finestrate, il cui rispetto non è fatto
oggetto di contestazione (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 12.01.2012 n. 17 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Le
procedure di v.i.a. e di verifica di
assoggettabilità a v.i.a. ("screening"), pur
inserendosi sempre all'interno del più ampio
procedimento di realizzazione di un'opera o
di un intervento, sono dotate di autonomia,
in quanto destinate a tutelare un interesse
specifico (quello alla tutela dell'ambiente)
e ad esprimere al riguardo una valutazione
definitiva, di per sé potenzialmente lesiva
dei valori ambientali, con conseguente
immediata impugnabilità degli atti
conclusivi da parte dei soggetti interessati
alla protezione di quei valori (siano essi
associazioni di tutela ambientale ovvero
cittadini residenti in loco); l’art. 20,
d.lgs. n. 152 del 2006, infatti, configura
la stessa procedura di verifica di
assoggettabilità a v.i.a. ("screening") come
vero e proprio subprocedimento autonomo,
caratterizzato da partecipazione dei
soggetti interessati e destinato a
concludersi con un atto avente natura
provvedimentale, soggetto a pubblicazione.
In proposito è sufficiente richiamare
l’orientamento della giurisprudenza
amministrativa, al quale il collegio si
riporta, in base a cui le procedure di
v.i.a. e di verifica di assoggettabilità a
v.i.a. ("screening"), pur inserendosi
sempre all'interno del più ampio
procedimento di realizzazione di un'opera o
di un intervento, sono dotate di autonomia,
in quanto destinate a tutelare un interesse
specifico (quello alla tutela dell'ambiente)
e ad esprimere al riguardo una valutazione
definitiva, di per sé potenzialmente lesiva
dei valori ambientali, con conseguente
immediata impugnabilità degli atti
conclusivi da parte dei soggetti interessati
alla protezione di quei valori (siano essi
associazioni di tutela ambientale ovvero
cittadini residenti in loco); l’art. 20,
d.lgs. n. 152 del 2006, infatti, configura
la stessa procedura di verifica di
assoggettabilità a v.i.a. ("screening")
come vero e proprio subprocedimento
autonomo, caratterizzato da partecipazione
dei soggetti interessati e destinato a
concludersi con un atto avente natura
provvedimentale, soggetto a pubblicazione
(cfr. per tutte Cons. Stato, sez. IV,
03.03.2009, n. 1213)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 11.01.2012 n. 67 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: E'
ormai pacifico l'interesse a ricorrere degli
enti locali quali ad es. "il comune nel cui
territorio è localizzata una discarica di
rifiuti, ai sensi dell'art. 3-bis l.
29.10.1987 n. 441"; in proposito si è
affermato che "è titolare dell'interesse a
ricorrere avverso la delibera di
localizzazione, sia in quanto ente
esponenziale dei residenti, sia in quanto
titolare del potere di pianificazione
urbanistica su cui incide il provvedimento
di localizzazione, sia in quanto soggetto
che per legge può partecipare al
procedimento amministrativo e che in quanto
tale può impugnarne il provvedimento
conclusivo.
E' del pari certo che non occorra provare
l'esistenza di un danno concreto ed attuale
al fine di impugnare il provvedimento di
localizzazione di una discarica o di un
impianto industriale ritenuto inquinante in
quanto la questione della concreta
pericolosità dell'impianto, valutata alla
luce dei parametri normativi, è questione di
merito, mentre al fine di radicare
l'interesse ad impugnare è sufficiente la
prospettazione di temute ripercussioni su un
territorio collocato nelle immediate
vicinanze ed in relazione al quale i
ricorrenti sono in posizione qualificata
(quali residenti o proprietari o titolari di
altre posizioni giuridiche soggettive
rilevanti). … deve rilevarsi che la
vicinitas … non può essere limitata al
comune di insediamento di un impianto
industriale che si assume dannoso per
l'ambiente in quanto la prossimità
dell'interesse è in questo caso correlata
all'imponenza della minaccia del male o del
danno temuto e, quindi, nel caso di una
centrale termoelettrica, di un danno
commisurato agli effetti inquinanti
diffusivi di cui l'impianto si può
ipotizzare capace. In tal senso deve
ritenersi sussistente la vicinitas anche nel
caso di iniziative associative che
riguardino soggetti residenti in comuni
limitrofi.
Sul punto, il
collegio è consapevole dell’esistenza del
più recente orientamento giurisprudenziale
per il quale la legittimazione in capo ai
comuni all'impugnazione del provvedimento di
localizzazione nel loro territorio di una
discarica di rifiuti speciali non pericolosi
va riconosciuta solo a condizione che gli
enti medesimi (ed a maggior ragione, i
comuni viciniori) dimostrino il concreto
pregiudizio che la realizzazione
dell'impianto sarebbe in grado di produrre
negli ambiti territoriali di rispettiva
competenza.
Tale orientamento, però, appare contrastante
con il pensiero più tradizionale, al quale
si ritiene di riportarsi (cfr., ad esempio,
Cons. Stato, sez. VI, 05.12.2002, n. 6657)
secondo cui “si deve inquadrare in modo
particolare la tematica dell'interesse
all'impugnazione in materia ambientale
poiché non v'è dubbio che in tale materia
esso si atteggi in modo del tutto peculiare
in relazione anche al fenomeno
dell'espansione del diritto pubblico
dell'ambiente e del ruolo che in detta
espansione svolgono le formazioni sociali e
gli enti pubblici territoriali ed
istituzionali. … E' ormai pacifico
l'interesse a ricorrere degli enti locali
quali ad es. "il comune nel cui territorio è
localizzata una discarica di rifiuti, ai
sensi dell'art. 3-bis l. 29.10.1987 n. 441";
in proposito si è affermato che "è titolare
dell'interesse a ricorrere avverso la
delibera di localizzazione, sia in quanto
ente esponenziale dei residenti, sia in
quanto titolare del potere di pianificazione
urbanistica su cui incide il provvedimento
di localizzazione, sia in quanto soggetto
che per legge può partecipare al
procedimento amministrativo e che in quanto
tale può impugnarne il provvedimento
conclusivo" (C. Stato, sez. V, 02.03.1999,
n. 217; in senso analogo CdS IV 06/10/2001
n. 5296). E' del pari certo che non occorra
provare l'esistenza di un danno concreto ed
attuale al fine di impugnare il
provvedimento di localizzazione di una
discarica o di un impianto industriale
ritenuto inquinante in quanto la questione
della concreta pericolosità dell'impianto,
valutata alla luce dei parametri normativi,
è questione di merito, mentre al fine di
radicare l'interesse ad impugnare è
sufficiente la prospettazione di temute
ripercussioni su un territorio collocato
nelle immediate vicinanze ed in relazione al
quale i ricorrenti sono in posizione
qualificata (quali residenti o proprietari o
titolari di altre posizioni giuridiche
soggettive rilevanti). … deve rilevarsi che
la vicinitas … non può essere limitata al
comune di insediamento di un impianto
industriale che si assume dannoso per
l'ambiente in quanto la prossimità
dell'interesse è in questo caso correlata
all'imponenza della minaccia del male o del
danno temuto e, quindi, nel caso di una
centrale termoelettrica, di un danno
commisurato agli effetti inquinanti
diffusivi di cui l'impianto si può
ipotizzare capace. In tal senso deve
ritenersi sussistente la vicinitas anche nel
caso di iniziative associative che
riguardino soggetti residenti in comuni
limitrofi”.
Peraltro, anche con pronunce più recenti
(cfr., in particolare, Tar Brescia, sez. I,
02.02.2010, n. 521) è stato affermato che “la
legittimazione e l'interesse ad agire
dell'ente locale in materia ambientale, in
quanto titolare di un interesse collettivo,
è riconosciuta dalla giurisprudenza fin da
Tar Lazio 1064/1990 (secondo cui "Il comune,
quale ente territoriale esponenziale di una
determinata collettività di cittadini della
quale cura istituzionalmente gli interessi a
promuovere lo sviluppo, è pienamente
legittimato ad impugnare dinanzi al giudice
amministrativo i provvedimenti ritenuti
lesivi dell'ambiente") ed è confermata da
giurisprudenza successiva (Cons. Stato, sez.
IV, 06.10.2001 n. 5296: ad un Comune va
riconosciuta la legittimazione ad impugnare
il provvedimento di approvazione di una
discarica da localizzare nel suo territorio,
sia per la qualità di ente esponenziale
degli interessi dei residenti che potrebbero
subire danni dalla scelta compiuta
dall'autorità competente nell'individuazione
delle aree per l'attivazione dell'impianto
di discarica, sia per la qualità di titolare
del potere di pianificazione urbanistica, su
cui certamente incide la collocazione
dell'impianto medesimo).
Sarebbe d'altronde alquanto irragionevole
riconoscere legislativamente all'ente
territoriale la possibilità di agire in
giudizio (in via successiva) per il
risarcimento del danno all'ambiente (come fa
l'art. 18, co. 3, l. 349/1986), e negargli
invece la possibilità di agire (in via
preventiva) per impedire la produzione di
quello stesso danno.
Sarebbe altrettanto irragionevole
riconoscere la titolarità di un interesse
collettivo ad associazioni ambientaliste, il
cui collegamento con il territorio
interessato dall'abuso è talora costituito
soltanto dal fine statutario, e non
individuarlo nell'ente istituzionalmente
esponenziale della comunità di riferimento”
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 11.01.2012 n. 67 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Presupposti
per il riconoscimento della retribuzione per
l'esercizio di mansioni superiori.
Il riconoscimento della retribuzione
correlata all’esercizio di mansioni di
qualifica superiori, è oggettivamente
precluso ove le mansioni esercitate (in
assenza di alcun ordine di servizio, o in
presenza di questo) risultino corrispondenti
a quelle proprie della qualifica formale
posseduta ed al mansionario.
I presupposti imprescindibili per la
configurabilità dell’esercizio delle
mansioni superiori e della rilevanza dello
stesso ai fini retributivi erano comunque “concorrentemente:
1) lo svolgimento di fatto, in modo
continuativo e prevalente, di funzioni
qualitativamente attinenti a livello
funzionale superiore rispetto a quello di
cui l’impiegato è titolare; 2) il
conferimento formale delle mansioni in
questione mediante uno specifico atto; 3) la
vacanza del posto relativo in organico”.
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.12.2011 n. 6792
-
massima tratta da
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PUBBLICO IMPIEGO: Quadro
normativo sul conferimento di mansioni
superiori ai dipendenti degli Enti Locali.
L’attribuzione di mansioni superiori ai
dipendenti pubblici è disciplinata, a
termini della legge delega n. 421/1992,
dall’art. 57 del d.lgs n. 29/1993,
riprodotto in seguito nell’art. 52 del dlgs.
n. 165/2001, che costituisce attualmente un
elemento unitario di riferimento.
L’art. 52 del decreto n. 165/1991 prevede la
possibilità di assegnazione formale di un
lavoratore a mansioni “prevalenti”
della qualifica immediatamente superiore,
esclusivamente per coprire un posto vacante,
ovvero per sostituire un altro lavoratore in
caso di sua lunga assenza dal servizio, per
il periodo massimo di sei mesi prorogabili a
dodici. Con l’assegnazione delle funzioni
superiori viene a lui contestualmente
riconosciuto il trattamento economico della
qualifica temporaneamente rivestita, per la
durata dell’effettiva prestazione.
La disciplina legislativa dell’istituto è
integrata, in ogni comparto, dalla
contrattazione collettiva e per gli enti
locali rileva l’articolo 8 del C.C.N.L.
dell’anno 2000, che prevede che il
conferimento di mansioni superiori deve
essere inserito nella programmazione dei
fabbisogni di organico, con conseguente
assegnazione delle risorse finanziarie
necessarie.
Il quadro tracciato afferisce il
conferimento delle mansioni superiori “legittime”.
La normativa vigente prende poi in
considerazione la casistica attinente le
mansioni svolte al di fuori delle regole
(art. 52, comma 5) e cioè le mansioni
superiori esercitate senza incarico ovvero
svolte sulla base di atto nullo o invalido,
quelle riguardanti una qualifica
ulteriormente eccedente la qualifica
superiore e quelle del ruolo dirigenziale,
svolte dal personale inquadrato nei livelli.
In questi casi, l’attribuzione o l’esercizio
illegittimo delle funzioni sono colpiti da
nullità, ma tuttavia comportano la “corresponsione
della differenza di trattamento economico”
al pubblico dipendente interessato.
La disciplina suddetta è entrata in vigore
il 21.02.1993, anteriormente all’emanazione
del decreto n. 29/1993, la disciplina
relativa al conferimento delle mansioni
superiori ai dipendenti degli enti locali,
era rimessa alla regolamentazione dell’ente
stesso (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.12.2011 n. 6678
-
massima tratta da
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PUBBLICO IMPIEGO: Relazione
tra illecito penale e illecito disciplinare
del dipendente pubblico.
Per la pacifica giurisprudenza
amministrativa “l'illiceità penale e
quella disciplinare operano su piani
differenti, ben potendo un determinato
comportamento del dipendente rilevare sotto
il profilo disciplinare, anche se lo stesso
non è punito dalla legge penale; pertanto,
il riconoscimento di attenuanti o
l'applicazione della prescrizione in sede
penale non impediscono la sanzionabilità del
fatto sotto l'aspetto disciplinare, che può
trovare preclusione soltanto nell'identità
materiale tra fatto penale e fatto
disciplinare sanzionato, quando il
proscioglimento è pieno perché il fatto non
sussiste o l'imputato non lo ha commesso.”
Analoghi principi vigono perfino in ipotesi
di intervenuta archiviazione (allorché
quindi neppure è stata esercitata l’azione
penale) giacché in tema di procedimento
disciplinare è legittimo dare rilevanza a
fatti che siano stati oggetto di precedenti
procedimenti penali, in seguito archiviati,
dal momento che il decreto di archiviazione
racchiude valutazioni che afferiscono
specificatamente al profilo penale, il che
non può precludere un loro apprezzamento in
sede disciplinare (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 15.12.2011 n. 6605 -
massima tratta da
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'errore
scusabile che evita alla P.A. di pagare il
risarcimento del danno.
Per la pacifica giurisprudenza
amministrativa perché possa affermarsi che
ci si trovi innanzi ad un danno risarcibile
occorre che si pervenga al positivo
riscontro dell’elemento soggettivo del dolo
o della colpa in capo all’amministrazione,
intesa come apparato.
Quanto a tale profilo, in passato, si è
avuto modo di evidenziare il ridotto onere
dimostrativo che grava in subiecta
materia sul privato, atteso che fermo
restando l'inquadramento della maggior parte
delle fattispecie di responsabilità della
p.a., tra cui quella in esame, all'interno
della responsabilità extracontrattuale, non
è comunque richiesto al privato danneggiato
da un provvedimento amministrativo
illegittimo un particolare sforzo probatorio
sotto il profilo dell'elemento soggettivo.
Infatti, pur non essendo configurabile, in
mancanza di un'espressa previsione
normativa, una generalizzata presunzione
(relativa) di colpa dell'amministrazione per
i danni conseguenti ad un atto illegittimo o
comunque ad una violazione delle regole,
possono invece operare regole di comune
esperienza e la presunzione semplice, di cui
all'art. 2727 c.c., desunta dalla singola
fattispecie.
Il privato danneggiato può, quindi, invocare
l'illegittimità del provvedimento quale
indice presuntivo della colpa o anche
allegare circostanze ulteriori, idonee a
dimostrare che si è trattato di un errore
non scusabile. Spetterà, di contro,
all'amministrazione dimostrare che si è
trattato di un errore scusabile,
configurabile, ad esempio, in caso di
contrasti giurisprudenziali
sull'interpretazione di una norma, di
formulazione incerta di norme da poco
entrate in vigore, di rilevante complessità
del fatto, di influenza determinante di
comportamenti di altri soggetti, di
illegittimità derivante da una successiva
dichiarazione di incostituzionalità della
norma applicata (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.12.2011 n. 6598
-
massima tratta da
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
P.A. è obbligata allo scorrimento della
graduatoria o può bandire un nuovo concorso?
Sul tema dello “scorrimento della
graduatoria” vigono in giurisprudenza
due orientamenti di massima che
contrappongono il giudice amministrativo a
quello civile. L’uno che afferma che si
tratterebbe di una facoltà
dell’amministrazione, che potrebbe anche
decidere di bandire un nuovo concorso, cui è
correlato un interesse legittimo
dell’idoneo, (v. ad esempio, Cons. St., VI,
n. 5637/2005); l’altro, seguito dalla
giurisprudenza civile, che riconosce agli
idonei di una graduatoria in corso di
validità un vero e proprio diritto
soggettivo all’assunzione nel caso in cui
l’amministrazione decida di coprire i posti
vacanti, la cui discrezionalità verrebbe
meno una volta che tale decisione sia stata
presa (Cass. s.u., n. 14529/2003; v. altresì
Cass. sez. lav., n. 5588/2009).
E’ utile rilevare che tale ultima decisione
distingue tra la pretesa allo scorrimento e
diritto all’assunzione, affermando che il
secondo sorge con il completamento di una
fattispecie complessa: la perdurante
efficacia di una graduatoria e la decisione
di avvalersene per coprire i posti vacanti
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 12.12.2011 n. 6507 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 10.02.2012 |
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GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI -
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: G.U.
09.02.2012 n. 33, suppl. ord. n. 27/L, "Disposizioni
urgenti in materia di semplificazione e di
sviluppo"
(D.L.
09.02.2012 n. 5). |
CORTE DEI
CONTI |
SEGRETARI COMUNALI:
Tagli al compenso aggiuntivo per le funzioni
di Direttore Generale assegnate al
Segretario Comunale.
La Corte dei Conti Sezioni Riunite di
Controllo, con la
deliberazione
03.02.2012 n. 5, si esprime sulla questione di
massima rimessa dalla Sezione regionale
Veneto e, nel merito, esprime il seguente
avviso:
"che l'indennità prevista per il segretario
comunale che svolge anche le funzioni di
direttore generale -non essendo altro che
il corrispettivo previsto da un'espressa
previsione contrattuale per un'ulteriore
attività lavorativa- abbia natura
retributiva, con la conseguenza che rientra
nel trattamento economico complessivo del
segretario-direttore generale, in quanto
tale sottratto alla riduzione di spesa del
10 per cento prevista dall'art. 6, comma 3,
del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, e
soggetto, invece, ai tagli di cui all'art.
9, comma 2, del medesimo decreto-legge" (tratto da www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Compensi aggiuntivi per partecipazione a
Unità di staff.
La Corte dei Conti III Sezione
Giurisdizionale Centrale d'Appello, con la
sentenza 09.11.2011 n. 751,
condanna un Responsabile (APO) di un Comune
al risarcimento del danno erariale per i
compensi aggiuntivi dallo stesso percepiti
quale componente di una unità di staff
costituita per la realizzazione di un
progetto obiettivo (peraltro senza la
dimostrazione dei requisiti previsti dalla
normativa e dall'art. 15 CCNL 01.04.1999).
In ogni caso, la Corte osserva essere stato
violato il principio di omnicomprensività
della retribuzione; a tal fine precisa:
"il principio dell'omnicomprensività della
retribuzione si collega, più che all'ufficio
ricoperto, ai fini istituzionali
dell'amministrazione o dell'ente di cui
l'impiegato o il dirigente è dipendente."
"Pertanto, anche alla stregua di tale nuovo
principio di distinzione, basato sula
riconducibilità dell'attività espletata ai
'fini dell'ente', più che alla qualifica del
dipendente, è da ritenere che la
partecipazione ai lavori della ripetuta
Unità di staff sia avvenuta 'ratione officii'
e non 'intuitu personae" (tratto da www.publika.it
- link a www.corteconti.it). |
QUESITI &
PARERI |
APPALTI:
Enti locali con meno di 5000 abitanti, è
previsto il ricorso ai lavori in economia?
Domanda
Il comma 3-bis aggiunto dalla L. 22.12.2011,
n. 214 all'art. 33 del Codice dei Contratti
Pubblici impone ai Comuni con popolazione
inferiore a 5.000 abitanti di affidare ad
un'unica centrale di committenza
l'acquisizione di lavori, servizi e
forniture nell'ambito delle Unioni dei
Comuni, qualora esistenti, ovvero
costituendo un apposito accordo consortile
tra i Comuni medesimi avvalendosi dei
competenti uffici.
A tenore dell'art. 121,
tale disposizione contenuta nella Parte II
del Codice, in quanto non derogata, si
applica anche ai contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture di importo
inferiore alla soglia comunitaria. Si
richiede pertanto se anche per
l'acquisizione di lavori, servizi e
forniture in economia ci si debba
obbligatoriamente avvalere della centrale
unica di committenza.
Risposta
Al fine di rispondere al quesito posto è
opportuno premettere che ai sensi dell'art.
125, comma 1, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, "Le
acquisizioni in economia di beni, servizi e
lavori, possono essere effettuate:
a) mediante amministrazione diretta;
b) mediante procedura di cottimo
fiduciario".
Con riferimento al cottimo fiduciario, il
successivo comma 4 della norma invocata ne
conferma la natura di procedura negoziata,
con conseguente procedimentalizzazione della
fase di affidamento, assoggettata alle
regole di evidenza pubblica quali il
rispetto dei principi di trasparenza,
rotazione, parità di trattamento, previa
consultazione di almeno cinque operatori da
individuarsi mediante indagini di mercato
ovvero elenchi di operatori economici
predisposti dalla stazione appaltante.
L'acquisizione di beni, servizi e lavori
mediante amministrazione diretta, invece,
non sembra annoverabile nel genus delle
procedure di evidenza pubblica, atteso che
non è procedimentalizzata, neppure dal nuovo
D.P.R. 05.10.2010, n. 207, in quanto non
sussiste alcun affidamento a terzi di
prestazioni.
Tanto premesso, è di particolare interesse
evidenziare che ai sensi dell'art. 33, comma
3-bis, Codice Appalti, introdotto dall'art.
23, comma 4, D.L. 06.12.2011, n. 201, "I
Comuni con popolazione non superiore a 5.000
abitanti ricadenti nel territorio di
ciascuna Provincia affidano
obbligatoriamente ad un'unica centrale di
committenza l'acquisizione di lavori,
servizi e forniture nell'ambito delle unioni
dei comuni, di cui all'articolo 32 del testo
unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, ove esistenti, ovvero
costituendo un apposito accordo consortile
tra i comuni medesimi e avvalendosi dei
competenti uffici".
Benché la norma più su riprodotta si
riferisca testualmente all'"acquisizione di
lavori, servizi e forniture", dunque senza
distinguere tra le varie tipologie di gare
ammesse dal Codice Appalti, l'art. 23, comma
5, D.L. 06.12.2011, n. 201, ha espressamente
circoscritto l'applicazione dell'invocato
art. 33, comma 3-bis, solo alle "gare
bandite successivamente al 31.03.2012".
Dunque, sembrerebbe che agli Enti Locali con
meno di 5.000 abitanti sia fatto divieto di
gestire autonomamente ed in proprio i
procedimenti finalizzati all'acquisizione di
lavori, servizi e forniture in cui la
selezione dell'offerente debba avvenire
mediante un confronto concorrenziale tra più
candidati.
In tal senso sembra deporre anche la
relazione di accompagnamento al D.L.
06.12.2011, n. 201, ove è stato evidenziato
che la finalità di detta norma è superare la
frammentazione degli appalti pubblici e
ridurre i costi di gestione delle procedure
di evidenza pubblica (08.02.2012 -
tratto da www.ipsoa.it). |
NEWS |
ENTI LOCALI:
Stop ai passaggi fra società ed ente.
I Comuni che riportano attività al proprio
interno, smantellando società a cui erano
stati affidati servizi in-house, non possono
derogare ai vincoli nella spesa di personale
quando trasferiscono anche il personale
prima impiegato nella "loro" azienda.
Lo stabiliscono due delibere delle sezioni
riunite della Corte dei conti (n. 3 e
4/2012) che, pur riconoscendo il fatto che
questa lettura può produrre effetti punitivi
soprattutto per gli enti più virtuosi, e
bloccare anche riorganizzazioni in grado di
diminuire i costi complessivi a carico del
bilancio pubblico, non «possono discostarsi»
da un'interpretazione restrittiva delle
regole sul personale. Il problema, si legge
fra le righe delle decisioni assunte dai
magistrati contabili, è nelle leggi, non in
chi è chiamato a darne una «interpretazione
autentica».
La questione comincia a diffondersi per
effetto delle tante norme introdotte negli
ultimi anni per vietare la costituzione di
nuove società (Dl 78/2010), limitare gli
affidamenti all'esterno (Dl 98/2011) e
limitare drasticamente l'in-house anche nei
servizi a rilevanza economica (Dl 138/2011,
rafforzato dal Dl 1/2012). In pratica, un
Comune ha chiesto la possibilità di
riportare al proprio interno servizi e
personale che fino a ieri erano in capo a
una società ora in via di smantellamento.
Il
Comune ha chiarito di essere in linea con
tutti i parametri che vincolano la spesa di
personale, aggiungendo che la
riorganizzazione avrebbe ridotto i costi
complessivi legati alle attività prima
svolte dalla società. L'intera operazione,
però, prevedeva anche il "trasferimento" del
personale da parte del Comune, con
conseguente sforamento del tetto che vieta
di spendere in assunzioni più del 20% dei
risparmi ottenuti con le cessazioni
dell'anno prima.
Il problema nasce dal fatto che i vincoli di
personale, sia il parametro del 20% sia
quello del 50% nel rapporto fra spese per
risorse umane e uscite correnti complessive,
si calcolano in maniera «consolidata»,
comprendendo nei conti sia il Comune sia le
società. Scomparendo la società, quindi,
saltano i tetti. Non solo: le aziende spesso
hanno assunto personale senza passare per i
concorsi pubblici, che invece rappresentano
l'unica strada per entrare nei ruoli del
Comune (articolo Il Sole 24 Ore del
09.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
La pubblica amministrazione può
sempre, nella cura dell’interesse pubblico,
rivedere le proprie decisioni.
È legittimo il
provvedimento di revoca di una gara di
appalto -disposta in una fase non ancora
definita della procedura concorsuale, ancora
prima del consolidarsi delle posizioni delle
parti e quando il contratto non è stato
ancora concluso– laddove tale provvedimento
è motivato con riferimento al risparmio
economico che deriverebbe dalla revoca
stessa.
Questa è, in sintesi, la conclusione cui è
approdata la IV Sez. del Consiglio di Stato,
sentenza 07.02.2012 n.
662, richiamando l’art. 21-quinquies
L. 241/1990, che consente un ripensamento da
parte della amministrazione là dove questa
ritenga di operare motivatamente una nuova
valutazione dell’interesse pubblico
originario.
I giudici di palazzo Spada, nell’occasione,
ricordano che la giurisprudenza ha già avuto
modo di affermare che il provvedimento
amministrativo ad efficacia durevole può
essere revocato da parte dell'organo che lo
ha emanato ovvero da altro organo previsto
dalla legge, in via alternativa, o per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse
ovvero nel caso di mutamento della
situazione di fatto o di nuova valutazione
dell'interesse pubblico originario (Cons.
Stato, sez. V, 18.01.2011, n. 283).
Tale provvedimento, assunto in esercizio di
potere di autotutela, deve essere, tuttavia,
adeguatamente motivato, in particolare
allorché incide su posizioni in precedenza
acquisite dal privato, non solo con
riferimento ai motivi di interesse pubblico
che giustificano il ritiro dell'atto, ma
anche in considerazione delle posizioni
consolidate e all'affidamento ingenerato nel
destinatario dell'atto da revocare (commento
tratto da www.diritto.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: Nel
caso di revoca di provvedimento
amministrativo (come è quello in esame,
riferito ad una precedente aggiudicazione
definitiva), possono ricorrere situazioni
diverse, cui il legislatore (e la stessa
giurisprudenza) riconnettono differenti
discipline e conseguenze.
Occorre, infatti, distinguere tra:
- obbligo dell’amministrazione
all’indennizzo, ex art. 21-quinquies l. n.
241/1990, per il caso di revoca del
provvedimento amministrativo;
- risarcimento del danno conseguente a
constatata illegittimità del provvedimento
di revoca, laddove venga accertata
l’esistenza degli ulteriori presupposti di
configurazione del danno risarcibile
(ipotesi, questa, esclusa nel caso in esame,
stante la già riconosciuta legittimità
dell’atto di revoca);
- risarcimento del danno derivante da
accertata responsabilità contrattuale,
laddove la revoca del provvedimento giunga a
determinare la caducazione del contratto già
stipulato (caso anch’esso non ricorrente
nella presente sede);
- risarcimento del danno derivante da
responsabilità extracontrattuale (in
particolare, precontrattuale) della Pubblica
amministrazione (ex art. 1337 c.c.).
Orbene, il Collegio rileva come, nel caso di
revoca di provvedimento amministrativo (come
è quello in esame, riferito ad una
precedente aggiudicazione definitiva),
possono ricorrere situazioni diverse, cui il
legislatore (e la stessa giurisprudenza)
riconnettono differenti discipline e
conseguenze.
Occorre, infatti, distinguere tra:
- obbligo dell’amministrazione
all’indennizzo, ex art. 21-quinquies l. n.
241/1990, per il caso di revoca del
provvedimento amministrativo;
- risarcimento del danno conseguente a
constatata illegittimità del provvedimento
di revoca, laddove venga accertata
l’esistenza degli ulteriori presupposti di
configurazione del danno risarcibile
(ipotesi, questa, esclusa nel caso in esame,
stante la già riconosciuta legittimità
dell’atto di revoca);
- risarcimento del danno derivante da
accertata responsabilità contrattuale,
laddove la revoca del provvedimento giunga a
determinare la caducazione del contratto già
stipulato (caso anch’esso non ricorrente
nella presente sede);
- risarcimento del danno derivante da
responsabilità extracontrattuale (in
particolare, precontrattuale) della Pubblica
amministrazione (ex art. 1337 c.c.).
Quanto al primo caso, ai sensi dell’art.
21-quinquies l. n. 241/1990, la revoca del
provvedimento amministrativo determina che
se la stessa “comporta pregiudizi in
danno dei soggetti direttamente interessati,
l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere
al loro indennizzo” (comma 1).
La misura di tale indennizzo è stata,
successivamente, definita, per la revoca di
atti amministrativi incidenti su rapporti
negoziali, dallo stesso legislatore che
(dapprima inserendo il comma 1-bis nel
citato art. 21-quinquies, per mezzo
dell’art. 13, co. 8–duodevicies d. l. n.
7/2007, conv. in l. n. 40/2007, in seguito
per il tramite del comma 1-ter, aggiunto
dall’art. 13, d. l. n. 112/2008, conv. in l.
n. 133/2008: commi, peraltro, di identico
testo), ha parametrato detta misura “al
solo danno emergente”, e tenendo conto “sia
dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da
parte dei contraenti della contrarietà
dell’atto amministrativo oggetto di revoca
all’interesse pubblico, sia dell’eventuale
concorso dei contraenti o di altri soggetti
all’erronea valutazione della compatibilità
di tale atto con l’interesse pubblico”.
L’obbligo di indennizzo gravante sulla
Pubblica Amministrazione, come previsto e
definito nella sua misura dall’art.
21-quinquies, non presuppone elementi di
responsabilità della stessa, ma si fonda su
valori puramente equitativi considerati dal
legislatore, onde consentire il giusto
bilanciamento tra il perseguimento
dell’interesse pubblico attuale da parte
dell’amministrazione e la sfera patrimoniale
del destinatario (incolpevole) dell’atto di
revoca, cui non possono essere addossati
integralmente i conseguenti sacrifici.
Ricorre, dunque, l’ipotesi che suole
definirsi come di responsabilità della
Pubblica Amministrazione per attività
legittima (forma conosciuta dal nostro
ordinamento, come conseguente ad atti
leciti, fin dall’art. 46 l. 25.06.1865 n.
2359), la quale, lungi dal trovare il
proprio presupposto in fatti o atti illeciti
ovvero in atti illegittimi imputabili alla
stessa amministrazione, più propriamente
risponde ad intenti equitativi, e, a stretto
rigore, non potrebbe essere definita
utilizzando il termine “responsabilità”.
Tale ipotesi differisce nettamente da quella
risarcitoria, di modo che anche le due
azioni devono essere tenute distinte, sia
con riferimento alla causa petendi,
sia con riferimento al petitum.
La causa petendi, nel giudizio volto
ad ottenere l’indennizzo, deve essere
ravvisata nella legittimità dell’atto
adottato dall’amministrazione, ovvero nella
liceità della condotta da questa tenuta, e
che ha causato il pregiudizio; mentre nel
giudizio risarcitorio, essa consiste nel
fatto o nell’atto produttivo del danno.
Quanto al petitum, nel giudizio per
responsabilità da atti legittimi o leciti,
esso è limitato al pregiudizio
immediatamente subito, ed è quindi limitato
al cd. danno emergente, mentre nel giudizio
risarcitorio esso si estende –fermi,
ovviamente, i necessari presupposti
probatori- a tutto il pregiudizio (danno
emergente e lucro cessante), conseguente
all’illegittima violazione della sfera
giuridico-patrimoniale del soggetto leso.
Con riferimento alla revoca ed alle sue
conseguenze, l’art. 21–quinquies
rappresenta, come è noto, un punto di arrivo
di un percorso giurisprudenziale che,
inizialmente, e fino a tempi recenti, era
nel senso di escludere qualsiasi indennizzo
per il soggetto nei cui confronti fosse
intervenuta la revoca in modo legittimo di
un precedente provvedimento amministrativo
per lui vantaggioso (Cons. St., sez. VI,
06.06.1969, n. 266), salvo ipotizzarla solo
in casi particolari (Cass. Sez. Un.
02.04.1959, n. 672).
Attualmente, dunque, l'attribuzione
dell'indennizzo a favore del soggetto che
direttamente subisce il pregiudizio,
presuppone innanzitutto la legittimità del
provvedimento di revoca, atteso che in caso
di revoca illegittima subentra
eventualmente, sussistendone gli ulteriori
presupposti, la diversa ipotesi del
risarcimento del danno (Cons. Stato, sez. V,
06.10.2010 n. 7334 e 14.04.2008, n. 1667;
sez. VI, 08.09.2009, n. 5266).
Inoltre, poiché, nel caso dell’indennizzo
ora considerato, e per le ragioni esposte,
non sussiste una responsabilità contrattuale
o extracontrattuale (e segnatamente,
precontrattuale), che determini l’insorgere
di tale obbligazione, non vi è luogo per
accertare la presenza di colpa nell'apparato
amministrativo (Cons. St., sez. V,
10.02.2010 n. 671).
Infine, l'indennizzo spettante al soggetto
direttamente pregiudicato dalla revoca di un
provvedimento va circoscritto al "danno
emergente", sia perché ciò è
espressamente stabilito dalla norma, sia
perché esso risponde ai principi generali in
tema di obbligo di indennizzo da parte della
P.A. per pregiudizio derivante da sua
attività legittima o lecita, sia perché esso
costituisce applicazione particolare di una
previsione in via generale introdotta per le
conseguenze dell’esercizio del potere di
autotutela.
Infatti, è altresì previsto, in forme non
dissimili da quanto statuito per la revoca,
l’obbligo di indennizzo per il caso di
annullamento di provvedimento amministrativo
incidente su rapporti contrattuali.
L’art. 1, comma 136, l. 30.12.2004 n. 311,
prevede che “al fine di conseguire
risparmi o minori oneri finanziari per le
amministrazioni pubbliche, può sempre essere
disposto l'annullamento di ufficio di
provvedimenti amministrativi illegittimi,
anche se l'esecuzione degli stessi sia
ancora in corso. L'annullamento di cui al
primo periodo di provvedimenti incidenti su
rapporti contrattuali o convenzionali con
privati deve tenere indenni i privati stessi
dall'eventuale pregiudizio patrimoniale
derivante, e comunque non può essere
adottato oltre tre anni dall'acquisizione di
efficacia del provvedimento, anche se la
relativa esecuzione sia perdurante”.
Come la giurisprudenza ha già avuto modo di
osservare (Cons. Stato, sez. VI, 18.09.2009
n. 5621), la disposizione nel suo contenuto
prescrittivo è volta a rendere recessivo il
c.d. consolidamento delle situazioni
soggettive del privato derivanti da
provvedimenti inficiati da vizi di
legittimità, consentendo l’autotutela
indipendentemente dal lasso temporale
decorso dall’adozione dell’atto, ma, come
reso evidente dal termine “può” che
precede la scelta di disporre
dell’annullamento l’ufficio, essa non fa
venir meno la natura ampiamente
discrezionale di detta potestà che non può
essere resa coercibile ad iniziativa del
destinatario del provvedimento o di un terzo
interessato.
Allo stesso, tempo, la norma prevede, per i
provvedimenti “incidenti su rapporti
contrattuali o convenzionali”, un
termine all’esercizio del potere di
annullamento (tre anni dall’acquisita
efficacia dell’atto annullando), nonché la
necessità di “tenere indenni i privati
stessi dall’eventuale pregiudizio
patrimoniale derivante”.
Anche in questo caso, ed a maggior ragione,
trattandosi di intervento in autotutela su
provvedimento illegittimo, la natura
dell’obbligazione dell’amministrazione è
indennitaria e non risarcitoria; presuppone
che non vi sia stata conoscenza, secondo
criteri di media diligenza,
dell’illegittimità dell’atto da parte del
suo destinatario (che invece ha confidato
nella sua legittimità), e che non vi sia
stato il concorso nella produzione del vizio
di legittimità inficiante l’atto. La misura
dell’indennizzo, infine, deve ritenersi
limitata al danno emergente.
In definitiva, per le ipotesi di esercizio
di potere di autotutela su provvedimenti
inerenti a rapporti contrattuali (revoca o
annullamento d’ufficio), ferma la necessità
di riscontrare la sussistenza degli altri
presupposti previsti, l’indennizzo è
parametrato al solo “danno emergente”.
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Diversamente da quanto affermato per
l’indennizzo, l’obbligazione della pubblica
amministrazione per responsabilità
contrattuale o extracontrattuale ha natura
risarcitoria e, nel caso della
responsabilità precontrattuale (che ricorre
nel caso in esame e che costituisce
species della responsabilità
extracontrattuale: Cons. St., sez. V,
10.11.2008 n. 5574), si fonda, ai sensi
dell’art. 1337 cod. civ., sulla violazione
dei principi di correttezza e buona fede “nello
svolgimento delle trattative e nella
formazione del contratto”.
Come ha chiarito anche l’Adunanza Plenaria (dec.
05.09.2005 n. 6), l’accertamento della
eventuale responsabilità precontrattuale
dell’amministrazione non è esclusa dalla
dichiarata legittimità del provvedimento (di
annullamento o, in particolare, di revoca)
assunto in via di autotutela, posto che, se
“la revoca dell'aggiudicazione e degli
atti della relativa procedura (vale) a porre
al riparo l'interesse pubblico dalla stipula
di un contratto che l'amministrazione non
avrebbe potuto fronteggiare per carenza
delle risorse finanziarie occorrenti”
(tale il presupposto della revoca nel caso
considerato), permane tuttavia “il fatto
incancellabile degli "affidamenti" suscitati
nell'impresa dagli atti della procedura di
evidenza pubblica poi rimossi (affidamenti
che sono perdurati fino a quando non è stata
comunicata alla parte privata la revoca
degli atti. . . .”, posto che “l'impresa
non poteva non confidare, durante il
procedimento di evidenza pubblica, dapprima
sulla "possibilità" di diventare affidataria
del contratto e più tardi -ad aggiudicazione
intervenuta- sulla disponibilità di un
titolo che l'abilitava ad accedere alla
stipula del contratto stesso.”.
Precisa, inoltre, l’Adunanza Plenaria che “occorre,
naturalmente, che i comportamenti predetti
-per porsi quali fatti generatori di
responsabilità precontrattuale- risultino
contrastanti con le regole di correttezza e
di buona fede di cui all'art. 1337 del c.c..”.
In sostanza, ai fini della configurabilità
della responsabilità precontrattuale della
p.a. non si deve tener conto della
legittimità dell'esercizio della funzione
pubblica cristallizzato nel provvedimento
amministrativo, ma della correttezza del
comportamento complessivamente tenuto
dall'Amministrazione durante il corso delle
trattative e della formazione del contratto,
alla luce dell'obbligo delle parti di
comportarsi secondo buona fede ai sensi
dell'art. 1337 c.c. (Cons. St., sez. V,
07.09.2009 n. 5245).
Si è, dunque, affermato che la
responsabilità precontrattuale non è
configurabile anteriormente alla scelta del
contraente, come nella fase in cui gli
interessati sono solo meri partecipanti alla
gara (Cons. St., sez. V, 28.05.2010 n. 3393;
08.09.2010 n. 6489).
Tuttavia, si è anche sostenuto (Cons. St.,
sez. VI, 17.12.2008 n. 6264) che non vi sono
ragioni sistematiche onde escludere la
configurabilità di una responsabilità di
carattere precontrattuale in capo
all'Amministrazione in ipotesi in cui il
mancato rispetto dei generali canoni di
buona fede e correttezza in contrahendo
si sia risolto in un'attività nel suo
complesso illegittima, la quale abbia
comunque determinato l'impossibilità del
sorgere del vincolo contrattuale, atteso che
-per un verso- le trattative fra le parti
sono state interrotte al mero stadio
dell'aggiudicazione provvisoria (fase in
cui, anche nel sistema anteriore all'entrata
in vigore del c.d. “codice dei contratti”
era pacifica l'assenza di un vincolo
stricto sensu contrattuale) e che -per
altro verso- nel corso di tale fase grava
sul soggetto pubblico l'obbligo di
comportarsi secondo buona fede, atteso che
nel corso delle trattative sorge tra le
parti un rapporto di affidamento che
l'ordinamento ritiene meritevole di tutela.
Secondo tale giurisprudenza, se, infatti,
durante la fase formativa di un negozio
giuridico la p.a. viola il dovere di lealtà
e correttezza, ponendo in essere
comportamenti che non salvaguardano
l'affidamento della controparte in modo da
sorprendere la sua fiducia sulla conclusione
del contratto, essa risponde per
responsabilità precontrattuale ai sensi
dell'art. 1337 c.c.
Al contrario, è stata esclusa la
responsabilità precontrattuale
dell’amministrazione allorché la
stipulazione del contratto avverrebbe in
violazione di norme imperative (Cons. St.,
sez. VI, 03.02.2011 n. 780). Occorre,
infatti, ricordare che l’art. 1337 mira a
tutelare nella fase precontrattuale il
contraente di buona fede, ingannato o
fuorviato da una situazione apparente, non
conforme a quella vera, e, comunque,
dall’ignoranza della causa di invalidità del
contratto, che né doveva da egli essere
conosciuta (come nel caso di violazione di
norme imperative), né poteva essere
conosciuta con l’ordinaria diligenza (Cass.
Civ., sez. III, 08.07.2010 n. 16149; sez. I,
13.05.2009 n. 11135).
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Così ricostruiti gli aspetti salienti della
responsabilità precontrattuale, il Collegio
rileva che, secondo un orientamento
affermato in giurisprudenza (Cons. St., sez.
VI, 17.12.2008 n. 6264), il danno
risarcibile a titolo di responsabilità
precontrattuale da parte della pubblica
Amministrazione a seguito della mancata
stipula dal contratto, debba intendersi
limitato:
a) al rimborso dalle spese inutilmente
sopportate nel corso delle trattative svolte
in vista della conclusione del contratto
(danno emergente);
b) al ristoro della perdita, se
adeguatamente provata, di ulteriori
occasioni di stipulazione con altri di
contratti altrettanto o maggiormente
vantaggiosi, impedite proprio dalle
trattative indebitamente interrotte (lucro
cessante), con esclusione del mancato
guadagno che sarebbe stato realizzato con la
stipulazione e l'esecuzione del contratto
(in tal senso, ex plurimis: Cons.
Stato, Sez. IV, 06.06.2008, n. 2680; id.,
Sez. V, sent. 14.04.2008, n. 1667 e
10.11.2008 n. 5574; Cons. giust. Sicilia,
25.01.2011 n. 63).
Tuttavia, a fronte di tale orientamento, che
–positivamente ricondotto il danno
risarcibile al cd. “interesse negativo”,
cioè all’interesse del soggetto a non essere
leso nell’esercizio della sua libertà
negoziale– richiede che sia comunque fornita
la prova della esistenza di ulteriori
occasioni di stipulazione di altri
contratti, impedite nel loro realizzarsi
proprio dalle trattative indebitamente
interrotte, si pone altra giurisprudenza
(Cons. St., Ad. Plen., 05.09.2005 n. 6), che
afferma come “anche con riferimento alla
perdita di altre occasioni da parte
dell'impresa, sembra preferibile conformarsi
al criterio equitativo . . . (già adottato
qualche volta dalla giurisprudenza
amministrativa), del riconoscimento al
concorrente dell'utile economico che sarebbe
derivato dalla gestione del servizio messo
in gara nella misura del 10% dell'ammontare
dell'offerta”.
Il Collegio osserva, innanzi tutto, che la
misura del risarcimento del danno,
conseguente a responsabilità
precontrattuale, non è concettualmente
riducibile al solo “danno emergente”.
Non può, dunque, essere condivisa la
sentenza appellata (ritenendosi invece
fondata la doglianza dell’appellante sul
punto) laddove essa afferma che il danno da
responsabilità precontrattuale consiste nel
solo “danno emergente per spese sostenute”,
aggiungendo che ciò è quel che avverrebbe “se
si facesse applicazione . . . dell’art. 21–quinquies
l. n. 241/1990”.
Può dirsi, infatti, sufficientemente
condiviso che la responsabilità
precontrattuale comporta obbligo di
risarcimento del danno nei limiti del cd.
interesse negativo, e cioè dell’interesse
del soggetto a non essere leso
nell’esercizio della sua libertà negoziale.
(laddove l’interesse positivo è interesse
all’esecuzione del contratto).
Mentre l’interesse positivo consiste nella
perdita che il soggetto avrebbe evitato
(danno emergente) e nel vantaggio economico
che avrebbe conseguito (lucro cessante) se
il contratto fosse stato eseguito, al
contrario il danno proprio dell’interesse
negativo consiste nel pregiudizio che il
soggetto subisce per avere inutilmente
confidato nella conclusione e nella validità
del contratto ovvero per avere stipulato un
contratto che senza l’altrui ingerenza non
avrebbe stipulato o avrebbe stipulato a
condizioni diverse.
Ne consegue che, nel caso di mancata
conclusione del contratto, il soggetto avrà
diritto al risarcimento del danno
consistente innanzi tutto nelle spese
inutilmente sostenute, e consistente inoltre
nella perdita di favorevoli occasioni
contrattuali, cioè di ulteriori possibilità
vantaggiose sfuggite al contraente a causa
della trattativa inutilmente intercorsa,
ovvero a causa dell’inutile stipulazione del
contratto.
A tali voci, ritiene il Collegio che deve
essere aggiunto il cd. “danno curriculare”,
cioè quel danno consistente
nell’impossibilità di far valere, nelle
future contrattazioni, il requisito
economico pari al valore dell’appalto non
eseguito.
E ciò in considerazione del fatto che, nel
caso di specie, la responsabilità
precontrattuale della P.A. non si configura
con riferimento ad una interruzione delle
trattative, che determina la mancata stipula
del contratto, intervenuta in un generico
momento delle stesse, bensì laddove si era
già addivenuti alla sicura individuazione
del contraente, per il tramite
dell’aggiudicazione definitiva ed in
presenza di un contenuto contrattuale già
compiutamente definito, per il tramite del
bando di gara e dell’offerta aggiudicataria.
In definitiva:
- mentre nel caso di indennizzo ex art. 21–quinquies,
la misura del medesimo è parametrata al solo
“danno emergente”;
- nel caso di responsabilità
precontrattuale, la misura del risarcimento
comprende sia il danno emergente, sia (ove
provato) il danno derivante dalla perdita di
ulteriori favorevoli occasioni contrattuali,
sia (laddove vi sia mancata stipulazione del
contratto a fronte di aggiudicazione
definitiva) il cd. danno curriculare.
Ove si voglia diversamente considerare,
appare singolare e privo di ragionevolezza
che l’ordinamento riconosca due attribuzioni
patrimoniali, distinte ma di identica
misura, benché nel primo caso (ex art.
21-quinquies l. n. 241/1990), non vi sia
alcuna attività illegittima o illecita
dell’amministrazione, mentre nel secondo vi
è un accertato illecito comportamento della
medesima, tale da fondare responsabilità
precontrattuale.
---------------
Già tale considerazione –afferente al titolo
causale dell’attribuzione patrimoniale–
induce ad una ricerca più attenta sulla
esatta misura del danno risarcibile,
laddove, come nel caso di specie, vi sia
stata mancata stipulazione del contratto per
intervenuta revoca (legittima) dell’atto di
aggiudicazione definitiva.
Ulteriori considerazioni, volte a
determinare diversamente la misura del danno
da responsabilità precontrattuale,
discendono dall’esame della giurisprudenza
in tema di risarcimento del danno da
provvedimento illegittimo (come nel caso in
cui vi sia successivo annullamento
giurisdizionale dell’aggiudicazione
definitiva).
Innanzi tutto, occorre ricordare, in via
generale, che, secondo il Consiglio di Stato
(sez. V, n. 490/2008) “il danno, per
essere risarcibile, deve essere certo e non
meramente probabile, o comunque deve esservi
una rilevante probabilità del risultato
utile” e ciò è quello che “distingue
la chance risarcibile dalla mera e astratta
possibilità del risultato utile, che
costituisce aspettativa di fatto, come tale
irrisarcibile”.
In tal senso, la giurisprudenza ha ancorato
il risarcimento del danno cd. “da perdita
di chance” a indefettibili presupposti
di certezza dello stesso, escludendo il caso
in cui l’atto, ancorché illegittimo, abbia
determinato solo la perdita di una “eventualità”
di conseguimento del bene della vita. Ed
infatti, in tale ultimo caso, risulta
pienamente esaustiva la tutela
ripristinatoria offerta dall’annullamento e
dalle sue conseguenze (in tal senso, Cons.
Stato, sez. V, 03.08.2004 n. 5440; sez. V,
25.02.2003 n. 1014; sez. VI, 23.07.2009 n.
4628; Cass. civ., sez. I, 17.07.2007 n.
15947).
Quanto al requisito soggettivo della colpa,
questa deve essere valutata tenendo conto
dei vizi che inficiano il provvedimento,
della gravità delle violazioni ad essa
imputabili (anche alla luce del potere
discrezionale concretamente esercitato),
delle condizioni concrete e dell’apporto
eventualmente dato dai privati al
procedimento (Cons. Stato, sez. VI,
15.06.2009 n. 3827). Il requisito è inoltre
integrato dalla violazione delle regole
procedimentali in tema di autotutela (Cons.
Stato, sez. V, 21.08.2009 n. 5004).
In ogni caso, non è configurabile un danno
risarcibile per equivalente, allorché, per
effetto dell’annullamento
dell’aggiudicazione, vi sia ripetizione
della gara d’appalto (e della connessa
attività amministrativa), e quindi il
ripristino della chance di aggiudicazione
(Cons. Stato, sez. V, 28.08.2009 n. 5105).
Quanto alle “voci” del danno
risarcibile, esse consistono (Cons. Stato,
sez. V, n. 491/2008; sez. VI, n. 2384/2010):
a) nel danno emergente, costituito dalle
spese e dai costi sostenuti per la
preparazione dell’offerta e per la
partecipazione alla procedura (secondo Cons.
Stato, sez. VI, 21.05.2009 n. 3144, solo in
caso di illegittima esclusione dalla gara);
b) nel lucro cessante, determinato nel 10%
del valore dell’appalto, precisandosi anche
che il lucro cessante è innanzi tutto
determinato sulla base dell’offerta
economica presentata al seggio di gara
(Cons. Stato, sez. V, 06.04.2009 n. 2143);
c) una ulteriore percentuale del valore
dell’appalto, “a titolo di perdita di
chance, legata alla impossibilità di far
valere, nelle future contrattazioni, il
requisito economico pari al valore
dell’appalto non eseguito”, cd. “danno
curriculare” (in senso conforme, Cons.
Stato, sez. VI, 09.06.2008 n. 2751; sez. V.,
23.07.2009 n. 4594; secondo Cons. Stato,
sez. VI, n. 3144/2009, la percentuale del “danno
curriculare” va calcolata sulla misura
del lucro cessante e non già sull’importo
dell’appalto);
d) il danno, equitativamente liquidato, per
il mancato ammortamento di attrezzature e
macchinari;
e) infine, il danno esistenziale, posto che
“il diritto all’immagine,
concretizzantesi nella considerazione che un
soggetto ha di sé e nella reputazione di cui
gode, non può essere considerato appannaggio
esclusivo della persona fisica e va anzi
riconosciuto anche alle persone giuridiche”.
Orbene, come è dato osservare, nelle ipotesi
di risarcimento del danno da provvedimento
illegittimo (come nel caso del danno subito
dal partecipante alla gara secondo
classificato che avrebbe dovuto essere
aggiudicatario, e che ha quindi subito gli
effetti di un provvedimento illegittimo), la
prova dell’esistenza del medesimo interviene
in base ad una verifica del caso concreto,
che faccia concludere per la “certezza”
del danno, sussistente sia laddove questo
possa essere a tutta evidenza riscontrato,
sia laddove vi sia “una rilevante
probabilità del risultato utile”.
In definitiva, l’esame della sussistenza del
danno da perdita di chance interviene:
- o attraverso la constatazione in concreto
della sua esistenza, ottenuta attraverso
elementi probatori (ad esempio, si è in
presenza di un contratto eseguito o in
esecuzione, che avrebbe dovuto essere
certamente eseguito da una diversa impresa,
in luogo di quella beneficiaria di
aggiudicazione illegittima);
- o attraverso una articolazione di
argomentazioni logiche, che, sulla base di
un processo deduttivo rigorosamente
sorvegliato, inducono a concludere per la
sua sussistenza;
- ovvero ancora attraverso un processo
deduttivo secondo il criterio, elaborato
dalla giurisprudenza della Corte di
Cassazione, del c.d. “più probabile che
non” (Cass. civ., n. 22022/2010), e cioè
“alla luce di una regola di giudizio che
ben può essere integrata dai dati della
comune esperienza, evincibili
dall’osservazione dei fenomeni sociali”
(Cass., sez. III civ., n. 22837/2010).
Inoltre, quanto alla determinazione
dell’entità del risarcimento, occorre
osservare che la giurisprudenza riconosce,
in pratica, una misura dello stesso non
dissimile da quella che conseguirebbe in
base alla cd, responsabilità contrattuale
(danno emergente e lucro cessante): e ciò in
quanto la stipulazione e l’esecuzione del
contratto vi è stata, ma diverso (da quello
che avrebbe dovuto legittimamente essere) è
stato il soggetto parte del contratto.
Ciò che differenzia, quindi, il risarcimento
del danno da atto illegittimo (cui consegue
l’instaurazione di un rapporto contrattuale)
da quello derivante da responsabilità
precontrattuale, è che solo nel primo e non
nel secondo caso, vi è l’effettiva
esecuzione del contratto. Di modo che, solo
nel primo e non nel secondo caso, potrà
riconoscersi il lucro cessante, derivante
dal mancato conseguimento dell’utile
conseguibile con la esecuzione del
contratto, impedita dalla precedente,
illegittima attività dell’amministrazione.
A diverse conclusioni deve, invece,
giungersi, per il danno curriculare.
Posto che quest’ultimo consegue alla mancata
esecuzione del contratto, sia che ciò
dipenda dalla non assunta qualità di parte
del contratto e del rapporto per illegittima
attività dell’amministrazione, sia che ciò
dipenda dalla mancata stipulazione di un
contratto, del quale sono già individuati
con certezza parte contraente (per il
tramite dell’aggiudicazione definitiva) e
contenuto (per il tramite del bando di gara
e dell’offerta), per nuova, legittima
determinazione, assunta dall’amministrazione
in via di autotutela.
---------------
Alla luce di
quanto sin qui esposto, il Collegio ritiene
che, nel caso di specie, il risarcimento del
danno da responsabilità precontrattuale
debba consistere:
- nel danno emergente, consistente nelle
spese sostenute per la partecipazione alla
gara, nella misura già determinata dal
giudice di I grado. A tal fine. è da
ritenere infondato il motivo proposto
avverso la decurtazione delle voci di cui ai
punti h) ed i) della sentenza, essendo
condivisibile la considerazione secondo la
quale le spese “sono state sostenute
anche durante periodi la gara o
l’aggiudicazione risultavano annullati”,
e non essendo dimostrato il danno derivante
dalla infruttuosa messa a disposizione del
personale;
- nel cd. danno curriculare, derivante dalla
mancata stipulazione ed esecuzione del
contratto, non potendosi far valere, da
parte dell’impresa appellante incolpevole,
nelle future contrattazioni, il requisito
economico pari al valore dell’appalto non
eseguito, posto che ciò è derivato dalla
sopravvenuta necessità di determinare
diversamente, da parte dell’amministrazione,
il contenuto contrattuale, e ciò ad
aggiudicazione definitiva già intervenuta.
Tale voce va equitativamente determinata
nella misura del 3% del valore dell’appalto,
come definibile dalla misura dell’offerta
oggetto dell’aggiudicazione definitiva
(Cons. St., sez. V, 12.02.2008 n. 491 e
23.10.2007 n. 5592);
- nel lucro cessante, inerente ad ulteriori,
non sfruttate, favorevoli occasioni
contrattuali. A tal fine, il Collegio –a
fronte delle vicende che hanno seguito
l’intervenuta aggiudicazione definitiva,
tutte volte a dimostrare pienamente il
persistente e forte interesse
dell’appellante alla stipulazione ed
esecuzione del contratto– ritiene di poter
assumere come comprovata la sussistenza di
tale voce di lucro cessante (secondo il
criterio del “più probabile che non”),
determinando per essa l’entità del
risarcimento nella misura del 2% del valore
dell’appalto, come innanzi definito.
Contrariamente a quanto affermato ai fini
del riconoscimento del cd. danno
curriculare, non può essere, invece,
riconosciuto il danno consistente nell’utile
che sarebbe derivato dall’esecuzione del
contratto (normalmente definito nel 10% del
valore dell’appalto), dato che, nel caso di
specie, non vi è stata esecuzione del
contratto da parte di altro contraente (come
nel caso di risarcimento del danno da
illegittima aggiudicazione ad altro
concorrente), né in ogni caso –attese le
diverse determinazioni dell’amministrazione–
la società appellante avrebbe potuto
conseguire tale utile.
Né, infine, può essere riconosciuto il pur
richiesto risarcimento del danno
all’immagine, posto che esso non è
configurabile nel caso di specie, laddove
cioè la mancata stipulazione del contratto
costituisce conseguenza del sopravvenuto,
legittimo esercizio del potere di revoca
dell’aggiudicazione da parte
dell’amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.02.2012 n.
662
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Con il rigetto della domanda di
sanatoria degli abusi edilizi il Comune e'
tenuto ad adottare una nuova e definitiva
ordinanza di demolizione.
La presentazione di una domanda di
concessione in sanatoria per abusi edilizi
ex l. 28.02.1985 n. 47 (fonte richiamata
dalle successive leggi di condono edilizio)
impone al Comune la sua disamina e
l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di
talché gli atti repressivi dell'abuso in
precedenza adottati perdono efficacia, salva
la necessità di una loro rinnovata adozione
in caso di rigetto dell'istanza di
sanatoria.
Invero, delle due l’una: o l'Amministrazione
accoglie la predetta domanda e rilascia la
concessione edilizia in sanatoria, con il
superamento per questa via degli atti
sanzionatori impugnati; oppure la medesima
disattende l'istanza, respingendola, e
allora essa è tenuta, in base all'art. 40,
comma 1, L. n. 47 del 1985 (anche questo
richiamato dall’art. 32, comma 25, del d.l.
30.09.2003 n. 269, che fa rinvio a tutte le
disposizioni di cui ai capi IV e V della
legge n. 47), a procedere al completo
riesame della fattispecie, assumendo, ove
del caso, nuovi, e questa volta definitivi,
provvedimenti sanzionatori, che a loro volta
troveranno esecuzione oppure saranno oggetto
di autonoma impugnativa, con conseguente
cessazione immediata anche in questo caso di
ogni efficacia lesiva da parte della
precedente ordinanza impugnata.
Pertanto, in presenza della richiesta di
rilascio della concessione in sanatoria, si
deve registrare la sopravvenuta carenza
d’interesse all’annullamento dell’atto
sanzionatorio in relazione al quale è stata
prodotta la suddetta domanda, con la
traslazione e differimento dell’interesse ad
impugnare verso il futuro provvedimento che,
eventualmente, abbia a respingere la domanda
medesima, disponendo nuovamente la
demolizione dell’opera ritenuta abusiva.
L'interesse all'appello già proposto avverso
gli originari provvedimenti repressivi
assume dunque natura recessiva (VI,
26.03.2010, n. 1750; 07.05.2009, n. 2833;
12.11.2008, n. 5646; V, 26.06.2007, n. 3659;
19.02.1997, n. 165) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 07.02.2012 n. 654 -
massima tratta da
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COMPETENZE GESTIONALI:
Non compete né alla Giunta né
al Dirigente conferire il mandato
all'avvocato per la difesa dell'Ente Locale,
bensì al Sindaco salvo diversa disposizione
statutaria.
Nel giudizio in esame il Consiglio di Stato
è chiamato, tra l'altro, ad esaminare
l'eccezione formulata dall'appellante di
asserita incompetenza dell’organo giuntale a
decidere di proporre appello avverso la
sentenza di primo grado, trattandosi,
secondo la tesi dell’appellante, di atto
rientrante nella competenza propria dei
dirigenti.
Sul punto il Collegio osserva che, secondo
un condivisibile orientamento
giurisprudenziale, dall’esame degli articoli
35 e 36 della legge 08.06.1990, n. 142, poi
trasfusi negli articoli 48, comma 2, e 50,
commi 2 e 3, del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267,
si ricava il principio secondo cui
competente a conferire al difensore del
Comune la procura alle lite è il sindaco,
non essendo più necessaria l’autorizzazione
della Giunta Municipale, atteso che al
Sindaco è attribuita la rappresentanza
dell’ente (Cass. SS.UU. 10.05.2001, n. 186;
10.12.2002, n. 17550), con la conseguenza
che la decisione di agire e resistere in
giudizio ed il conferimento del mandato alle
liti competono in via ordinaria e salva
deroga statutaria, al rappresentante legale
dell’ente, senza bisogno di autorizzazione
della giunta o dei dirigente competente
ratione materiae (C.d.S., sez. V,
18.03.2010, n. 1588; 07.09.2007, n. 4721,
16.02.2009, n. 848; sez. VI, 01.10.2008, n.
4744; 09.06.2006, n. 3452; Cass. civ. sez.
I, 17.05.2007, n. 11516), ferma restando
tuttavia la possibilità dello statuto
(competente a stabilire i modi di esercizio
della rappresentanza legale dell’ente, anche
in giudizio) di prevedere l’autorizzazione
della giunta (ovvero di richiedere una
preventiva determinazione del dirigente
ovvero ancora di postulare l’uno e l’altro
intervento) (Cass. SS.UU., 16.06.2005, n.
12868) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.02.2012 n. 650 -
massima tratta da
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INCARICHI PROFESSIONALI:
L'illegittimità della delibera di
conferimento dell'incarico difensivo
all'avvocato non incide sulla regolarità e
validità della costituzione in giudizio
dell’amministrazione comunale, essendo
tutt’al più causa di responsabilità
amministrativa o penale dell’organo che l’ha
adottata.
Nel giudizio in esame il Consiglio di Stato
rileva l'inammissibilità per difetto di
interesse della censura relativa
all'inammissibilità della delibera di
conferimento dell’incarico difensivo per non
essere stato scelto il difensore con
un’apposita procedura ad evidenza pubblica.
Sul punto il Collegio osserva che
l’eventuale illegittimità della delibera di
conferimento dell’incarico defensionale,
come prospettato dall’appellante, non incide
affatto sulla regolarità e validità della
costituzione in giudizio
dell’amministrazione comunale, essendo
tutt’al più causa di responsabilità
(amministrativa o penale) dell’organo che
l’ha adottata, senza perciò spiegare nessun
effetto favorevole, diretto ed immediato,
sulla posizione giuridica dell’appellata;
legittimati a dolersi di tale pretesa
illegittimità sarebbero stati soltanto altri
avvocati, eventualmente interessati a
partecipare alla procedura di evidenza
pubblica, della cui necessità tuttavia può
ragionevolmente dubitarsi, sia perché
l’affidamento (in mancanza di ulteriori
elemento di giudizio) riguarda sola la
controversia in esame (e non già i servizi
legali da prestare in favore
dell’amministrazione comunale), sia in
ragione del modestissimo ammontare della
spesa impegnata (€. 2.000,00) (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 07.02.2012 n. 650 -
massima tratta da
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ATTI AMMINISTRATIVI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Non può essere limitato il
diritto di accesso agli atti della procedura
concorsuale in quanto le domande ed i
documenti prodotti dai candidati, i verbali,
le schede di valutazione e gli stessi
elaborati costituiscono documenti rispetto
ai quali deve essere esclusa in radice
l'esigenza di riservatezza a tutela dei
terzi.
Ad avviso del giudice amministrativo il
ricorrente -avendo partecipato ad una
procedura concorsuale- è titolare di un
interesse qualificato e differenziato alla
regolarità della procedura che, come tale,
concretizza quell'"interesse personale e
concreto per la tutela di situazioni
giuridicamente rilevanti" che l'art. 2
del DPR n. 352/1992, in puntuale
applicazione dell'art. 22 della L. n.
241/1990, richiede quale presupposto
necessario per il riconoscimento del diritto
di accesso (ex plurimis CS, sez VI,
n. 6246/2000).
Tale interesse è stato puntualmente
evidenziato nell'istanza di accesso nella
quale il ricorrente ha manifestato
l'intenzione di valutare la legittimità
degli atti della procedura concorsuale e, se
del caso, di tutelare in sede
giurisdizionale le proprie ragioni.
E' consolidato l’orientamento
giurisprudenziale (CS, sez. VI, n. 260/1997;
Tar Campania n. 7538/1997; Tar Emilia
Romagna, Parma, n. 274/2001) per cui le
domande ed i documenti prodotti dai
candidati, i verbali, le schede di
valutazione e gli stessi elaborati
costituiscono documenti rispetto ai quali
deve essere esclusa in radice l'esigenza di
riservatezza a tutela dei terzi, posto che i
concorrenti, prendendo parte alla selezione,
hanno evidentemente acconsentito a misurarsi
in una competizione di cui la comparazione
dei valori di ciascuno costituisce
l'essenza.
Tali atti, quindi, una volta acquisiti alla
procedura, escono dalla sfera personale dei
partecipanti che, pertanto, non assumono la
veste di controinteressati in senso tecnico
nel presente giudizio (TAR Lazio-Roma, Sez.
I-quater,
sentenza 30.01.2012 n. 1032 -
massima tratta da
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Deve essere garantito il diritto
di accesso ai documenti amministrativi la
cui conoscenza sia necessaria per curare o
difendere gli interessi giuridici del
richiedente.
L’art. 22 della legge n. 241 del 1990 per
l’esercizio del diritto di accesso richiede
l’interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l'accesso. Nel
caso di specie, pertanto, il giudice ha
ritenuto che i ricorrenti hanno un interesse
concreto ad attuale alla conoscenza degli
atti in quanto riguardano l’esproprio di una
area di loro proprietà.
Invero, ai sensi del comma 2 dell’art. 22
l’accesso ai documenti costituisce principio
generale dell’azione amministrativa e l'art.
24 della legge n. 241, che attribuisce alle
amministrazioni il potere di limitare o
differire il diritto di accesso, prevede che
debba essere comunque garantito l’accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza
sia necessaria per curare o difendere i
propri interessi giuridici (TAR Lazio-Roma,
Sez. III,
sentenza 30.01.2012 n. 995
- massima tratta da
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EDILIZIA PRIVATA: La
valutazione in ordine alla necessità della
concessione edilizia per la realizzazione di
opere di recinzione va effettuata sulla
scorta dei seguenti due parametri: natura e
dimensioni delle opere e loro destinazione e
funzione; in base a tale criterio, dunque,
non è necessario il permesso per costruire
per modeste recinzioni di fondi rustici
senza opere murarie, cioè, ad esempio, per
la mera recinzione con rete metallica
sorretta da paletti di ferro o di legno
senza muretto di sostegno, in quanto entro
tali limiti la recinzione rientra solo tra
le manifestazioni del diritto di proprietà,
che comprende lo ius excludendi alios o
comunque la delimitazione e l'assetto delle
singole proprietà; occorre, invece, il
permesso, quando la recinzione è costituita
da un muretto di sostegno in calcestruzzo
con sovrastante rete metallica, incidendo
esso in modo permanente e non precario
sull'assetto edilizio del territorio.
Per la posa in opera di una semplice
recinzione con paletti in ferro, non infissi
in muratura nel terreno, non è, dunque,
necessaria alcuna richiesta di provvedimento
concessorio, trattandosi di installazione
precaria che non incide in modo permanente
sull'assetto edilizio del territorio.
Il ricorrente, proprietario di un villino
con annesso terreno sito in Via ... del
Comune di Rende, espone di aver provveduto
ad installare, per ragioni di tutela della
privacy e della riservatezza data la natura
collinare del terreno, dei pannelli di
policarbonato rimovibili, alti circa m.
0,90, fissati mediante viti su paletti di
ferro per un lunghezza di m. 10,00,
collocati all’interno della recinzione
preesistente e, sul lato ovest, un telo a
mo’ di tappeto erboso alto m. 2,00 e lungo
m. 23, sostenuto da paletti zincati posti
sul terreno a distanza di m. 0,20 dalla
recinzione di confine.
...
Preliminarmente, giova osservare che le
opere in questione, costituite da pannelli
in policarbonato facilmente rimovibili,
fissati mediante viti su paletti in ferro e,
sul lato ovest, da un telo sostenuto da
paletti zincati, possono essere qualificate
come recinzione –nonostante in ricorso si
affermi il contrario-, per quanto la
funzione ad esse assegnata sembra essere
solamente quella di garantire la
riservatezza e la privacy dell’abitazione
del ricorrente.
Fatta tale premessa, si rileva che, secondo
costante orientamento della giurisprudenza
amministrativa, la valutazione in ordine
alla necessità della concessione edilizia
per la realizzazione di opere di recinzione
va effettuata sulla scorta dei seguenti due
parametri: natura e dimensioni delle opere e
loro destinazione e funzione; in base a tale
criterio, dunque, non è necessario il
permesso per costruire per modeste
recinzioni di fondi rustici senza opere
murarie, cioè, ad esempio, per la mera
recinzione con rete metallica sorretta da
paletti di ferro o di legno senza muretto di
sostegno, in quanto entro tali limiti la
recinzione rientra solo tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, che
comprende lo ius excludendi alios o
comunque la delimitazione e l'assetto delle
singole proprietà; occorre, invece, il
permesso, quando la recinzione è costituita
da un muretto di sostegno in calcestruzzo
con sovrastante rete metallica, incidendo
esso in modo permanente e non precario
sull'assetto edilizio del territorio.
Per la posa in opera di una semplice
recinzione con paletti in ferro, non infissi
in muratura nel terreno, non è, dunque,
necessaria alcuna richiesta di provvedimento
concessorio, trattandosi di installazione
precaria che non incide in modo permanente
sull'assetto edilizio del territorio.
L'intervento in questione, piuttosto,
rientra nella portata residuale degli
interventi realizzabili con il regime
semplificato della D.I.A., a mente dell'art.
22 del d.P.R. n. 06.06.2001, n.380, la cui
mancanza non è sanzionabile con la rimozione
o la demolizione, previste dall'art. 31
stesso T.U. per l'esecuzione di interventi
in assenza del permesso di costruire, o in
totale difformità del medesimo ovvero con
variazioni essenziali, ma con l'applicazione
della sanzione pecuniaria prevista dal
successivo art. 37 per l'esecuzione di
interventi in assenza della prescritta
denuncia di inizio di attività (tra le
altre, TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
14.01.2010, n. 95; TAR Piemonte, sez. I,
15.02.2010, n. 950; TAR Lazio, Roma, sez. II,
11.09.2009, n. 8644; TAR Campania, Napoli,
sez. VIII, 27.02.2009, n. 1151; TAR
Calabria, Catanzaro, sez. II, 24.04.2006, n.
407).
Alla luce di quanto esposto e considerata la
tipologia delle opere in discussione, sopra
ricordata, il Comune non avrebbe potuto
adottare un ordine di demolizione delle
stesse
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 18.01.2012 n. 38 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Bandi di gara, CV dei partecipanti
funzionale all'oggetto dell'appalto.
Il Consiglio di Stato ha
precisato che gli elementi di valutazione
per l'ammissione alle gare di appalto in
ordine a pregressa esperienza nel settore
sono determinabili da parte della Stazione
Appaltante, ovviamente nel rispetto della
normativa di settore, ma comunque rendendoli
funzionali a quello che si vuole qualificare
come oggetto dell'appalto.
Il Consiglio di
Stato, Sez. V, con
sentenza
16.01.2012 n. 146, ha esplicitato l'esistenza della
possibilità che la Stazione Appaltante ha di
definire i requisiti di idoneità
professionale per la partecipazione a gara
di appalto per affidamento dei servizi,
ovviamente contenuta nei limiti e contorni
stabiliti dalla superiore normativa statale
di settore e, quindi, con decisioni congrue
e compatibili con quest'ultima e sempre non
restringendo il campo alla partecipazione,
ma, di contro, attuando il principio del favor partecipationis.
L'occasione è offerta, in un secondo grado
di giudizio, diciamo subito, confermativo
del primo grado, in quanto in entrambi i
giudizi vi è stata soccombenza del
ricorrente, odierno appellante. Prima di
passare all'esame della decisione è
opportuna una breve esposizione della
vicenda processuale.
E' stato adito il Giudice di prime cure con
ricorso contro la Stazione Appaltante e
l'aggiudicatario chiedendo l'annullamento
dell'aggiudicazione e l'assegnazione della
gara.
Diciamo subito che la gara era relativa
all'affidamento del "servizio di riscossione
delle entrate derivanti dall'occupazione di
aree pubbliche destinate alla sosta dei
veicoli a pagamento nell'ambito del
territorio comunale".
Censura di fondo e sostanziale a sostegno
del ricorso è stata la circostanza che
l'aggiudicataria è stata ammessa alla
procedura senza un'esperienza ed una
qualificazione nella gestione di un'area
pubblica a pagamento, ma con la sola e
diversa professionalità nel settore della
riscossione delle entrate comunali.
Sulla censura illustrata il Consiglio di
Stato ha respinto l'appello perché
infondato, così confermando la sentenza del
giudice di prime cure. Il sostegno alla
motivazione della decisione è stato addotto
nella circostanza della previsione del bando
di gara che, in via prioritaria e
fondamentale, regolamentava un settore delle
entrate comunali e, pertanto, la modalità
che, nella circostanza specifica, era la
gestione delle aree da cui provenivano
entrate, atteneva solo ad una modalità
specifica della realizzazione del servizio
con le varie attività di controllo ed
accertamento della sosta.
D'altronde, sottolinea il Giudicante che,
comunque la Stazione Appaltante ha previsto
in sede di gara anche la possibilità di
partecipazione alla procedura concorsuale
anche di quegli operatori che intendevano
qualificarsi con il solo elemento della
pregressa gestione di aree comunali adibite
a parcheggio.
Sulla scorta di quanto appena riportato la
Sezione ha stigmatizzato la censura del
ricorrente non corretta laddove qualifica
l'elemento "servizio riscossione di entrate
pubbliche" estraneo alla gara e, di contro,
rende sostanza e qualifica la gara come
finalizzata alla sola gestione di un'opera
pubblica di sosta a pagamento.
Non ha mancato il Giudicante di sottolineare
che anche la deliberazione di Consiglio
Comunale relativa all'approvazione del
capitolato speciale di appalto per la
gestione del servizio, poneva quale momento
essenziale dello stesso servizio, e quindi
funzionalmente della gara a questo
preordinata, le entrate comunali e non la
concessione di uno spazio pubblico.
D'altronde, a conferma, di ciò necessita
dire che lo stesso corrispettivo del
compenso per l'appaltatore era stato
stabilito in una percentuale sulle entrate
per la sosta e non con un canone concessorio.
E' quindi il servizio di riscossione delle
entrate che ha centralità nell'appalto, nel
mentre le altre attività, quali
predisposizione della segnaletica, pulizia
aree ed altro risultano essere accessorie e
funzionali alla prima.
Sulla scorta di quanto avanti narrato il
ricorso in appello è stato respinto e
riconosciuta la legittimità degli atti della
Stazione Appaltante con conseguente conferma
della sentenza del Giudice di prime cure
(tratto da www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
33, comma 2 del d.P.R. n. 380 del 2001, in
presenza di opere totalmente abusive,
prevede una prima fase di
comminatoria della demolizione e soltanto
quando l’interessato non ha ottemperato
all’ordine di demolizione prevede una
seconda fase “in cui l'organo competente
emana l'ordine (questa volta non indirizzato
all'autore dell'abuso, ma agli uffici e
relativi dipendenti dell'Amministrazione
competenti e/o preposti in materia di
sanzioni edilizie) di esecuzione in danno
delle ristrutturazioni realizzate in assenza
o in totale difformità dal permesso di
costruire o delle opere edili costruite in
parziale difformità dallo stesso; soltanto
nella predetta seconda fase non può
ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire
sprovvista di qualsiasi valutazione intorno
all'entità degli abusi commessi e alla
possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, così come previsto
dagli artt. 33 comma 2, e 34 comma 2, d.P.R.
n. 380 del 2001. Valutazione che deve essere
effettuata mediante apposito accertamento da
parte dell'Ufficio Tecnico Comunale,
d'ufficio o su richiesta dell'interessato”,
con la conseguenza che anche sotto questo
profilo le doglianze non appaiono fondate.
Come ritenuto dalla giurisprudenza in
materia, l’art. 33, comma 2 del d.P.R. n.
380 del 2001, in presenza di opere
totalmente abusive, prevede una prima
fase di comminatoria della demolizione e
soltanto quando l’interessato non ha
ottemperato all’ordine di demolizione
prevede una seconda fase “in cui
l'organo competente emana l'ordine (questa
volta non indirizzato all'autore dell'abuso,
ma agli uffici e relativi dipendenti
dell'Amministrazione competenti e/o preposti
in materia di sanzioni edilizie) di
esecuzione in danno delle ristrutturazioni
realizzate in assenza o in totale difformità
dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dallo
stesso; soltanto nella predetta seconda fase
non può ritenersi legittima l'ingiunzione a
demolire sprovvista di qualsiasi valutazione
intorno all'entità degli abusi commessi e
alla possibile sostituzione della
demolizione con la sanzione pecuniaria, così
come previsto dagli artt. 33 comma 2, e 34
comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001. Valutazione
che deve essere effettuata mediante apposito
accertamento da parte dell'Ufficio Tecnico
Comunale, d'ufficio o su richiesta
dell'interessato” (TAR Campania, Napoli,
14.06.2010, n. 14156), con la conseguenza
che anche sotto questo profilo le doglianze
non appaiono fondate
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 14.01.2012 n. 372 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROFESSIONALI: La
competenza professionale di un geometra non
può estendersi alla predisposizione ed alla
vigilanza su quelle attività che implicano
l’utilizzo di vari principi della fisica, e
si configurano come funzionalmente autonomi
rispetto alle opere tipicamente murarie.
Con il primo articolato motivo di
impugnazione i ricorrenti muovono dalla
normativa che abilita il geometra ad operare
nella progettazione, direzione e vigilanza
di modeste costruzioni civili (art. 16,
lett. m, del rd 11.02.1929, n. 274), per
inferire che la legislazione successiva che
ha previsto le modalità con cui possono
essere realizzati gli impianti di
riscaldamento non ha derogato alle generale
previsione del regolamento citato.
La tesi
sostenuta è in sostanza che un geometra è
abilitato ad occuparsi dell’installazione di
un impianto di riscaldamento, allorché si
tratti di una modesta costruzione civile,
posto che il bene di che si tratta
costituisce una mera pertinenza
dell’immobile. In tale contesto la
disciplina che il legislatore ha introdotto
in anni recenti avrebbe solo specificato
quali sono le caratteristiche che devono
assumere gli strumenti che devono apportare
delle temperature sopportabili per l’uomo,
ma non ha fatto rientrare nella competenza
degli ingegneri o dei periti industriali la
possibilità di progettare ed installare tali
impianti. Gli architetti non hanno proposto
un’autonoma censura, che riguarda la
posizione di pertinenza.
Il tribunale non può condividere questa
argomentazione.
La giurisprudenza che si condivide ha
infatti ritenuto (Tar Liguria, 02.02.2005,
n. 137, Tar Piemonte, 2004, n. 261; Tar
Lazio, Roma, sez. III-ter 2003, n. 1698)
impossibile la prospettata interpretazione
estensiva della nozione di edilizia, nel
sistema di ripartizione delle competenze
professionali derivante dal rd 23.10.1925,
n. 2537; si devono pertanto espungere dal
settore di competenza i lavori, le opere od
in genere le attività che comportano le
applicazioni della fisica, come previste
dall’art. 54, comma 4, del citato regio
decreto. In particolare la realizzazione di
immobili per l’abitazione od il lavoro
dell’uomo non può essere concettualmente
ristretta come derivante da un’unica
attività, posto che determinati ritrovati
devono rispondere ai requisiti di maggior
tutela degli utilizzatori degli edifici, che
sono perseguiti dalle norme applicate
dall’impugnato diniego del comune di Genova.
E’ per ciò che l’art. 4 della legge
05.03.1990, n. 46 ha imposto la redazione di
un’autonoma relazione tecnica per
l’installazione degli strumenti elettrici,
degli impianti di terra, di quelli che
utilizzano il gas, degli ascensori …, ed ha
con ciò scorporato concettualmente queste
attività da quelle volte alla mera
realizzazione della costruzione. Va perciò
ritenuto che la competenza professionale di
un geometra non può estendersi alla
predisposizione ed alla vigilanza su quelle
attività che implicano l’utilizzo di vari
principi della fisica, e si configurano come
funzionalmente autonomi rispetto alle opere
tipicamente murarie.
Ne consegue che la censura in esame non può
essere condivisa, perché non tiene conto
dell’autonomia progettuale che la legge
prevede tra l’altro per gli strumenti
destinati al riscaldamento degli ambienti;
il primo motivo è pertanto infondato e va
respinto (TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 02.03.2006 n. 166 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 09.02.2012 |
ã |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: prevenzione delle esposizioni al
gas radon in ambienti indoor. Integrazioni
dei Regolamento Edilizi (ASL di Bergamo,
nota 07.02.2012 n. 15410 di prot.).
----------------
La nota di cui sopra si riferisce a
questo documento: Linee guida per la
prevenzione delle esposizioni al gas radon
in ambienti indoor
(Regione Lombardia, Direzione Generale
Sanità,
decreto 21.12.2011 n. 12678). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
Oggetto: Parere del Consiglio di Stato -
Sez. I n. 706/2011 del 16.11.2011 relativo
al rimborso oneri per permessi retribuiti
fruiti da amministratori dipendenti da
Ferrovie dello Stato S.p.A. e da altri enti
pubblici - Art. 80 del D.Lgs. 18.08.2000, n.
267 (Ministero dell'Interno,
nota 17.01.2012 n. 739 di prot.). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Attuazione dell’art. 1, commi 65 e 67,
della Legge 23.12.2005, n. 266, per l’anno
2012 (deliberazione
21.12.2011 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il Professor Monti e l'articolo
18 dello statuto dei lavoratori
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 06.02.2012). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Spallino,
Impianti di telefonia mobile: digesto di
legislazione, giurisprudenza e dottrina
(link a http://studiospallino.blogspot.com). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
06.02.2012 n. 30 "Attuazione
dell’articolo 30, comma 9, lettere e) , f) e
g) , della legge 31.12.2009, n. 196, in
materia di procedure di monitoraggio sullo
stato di attuazione delle opere pubbliche,
di verifica dell’utilizzo dei finanziamenti
nei tempi previsti e costituzione del Fondo
opere e del Fondo progetti" (D.Lgs.
29.12.2011 n. 229). |
EDILIZIA PRIVATA: Linee
guida per la prevenzione delle esposizioni
al gas radon in ambienti indoor
(Regione Lombardia, Direzione Generale
Sanità,
decreto 21.12.2011 n. 12678). |
QUESITI &
PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Statuto dei lavoratori e Codice della
privacy. Registrazione delle telefonate dei
dipendenti: è controllo a distanza dei
lavoratori?
Domanda.
L'installazione di un sistema in grado di
fare registrazioni audio delle chiamate in
uscita e in entrata, finalizzato al
monitoraggio della qualità dei processi e
dei servizi di assistenza alla clientela
forniti dall'impresa, costituisce un
controllo a distanza dei lavoratori soggetto
alle regole dello Statuto dei lavoratori e
del Codice della privacy?
Risposta.
Se l'impresa che intende installare il
sistema di registrazione delle telefonate
adotta alcune regole precauzionali che
annullano il rischio di trattamenti non
autorizzati di dati personali della
clientela e dei lavoratori, a mio avviso la
fattispecie non rientra nell'ambito
oggettivo di applicazione delle disposizioni
della legge n. 300/1970 e del D.Lgs. n.
196/2003.
In particolare perché l'apparecchiatura sia
legittima è necessario che:
- i controlli non siano fatti in maniera
sistematica e automatica, ma solamente a
campione;
- le voci degli operatori e dei clienti
registrate dal sistema siano criptate, in
modo tale da non essere riconoscibili e di
non permettere di risalire all'identità del
singolo operatore o cliente;
- i primi secondi di conversazione siano
eliminati, in modo che sia impossibile
ascoltare il nome dell'operatore che ha
risposto al cliente;
- non siano tracciati né il nome
dell'operatore, né alcun altro dato che
possa permettere la sua identificazione;
- il sistema di monitoraggio non fornisca
alcun report contenente informazioni sul
singolo operatore del servizio assistenza
clienti;
- l'accesso ai dati registrati sia
tracciabile e sia limitato solamente ai
soggetti espressamente autorizzati (cioè
formalmente incaricati del trattamento)
dall'impresa per la finalità di monitoraggio
(07.02.2012 - tratto da
www.ipsoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Responsabilità
dell'autore dell'inquinamento.
In materia di bonifica e risanamento
ambientale, vorrei avere elementi in ordine
alla responsabilità dell'autore
dell'inquinamento.
L'articolo 311, comma 2, del decreto
legislativo n. 152, del 2006, così come
modificato dalla lettera a), comma 1,
dell'articolo 5-bis del decreto legge 25.09.2009, n. 135, aggiunto dalla
relativa legge di conversione, dispone che:
«chiunque realizzando un fatto illecito, o
omettendo attività o comportamenti doverosi,
con violazione di legge, di regolamento, o
di provvedimento amministrativo, con
negligenza, imperizia, imprudenza o
violazione di norme tecniche, arrechi danno
all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o
distruggendolo in tutto o in parte, è
obbligato al ripristino della precedente
situazione e, in mancanza, all'adozione di
misure di riparazione complementare e
compensativa di cui alla direttiva
2004/35/Ce del Parlamento europeo e del
consiglio, del 21.04.2004».
Il Tribunale amministrativo regionale (Tar)
del Friuli–Venezia Giulia, sezione I, con la
sentenza del 17.12.2009, n. 837,
ha affermato che il citato decreto
legislativo numero 152, del 2006, ha
operato: «Una scelta precisa in favore della
ricostruzione della responsabilità per i
danni all'ambiente nel paradigma della
“tradizionale” responsabilità
extracontrattuale soggettiva (cosiddetta
“responsabilità aquiliana” ex art. 2043
c.c.), con esclusione di qualsivoglia forma
di responsabilità oggettiva».
Il tribunale amministrativo regionale (Tar)
Toscana, sezione II, con la sentenza del 04.02.2011, n. 225, ha affermato che:
«Tanto la disciplina di cui al dlgs 22/1997
(in particolare, l'art. 17, comma 2), quanto
quella introdotta dal dlgs 152/2006 (e in
particolare, gli artt. 240 e segg., si
ispirano al principio secondo cui l'obbligo
di adottare le misure, sia urgenti che
definitive, idonee a fronteggiare la
situazione di inquinamento, è a carico
unicamente di colui che di tale situazione
sia responsabile, per avervi dato causa a
titolo di dolo o colpa».
La Corte di giustizia Ce, sezione grande,
con la sentenza del 09.03.2010, C –
378/08, ha chiarito che: «Gli artt. 3, c. 1,
4, n. 5, e 11, n. 2, della direttiva 2004/35
devono essere interpretati nel senso che,
quando decide di imporre misure di
riparazione del danno ambientale ad
operatori le cui attività siano elencate
nell'allegato III a detta direttiva,
l'autorità competente non è tenuta a
dimostrare né un comportamento doloso o
colposo, né un intento doloso in capo agli
operatori le cui attività siano considerate
all'origine del danno ambientale. Viceversa
spetta a questa autorità, da un lato,
ricercare preventivamente l'origine
dell'accertato inquinamento, attività
riguardo alla quale detta autorità dispone
di un potere discrezionale in merito alle
procedure e ai mezzi da impiegare, nonché
alla durata di una ricerca siffatta.
Dall'altro, questa autorità è tenuta a
dimostrare, in base alle norme nazionali in
materia di prova, l'esistenza di un nesso di
causalità tra l'attività degli operatori cui
sono dirette le misure di riparazione e
l'inquinamento di cui trattasi»
(articolo ItaliaOggi
Sette del 06.02.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Contaminazione
accidentale.
Gradirei sapere se in tema di bonifica di
siti contaminati si possa parlare ancora di
contaminazione accidentale.
Il decreto legislativo n. 152, del 2006,
ha eliminato il riferimento alle forme di
contaminazione accidentale, previsto
dall'articolo 17, comma 2, del decreto
legislativo n. 22, del 1997. Così
operando il legislatore è passato a un
sistema fondato su un criterio di
imputazione di responsabilità fondato sui
parametri soggettivi del dolo e della colpa.
Il Tribunale amministrativo regionale (Tar)
della Sicilia – Catania -, sezione I, con la
sentenza del 20.07.2007, n. 1254, ha
affermato che «in materia di danno
ambientale, il legislatore del 2006 ha
operato una scelta decisa in favore della
riconduzione della responsabilità nell'alveo
della “tradizionale” responsabilità
extracontrattuale soggettiva (cosiddetta
“responsabilità aquiliana” ex articolo 2043
c.c.), con il conseguente ripudio di una
qualsiasi forma di responsabilità oggettiva.
Infatti, il decreto legislativo 152, del
2006, all'articolo 311, comma 2, nel
trattare della responsabilità per danni
all'ambiente, costituisce e disciplina la
situazione giuridica soggettiva di
responsabilità, e serve ad orientare
l'interprete nella ricostruzione
dell'istituto più generale del ripristino
dei siti inquinati: quando nelle norme
variamente in esso previste, si fa
riferimento al “responsabile
dell'inquinamento”, non si potrà che,
logicamente, considerare tale colui il quale
è “responsabile” ai sensi del citato
articolo 311, a meno di non volere sostenere
l'illogica prospettazione dell'esistenza di
due tipologie di responsabilità, ossia
quella soggettiva ex articolo 311, citato,
ed una sorta di “responsabilità oggettiva
parallela” ex articolo 242 e seguenti,
aventi tuttavia identico contenuto quanto
all'obbligo di ripristino».
Il Tribunale amministrativo regionale (Tar)
Toscana, sezione II, con la sentenza del
04.02.2011, n. 225, ha puntualizzato: «Tanto
la disciplina di cui al decreto legislativo
22/1997 in particolare, l'articolo 17, comma
2), quanto quella introdotta dal decreto
legislativo 152/2006 (e in particolare, gli
articoli 240 e seguenti) si ispirano al
principio secondo cui l'obbligo di adottare
le misure, sia urgenti che definitive,
idonee a fronteggiare la situazione di
inquinamento, è a carico unicamente di colui
che di tale situazione sia responsabile, per
avervi dato causa a titolo di dolo o colpa»
(articolo ItaliaOggi
Sette del 06.02.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: Impianto
eolico.
I comuni che devono essere chiamati in
conferenza di servizi per il rilascio di
autorizzazione unica per la costruzione ed
esercizio di un impianto eolico sono quelli
del territorio o soltanto limitrofi?
Il Consiglio di stato, sezione VI, con la
sentenza del 06.09.2010, n. 6480,
in tema di conferenza di servizi per il
rilascio di autorizzazione unica per la
costruzione ed esercizio di un impianto
eolico, ha affermato che i comuni che devono
essere necessariamente chiamati, a pena di
illegittimità del provvedimento finale, a
partecipare sono quelli il cui territorio è
direttamente destinato a sopportare le opere
in corso di realizzazione. Infatti, per i
Supremi giudici amministrativi, la procedura
della conferenza di servizi non è aperta a
tutti i soggetti potenzialmente interessati
alla tutela del patrimonio culturale, ma
solamente a quegli enti che la specifica
disciplina ritiene direttamente interessati
e coinvolti nella costruzione e
nell'esercizio dell'impianto eolico.
In pratica, sono i comuni il cui territorio
deve direttamente sopportare le opere in
corso di realizzazione.
Il Tribunale amministrativo regionale (Tar)
Puglia – Bari - sezione I, con la sentenza
del 23.09.1995, n. 950, ha
affermato che «la deliberazione di Giunta
provinciale, nell'ammettere l'intervento
alla conferenza di servizi solo del
rappresentante del comune nel cui territorio
è prevista la localizzazione di impianto di
smaltimento di rifiuti, introduce una
irragionevole ed illegittima limitazione
alla partecipazione dei rappresentanti di
comuni limitrofi che, in ragione della
relativa prossimità spaziale dell'impianto
stesso –e, quindi, della potenziale
«ricaduta» dei suoi effetti “negativi”–
siano portatori di un qualificato interesse
esponenziale ad interloquire, nella fase
procedimentale acquisitiva di tutti gli
elementi conoscitivi utili all'intervento
sull'impatto ambientale e territoriale di
esso».
In materia si rimanda, anche, alla sentenza
n. 910, dell'11.02.2011, del
Consiglio di stato, sezione VI
(articolo ItaliaOggi
Sette del 06.02.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Abbandono
rifiuti.
Sono responsabile dell'abbandono e deposito
incontrollato di rifiuti nel mio terreno,
nonostante le cautele di recinzione del sito
adottate?
Il Codice dell'ambiente, varato con il
decreto legislativo n. 152, del 2006,
all'articolo 192, prevede che chiunque
abbandoni rifiuti nel suolo e nel sottosuolo
è tenuto a procedere alla loro rimozione, al
loro avvio al recupero o allo smaltimento ed
al ripristino dello stato dei luoghi in
solido con il proprietario e con i titolari
di diritti reali o personali di godimento
sull'area. Ai predetti la violazione deve
essere imputabile a titolo di dolo o di
colpa, in base agli accertamenti effettuati,
in contraddittorio con essi, dai soggetti
preposti al controllo, «il sindaco, aggiunge
il predetto articolo, dispone, con
ordinanza, le operazioni a tal fine
necessarie e il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede
all'esecuzione in danno dei soggetti
obbligati ed al recupero delle somme
anticipate».
Il Consiglio di Stato, sezione V, con la
sentenza n. 4614, del 16.07.2010, ha
affermato che, in tema di rifiuti, non è
previsto, a differenza di quanto disposto
per la bonifica dei siti inquinati, alcun
onere reale a carico del proprietario, che
possa giustificate l'emanazione di ordinanze
amministrative direttamente nei suoi
confronti.
Pertanto, nei casi di specie, deve essere
accertata la colpa del proprietario del sito
interessato o di qualunque altro soggetto
che si trovi con l'area in un rapporto,
anche di mero fatto, tale da consentirgli e,
di conseguenza, da imporgli di esercitare la
funzione d protezione e custodia del luogo,
al fine di evitare che l'area medesima posa
essere adibita a discarica abusiva di
rifiuti, nocivi per la salvaguardia
dell'ambiente. È da puntualizzare che il
requisito della colpa può consistere anche
nell'omissione delle cautele e degli
accorgimenti che l'ordinaria diligenza
suggerisce ai fini di un'efficacia custodia
del sito interessato.
Il lettore, in tema, può consultare anche la
sentenza numero 262, del 14.02.2011, del Tar
Sicilia, Palermo, sezione I
(articolo ItaliaOggi
Sette del 06.02.2012). |
ENTI LOCALI: Tarsu:
aumento tariffe.
Nell'aumentare le tariffe della tassa
rifiuti, la deliberazione comunale deve
essere specificamente motivata?
In ordine all'aumento delle tariffe della
tassa smaltimento rifiuti solidi urbani (Tarsu),
l'articolo 69, comma 2, del decreto
legislativo 15.11.1993, n. 507,
prevede che «ai fini del controllo di
legittimità, la deliberazione deve indicare
le ragioni dei rapporti stabiliti tra le
tariffe, i dati consuntivi e previsionali
relativi ai costi del servizio discriminati
in base alla loro classificazione economica,
nonché i dati e le circostanze che hanno
determinato l'aumento per la copertura
minima obbligatoria del costo ovvero gli
aumenti di cui al comma 3».
Per il legislatore sussiste un obbligo
specifico di motivazione a carico
dell'amministrazione comunale nella predetta
materia, giustificato dalla prevalenza di
detta disposizione, per il suo carattere di
specialità e maggiore garanzia
procedimentale, sulla disciplina generale di
cui all'articolo 3, della legge 07.08.1990, n. 241, ancorché la relativa
delibera abbia natura di atto generale.
Pertanto, è illegittima la deliberazione
dell'amministrazione comunale che non abbia
indicato le ragioni per le quali, a fronte
della necessità di assicurare la copertura
totale della spesa, in assenza di dati certi
in ordine alla spesa e alle entrate, abbia
ritenuto di potere stabilire in una
determinata entità l'importo dell'aumento.
Il Consiglio di Stato, sezione V, con la
sentenza dell'11.08.2010, n. 5616,
ha richiamato l'articolo 61 del citato del
decreto legislativo 15.11.1993, n.
507, l'articolo 49 del decreto legislativo
n. 22, del 1997, nonché il summenzionato
articolo 69, comma 2, ed ha affermato che
«la delibera comunale impugnata (la causa
riguardava il comune di Terracina ed una
società sita nel territorio di detto comune)
è venuta sostanzialmente a modificare la già
vigente copertura minima del servizio (che è
un presupposto indispensabile delle tariffe
antecedenti) e di conseguenza doveva
specificamente esternare sulla base di dati
ufficiali le ragioni che avevano determinato
l'aumento per al copertura minima
obbligatoria del costo del servizio sulla
base dello stesso articolo 69, 2° comma, dlgs n. 507/1993, in connessione con le
altre disposizioni del medesimo decreto che
lo integrano».
L'amministrazione comunale, invece,
aggiungono i giudici, ha aumentato le
precedenti tariffe «senza avere dati certi
in ordine allo scostamento tra entrate e
costo del servizio, invocando genericamente
la necessità di assicurare la tendenziale
copertura totale della spesa, che non viene
in alcun modo indicata neppure per relationem»
(articolo ItaliaOggi
Sette del 06.02.2012). |
EDILIZIA PRIVATA: Impianti
fotovoltaici.
In materia di vincolo paesaggistico ed
autorizzazione paesaggistica per impianti
fotovoltaici, la compatibilità delle
innovazioni rispetto al vincolo
paesaggistico può essere valutata con
riferimento alla natura e dell'utilità delle
singole opere?
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar)
Lombardia, Brescia, sezione I, con la
sentenza n. 3726, del 04.10.2010, ha
affermato, in tema di vincolo paesaggistico
ed autorizzazione paesaggistica per impianti
fotovoltaici, che la compatibilità delle
innovazioni rispetto al vincolo
paesaggistico deve essere valutata
diversamente a seconda della natura e
dell'utilità delle singole opere. Pertanto,
non può essere vietata, facendo riferimento
alla loro semplice visibilità da punti di
osservazione pubblici, l'installazione di
pannelli fotovoltaici, «attualmente
considerati desiderabili per il contributo
alla produzione di energia elettrica senza
inconvenienti ambientali». Un eventuale
divieto, per i giudici amministrativi
lombardi, deve essere confortato dalla prova
dell'assoluta incongruenza delle opere
rispetto alla peculiarità del paesaggio.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar)
Calabria, Catanzaro, sezione I, con la
sentenza n. 3726, del 04.10.2010, ha
precisato che «l'impatto territoriale degli
impianti per la produzione di energia
eolica, sicuramente rilevante e tale da
giustificare l'esercizio dei poteri
urbanistici e paesaggistici, non è tuttavia
un elemento da considerare in via esclusiva,
dovendo l'attività in parola tenere conto
altresì, (e principalmente), dell'interesse
nazionale –costituzionalmente rilevante–
all'approvvigionamento energetico,
soprattutto se in forme non inquinanti, il
quale richiede la necessità, in base al
principio di proporzionalità, della precisa
indicazione delle ragioni ostative al
rilascio della autorizzazione paesaggistica,
al fine di eliminare sproporzioni fra la
tutela dei vincoli e la finalità di pubblico
interesse sotteso alla produzione e
utilizzazione dell'energia elettrica».
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar)
Lombardia, Brescia, sezione I, con la
summenzionata sentenza n. 3726, del
04.10.2010, ha sottolineato, pure, che il
lasso di tempo di soli tre giorni tra
l'avvio da parte della soprintendenza del
provvedimento di controllo
dell'autorizzazione rilasciata e la
successiva adozione del decreto di
annullamento non comporta automaticamente
l'illegittimità di quest'ultimo. Esso
preclude soltanto la possibilità di motivare
l'annullamento facendo riferimento a carenze
documentali, che, dicono i giudici, il
privato avrebbe potuto sanare se gli fosse
stato concesso un ragionevole lasso di tempo
(articolo ItaliaOggi
Sette del 06.02.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Provvedimento amministrativo annullato,
quali gli obblighi della P.A.?
Domanda.
Quali sono gli obblighi per la P.A.
dell'annullamento in sede giurisdizionale di
un provvedimento amministrativo?
Risposta.
In linea generale, l'attività procedimentale
posta in essere dalla P.A. in esecuzione di
un giudicato non può ignorare (o eludere) i
riferimenti normativi e le disposizioni
sopravvenute; al tempo stesso, in
applicazione del principio di effettività e
pienezza della tutela giurisdizionale,
l'annullamento in sede giurisdizionale di un
provvedimento comporta l'obbligo per la P.A.
di riesaminare l'originario procedimento
applicando la disciplina all'epoca vigente (03.02.2012
- tratto da www.ipsoa.it). |
NEWS |
INCARICHI PROGETTUALI: Progettazioni,
gare a rischio. Possibile paralisi dopo
l'abrogazione delle tariffe professionali.
Conseguenza della liberalizzazione per gli
affidamenti dei servizi di ingegneria e
architettura.
Rischio paralisi per le
gare di progettazione: con l'abrogazione
delle tariffe professionali niente più
riferimenti per la stima della base d'asta,
per i requisiti di partecipazione e per i
servizi svolti.
È questo l'effetto, se non sarà modificata
la norma in sede di conversione, connesso
all'applicazione dell'articolo 9 del
decreto-legge 24.01.2012 in materia di
liberalizzazioni nel settore delle gare per
affidamento di servizi di ingegneria e
architettura.
La norma del decreto prevede infatti
l'abrogazione delle «tariffe delle
professioni regolamentate nel settore
ordinistico», fra queste, quindi anche
quelle di ingegneri e architetti (legge
143/1949 e dm 04.04.2001). Non solo. La
norma stabilisce anche, al comma 4, che
siano abrogate anche le disposizioni vigenti
che per la determinazione del compenso
rinviano alle tariffe.
La norma del decreto-legge determina quindi
almeno una prima conseguenza sulla
determinazione del corrispettivo a base di
gara, dal momento che il Codice (art. 92,
comma 2) e il regolamento (dpr 207/2010262,
comma 2) stabilisce che i corrispettivi
previsti dal decreto ministeriale 04.04.2001
possono essere utilizzate per stabilire
l'importo a base di gara. Abrogando la
tariffa professionale gli uffici tecnici
delle stazioni appaltanti non potranno più
utilizzare questa possibilità e quindi, in
assenza di alcuna indicazione al riguardo,
dovranno stimare l'importo secondo altre
modalità, al momento non conosciute e non
chiare. Il rischio, ovviamente, è che la
base dell'appalto sia ulteriormente ridotta
e il contratto sia aggiudicato a un prezzo
molto ridotto (visto che la media dei
ribassi è pari al 40%).
In considerazione delle diverse norme del
dpr 207/2010 che fanno riferimento alle
tariffe professionali, ulteriori conseguenze
si determinano anche con riguardo ai profili
di qualificazione dei partecipanti.
L'articolo 263 del regolamento (per le gare
oltre i 100 mila euro) e l'articolo 267 (per
gli affidamenti al di sotto dei 100 mila
euro) infatti fanno proprio rinvio alle
classi e categorie delle vigenti tariffe
professionali per individuare i requisiti di
capacità tecnica; in particolare si deve
provare la propria capacità documentando
servizi appartenenti a lavori riconducibili
alle classi e categorie di cui all'articolo
14 della legge 143/1949. Difficile
immaginare quindi come, abrogata la legge
143, si possano documentare i requisiti. Il
problema assume una sua rilevanza anche in
sede di certificazione dei servizi svolti da
parte dei professionisti e delle società,
dal momento che le stazioni appaltanti non
hanno più alcun riferimento per classificare
i servizi svolti, risultando abrogato
l'articolo 14 della legge 143.
La cosa appare di non poca rilevanza anche
sotto il profilo dell'avvio e del
funzionamento dell'istituenda Banca dati
nazionale dei contratti pubblici prevista
dal decreto-legge sulle semplificazioni che
dovrebbe ricevere i certificati dei servizi
(di ingegneria e architettura) e che,
invece, per i progettisti rischia di non
ricevere nulla
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Viminale/
Eletti, oneri a carico degli enti.
Gli oneri connessi
all'esercizio del mandato elettorale sono a
carico degli enti in relazione agli
amministratori lavoratori dipendenti di
società pubbliche che, tuttavia, non sono
inserite nel conto economico consolidato
individuato dall'Istat ai sensi
dell'articolo 1, commi 2 e 3 della Legge
finanziaria 2010, o di quelle che non sono
presenti nell'elenco di cui all'articolo 1,
comma 2 del Testo unico sul pubblico
impiego.
È quanto precisa la
nota
17.01.2012 n. 739 di prot. emanata dal
Dipartimento per gli affari interni e
territoriali del Mininterno, riprendendo le
osservazioni che un recente parere del
Consiglio di stato ha reso noto sul punto.
Come noto, ai sensi dell'articolo 80 del
Tuel, gli oneri per i permessi retribuiti
dei lavoratori dipendenti da privati o da
enti pubblici economici, sono a carico degli
enti presso i quali gli stessi esercitano il
loro mandato elettivo. Il legislatore,
infatti, esclude espressamente i lavoratori
statali e quelli dipendenti da altri enti
pubblici, in quanto la finalità della
disposizione è quella di ristorare il
privato degli oneri derivanti dai permessi
concessi ai propri dipendenti per
l'esercizio del mandato elettorale. E non vi
è dubbio che il predetto ristoro «non
avrebbe senso se operato a favore di una
persona giuridica il cui capitale è pubblico».
Sul punto e, soprattutto, in assenza di una
chiara posizione legislativa o di un
indirizzo giurisprudenziale in merito, il
Consiglio di Stato, Sez. I -
parere 22.12.2011 n. 4782 (affare n.
706/2011), investito della
questione a proposito dell'eventuale
rimborso ad amministratori dipendenti della
società Ferrovie dello stato spa, propone
una soluzione applicativa delle disposizioni
contenute al citato articolo 80 Tuel.
In pratica, sono da ritenere amministrazioni
pubbliche tutte quelle indicate all'articolo
1, comma 2, del dlgs n. 165/2001, sono
altresì pubblici gli enti e gli altri
soggetti indicati nel conto consolidato
della p.a. tenuto dall'Istat e, infine,
tutte le società che la legge indica
espressamente quali soggetti giuridici di
diritto pubblico.
I soggetti giuridici al di fuori di queste
tre ipotesi (com'è il caso di Ferrovie dello
stato, ma anche di Trenitalia e Poste
italiane spa) per il Consiglio di stato sono
da considerare privati e, pertanto, non sono
a loro carico gli oneri dei propri
dipendenti
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Chiusura
per neve recuperata con ferie o permessi
retribuiti.
I lavoratori pubblici di Roma e provincia,
che non sono andati al lavoro nei giorni
scorsi a causa delle avverse condizioni
meteorologiche e in ossequio alle
disposizioni di chiusura degli uffici
pubblici contenute nelle ordinanze
prefettizie del 3 e 4 febbraio scorsi,
potrebbero essere costretti a dover
recuperare, con ferie o permessi retribuiti,
le giornate lavorative non svolte. Le
abbondanti nevicate, vere e proprie cause di
forza maggiore che impongono la chiusura
degli uffici pubblici per garantire la
sicurezza, non sono imputabili né al
lavoratore né al datore di lavoro. Di
conseguenza, quest'ultimo non è tenuto a
corrispondere la prestazione lavorativa.
A questa conclusione si perviene leggendo il
parere 25.05.2011 n.
50 dell'Aran
che, in risposta a un quesito sul punto, non
lascia margine ad alcun dubbio. I giorni non
lavorati vanno scomputati dalle ferie o dal
monte ore dei permessi retribuiti per motivi
personali che spettano ai lavoratori
annualmente per contratto.
Il quesito posto all'Aran chiedeva in che
termini considerare la prestazione
lavorativa, qualora la stessa non possa
essere effettuata per cause derivanti da
«eventi naturali o per provvedimenti autoritativi che impongono la chiusura
dell'amministrazione» (come si vede,
entrambi i casi ricorrono per il maltempo
che ha colpito la Capitale in questi
giorni).
Per l'Agenzia, nel caso in questione occorre
fare riferimento al concetto di «forza
maggiore», ovvero un evento che non è
imputabile né ai lavoratori né al datore di
lavoro, con la conseguenza «che quest'ultimo
non è tenuto a corrispondere la retribuzione
per le ore di mancata prestazione» (citando
sul punto l'articolo 2099 del codice civile
e la sentenza della Cassazione, sez. lav.,
n. 481 del lontano 1984).
Attenzione, nulla vieta alla stessa
amministrazione di corrispondere ugualmente
la retribuzione per i giorni in cui si è
verificata la situazione di forza maggiore,
ma a una condizione. Ovvero, che il
dipendente utilizzi, al fine di motivare
l'assenza, gli strumenti forniti dal
contratto collettivo di comparto, quali le
ferie, le festività soppresse, i permessi
retribuiti ex articolo 18 Ccnl del 1995 (18
ore annuali), oppure altre modalità previste
dal contratto per il recupero delle ore non
lavorate.
In pratica, il lavoratore romano che è
rimasto a casa, se ha già fruito dei
permessi retribuiti, si vedrà costretto,
alla riapertura degli uffici, a restare di
più in servizio per recuperare le ore non
lavorate causa maltempo
(articolo ItaliaOggi del 07.02.2012). |
VARI: Antiriciclaggio, nessuno si
salva dalle sanzioni oltre i mille euro. Le
novità operative dal 1° febbraio per i
pagamenti in contanti e assegni superiori
alla soglia.
Le disposizioni, gli obblighi e le connesse
sanzioni in tema antiriciclaggio, ivi
compresa, in particolare, l'applicazione
delle stringenti previsioni relative alla
«manovra Monti» sono operative a 360° a
partire dallo scorso 1° febbraio. È proprio
il caso di dire che di adempimenti ce n'è
per tutti, considerato che i soggetti
coinvolti sono non solo gli intermediari e i
professionisti del settore finanziario o
quelli dell'ambito contabile, ma anche le
imprese e i privati cittadini.
Ecco chi deve fare cosa nel panorama delle
problematiche collegate alla sanzionabilità
delle transazioni di contanti e titoli al
portatore oltre la soglia dei mille euro.
Rapporti finanziari fra privati. Dallo
scorso 06.12.2011, con le modifiche
apportate all'art. 49 del dlgs 231/2007 a
opera della cosiddetta «Manovra Monti» (dl
201/2011, conv. l. 22/12/2011, n. 214) è
stata ulteriormente abbassata la soglia
limite oltre la quale scatta la
tracciabilità obbligatoria dei pagamenti. In
pratica, sono stati così inibiti i pagamenti
in contanti fra soggetti privati, in unica
soluzione, a partire dai mille euro. Ma la
riduzione della soglia si estende anche
all'emissione di assegni liberi. Infatti,
anche gli assegni bancari e postali emessi
per importi pari o superiori a mille euro
dovranno avere, oltre che l'indicazione del
nome e della ragione sociale del
beneficiario (in assenza della quale i
titoli risulterebbero, di fatto, al
portatore), anche la clausola di
intrasferibilità. Gli assegni circolari,
vaglia postali e cambiari potranno, inoltre,
essere richiesti senza clausola di
intrasferibilità solo se inferiori a mille
euro.
In proposito, la stretta conseguente alla
soglia dei mille euro non sembra del tutto
immediatamente applicabile, e
conseguentemente sanzionabile, in capo al
soggetto privato che, nell'ambito dei suoi
rapporti finanziari con altri soggetti
privati, decida di movimentare valori
maggiori del limite ammissibile, sia
mediante un'unica transazione sia con più
operazioni frazionate. Si pensi, infatti, al
caso di due amici o parenti fra cui uno dei
due decide di prestare due mila euro
all'altro per esigenze contingenti e
quest'ultimo decida di spendere tale cifra,
sempre in contanti, per l'acquisto di generi
alimentari, vestiario e anche per il
pagamento di una bolletta di utenza.
Successivamente, il soggetto che ha ricevuto
il prestito restituisce lo stesso in
contanti in più rate, magari aggiungendo
anche qualche euro di interesse. In tale
situazione, data l'assenza di possibile
riscontro cartolare o di movimentazioni di
somme su conti correnti risulterà
praticamente impossibile rilevare
l'infrazione e applicare la sanzione. Non si
capisce, poi, a carico di chi ricadrebbe
l'onere di tale rilievo. Lo stesso dicasi
per il padre che elargisce 1.200 euro al
mese in contanti, affinché il figlio si
sostenga agli studi svolti fuori città, o
per il caso della pensionata che paga una
prestazione di servizi per totali mille
euro, svolta completamente in «nero» presso
la propria abitazione.
Rapporti banca-cittadino. A seguito del
polverone sollevato da più parti, in
particolare nei rapporti con le banche, per
il ridimensionamento della soglia delle
transazioni in contanti a mille euro, si era
creato allarmismo in merito al fatto che non
si potessero più prelevare o depositare
somme in contanti dai conti correnti e che,
nel caso di richieste in tal senso,
l'istituto di credito avesse dovuto far
compilare un apposito modello al cliente con
cui evidenziare e giustificare le ragioni
dell'operazione. Tutto è stato
successivamente chiarito a mezzo della
circolare Abi dell'11.01.2012
(richiamando quanto già evidenziato nella
circ. Mef del 04/11/2011), con la quale si
precisa che la soglia di mille euro si
applica esclusivamente ai trasferimenti di
denaro tra privati cittadini e non ai
versamenti e prelievi allo sportello.
È
pertanto pacifica l'effettuazione di
prelevamenti e versamenti bancari in misura
pari o superiore alla citata soglia senza
incorrere nell'irrogazione di specifiche
sanzioni, né dover evidenziare le ragioni
dell'operazione, in quanto non si configura
il trasferimento a terzi delle somme
richiesto dall'art. 49 del dlgs 231/2007,
poiché la quantità di denaro in questione
rimane a disposizione del medesimo soggetto.
Da non dimenticare, tuttavia, che le banche
sono tenute ad assolvere gli altri obblighi
previsti dalle disposizioni antiriciclaggio.
Laddove, infatti, le operazioni in contante
si prefigurassero eccessivamente frequenti
(per la stessa persona) e per importi
particolarmente elevati la banca dovrà
valutare se i comportamenti descritti
possano eventualmente configurare un'ipotesi
di operazione sospetta da segnalare al Mef,
ai sensi dell'art. 41 del medesimo decreto.
Rapporti fra impresa e privato. Facendo
riferimento alla soglia «off limit» dei
mille euro in contanti o titoli al
portatore, ipotizziamo quali potrebbero
essere le situazioni pratiche più
concretamente a rischio sanzionatorio
nell'ambito della normale operatività
quotidiana fra i privati e i soggetti con
partita Iva. Per esempio, non è ammissibile
lasciare un acconto in contanti di mille
euro per l'ordinazione di un arredamento
presso il negozio, come pure è irregolare
pagare in contanti la parcella di totali
1.200 euro di un avvocato, o, ancora,
costituisce violazione il pagare un
soggiorno in hotel, per 1.500 euro
complessivi in contanti direttamente presso
la hall.
Altresì non consentito, secondo il Mef (risposte giugno 2008), risulta il
pagamento in contanti, benché frazionato, di
un unico dividendo ultrasoglia corrisposto
dalla società a un socio, anche qualora tali
pagamenti venissero effettuati a distanza
superiore dei sette giorni (art. 1, lett. m)
del dlgs 231/2007) in quanto tale
frazionamento non deriva dal preventivo
accordo fra soci e società ma da una
decisione unilaterale di quest'ultima.
Addirittura, possiamo evidenziare che pure
il pagamento di una polizza assicurativa
presso l'agenzia costituirebbe irregolarità
se attuata in contanti oltresoglia, come
anche il pagamento di imposte e/o sanzioni
presso lo sportello di una esattoria.
Difatti solo nei confronti di banche e Poste
italiane viene espressamente prevista deroga
al divieto.
Il problema consiste nel fatto che, a
seguito del superamento della soglia lecita,
dovrebbe essere tanto l'operatore che riceve
il pagamento a rifiutare di ricevere il
contante, che colui che lo effettua a negare
la possibilità di saldare con denaro. Ma da
un punto di vista pratico il rischio
concreto si paventa solo allorché tale
transazione resti documentata esplicitamente
in una contabilità o a seguito di un
contratto scritto che contempli tali
specifici pagamenti, affinché,
successivamente, a seguito del vaglio ad es.
di un consulente tributario o di un Ced, o
di una verifica della Guardia di Finanza,
tale irregolarità possa essere riscontrata
nei documenti
(articolo ItaliaOggi
Sette del 06.02.2012). |
APPALTI: Contratti pubblici, la Banca dati
darà un taglio alle scartoffie. I vantaggi
del decreto semplificazioni: niente
certificati dagli appaltatori di servizi e
forniture.
Verifiche on-line per gli appalti pubblici
con l'avvio, a inizio 2013, della Banca dati
nazionale dei contratti pubblici, gestita
dall'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici; divieto di verifica sui requisiti
dei concorrenti con modalità diverse dalla
consultazione della Bdncp; gli appaltatori
di forniture e servizi, dall'01.01.2013, non dovranno quindi più produrre
certificati.
È una delle maggiori novità
contenute nel decreto legge sulle
semplificazioni per risolvere il problema
della qualificazione degli appaltatori
pubblici di lavori, forniture e servizi,
assicurando l'efficacia, la trasparenza e il
controllo in tempo reale dell'azione
amministrativa in materia di appalti, anche
sotto il profilo della prevenzione dei
fenomeni di corruzione. Con le norme
dedicate alla Bdncp si risolveranno quindi i
problemi legati all'eccessiva
burocratizzazione delle procedure che,
secondo alcune stime governative, portano
una azienda a produrre mediamente circa
trenta volte l'anno la stessa
documentazione.
In particolare, per le
piccole e medie imprese il risparmio sui
costi vivi della gestione amministrativa
delle gare si dovrebbe aggirare
complessivamente su oltre 140 milioni
all'anno, stando a quanto stimato dal
governo. Ma i benefici ci saranno anche per
le amministrazioni pubbliche le quali,
potendo effettuare i controlli sui
concorrenti attraverso il fascicolo
elettronico di ciascuna impresa, potranno
risparmiare 1,3 miliardi l'anno.
L'operazione avviata con il decreto legge
semplificazioni, stando al testo circolante
in questi giorni ed esaminato dal consiglio
dei ministri venerdì scorso, si basa sulla
banca dati che fu introdotta nel 2010 con il
comma 1 dell'art. 44, del dlgs 30.12.2010, n. 235. In particolare si prevede che
dall'01.01.2013 tutta la documentazione
relativa alla prova dei requisiti di
capacità economico-finanziaria e tecnico
organizzativa che i concorrenti devono
possedere per partecipare agli appalti dovrà
essere acquisita presso la Banca dati
nazionale dei contratti pubblici presso
l'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici, prevista dall'articolo 62-bis del dlgs 82/2005, introdotto nel 2010.
La
disposizione dovrebbe prevedere che
l'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici definisca innanzitutto quali dati,
utili alla partecipazione alle gare, nonché
alla verifica delle offerte, debbano essere
inclusi nella banca dati, nonché i termini e
le regole tecniche per l'acquisizione,
l'aggiornamento e la consultazione dei dati
contenuti nella predetta Banca dati. La
norma prevede che per l'attivazione della
banca dati tutti i soggetti pubblici e
privati che detengono dati e documenti
relativi ai requisiti di partecipazione,
abbiano l'obbligo di messa a disposizione
dell'Autorità di tali dati e documenti.
Parallelamente, gli operatori economici
saranno tenuti ad integrare i dati contenuti
nella Banca dati nazionale dei contratti
pubblici, creando un sistema dinamico e non
statico come invece è oggi quello basato
sulle Soa, ove i certificati hanno validità
quinquennale. Il meccanismo avrà una portata
fondamentale nel settore dei servizi e delle
forniture in cui, diversamente dai lavori,
non esiste un sistema di qualificazione dei
concorrenti.
All'obbligo di acquisizione della
documentazione da parte della Bdncp è
correlato l'obbligo per i committenti di
effettuare le verifiche dei requisiti di
capacità dei concorrenti esclusivamente
attraverso la banca dati, senza quindi più
chiedere documenti ai partecipanti alle
gare. Ciò significa che i partecipanti alle
gare potranno qualificarsi alle procedure
semplicemente con una autodichiarazione del
possesso dei requisiti di carattere generale
e speciale, mentre sarà cura del committente
che ha bandito la gara, verificare che
quanto dichiarato sia conforme alle
risultanze documentali rese disponibili a
questo fine dalla Banca dati nazionale dei
contratti pubblici.
Non si tratterà certamente di un percorso
facile, dal momento che occorrerà mettere in
linea e fare affluire nella banca dati una
rilevante mole di certificazioni
(soprattutto per i requisiti tecnici) e,
quindi, la necessità di un celere avvio
delle procedure di acquisizione di dati e
documenti appare centrale nell'applicazione
della norma.
---------------
False dichiarazioni nelle gare, sanzioni
soft.
Ridotta la pena dell'esclusione dalle gare
per false dichiarazioni, che potrà essere
anche inferiore a un anno; prevista la
responsabilità solidale fra committente e
appaltatore e subappaltatori per i
contributi e il tfr; nuovi modelli per la
certificazione dei lavori dei contraenti
generali.
Fra le numerose novità introdotte dal
decreto legge semplificazioni si segnala
innanzitutto la norma sulle sanzioni per
false dichiarazioni rese dai concorrenti che
partecipano ad appalti pubblici. A oggi il
Codice stabilisce che se un concorrente
presenta una documentazione falsa o rende
una dichiarazione falsa, la stazione
appaltante deve segnalare l'accaduto
all'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici che, se ritiene che siano state
rese con dolo o colpa grave in
considerazione della rilevanza o della
gravità dei fatti oggetto della falsa
dichiarazione o della presentazione di falsa
documentazione, dispone l'iscrizione nel
casellario informatico ai fini
dell'esclusione dalle procedure di gara e
dagli affidamenti di subappalto per un
periodo di un anno. Una volta trascorso
l'anno, l'iscrizione viene ex lege
cancellata e perde comunque efficacia. Il
decreto-legge modifica il termine di
esclusione dalle gare che, oggi è sempre di
un anno, prevedendo, con una maggiore
flessibilità, da mettere evidentemente in
relazione alla natura della fattispecie
concreta in cui incorre il concorrente, che
essa sia fino a un anno.
L'Autorità, quindi,
potrà irrogare anche una sanzione di sei
mesi o di tre mesi e non sarà obbligata,
come è oggi, a irrogare un anno di
esclusione dalle gare. Il provvedimento
prevede anche, per appalti di opere o di
servizi, la responsabilità in solido del
committente imprenditore o datore di lavoro
con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli
eventuali subappaltatori, entro il limite di
due anni dalla cessazione dell'appalto, per
il pagamento di trattamenti retributivi,
compreso il tfr, e i contributi
previdenziali dovuti in relazione al periodo
di esecuzione del contratto di appalto.
Modificata la certificazione dei lavori
svolti dai contraenti generali che ad oggi
certificano i lavori «eseguiti con qualsiasi
mezzo» sulla base di modelli previsti dal
codice dei contratti, allegato XXII. Con la
nuova norma si rinvia invece ai modelli
definiti dal regolamento del codice dei
contratti pubblici, il che dovrebbe deporre
per un tentativo di omogeneizzazione delle
certificazioni, pur tenendo presente la
differenza sostanziale fra le diverse
tipologie di imprese (imprese tradizionali e
contraenti generali).
---------------
Sì all'obbligo di gara sempre.
Per i beni culturali obbligo di gara sia per
le sponsorizzazioni di puro finanziamento,
sia per quelle tecniche di progettazione ed
esecuzione. Le amministrazioni dovranno
inserire gli interventi da inserire in un
apposito allegato al programma triennale;
gara a rilanci plurimi per l'individuazione
del maggiore finanziamento. È quanto prevede
il decreto legge in materia di
semplificazioni che detta una speciale
disciplina delle procedure per la selezione
di sponsor di interventi nel settore dei
beni culturali, aggiungendo un articolo (il
199-bis) al Codice dei contratti pubblici.
La nuova norma stabilisce innanzitutto che
anche gli interventi relativi ai beni
culturali, allo scopo di garantire il
rispetto dei principi generali di
economicità, efficacia, imparzialità, parità
di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, devono essere inseriti
all'interno della programmazione dei singoli
enti di spesa. Pertanto si impone alle
amministrazioni aggiudicatrici competenti in
materia di predisporre un apposito allegato,
da inserire all'interno del programma
triennale dei lavori, nel quale siano
indicati i lavori, i servizi e le forniture
per le quali l'amministrazione intende
individuare un soggetto privato che
sponsorizzi il finanziamento dell'intervento
o direttamente la realizzazione.
Strumentale alla messa a punto dell'allegato
è la redazione di «studi di fattibilità,
anche semplificati, o i progetti
preliminari»; importante notare che
nell'allegato l'amministrazione può anche
inserire proposte di sponsorizzazioni di
interventi, nella forma di dichiarazioni
spontanee di interesse alla sponsorizzazione
trasmesse da privati che, in questo caso, si
atteggerebbero da «promotori», sul modello
della disciplina prevista per la finanza di
progetto. Il decreto legge, stando al testo
esaminato dal consiglio dei ministri nei
giorni scorsi, stabilisce come debba essere
selezionato lo sponsor: l'amministrazione
dovrà emettere un bando e pubblicarlo sul
sito istituzionale per almeno 30 giorni e
darne notizia su almeno due dei principali
quotidiani a diffusione nazionale e sulla
Gazzetta ufficiale (anche su quella
dell'Unione europea, se si superano le
soglie comunitarie).
Nell'avviso deve essere indicato
sommariamente il tipo di intervento per il
quale si chiede la sponsorizzazione e il suo
importo «di massima» e il tempo necessario a
realizzarlo, sia pure a titolo indicativo.
Il bando dovrà espressamente chiarire la
natura della sponsorizzazione: o si chiedono
offerte per una sponsorizzazione di tipo
puramente finanziario, in cui lo sponsor può
anche decidere di accollarsi le obbligazioni
di pagamento dei corrispettivi dell'appalto
dovuti dall'amministrazione, oppure si
chiedono offerte tecniche tramite un
partenariato pubblico-privato (PPP) nel
quale lo sponsor privato si occupa della
progettazione e della realizzazione di parte
o di tutto l'intervento. In quest'ultimo
caso l'amministrazione deve anche prevedere
nel bando gli elementi e i criteri di
valutazione delle offerte che, comunque, per
tutte le tipologie di sponsorizzazione
dovranno pervenire in un termine non
inferiore a 60 giorni.
La valutazione delle offerte sarà effettuata
direttamente dall'amministrazione
aggiudicatrice, a eccezione dei casi in cui
si tratti di interventi particolarmente
complessi o il cui valore stimato sia
superiore a un milione di euro, per i quali
occorre nominare una commissione
giudicatrice.
La gara si svolge con offerte
di rilancio migliorative successive alla
fase di definizione della graduatoria, ma
occorre definire un termine massimo per i
rilanci. Il contratto viene quindi
aggiudicato al soggetto che ha offerto il
maggiore finanziamento o che ha proposto
l'offerta realizzativa giudicata migliore,
in caso di sponsorizzazione tecnica. In caso
di mancanza di offerte o in caso di offerte
inadeguate o inammissibili, la norma prevede
che sei mesi dopo la gara l'amministrazione
possa ricercare di sua iniziativa uno
sponsor, fermi restando i termini tecnici
indicati nel bando.
La norma del decreto legge fa anche salve le
disposizioni in materia di requisiti di
ordine generale e di capacità
economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa. Infine, con una
modifica all'articolo 26, si precisa che per
gli interventi in settori diversi dai beni
culturali, se è lo sponsor ad acquisire
forniture o servizi o a realizzare lavori a
proprie spese, e l'importo supera i 40 mila
euro, si applicano i principi del Trattato e
i requisiti per la qualificazione di
appaltatori e progettisti
(articolo ItaliaOggi
Sette del 06.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Imu, corsa alla fusione
catastale.
L'aliquota ridotta è applicabile a una sola
unità immobiliare. Come ottenere un
risparmio d'imposta grazie a operazioni
condotte assieme a un professionista.
Il geometra può rendere l'Imu più light.
L'accorpamento delle diverse unità
immobiliari che possono comporre
l'abitazione principale o la richiesta di
attribuzione della categoria catastale «F/2»
per gli immobili dichiarati inagibili o
inabitabili, sono operazioni che, grazie
all'intervento dei professionisti del
settore, possono portare a un consistente
risparmio d'imposta.
Senza dimenticare, poi,
la necessità del loro intervento per
l'iscrizione nel catasto dei fabbricati, da
effettuarsi entro il 30/11/2012, di tutte le
costruzioni rurali che risultano ancora
allibrate al catasto dei terreni.
Abitazione principale. Corsa contro il tempo
per la fusione catastale delle abitazioni
composte da più unità immobiliari
distintamente iscritte in catasto. È
l'effetto prodotto dall'art. 13, comma 2,
del dl n. 201/2011 il quale prevede che
l'aliquota ridotta Imu del 4 per mille (o
quella, comunque di favore, stabilita dal
comune tra il 2 e il 6 per mille) sarà
applicabile a «una sola» unità immobiliare,
ancorché il contribuente dimori abitualmente
e risieda anagraficamente in un compendio
immobiliare composto da più unità catastali
distintamente iscritte in catasto.
Viene
così superato, per via legislativa, il
principio, più volte enunciato dalla Corte
di cassazione, secondo il quale, ai fini
Ici, il contemporaneo utilizzo di più unità
immobiliari come abitazione principale non
costituiva ostacolo all'applicazione delle
agevolazioni previste per l'abitazione
principale a tutte le sue singole
componenti. In effetti, fin dall'avvio
dell'Ici, era sorto il problema circa
l'applicabilità del regime di favore
riconosciuto all'abitazione principale
(aliquota ridotta e detrazione d'imposta poi
sostituite, dal 2008, con l'esenzione
totale) nel caso in cui il fabbricato nel
quale dimorava abitualmente il contribuente
fosse costituito da due, o più, unità
iscritte singolarmente accatastate. Era il
caso, per esempio, di due appartamenti
contigui, uniti attraverso l'abbattimento di
un muro, che di fatto (ma non catastalmente)
erano divenuti un'unica abitazione.
Al
riguardo, il ministero delle finanze, con la
risoluzione n. 6/DPF/2002 precisò che in
tali ipotesi ci si trovava, in realtà, in
presenza di due unità immobiliari. E che
come tali andavano singolarmente e
separatamente soggette a imposizione: una
come abitazione principale con applicazione
delle agevolazioni e delle riduzioni per
questa previste e l'altra come seconda
abitazione, con l'applicazione dell'aliquota
ordinaria. Tale tesi non è stata però
condivisa dalla Corte di cassazione (sentt.
n. 25729/2007; n. 25902/2008; n. 3397/2010)
la quale ha statuito che il concetto di
«abitazione principale» non risulta
necessariamente legato a quello di «unità
immobiliare iscritta o che deve essere
iscritta nel catasto edilizio» né, di
conseguenza, limitato a una sola unità come
identificata catastalmente, ma viene in
rilievo esclusivamente per la speciale
considerazione, da parte del legislatore,
dello specifico uso quale «abitazione
principale» dell'immobile nel suo complesso.
Il principio affermatosi nella
giurisprudenza di legittimità, con riguardo
all'Ici, non può trovare ingresso nell'Imu,
atteso che l'art. 13, comma 2, del dl n.
201/2011 limita, inequivocabilmente, a una
sola unità immobiliare il concetto di
«abitazione principale». Va da sé che se i
contribuenti interessati non procederanno
tempestivamente alla fusione catastale delle
diverse unità immobiliari che, di fatto,
costituiscono la loro abitazione principale,
dal 2012 si troveranno a fruire
dell'aliquota ridotta del 4 per mille (oltre
alla detrazione d'imposta) solo per una di
dette unità catastali; le altre sconteranno
l'aliquota ordinaria del 7,6 per mille.
Difficoltà a procedere catastalmente nel
senso indicato si potrebbero incontrare
qualora sulle unità immobiliari da accorpare
gravassero diritti reali non omogenei
(esempio appartamento A di proprietà
esclusiva del marito e appartamento B in
comproprietà tra i coniugi), atteso che, in
tali casi, in base alla normativa catastale,
non è possibile fondere le distinte parti.
Va tuttavia precisato che, con nota del
21/02/2002, l'Agenzia del territorio ha reso
nota la possibilità di presentare
dichiarazioni di variazione con le quali
ogni porzione è iscritta autonomamente in
catasto con la dizione «PORZIONE DI U.I.
unita di fatto con quella di Foglio XX,
part. YY, Sub. ZZ» con attribuzione di
categoria e classe più appropriata,
considerando le caratteristiche dell'unità
immobiliare intesa nel suo complesso (cioè
derivante dalla fusione di fatto delle due
porzioni) e con rendita che viene associata,
a ciascuna di dette porzioni, in ragione
della relativa consistenza
(articolo ItaliaOggi
Sette del 06.02.2012). |
ENTI LOCALI - VARI: Cancellata
la riduzione del 50% sull'imposta.
Fabbricati inagibili scoperti
dall'agevolazione.
L'Imu cancella l'agevolazione, consistente
nella riduzione del 50% dell'imposta, che
l'Ici riconosceva ai fabbricati dichiarati
inagibili o inabitabili e di fatto non
utilizzati. Ciò sta a significare che dal
2012 i fabbricati dichiarati inagibili o
inabitabili pagheranno l'Imu in misura
piena, applicando l'aliquota ordinaria alla
base imponibile (ottenuta moltiplicando la
rendita, rivalutata del 5%, per il
coefficiente previsto in relazione alla
categoria catastale dell'immobile).
Coerentemente con tale precetto, l'art. 13
del dl n. 201/2011 ha abolito la lettera h)
del comma 1 dell'art. 59 del dlgs n.
446/1997 che consentiva ai comuni di
disciplinare, con il regolamento Ici, le
caratteristiche di fatiscenza sopravvenuta
del fabbricato, non superabile con
interventi di manutenzione, agli effetti
dell'applicazione della riduzione alla metà
dell'imposta. Occorre però rammentare che,
in virtù di quanto disposto dall'art. 3,
comma 2, del decreto 2/1/1998, è stata
istituita una categoria catastale denominata
«F/2 (unità collabente)» attribuibile alle
costruzioni non abitabili o agibili, e
comunque di fatto non utilizzabili a causa
di dissesti statici, di fatiscenza o
inesistenza di elementi strutturali e
impiantistici, ovvero delle principali
finiture ordinariamente presenti nella
categoria catastale, cui l'immobile è
censito o censibile.
Il classamento in
categoria «F/2» viene quindi riconosciuto in
tutti i casi in cui la concreta
utilizzabilità non è conseguibile con soli
interventi edilizi di manutenzione ordinaria
o straordinaria. La caratteristica degli
immobili così censiti è che essi risultano
esenti da attribuzione di rendita. Si
tratta, per essere meno precisi ma più
concreti, di unità immobiliari con rendita
catastale pari a zero.
Va tuttavia rimarcato
che la «migrazione» verso la categoria
catastale «F/2» richiede il rispetto della
sussistenza di precisi requisiti bene
esplicitati nella C3/95/98 del 22/10/1998
dell'ex Direzione centrale del catasto. Il
citato documento di prassi ministeriale
opera infatti una fondamentale distinzione
tra «inagibilità di carattere temporaneo» e
«degrado tale da compromettere
permanentemente l'utilizzazione del
fabbricato». Nel primo caso il classamento
(e quindi la rendita catastale) del
fabbricato non può essere modificato. Nel
secondo caso, invece, se il reddito
effettivo differisce dalla rendita catastale
per oltre il 50% e per un periodo di almeno
un triennio (art. 35 del Tuir), è possibile
la variazione in diminuzione della stessa
rendita seguendo la procedura, sopra
esaminata, che da anni trova specifica
disamina nell'appendice alle istruzioni alla
dichiarazione dei redditi (730 o Unico).
Seguendo pertanto le indicazioni fornite
dalla Direzione centrale del catasto, con la
predetta nota C3/95/98 del 22/10/1998, si
può quindi arrivare alle seguenti
conclusioni: 1) se il fabbricato viene
dichiarato inagibile, ma senza le aggravanti
che si vedranno nel punto successivo, l'Imu
deve essere corrisposta sulla base della
rendita catastale originariamente attribuita
senza alcuna agevolazione; 2) solo se la
predetta inagibilità comporta una riduzione
del reddito superiore al 50% per un periodo
di almeno un triennio, è possibile
accatastare l'unità immobiliare in categoria
«F/2» con rendita nulla.
Dal che ne dovrebbe
conseguire l'esclusione dall'Imu del
fabbricato accatastato in categoria «F/2»,
atteso che l'art. 5, comma 6, del dlgs n.
504/1992, richiamato espressamente dall'art.
13 del dl n. 201/2011, prevede che la base
imponibile dell'immobile in questione «è
costituita dal valore dell'area
edificabile», e non più dal valore catastale
dell'edificio, solo dal momento della
«demolizione del fabbricato» finalizzata
all'utilizzazione edificatoria dell'area
sottostante
(articolo ItaliaOggi
Sette del 06.02.2012). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti, suolo in gestione agevolata.
I materiali di riporto fuori dalla
disciplina tradizionale. Il decreto ambiente
rivede il dlgs 152/2006. Il regime giuridico
è quello legato al terreno.
Dal 25.01.2012 i materiali di riporto,
quale mix di materiali naturali e
artificiali sedimentati nel terreno, seguono
lo stesso regime giuridico ambientale del
suolo, con la possibilità (quindi) di essere
gestiti fuori dalla stringente disciplina
dei rifiuti. A stabilirlo sono le
disposizioni recate dal nuovo dl 2/2012
recante misure straordinarie e urgenti in
materia ambientale, decreto (pubblicato
sulla G.U. del 25.01.2012 n. 20 e in
vigore dallo stesso giorno) che rivede la
disciplina sancita dal dlgs 152/2006
(cosiddetto «Codice ambientale») in materia
di suolo.
La nuova disciplina del «suolo». Mediante
un'operazione di interpretazione autentica
il nuovo dl 2/2012 stabilisce che la nozione
di «suolo» recata dall'articolo 185 del dlgs
152/2006 deve essere riferita anche alle
«matrici materiali di riporto», sibillina
formula (prevista dall'allegato V, parte IV
del Codice ambientale) che sottende le
miscele eterogenee di materiali di origine
antropica e terreno naturale utilizzate
(storicamente) per riempimenti e
livellamenti del terreno, fino a integrarsi
con il suolo.
Al fine di allineare alle
novità in parola le altre norme del sistema,
lo stesso dl 2/2012 affida poi all'emanando
decreto Minambiente che riformulerà le
regole per gestire come sottoprodotti le
terre e rocce da scavo anche la
determinazione delle condizioni tecniche per
trattare come tali i materiali di riporto.
L'allargamento della nozione «suolo» ai
materiali di riporto provoca a valle
l'intera riformulazione del confine tra
«rifiuto» e «non rifiuto» previsto dal dlgs
152/2006.
Alla luce dell'interpretazione
autentica del codice ambientale imposta dal
dl 2/2012 appaiono infatti essere non più
considerabili come rifiuti: il terreno (non
scavato), anche se contenente materiali di
riporto; il suolo contaminato non scavato
(fermo restando gli obblighi di bonifica
stabiliti dallo stesso dlgs 152/2006), anche
(di nuovo) se contenente materiali di
riporto; il suolo non contaminato escavato
nel corso di attività di costruzione, purché
riutilizzato allo stato naturale nello
stesso sito a fini di costruzione, anche (e
la ripetizione è d'obbligo) se contenente
materiali di riporto.
Le altre novità all'orizzonte. Una vera e
propria rivoluzione della materia arriverà
con un futuro dm Ambiente (previsto
dall'articolo 184-bis del dlgs 152/2006) che
detterà le nuove regole per gestire come
sottoprodotti delle terre e rocce da scavo,
ossia il suolo e il sottosuolo derivanti da
opere quali sbancamenti, trivellamenti,
escavazioni, demolizioni, realizzazione di
costruzioni, lavorazioni materiali lapidei,
con concentrazioni di sostanze inquinanti
non superiori a determinati limiti massimi.
Le nuove regole, che dalla loro entrata in
vigore sostituiranno quelle attualmente
recate dall'articolo 186 del codice
ambientale, condizioneranno l'utilizzo dei
materiali da scavo fuori dal regime dei
rifiuti all'osservanza di precisi requisiti
qualitativi e all'adempimento da parte dei
loro gestori/utilizzatori finali di
particolari obblighi. A spingere
sull'adozione del nuovo decreto ministeriale
è intervenuto da ultimo il cosiddetto
«Decreto liberalizzazioni» (il dl 1/2012,
pubblicato sulla G.U. del 24.01.2012),
decreto d'urgenza che ha fissato per la fine
del prossimo marzo la deadline entro la
quale il dicastero dell'ambiente dovrà
adottare la nuova citata regolamentazione
sui sottoprodotti. Un'anticipazione della
nuova disciplina regolamentare è addirittura
prevista da un ulteriore provvedimento
d'urgenza in corso di approvazione.
Il
cosiddetto «Decreto infrastrutture»
attualmente allo studio del consiglio dei
ministri prevede infatti che nelle more
dell'emanazione del dm Ambiente in
questione, le terre e rocce da scavo
prodotte nell'esecuzione di opere possano
essere reimpiegate nel corso dello stesso o
di altro processo produttivo come
sottoprodotti (quindi senza passare dalla
disciplina dei rifiuti) anche se sottoposti
a trattamenti preventivi, purché si tratti
di trattamenti non diversi dalla «normale
pratica industriale», intendendosi per tale
(secondo il tenore del decreto in itinere)
anche la selezione granulometrica, la
riduzione volumetrica, la stabilizzazione a
calce o a cemento, l'essiccamento, la
biodegradazione naturale degli additivi
condizionanti. Che arrivi mediante l'atteso
decreto ministeriale o tramite il citato
decreto d'urgenza in corso di approvazione,
la legittimità del trattamento preventivo
coincidente con la «normale pratica
industriale» per il riutilizzo delle terre e
rocce da scavo in deroga alla disciplina sui
rifiuti trova suo fondamento direttamente
nell'articolo 184-bis del codice ambientale.
Come riformulato dal dlgs 205/2010 in
recepimento delle norme comunitarie in
materia di rifiuti (direttiva 2008/98/Ce),
l'articolo 184-bis del codice ambientale
ammette infatti tra i sottoprodotti le
sostanze e gli oggetti che (oltre a
rispettare le altre condizioni in materia)
sono sottoposti, dopo la loro produzione e
prima del successivo riutilizzo, a un
trattamento rientrante nella «normale
pratica industriale», nozione (come
interpretata dalla Corte di cassazione con
sentenza 26.09.2011 n. 34753) nella
quale rientrano le operazioni tipicamente
svolte in un determinato contesto produttivo
in vista del riutilizzo (articolo ItaliaOggi
Sette del 06.02.2012). |
ENTI LOCALI: Società,
sul Patto catena di rinvii. La sezione
Lombardia esclude il vincolo per gli enti
proprietari fino a quando la normativa è
incompleta.
L'obbligo di vigilanza riguarda tutte le
affidatarie dirette ma manca il decreto.
L'ALTRO CHIARIMENTO/ Nella gara a doppio
oggetto i compiti operativi da assegnare al
socio privato vanno decisi in base al
contratto di servizio.
L'assoggettamento al Patto di stabilità vale
per tutte le società in house che
siano affidatarie dirette di servizi
pubblici o strumentali, ai sensi
dell'articolo 18, comma 2-bis, del Dl
112/2008. Il vincolo si applica anche alle
società che gestiscono servizi pubblici
esclusi dal l'applicazione dell'articolo 4
del Dl 138/2011, in quanto l'articolo 18 ha
portata generale.
Gli enti soci delle società a totale
partecipazione pubblica, titolari di
affidamenti diretti di servizi pubblici o
strumentali senza gara, devono quindi
vigilare sull'osservanza del Patto da parte
degli organismi partecipati.
Considerato però che la norma rinvia a un
decreto la definizione delle modalità e
della modulistica, «non può farsi
derivare dalle predette norme l'obbligo
attuale, in capo agli enti controllanti, di
valutare il rispetto del Patto di stabilità
attraverso un bilancio consolidato
funzionale ad un'analisi della situazione
finanziaria della società unitamente a
quella dell'Ente locale».
Questo uno dei chiarimenti forniti dalla
Corte dei conti della Lombardia nella
delibera 7/2012, con cui ha risposto agli
oltre dieci quesiti presentati dal
presidente della provincia di Varese. L'ente
si era rivolto ai magistrati contabili in
quanto, prima di procedere alla costituzione
di un organismo partecipato per la gestione
del servizio idrico, voleva verificare quale
fosse la soluzione più idonea in relazione
alla concreta situazione giuridica e
contabile della Provincia.
Secondo la Corte dei conti, le società in
house affidatarie dirette della gestione di
un servizio pubblico a rilevanza economica
sono assoggettate al Patto.
Il Dl 1/2012 ha introdotto l'articolo 3-bis
al Dl 138/2011, stabilendo che «le
società affidatarie in house sono
assoggettate al Patto di stabilità interno
secondo le modalità definite dal Dm previsto
dall'articolo 18, comma 2-bis, del Dl
112/2008». Al contrario, le società che
hanno ricevuto l'affidamento della gestione
di servizi pubblici locali con procedura
competitiva sono escluse dal vincolo. Lo
stesso vale per la società mista il cui
socio privato sia stato scelto con gara,
anche se la procedura a evidenza pubblica
sia stata seguita solo per la scelta del
socio e in mancanza di una seconda gara per
il conferimento del servizio.
Per quanto riguarda il vincolo posto
dall'articolo 14 del Dl 78/2010, la Corte ha
ribadito che la gestione di un servizio
pubblico locale a rilevanza economica non
costituisce ex se una causa di
esclusione dall'applicazione di questi
limiti quantitativi alle partecipazioni
societarie da parte degli enti locali.
Per quanto concerne le modalità di
svolgimento della gara «a doppio oggetto»,
l'Amministrazione ha chiesto alla Corte
chiarimenti in merito agli specifici compiti
operativi che devono essere attribuiti al
socio privato per la gestione del servizio.
In particolare, è stato chiesto se tra i
compiti operativi possa essere compresa la
realizzazione diretta da parte del socio
degli interventi infrastrutturali o legati
alla manutenzione straordinaria, senza
l'obbligo da parte della società di
procedere a tali affidamenti mediante
procedure a evidenza pubblica.
In linea di principio i compiti operativi,
che devono rientrare nella procedura di gara
per la scelta del socio operativo di una
società mista per la gestione di un servizio
pubblico locale a rilevanza economica,
devono essere gli stessi oggetto del
contratto di servizio che regolerà i
rapporti tra gli enti e la società.
La Corte ha chiarito che è rimessa alla
discrezionalità del l'amministrazione
l'individuazione delle specifiche attività
da conferire al socio privato operativo e
delle modalità di svolgimento della
procedura.
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Le tappe
01 | MANOVRA 2008
L'inserimento delle società affidatarie
dirette ai vincoli del Patto di stabilità è
stato previsto dall'articolo 23-bis del Dl
112/2008
02 | DECRETO RONCHI
Il Dl 135/2009 ha riscritto la riforma dei
servizi pubblici locali rilanciando
l'obbligo
03 | DECRETO ATTUATIVO
Il Dpr 168/2010, attuativo della riforma, ha
rimandato a un decreto ulteriore il Patto
per le società
04 | «SALVA-ITALIA»
Il vincolo, abolito dal referendum, è stato
reintrodotto, rimandandolo allo stesso
decreto attuativo
(articolo Il Sole 24
Ore del 06.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI SERVIZI: Tre
vie per arrivare all'affidamento.
I servizi pubblici locali devono essere
affidati in base a un percorso rigoroso, che
parte dalla ridefinizione dei bacini
ottimali.
Le disposizioni introdotte dal Dl
1/2012 completano il quadro di riferimento
secondo una prospettiva di razionalizzazione
per area vasta, con le Regioni chiamate a
definire entro il 30.06.2012 gli ambiti
territoriali (con dimensione almeno
provinciale), per consentire scelte
gestionali produttive di economie di scala e
di vantaggi per l'utenza.
Sulla base di tale assetto territoriale, gli
enti affidanti (amministrazioni locali o
enti preposti alla governance degli ambiti
ottimali) devono elaborare un'analisi di
mercato, da tradurre nella
deliberazione-quadro per l'attribuzione dei
diritti di esclusiva, secondo lo schema che
verrà definito da un Dm entro il 31.03.2012. La formalizzazione dell'atto
esplicativo della possibilità di affidare un
servizio pubblico a un unico gestore ha
tuttavia un regime differenziato secondo la
dimensione dell'ente. I Comuni con meno di
10mila abitanti possono adottare la
deliberazione una volta completata
l'istruttoria, mentre gli altri devono
sottoporre preventivamente la decisione
all'Autorità garante della concorrenza e del
mercato.
L'Authority deve esprimere il proprio parere
obbligatorio entro 60 giorni, e su questa
base l'ente affidante deve adottare entro 30
giorni la delibera-quadro –che costituisce
un passaggio obbligatorio (senza il quale
non si può procedere all'affidamento del
servizio)– nell'ambito della quale può
essere definita anche la scelta di procedere
a un affidamento multiservizi.
La definizione dell'attribuzione dei diritti
di esclusiva della gestione di un servizio
pubblico locale con rilevanza economica
prelude allo sviluppo del percorso con gara
(che costituisce la procedura ordinaria) o
alla costituzione della società mista con
socio privato operativo o alla deroga
mediante conferimento diretto a società in
house.
La procedura selettiva è stata ulteriormente
caratterizzata dal Dl 1/2012 in termini di
massima garanzia per i fruitori del
servizio, con la previsione, tra i criteri
essenziali, dell'impegno del soggetto
gestore a conseguire economie di gestione
con riferimento all'intera durata
programmata dell'affidamento e a destinarle
alla riduzione delle tariffe da praticarsi
agli utenti.
Nel caso in cui la scelta si orienti in
alternativa sull'affidamento a una società
mista conforme ai parametri del partenariato
pubblico-privato di tipo istituzionale, con
selezione del socio privato mediante gara e
attribuzione contestuale allo stesso di
specifici compiti operativi, le
amministrazioni possono trasformare le
società attualmente affidatarie dirette,
configurandole come organismo da aprire alla
partecipazione del privato in relazione a un
affidamento ex novo di uno o più servizi.
La possibilità di utilizzare l'affidamento
in house, invece, è drasticamente limitata
dalla riduzione a 200mila euro del limite di
valore annuo del servizio attribuibile al
soggetto societario, che deve peraltro
essere conforme ai canoni comunitari. Nel
quadro delle norme relative al periodo
transitorio è tuttavia determinata la
possibilità di aggregare (con formule
diverse) società in house affidatarie di
gestioni esistenti, per una gestione
unitaria del servizio con riferimento
all'ambito ottimale limitata nel tempo (tre
anni, a partire dall'01.01.2013) e
sottoposta a significative condizioni.
Qualora gli enti locali riescano a definire
tale soluzione, infatti, il contratto di
servizio dovrà prevedere indicazioni
puntuali riguardanti il livello di qualità
del servizio reso, il prezzo medio per
utente, il livello di investimenti
programmati ed effettuati e obiettivi di
performance (redditività, qualità,
efficienza). Inoltre, la valutazione
dell'efficacia e dell'efficienza della
gestione e il rispetto delle condizioni
previste nel contratto di servizio saranno
sottoposti a verifica annuale da parte
dell'Autorità di regolazione di settore.
---------------
Le procedure
01|GARA
Procedura ordinaria di scelta del gestore
Sviluppo secondo criteri-base indicati dalla
normativa
Il gestore si deve impegnare a conseguire
economie di scala
Durata commisurata all'ammortamento degli
investimenti
Necessaria indicazione di indennizzo per
beni del gestore uscente non interamente
ammortizzati
02|SOCIETÀ MISTA CON SOCIO PRIVATO OPERATIVO
Procedura alternativa alla gara
È individuato con gara un socio privato, cui
sono attribuiti specifici compiti operativi
(cosiddetta doppia gara) e cui vanno
assegnate quote/azioni per almeno il 40% del
capitale sociale
Per la selezione si applicano i criteri
della gara
Nelle offerte va dato maggior peso alla
qualità del servizio
03|AFFIDAMENTO IN HOUSE
Procedura derogatoria rispetto a gara e
società mista
Possibile per servizi di valore inferiore a
200mila euro annui
Possibile solo a favore di società con
parametri «in house»
Divieto di frazionamento del servizio e
dell'affidamento
(articolo Il Sole 24
Ore del 06.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Al
via il check degli organici per non bloccare
le assunzioni.
DOPPIO BINARIO/
Il soprannumero di dipendenti va rilevato
dal confronto fra dotazione e presenze
mentre per le eccedenze occorre un esame di
merito.
Tutte le pubbliche amministrazioni devono
effettuare la ricognizione della presenza di
condizioni di eccedenze e di soprannumero
del personale assunto a tempo indeterminato:
il mancato rispetto di questo vincolo
determina la nullità delle assunzioni. Sono
fatti salvi solo i concorsi banditi entro il
2011.
È questo il primo effetto concreto del
nuovo testo dell'articolo 33 del Dlgs
165/2001 introdotto dalla legge 183/2011.
Questo documento deve essere necessariamente
redatto prima della programmazione annuale e
triennale del fabbisogno di personale e, al
più, ne può costituire la premessa.
La competenza appartiene alla Giunta: siamo
infatti in presenza di un atto di
programmazione non attribuito al Consiglio.
Nella sua preparazione occorre coinvolgere
attivamente la dirigenza: infatti matura
responsabilità disciplinare in capo al
dirigente responsabile inadempiente. Appare
opportuno che a tutti i dirigenti, ognuno
per la propria articolazione organizzativa,
sia assegnato un termine entro cui
effettuare la ricognizione. L'ente,
preferibilmente attraverso l'attività
istruttoria del dirigente del personale,
raccoglierà le indicazioni e le formalizzerà
in una deliberazione. Copia di questo atto
deve essere inviata al dipartimento della
Funzione pubblica: la mancanza, almeno fino
al momento attuale, di indicazioni operative
non esime le amministrazioni dall'obbligo di
effettuare questa comunicazione.
La presenza di personale in soprannumero,
cioè extra dotazione organica, può essere
agevolmente rilevata dal confronto tra i
dipendenti in servizio e la consistenza
delle dotazioni organiche. Il fenomeno si
può determinare o in presenza di una norma
che lo ha previsto (ad esempio le
stabilizzazioni di lavoratori socialmente
utili nei Comuni fino a 5mila abitanti con
oneri parzialmente a carico dello Stato o
dei lavoratori ex Eti) o per il mancato
trasferimento alle dipendenze del nuovo
gestore a seguito delle esternalizzazioni
della gestione dei servizi.
La rilevazione delle condizioni di eccedenza
richiede invece un esame di merito: le nuove
disposizioni non prevedono più l'utilizzo
degli stessi principi dettati per il settore
privato. Si fa riferimento alle esigenze
funzionali e alla condizione finanziaria.
Sul primo versante appare quindi necessario
che le amministrazioni procedano a una
rilevazione delle attività svolte, del
personale impegnato e degli strumenti
utilizzati. Ad esempio, la diminuzione di
certificati che si registrerà a seguito del
divieto del loro utilizzo da parte delle Pa
dovrebbe portare alla riduzione dei
dipendenti impegnati nel front office degli
uffici anagrafici.
E ancora, una volta che
il personale delle Province sarà assegnato a
Comuni o Regioni, si potrebbe determinare
questa condizione per gli uffici che
svolgono compiti di supporto (personale,
ragioneria, provveditorato, economato,
centro informatico eccetera). Il riferimento
alla condizione finanziaria sembra
determinare la possibile conseguenza che si
debba provvedere non solo nel caso di enti
in dissesto o strutturalmente deficitari, ma
anche per il mancato rispetto del tetto alla
spesa del personale o della soglia massima
del 50% nel suo rapporto con la spesa
corrente. La rilevazione dei fabbisogni
standard potrà dare utili indicazioni
operative sia per gli aspetti funzionali sia
per i costi.
Se la ricognizione rileva l'esistenza di
personale in soprannumero o eccedente
occorre informare i soggetti sindacali: da
questo atto decorrono i termini per il
collocamento in disponibilità di questo
personale
(articolo Il Sole 24
Ore del 06.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Competenze
anti-ritardi da chiarire.
È incerto se sia compito del sindaco o della
giunta individuare il responsabile.
LA PLATEA/
Anche i segretari e i direttori generali
possono essere incaricati di intervenire
come sostituti in caso di inerzia.
Tutela molto più forte dei cittadini e delle
imprese per i ritardi delle pubbliche
amministrazioni nell'adozione dei
provvedimenti di propria competenza,
previsione di un intervento sostitutivo e
possibilità di rapido avvio del l'azione di
responsabilità amministrativa in capo al
dirigente inadempiente.
Sono questi gli
strumenti con i quali il decreto legge sulle
semplificazioni, riapprovato venerdì scorso
dal Consiglio dei ministri, vuole
raggiungere il risultato di tagliare i tempi
dell'attività amministrativa, dando certezza
sul momento della sua conclusione. Questa
tutela si applica a tutti gli atti delle
pubbliche amministrazioni, quindi non solo
nel caso di mancata risposta a istanze, ma
anche per i ritardi nei pagamenti. Lo
strumento tecnico è la modifica della legge
241/1990.
Il legislatore ribadisce in primo luogo la
competenza dei tribunali amministrativi e
precisa l'applicabilità delle forme di
tutela contenute nel Codice sul processo
amministrativo. Le nuove regole non si
applicano ai procedimenti tributari.
I vertici politici devono individuare il
dirigente a cui sono attribuiti i poteri
sostitutivi in caso di inerzia: un solo
soggetto per ogni amministrazione. In caso
di mancata individuazione, provvede
direttamente il legislatore: questa
competenza è attribuita nell'ordine al
direttore generale, al dirigente del settore
o al funzionario di più elevato livello
presente nell'ente. Negli enti locali
occorre chiarire se la competenza
all'individuazione del dirigente a cui sono
attribuiti i poteri sostitutivi spetta alla
Giunta, in quanto organo che ha competenza
residuale generale, o ai sindaci, in quanto
spetta a loro la competenza al conferimento
e alla revoca degli incarichi dirigenziali:
la seconda soluzione appare preferibile. I
dirigenti individuati come sostituti in caso
di inerzia possono essere sicuramente anche
i segretari o i direttori generali; nei
Comuni sprovvisti di dirigenza possono
essere individuati anche nei titolari di
posizioni organizzative.
L'intervento del sostituto può essere
richiesto solamente dopo il decorso del
termine di conclusione dei procedimenti,
termine che ricordiamo essere in linea
generale fissato in 30 giorni e che i
regolamenti degli enti possono innalzare
fino a 90 giorni. Il sostituto deve
concludere il procedimento entro la metà del
termine e a tal fine può avvalersi della
struttura esistente o nominare un
commissario ad acta. Comunque,
dall'applicazione della disposizione non
devono derivare oneri aggiuntivi per l'ente.
In capo ai dirigenti inadempienti sono
previsti vari tipi di sanzione. I ritardi
determinano il maturare di responsabilità
dirigenziale o di risultato, oltre che di
responsabilità amministrativa e contabile:
gli organismi di valutazione devono tenere
conto di questo elemento nella valutazione
della performance. Va sottolineato che il
legislatore ha rafforzato una previsione già
esistente. Questo rafforzamento si manifesta
soprattutto nell'obbligo per il dirigente
individuato come sostituto di informare
annualmente il vertice politico dei
procedimenti in cui si è dovuto sostituire
ai dirigenti in ritardo nell'adozione di
provvedimenti amministrativi. Un ulteriore e
importante elemento di novità è dato dalla
previsione che questi comportamenti possono
determinare l'insorgere di responsabilità
amministrativa e, soprattutto, dalla
facilità con cui la relativa azione può
essere instaurata. Si dispone infatti che le
sentenze dei tribunali amministrativi che
condannano le Pa per ritardi nella risposta
ai cittadini possano essere in via
telematica inviate alla Corte dei conti; ma
soprattutto si stabilisce che debbano essere
inviate quelle passate in giudicato.
È ovvio che per Corte dei conti si debba
intendere la Procura e non le sezioni di
controllo; la possibilità di invio è una
formula molto generica e andrebbe meglio
precisata, soprattutto per individuare il
soggetto responsabile; l'obbligo di invio di
tutte le sentenze passate in giudicato è
fissato in modo tassativo: in questo modo si
forniscono immediatamente le informazioni
necessarie per l'eventuale instaurazione
dell'azione di responsabilità. Azione di
responsabilità che, sulla base della
giurisprudenza contabile consolidata, fissa
la misura del danno erariale nelle sanzioni
e interessi che l'ente ha dovuto versare al
privato, ivi compresi gli eventuali
risarcimenti danni.
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Il percorso per rimediare - Che cosa succede
in caso di ritardi della pubblica
amministrazione
- Le pubbliche amministrazioni devono
individuare il dirigente che interviene in
caso di ritardi
- Il sostituto è tenuto a informare l'ente a
proposito dei procedimenti in cui è
intervenuto
- Il sostituto conclude i procedimenti entro
la metà dei termini, anche tramite un
commissario ad acta
- Dei ritardi si tiene conto negativamente
nella valutazione delle performance
- Le sentenze che condannano le pubbliche
amministrazioni per ritardi sono inviate
alla Corte dei conti
(articolo Il Sole 24
Ore del 06.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Danno
erariale se la partecipata serve ad assumere.
L'abuso dello strumento societario
costituisce danno nei confronti delle casse
comunali.
Questo è il principio affermato dalla Corte
dei conti - Sezione prima giurisdizionale
centrale, con la sentenza n. 401/2011 (su
cui si veda anche Il Sole 24 Ore del 5
gennaio).
Nel caso la Corte, ribaltando le precedenti
assoluzioni, ha condannato gli
amministratori del Comune e della società
per la costituzione e la gestione
antieconomiche della partecipata, avendo
rappresentato queste, fra l'altro, una delle
cause del successivo dissesto dell'ente.
Il rilievo della decisione sta tutta nel suo
percorso motivazionale. Il Collegio ha
aderito alla tesi accusatoria che muoveva
dall'assunto che la società, al contrario di
quanto affermato nello statuto e negli atti
costitutivi, non sarebbe stata utilizzata
per rendere più efficienti ed economici i
servizi dell'ente, ma per perseguire scopi
occupazionali, estranei alle regole di
economicità e buona amministrazione.
Dagli atti è emerso che la costituzione
della società ha avuto come unico obiettivo
la tutela dei posti di lavoro di
cassintegrati, Lsu e addetti ai cantieri
scuola, al punto che il suo presidente ha
formalmente invitato l'amministrazione a
mantenere un adeguato livello occupazionale,
individuandovi lo scopo essenziale della
società.
La Corte non ha addebitato ai convenuti la
mancata adozione di altre soluzioni
economicamente più vantaggiose, quanto una
scelta che in sé avrebbe potuto essere
legittima e vantaggiosa per l'ente, ma solo
se non fosse stata compiuta ab origine e poi
perseguita, al solo fine di produrre un
vantaggio occupazionale.
Si specifica, inoltre, che un fine
occupazionale, pur presente nella
legislazione (articolo 10 del Dlgs
468/1997), non può essere perseguito
alterando le regole di sana ed economica
gestione, ma è legittimo soltanto se
compatibile con gli equilibri di bilancio
della società e del Comune.
Nel caso il danno erariale trova la sua
fonte in una gestione dissennata della
società che ha sostenuto spese di personale
incompatibili con le sue capacità
economiche, piegando l'organizzazione al
perseguimento di fini estranei allo (finto)
scopo sociale. L'analisi dei flussi
finanziari ha mostrato come le perdite della
società si siano risolte in un danno per le
casse comunali; il Comune ha riconosciuto
alla società non solo il corrispettivo
previsto nei contratti di appalto, ma anche
ulteriori provviste finanziarie.
Dalla vicenda si possono trarre anche alcune
considerazioni di carattere generale.
I veri costi della politica, verosimilmente,
si annidano in situazioni come queste e non
tanto e non solo nei costi diretti degli
apparati, che vanno comunque drasticamente
ridotti.
Si può ipotizzare, infine, che nel campo
della finanza pubblica si stiano affacciando
concetti simili all'abuso del diritto di
origine fiscale, finalizzati a evitare
l'utilizzo strumentale di istituti di per sé
legittimi, ma che diventano anomali se il
loro unico scopo sia quello di eludere
vincoli di finanza pubblica e norme di
contenimento della spesa
(articolo Il Sole 24
Ore del 06.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Speciale iter DL Semplificazioni/
Parcheggi pertinenziali, cessione possibile.
Il decreto semplificazioni interviene in
tema di parcheggi pertinenziali e stabilisce
che la proprietà dei parcheggi di pertinenza
delle abitazioni può essere trasferita
separatamente dalla unità immobiliare di
riferimento, a condizione che ciò avvenga
solo con contestuale destinazione del
parcheggio trasferito a pertinenza di altra
unità immobiliare sita nello stesso Comune.
La legge 24.03.1989 n. 122 (c.d. legge Tognoli) detta disposizioni anche in materia
di parcheggi e nel titolo III, all'art. 9
prevede che i parcheggi realizzati da
proprietari di immobili nel sottosuolo degli
stessi o nei locali siti al piano terreno
sono da destinarsi a pertinenza delle
singole unità immobiliari; il comma 5
dispone che in ragione del vincolo tali
parcheggi non possano essere trasferiti e
quindi ceduti separatamente dall'unità
immobiliare a cui i parcheggi medesimi sono
legati da vincolo pertinenziale.
La violazione di tale disposizione viene
sanzionata con la nullità dell'atto di
cessione (La giurisprudenza intervenuta su
tali aspetti ha comunque precisato che la
violazione del vincolo pubblicistico di
destinazione a parcheggio degli spazi da
utilizzare per tale scopo rende nulle solo
le clausole relative, ma non anche l'intero
negozio, con la conseguenza che il
trasferimento del bene resta valido e
all'acquirente spetta comunque il diritto di
ottenere il trasferimento della relativa
pertinenza).
Con il Decreto semplificazioni 2012, il
comma 5 dell'art. 9 suindicato viene
sostituito con un nuovo testo specificato
nell'art. 9 del decreto stesso.
In particolare, considerando la ratio che
caratterizza il provvedimento del Governo
Monti, a seguito della entrata in vigore
della norma viene meno il vincolo
pertinenziale che lega il parcheggio
all'unità immobiliare.
Il parcheggio potrà essere ceduto, pertanto,
separatamente dalla unità immobiliare, senza
che ciò comporti la nullità dell'atto di
cessione.
Purtuttavia, è necessario che il parcheggio
venga trasferito contestualmente a
pertinenza di altra unità immobiliare sita
nello stesso Comune.
Il nuovo testo della norma prevede
un'eccezione: stabilisce che la cessione non
può avvenire, pena la nullità dell'atto di
trasferimento, ove abbia ad oggetto
parcheggi realizzati su previsione dei
Comuni nell'ambito del programma urbano dei
parcheggi da destinare a pertinenza di
immobili privati, insistenti su aree
comunali o nel sottosuolo delle medesime (03.02.2012
- tratto da www.ipsoa.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il socio non può impugnare in via
autonoma i provvedimenti lesivi degli
interessi della società.
Il Consiglio di Stato ribadisce nella
sentenza in esame l'orientamento
giurisprudenziale secondo il quale "la
qualità di socio di una società non risulta
idonea ad individuare in capo al singolo un
interesse legittimo distinto da quello
proprio della società e non legittima,
pertanto, la proposizione di autonomo
ricorso contro il provvedimento lesivo di
interessi della società; riguardo ai
provvedimenti amministrativi lesivi degli
interessi della società è la società stessa
che deve eventualmente insorgere (attraverso
i suoi organi ordinari, tuttora esistenti e
legittimati); nelle persone dei soci possono
individuarsi soltanto interessi di mero
fatto all’accoglimento dei ricorsi proposti
dalle società incise, che consentono loro la
proposizione di atti di intervento ad
adiuvandum, ma non di impugnazioni in via
autonoma” (C.G.A.R.S., 22.10.2009, n.
980; 22.11.2007, n. 1053) (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 08.02.2012 n. 676 - massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Avere
password del database non salva da accesso
abusivo.
D'ora in avanti sistemi
informatici blindati. Infatti risponde del
reato di accesso abusivo anche chi ha la
password del database ma entra con finalità
diverse rispetto a quelle consentite dal
titolare di tale sistema.
Componendo un radicato contrasto di
giurisprudenza, le Sezz. unite penali
della Corte di Cassazione con la
sentenza 07.02.2012 n.
4694, hanno confermato la condanna a
carico di un carabiniere che, pur essendo
abilitato all'ingresso del sistema, lo aveva
fatto non a fini investigativi a lui
consentiti ma per svelare informazioni
riservate a una conoscente.
L'uomo si era difeso sostenendo che lui
possedeva la password di ingresso al sistema
e che per questo non era punibile ai sensi
dell'articolo 615-ter del codice penale,
indirizzato soltanto agli hacker. A questa
obiezione il massimo consesso di Piazza
Cavour ha risposto aderendo a una
giurisprudenza della quinta sezione penale
del Palazzaccio piuttosto restrittiva, che «integra
la fattispecie criminosa di accesso abusivo
ad un sistema informatico o telematico
protetto, prevista dall'art. 615-ter cod.
pen., la condotta di accesso o di
mantenimento nel sistema posta in essere da
soggetto che, pure essendo abilitato, violi
le condizioni e i limiti risultanti dal
complesso delle prescrizioni impartite dal
titolare del sistema per delimitarne
oggettivamente l'accesso. Non hanno rilievo,
invece, per la configurazione del reato, gli
scopi e le finalità che soggettivamente
hanno motivato l'ingresso al sistema».
Nel caso sottoposto all'esame del Supremo
collegio il maresciallo era stato
autorizzato ad accedere al sistema
informatico interforze soltanto per ragioni
«di tutela dell'ordine e della sicurezza
pubblica e di prevenzione e repressione dei
reati», con espresso divieto di stampare
il risultato. Insomma, spiega la Corte, si
tratta «di prescrizioni disciplinanti
l'accesso e il mantenimento all'interno del
sistema che, in quanto non osservate
dall'imputato, hanno reso abusiva l'attività
di consultazione esercitata in concreto,
prescindendosi dal successivo uso indebito
dei dati acquisiti e dalla predeterminazione
di una finalità siffatta».
In altri termini, il militare ha agito con
la consapevolezza della contrarietà alle
disposizioni ricevute e, quindi, del
carattere «invito domino» dell'accesso e
della permanenza fisica nel sistema, «e
ciò integra a evidenza il dolo generico
richiesto dalla norma, che non prevede
alcuna finalità speciale né lo scopo di
trarre profitto, per sé o per altri, ovvero
di cagionare ad altri un danno ingiusto»
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il parere di regolarità tecnica
non costituisce un requisito di legittimità
della delibera cui accede.
Il parere di regolarità' tecnica non
costituisce un requisito di legittimità
della delibera cui accede e pertanto non può
inficiarla, avendo esso solo lo scopo di
individuare il soggetto che formalmente
assume la responsabilità sul riscontro della
regolarità tecnica dell’atto: in altri
termini il contenuto della delibera o del
provvedimento, cui accede il parere, non è
costituito anche da quest’ultimo, atteso che
diversamente opinando la funzione latamente
consultiva di tali atti e dei relativi
autori (funzionari) finirebbe per sfociare
inammissibilmente con l’attività di
amministrazione attiva, confondendosi con
quest’ultima (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.02.2012 n. 650 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Eccezioni al principio di
immodificabilità dell'offerta negli appalti
pubblici.
Secondo la giurisprudenza del Consiglio di
Stato, fermo restando il principio che in un
appalto l’offerta, una volta presentata, non
è suscettibile di modificazione, pena la
violazione della par condicio tra i
concorrenti, considerato che obiettivo della
verifica di anomalia è quello di stabilire
se l’offerta sia, nel suo complesso, e nel
suo importo originario, affidabile o meno,
il giudizio di anomalia deve essere
complessivo e deve tenere conto di tutti gli
elementi, sia quelli che militano a favore,
sia quelli che militano contro
l’attendibilità dell’offerta nel suo
insieme: deve di conseguenza ritenersi
possibile che, a fronte di determinate voci
di prezzo giudicate eccessivamente basse e
dunque inattendibili, l’impresa dimostri che
per converso altre voci di prezzo sono state
inizialmente sopravvalutate, e che in
relazione alle stesse è in grado di
conseguire un concreto, effettivo,
documentato e credibile risparmio, che
compensa il maggior costo di altre voci
(nella specie, si era riconosciuto che il
maggior importo di alcune voci del costo
della manodopera rispetto a quello indicato
dall’impresa potesse essere compensato dal
maggior risparmio conseguito sul prezzo dei
contratti di fornitura) [Cons. St., sez. VI,
21.05.2009 n. 3146; Cons. St., sez. VI,
19.05.2000 n. 2908].
Dalla citata giurisprudenza si desume che
ciò che si può consentire è: a) o una
modifica delle giustificazioni delle singole
voci di costo (rispetto alle giustificazioni
già fornite), lasciando le voci di costo
invariate; b) oppure un aggiustamento di
singole voci di costo, che trovi il suo
fondamento o in sopravvenienze di fatto o
normative che comportino una riduzione dei
costi, o in originari e comprovati errori di
calcolo, o in altre ragioni plausibili. La
giurisprudenza ha infatti precisato che il
subprocedimento di giustificazione
dell’offerta anomala non è volto a
consentire aggiustamenti dell’offerta per
così dire in itinere ma mira, al contrario,
a verificare la serietà di una offerta
consapevolmente già formulata ed immutabile
[Cons. St., sez. V, 12.03.2009 n. 1451].
Quello che non si può invece consentire è
che in sede di giustificazioni vengano
apoditticamente rimodulate le voci di costo
senza alcuna motivazione, con un’operazione
di finanza creativa priva di pezze
d’appoggio, al solo scopo di “far
quadrare i conti” ossia di assicurarsi
che il prezzo complessivo offerto resti
immutato e si superino le contestazioni
sollevate dalla stazione appaltante su
alcune voci di costo (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 07.02.2012 n. 636 - massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Istanza
di condono in sanatoria: la richiesta del
Comune di integrazione documentale
interrompe il termine biennale per la
formazione del silenzio-assenso e il termine
triennale di prescrizione delle somme dovute
per oblazione e oneri concessori.
Il Consiglio di Stato nella controversia in
esame ha ritenuto non meritevole di censura
la sentenza impugnata che ha ritenuto non
formatosi il silenzio–accoglimento
sull’istanza di condono, né spirato il
termine triennale di prescrizione: ciò con
riguardo sia alle somme dovute a titolo di
conguaglio dell’oblazione sia a quelle
relative agli oneri concessori.
In particolare ad avviso del Consiglio di
Stato secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale il decorso dei termini
fissati dal diciottesimo comma dell’articolo
35 della legge 28.02.1985, n. 47
(ventiquattro mesi per la formazione del
silenzio–accoglimento sulla istanza di
condono edilizio e trentasei mesi per la
prescrizione dell’eventuale diritto al
conguaglio delle somme dovute) presuppone in
ogni caso la completezza della domanda di
sanatoria (accompagnata in particolare
dall’integrale pagamento di quanto dovuto a
titolo di oblazione per quanto attiene la
formazione del silenzio–accoglimento)
(C.d.S., sez. IV, 16.02.2001, n. 1012;
07.07.2009, n. 4350; 19.02.2008, n. 554;
sez. V, 19.04.2007, n. 1809; 21.09.2005, n.
4946).
E’ stato ulteriormente affermato che “la
mancata allegazione della documentazione
prevista dall’art. 35, comma 3, della legge
28.02.1985, n. 47, ha come effetto la
preclusione per l’istante di ottenere la
concessione in sanatoria per silenzio
prevista dal successivo comma 18 e non di
far considerare inesistente la domanda
stessa” (C.d.S., sez. V, 25.06.2002, n.
3441; 14.10.1998, n. 1468; 17.10.1995, n.
14401) e che qualora l’amministrazione
comunale, a fronte di un’istanza di
sanatoria, abbia invitato l’interessato a
presentare documentazione integrativa di
quella già prodotta “…interviene
l’interruzione del termine biennale
necessario al formarsi del silenzio assenso
della p.a. previsto dall’art. 35, comma 17,
della stessa legge, e l’inizio di un nuovo
termine dalla data di deposito di quanto
richiesto” (C.d.S., sez. V, 01.10.2001,
n. 5190).
Tali arresti costituiscono peraltro puntuale
applicazione del principio di cui all’art.
2935 C.C., secondo cui la prescrizione non
può decorrere se non dal giorno in cui il
diritto possa essere fatto valere (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 02.02.2012 n. 578 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il dipendente che ha svolto
mansioni superiori non può ottenere il
corrispettivo agendo ex art. 2041 c.c.
contro la P.A. per ingiustificato
arricchimento.
Secondo principi giurisprudenziali
consolidati, l’esercizio di mansioni
superiori da parte del personale dipendente
dalla pubblica amministrazione, ancorché con
attribuzione per atto formale, non comporta
alcun diritto, neppure per differenze
retributive, salvo espressa previsione
normativa dettata da norma speciale che
consenta l’attribuzione delle mansioni
superiori e la maggiorazione retributiva.
Ciò perché nell’ambito del pubblico impiego
è la qualifica e non le mansioni il
parametro al quale la retribuzione è
inderogabilmente riferita (cfr. tra le
tante, Cons. Stato, sez. VI, 29.05.2002, n.
2969; sez. V. 08.05.2002, n. 2452).
Tale orientamento muove dalla decisione
dell’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato n. 22 del 18.11.1999, che ha
evidenziato che la parametrazione della
retribuzione alla qualifica è conseguente
all’assetto rigido della pubblica
amministrazione sotto l’aspetto
organizzatorio, collegato anch’esso, secondo
il paradigma dell’art. 97 della Costituzione
ad esigenze primarie di controllo e
contenimento della spesa pubblica.
Invero, la sentenza impugnata ha fondato
l’accoglimento della domanda delle
differenze retributive sull’istituto
dell’indebito arricchimento di cui all’art.
2041 cod. civ., avendo ravvisato l’indebito
arricchimento della p.a. in danno del
dipendente. L’applicazione di tale istituto
di diritto privato al rapporto di pubblico
impiego è stato disconosciuto dalla
giurisprudenza amministrativa ravvisandosi
nella sua applicazione l’elusione del
principio della necessaria corrispondenza
tra qualifica e retribuzione e delle norme
poste a salvaguardia della stabilità
programmata dei costi per i servizi
amministrativi (Adunanza plenaria
23.02.2000, n. 12).
Il diritto del dipendente al corrispettivo
per l’espletamento di mansioni superiori non
può fondarsi sull’ingiustificato
arricchimento dell’amministrazione atteso
che l’esercizio di mansioni superiori alla
qualifica rivestita svolto durante
l’ordinaria prestazione lavorativa, non reca
alcuna diminuzione patrimoniale in danno del
dipendente (il c.d. depauperamento che
dell’azione ex art. 2041 cod. civ. è
requisito essenziale) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 02.02.212 n. 574 -
massima tratta da
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EDILIZIA PRIVATA:
Per il rilascio del titolo
edilizio e' sufficiente che la P.A.
riscontri in capo al richiedente l'esistenza
di una formale disponibilità sul bene.
Ha titolo al rilascio della concessione
edilizia non solo il proprietario o il
titolare di diritti reali, ma anche colui
che sia titolare di un diritto personale e
abbia, per effetto, di questo la facoltà di
eseguire i lavori (cfr. sul punto, Cons.
Stato, V, 28.05.2001, n. 2881). Il contratto
di locazione è, pertanto, titolo idoneo ad
opere, quali sono quelle in questione, di
carattere non irreversibile e temporalmente
collegate alla gestione del distributore di
carburanti. Né l’amministrazione comunale è
tenuta ad accertare l’assenso di terzi
all’attività del richiedente, o l’eventuale
danno che qualcuno potrebbe subire dal
provvedimento abilitativo, il quale viene
emanato solamente sulla scorta della
valutazione del titolo formale di
disponibilità dell’area edificabile e con
salvezza delle ragioni dei terzi.
In sostanza, non incombe all’amministrazione
comunale una particolare indagine sul titolo
che legittima l’interessato al rilascio
della concessione edilizia. Di conseguenza è
corretta la sentenza impugnata, laddove
assume il legittimo rilascio del titolo
abilitativo alle opere sulla base
dell’astratta riconducibilità delle opere ai
diritti rivenienti dal contratto di
locazione. Inoltre non grava
sull’amministrazione deputata al rilascio
della concessione edilizia un particolare
accertamento sulla misura dei diritti
rivenienti alle parti dal rapporto
obbligatorio che legittima al rilascio del
titolo.
L’amministrazione comunale, invero, rilascia
il titolo con la locuzione “salvi i
diritti dei terzi” proprio perché è
estraneo al suo potere l’accertamento di
eventuali limiti del richiedente
all’esercizio dell’attività edificatoria
(L’accertamento dell’eventuale lesione del
diritto soggettivo sulla cosa comune va
fatto valere davanti al giudice ordinario e
di tanto è consapevole la ricorrente che ha
proposto azione possessoria al giudice
ordinario a tutela delle sue pretese ragioni
all’immodificabilità degli accessi al
piazzale, domanda che non risulta sia stata
accolta) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.02.2012 n. 568 -
massima tratta da
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EDILIZIA PRIVATA: Sanzioni
urbanistiche: il titolare di diritti
immobiliari sul bene o su bene finitimi non
e' controinteressato anche ove abbia
sollecitato la P.A. all'adozione del
provvedimento sanzionatorio.
Nel giudizio avente ad oggetto la sanzione
urbanistica non è ravvisabile nel soggetto
titolare di diritti immobiliari sul bene o
su beni finitimi o che sia in rapporto di
vicinitas la posizione di contro
interessato, nemmeno allorquando tale
soggetto si sia attivato per l’adozione del
provvedimento sanzionatorio o abbia
contestato in altra sede anche
amministrativa l’abuso edilizio.
La qualità di controinteressato, al quale il
ricorso giurisdizionale deve essere
notificato entro il termine di legge, va
riconosciuta non già a chi abbia un
interesse, anche legittimo, a mantenere
efficace il provvedimento impugnato -e men
che mai a chi ne subisca conseguenze
indirette o riflesse-, ma soltanto al
soggetto che da quest'ultimo riceve un
vantaggio diretto ed immediato, ossia il
vantaggioso accrescimento della propria
sfera giuridica.
Siffatto riconoscimento opera non in
relazione ad esigenze processuali, ma deve
essere condotto sulla scorta del c.d.
elemento "sostanziale"
(individuazione della titolarità di un
interesse analogo e contrario alla posizione
legittimante del ricorrente), oppure del
c.d. elemento "formale" (indicazione
nominativa nel provvedimento di colui che ne
abbia un interesse qualificato alla
conservazione) (cfr. tra le tante, Consiglio
Stato, sez. V, 03.07.1995, n. 991)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.02.2012 n. 567 -
massima tratta da
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ENTI LOCALI: Non
e' applicabile lo "spoil system" alla revoca
di componenti del Consiglio di
amministrazione di un ente che non si
configurano come rappresentanti dell’ente
locale.
Ad avviso del Consiglio di Stato alla
fattispecie in esame afferente la revoca del
ricorrente dalla carica di Consigliere di
amministrazione di una Fondazione composta
da vari enti locali e dalla Provincia che a
suo tempo aveva provveduto alla relativa
nomina non risulta applicabile l’art. 50, co
8, del T.U. degli enti locali, in forza del
quale sulla base degli indirizzi stabiliti
dal consiglio il presidente della provincia
provvede alla nomina, alla designazione e
alla revoca dei rappresentanti della
provincia presso enti, aziende ed
istituzioni.
In particolare a seguito di elezioni, con
conseguente avvicendamento della maggioranza
politica, il Presidente della Provincia, sul
presupposto del carattere fiduciario di tale
nomina disponeva con decreto la revoca
dell'incarico. L’interessato proponeva,
quindi, ricorso avverso tale provvedimento
che veniva respinto dal Tar sul presupposto
della competenza della Provincia a
provvedere sulla base del rapporto
fiduciario di cui all'art. 50 del T.U.E.L..
Il Consiglio di Stato investito della
vicenda, ha accolto l'appello ritenendo
inapplicabile il c.d. spoil system
alla revoca di amministratori di un ente che
in base allo statuto dell'ente stesso non
siano espressamente individuati come
rappresentanti dell’Amministrazione, né da
esso risulti un rapporto di esponenzialità
politica con l'amministrazione in carica
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.02.2012 n. 566 -
massima tratta da
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APPALTI: Nei
bandi di gara la P.A. può richiedere
requisiti più rigorosi rispetto a quelli
previsti dalla legge.
Costituisce invero jus receptum
(C.d.S., sez. V, 04.08.2010, n. 5201;
19.11.2009, n. 7247; 06.04.2009, n. 2138)
che i bandi di gara di appalti pubblici
possono contenere requisiti di
partecipazione più rigorosi di quelli
prescritti dalla legge, purché non
discriminanti ed abnormi rispetto alle
regole proprie del settore, e possono
pertanto pretendere l’attestazione di
requisiti di capacità diversi ed ulteriori
rispetto a quelli previsti dalla legge, ciò
rientrando nell’esercizio del potere
discrezionale dell’amministrazione
finalizzato a dare corretta attuazione ai
principi di imparzialità e buon andamento
predicati dall’articolo 97 della
Costituzione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.02.2012 n. 564 -
massima tratta da
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ATTI AMMINISTRATIVI: La
domanda di accesso ai documenti non può
essere spropositata rispetto all'interesse
conoscitivo del richiedente.
Il diritto di accesso non è meramente
strumentale alla proposizione di una azione
giudiziale, ma ha carattere autonomo
rispetto a essa, cosicché il giudice
dell’accesso deve accertare solo l’esistenza
dei presupposti che legittimano la richiesta
di accesso e non anche la necessità di
utilizzare gli atti richiesti in un altro
giudizio, ad es. dinanzi al giudice civile,
fermo restando però che la disciplina
sull’accesso non può essere rivolta a
tutelare l’interesse a eseguire un controllo
generico e generalizzato sull’attività della
P. A..
Detto altrimenti, la necessaria sussistenza
di un interesse diretto, concreto ed
attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al
documento a cui è chiesto l’accesso, alla
quale fa riferimento l’art. 22/B) della l.
n. 241/1990 non significa che l’accesso sia
stato configurato dal legislatore con
carattere meramente strumentale rispetto
alla difesa in giudizio della situazione
sottostante; esso assume invece una valenza
autonoma, non dipendente dalla sorte del
processo principale e dalla stessa
possibilità di instaurazione di tale
processo.
In questa prospettiva, il collegamento tra
l'interesse giuridicamente rilevante del
soggetto che richiede l’accesso e la
documentazione oggetto della relativa
istanza, sancito dall’art. 22/B) della l. n.
241/1990, non può che essere inteso in senso
ampio, posto che la documentazione richiesta
deve essere, genericamente, mezzo utile per
la difesa dell'interesse giuridicamente
rilevante, e non strumento di prova diretta
della lesione di tale interesse (Cons. St.,
V, 3309/2010 e ivi rif.).
La giurisprudenza (Cons. St., V, nn. 5226 e
3309 del 2010) ha aggiunto che la domanda di
accesso ai documenti amministrativi non può
essere palesemente sproporzionata rispetto
all'effettivo interesse conoscitivo del
soggetto richiedente, il quale deve
specificare il nesso che lega il documento
richiesto alla propria posizione soggettiva,
ritenuta meritevole di tutela; detta domanda
deve, inoltre, indicare i presupposti di
fatto idonei a rendere percettibile
l'interesse specifico, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al
documento “de quo” (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 02.02.2012 n. 554 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Valutazione
del costo del lavoro dipendente indicato
nella offerta di gara.
Secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, il mancato rispetto dei
limiti tabellari afferenti il costo del
lavoro non determina l’automatica esclusione
dalla gara, costituendo piuttosto un
importante sintomo di anomalia dell’offerta,
da verificare mediante un complessivo
giudizio di rimuneratività, chiedendo
all’impresa le giustificazione di merito
(C.d.S., III, 07.03.2011, n. 1419;
09.11.2010, n. 7967) (Consiglio di Stato,
Sez. V, sentenza
02.02.2012 n. 551 - massima
tratta da www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L'impresa
ha l'onere di partecipare alla gara per
poter contestare le clausole del bando
ritenute lesive dei propri legittimi
interessi.
E' principio giurisprudenziale consolidato e
di recente ribadito dalla Adunanza Plenaria
di questo Consiglio, quello secondo il quale
la legittimazione al ricorso, nelle
controversie riguardanti l’affidamento dei
contratti pubblici, spetti esclusivamente ai
soggetti partecipanti alla gara, poiché solo
tale qualità si connette all’attribuzione di
una posizione sostanziale differenziata e
meritevole di tutela.
In questa veste, il ricorrente che ha
partecipato legittimamente alla gara può far
valere tanto un interesse “finale” al
conseguimento dell’appalto affidato al
controinteressato, quanto, in via
alternativa (e normalmente subordinata)
l’interesse “strumentale” alla
caducazione dell’intera gara e alla sua
riedizione (sempre che sussistano, in
concreto, ragionevoli possibilità di
ottenere l’utilità richiesta). Ma
l’interesse strumentale allegato, in questo
modo, potrebbe assumere rilievo,
eventualmente, solo dopo il positivo
riscontro della legittimazione al ricorso.
La situazione legittimante costituita dalla
partecipazione alla procedura, quindi,
costituisce, tuttora, la condizione
necessaria per acquisire la legittimazione
al ricorso (cfr. Ad. Plen. n. 4/2011).
Una eccezionale deroga al principio testé
annunciato, sempre come precisato
dall’Adunanza Plenaria, può peraltro
rinvenirsi nella ipotesi dell’operatore del
settore a cui sia oggettivamente impedita la
partecipazione alla procedura selettiva, in
virtù di una specifica clausola direttamente
ed immediatamente escludente del bando. In
tali circostanze, infatti, la certezza del
pregiudizio determinato dal bando rende
superflua la domanda di partecipazione e
l’adozione di un atto esplicito di
esclusione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.02.2012 n. 550 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
cauzione costituisce parte integrante
dell’offerta.
La cauzione costituisce parte integrante
dell’offerta e non mero elemento a corredo
della stessa, per cui essa non può
ragionevolmente essere oggetto di
regolarizzazione postuma, pena la violazione
del fondamentale principio della par
condicio dei concorrenti.
Ne consegue, come già rilevato dalla Sezione
in sede cautelare con l’ordinanza n.
2283/2009, che la richiesta di
regolarizzazione non può essere formulata
dalla stazione appaltante se vale ad
integrare documenti che, in base a
previsioni univoche del bando o della
lettera d’invito, avrebbero dovuto essere
prodotti a pena di esclusione ... e che
pertanto, in ogni caso, non poteva
applicarsi l’art. 46 d.lgs. n. 163/2006 alla
polizza fideiussoria non legalizzata.
Né, peraltro, la clausola in questione
risulta illegittima “poiché essa si
risolverebbe in una formalità non essenziale
e non prevista dalla disciplina sugli
incanti pubblici”, come ritenuto
dall’appellante. E’ del tutto ragionevole,
infatti, che la stazione appaltante
nell’ambito dei suoi poteri discrezionali
richieda tassativamente o l’originale della
polizza fideiussoria o la copia con firma
legalizzata (escludendo succedanei), non
costituendo di certo tale prescrizione un
aggravio del procedimento, ma un incombente
di facile esecuzione adoperando una più che
normale diligenza nella predisposizione
della documentazione di gara (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 02.02.2012 n. 549 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Qualora
non si approvi nei trenta giorni
l'aggiudicazione provvisoria la stessa si
intende comunque approvata.
Nella controversia in esame il ricorrente si
doleva dell'inosservanza del termine di
trenta giorni per l’aggiudicazione
definitiva previsto dall’art. 12 del codice
degli appalti. Il Consiglio di Stato ha
ritenuto infondata la suddetta censura dal
momento che la norma fissa un termine
massimo di 30 giorni per la approvazione
della aggiudicazione provvisoria, da parte
dell’organo competente, decorso il quale,
l’aggiudicazione si intende comunque
approvata.
Trattasi, dunque, di una norma atta a
snellire la procedura e non a fissare il
termine il cui decorso è condizione perché
l’organo competente possa provvedere alla
approvazione della aggiudicazione
provvisoria (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.02.2012 n. 549 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
"lex specialis" prevale sul principio di
"favor partecipationis".
I criteri ermeneutici del "favor
partecipationis", di adeguatezza, di
proporzionalità e di "non aggravamento"
della procedura concorsuale hanno natura
sussidiaria e vengono in rilievo nel caso in
cui la lettera del bando di gara d'appalto
pubblico non sia univoca e lasci spazio a
dubbi ed incertezze, mentre, nel caso in cui
il bando commini espressamente l'esclusione
obbligatoria, in presenza di determinate
violazioni, la P.A. è tenuta a dare precisa
ed incondizionata esecuzione a tale
previsione, restando preclusa, anche
all'interprete, ogni valutazione circa la
rilevanza dell'inadempimento, l'incidenza di
questo sulla regolarità della procedura
selettiva e la congruità della sanzione
contemplata nella "lex specialis",
alla cui osservanza la P.A. si è
autovincolata al momento dell'adozione del
bando (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.02.2012 n. 546 -
massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: La
dichiarazione di pubblica utilità, esplicita
o implicita, è presupposto indefettibile del
decreto di espropriazione, tanto che l’art.
8 del d.p.r. 2001 n. 327 considera la d.p.u.
un presupposto di emanazione del decreto di
espropriazione.
Del resto, l’art. 23 del d.p.r. n. 327/2011
consente l’adozione del decreto di
espropriazione solo entro il termine di
efficacia della dichiarazione di pubblica
utilità.
In tal senso, un consistente orientamento
giurisprudenziale giunge a qualificare in
termini di presupposizione necessaria la
relazione che intercorre tra la
dichiarazione di pubblica utilità e il
decreto di espropriazione, sicché
l’annullamento con efficacia retroattiva
della prima determina la caducazione
automatica del secondo, comunque emanato.
Invero, è del tutto pacifico l’orientamento
giurisprudenziale che considera la
dichiarazione di pubblica utilità, esplicita
o implicita, come nel caso di specie, quale
presupposto indefettibile del decreto di
espropriazione, tanto che l’art. 8 del
d.p.r. 2001 n. 327 considera la d.p.u. un
presupposto di emanazione del decreto di
espropriazione.
Del resto, l’art. 23 del d.p.r. n. 327
consente l’adozione del decreto di
espropriazione solo entro il termine di
efficacia della dichiarazione di pubblica
utilità.
In tal senso, un consistente orientamento
giurisprudenziale giunge a qualificare in
termini di presupposizione necessaria la
relazione che intercorre tra la
dichiarazione di pubblica utilità e il
decreto di espropriazione, sicché
l’annullamento con efficacia retroattiva
della prima determina la caducazione
automatica del secondo, comunque emanato
(cfr. Consiglio di stato, sez. IV,
30.06.2003, n. 3896; Consiglio di stato,
sez. IV, 29.01.2008, n. 258; Consiglio di
stato, sez. IV, 19.03.2009, n. 1651. Va,
però, dato atto dell’esistenza di un diverso
orientamento che esclude l’automatica
caducazione in ragione dell’autonomia
dell’effetto ablatorio riconducibile al solo
decreto di espropriazione, così Consiglio di
stato, sez. IV, 27.03.2009, n. 1869; TAR
Puglia Lecce, sez. I, 07.07.2010, n. 1694)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 01.02.2012 n. 353 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In una gara pubblica solo un
documento presentato, anche parzialmente,
può essere regolarizzato.
Il rimedio della regolarizzazione
documentale di cui all'art. 46, del d.lgs.
n. 163/2006, non si applica al caso in cui
l'impresa concorrente abbia integralmente
omesso di presentare la documentazione la
cui produzione è richiesta a pena di
esclusione dal bando di gara. Solo qualora
la documentazione prodotta da un concorrente
ad una pubblica gara sia presente, ma
carente di taluni elementi formali, in modo
che sussista un indizio del possesso del
requisito richiesto, l'Amministrazione non
può pronunciare l'esclusione dalla
procedura.
In tal caso essa è tenuta a richiedere al
partecipante di integrare e chiarire il
contenuto di un documento già presente,
costituendo siffatta attività acquisitiva un
ordinario “modus procedendi”,
ispirato all'esigenza di far prevalere la
sostanza sulla forma. In sostanza, solo
quando il documento è già stato presentato
in sede di gara, anche se parzialmente, deve
ritenersi consentita la sua regolarizzazione
se la violazione è squisitamente formale ed
il rimedio, in concreto, non altera la "par
condicio" tra i concorrenti.
Pertanto, nel caso in esame, in cui la
dichiarazione attestante la capacità
economica e la solvibilità di detta società
non era stata presentata, comunque
l’Amministrazione non avrebbe potuto far
ricorso all’istituto della integrazione
documentale.
La possibilità di integrazione della
documentazione incompleta depositata nei
termini assegnati nel bando di gara,
inoltre, non poteva comunque essere
esercitata in questa vicenda perché volta ad
integrare documenti che avrebbero dovuto
essere prodotti a pena di esclusione in
quanto attinenti a requisiti essenziali per
la partecipazione (Consiglio Stato, sez. V,
02.08.2010, n. 5084) (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza
31.01.2012 n.
467 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: L'utilizzo
dello strumento della proroga dei contratti
in scadenza deve avere carattere eccezionale
e può essere legittimamente deliberato nel
rispetto dei vincoli e delle condizioni
previste dalla normativa in vigore. Nello
specifico, l'art. 23 della legge 18.04.2005
n. 62 stabilisce che i contratti per
acquisti di forniture di beni e di servizi
scaduti, o che vengano a scadere nei sei
mesi successivi alla data di entrata in
vigore della suddetta legge, possono essere
prorogati per il tempo strettamente
necessario alla stipula dei nuovi contratti
a seguito dell'espletamento di gare ad
evidenza pubblica, a condizione che la
proroga non superi comunque i sei mesi e che
il bando di gara venga pubblicato entro e
non oltre novanta giorni dalla data di
entrata in vigore della citata legge.
In materia di contratti stipulati dalla
Pubblica Amministrazione con contraenti
privati, la violazione di norme imperative
finalizzate ad assicurare i valori di buon
andamento ed imparzialità dell'azione
amministrativa di cui all'art. 97 della
Costituzione, comportando il difetto della
capacità di agire dell'Amministrazione,
denota il vizio genetico della formazione
della volontà e della scelta del contraente,
in un ambito che attiene pur sempre
all'assolvimento di funzioni amministrative,
riflettendosi sulla validità dell'atto di
alienazione, con le conseguenze dell'art.
1418, comma 1, c.c. Se è vero che la
violazione delle norme imperative o più
genericamente. la violazione di legge è
dalla normativa in materia (art. 21-octies
l. n. 241/1990 s.m.i.) espressamente
richiamata con riferimento alla sola
annullabilità, ciò non toglie che lo stesso
vizio sia in grado di provocare la nullità
ove comporti la mancanza di uno degli
elementi essenziali del! 'atto, come nel
caso di mancanza di capacità di agire
dell’'amministrazione. La patologia in
oggetto è stata individuata come nullità
strutturale dell'atto, tale da renderlo
totalmente improduttivo di effetti e non
abbisognevole di interventi caducatori di
secondo grado.
Ed invero osserva il Collegio, come
giustamente chiarito dalla difesa
dell’Amministrazione resistente, che
l'impugnato provvedimento di autotutela si
regge su un supporto motivazionale
certamente congruo ed immune da vizi essendo
del tutto conforme al paradigma di cui
all'art. 3, terzo comma, L. n. 241/1990
s.m.i., qual è il richiamo, nel quart'ultimo
cpv. di pag. 3 della nota del 22.09.2005,
prot. n. 51 del collegio dei Sindaci, con la
quale è stato rilevato che:
"L'utilizzo dello strumento della proroga
dei contratti in scadenza deve pertanto
avere carattere eccezionale e può essere
legittimamente deliberato nel rispetto dei
vincoli e delle condizioni previste dalla
normativa in vigore. Nello specifico, l'art.
23 della legge 18.04.2005 n. 62 stabilisce
che i contratti per acquisti di forniture di
beni e di servizi scaduti, o che vengano a
scadere nei sei mesi successivi alla data di
entrata in vigore della suddetta legge,
possono essere prorogati per il tempo
strettamente necessario alla stipula dei
nuovi contratti a seguito dell'espletamento
di gare ad evidenza pubblica, a condizione
che la proroga non superi comunque i sei
mesi e che il bando di gara venga pubblicato
entro e non oltre novanta giorni dalla data
di entrata in vigore della citata legge".
Peraltro, osserva correttamente sempre
l’Amministrazione resistente, che, con
l'art. 23 1. n. 62/2005, il legislatore
nazionale ha (doverosamente) adeguato
l'ordinamento interno al fondamentale
principio di concorrenza fissato
dall'ordinamento comunitario di cui è
espressione diretta l'evidenza pubblica,
dando attuazione all' art. 117, 1 comma
Cost. che vincola il legislatore interno al
rispetto dell'ordinamento comunitario. Ne
consegue che la prorogabilità per soli sei
mesi del contratto scaduto (tempo assunto
dal legislatore come congruo per la stipula
del nuovo contratto) costituisce
prescrizione cogente, posta da norma
imperativa che, in quanto espressione
dell'anzidetto principio comunitario,
vincola l'Amministrazione alla sua
osservanza.
In tale contesto normativo, interno e
comunitario, l'ASL Roma E non poteva che
agire così come ha fatto, determinandosi
correttamente e doverosamente all'esercizio
del potere di autotutela, non incontrando
alcun ostacolo nella trasmodante,
illegittima proroga erroneamente concessa
ancorché concordata con la controparte;
stante la nullità dell'accordo ex artt. 1339
e 1418 c.c..
Inoltre la nullità dell’asserito valido
accordo contrattuale intercorso tra le parti
traspare anche sotto il diverso profilo del
difetto di capacità di agire, dato che il
Consiglio di Stato sez. V, con decisione
01.03.2010, n. 1156 ha avuto modo di
ribadire che "In materia di contratti
stipulati dalla Pubblica Amministrazione con
contraenti privati, la violazione di norme
imperative finalizzate ad assicurare i
valori di buon andamento ed imparzialità
dell'azione amministrativa di cui all'art.
97 della Costituzione, comportando il
difetto della capacità di agire
dell'Amministrazione, denota il vizio
genetico della formazione della volontà e
della scelta del contraente, in un ambito
che attiene pur sempre all'assolvimento di
funzioni amministrative, riflettendosi sulla
validità dell'atto di alienazione, con le
conseguenze dell'art. 1418, comma 1, c.c. Se
è vero che la violazione delle norme
imperative o più genericamente. la
violazione di legge è dalla normativa in
materia (art. 21-octies l. n. 241/1990
s.m.i.) espressamente richiamata con
riferimento alla sola annullabilità, ciò non
toglie che lo stesso vizio sia in grado di
provocare la nullità ove comporti la
mancanza di uno degli elementi essenziali
del! 'atto, come nel caso di mancanza di
capacità di agire dell’'amministrazione. La
patologia in oggetto è stata individuata
come nullità strutturale dell'atto, tale da
renderlo totalmente improduttivo di effetti
e non abbisognevole di interventi caducatori
di secondo grado".
E sotto tale profilo la difesa
dell’Amministrazione evidenzia correttamente
che nella richiamata decisione del Consiglio
di Stato sia rimarcata: la strumentalità
delle norme dettate nel pubblico interesse,
quale l'art. 97 Cost. e l'art. 1, primo
comma, l. n. 241/1990, alla tutela dell'''ordine
pubblico ed economico", escludendo che
la loro violazione, in quanto ridonda in
difetto della capacità giuridica dell'
Amministrazione, costituisca causa di
annullamento del contratto, essendo
piuttosto causa di nullità, ancorché non
espressamente prevista dall'art. 21-septies
1. n. 241/1990 (principio delle nullità
virtuali)
(TAR Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 30.01.2012 n. 1043 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Qualora
vi siano contestazioni circa la
legittimazione del richiedente il titolo
edilizio, per quanto il Comune non possa
prescindere dal considerare i presupposti di
fatto e di diritto che comunque possono
incidere sulla disponibilità del bene da
parte dello stesso richiedente, non può
tuttavia spingersi fino a dirimere i
conflitti tra più titoli da cui sorgono
diritti reali sul bene oggetto di lavori,
rilasciando il permesso di costruire facendo
comunque salvi i diritti dei terzi.
Nella sostanza, l’accertamento della
legittimazione alla richiesta del permesso
di costruire, avviene sulla base del titolo
esibito dal richiedente, dovendosi comunque
escludere l'obbligo di effettuare complesse
indagini dirette a ricostruire tutte le
vicende riguardanti l'immobile, quali
l'inesistenza di servitù o di altri diritti
reali idonei a limitare l'attività
edificatoria.
Qualora vi siano, come nel caso in esame,
contestazioni circa la legittimazione del
richiedente il titolo edilizio, per quanto
il Comune non possa prescindere dal
considerare i presupposti di fatto e di
diritto che comunque possono incidere sulla
disponibilità del bene da parte dello stesso
richiedente, non può tuttavia spingersi fino
a dirimere i conflitti tra più titoli da cui
sorgono diritti reali sul bene oggetto di
lavori, rilasciando il permesso di costruire
facendo comunque salvi i diritti dei terzi
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 29.09.1999 n.
1205; TAR Sardegna, Sez. II, 18.04.2011 n.
364; TAR Toscana, 18.12.2002 n. 3371; TAR
Emilia-Romagna, Parma, 21.03.2002, n. 183).
Nella sostanza, l’accertamento della
legittimazione alla richiesta del permesso
di costruire, avviene sulla base del titolo
esibito dal richiedente, dovendosi comunque
escludere l'obbligo di effettuare complesse
indagini dirette a ricostruire tutte le
vicende riguardanti l'immobile, quali
l'inesistenza di servitù o di altri diritti
reali idonei a limitare l'attività
edificatoria (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
07.07.2005 n. 3730; TAR Emilia-Romagna,
Parma, 21.02.2007 n. 53)
(TAR Marche,
sentenza 27.01.2012 n. 78 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Non sussiste alcun obbligo di
dare comunicazione ai proprietari di
immobili vicini dell'avvio del procedimento
con cui si consente la trasformazione del
territorio.
Osserva la Sezione che l'art. 7 della l. n.
241/1990 prevede l'obbligo di comunicare
l'avvio del procedimento non solo ai
soggetti nei confronti dei quali il
provvedimento finale è diretto a produrre
effetti diretti, ma anche ai diversi
soggetti, individuati o facilmente
individuabili, che, pur non essendo
destinatari del provvedimento, possano
ricevere da esso un pregiudizio. La seconda
parte della disposizione del comma 1 del
citato art. 7 intende invero tutelare quelle
persone che, essendo estranee al rapporto
che si instaura con l'avvio del procedimento
tra P.A. e destinatario, potrebbero essere
pregiudicate dalla conclusione del
procedimento senza avere avuto la
possibilità di parteciparvi né di essere a
conoscenza dell'attività amministrativa in
corso.
Non sussiste, tuttavia, per consolidata
giurisprudenza, alcun obbligo di dare
comunicazione ai proprietari di immobili
vicini dell'avvio del procedimento con cui
si consente la trasformazione del
territorio, in quanto gli interessi
coinvolti dal provvedimento con cui si
consente la trasformazione sono di tale
varietà ed ampiezza da rendere difficilmente
individuabili tutti i soggetti che
dall'emanazione dell'atto potrebbero
ricevere nocumento.
In particolare deve ritenersi che i vicini
non siano annoverabili tra i soggetti
destinatari della comunicazione di avvio del
procedimento per la compravendita di un
terreno, salvo il caso in cui detti soggetti
abbiano preventivamente manifestato il loro
interesse all’acquisto, in tal modo
radicando una posizione differenziata,
qualificata e conosciuta
dall'Amministrazione, poiché l'invocata
estensione ad essi della predetta
comunicazione comporterebbe un aggravio
procedimentale in contrasto con i principi
di economicità e di efficienza dell'attività
amministrativa (Consiglio Stato, sez. IV,
06.07.2009, n. 4300) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
26.01.2012 n. 338 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
permesso di costruire ha natura non
ricettizia e i suoi effetti iniziano a
decorrere dal momento della sua adozione e
non dal momento della notifica al
richiedente.
Conseguentemente, è dal momento della
comunicazione con la quale il richiedente
viene avvisato che il permesso di costruire
è stato rilasciato che decorre il termine
per il pagamento del contributo di
costruzione e quindi nasce l’obbligo
impositivo (e non dalla data di ritiro
materiale del provvedimento).
Con il secondo mezzo si sostiene che il
permesso di costruire è un atto ricettizio
ex lege: a tale conclusione si
perviene ove si consideri che il legislatore
statale e regionale ha parlato di “rilascio”
del titolo edilizio, il che implicherebbe la
“traditio” del provvedimento
dall’autorità adottante al soggetto
beneficiario.
La conseguenza della tesi della natura
ricettizia sarebbe costituita dal fatto che
solo con l’integrale conoscenza del
provvedimento concessorio il soggetto
sarebbe in grado di valutare pienamente la
soddisfazione del proprio interesse e solo
da questo momento sorgerebbero gli obblighi
giuridici tra cui vi è, principalmente,
quello di pagare gli oneri di
urbanizzazione.
Poiché alla ricorrente il provvedimento è
stato rilasciato il giorno 09.03.2005 presso
la sede dell’ente territoriale sarebbe
illegittima la pretesa dell’amministrazione
di equiparare il semplice avviso (dal
16.02.2005) di disponibilità del
provvedimento presso gli uffici con il
rilascio del medesimo. L’avviso di mora e la
richiesta di pagamento della sanzione
sarebbero pertanto illegittimi in quanto la
società ricorrente ha esattamente adempiuto
al pagamento degli oneri a fare data dalla
conoscenza del provvedimento avvenuta con il
suo ritiro il 09.03.2005.
La doglianza è infondata in quanto il
Collegio intende aderire al quella parte
della giurisprudenza amministrativa che
ritiene che il permesso di costruire abbia
natura non ricettizia e i suoi effetti
inizino a decorrere dal momento della sua
adozione e non dal momento della notifica al
richiedente.
A tal proposito occorre premettere che
l’art. 15 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380,
prevede che: a) nel permesso di costruire
siano indicati i termini di inizio e di
ultimazione dei lavori; b) che, in
particolare, il termine per l’inizio dei
lavori non possa essere superiore ad un anno
dal “rilascio” del titolo, laddove
quello di ultimazione non possa superare i
tre anni dall'inizio dei lavori; c) che,
decorsi tali termini, il permesso decada di
diritto per la parte non eseguita, a meno
che, anteriormente alla scadenza venga
richiesta (e conseguita) una proroga.
La disposizione in esame fa, dunque,
decorrere il termine “dal rilascio del
titolo” (e non dalla sua successiva
comunicazione all’interessato), ciò che
induce un corposo filone giurisprudenziale
(con l’assenso di parte della dottrina) alla
tesi della non ricettizietà (confermata, per
un verso, dalla ratio della
previsione –preordinata a tutelare
l’interesse pubblico a che il rilascio di
titoli edilizi non seguiti dalla pronta ed
effettiva realizzazione delle opere
progettate non precluda l’immutazione degli
assetti programmatori del territorio– e, per
altro verso, dal tenore dell’attuale art.
21-bis della l. n. 241 del 1990, il quale,
recependo sul punto le elaborazioni pretorie,
considera recettizi solo i provvedimenti
limitativi della sfera del destinatario,
legittimando l’argomentazione a contrario
per quelli ampliativi).
In tali sensi sono, in via esemplificativa:
Cass., sez. I, 30.11.2006, n. 25536; TAR
Liguria, 11.03.2003, n. 279; TAR Sardegna,
10.11.1992, n. 1429; Cons. Stato, sez. V,
02.07.1993, n. 770 e TAR Lazio Latina,
09.07.2007, n. 482. Va poi aggiunto che, a
norma dell'art. 31 della l. 17.08.1942, n.
1150, la decorrenza dei termini dipendeva
dalla effettiva conoscenza del provvedimento
concessorio, mentre nel vigore della attuale
disciplina la decorrenza è ancorata alla
data di “rilascio” e non più di “ritiro”.
E’ pertanto dal momento della comunicazione
con la quale il richiedente viene avvisato
che il permesso di costruire è stato
rilasciato che decorre il termine per il
pagamento del contributo di costruzione e
quindi nasce l’obbligo impositivo
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza
25.01.2012 n. 62 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
decorso del termine di 90 giorni dalla
presentazione dell’istanza di autorizzazione
alla installazione di un impianto di
telefonia mobile, senza la tempestiva
richiesta di integrazioni documentali e
senza il formale diniego della domanda,
comporta la costituzione di un titolo
abilitativo idoneo a legittimare il privato
alla realizzazione dell’impianto, mentre gli
eventuali successivi provvedimenti di
rigetto e di ordine di
sospensione/demolizione, per non potere
essere il silenzio-assenso considerato
tamquam non esset dall’Amministrazione, si
presentano per ciò solo illegittimi, salvo
l’eccezionale esercizio del potere di
autotutela da parte dell’Autorità competente
e quindi l’annullamento d’ufficio o la
revoca dell’assenso costituitosi per
silentium, nel rispetto naturalmente dei
requisiti formali e sostanziali a tal fine
stabiliti in generale dalla legge.
In quanto espressione di una norma di
carattere generale– il preavviso di rigetto
ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990
interrompe il termine per la conclusione del
procedimento di cui all’art. 87 del d.lgs.
n. 259 del 2003, termine che inizia
nuovamente a decorrere dal momento di
presentazione delle osservazioni del privato
sempreché avvenuta nei 10 giorni a questo
scopo previsti, nel senso che, per trattarsi
di un caso di “interruzione”, e non di
“sospensione”, del termine per concludere il
procedimento, esso riprende a decorrere
nella propria interezza, senza tener conto
del periodo già trascorso prima
dell’interruzione stessa.
Nel merito, va premesso che, in sede di
regolamentazione generale dei «procedimenti
autorizzatori relativi alle infrastrutture
di comunicazione elettronica per impianti
radioelettrici», l’art. 87 del d.lgs. n.
259 del 2003 –nel testo applicabile alla
fattispecie ratione temporis– prevede
che le “istanze di autorizzazione e le
denunce di attività di cui al presente
articolo … si intendono accolte qualora,
entro novanta giorni dalla presentazione del
progetto e della relativa domanda, fatta
eccezione per il dissenso di cui al comma 8,
non sia stato comunicato un provvedimento di
diniego. Gli Enti locali possono prevedere
termini più brevi per la conclusione dei
relativi procedimenti ovvero ulteriori forme
di semplificazione amministrativa, nel
rispetto delle disposizioni stabilite dal
presente comma” (comma 9) e che il “responsabile
del procedimento può richiedere, per una
sola volta, entro quindici giorni dalla data
di ricezione dell’istanza, il rilascio di
dichiarazioni e l’integrazione della
documentazione prodotta. Il termine di cui
al comma 9 inizia nuovamente a decorrere dal
momento dell’avvenuta integrazione
documentale” (comma 5).
La giurisprudenza ha chiarito che,
nell’ambito di un più vasto disegno di
semplificazione dell’attività amministrativa
volto a favorire lo sviluppo economico,
sociale e territoriale del Paese, attraverso
la rimozione dei limiti burocratici che si
frappongono alla libera iniziativa dei
privati (v. Cons. Stato, Sez. VI, 17.03.2009
n. 1578), il decorso del termine di novanta
giorni dalla presentazione dell’istanza di
autorizzazione alla installazione di un
impianto di telefonia mobile, senza la
tempestiva richiesta di integrazioni
documentali e senza il formale diniego della
domanda, comporta la costituzione di un
titolo abilitativo idoneo a legittimare il
privato alla realizzazione dell’impianto,
mentre gli eventuali successivi
provvedimenti di rigetto e di ordine di
sospensione/demolizione, per non potere
essere il silenzio-assenso considerato
tamquam non esset dall’Amministrazione,
si presentano per ciò solo illegittimi (v.,
ex multis, TAR Calabria, Catanzaro,
Sez. II, 16.04.2007 n. 323), salvo
l’eccezionale esercizio del potere di
autotutela da parte dell’Autorità competente
e quindi l’annullamento d’ufficio o la
revoca dell’assenso costituitosi per
silentium, nel rispetto naturalmente dei
requisiti formali e sostanziali a tal fine
stabiliti in generale dalla legge (v., tra
le altre, TAR Sardegna, Sez. II, 12.05.2008
n. 943).
E’ stato altresì chiarito, poi, che –in
quanto espressione di una norma di carattere
generale– il preavviso di rigetto ex art.
10-bis della legge n. 241 del 1990
interrompe il termine per la conclusione del
procedimento di cui all’art. 87 del d.lgs.
n. 259 del 2003, termine che inizia
nuovamente a decorrere dal momento di
presentazione delle osservazioni del privato
sempreché avvenuta nei dieci giorni a questo
scopo previsti (v., ex multis, Cons.
Stato, Sez. VI, 07.01.2008 n. 32; TAR
Veneto, Sez. III, 07.05.2008 n. 1256), nel
senso che, per trattarsi di un caso di “interruzione”,
e non di “sospensione”, del termine
per concludere il procedimento, esso
riprende a decorrere nella propria
interezza, senza tener conto del periodo già
trascorso prima dell’interruzione stessa
(v., tra le altre, TAR Lazio, Sez. II,
16.03.2009 n. 2690; TAR Lombardia, Milano,
Sez. III, 21.04.2008 n. 1232)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza
25.01.2012 n.
60 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
È riconosciuto carattere
pertinenziale alle piscine private poste al
servizio esclusivo di abitazioni signorili o
ville.
Quanto al titolo abilitativo necessario per
la piscina, va considerato che la legge reg.
n. 31 del 2002 assoggetta a denuncia di
inizio attività le “opere pertinenziali
purché non qualificate come interventi di
nuova costruzione …” (art. 8, comma 1,
lett. l) onde ne risultano esclusi solo gli
“interventi pertinenziali che le norme
tecniche degli strumenti urbanistici, in
relazione alla zonizzazione e al pregio
ambientale e paesaggistico delle aree,
qualifichino come interventi di nuova
costruzione, ovvero che comportino la
realizzazione di un volume superiore al 20
per cento del volume dell’edificio
principale” (lett. g.6 dell’allegato
alla legge), dal che si evince la
sussistenza, nella fattispecie, dei
requisiti fissati dalla disciplina regionale
perché l’opera in questione (piscina
interrata con lati di 8 e 4 metri, poi
variati in 10 e 3,50 metri) sia sottratta al
regime del permesso di costruire; è noto,
d’altra parte, il carattere pertinenziale
riconosciuto alle piscine private poste al
servizio esclusivo di abitazioni signorili o
ville e aventi dimensioni così limitate da
non determinare un significativo impatto
sull’assetto del territorio (v. Cons. Stato,
Sez. IV, 08.08.2006 n. 4780; TAR Lombardia,
Brescia, Sez. I, 06.05.2008 n. 482; TAR
Liguria, Sez. I, 16.02.2008 n. 299; TAR
Toscana, Sez. II, 31.01.2000 n. 22; v.,
anche, Cass. pen., Sez. III, 21.05.2009 n.
39067), tutte condizioni che si rinvengono
nel presente caso, così legittimando la
scelta operata dal privato.
Quanto, poi, alla questione delle distanze,
appare evidente che l’invocato art. 52 del
regolamento edilizio comunale circoscrive le
varie tipologie di distanze minime dai
confini di proprietà alla
realizzazione/variazione di manufatti fuori
terra (“…nei casi di nuova costruzione e
di sopraelevazione e ampliamento dei
fabbricati esistenti. Il calcolo delle
distanze si effettua sulla sagoma
rappresentata dalla proiezione orizzontale
dei fili esterni delle strutture e dei
tamponamenti perimetrali … Metri lineari 3,
in caso di ampliamenti o sopraelevazioni che
non comportino pareti finestrate sul lato
prospettante il confine di proprietà. Metri
lineari 5, in caso di nuova costruzione,
anche in presenza di pareti non finestrate,
e ampliamenti o sopraelevazioni che
comportino pareti finestrate sul lato
prospettante il confine di proprietà …”);
la circostanza, allora, che la piscina
contestata costituisca opera interrata rende
inapplicabile al caso di specie la
disciplina di che trattasi (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza
24.01.2012 n. 29 - link a
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APPALTI:
La mancata indicazione nei
verbali delle modalità di conservazione dei
plichi e dei documenti non costituisce di
per sé causa di illegittimità della
selezione.
Quanto, infine, alle lamentate carenze dei
verbali circa le cautele seguite per la
custodia delle offerte dopo la loro apertura
e prima della conclusione delle operazioni
di gara, va richiamato l’indirizzo
giurisprudenziale, già condiviso dalla
Sezione (v. sent. n. 424/2011 cit.), secondo
cui la mancata indicazione nei verbali delle
modalità di conservazione dei plichi e dei
documenti non costituisce di per sé causa di
illegittimità della selezione, trovando ciò
conforto nell’art. 78 del d.lgs. n. 163 del
2006 che, nell’indicare gli elementi che non
possono essere omessi nella redazione del
verbale, non menziona le operazioni di
custodia della documentazione di gara (v.
Cons. Stato, Sez. V, 07.07.2011 n. 4055) (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza
24.01.2012 n. 28 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI: La
legittimazione all’accesso va riconosciuta a
chiunque possa dimostrare che i relativi
atti abbiano spiegato o siano idonei a
spiegare effetti diretti o indiretti nei
suoi confronti, a prescindere dalla lesione
di una posizione giuridica, stante
l’autonomia del diritto di accesso inteso
come interesse ad un bene della vita
distinto rispetto alla situazione che dà
titolo all’impugnativa dell’atto, onde la
posizione legittimante, anche se non deve
assumere necessariamente la consistenza del
diritto soggettivo o dell’interesse
legittimo, deve però essere giuridicamente
tutelata non potendo identificarsi con il
generico ed indistinto interesse di ogni
cittadino al buon andamento dell’attività
amministrativa, ed implica quindi la
sussumibilità della pretesa concreta in una
fattispecie normativa, secondo una
valutazione prognostica e secondo un
rapporto di chiara percepibilità.
... che, come la giurisprudenza ha più
volte avuto modo di rilevare, la
legittimazione all’accesso va riconosciuta a
chiunque possa dimostrare che i relativi
atti abbiano spiegato o siano idonei a
spiegare effetti diretti o indiretti nei
suoi confronti, a prescindere dalla lesione
di una posizione giuridica, stante
l’autonomia del diritto di accesso inteso
come interesse ad un bene della vita
distinto rispetto alla situazione che dà
titolo all’impugnativa dell’atto, onde la
posizione legittimante, anche se non deve
assumere necessariamente la consistenza del
diritto soggettivo o dell’interesse
legittimo, deve però essere giuridicamente
tutelata non potendo identificarsi con il
generico ed indistinto interesse di ogni
cittadino al buon andamento dell’attività
amministrativa, ed implica quindi la
sussumibilità della pretesa concreta in una
fattispecie normativa, secondo una
valutazione prognostica e secondo un
rapporto di chiara percepibilità (v., ex
multis, TAR Lombardia, Milano, Sez. III,
03.03.2010 n. 530)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza
24.01.2012 n.
25 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
questioni inerenti la proprietà, pubblica o
privata, di singole strade o l’esistenza di
diritti di uso pubblico su strade private
sono devolute alla giurisdizione del giudice
ordinario in quanto investono l’accertamento
dell’esistenza e dell’estensione di diritti
soggettivi dei privati o della pubblica
Amministrazione, mentre l’iscrizione di una
strada nell’elenco delle vie pubbliche o
gravate da uso pubblico non ha natura
costitutiva e riveste funzione meramente
dichiarativa, con l’effetto di semplice
presunzione di pubblicità dell’uso,
superabile presso la giurisdizione del
giudice ordinario con la prova contraria
della natura della strada e dell’inesistenza
di un diritto di godimento da parte della
collettività.
Spetta alla giurisdizione del giudice
ordinario anche la cognizione delle
questioni che sorgono dall’inosservanza da
parte della pubblica Amministrazione delle
regole tecniche ovvero dei canoni di
diligenza e prudenza relativi alla gestione
e manutenzione di beni pubblici –ivi
compresi i casi in cui si miri a conseguire
la condanna dell’Amministrazione ad un
facere–, per non investire simili domande
scelte ed atti autoritativi ma attività
soggette al rispetto del generale precetto
del neminem laedere.
... che, per costante giurisprudenza, le
questioni inerenti la proprietà, pubblica o
privata, di singole strade o l’esistenza di
diritti di uso pubblico su strade private
sono devolute alla giurisdizione del giudice
ordinario in quanto investono l’accertamento
dell’esistenza e dell’estensione di diritti
soggettivi dei privati o della pubblica
Amministrazione, mentre l’iscrizione di una
strada nell’elenco delle vie pubbliche o
gravate da uso pubblico non ha natura
costitutiva e riveste funzione meramente
dichiarativa, con l’effetto di semplice
presunzione di pubblicità dell’uso,
superabile presso la giurisdizione del
giudice ordinario con la prova contraria
della natura della strada e dell’inesistenza
di un diritto di godimento da parte della
collettività (v. Cass. civ., Sez. un.,
27.01.2010 n. 1624);
... che spetta alla giurisdizione del
giudice ordinario anche la cognizione delle
questioni che sorgono dall’inosservanza da
parte della pubblica Amministrazione delle
regole tecniche ovvero dei canoni di
diligenza e prudenza relativi alla gestione
e manutenzione di beni pubblici –ivi
compresi i casi in cui si miri a conseguire
la condanna dell’Amministrazione ad un
facere–, per non investire simili
domande scelte ed atti autoritativi ma
attività soggette al rispetto del generale
precetto del neminem laedere (v.
Cass. civ., Sez. un., 14.03.2011 n. 5926)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza
24.01.2012 n.
24 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Ai fini dell'esclusione dalla
gara, un ipotesi di fusione societaria non è
indizio di unico centro decisionale.
A seguito della pronuncia della Corte Giust.
europea 19.05.2009, in causa C-538, non è
più possibile sanzionare il collegamento tra
più imprese mediante l’automatica esclusione
dalla procedura selettiva, occorrendo
accertare se in concreto tale situazione
abbia influito sul loro rispettivo
comportamento nell’ambito della gara. In
tale direzione si è mosso il d.l.
25.09.2009, n. 135 che ha introdotto nel
corpo dell’art. 38 del codice dei contratti
pubblici la lett. m-quater), la quale ha
ricondotto la preclusione alla
partecipazione, per qualsiasi ipotesi di
controllo o collegamento anche solo di
fatto, all’effettiva imputabilità ad un
unico centro decisionale delle relative
offerte, che la Stazione appaltante dovrà
motivare sulla base di univoci elementi.
L’evoluzione giurisprudenziale e legislativa
in tema di collegamento sostanziale è dunque
tale che non possono più ritenersi idonei
gli elementi indiziari nel passato
utilizzati per dimostrare l’unicità del
centro decisionale (tra i quali, la
ubicazione della sede amministrativa,
l’identità di luogo e data di spedizione dei
plichi, l’esistenza di intrecci azionari,
etc.). La prova critica non può basarsi su
elementi probabilistici, occorrendo alla
Stazione appaltante dimostrare l’esistenza,
in concreto, di un accordo volto ad alterare
i risultati della gara (TAR Lazio, Sez. III,
04.11.2010, n. 33167; Cons. Stato, Sez. VI,
08.06.2010, n. 3637) (TAR Umbria,
sentenza
19.01.2012 n. 9
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In area paesaggisticamente
vincolata, l’insufficienza
dell’Amministrazione comunale nel valutare e
motivare l’impatto dell’opera autorizza la
Soprintendenza a censurarne la legittimità
sotto il profilo della carenza di
motivazione e, perciò, dell’eccesso di
potere, senza per questo sconfinare in una
valutazione nel merito.
Questa VI Sezione del Consiglio di Stato
anche recentemente (04.04.2011, n. 2087),
richiamando la decisione dell’Adunanza
plenaria 14.12.2001, n. 9, ha ricordato che
l’insufficienza dell’Amministrazione
comunale nel valutare e motivare l’impatto
dell’opera, autorizza la Soprintendenza a
censurarne la legittimità sotto il profilo
della carenza di motivazione e, perciò,
dell’eccesso di potere, senza per questo
sconfinare in una valutazione nel merito (v.
anche, sempre recentemente, Cons. Stato, VI,
06.07.2010, n. 4307 e 18.03.2011, n. 1661)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.01.2012 n. 173 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’assimilazione
in via normativa delle infrastrutture di
reti pubbliche di comunicazione alle opere
di urbanizzazione primaria, ai sensi
dell’art. 86, comma terzo, del d.lgs. n. 259
del 2003, comporta che le stesse debbano
collegarsi ed essere poste al servizio
dell’insediamento abitativo, non da questo
avulse con localizzazione lontana dai centri
di utenza, onde la potestà assegnata alle
amministrazioni comunali dall’art. 8, comma
6, della legge n. 36 del 2001 (“i comuni
possono adottare un regolamento per
assicurare il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l’esposizione della popolazione
ai campi elettromagnatici”) può tradursi, ad
esempio, nell’introduzione, sotto il profilo
urbanistico, di regole a tutela di zone e
beni di particolare pregio
paesaggistico/ambientale o
storico/artistico, ma non può trasformarsi
in “limitazioni alla localizzazione” degli
impianti di telefonia mobile per intere ed
estese porzioni del territorio comunale, in
assenza di una plausibile ragione
giustificativa; in definitiva, tale
disciplina non deve risolversi in un
impedimento che rende in concreto
impossibile, o comunque estremamente
difficoltosa, la realizzazione di una rete
completa di infrastrutture di
telecomunicazioni.
Con la conseguente illegittimità dei
regolamenti locali che prevedano una
“zonizzazione” indipendente dalle esigenze
dei gestori del servizio di telefonia
mobile, e che cioè circoscrivano gli
impianti a specifiche aree, appositamente
individuate, senza subordinare le relative
scelte alla previa e puntuale verifica della
coerenza della disciplina pianificatoria con
la necessità che venga assicurata,
nell’intero territorio comunale, l’uniforme
copertura del servizio.
Come è stato rilevato in giurisprudenza (v.,
tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI,
05.06.2006 n. 3332), l’assimilazione in via
normativa delle infrastrutture di reti
pubbliche di comunicazione alle opere di
urbanizzazione primaria, ai sensi dell’art.
86, comma terzo, del d.lgs. n. 259 del 2003,
comporta che le stesse debbano collegarsi ed
essere poste al servizio dell’insediamento
abitativo, non da questo avulse con
localizzazione lontana dai centri di utenza,
onde la potestà assegnata alle
amministrazioni comunali dall’art. 8, comma
6, della legge n. 36 del 2001 (“i comuni
possono adottare un regolamento per
assicurare il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l’esposizione della popolazione
ai campi elettromagnatici”) può
tradursi, ad esempio, nell’introduzione,
sotto il profilo urbanistico, di regole a
tutela di zone e beni di particolare pregio
paesaggistico/ambientale o
storico/artistico, ma non può trasformarsi
in “limitazioni alla localizzazione”
degli impianti di telefonia mobile per
intere ed estese porzioni del territorio
comunale, in assenza di una plausibile
ragione giustificativa; in definitiva, tale
disciplina non deve risolversi in un
impedimento che rende in concreto
impossibile, o comunque estremamente
difficoltosa, la realizzazione di una rete
completa di infrastrutture di
telecomunicazioni.
Con la conseguente illegittimità dei
regolamenti locali che prevedano una “zonizzazione”
indipendente dalle esigenze dei gestori del
servizio di telefonia mobile, e che cioè
circoscrivano gli impianti a specifiche
aree, appositamente individuate, senza
subordinare le relative scelte alla previa e
puntuale verifica della coerenza della
disciplina pianificatoria con la necessità
che venga assicurata, nell’intero territorio
comunale, l’uniforme copertura del servizio
(v. Cons. Stato, Sez. VI, 28.03.2007 n.
1431)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza
16.01.2012 n.
14 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
materia di rimozione di rifiuti abbandonati
in un’area privata e, in generale, di
adozione delle misure necessarie a
scongiurare pregiudizi alla pubblica
incolumità e alla salute dei cittadini in
ragione dello stato di degrado o di pericolo
che contraddistinguono un bene privato, alla
posizione del proprietario e del titolare di
diritti reali sul bene è equiparata quella
del possessore, quale soggetto che, in
presenza di dati presupposti, è chiamato a
dare esecuzione alle disposizioni in
proposito impartite dall’Autorità pubblica.
Indipendentemente dal soggetto realmente
proprietario del fabbricato, già la sola
condizione di possessore uti dominus del de
cuius e poi dei suoi eredi giustifica
l’obbligo di provvedere a carico di questi
ultimi, così come sarebbe stato in caso di
titolarità del diritto di proprietà.
---------------
L’ordinanza sindacale impugnata ha la
primaria finalità di rimuovere lo stato di
pericolo e di prevenire danni alla salute
pubblica, così legittimamente indirizzandosi
a chi sul bene ha il potere di intervenire
per modificare la situazione di fatto fonte
di minaccia per la comunità locale, e che,
in ogni caso, chi si trova con l’area
interessata in un rapporto, anche di mero
fatto, tale da consentirgli –e per ciò
stesso imporgli– di esercitare una funzione
di protezione e custodia finalizzata ad
evitare che l’area medesima possa essere
adibita a sede di deposito incontrollato di
rifiuti nocivi per la salute pubblica,
risponde dell’omissione degli accorgimenti e
delle cautele che l’ordinaria diligenza
suggerisce per realizzare un’efficace
custodia e protezione dell’area, ad esempio
recintandola o adottando altre misure
similari, così da impedire che possano
essere nella stessa indebitamente depositati
rifiuti.
Per costante giurisprudenza, in materia di
rimozione di rifiuti abbandonati in un’area
privata e, in generale, di adozione delle
misure necessarie a scongiurare pregiudizi
alla pubblica incolumità e alla salute dei
cittadini in ragione dello stato di degrado
o di pericolo che contraddistinguono un bene
privato, alla posizione del proprietario e
del titolare di diritti reali sul bene è
equiparata quella del possessore, quale
soggetto che, in presenza di dati
presupposti, è chiamato a dare esecuzione
alle disposizioni in proposito impartite
dall’Autorità pubblica. Nella fattispecie,
dunque, la circostanza che si sono
qualificati i destinatari dell’ordinanza
sindacale come “comproprietari” non
costituirebbe profilo rilevante ai fini di
un’eventuale illegittimità del
provvedimento, qualora gli stessi
risultassero comunque ascrivibili al
genus dei possessori, ai proprietari
equivalenti quanto alla responsabilità di
eliminazione delle cause di pericolo per i
terzi o per l’ambiente.
Ciò premesso, in sede di diniego di
annullamento in autotutela dell’ordinanza
sindacale l’Amministrazione comunale ha
fatto discendere gli oneri dei ricorrenti
quanto meno dal pregresso possesso uti
dominus del bene da parte del familiare
defunto –fin dalla richiesta della licenza
edilizia del 1969– e dal conseguente
automatico trasferimento del possesso agli
stessi quali eredi a titolo universale, ai
sensi dell’art. 1146, comma 1, cod.civ. (“Il
possesso continua nell’erede con effetto
dall’apertura della successione”). I
ricorrenti, d’altra parte, pur contestando
di essere proprietari dell’immobile e di
avere la disponibilità dello stesso, non
hanno negato che il de cuius ne
avesse il possesso (a norma dell’art. 64,
comma 2, cod. proc. amm., il “…giudice
deve porre a fondamento della decisione … i
fatti non specificamente contestati dalle
parti costituite”) e che, quindi, il
possesso sia proseguito in capo a loro, alla
stregua del generale principio per cui, in
ragione di una fictio iuris, il
possesso si trasferisce automaticamente agli
eredi, senza necessità di una materiale
apprensione del bene (v., tra le altre,
Cass. civ., Sez. II, 18.05.2001 n. 6852).
Indipendentemente, insomma, dal soggetto
realmente proprietario del fabbricato –la
cui indagine si può omettere–, già la sola
condizione di possessore uti dominus
del de cuius e poi dei suoi eredi
giustifica l’obbligo di provvedere a carico
di questi ultimi, così come sarebbe stato in
caso di titolarità del diritto di proprietà.
---------------
Quanto, infine, alla denunciata
insussistenza di una responsabilità dei
ricorrenti nell’abbandono dei rifiuti, ai
sensi dell’art. 192 del d.lgs. n. 152 del
2006, osserva il Collegio che l’ordinanza
sindacale impugnata ha la primaria finalità
di rimuovere lo stato di pericolo e di
prevenire danni alla salute pubblica, così
legittimamente indirizzandosi a chi sul bene
ha il potere di intervenire per modificare
la situazione di fatto fonte di minaccia per
la comunità locale, e che, in ogni caso, chi
si trova con l’area interessata in un
rapporto, anche di mero fatto, tale da
consentirgli –e per ciò stesso imporgli– di
esercitare una funzione di protezione e
custodia finalizzata ad evitare che l’area
medesima possa essere adibita a sede di
deposito incontrollato di rifiuti nocivi per
la salute pubblica, risponde dell’omissione
degli accorgimenti e delle cautele che
l’ordinaria diligenza suggerisce per
realizzare un’efficace custodia e protezione
dell’area, ad esempio recintandola o
adottando altre misure similari, così da
impedire che possano essere nella stessa
indebitamente depositati rifiuti.
Né osta alla sussistenza del possesso del
bene la circostanza che la stalla sarebbe
completamente distrutta e che l’abbandono
dell’area perdurerebbe da vari anni, se è
vero che, per fictio iuris, il
possesso si trasferisce automaticamente agli
eredi senza necessità di una materiale
apprensione del bene, che nella fattispecie
è evidentemente da identificare nell’area
dove veniva svolta l’attività di allevamento
zootecnico e dove è sempre possibile
ripristinarne l’esercizio previa ripristino
delle strutture a ciò necessarie.
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 16.01.2012 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Le
ordinanze contingibili e urgenti non debbono
per forza avere sempre il carattere della
provvisorietà, dato che il loro connotato
essenziale è la necessaria idoneità delle
relative misure ad eliminare la situazione
di pericolo che costituisce il presupposto
della loro adozione, e quindi le misure
stesse possono essere provvisorie o
definitive a seconda del tipo di rischio che
intendono fronteggiare, nel senso che
occorre avere riguardo alle specifiche
circostanze di fatto del caso concreto e
allo scopo pratico perseguito attraverso il
provvedimento sindacale.
La motivazione del ricorso allo strumento
straordinario ben può evincersi dalla
pluralità di elementi acquisiti al
procedimento, se oggettivamente capaci di
rivelare in sé le ragioni di urgenza che
legittimano l’intervento eccezionale
dell’Autorità sindacale.
---------------
A fronte dell’attualità della minaccia per
l’incolumità pubblica e l’igiene, esclude
rilevanza al fatto che la situazione di
pericolo sia nota da tempo.
--------------
In caso di ordinanza contingibile ed urgente
l’avvio della comunicazione del procedimento
è intrinsecamente in contraddizione con la
funzione dell’esercizio dei poteri
contingibili e urgenti affidati dalla legge
all’Autorità sindacale, ovvero la garanzia
procedimentale in esame si presenta
incompatibile con l’urgenza di provvedere.
Quanto, ancora,
al lamentato impiego di un’ordinanza
contingibile e urgente per eliminare
definitivamente la situazione di pericolo e
quindi per provvedere in modo stabile e
irreversibile alla regolamentazione
dell’assetto di interessi in questione
–senza oltretutto l’indicazione delle
ragioni del mancato ricorso agli strumenti
ordinari previsti dal d.lgs. n. 152 del
2006–, osserva il Collegio che non emergono
nella circostanza i denunciati profili di
illegittimità.
Da un lato, si condivide
l’orientamento secondo cui le ordinanze
contingibili e urgenti non debbono per forza
avere sempre il carattere della
provvisorietà, dato che il loro connotato
essenziale è la necessaria idoneità delle
relative misure ad eliminare la situazione
di pericolo che costituisce il presupposto
della loro adozione, e quindi le misure
stesse possono essere provvisorie o
definitive a seconda del tipo di rischio che
intendono fronteggiare, nel senso che
occorre avere riguardo alle specifiche
circostanze di fatto del caso concreto e
allo scopo pratico perseguito attraverso il
provvedimento sindacale (v. TAR Veneto, Sez.
III, 07.07.2010 n. 2887); dall’altro lato,
la motivazione del ricorso allo strumento
straordinario ben può evincersi dalla
pluralità di elementi acquisiti al
procedimento, se oggettivamente capaci di
rivelare in sé le ragioni di urgenza che
legittimano l’intervento eccezionale
dell’Autorità sindacale.
Nella fattispecie,
in particolare, il concorso dei rischi
legati a possibili ulteriori crolli del
fabbricato fatiscente e agli effetti
pregiudizievoli per la salute pubblica
derivanti dal pericolo di dispersione di
fibre di amianto oltre che dalle conseguenze
della presenza nei pressi della strada
comunale di un contenitore di stoccaggio di
deiezioni zootecniche parzialmente privo di
copertura, come è evidente, palesa una
situazione di concreta e immediata minaccia
per la sanità e l’incolumità pubbliche,
indice della necessità di interventi
solleciti e indilazionabili, e cioè emerge
in modo assolutamente chiaro ed univoco
l’iter logico-giuridico che ha determinato
l’adozione dell’ordinanza sindacale
impugnata.
Quanto, poi, alla denunciata insussistenza
dell’eccezionalità ed imprevedibilità del
pericolo –per trattarsi di situazione
risalente nel tempo–, va richiamato quel
consolidato indirizzo interpretativo che, a
fronte dell’attualità della minaccia per
l’incolumità pubblica e l’igiene, esclude
rilevanza al fatto che la situazione di
pericolo fosse nota da tempo (v., ex
multis, Cons. Stato, Sez. V, 28.03.2008
n. 1322).
Né v’è ragione di lamentare la carenza di
avviso ex art. 7 della legge n. 241 del
1990. In simili fattispecie, si è detto,
l’avvio della comunicazione del procedimento
è intrinsecamente in contraddizione con la
funzione dell’esercizio dei poteri
contingibili e urgenti affidati dalla legge
all’Autorità sindacale (v. Cons. Stato, Sez.
II, 31.01.2011 n. 4256/497), ovvero la
garanzia procedimentale in esame si presenta
incompatibile con l’urgenza di provvedere
(v. Cons. Stato, Sez. V, 28.09.2009 n. 5807)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 16.01.2012 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Compatibilità
paesaggistica e nozione di superficie utile.
La valutazione di compatibilità
paesaggistica non ammettere equipollenti e
non può prescindersi dal necessario parere
della sovrintendenza che la norma
espressamente prevede e qualifica come
vincolante.
Il rilascio della valutazione paesaggistica
all'esito della prevista procedura non
determina automaticamente la non punibilità
in ordine al reato contestato, dovendo
essere sempre accertata dal giudice la
sussistenza dei presupposti di fatto e di
diritto legittimanti la “sanatoria”.
La nozione di superficie utile va
individuata, in mancanza di specifica
definizione, con riferimento alla finalità
della disposizione che la contempla e, per
quanto riguarda la disciplina paesaggistica,
deve ritenersi che tale concetto vada
individuato prescindendo anche dai criteri
applicabili per la disciplina urbanistica,
che ha oggettività giuridica diversa [e che
la lettera a) del comma 1-ter dell'articolo
181 D.Lv. 42/2004 non richiama
espressamente, diversamente da quanto
avviene per quelli di cui alla successiva
lettera c)] ed in senso ampio, considerando
l'impatto dell'intervento sull'originario
assetto paesaggistico del territorio,
cosicché dovrà escludersi la speciale
sanatoria stabilita dall'articolo 181 in
tutti quei casi in cui la creazione di
superfici utili o volumi o l'aumento di
quelli legittimamente realizzati siano
idonei a determinare una compromissione
ambientale (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza
13.01.2012 n. 889 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso di ufficio.
Nell'abuso d'ufficio connesso al rilascio di
un permesso edilizio ritenuto illegittimo e
nei reati edilizi compiuti in esecuzione di
tale permesso, uno degli elementi dai quali
desumere l'intenzionalità del dolo o la
colpa e costituito appunto dall'analisi del
contrasto del permesso di costruire con la
norma urbanistica nel senso che, quanto più
è palese o macroscopico tale contrasto,
tanto più e evidente la ricorrenza
dell'elemento psicologico del reato.
Il dolo intenzionale del delitto di abuso
d'ufficio può desumersi, non solo dal
rapporto collusivo, ma anche da una serie di
altri indizi diversi, quali ad esempio: la
natura dell'illegittimità dell'atto, i
rapporti tra il pubblico ufficiale ed il
privato, la mancanza di una doverosa
istruttoria della pratica (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.01.2012 n.
649 - tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nelle
more della classificazione acustica del
territorio comunale ai sensi dell’art. 6,
comma 1, lett. a), della legge n. 447 del
1995, sono operativi i limiti c.d.
«assoluti» di rumorosità ma non anche quelli
c.d. «differenziali», e ciò in ragione
dell’univoca formulazione dell’art. 8, comma
1, del d.P.C.M. 14.11.1997 (“In attesa che i
comuni provvedano agli adempimenti previsti
dall’art. 6, comma 1, lett. a), della legge
26.10.1995 n. 447, si applicano i limiti di
cui all’art. 6, comma 1, del decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri
01.03.1991”).
Già nella vigenza del d.P.C.M. 01.03.1991 i
limiti «differenziali» erano circoscritti
alle zone non esclusivamente industriali e,
ciò nonostante, si era avvertita la
necessità di effettuarne un esplicito
richiamo al fine di garantirne l’operatività
fin dalla fase transitoria, con la
conseguenza che il rinvio operato al solo
primo comma dell’art. 6 depone
inequivocabilmente per una scelta normativa
che ha voluto subordinare, a partire dal
1997, l’applicabilità del criterio
«differenziale» all’introduzione della
disciplina a regime, e cioè all’adozione del
piano comunale di zonizzazione acustica.
Ritenuto che, per costante giurisprudenza,
nelle more della classificazione del
territorio comunale ai sensi dell’art. 6,
comma 1, lett. a), della legge n. 447 del
1995, sono operativi i limiti c.d. «assoluti»
di rumorosità ma non anche quelli c.d. «differenziali»,
e ciò in ragione dell’univoca formulazione
dell’art. 8, comma 1, del d.P.C.M.
14.11.1997 (“In attesa che i comuni
provvedano agli adempimenti previsti
dall’art. 6, comma 1, lett. a), della legge
26.10.1995 n. 447, si applicano i limiti di
cui all’art. 6, comma 1, del decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri
01.03.1991”), norma da cui si evince
che, ove si fosse voluto far sopravvivere
integralmente il regime transitorio di cui
all’art. 6 del decreto del 1991 (primo comma
relativo ai c.d. limiti «assoluti» e
secondo comma relativo ai c.d. limiti «differenziali»),
sarebbe stato evidentemente necessario
operare il rinvio ad ambedue le fattispecie
e quindi non al solo primo comma (v., ex
multis, TAR Friuli - Venezia Giulia
08.04.2011 n. 183);
... che si è altresì valutata non persuasiva
la tesi che, per giustificare il richiamo
parziale al solo primo comma dell’art. 6 del
d.P.C.M. 01.03.1991, adduce la diretta
applicabilità dei limiti «differenziali»
perché ancorati, quanto al loro ambito di
riferimento, ad una suddivisione del
territorio che si ricaverebbe ex se
dalla disciplina urbanistica –sì da non
richiedere una specifica norma che ne
autorizzi l’operatività nella fase
transitoria per i comuni sprovvisti del
piano di zonizzazione acustica–, posto che,
in realtà, già nella vigenza di quel decreto
i limiti «differenziali» erano
circoscritti alle zone non esclusivamente
industriali e, ciò nonostante, si era
avvertita la necessità di effettuarne un
esplicito richiamo al fine di garantirne
l’operatività fin dalla fase transitoria,
con la conseguenza che il rinvio operato al
solo primo comma dell’art. 6 depone
inequivocabilmente per una scelta normativa
che ha voluto subordinare, a partire dal
1997, l’applicabilità del criterio «differenziale»
all’introduzione della disciplina a regime,
e cioè all’adozione del piano comunale di
zonizzazione acustica (v., tra le altre, TAR
Puglia, Bari, Sez. I, 14.05.2010 n. 1896)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza
12.01.2012 n.
7 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Differenza
tra l'istituto dell'accessione invertita e della
retrocessione.
L’istituto dell’accessione invertita, di creazione
giurisprudenziale (Cass. Sez. Un., 26.02.1983 n. 1264;
10.06.1988 n. 3940) presuppone una occupazione di un bene da
parte della P.A. (quantomeno) in assenza di legittima
conclusione del procedimento espropriativo entro i termini
previsti dalla dichiarazione di pubblica utilità. Proprio
per questo, la giurisprudenza ha collegato l’effetto
acquisitivo del diritto di proprietà alla irreversibile
destinazione del suolo all’opera pubblica, con diritto al
risarcimento del danno conseguente all’illecito commesso
dalla pubblica amministrazione.
Da ciò consegue l’incompatibilità, sul piano
logico–giuridico, dell'istituto dell'accessione invertita e
della retrocessione: ed infatti, se si ritiene configurarsi
accessione invertita non vi è stata espropriazione e,
quindi, non può esservi retrocessione (l’area non può non
essere stata dichiarata come “irreversibilmente
trasformata”); se invece si richiede la retrocessione,
non si può che essere in presenza di un bene in precedenza
espropriato e, in tutto o in parte, non utilizzato per le
finalità di interesse pubblico legittimanti la precedente
espropriazione.
Occorre, infine, notare che il legislatore, anche quando ha
inteso estendere l’istituto della retrocessione alla ben più
semplice ipotesi di procedimenti espropriativi non
conclusisi con il decreto di esproprio (ma per il tramite di
cessione volontaria), lo ha espressamente affermato (v. art.
45, co. 4, DPR n. 327/2001) (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.12.2011 n. 6619 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
termine per impugnare l'ordine di
sospensione dei lavori è 45 giorni e non 60
giorni.
L'art. 27, co. 3, del d.P.R. n. 380/2001 e
s.m.i., statuisce che la sospensione dei
lavori ha effetto fino all’adozione ed alla
notifica dei provvedimenti definitivi
sanzionatori, che deve avvenire “entro
quarantacinque giorni dall’ordine di
sospensione dei lavori”, ciò comporta
che, una volta trascorsi 45 giorni dalla sua
notificazione, il provvedimento di
sospensione dei lavori non produce più
effetti nei confronti dei soggetti
destinatari. Da tale presupposto discende
l'inammissibilità del ricorso proposto
avverso l'ordine di sospensione notificato
oltre il suddetto termine in quanto i
ricorrenti non potevano comunque subire
alcun nocumento dall’ordine di sospensione
dei lavori in parola e trarre alcun
vantaggio dal suo eventuale accoglimento
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - TAR
Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 21.11.2011 n. 9141 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
modificazione della sagoma del bene non
possono essere assentite con DIA.
La modificazione del piano di campagna si
sostanzia in una modificazione della sagoma
del rialzato, rientrante negli interventi
disciplinati dall’art. 10, co. 1, lett. c),
del d.P.R. n. 380/2001 cui fa riferimento
l’art. 22 del medesimo decreto
presidenziale, che escludere l'applicabilità
dello strumento della DIA a quelli che
comportano una modifica della sagoma del
bene con conseguente modificazione
sostanziale dell’assetto preesistente del
suolo (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - TAR
Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 21.11.2011 n. 9132 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 06.02.2012 |
ã |
DITE LA VOSTRA
... |
EDILIZIA PRIVATA:
Discutiamo sul 2%?
L'articolo 5 del D.L. 13.05.2011, n. 70, tra
le sue tante e oscure disposizioni, si
occupa anche del concetto di parziale
difformità, in relazione all'art. 34 del DPR
380 del 2001, stabilendo che: "2-ter. Ai
fini dell'applicazione del presente
articolo, non si ha parziale difformità del
titolo abilitativo in presenza di violazioni
di altezza, distacchi, cubatura o superficie
coperta che non eccedano per singola unità
immobiliare il 2 per cento delle misure
progettuali".
La disposizione introduce il concetto di
irrilevanza di alcune violazioni rispetto al
progetto edilizio approvato.
Mentre il senso complessivo della
disposizione si capisce con facilità ed è
anche condivisibile, le applicazioni
pratiche sono spesso difficoltose e incerte.
Più che dare risposte sicure, vorrei aprire
un dibattito con i lettori
sull'interpretazione e sull'applicazione di
questa disposizione, sui punti che elenco di
seguito (magari mi sbaglio su qualcosa).
(continua ...) (link a http://venetoius.myblog.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 6 del
06.02.2012, "Determinazioni in merito
alle procedure e modalità di rinnovo e dei
criteri per la caratterizzazione delle
modifiche per esercizio uniforme e
coordinato dell’autorizzazione integrata
ambientale (AIA) (art. 8, c. 2, l.r. n.
24/2006)" (deliberazione
G.R. 02.02.2012 n. 2970). |
ENTI LOCALI: G.U.
03.02.2012 n. 28 "Adozione dello schema
del prospetto nel quale vanno elencate le
spese di rappresentanza sostenute dagli
organi di governo degli enti locali" (Ministero
dell'Interno,
decreto 23.01.2012). |
AMBIENTE ECOLOGIA: G.U.
03.02.2012 n. 28 "Regolamento per la
semplificazione di adempimenti
amministrativi in materia ambientale
gravanti sulle imprese, a norma
dell’articolo 49, comma 4-quater, del
decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito,
con modificazioni, dalla legge 30.07.2010,
n. 122" (D.P.R.
19.10.2011 n. 227). |
ATTI AMMINISTRATIVI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 5 del 03.02.2012,
"Riordino normativo in materia di
procedimento amministrativo, diritto di
accesso ai documenti amministrativi,
semplificazione amministrativa, potere
sostitutivo e potestà sanzionatoria" (L.R.
01.02.2012 n. 1). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
01.02.2012 n. 26 "Misure per il riassetto
della normativa in materia di pesca e
acquacoltura, a norma dell’articolo 28 della
legge 04.06.2010, n. 96" (D.Lgs.
09.01.2012 n. 4).
---------------
Di interesse l'art. 3, comma 3, che
riportiamo di seguito:
Art. 3. - Acquacoltura
1. Fermo restando quanto previsto
dall’articolo 2135 del codice civile,
l’acquacoltura è l’attività economica
organizzata, esercitata professionalmente,
diretta all’allevamento o alla coltura di
organismi acquatici attraverso la cura e lo
sviluppo di un ciclo biologico o di una fase
necessaria del ciclo stesso, di carattere
vegetale o animale, in acque dolci,
salmastre o marine.
2. Sono connesse all’acquacoltura le
attività, esercitate dal medesimo
acquacoltore, dirette a:
a) manipolazione, conservazione, trasformazione,
commercializzazione, promozione e
valorizzazione che abbiano ad oggetto
prodotti ottenuti prevalentemente dalle
attività di cui al comma 1;
b) fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente
di attrezzature o risorse dell’azienda
normalmente
impiegate nell’attività di acquacoltura
esercitata, ivi comprese le attività di
ospitalità, ricreative, didattiche e
culturali, finalizzate alla corretta
fruizione degli ecosistemi acquatici e
vallivi e delle risorse dell’acquacoltura,
nonché alla valorizzazione degli aspetti
socio-culturali delle imprese di
acquacoltura, esercitate da imprenditori,
singoli o associati, attraverso l’utilizzo
della propria abitazione o di struttura
nella disponibilità dell’imprenditore
stesso;
c) l’attuazione di
interventi di gestione attiva, finalizzati
alla valorizzazione produttiva, all’uso
sostenibile degli ecosistemi acquatici ed
alla tutela dell’ambiente costiero.
3. Alle opere, alle
strutture destinate alle attività di cui
alla lettera b) del comma 2 si applicano le
disposizioni di cui all’articolo 19, commi 2
e 3, del testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di
edilizia, approvato con decreto Presidente
della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380,
nonché all’articolo 24, comma 2, della legge
5 febbraio 1992, n. 104, relativamente
all’utilizzo di opere provvisionali per
l’accessibilità ed il superamento delle
barriere architettoniche. |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: Domande
e risposte dai Vigili del Fuoco su
prevenzione incendi.
I Vigili del Fuoco hanno pubblicato sul
proprio sito una serie di quesiti su casi
pratici, formulati dagli operatori del
settore, riguardo a diverse problematiche di
prevenzione incendi, come ad esempio:
● Cosa si intende per superficie lorda
dell'attività?
● E' possibile utilizzare un locale
interrato come deposito per 15 motorini?
Quale procedura adottare?
● Dove è possibile reperire le tariffe per
le prestazioni a pagamento dei Vigili del
Fuoco?
Ogni quesito presenta la relativa risposta
formulata dai VVF.
Le FAQ sono suddivise in tre categorie:
►
Attività soggette a prevenzione incendi;
►
Procedimenti di prevenzione incendi;
►
Tariffe.
In allegato a questo articolo proponiamo un
documento contenete le suddette FAQ
(02.02.2012 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: DURC,
Casse Edili e sperimentazione congruità:
arrivano le indicazioni operative.
La Commissione Nazionale Paritetica per le
Casse Edili ha inviato a tutte le Casse le
indicazioni operative sulla sperimentazione
della congruità per il rilascio del DURC che
entrerà a regime dal'01.01.2013.
Il documento contiene le istruzioni per
inserire nel modello di denuncia mensile
anche alcuni campi relativi appunto alla
verifica del numero dei lavoratori
regolarmente impiegati.
A partire dalla denuncia relativa al mese di
febbraio 2012, le Casse Edili dovranno
inserire nel modello di denuncia i seguenti
campi:
● descrizione cantiere
● indirizzo cantiere
● committente (pubblico/privato)
● nominativo e codice fiscale committente
● tipo lavoro (appalto/subappalto/in
proprio)
● nominativo e codice fiscale appaltatore
(solo per imprese in subappalto)
Le Casse Edili sono tenute ad informare le
imprese che, dalla denuncia relativa al mese
di aprile 2012, sarà effettuata una verifica
di congruità della manodopera denunciata nei
lavori pubblici e privati di importo
superiore a 70.000 euro
(02.02.2012 - link a www.acca.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ENTI LOCALI - VARI:
E. O. Policella,
Privacy, il DPS non serve più
(link a www.ipsoa.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
L. Bellagamba,
La comunicazione del Ministero del Lavoro e
delle Politiche Sociali sulla «non
autocertificabilità» del DURC – La
correzione interpretativa della successiva
comunicazione dell’INAIL, d'intesa con il
Ministero stesso – La piena
autocertificabilità del DURC anche per
l’ipotesi di cui al D.Lgs. 81/2008, art. 90,
comma 9, lett. c) (31.01.2012 - link a www.linobellagamba.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
C. Medici,
BREVI NOTE SULL’ESECUZIONE DIRETTA DELLE
OPERE DI URBANIZZAZIONE PRIMARIA SOTTO
SOGLIA DOPO IL DECRETO “SALVA ITALIA”
(link a www.gazzettaamministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Pittori,
L'APPLICAZIONE ALLE SANZIONI EDILIZIE DELLA
DISCIPLINA GENERALE DI CUI ALL'ART. 16 DELLA
L. 24.11.1981, N. 689 IN MATERIA DI SANZIONI
AMMINISTRATIVE PECUNIARIE (link a
www.gazzettaamministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
D. Tomassetti,
LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N.
293/2010: CONSEGUENZE DELLA DECLARATORIA DI
ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA NORMA
SULLA C.D. ACQUISIZIONE SANANTE
(link a www.gazzettaamministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
V. Pavone,
L’ACQUISIZIONE SANANTE EX ART. 43 T.U. IN
TEMA DI ESPROPRIAZIONE: IERI “VIA D’USCITA
LEGALE” PER LE OCCUPAZIONI SINE TITULO, OGGI
MONSTRUM GIURIDICO, BANDITO DALL’ORDINAMENTO
GIURIDICO NAZIONALE (link a
www.gazzettaamministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E. Michetti,
IL SIGNIFICATO DI “ADIACENZA” DEI FONDI AI
FINI DELL'ASSERVIMENTO (link a
www.gazzettaamministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
R. Vaira,
IL RISPETTO
DEI LIMITI VOLUMETRICI NELL’ESERCIZIO DELLO
IUS AEDIFICANDI TRA STANDARDS URBANISTICI E
CESSIONE DI CUBATURA (tratto da
www.gazzettaamministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. C. Bartoccioni e S. Fifi,
PARAMETRI SOSTANZIALI E PROCESSUALI DEL
REATO DI OMESSA BONIFICA (link a
www.gazzettaamministrativa.it). |
APPALTI:
E. Michetti,
CUSTODIA DEI PLICHI CONTENENTI I DOCUMENTI
DI GARA: L'OMESSA VERBALIZZAZIONE DELLE
OPERAZIONI DI CUSTODIA E' IDONEA AD
INVALIDARE L'ESITO DELLA GARA?
(link a www.gazzettaamministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
P. Tria,
L’ACCESSO (NEGATO) ALLE RELAZIONI RISERVATE
DEL DIRETTORE DEI LAVORI E DELL’ORGANO DI
COLLAUDO (link a
www.gazzettaamministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
G. Piccinni,
LE SOCIETÀ STRUMENTALI POSSONO ANCHE GESTIRE
SERVIZI PUBBLICI LOCALI - SOCIETÀ MISTE,
INAPPLICABILITÀ DEL DIVIETO DI CUI ALL’ART.
13 D.L. 223/2006 (link a
www.gazzettaamministrativa.it). |
APPALTI:
M. Dell'Unto,
L’INTEGRAZIONE DOCUMENTALE IN SEDE DI GARA
(link a www.gazzettaamministrativa.it). |
APPALTI:
M. De Cilla,
ULTIME NOVITÀ IN TEMA DI AVVALIMENTO
(link a www.gazzettaamministrativa.it). |
APPALTI:
A. Di Stazio,
IL CONTENZIOSO NEGLI APPALTI PUBBLICI NEL
NUOVO REGOLAMENTO DI ESECUZIONE ED
ATTUAZIONE DEL CODICE DEI CONTRATTI, D.P.R.
05.10.2010, N. 207 (link a
www.gazzettaamministrativa.it). |
APPALTI:
P. Tria,
QUANDO LE STAZIONI APPALTANTI POSSONO
COMMINARE LA “TRIPLICE SANZIONE”?
(link a www.gazzettaamministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
M. Dell'Unto,
DISCIPLINA DEI PAGAMENTI NEI CONTRATTI
PUBBLICI DI FORNITURE E SERVIZI
(tratto da www.gazzettaamministrativa.it). |
ENTI LOCALI:
F. Mazzella,
LA GESTIONE ASSOCIATA DI SERVIZI E FUNZIONI
COMUNALI (link a
www.gazzettaamministrativa.it). |
APPALTI:
S. Napolitano,
L’EFFETTO SOSPENSIVO DELLA STIPULA DEL
CONTRATTO PUBBLICO (LA C.D. CLAUSOLA DI
“STAND STILL”) (link a
www.gazzettaamministrativa.it). |
APPALTI:
P. Pittelli,
ASSOCIAZIONE TEMPORANEA DI IMPRESE ED
ASSOCIAZIONE PER COOPTAZIONE
(link a www.gazzettaamministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
F. V. Prosperetti,
NORME SOPRAVVENUTE IN PENDENZA DI PROCEDURE
CONCORSUALI: LA SOLUZIONE DELLA
GIURISPRUDENZA (link a
www.gazzettaamministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G. Dall'Ozzo,
LA ESIMENTE POLITICA - La portata
dell'art. 1, co. 1-ter, l. 20/1994 così come
novellata dalla l. 639/1996 e dell'art. 49
d.lgs. 267/2000 - La valutazione della
responsabilità dei titolari degli organi
politici per la adozione di atti muniti del
parere favorevole di regolarità
tecnico-contabile e per quelli di competenza
degli uffici tecnici o amministrativi
causativi di danno - La contestualizzazione
con la recente giurisprudenza contabile
(link a www.gazzettaamministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
F. Falco,
MANSIONI SUPERIORI DEL DIPENDENTE PUBBLICO:
IL CONTRASTO GIURISPRUDENZIALE TRA LA CORTE
DI CASSAZIONE ED IL CONSIGLIO DI STATO
(link a www.gazzettaamministrativa.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 –
contratto di nolo a caldo eccedente il 2%
dell’importo delle prestazioni affidate –
responsabilità solidale ex art. 35, comma
28, L. n. 248/2006 (Ministero del Lavoro
e delle Politiche Sociali,
interpello
27.01.2012 n. n.
2/2012).
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Appalto, sub-appalto e nolo a caldo.
La responsabilità solidale è legata alla
figura dell’appalto e non a quella del nolo
a caldo.
Per il Ministero del Lavoro,
la disciplina
in materia di responsabilità solidale è
legata alla figura dell’appalto e non a
quella del nolo a caldo in cui il locatore
mette solo a disposizione il macchinario.
Tuttavia vi è anche un indirizzo
giurisprudenziale che è a favore della
massima estensione della solidarietà a
tutela dei lavoratori.
Con l’interpello
27.01.2012 n. n.
2/2012, il Ministero del Lavoro ha risposto
ad un quesito del Consiglio Nazionale
dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, in
merito alla corretta interpretazione della
norma relativa alla responsabilità solidale
dell’appaltatore e degli eventuali
subappaltatori per il versamento delle
ritenute fiscali e dei contributi
previdenziali ed assicurativi dei dipendenti
impiegati nell’esecuzione dei lavori ed alla
sua eventuale applicazione al contratto di
nolo a caldo.
Posto che per nolo a caldo si intende la
mera locazione del macchinario, per cui il
locatore mette a disposizione solo il
macchinario - che è cosa bene diversa
dall’appalto o subappalto dove i soggetti si
obbligano nei confronti del committente al
compimento di un’opera ovvero alla
prestazione di un servizio, organizzando i
mezzi di produzione e l’attività lavorativa
per il raggiungimento di un risultato
produttivo autonomo – la Direzione Generale
per l’Attività Ispettiva sottolinea che la
disciplina in materia di responsabilità
solidale è evidentemente legata alla figura
dell’appalto e non a quella del nolo a caldo
(ferme restando forme patologiche di
utilizzo di tale ultimo strumento
contrattuale).
Tuttavia, lo stesso Ministero evidenzia che
vi è anche un importante indirizzo
giurisprudenziale che è a favore di
un’estensione quanto più ampia possibile del
regime solidaristico in ragione di una
maggior tutela per i lavoratori interessati
(commento tratto da www.ipsoa.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Disabili, paletti alle
assunzioni.
Corte conti: la spesa per il personale è
onnicomprensiva. Le ultime decisioni
restrittive della magistratura contabile
penalizzano le categorie protette.
La spesa per le assunzioni obbligatorie dei
disabili da parte degli enti locali deve
rientrare nei limiti e vincoli a vario
titolo fissati dalle leggi.
La Corte dei conti sta assumendo un nuovo e
restrittivo orientamento, rispetto alla
possibilità di tenere fuori dal computo
della spesa di personale le assunzioni
effettuate per adempiere agli obblighi
previsti dalla legge 68/1999.
Mentre, infatti, fino a qualche mese fa si
poteva dare per scontata la non
computabilità di tali spese per i tetti
fissati dalla legge, adesso le
interpretazioni sempre più rigoristiche
della magistratura contabile stanno
decisamente modificando il quadro.
In proposito, il
parere 14.09.2011
n. 82 della sezione regione di controllo per
il Molise non lascia troppi spazi alla
possibilità di non computare nell'aggregato
«spesa del personale» le spese per
assunzioni finalizzate ad assolvere agli
obblighi imposti dalla 68/1999.
Secondo il parere, occorre dare privilegio
«al principio di onnicomprensività delle
spese di personale da computare ai fini del
rispetto della percentuale di cui al comma 7
dell'art. 76 del dl n. 112/2008». In altre
parole, l'assunzione dei disabili concorre a
costituire base di calcolo per verificare
che il totale delle spese di personale non
superi il rapporto del 50% sul totale delle
spese correnti.
Secondo la sezione Molise, anche se la spesa
per assumere disabili è finalizzata a
soddisfare obblighi di legge, tuttavia «non
può essere considerata finanziariamente
neutra per l'amministrazione e anzi incide
sull'indice di rigidità della spesa
corrente, che risulta, giova ribadirlo, dal
rapporto tra le principali voci di spesa
fissa -costituite dalle spese per il
personale e dalle spese per il rimborso dei
mutui in ammortamento (quota capitale e
quota interessi)- e il totale delle spese
correnti».
Insomma, la sezione ritiene che tra la
tutela del diritto al lavoro dei disabili,
la cui garanzia crea anche in capo alle
amministrazioni pubbliche l'obbligo di
rispettare le percentuali di assunzioni
obbligatorie, ed il rispetto ai tetti di
spesa per il personale, va risolto a
vantaggio della tutela della finanza
pubblica. Sicché, tra le spese di personale
«devono essere necessariamente incluse anche
quelle sostenute a tutela di categorie
protette di lavoratori senza che la
necessità di adempiere alle assunzioni
obbligatorie possa costituire l'occasione
per la violazione di norme a tutela degli
equilibri di bilancio».
Meno drastica, ma nella stessa direzione, è
l'opinione espressa dalla sezione regionale
di controllo per la Basilicata con la
delibera 25.11.2011 n.
95, secondo il quale non
si deve dimenticare la particolare vincolatività dell'obbligo di assumere i
disabili, espressamente sanzionato «sul
piano penale, amministrativo e disciplinare
secondo quanto previsto dall'art. 15, comma
3, della legge 12.03.1999, n. 68».
Tuttavia, sebbene questa considerazione e il
richiamo che il parere fa a pronunce della
Ragioneria generale e della Funzione
pubblica circa l'esclusione delle spese per
assunzione di disabili dai computi per i
vincoli alla spesa di personale, aprono
spazi alla tesi più elastica, la sezione
conclude in modo diverso.
Il parere
evidenzia che le pubbliche hanno in ogni
caso l'obbligo di attuare tutte le misure programmatorie necessaria ad adempiere agli
obblighi relativi alle categorie protette,
ma rispettando contemporaneamente la
rimanente disciplina pubblicistica sulla
spesa di personale. Insomma, non sarebbe
possibile sforare i tetti di spesa di
personale assumendo disabili; occorrerebbe,
invece, adempiere alla legge 68/1999 avendo
avuto cura, prima, di aver ridotto
l'aggregato della spesa in misura tale da
consentire di assumere i disabili, senza
violare i tetti della spesa di personale.
L'indirizzo della magistratura contabile di
controllo verso letture sempre più
restrittive della normativa sulla spesa del
personale non paiono del tutto
condivisibili. In effetti, la sola
considerazione delle responsabilità anche
penali scaturenti dalla violazione della
legge 68/1999 dovrebbero lasciar intendere
che per l'ordinamento è meritevole di
maggior tutela la garanzia per il lavoro
delle categorie protette, che il rispetto
pedissequo delle norme in materia di finanza
pubblica. Questo atteggiamento di maggior
favore dell'ordinamento verso le categorie
svantaggiate, del resto, è anche ricavabile
dalla Costituzione
(articolo ItaliaOggi
del 03.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Costituisce
danno ingiusto per il comune (c.d. danno
indiretto), e come tale da rimborsare, la
somma corrispondente alla condanna subita
dal medesimo ente locale, a titolo di
risarcimento danni, nei confronti di un
dipendente che era stato oggetto di un
provvedimento di demansionamento in
violazione dell'art. 52 del D.Lgs. n.
165/2001.
Integra il requisito della colpa grave,
sotto il profilo di un comportamento
improntato a notevole negligenza, imperizia
ed imprudenza, la decisione del direttore
generale di un comune il quale -sulla base
di una semplice domanda dell’interessato,
finalizzata peraltro al mero riconoscimento
della dipendenza da causa di servizio di una
patologia- ha adottato un provvedimento di
sostanziale demansionamento di un impiegato,
in violazione dell’art. 52 del d.lgs. n.
165/2001 (che fa divieto di adibire il
lavoratore a mansioni diverse da quelle
della propria qualifica), e che ha poi
comportato la condanna dell’ente al
risarcimento danni in favore del dipendente.
... L’aver deciso, infatti, sulla base di
una semplice domanda dell’interessato,
avente, peraltro, finalità completamente
diverse da quella di essere sollevato dalle
proprie mansioni di geometra e cioè intesa,
invero, al mero riconoscimento della
dipendenza da causa di servizio delle
denunciate patologie cardiovascolari, l’aver
in tal modo dato luogo ad un provvedimento
sostanzialmente di demansionamento, in
violazione dell’art. 52 del decreto
legislativo n. 165/2001, sono elementi che
comprovano un comportamento improntato a
notevole negligenza, imperizia ed
imprudenza, tanto più grave per un soggetto,
come l’appellante, al quale erano state
affidate le delicate funzioni di direttore
generale dell’Ente locale.
Inoltre, non può sottacersi che sotto la
stessa data di emissione della
determinazione n. 5 del 17.02.2003 il ...,
per il tramite del proprio sindacato ebbe a
contestare siffatta disposizione, adducendo
di non aver mai chiesto alcuna mobilità
interna o cambio di profilo professionale,
peraltro, in quel momento impossibile, non
essendo stata apportata alla pianta organica
di quel Comune alcuna modifica, giusta art.
34 della legge n. 289/2002.
Altresì, non è privo di rilevo il fatto che
alla lettera dell’interessato, inviata il
04.03.2003, per comunicare che al proprio
rientro dal periodo di assenza per malattia
egli avrebbe ripreso servizio presso la
ripartizione tecnica, il dr. ..., con nota
di riscontro del 07.03.2003, abbia replicato
confermandone l’assegnazione alle nuove
mansioni, assunte poi effettivamente dallo
stesso in data 19.03.2003.
Quanto innanzi esposto, denota certamente un
comportamento gravemente colposo che, come
ben delineato anche nella sentenza emessa
dal Tribunale di Bari – Sez. Lavoro, citata
nella parte in fatto, viola palesemente
tutti gli indici individuati dalla
giurisprudenza per poter considerare
corretto l’esercizio dello “ius variandi”,
il quale, sintetizzando, “deve comunque
consentire al dipendente nell’esercizio
delle nuove mansioni di utilizzare la sua
professionalità acquisita e di arricchirla
con possibilità di crescita professionale”.
L’ordinanza di assegnazione, concretizzatasi
in sostanza in un demansionamento,
sicuramente effettuato in violazione
dell’art. 52 del D.L.vo n. 165/2001, si
pone, altresì, in contrasto con l’art. 97
della Costituzione che dispone che i
pubblici uffici siano organizzati in modo da
assicurarne il buon andamento, nel senso
dell’efficacia e dell’efficienza del
servizio offerto. L’atto in discussione,
invece, ha rimosso un dipendente qualificato
e competente dalle sue naturali mansioni per
destinarlo ad un ufficio che non aveva nulla
a che vedere con la professionalità dello
stesso e, per di più, in risposta ad una
richiesta volta ad altre finalità.
Assegnazione disposta, oltretutto, senza
aver preventivamente acquisito il consenso
da parte dello stesso interessato che, come
detto, prima di intraprendere il giudizio
che ha visto soccombente il Comune, aveva
espresso la sua assoluta contrarietà a tale
differente collocazione lavorativa.
Ritiene, quindi, il Collegio che il giudice
di prime cure correttamente ha ritenuto
esistente il nesso causale tra la condotta
del ... ed il danno finanziario patito dal
Comune di Casamassima.
Peraltro, tenuto conto che il sig. ... è
cessato dalle funzioni di Direttore generale
del Comune di Casamassima il 13.10.2003 e
che, pertanto, dopo l’adozione della
delibera n. 5 del 17.02.2003 di
trasferimento del dipendente ad altro
ufficio, nella esecuzione di detta delibera
sono intervenuti successivamente altri
soggetti, il Collegio ritiene equo
determinare il danno da porre a carico
dell’appellante nell’importo di Euro
8.500,00 comprensivo di interessi e
rivalutazione monetaria
(Corte dei Conti, Sez. I giurisdiz.
centrale,
sentenza 09.11.2011 n. 510 - link
a www.corteconti.it). |
NEWS |
APPALTI: SEMPLIFICAZIONI/ Documenti on-line negli
appalti.
La Banca dati dei contratti pubblici sarà
operativa dal 2013.
Niente più documenti nelle gare pubbliche
con l'avvio della banca dati nazionale dei
contratti pubblici; la sanzione
dell'esclusione dalle gare per false
dichiarazioni potrà essere anche inferiore a
un anno; gare pubbliche per la scelta degli
sponsor per interventi sui beni culturali;
656 milioni per gli interventi urgenti di
ammodernamento e messa in sicurezza delle
scuole.
Sono queste alcune delle novità previste nel
testo definitivo del decreto-legge sulle
semplificazioni varato ieri dal Consiglio
dei ministri dopo una settimana di
aggiustamenti tecnici che hanno riguardato
soprattutto le parti sull'istruzione e
l'università.
Del tutto confermata quindi la forte
semplificazione che verrà attuata nelle
procedure di affidamento di appalti pubblici
e concessioni per le quali si prevede la
messa online dei documenti e dei dati utili
alla verifica del possesso dei requisiti di
qualificazione dei concorrenti. L'impatto
sarà particolarmente rilevanti per i settore
delle forniture e dei servizi, privi di un
sistema di qualificazione vero e proprio
come esiste nel settore dei lavori che,
tramite l'attestazione emessa dalle Soa,
riesce ad evitare la qualificazione gara per
gara, per i requisiti di capacità economica
e tecnica delle imprese di costruzioni (i
certificati Soa hanno una validità di cinque
anni).
Il decreto dà impulso alla banca dati
introdotta nel 2010 con il comma 1 dell'art.
44, dal dlgs. 235/2010. In particolare si
prevede che dall'01.01.2013 tutta la
documentazione relativa alla prova dei
requisiti di capacità economico-finanziaria
e tecnico organizzativa dei concorrenti
dovrà essere acquisita presso la Banca dati
nazionale dei contratti pubblici che ha sede
presso l'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici. Sarà quindi l'Autorità
di vigilanza a definire quali dati utili
alla partecipazione alle gare, nonché alla
valutazione delle offerte, debbano essere
inclusi nella banca dati. La stessa Autorità
dovrà definire i termini e le regole
tecniche per l'acquisizione, l'aggiornamento
e la consultazione dei dati.
Le
amministrazioni, all'inizio del 2013, non
potranno quindi più chiedere documenti per
verificare il possesso dei requisiti, il che
dovrebbe portare le amministrazioni
pubbliche, attraverso i controlli
«elettronici» su ciascuna impresa, a
risparmiare qualcosa come 1,3 miliardi
l'anno, stando alle stime del governo. Per
l'attivazione della banca dati tutti i
soggetti pubblici e privati che detengono
dati e documenti relativi ai requisiti di
partecipazione, avranno l'obbligo di messa a
disposizione dell'Autorità di tali dati e
documenti.
Novità in vista anche per le
sanzioni irrogate dall'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici per false
dichiarazioni rese dai concorrenti che
partecipano ad appalti pubblici. Si incide
sulla disciplina ad oggi vigente che prevede
che se un concorrente presenta un documento
falso o dichiara situazioni non veritiere,
scatta l'obbligo per la stazione appaltante
di segnalare l'accaduto all'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici.
L'organismo di vigilanza deve a sua volta
effettuare un'istruttoria per verificare la
presenza di dolo o colpa grave e, in
considerazione della rilevanza o della
gravità dei fatti, disporrà l'iscrizione nel
casellario informatico ai fini
dell'esclusione dalle procedure di gara e
dagli affidamenti di subappalto per un
periodo fino a un anno.
Una volta trascorso
il termine della sanzione (che quindi potrà
essere anche di qualche mese e non,
automaticamente di un anno), l'iscrizione
verrà ex lege cancellata e perderà comunque
efficacia. Il decreto-legge prevede inoltre,
per i beni culturali, l'obbligo di gara sia
per le sponsorizzazioni di puro
finanziamento, sia per quelle tecniche (di
progettazione ed esecuzione). Le
amministrazioni dovranno inserire gli
interventi da inserire in un apposito
allegato al programma triennale; gara a
rilanci plurimi per l'individuazione del
maggiore finanziamento.
La gara si è
previsto che si svolgerà con offerte di
rilancio migliorative successive alla
graduatoria, anche se l'amministrazione
dovrà comunque definire un termine massimo
per i rilanci. Il contratto è previsto che
venga aggiudicato al soggetto che ha offerto
il maggiore finanziamento, o che ha proposto
l'offerta realizzativa giudicata migliore,
in caso di sponsorizzazione tecnica. Il
decreto legge prevede anche una più
articolata disciplina sulle certificazioni
dei lavori all'estero, che coinvolgerà i
consolati e gli uffici del Ministero degli
affari esteri, con una particolare garanzia
per i subappaltatori di imprese italiane i
quali potranno anche chiedere le
certificazioni in via autonoma.
Il provvedimento prevede anche la messa in
campo di risorse economiche per un piano
urgente di ammodernamento e messa in
sicurezza del patrimonio scolastico (con 656
milioni) in vista dell'adozione di un piano
più ampio teso all'obiettivo di ammodernare
e razionalizzare tutto il patrimonio di
immobili adibiti a scuole.
---------------
Una soluzione per verificare i requisiti
degli appaltatori.
Una soluzione al problema delle verifiche
sul rispetto della posizione previdenziale
degli appaltatori viene offerta dal disegno
di legge di semplificazione. Infatti, in
materia di appalti pubblici si prevede la
creazione di una Banca dati nazionale dei
contratti pubblici alla quale tutti i
soggetti pubblici e privati dovranno
conferire i dati e i documenti relativi al
possesso dei requisiti di carattere
generale, tecnico-organizzativo ed
economico-finanziario previsti dal dlgs
163/2006, per la partecipazione agli
appalti.
L'intento è creare una banca dati on-line,
alla quale le stazioni appaltanti potranno
attingere per acquisire le informazioni
connesse al possesso dei requisiti degli
appaltatori. Dall'01.01.2013, se le
cose andranno come il disegno immaginato dal
ministro della funzione pubblica Filippo
Patroni Griffi auspica, la banca dati sarà
operativa e tutte le amministrazioni avranno
il dovere di verificare i requisiti
esclusivamente controllando i dati in essa
conservati.
Tra i requisiti di ordine generale previsti
dall'articolo 38 del codice dei contratti vi
è quello di non aver commesso violazioni
gravi, definitivamente accertate, alle norme
in materia di contributi previdenziali e
assistenziali: si tratta di informazioni
attestate o, meglio, certificate tramite il
Durc.
In merito, come è noto, si è recentemente
espresso il ministero del lavoro che con la
nota 16.01.2012, n. 619 ha sostenuto la
non autocertificabilità del Durc. Tale tesi
è erronea e destituita di fondamento proprio
dall'articolo 38, comma 2, del dlgs
163/2006, che considera espressamente
sostituibile da dichiarazioni ai sensi del
dpr 445/2000 la situazione di regolarità
previdenziale.
Le informazioni certificate dal Durc,
dunque, non solo possono, ma devono essere
oggetto di dichiarazioni sostitutive.
Oggi, tuttavia, l'unico sistema per
verificarne la veridicità è chiedere al Durc
o a Inps, Inail o Cassa Edile l'emanazione
del Durc, che in quanto vero e proprio
certificato non potrebbe essere utilizzato
dalle pubbliche amministrazioni. Un grave
contrasto operativo, cagionato dalla
frettolosa normativa in tema di
semplificazione amministrativa, introdotta
dalla legge 183/2011.
La Banca dati nazionale dei contratti
pubblici rappresenta la soluzione al
problema. Se, infatti, sarò obbligatorio
conferirvi tutti i dati relativi ai
requisiti generali, Inps, Inail e Cassa
edile saranno tenute ad aggiornare detta
Banca dati.
Le amministrazioni appaltanti, dunque,
finalmente invece di dover chiedere
l'emissione del Durc (e aspettare 30
giorni), potranno accedere direttamente alle
informazioni online, senza che venga emesso
alcun certificato. E senza nessun conflitto
con la normativa un po' avventuristica
introdotta in merito dalla legge di
stabilità
(articolo ItaliaOggi
del 04.02.2012). |
ENTI LOCALI: Lotta
al sommerso. Le attività rilanciate dal
provvedimento delle Entrate si estendono al
lavoro nero.
Sindaci a caccia in bar e cantieri.
Commercio ed edilizia sono gli ambiti più
adatti per scovare imposte.
LE CARATTERISTICHE/
Le aree promettenti sono quelle legate al
controllo del territorio che offrono
vantaggi anche alla fiscalità locale.
Attività totalmente in nero e lavoratori
irregolari. Evasione nel settore
dell'edilizia e contrasto a operazioni che
sfiorano i confini dell'elusione, senza
dimenticare l'emersione delle residenze
estere fittizie. Sono numerosi i campi di
attuazione della collaborazione dei Comuni
all'accertamento delle entrate erariali, ma
non è facile individuare i comparti in grado
di generare «segnalazioni qualificate» senza
richiedere una complessa organizzazione da
parte dell'ente locale. In effetti, la
cooperazione dei Comuni funziona solo se
mette in moto delle sinergie con le
operazioni svolte ordinariamente a livello
locale. Alla base di tutto vi è il controllo
del territorio che normalmente viene
esercitato dalle amministrazioni, con
riferimento sia alle attività economiche sia
al settore immobiliare.
Sotto il profilo dei controlli delle
attività economiche, un settore che dovrebbe
spesso essere sotto osservazione è quello
del commercio ambulante. Un'attività svolta
abusivamente rileva di per sé sotto un
duplice profilo: amministrativo, in quanto
esercitata in assenza dell'apposita
autorizzazione, e tributario, in quanto
consuma l'evasione della Tosap, la tassa di
occupazione, e della tassa rifiuti
giornaliera. Si comprende pertanto perché
l'ultimo provvedimento direttoriale abbia
incluso il commercio su aree pubbliche tra i
comparti di cooperazione privilegiata con
l'Inps. In occasione delle verifiche
ordinarie sarà infatti sufficiente
richiedere i dati della comunicazione unica,
fiscale e contributiva, per l'assolvimento
degli obblighi previdenziali. Ma controlli
analoghi possono svolgersi anche nei
riguardi dei pubblici esercizi. Si pensi ad
un bar o ristorante che occupi abusivamente
con sedie e tavolini aree pubbliche. I
controlli della polizia locale o degli
addetti all'ufficio tributi potrebbero far
emergere,oltre all'occupazione abusiva,
evasioni contributive.
L'apertura di cantieri edili rileva
anch'essa per l'occupazione di suolo
pubblico e in tale ambito ben potrebbe
svelare lavoratori in nero.
Dalle verifiche eseguite in loco, con
accesso diretto ai locali, in occasione dei
controlli Tarsu sono stati rilevati affitti
in nero, attraverso l'identificazione del
soggetto occupante. Si tratta di una
situazione piuttosto frequente nelle
residenze degli studenti universitari. Un
evasore totale dell'Ici con una certa
probabilità potrebbe essere anche evasore
delle imposte sui redditi degli immobili.
Il fenomeno della pubblicità abusiva, cioè
effettuata su impianti non autorizzati,
potrebbe far emergere sia evasioni da parte
del soggetto detentore dell'impianto, che
verosimilmente non avrà fatturato il
compenso per l'affissione, sia un'attività
irregolare da parte del soggetto
pubblicizzato.
Molto più complessa è invece la prova
relativa alle residente fittizie all'estero.
In questo caso, non è sufficiente
un'indagine episodica, che fotografi la
situazione del momento, perché occorre
dimostrare che il centro degli interessi del
contribuente continua ad essere nel Comune
di provenienza.
Come si vede, gli spunti per agire sono
numerosi. La difficoltà maggiore è nel
tramutare queste circostanze in segnalazioni
qualificate. Talvolta l'evidenza dei fatti è
di per sé sufficientemente esplicativa (si
pensi al commercio abusivo). Più spesso
occorre invece una ulteriore attività
istruttoria da parte del comune, da
svolgersi anche attraverso la consultazione
di banche dati (si pensi all'affitto in
nero, che potrebbe richiedere la verifica
delle utenze). Si tratta indubbiamente di
un'attività che richiederà tempo e
preparazione specifica perché diventi una
prassi abituale e efficiente
(articolo ItaliaOggi
del 04.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Imu, il versamento si farà in due.
Il contribuente calcolerà la quota comunale
e quella statale. In arrivo due codici
tributo. Ma sarà l'Agenzia delle entrate a
stabilire le modalità di pagamento.
Spetta al contribuente calcolare l'Imu per
determinare le quote di competenza per stato
e comuni e effettuare un duplice versamento.
Il maggior gettito Imu incassato dagli enti
locali, rispetto all'Ici, verrà compensato
da una riduzione di pari importo del fondo
sperimentale di riequilibrio.
Sono alcune delle precisazioni contenute in
una nota dell'Ifel con la quale ha fornito
ai comuni delle indicazioni sulle regole
della nuova imposta locale.
L'istituto di finanza locale ha preso
posizione sulla questione dei versamenti del
tributo, considerato che la norma di legge
non è molto chiara nella formulazione.
L'articolo 13 del dl Monti (201/2011),
infatti, si limita a stabilire che la somma
di competenza dello stato deve essere
versata «contestualmente all'imposta
municipale propria».
Inoltre, in deroga a
quanto disposto dall'articolo 52 del decreto
legislativo 446/1997, che attribuisce agli
enti il potere di decidere le modalità di
riscossione, spontanea e coattiva, delle
proprie entrate, l'Imu deve essere versata
solo con l'F24. Dunque, il contribuente
dovrà indicare nel modello F24 due codici
tributo diversi e, secondo l'Ifel, dovrà
effettuare un duplice versamento: «Uno a
favore del comune e l'altro a favore dello
stato». Tuttavia, in base a quanto disposto
dall'articolo 13, le modalità di versamento
verranno stabilite con un provvedimento del
direttore dell'Agenzia delle entrate.
L'Ifel fornisce dei chiarimenti anche sui
trasferimenti erariali. In particolare, il
fondo sperimentale di riequilibrio è ridotto
in misura corrispondente al maggior gettito
Imu, ad aliquota base, rispetto all'Ici.
Quindi, le maggiore somme incassate dai
comuni con l'Imu verranno compensate da una
riduzione di pari importo del fondo
sperimentale. Naturalmente se il gettito
sarà inferiore, dovrà essere riconosciuto
l'importo della quota non riscossa.
Per quantificare le risorse delle quali
l'ente sarà destinatario occorre fare
riferimento alla disciplina di legge,
applicando le aliquote di base e le
detrazioni obbligatorie. Le componenti
principali sono: abitazione principale,
immobili rurali strumentali, abitazioni
assimilate all'abitazione principale che
erano esenti dall'Ici, terreni agricoli e
aree edificabili. Per queste diverse
fattispecie è necessario valutare
l'incremento dei coefficienti moltiplicatori
per determinare la base imponibile Imu e
rilevare le differenze rispetto all'Ici. Si
legge nella nota, che l'effetto espansivo
del nuovo tributo locale non è costituito
solo dall'incremento dei coefficienti e
dell'aliquota di base (7,6 per mille), che è
dunque superiore all'aliquota massima (7 per
mille) fissata per l'Ici, ma anche
dall'abolizione «di diverse aree di
esclusione e di esenzione che devono essere
valutate in modo il più possibile
specifico».
L'incremento di gettito può derivare dalla
quota di tributo che i comuni incasseranno
dai fabbricati assimilati all'abitazione
principale, che dal 2008 non hanno pagato
l'Ici, e dalle restrizioni apportate dalla
legge alle varie forme di agevolazione.
Nello specifico, l'abolizione
dell'agevolazione riservata agli immobili
storici, l'eliminazione della riduzione
d'imposta per i fabbricati inagibili o
inabitabili, la mancata previsione
dell'aliquota ridotta per gli immobili dati
in affitto. Per questi ultimi, nella nota si
pone in rilievo che i benefici fiscali per
gli «affitti in regime concordato ex legge
431/1998» erano piuttosto diffusi. La
forbice è stata usata anche per tagliare
l'esenzione per gli immobili ristrutturati
destinati a essere utilizzati dai disabili e
l'agevolazione per l'installazione di
impianti rinnovabili di energia e risparmio
energetico.
In una seconda nota emanata dall'Ifel,
invece, vengono prese in esame le entrate
comunali e fornite le istruzioni per l'uso
per la redazione dei bilanci. In
particolare, viene posto in rilievo che la
norma del decreto Monti è
«ingiustificatamente penalizzante per i
comuni», in quanto prevede che la quota
riservata allo stato «rimanga indenne» non
solo dalle scelte regolamentari e tariffarie
fatte dagli enti, «ma anche dalle detrazioni
previste per legge», che incidono sulla
quota a loro destinata. Per esempio, per le
amministrazioni locali che hanno sul proprio
territorio tanti immobili posseduti dagli Ater/Iacp
o dalle cooperative edilizie a proprietà
indivisa, per i quali spetta la detrazione
nella misura stabilita dalla legge, la quota
di gettito di competenza dell'erario potrà
risultare più elevata del 50%
(articolo ItaliaOggi
del 03.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Partecipate, nuovi
limiti sul personale.
Stretta su in house e aziende speciali. Ma
si pone il problema del consolidato. Il
decreto liberalizzazioni solleva più di un
dubbio interpretativo.
Enti locali in cerca di regole certe sul
personale di società in house, aziende
speciali ed istituzioni.
Il decreto sulle liberalizzazioni (dl
1/2012), infatti, estende ai predetti
soggetti le «disposizioni che stabiliscono a
carico degli enti locali divieti o
limitazioni alle assunzioni di personale»
(art. 25, commi 1 e 2). Ma tali previsioni
danno luogo a non pochi dubbi
interpretativi.
Attualmente, in questa materia, gli enti
locali sono principalmente soggetti a tre
tipologie di vincoli.
In primo luogo, essi devono garantire la
riduzione o il contenimento delle spese di
personale: per gli enti soggetti al Patto di
stabilità interno il riferimento è la spesa
(impegni) relativa all'anno precedente,
mentre per quelli non soggetti vale il dato
relativo all'anno 2004 (art. 1, commi 557 e
562, della legge 296/2006).
Il secondo vincolo (che si applica a tutti
gli enti locali senza distinzioni) comporta
un divieto di assumere per gli enti nei
quali la spesa di personale è superiore al
50% delle spese correnti.
Infine, le nuove assunzioni devono
rispettare la regola del turnover, che
consente nuovi ingressi solo in una certa
proporzione rispetto alle cessazioni: anche
in tale ambito la disciplina è differenziata
per gli enti soggetti al Patto (per i quali
il turnover è consentito nei limiti del 20%
della spesa corrispondente alle cessazioni
dell'anno precedente, con la sola eccezione
degli addetti alla polizia locale, ma
limitatamente agli enti nei quali il
rapporto fra spese di personale e spese
correnti non supera il 35%) e per gli altri
enti (che possono applicare un criterio «per
teste», ovvero assumere un nuovo dipendente
per ogni cessazione intervenuta l'anno
prima).
Per effetto dell'art. 25, comma 2, del dl
1/2012 cit., tali vincoli si applicano ora
in modo diretto anche alle aziende speciali
ed alle istituzioni. La decorrenza di tale
previsione non è chiara. L'incipit della
norma (che novella l'art. 114 del Tuel,
inserendovi un nuovo comma 5-bis) recita «a
decorrere dall'anno 2013», ma sembrerebbe
riferirsi solo all'estensione, nei confronti
dei medesimi soggetti, del Patto, in
considerazione del fatto che ciò richiederà
un apposito decreto ministeriale attuativo
da emanare entro il prossimo 30 ottobre.
Viceversa, per le norme in materia di
personale pare più corretta la tesi
dell'estensione immediata.
Quanto alle società in house, esse, in virtù
di quanto previsto dal comma 1 dello stesso
art. 25 (che introduce nel testo del dl
138/2011 il nuovo art. 3-bis), sono chiamate
ad adottare specifici provvedimenti per
adeguarsi alle medesime norme. Anche in tal
caso, l'obbligo pare immediatamente cogente.
Al momento, non è chiaro se società in
house, aziende speciali e istituzioni
debbano applicare le regole sopra
succintamente richiamate, per così dire, «atomisticamente»,
ovvero considerando ciascun soggetto come
autonomo, o se invece occorra consolidare le
relative spese di personale con quelle
dell'ente o degli enti locali di
riferimento.
La prima soluzione sembra più rispettosa del
dato letterale delle norme, ma pone diversi
problemi, considerata anche la presenza di
discipline differenziate per i diversi tipi
di enti. D'altra parte, il consolidamento è
già espressamente previsto in relazione alla
verifica del rapporto fra spese di personale
e spese correnti con riguardo alle società
(non quotate) a partecipazione pubblica
locale totale o di controllo che sono
titolari di affidamento diretto di servizi
pubblici locali senza gara, ovvero che
svolgono funzioni volte a soddisfare
esigenze di interesse generale aventi
carattere non industriale, né commerciale,
ovvero che svolgono attività strumentali.
La
stessa Corte dei conti si è espressa a
favore della secondo opzione con riferimento
sia alle Unioni di comuni che alle stesse
aziende speciali, anche se con pronunce non
sempre concordi (basti pensare al recente
parere n. 14/2011 della sezione autonomie,
che esclude dall'obbligo di consolidamento
ai fini della verifica del limite del 50% le
partecipate indirette e gli organismi
partecipati non societari).
Del resto, che la strada del futuro sia
quello del bilancio consolidato è confermato
anche dall'evoluzione in atto dei sistemi
contabili, anche se a tal fine è prevista
una fase sperimentale che durerà almeno due
anni
(articolo ItaliaOggi
del 03.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI SERVIZI: I
servizi finanziari sono esclusi dal Codice
dei contratti pubblici.
Servizi finanziari fuori dal campo di
applicazione del codice dei contratti. Il
decreto sulle semplificazioni chiude la
controversia interpretativa sulla necessità
di assoggettare o meno alle regole del dlgs
163/2006 i contratti con i quali le
pubbliche amministrazioni intendono
acquisire servizi erogati dalle banche,
modificando l'articolo 20, comma 2, del
codice, che indica negli appalti elencati
nell'allegato IIA quelli soggetti all'intera
disciplina codicistica. Tale allegato al
punto 6-b), include tra gli appalti ai quali
applicare tutte le regole di dettaglio del
codice quelli relativi ai «servizi bancari
ed assicurativi».
Ciò ha da sempre
determinato un contrasto interpretativo ed
operativo, dal momento che ai sensi
dell'articolo 19, comma 1, lettera d), sono
totalmente esclusi dalla disciplina del
codice dei contratti gli appalti
«concernenti servizi finanziari relativi
all'emissione, all'acquisto, alla vendita e
al trasferimento di titoli o di altri
strumenti finanziari, in particolare le
operazioni di approvvigionamento in denaro o
capitale delle stazioni appaltanti, nonché i
servizi forniti dalla Banca d'Italia».
Il decreto sulle semplificazioni cerca di
fare chiarezza e modificando l'articolo 20,
comma 2, del dlgs 163/2006 che nella nuova
stesura stabilisce: «salvo quanto previsto
dall'articolo 19, comma 1, lettera d), gli
appalti di servizi elencati nell'allegato II
A sono soggetti alle disposizioni del
presente codice». La novellazione
dell'articolo 20, comma 2, ha il chiaro
scopo di precisare che resta ferma
l'esclusione dei servizi finanziari dal
campo di applicazione del codice. Dunque, le
stazioni appaltanti debbono solo applicare i
principi generali di buon andamento e
imparzialità per selezionare le imprese alle
quali rivolgersi per ottenere prestiti e
gestione di titoli.
Restano, invece, soggetti al codice i
servizi bancari. Se il legislatore avesse
voluto escludere anche questi dalle regole
codicistiche, oltre a novellare l'articolo
20, comma 2, avrebbe anche dovuto
riformulare il testo del punto 6-b),
dell'allegato IIA, cosa che non è avvenuta.
Gli enti locali si chiedono, allora, cosa
cambi per quanto concerne gli appalti
finalizzati all'acquisizione del servizio di
tesoreria. In effetti, il decreto sulle
semplificazioni in questo campo non modifica
nulla. Il servizio di tesoreria appartiene
alla tipologia dei servizi bancari e non a
quelli finanziari. Tuttavia, anche il
servizio di tesoreria non deve essere
assoggettato a tutte le regole di dettaglio
disposte dal codice. Come ha chiarito di
recente il Consiglio di stato, sezione V,
con sentenza 06.06.2011, n. 3377, il
servizio di tesoreria, visto che non prevede
il pagamento di alcun prezzo da parte
dell'amministrazione, è da inquadrare non
come appalto, ma come concessione di
servizi.
Infatti, l'istituto bancario assume
integralmente il rischio della gestione ed
ottiene la remunerazione in via esclusiva
con le tariffe ed i prezzi ai propri
clienti. Così stando le cose, il servizio di
tesoreria è disciplinato dall'articolo 30
del dlgs 163/2006, dedicato alle concessioni
di servizi, che come gli appalti indicati
nell'allegato IIB al codice, non sono
regolate dalla disciplina di dettaglio del
codice stesso
(articolo ItaliaOggi
del 03.02.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contrattazione
decentrata 2012, non serve aspettare il varo
dei bilanci.
È opportuno che le amministrazioni avviino
subito la contrattazione decentrata
integrativa per l'anno 2012 in modo da
potere arrivare alla ripartizione del
trattamento economico accessorio premiando
le performance e la meritocrazia. Peraltro
non vi sono dubbi rilevanti, a differenza
dell'anno passato, nella determinazione del
fondo per le risorse decentrate.
Occorre
subito rilevare che per la costituzione del
fondo non occorre attendere l'approvazione
del bilancio preventivo: non vi è infatti
alcun vincolo in questa direzione né in modo
esplicito né implicito. Al massimo, per la
concreta erogazione delle risorse variabili
è opportuno attendere l'approvazione di
questo documento programmatico. Nella
quantificazione della parte stabile del
fondo non può essere usato l'articolo 15,
comma 5, del Ccnl 01/04/1999 per aumentare la
capienza complessiva. Non vi sono dubbi che
i risparmi derivanti dalle progressioni
economiche dei dipendenti cessati dal
servizio continuino a ritornare tra le somme
disponibili: in questo caso infatti non
abbiamo un incremento del fondo.
L'unico
dubbio riguarda il possibile inserimento
della retribuzione individuale di anzianità
e degli assegni ad personam dei dipendenti
cessati dal servizio: la Ragioneria generale
dello stato lo ha escluso, quanto meno per
le amministrazioni statali, nella propria
circolare n. 20/2010, mentre la successiva
circolare 12/2011 del ministro dell'economia
non ne fatto cenno. Per la costituzione
della parte variabile le possibilità
previste dai contratti nazionali, in
particolare l'articolo 15, comma 5 e comma
2, del Ccnl 01/04/1999, non possono dare luogo
ad un aumento delle risorse.
Le sezioni
unite di controllo della Corte dei conti
hanno ammesso come deroghe esclusivamente
quelle previste per la incentivazione degli
uffici tecnici in caso di realizzazione di
opere pubbliche e per gli avvocati in caso
di contenziosi risolti con successo per
l'ente. La Rgs e la sezione di controllo
della magistratura contabile pugliese
consentono l'aumento del fondo per le
risorse derivanti dai risparmi nella
utilizzazione del fondo. Rimane da
risolvere, ma il tema è di minore attualità
nell'anno 2012, il dubbio sulla possibilità
di incrementare il fondo con i compensi
derivanti dall'Istat per il censimento.
Una volta costituito il fondo si possono
avviare le trattative per la ripartizione
del fondo. Ricordiamo che non è necessario
attendere la presentazione di una
piattaforma da parte dei sindacati e che è
opportuno che la giunta formuli delle
direttive per la delegazione trattante di
parte pubblica. Non vi sono certezze per
potere andare a una rivisitazione
complessiva della contrattazione decentrata:
appare opportuno limitare le trattative
solamente alla ripartizione del fondo,
mentre un intervento sulla parte
istituzionale è necessario solamente se vi
sono dei dubbi di illegittimità delle norme
esistenti.
Il tempestivo avvio delle trattative per la
ripartizione del fondo consente di spostare
una parte significativa delle risorse per la
incentivazione delle attività finalizzate al
perseguimento dei risultati richiesti
dall'amministrazione. Cioè di incentivare la
produttività del personale e le indennità di
risultato per i dirigenti ed i titolari di
posizione organizzativa
(articolo ItaliaOggi
del 03.02.2012 - tratto da
www.corteconti.it). |
CONSIGLIERE COMUNALE: OSSERVATORIO VIMINALE/ Vigili, incompatibilità soft.
Si può ricoprire la carica di consigliere
comunale. L'istituzione di una
convenzione di polizia locale non crea una
causa ostativa.
In caso di comuni convenzionati per
l'esercizio della funzione di polizia
locale, sussiste una situazione di
incompatibilità tra lo svolgimento delle
funzioni di vigile urbano di uno dei comuni
convenzionati e quella di consigliere
comunale del comune capo convenzione?
Le disposizioni in materia di cause ostative
alla candidatura sono dettate dagli artt. 55
e ss. del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267. Per quanto attiene al caso di
specie, l'art. 60, comma 1, n. 7 Tuel
dispone che non sono eleggibili a
consigliere i dipendenti del comune e della
provincia per i rispettivi consigli; l'art.
63, comma 1, n. 7, dispone altresì che,
qualora tale condizione di ineleggibilità si
verifichi nel corso del mandato, la stessa
configura una condizione di incompatibilità.
Per accertare, quindi, se nel caso in esame
sussista l'ipotesi dell'incompatibilità
prevista dall'art. 63, comma 1, n. 7 Tuel è
necessario verificare quale sia l'ente
locale di cui il vigile urbano è dipendente.
Gli elementi costitutivi del rapporto
subordinato, in base a quanto previsto
dall'art. 2094 c.c., sono la sottoposizione
del lavoratore al potere di direzione del
datore di lavoro, la continuità della
prestazione e la retribuzione. Nel caso di
specie i suddetti elementi ricorrono nel
rapporto intercorrente tra il vigile urbano
e il comune nel cui organico questi è
inserito, mentre la dipendenza funzionale
con il comune capo convenzione è solamente
un effetto derivante dalla convenzione
sottoscritta tra i due comuni ed è in ogni
caso limitata alla durata della stessa.
Pertanto, nel caso di specie, non sussistono
cause ostative all'espletamento della carica
di consigliere comunale atteso che, come più
volte sancito dalla Corte di cassazione, le
norme che restringono eccezionalmente i
diritti di status sono di stretta
interpretazione
(articolo ItaliaOggi
del 03.02.2012). |
CONSIGLIERE COMUNALE: OSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità.
Sussiste una causa di incompatibilità
sopravvenuta nei confronti di un consigliere
comunale che svolge funzioni di lavoratore
socialmente utile?
La questione sollevata va analizzata alla
luce dell'art. 60, comma 1, n. 7, del
decreto legislativo n. 267/2000, ai sensi
del quale non sono eleggibili nel rispettivo
consiglio comunale i dipendenti del comune.
La giurisprudenza ha escluso dall'ipotesi
dell'ineleggibilità prevista dalla norma
citata la sola ipotesi del lavoro autonomo
(Cassazione civile, sez. I, n. 9762 del
15/9/1995; Tribunale di Sassari, sez. civ.
sent. n. 1254 del 13/11/ 2002) e del
lavoratore che non espleti attività
lavorativa a favore del Comune in virtù di
un contratto di fornitura di lavoro, in
quanto al servizio esclusivo di una impresa
esterna, unica titolare del potere
disciplinare (Cassazione civile, sez. I,
11/03/2005, sent. n. 5449).
La ratio della
norma è quella di garantire il più possibile
la separazione tra attività politica e
attività di gestione e l'elemento di
discrimine affermato dalla giurisprudenza è
la sussistenza delle condizioni tipiche del
rapporto di impiego subordinato
(sottoposizione ad ordini e direttive,
inserimento del lavoratore nella struttura
dell'ente. Tuttavia, l'articolo 4 del
decreto legislativo n. 81 del 28.02.2000 ha previsto espressamente che
l'utilizzo nelle attività socialmente utili
o di pubblica utilità non determina
l'instaurazione di un tipico rapporto di
lavoro, interpretazione recepita dalla
costante giurisprudenza.
La Corte di cassazione, s.u. civ., con
sentenza del 27.02.2005, n. 3508, ha
ritenuto che il rapporto intercorrente tra
un lavoratore di pubblica utilità e la p.a.
non ha natura di lavoro subordinato. Tra
l'ente ed il lavoratore viene a sussistere
unicamente un rapporto c.d. di
«utilizzazione»; in tal senso l'art. 8,
comma 1, del dlgs. n. 468/2000, ha
espressamente previsto che l'utilizzazione
dei lavoratori nelle attività che hanno per
oggetto la realizzazione di opere e la
fornitura di servizi di utilità collettiva
(art. 1, comma 1), non determina
l'instaurazione di un rapporto di lavoro e
non comporta la sospensione e la
cancellazione dalle liste di collocamento o
dalle liste di mobilità.
Tale orientamento è
stato consolidato anche dalla sentenza della
Corte di cassazione n. 3 del 03.01.2007,
che ha ribadito l'impossibilità di
configurare, nel rapporto di Lsu, un normale
rapporto di lavoro subordinato pubblico,
chiarendo, altresì, che nei lavori
socialmente utili il rapporto da
configurarsi è quello previdenziale, in
quanto il lavoratore socialmente utile ha il
diritto a emolumenti ai quali, però, non può
riconoscersi natura retributiva ma, per
l'appunto, previdenziale. Tenuto conto che
le cause ostative all'espletamento del
mandato elettivo, disciplinato dal Tuel,
incidendo direttamente sull'esercizio del
diritto di elettorato passivo, sono di
stretta interpretazione e come tali non
suscettibili di estensione analogica, anche
situazioni di fatto che accidentalmente
dovessero evidenziare elementi del rapporto
di lavoro subordinato non precluderebbero
l'assunzione della carica elettiva.
Pertanto, nel caso di specie, non sussiste
la causa di ineleggibilità dettata all'art.
60, comma 1, n. 7 del decreto legislativo n.
267/2000
(articolo ItaliaOggi
del 03.02.2012). |
APPALTI SERVIZI:
Servizi locali. Il ministero dell'Ambiente
ferma le gestioni fuori regola.
In house vietato a società mista senza gara.
QUESTIONE DI CALENDARIO/
La tagliola agli affidamenti prevista dalla
riforma è scattata perché il referendum
abrogativo è intervenuto solo più tardi.
Gli affidamenti in house di servizi pubblici
locali a società miste in cui il socio
privato sia stato scelto senza gara sono
illegittime, anche se l'articolo 23-bis del
Dl 112/2008 che ha introdotto la riforma dei
servizi pubblici locali è stato abolito con
i referendum di giugno.
Lo chiarisce il
ministero dell'Ambiente nella risposta a un
quesito avanzato da un ente locale su una
situazione che torna ancora in modalità
analoghe in parecchi casi sparsi qua e là
per l'Italia.
Il «niet» pronunciato dal ministero
dell'Ambiente, che di fatto condanna
all'illegittimità tutti gli affidamenti in
house a società miste formate senza gara,
nasce da ragioni di calendario. La riforma
dei servizi pubblici, rilanciata dal
«decreto-Ronchi» del 2009 prima di essere
cancellata dai referendum, prevedeva una
serie di date di chiusura per le diverse
tipologie di affidamento.
Nel caso delle società miste, i casi
previsti dalla regola erano tre.
L'affidamento a mista con socio scelto con
gara a doppio oggetto (la procedura con cui
si individua contestualmente il socio e i
compiti operativi connessi alla gestione del
servizio da attribuirgli) poteva arrivare
tranquillamente alla scadenza del contratto.
Nei casi in cui il socio fosse stato scelto
con gara semplice (quella che individua
l'azienda privata partner ma non i compiti
operativi da affidarle), la data di chiusura
era fissata al 31.12.2011, mentre
nelle altre tipologie di partnership lo stop
sarebbe dovuto intervenire entro il 31.12.2010.
Proprio quest'ultima è la data chiave su cui
poggia il ragionamento ministeriale.
Il referendum che ha travolto con l'ondata
di «sì» la liberalizzazione dei servizi
pubblici (prima dell'articolo 4 della
manovra estiva che l'ha rimessa in campo) è
intervenuto nel giugno del 2011, per cui la
tagliola agli affidamenti a società miste
con partner individuato senza gara è rimasta
in vigore per sei mesi.
Ergo: nessun affidamento di questo tipo può
continuare oggi a dispiegare i propri
effetti, perché la sua "esistenza in vita"
avverrebbe grazie alla violazione di una
legge abrogata solo in un secondo momento.
Sulla base degli stessi presupposti,
naturalmente, l'abrogazione obbligatoria non
è intervenuta per gli affidamenti con data
di scadenza successiva al giugno del 2011, a
partire da quelli a società mista scelta con
gara semplice che sarebbero dovuti
tramontare a dicembre.
Per gli affidamenti in house ancora
legittimamente funzionanti, il calendario di
uscita è quello corretto da ultimo dal
decreto sulle liberalizzazioni. In
particolare, possono stare in piedi fino a
fine anno gli affidamenti diretti di servizi
che valgono più di 200mila euro all'anno, la
nuova soglia individuata dal provvedimento
come limite massimo per aggirare la gara.
Una regola, quest'ultima, che di fatto si
traduce in una proroga degli affidamenti
diretti superiore al vecchio limite di
900mila euro, che secondo la manovra bis di
Ferragosto avrebbero dovuto alzare bandiera
bianca entro il prossimo 31 marzo.
---------------
L'intreccio di date
01 | IL PRIMO CALENDARIO
Le date di scadenza degli affidamenti in
house erano state fissate dall'articolo
23-bis del Dl 112/2008. In particolare, per
le società miste, si prevedeva la decadenza
dell'affidamento
- Alla scadenza del contratto, se il socio
era stato individuato con gara a doppio
oggetto (scelta del socio e compiti
operativi connessi alla gestione del
servizio)
- Al 31.12.2011, se il socio era stato
individuato con gara semplice (finalizzata
solo alla scelta del socio)
- Al 31.12.2010 negli altri casi
(società mista senza gara)
02 | IL REFERENDUM
Il referendum abrogativo è intervenuto a
giugno 2011; di conseguenza sono illegittimi
gli affidamenti che sarebbero dovuti
decadere prima di quella data
03 | IL NUOVO CALENDARIO
Il Dl 1/2012 fissa al 31.12.2012 la
decadenza degli affidamenti diretti di
servizi di valore superiore a 200mila euro
annui (articolo Il Sole 24 Ore del 02.02.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: Nel
risarcimento del danno per mancata
aggiudicazione dell'appalto sono escluse le
spese processuali.
In sede di liquidazione del risarcimento del
danno per mancata aggiudicazione non è,
infatti, ravvisabile una responsabilità
delle parti per spese legali e danni
processuali atteso che, per quanto riguarda
in particolare le spese legali si tratta di
danni successivi all’aggiudicazione, come
tali non riconoscibili.
In materia di spese processuali trova
inoltre applicazione non la disciplina
dell’illecito aquiliano dettata dall’art.
2043 cod. civ., ma la disciplina di cui agli
articoli 90 e seguenti c. p. c., applicabili
anche nei giudizi amministrativi
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 02.02.2012 n. 541 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Illegittima
la tariffa rifiuti massima per gli studi dei
professionisti.
IL PRINCIPIO/
La scelta del prelievo da applicare alle
diverse categorie deve essere sempre
motivata in delibera.
La scelta dei coefficienti massimi per
determinare la tariffa da applicare ad
alcune categorie deve essere motivata,
altrimenti è illegittima.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez.
V, con la
sentenza 02.02.2012 n. 539, annullando una
delibera comunale istitutiva della Tariffa
d'igiene ambientale nella parte in cui
individuava il coefficiente massimo solo per
gli uffici e gli studi dei professionisti.
Diversi ordini professionali (ingegneri,
commercialisti, architetti, medici,
eccetera) avevano proposto ricorso al Tar
sostenendo l'illegittimità della tariffa per
le utenze non domestiche della categoria 11
(uffici, agenzie, studi professionali), ai
quali il Comune aveva applicato i
coefficienti massimi fissati dal Dpr 158/1999
(metodo normalizzato). Peraltro nella
delibera non solo non c'era alcuna
motivazione che giustificasse l'applicazione
della misura più elevata, ma mancava un
criterio omogeneo per le 30 categorie di
contribuenti, ad alcune delle quali erano
stati invece applicati i coefficienti
minimi.
Il Tar Toscana ha respinto i rilievi dei
professionisti, ritenendo insussistente
l'obbligo di motivazione per la scelta dei
coefficienti applicabili alla singola
categoria, se effettuata nell'ambito
dell'intervallo di riferimento. Per i
giudici amministrativi fiorentini i
provvedimenti con i quali i Comuni
determinano la tariffa costituiscono atti di
normazione secondaria a contenuto generale,
assimilabili agli atti relativi alla
gestione dell'Ici e quindi esclusi da
obblighi di motivazione puntuale.
Il giudizio di primo grado è stato tuttavia
ribaltato dal Consiglio di Stato, il quale
evidenzia il contenuto "misto" del
provvedimento istitutivo della tariffa, in
parte regolamentare ed in parte provvedimentale, quest'ultima con
particolare riferimento ai coefficienti per
l'attribuzione della parte fissa e della
parte variabile della tariffa.
L'ampio potere discrezionale di cui gode
l'ente locale non può comunque sfuggire a
qualsiasi controllo e non può pertanto
sottrarsi all'obbligo della motivazione. In
caso contrario verrebbero rinnegati i
principi fondamentali di legalità,
imparzialità e buon andamento che devono
caratterizzare l'azione amministrativa.
D'altronde l'obbligo di motivazione -precisano i giudici di Palazzo Spada- è
rintracciabile nello stesso Dpr 158/1999, che
nel disciplinare il calcolo della tariffa
per le utenze non domestiche consente ai
Comuni di determinare la parte fissa e
variabile della tariffa «nell'ambito degli
intervalli indicati».
Proprio questo potere di scelta da un minimo
a un massimo imponeva all'ente locale
l'obbligo di motivare le ragioni
dell'opzione sui coefficienti massimi, non
essendovi peraltro alcun elemento idoneo a
rendere comprensibile il percorso logico
seguito dall'amministrazione.
Il principio sancito dal Consiglio di Stato,
applicabile a tutti i Comuni che applicano
la Tia e a quelli in regime Tarsu che
utilizzano il metodo normalizzato, potrebbe
avere riflessi anche in sede di prima
applicazione del nuovo tributo Res, in caso
di mancata adozione del regolamento statale
previsto dall'articolo 14 del Dl 201/2011
(articolo Il Sole 24
Ore
del 04.02.2012 - tratto da
www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria
edilizia: assolvimento dell'onere probatorio
in ordine alla data di realizzazione
dell'abuso.
L’onere della prova circa la data di
realizzazione di un immobile abusivo spetta
a chi ha commesso l’abuso (cfr. Cons. Stato
Sez. VI 06.05.2008 n. 2010; idem Sez. V
12.10.1999 n. 1440) e nel caso all'esame il
Collegio rileva che la parte appellante
offre sì alcuni elementi di giudizio che (a
suo avviso) indurrebbero a far ritenere come
ultimati i lavori edilizi entro la data del
31.12.1993, ma le circostanze dedotte (tra
cui quella della testimonianza di un
eremita) appaiono insufficienti e comunque
non hanno consistenza tale da provare
l’asserita esecuzione delle opere nel
periodo utile alla sanatoria e comunque sono
recessive rispetto alle risultanze emergenti
dagli accertamenti degli organi preposti
alla vigilanza e alla tutela dell’assetto
del territorio che, al contrario forniscono
elementi e dati indicativi di una diversa
data di esecuzione del prefabbricato per cui
è causa
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 31.01.2012 n. 478 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: E'
improcedibile il ricorso avverso
l'aggiudicazione provvisoria quando il
ricorrente ha avuto piena conoscenza
dell'aggiudicazione definitiva e non ha
provveduto ad impugnarla.
E' da valutare improcedibile il ricorso
avverso l'aggiudicazione provvisoria qualora
non sia stata impugnata l'aggiudicazione
definitiva, con conseguente consolidarsi
degli effetti di quest’ultima, ma purché
della stessa la parte ricorrente abbia avuta
cognizione, sussistendo un onere per le
stazioni appaltanti di portare gli esiti
delle procedure di gara a conoscenza dei
concorrenti per mezzo di apposite
comunicazioni.
L’obbligo di effettuazione di detta
comunicazione è prevista dall'art. 79, comma
5, del d.lgs. n. 163/2006, senza però che
sia specificato cosa debba intendersi per
piena conoscenza. Ai fini della definizione
della sollevata eccezione occorre dunque
precisare il concetto di "piena
conoscenza" rilevante ai fini del
decorso del termine di decadenza, e
successivamente valutare se nella
fattispecie concreta lo stesso si sia
configurato in occasione della avvenuta
comunicazione del provvedimento di
aggiudicazione definitiva (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 31.01.2012 n. 467 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La funzione prevalente della
normativa dettata dal d.lgs. n. 163/2006,
comporta che le relative disposizioni
entrano a far parte della lex specialis
della gara senza necessità che la cogenza
delle prescrizioni venga prevista nel bando
o nel disciplinare
Sul rimedio della regolarizzazione
documentale di cui all'art. 46 del d.lgs. n.
163/2006.
Il bando e il disciplinare di gara assolvono
la funzione precipua di dettare il
regolamento della gara e, in quanto "lex
specialis" della procedura di selezione,
impongono all'Amministrazione la stretta
osservanza delle relative prescrizioni,
poste, da un lato, a presidio dell'interesse
specifico della stazione appaltante e,
dall'altro, a tutela dell'interesse degli
altri soggetti partecipanti alla gara alla
correttezza dell'intero procedimento di
aggiudicazione e al rispetto della "par
condicio".
Di norma, quando la "lex specialis"
della gara non riproduca una norma
imperativa dell'ordinamento giuridico
soccorre al riguardo il meccanismo di
integrazione automatica, sicché,
analogamente a quanto avviene nel diritto
civile ai sensi degli art. 1374 e 1339,
c.c., si colmano in via suppletiva le
eventuali lacune del provvedimento adottato.
In particolare la funzione prevalente della
normativa dettata in materia dal d.lgs. n.
163/2006 comporta che le relative
disposizioni entrano a far parte della "lex
specialis" della procedura di evidenza
pubblica, senza necessità che la cogenza
delle relative prescrizioni venga prevista
nel bando o nel disciplinare.
Ne deriva l'automatica applicabilità
dell'art. 41, c. 3, del d.lgs. n. 163/2006,
nel senso che il beneficio della possibilità
di provare altrimenti detto requisito deve
ritenersi operante indipendentemente da
un'espressa previsione da parte della "lex
specialis" di gara.
--------------
Il rimedio della regolarizzazione
documentale di cui all'art. 46, del d.lgs.
n. 163/2006, non si applica al caso in cui
l'impresa concorrente abbia integralmente
omesso di presentare la documentazione la
cui produzione è richiesta a pena di
esclusione; solo qualora la documentazione
prodotta da un concorrente ad una pubblica
gara sia presente, ma carente di taluni
elementi formali, di guisa che sussista un
indizio del possesso del requisito
richiesto, l'Amministrazione non può
pronunciare l'esclusione dalla procedura, ma
è tenuta a richiedere al partecipante di
integrare e chiarire il contenuto di un
documento già presente, costituendo siffatta
attività acquisitiva un ordinario "modus
procedendi", ispirato all'esigenza di
far prevalere la sostanza sulla forma.
In sostanza, solo quando il documento è già
stato presentato in sede di gara, anche se
parzialmente, deve ritenersi consentita la
sua regolarizzazione se la violazione è
squisitamente formale ed il rimedio, in
concreto, non altera la "par condicio"
tra i concorrenti.
Pertanto nel caso di specie, in cui la
dichiarazione della seconda banca attestante
la capacità economica e la solvibilità di
detta società non era stata presentata,
comunque la Amministrazione non avrebbe
potuto far ricorso all'istituto della
integrazione documentale (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 31.01.2012 n. 467 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sul giudizio di congruità
dell'offerta economica.
La motivazione del giudizio di congruità
dell'offerta economica non richiede un esame
analitico delle voci esposte, dovendo lo
stesso svolgersi con riguardo all'offerta
nel suo complesso e, in un' ottica di
contemperamento con le esigenze di celere
definizione della procedura di affidamento,
anche attraverso un mero richiamo agli
elementi offerti al riguardo dall'impresa
concorrente nel contradditorio con la
stazione appaltante (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 31.01.2012 n. 460 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI:
In tema di procedura di project
financig .
Nel procedimento di project financing,
articolato in più fasi, la prima delle quali
si conclude con la scelta, da parte della
stazione appaltante, del promotore, l'atto
di scelta del promotore determina una
immediata posizione di vantaggio per il
soggetto prescelto e un definitivo arresto
procedimentale per i concorrenti non
prescelti; tale atto è pertanto lesivo e
deve essere immediatamente impugnato dai
concorrenti non prescelti, senza attendere
l'esito degli ulteriori subprocedimenti di
aggiudicazione della concessione (Consiglio
di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 28.01.2012 n. 1 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni
in aderenza e problematiche connesse alle
previsioni urbanistiche del p.r.g..
Nella sentenza in esame il Consiglio di
Stato ha fatto proprio l'orientamento
secondo cui “la previsione urbanistica
del p.r.g. secondo cui nella zona destinata
alla costruzione di case a schiera non sono
stabiliti limiti di distanza tra edifici,
non trova applicazione ove nel fondo
finitimo preesista un edificio non
posizionato sul confine, non essendo
ipotizzabile, in tale evenienza,
l'edificazione in aderenza, secondo la
tipologia delle costruzioni a schiera, senza
alcun titolo pattizio.” (Consiglio
Stato, sez. V, 08.02.1991, n. 114).
D’altro canto, la giurisprudenza civilistica
è attenta nel contenere l’applicabilità del
principio della “prevenzione” in
termini analoghi a quelli applicati (reiettivamente)
dall’amministrazione comunale, essendosi in
proposito rilevato che “In tema di
distanze nelle costruzioni, qualora gli
strumenti urbanistici stabiliscano
determinate distanze dal confine e nulla
aggiungano sulla possibilità di costruire
«in aderenza» od «in appoggio», la
preclusione di dette facoltà non consente
l'operatività del principio della
prevenzione; nel caso in cui, invece, tali
facoltà siano previste, si versa in ipotesi
del tutto analoga a quella disciplinata
dagli art. 873 e ss. c.c., con la
conseguenza che è consentito al preveniente
costruire sul confine, ponendo il vicino,
che intenda a sua volta edificare,
nell'alternativa di chiedere la comunione
del muro e di costruire in aderenza
-eventualmente esercitando le opzioni
previste dagli art. 875 e 877, comma 2,
c.c.- , ovvero di arretrare la sua
costruzione sino a rispettare la maggiore
intera distanza imposta dallo strumento
urbanistico.” (Cassazione civile, sez.
II, 09.04.2010, n. 8465).
La giurisprudenza della Sezione ha affermato
costantemente analoghi principi (ex
multis: “il principio della
prevenzione ex art. 873 e ss. c.c. trova
applicazione non soltanto nei comuni
sprovvisti di strumenti urbanistici, ma
altresì in quelli nei quali gli strumenti
urbanistici non vietino l'edificazione sul
confine: in questo caso, dunque, essendo
ammessa la costruzione in aderenza, a chi
edifica per primo sul fondo contiguo ad
altro spettano tre diverse facoltà: in primo
luogo, quella di costruire sul confine; in
secondo luogo, quella di costruire con
distacco dal confine, osservando la distanza
minima imposta dal codice civile ovvero
quella maggiore distanza stabilita dai
regolamenti edilizi locali; ed infine quella
di costruire con distacco dal confine a
distanza inferiore alla metà di quella
prescritta per le costruzioni su fondi
finitimi, facendo salvo in questa evenienza
la facoltà per il vicino, il quale edifichi
successivamente, di avanzare il proprio
manufatto fino a quella preesistente, previa
corresponsione della metà del valore del
muro del vicino e del valore del suolo
occupato per effetto dell'avanzamento della
fabbrica.” (Consiglio Stato, sez. IV,
04.02.2011, n. 802)
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 27.01.2012 n. 414 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Alcuni
principi in tema di rapporti tra giudizio penale e giudizio
amministrativo:
- la sentenza resa in un giudizio penale vincola il giudice
amministrativo in ordine all’accertamento del fatto in sé,
come realtà storica;
- la sentenza penale non vincola il giudice amministrativo,
invece, per quel che riguarda l’antigiuridicità di tale
fatto, poiché l’ambito dell’accertamento è diverso (il primo
riguarda il reato, il secondo la correttezza dell’azione
amministrativa);
- alla PA, che non sia stata parte in causa nel giudizio
penale (come parte civile), la sentenza penale non è
opponibile: sicché, ove il giudizio amministrativo in cui la
PA sia parte riguardi i fatti materiali oggetto della
sentenza penale, questa non vincolerà il giudice
amministrativo nella risoluzione della questione.
È
noto, infatti, l’ampio orientamento giurisprudenziale
incline a ritenere che la sentenza penale di assoluzione
faccia stato nel giudizio amministrativo esclusivamente
quanto ai fatti materiali che vi si affermano avvenuti o non
avvenuti e che sono stati oggetto del giudizio penale, ai
sensi dell'art. 654 c.p.p. (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V,
02.08.2010 n. 5085, VI 02.10.1991, n. 600, Cass. Civ. Sez.
III 02.08.2004, n. 14770), e non anche quanto alla
qualificazione dell'antigiuridicità, evidentemente operata
ai soli effetti della sussistenza del reato imputato,
rispetto alla quale il giudice amministrativo non è
condizionato dalla pronuncia penale resa sugli stessi fatti
materiali (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 31.01.2006, n.
357).
D’altro canto, non può neppure sottacersi
che, ai sensi degli artt. 652 c.p.p. e 24 Cost., il
giudicato penale di cui trattasi non appare comunque
opponibile all'intimata amministrazione comunale, che non
risulta costituita parte civile nel relativo processo
(mentre, come noto, il rispetto del principio generale del
contraddittorio, impone che l'amministrazione si sia
costituita parte civile nel giudizio penale, e che, in ogni
caso, tutte le parti del giudizio, civile o amministrativo,
nei cui confronti si vuol far valere l'autorità di cosa
giudicata, siano state parti del giudizio penale (cfr. sul
punto TAR Liguria Genova, sez. I, 22.04.2011, n. 666; TAR
Molise Campobasso, sez. I, 23.09.2009, n. 661; TAR Napoli,
30.04.2009, n. 2225; Consiglio di Stato, 07.03.2008, n.
1009) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.01.2012 n. 296 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: La
P.A. gode di ampia discrezionalità nella
localizzazione di un'opera pubblica.
La localizzazione di opera pubblica
costituisce oggetto di una scelta ampiamente
discrezionale che può soggiacere soltanto ad
un tipo di sindacato giurisdizionale cd.
debole, e cioè ad una verifica che concerna
esclusivamente gli eventuali profili di
irragionevolezza palese della scelta ovvero
di scelta fondata su un presupposto di fatto
erroneo
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 26.01.2012 n. 351 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Solo
per macroscopici vizi di logicità il giudice
può cassare la decisione adottata dalla P.A.
di fare una strada che attraversa una
proprietà privata.
La previsione di una strada che attraversa
un'ampia area di proprietà privata
dividendola in due parti, riflette delle
scelte di merito dell'amministrazione
comunale funzionali al nuovo sistema viario
programmato che, in quanto tale, sono
sindacabili in sede giurisdizionale solo in
presenza di macroscopici vizi di logicità
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 26.01.2012 n. 351 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Solo
la reale esistenza di condanne penali e non
la mancata allegazione di autocertificazione
sulla loro esistenza determina l'esclusione
dalla gara.
L’esclusione dalla gara può essere disposta
laddove sia constatata la reale esistenza di
condanne penali, piuttosto che per la
mancata allegazione di autocertificazione
sulla esistenza delle predette condanne.
Ciò in quanto il combinato disposto dei
commi 1 e 2 dell’art. 38 d.lgs n. 163/2006
deve essere inteso nel senso che anche in
caso di radicale omissione della
dichiarazione di cui al comma 1, solo ove
sussistano in concreto le ragioni ostative
alla partecipazione l’impresa non va ammessa
a gara
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 26.01.2012 n. 349 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Modalità
di valutazione delle offerte anormalmente
basse.
Devono considerarsi anormalmente basse le
offerte che si discostino in modo evidente
dai costi medi del lavoro indicati nelle
dette tabelle, predisposte dal Ministero del
Lavoro in base ai valori previsti dalla
contrattazione collettiva, costi medi che
costituiscono non parametri inderogabili, ma
indici del giudizio di adeguatezza
dell'offerta, con la conseguenza che è
ammissibile l'offerta che da essi si
discosti, purché lo scostamento non sia
eccessivo e vengano salvaguardate le
retribuzioni dei lavoratori così come
stabilito in sede di contrattazione
collettiva.
Invero, neppure la tabella ministeriale
assume valore di parametro assoluto ed
inderogabile, ma è suscettibile di
scostamento in relazione a valutazioni
statistiche ed analisi aziendali svolte
dall'offerente, che evidenzino una
particolare organizzazione aziendale;
cosicché è rimessa alla stazione appaltante
la valutazione della congruità e
dell'affidabilità dell'offerta, in caso di
sensibile scostamento, mediante il
procedimento di verifica delle anomalie, in
linea con il principio codificato dall'art.
55 della direttiva 31.03.2004 n. 2004/18/CE
— secondo cui i concorrenti devono avere la
possibilità di dimostrare in concreto
qualunque circostanza (di diritto e di
fatto) che permetta la riduzione dei costi
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 26.01.2012 n. 343 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Non
e' sanabile l'omessa allegazione di
documenti previsti a pena di esclusione
dalla gara.
Per consolidato insegnamento
giurisprudenziale in ordine all’istituto del
c.d. dovere di soccorso codificato dall’art.
46 d.lgs. n. 163/2006, l'omessa allegazione
di un documento o di una dichiarazione
previsti a pena di esclusione non può
considerarsi alla stregua di un'irregolarità
sanabile, e, quindi, non ne è permessa
l'integrazione o la regolarizzazione
postuma, non trattandosi di rimediare a vizi
puramente formali: e ciò tanto più quando
non sussistano equivoci o incertezze
generati dall'ambiguità di clausole della
legge di gara.
In presenza di una prescrizione chiara
un’ammissione alla regolarizzazione
costituirebbe una violazione della par
condicio fra i concorrenti. La richiesta di
regolarizzazione, pertanto, non può essere
formulata per permettere l’integrazione di
documenti che, in base a previsioni univoche
del bando o della lettera di invito,
avrebbero dovuto essere prodotti a pena di
esclusione (C.G.A., n. 802 del 2006; C.d.S.,
IV, n. 4560 del 2005 e n. 2254 del 2007).
Quanto all’elaborazione giurisprudenziale in
tema di c.d. “falso innocuo”, infine,
la stessa ha riguardo all’ipotesi in cui il
partecipante sia in possesso di tutti i
requisiti sostanziali richiesti, e nel
contempo, però, la lex specialis non
preveda espressamente la pena
dell’esclusione in relazione alla mancata
osservanza delle prescrizioni da essa recate
sulle modalità e sull’oggetto delle
dichiarazioni da fornire, ma faccia solo un
generico richiamo all’assenza delle cause
impeditive di cui all’art. 38 d.lgs. n.
163/2006.
E’ solo a queste condizioni, quindi, che
l’omissione non produrrebbe alcun
pregiudizio agli interessi presidiati dalla
norma ma ricorrerebbe un’ipotesi di mero "falso
innocuo", in quanto tale insuscettibile
di fondare l’esclusione
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 26.01.2012 n. 334 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
qualità di proprietario o detentore
dell'area non basta per radicare in capo a
questi l'onere della rimozione e smaltimento
dei rifiuti pericolosi.
Ai fini dell'individuazione del responsabile
dell'abbandono dei rifiuti pericolosi,
relativamente al presupposto individuato
nella detenzione dell’area, il Consiglio di
Stato ha evidenziato come siffatto titolo di
disponibilità, pur essendo sufficiente in
astratto a radicare in capo alla ricorrente
l’onere di rimozione dei rifiuti (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 13.01.2010, n. 84),
va coordinato con i principi affermati dalla
costante giurisprudenza che ha ritenuto “illegittimi
gli ordini di smaltimento di rifiuti
abbandonati in un fondo che siano
indiscriminatamente rivolti al proprietario
[o detentore] del fondo stesso in ragione
della sua sola qualità, ma in mancanza di
adeguata dimostrazione da parte
dell’amministrazione procedente, sulla base
di un’istruttoria completa e di
un’esauriente motivazione (quand’anche
fondata su ragionevoli presunzioni o su
condivisibili massime d’esperienza),
dell’imputabilità soggettiva della condotta”
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 26.01.2012 n. 333 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il comune paga cara la lentezza.
Piano regolatore in ritardo: 50 euro al
giorno al cittadino. Il Tar Puglia fa
scattare l'astreinte per spingere il
Consiglio a deliberare più in fretta.
L'inerzia del comune? Costa 50 euro al
giorno alla stessa amministrazione, e dunque
alla collettività, da pagare interamente al
cittadino che aspetta invano un
provvedimento. Il tutto perché l'ente non si
adegua a una sentenza del giudice
amministrativo che ordina la ritipizzazione
di alcuni terreni di proprietà di una
famiglia (pensiamo, per esempio, al suolo
agricolo che deve diventare edificabile) e
lascia spirare invano il termine fissato dal
magistrato. Il compito non è semplice: per
integrare lo strumento urbanistico vigente
deve deliberare il Consiglio comunale e,
sempre più spesso, i tempi della politica
non coincidono con quelli dell'economia. Ma
da oggi in poi le amministrazioni dovranno
farsi due conti: se per ogni giorno di
ritardo sul provvedimento tardivo l'ente ci
rimette 50 euro di penalità di mora in
favore della persona interessata, si fa
presto ad arrivare a grosse cifre,
specialmente se si considera quanti sono i
cittadini in attesa che l'amministrazione
ottemperi a una sentenza di condanna.
È
quanto emerge dalla
sentenza
26.01.2012 n. 254 della III Sez. del TAR
Puglia-Bari.
Nel processo amministrativo, sostiene il
Tar, la nozione di astreinte, la penalità di
mora mutuata dal diritto francese, ha
un'accezione più ampia che nel civile, dove
pure non è possibile surrogarsi al debitore
inadempiente: nel caso degli enti, invece, è
possibile nominare il commissario ad acta da
parte del giudice dell'ottemperanza. Il
termine entro cui il comune di Bari avrebbe
dovuto adempiere all'ordine della
magistratura amministrativa è scaduto da
tempo.
Allora la famiglia titolare del
terreno che ha diritto alla variazione di
tipologia del suolo promuove il giudizio di
ottemperanza e ottiene di nuovo ragione.
Ragione che, tuttavia, rischia di rimanere
del tutto teorica, come in occasione della
vittoria precedente. E allora il Tar nomina
un commissario ad acta che si sostituisca
eventualmente all'amministrazione in caso di
nuova inerzia, stabilendo la penalità di
mora di 50 euro da pagare in favore degli
interessati per ogni giorno di ritardo
nell'adempimento rispetto alla scadenza
prefissata di 60 giorni.
La condanna è
legittimata dall'articolo 114, comma 4,
lettera e), del codice del processo
amministrativo che ha mutuato dal codice di
procedura civile la nozione di penalità di
mora, ampliando la portata di un istituto a
sua volta ispirato alla tradizionale astreinte del diritto transalpino.
Risultato? Si tratta di una spinta forzosa
che ha un carattere punitivo e impone la
sussistenza di tre requisiti: la richiesta
di parte, la manifesta non iniquità
dell'eventuale «multa», l'assenza di altri
motivi ostativi.
In comune con l'astreinte
«gemella» nel settore civile la penalità di
mora ha generale finalità di dissuadere il
debitore dal persistere nella mancata
attuazione del dovere di ottemperanza. Nel
caso del Comune di Bari le condizioni
imposte dal codice del processo
amministrativo ricorrono tutte e tre: che
sia il commissario ad acta o il Consiglio a
provvedere, bisogna far presto (articolo ItaliaOggi del 02.02.2012
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Possibile
l'integrazione documentale salvo che i
documenti non siano previsti dal bando a
pena di esclusione.
La possibilità di integrazione della
documentazione incompleta trova il proprio
limite nel solo caso in cui la detta
documentazione fosse prevista in maniera
univoca dal bando a pena di esclusione dal
procedimento.
In particolare, il predetto potere di
integrazione documentale deve essere
esercitato da parte dell’amministrazione
proprio nei casi in cui l’insufficienza
della documentazione originariamente
prodotta da parte dell’interessato non
consenta di avere piena ed esatta contezza
del possesso di un certo requisito da parte
dello stesso
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - TAR
Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 24.01.2012 n. 766 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Solo
l'accertamento tributario definitivo
impedisce di partecipare alla gara.
L’accertamento della violazione degli
obblighi tributari non è sufficiente
affinché operino le preclusioni previste dal
citato art. 38, comma 1, lett. g), d.lgs. n.
163/2006 occorrendo, altresì, che tale
accertamento sia divenuto definitivo per
effetto della decorrenza del termine di
impugnazione dell’atto stesso, senza che
l’impresa abbia presentato ricorso, o di una
pronuncia giurisdizionale che abbia
acquisito autorità di cosa giudicata.
La normativa di riferimento, infatti,
impedisce alle imprese di partecipare alle
procedure di aggiudicazione dei contratti
pubblici, di essere affidatarie di
subappalti, nonché di stipulare i relativi
contratti solo a fronte di violazioni,
definitivamente accertate, rispetto agli
obblighi relativi al pagamento di imposte e
tasse.
Dunque, particolare rilievo assume
l’espressa statuizione secondo la quale, le
sanzioni previste operano solo in caso di
accertamento definitivo delle violazioni
de quibus
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 23.01.2012 n. 262 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Impossibile
per l'aggiudicatario procedere al subappalto
se in sede di offerta ha reso dichiarazioni
irregolari o incomplete sulle opere che
intende subappaltare.
Secondo il prevalente insegnamento della
giurisprudenza amministrativa, l’eventuale
irregolarità e/o incompletezza della
dichiarazione resa in sede di offerta circa
le opere, i servizi o le forniture che il
concorrente intenda subappaltare non
costituisce causa di esclusione dalla gara,
ma semplicemente preclude a chi ne sia
risultato aggiudicatario la possibilità, in
fase dei lavori, di fare ricorso al
subappalto.
E ciò sul rilievo per cui le condizioni per
l’ammissibilità del subappalto, di cui
all’art. 118 del d.lgs. nr. 163 del 2006,
non appaiono intese (unicamente) a tutelare
l’interesse dell’amministrazione committente
all’immutabilità dell’affidatario, ma
tendono invece a evitare che nella fase
esecutiva del contratto si pervenga,
attraverso modifiche sostanziali
dell’assetto d’interessi scaturito dalla
gara pubblica, a vanificare proprio
quell’interesse pubblico che ha imposto lo
svolgimento di una procedura selettiva e
legittimato l’individuazione di una
determinata offerta come la più idonea a
soddisfare le esigenze della collettività
cui l’appalto è preordinato
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 23.01.2012 n. 262 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Va
riconosciuta alla stazione appaltante, nella
fissazione dei criteri di valutazione delle
offerte, una discrezionalità censurabile dal
giudice amministrativo, nell'ambito del
controllo di legittimità riservatogli
dall’ordinamento, solo in presenza di palesi
profili di illogicità o irrazionalità.
Si tratta di un principio consolidato in
giurisprudenza ed a tenore del quale la
scelta dei criteri più adeguati (tra quelli
esemplificativamente indicati dall'art. 83,
d.lgs. 12.04.2006, n. 163) per
l'individuazione dell'offerta economicamente
più vantaggiosa, costituisce espressione
tipica della discrezionalità della stazione
appaltante e, impingendo nel merito
dell'azione amministrativa, è sottratta al
sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, tranne che la stessa scelta
-in relazione alla natura, all'oggetto e
alle caratteristiche del contratto- non si
riveli manifestamente illogica, arbitraria
ovvero macroscopica viziata da travisamento
di fatto, con la conseguenza che il giudice
amministrativo non può sostituire con
proprie scelte quelle operate
dall'Amministrazione.
Al riguardo, il Collegio non può che
richiamarsi -innanzitutto e in linea
generale- alla giurisprudenza della Sezione
(cfr., da ultimo: TAR Lombardia Brescia Sez.
II, 01.08.2011, n. 1235) attestata nel senso
di riconoscere alla stazione appaltante,
nella fissazione dei criteri di valutazione
delle offerte, una discrezionalità
censurabile dal giudice amministrativo,
nell'ambito del controllo di legittimità
riservatogli dall’ordinamento, solo in
presenza di palesi profili di illogicità o
irrazionalità.
Si tratta di un principio consolidato in
giurisprudenza (cfr. in tal senso: TAR
Liguria, sez. II, 03.02.2010, n. 233) ed a
tenore del quale la scelta dei criteri più
adeguati (tra quelli esemplificativamente
indicati dall'art. 83, d.lgs. 12.04.2006, n.
163) per l'individuazione dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, costituisce
espressione tipica della discrezionalità
della stazione appaltante e, impingendo nel
merito dell'azione amministrativa, è
sottratta al sindacato di legittimità del
giudice amministrativo, tranne che la stessa
scelta -in relazione alla natura,
all'oggetto e alle caratteristiche del
contratto- non si riveli manifestamente
illogica, arbitraria ovvero macroscopica
viziata da travisamento di fatto, con la
conseguenza che il giudice amministrativo
non può sostituire con proprie scelte quelle
operate dall'Amministrazione (cfr. ad es.
Consiglio Stato, sez. V, 19.11.2009, n.
7259)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 23.01.2012 n. 95 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La violazione del preavviso di
rigetto non produce ex se l'illegittimità
del provvedimento finale.
Per
giurisprudenza pacifica, la violazione
dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 —che
prevede, nei procedimenti ad istanza di
parte la comunicazione, prima della formale
adozione di un provvedimento negativo, agli
istanti dei motivi che ostano
all'accoglimento della domanda— non può
ritenersi tale da produrre ex se
l'illegittimità del provvedimento finale,
dovendo la disposizione sul preavviso di
rigetto, essere interpretata alla luce del
successivo art. 21-octies comma 2, che
impone al giudice di valutare il contenuto
sostanziale del provvedimento e di non
annullare l'atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo; l'art.
21-octies rende, quindi, irrilevante la
violazione delle norme sul procedimento o
sulla forma dell'atto per il fatto che il
contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto
adottato (da ultimo: TAR Lazio Roma, sez. III, 14.03.2011,
n. 2253)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 20.01.2012 n. 41 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell'ipotesi di mancata esplicita
definizione della domanda di condono, la
formazione del silenzio-assenso, ai sensi
dell'art. 35, l. 28.02.1985 n. 47, si ha
dopo il termine di ventiquattro mesi
decorrente dalla data nella quale viene
depositata la documentazione completa a
corredo della domanda di concessione in
sanatoria.
Questo Tribunale ha più volte precisato che nell'ipotesi di
mancata esplicita definizione della domanda
di condono, la formazione del silenzio-assenso, ai sensi dell'art. 35, l. 28.02.1985 n. 47, si ha dopo il termine
di ventiquattro mesi decorrente dalla data
nella quale viene depositata la
documentazione completa a corredo della
domanda di concessione in sanatoria (per
tutte, TAR Sardegna, Sez. II, 17.11.2010 n.
2600)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 20.01.2012 n. 41 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Presupposti
per la realizzazione di un'opera edilizia.
Quando si vuole ottenere l’assenso per la
realizzazione di una opera edilizia occorre
dimostrare innanzitutto di avere la
disponibilità del suolo sul quale l’opera
sarà realizzata (che costituisce quindi un
presupposto della domanda di edificazione),
allo stesso modo se si vuole realizzare
un’opera (pubblica o di interesse pubblico)
su un suolo gravato da usi civici occorre
prima acquisire la disponibilità dell’area
per potervi realizzare l’opera (massima
tratta da www.gazzettaamministrativa.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 19.01.2012 n. 255 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
giudice amministrativo non può ingerirsi
negli ambiti riservati alla discrezionalità
tecnica dell'organo valutatore sostituendo
il proprio giudizio a quello della
Commissione di gara.
Le valutazioni tecniche relative alle
offerte presentate nelle gare d'appalto sono
caratterizzate dalla complessità delle
discipline specialistiche di riferimento e
dalla opinabilità dell'esito della
valutazione.
Gli apprezzamenti in ordine all'(in)idoneità
tecnica delle offerte dei vari partecipanti
alla gara, dunque, in quanto espressione di
un potere di natura tecnico-discrezionale a
carattere complesso, non possono essere
sostituiti da valutazioni di parte circa la
(in)sussistenza delle prescritte qualità,
trattandosi di questioni afferenti al merito
delle suddette valutazioni
tecnico-discrezionali (C.d.S sez. V,
08.03.2011, n. 1464 ); e, in sede
giurisdizionale, parimenti, sono sindacabili
solo se affetti da macroscopici vizi logici,
disparità di trattamento, errore manifesto,
contraddittorietà ictu oculi
rilevabile, rientrando tipicamente nel
potere valutativo quello di ritenere
migliore un’offerta rispetto ad un’altra
(cfr. Consiglio Stato, sez. V, 01.10.2010,
n. 7262).
Ne consegue che il giudice amministrativo
non può ingerirsi negli ambiti riservati
alla discrezionalità tecnica dell'organo
valutatore e, quindi, sostituire il proprio
giudizio a quello della Commissione
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 19.01.2012 n. 249 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Nessun
vincolo espropriativo sull'area privata
deriva dalla sua destinazione ad
attrezzature ricreative, sportive, e a verde
pubblico.
La destinazione ad attrezzature ricreative,
sportive, e a verde pubblico, ecc. data dal
piano regolatore ad aree di proprietà
privata, non comporta l'imposizione sulle
stesse di un vincolo espropriativo, ma solo
di un vincolo conformativo, che è funzionale
all'interesse pubblico generale conseguente
alla zonizzazione, effettuata dallo
strumento urbanistico, che definisce i
caratteri generali dell'edificabilità in
ciascuna delle zone in cui è suddiviso il
territorio comunale
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 19.01.2012 n. 244 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nel corso della gara di appalto
la stazione appaltante è vincolata alle
risultanze del documento unico di regolarità
contributiva (DURC) che fa piena prova fino
a querela di falso.
Nelle gare di appalto pubblico, il documento
unico di regolarità contributiva (DURC)
rappresenta un documento necessario e
sufficiente, dalle cui risultanze
l'amministrazione non si può discostare, per
cui nel caso di specie, era del tutto
irrilevante, al fine della gara di appalto e
del conseguente contenzioso, andare a
verificare la veridicità dei documenti posti
a fondamento del DURC medesimo. Se del caso,
la falsità di tali documenti potrebbe
rilevare in un diverso giudizio di
risarcimento del danno tra privati, ma non
nel giudizio amministrativo, in difetto di
querela di falso.
Pertanto, non vi era alcun originario
interesse, in capo alla società a visionare
gli atti posti a fondamento del DURC, ai
fini del giudizio davanti al Tribunale
amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.01.2012 n. 201 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il pagamento dell'oblazione non
può in alcun modo sostituire la domanda
medesima.
La
giurisprudenza ha precisato che il pagamento
dell'oblazione non può in alcun modo
sostituire la domanda medesima (TAR
Toscana Firenze, sez. III, 13.05.2011,
n. 872) osservando ad abundantiam che per
accedere alla sanatoria edilizia è
indispensabile che venga identificato
l'oggetto, ossia la costruzione abusiva, che
il richiedente si propone di legittimare;
individuazione che il mero pagamento di una
somma di denaro con bollettino postale non è
idonea a fornire. Tale pagamento, su c/c
destinato alle oblazioni per abusivismo
edilizio, lascia intendere l'intenzione di
oblare un qualche illecito di natura
edilizia ma certamente non vale a
determinare lo specifico abuso da condonare.
Per quanto libera possa intendersi la forma
della domanda, essa nondimeno deve
presentare gli elementi essenziali per
renderla riconoscibile come tale e
l'indicazione dell'oggetto è uno di questi
elementi; va, quindi, escluso che il mero
pagamento dell'oblazione effettuato entro il
termine sia idoneo al "raggiungimento dello
scopo" o valga "inequivocabilmente" a
manifestare la volontà di chi ha effettuato
il versamento di perseguire il condono dello
specifico manufatto di cui si discute come
sostiene la ricorrente. È unicamente con la
domanda, tardivamente presentata in questo
caso, che il ricorrente espone di aver
realizzato un’opera abusiva, per il quale
chiede di essere ammessa alla procedura di
sanatoria, puntualizzandone ubicazione,
datazione, dimensioni e dichiarandone la
destinazione.
Tale domanda è, come rilevato
dal Comune nell'atto impugnato, stata
presentata oltre la scadenza del termine,
della cui natura perentoria non può dubitarsi, stante il carattere eccezionale
delle disposizioni sul condono (TAR
Toscana Firenze, sez. III, 04.10.2010, n.
64295)
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 19.01.2012 n. 30 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’articolo 10-bis ha natura
analoga all’articolo 7 della legge n. 241
del 1990, entrambe dirette a garantire la
partecipazione del privato al procedimento
e, pertanto, è soggetto all’ambito di
applicazione dell’articolo 21-octies della
stessa legge la quale rende irrilevante la
violazione delle norme sulla partecipazione
al procedimento e sulla forma dell'atto con
riferimento agli aspetti vincolati
dell’azione amministrativa nonché per il
fatto che il contenuto dispositivo "non
avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato".
L’articolo 10-bis ha natura analoga all’articolo 7 della legge n. 241 del
1990, entrambe dirette a garantire la
partecipazione del privato al procedimento
(Consiglio di stato, sez. V, 23.01.2008, n. 143) e, pertanto, è soggetto all’ambito
di applicazione dell’articolo 21-octies
della stessa legge la quale rende
irrilevante la violazione delle norme sulla
partecipazione al procedimento e sulla forma
dell'atto con riferimento agli aspetti
vincolati dell’azione amministrativa nonché
per il fatto che il contenuto dispositivo
"non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato"
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 19.01.2012 n. 30 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sull'affidamento diretto di un
servizio ad una società mista: il comune
appaltante deve specificare l'oggetto
sociale perseguito dalla costituenda società
in quella determinata composizione sociale
fin dall'indizione della gara.
La scelta del comune di eseguire
direttamente un servizio assicura un
corretto uso delle (sempre più scarse)
risorse pubbliche a disposizione degli enti
locali.
Il comune appaltante, per non eludere le
regole del confronto concorrenziale,
nell'affidare direttamente il servizio ad
una società mista, fin dall'indizione della
gara per l'individuazione del socio privato,
deve specificare l'oggetto sociale
perseguito dalla costituenda società in
quella determinata composizione sociale, in
guisa tale che la realizzazione, la modifica
o il venire meno dell'oggetto e/o della sua
composizione sociale condizionano non solo
l'operatività della società ma, a monte, la
partecipazione stessa del socio privato.
In definitiva seppure è vero che la società
mista, al pari di qualsiasi altra impresa,
segue la logica di mercato, nondimeno il
rispetto delle regole previste per
l'affidamento del servizio si riflettono
dialetticamente, non solo (ovviamente) sul
piano genetico, bensì (e soprattutto) su
quello operativo.
---------------
Lo svolgimento dell'attività amministrativa
in forma societaria è tipica espressione di
scelta discrezionale che deve essere
sorretta da adeguata ponderazione degli
interessi, anche economici, che inducono
l'ente locale ad esternalizzare una funzione
propria.
Viceversa l'esecuzione dell'attività
istituzionale amministrativa da parte degli
organi dell'ente locale, condensato nel caso
di specie, con il neologismo "internalizzazione
del servizio", è per così dire
nell'ordine delle cose, ed, oltretutto,
nella situazione contingente, assicura un
corretto uso delle (sempre più scarse)
risorse pubbliche a disposizione degli enti
locali.
Del resto la scelta del comune di eseguire
direttamente il servizio di riscossione dei
tributi è eziologicamente riconducibile alla
situazione deficitaria in cui versava il
comune a causa dei gravi inadempimenti
imputabili al socio industriale della
società mista. Inadempimento e conseguente
estromissione dal servizio del socio
industriale che hanno di fatto comportato la
decadenza dall'affidamento diretto del
servizio alla società mista appositamente
costituita per quello scopo (TAR Liguria,
Sez. II,
sentenza 18.01.2012 n. 111 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: L'art.
21-octies della Legge n. 241/1990 sana il
vizio di omessa comunicazione di avvio del
procedimento in autotutela di annullamento
della gara.
Nel giudizio in esame un'impresa dopo aver
partecipato ad una licitazione privata
indetta da una P.A. per la fornitura
biennale di articoli di cancelleria ed
essere risultata aggiudicataria si duole del
provvedimento con il quale l’ente, prima
della stipulazione del contratto, revocava
la gara e ne disponeva la rinnovazione
avendo appurato che vi era stata l’erronea
ed illegittima pretermissione di alcune
ditte che pure avevano ritualmente chiesto
di essere invitate alla licitazione privata.
Il Consiglio di Stato ha confermato la
sentenza di primo grado che rigettava le
doglianze dell'impresa aggiudicataria
evidenziando, tra l'altro, come una volta
appurato dall'ente il suddetto errore
nell'invito, a quel punto l’annullamento
della gara era un atto dovuto.
A tacer d’altro, non vi erano ancora
aspettative consolidate di cui si dovesse
tener conto con la conseguenza che avviso
del Collegio non risulta integrata alcuna
violazione delle regole del procedimento di
autotutela, con particolare riferimento
all’avviso di procedimento (art. 7, legge n.
241/1990) ed appare realizzata l’ipotesi
prevista dall’art. 21-octies della legge
241/1990: ossia quella dell’atto che non
poteva essere diverso da quello
concretamente emanato, e che pertanto non
può essere annullato per vizi di ordine
meramente formale, inclusi quelli relativi
alle regole sulla partecipazione
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 16.01.2012 n. 148 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Sono
legittimati all'impugnazione coloro che
possono lamentare una pregiudizievole
alterazione del preesistente assetto
urbanistico ed edilizio per effetto della
realizzazione dell'intervento controverso.
In realtà -premesso che legittimazione ed
interesse a ricorrere si esauriscono nella
mera affermazione (e non nella prova) della
necessità di tutela giurisdizionale
derivante dalla lesione di un proprio
interesse, perché legittimazione ed
interesse non sono altro che modalità della
domanda giudiziale, ma non attengono ancora
al merito- si ritiene che non possa essere
fondatamente messa in discussione la
legittimazione a ricorrere per opere che
vengono localizzate in territorio prossimo a
quello di residenza.
Sono, infatti, “legittimati
all'impugnazione coloro che possono
lamentare una pregiudizievole alterazione
del preesistente assetto urbanistico ed
edilizio per effetto della realizzazione
dell'intervento controverso” (T.r.g.a.
Trento 46/2010), e la maggiore
antropizzazione di vicolo Mozzoni –per
quanto limitata a 12 famiglie in più che
usufruiranno stabilmente della strada-
generando l’obbligo per chi era già
insediato sul territorio di dividere i
servizi con i nuovi arrivati e di patire la
presenza di altre fonti di rumori e polveri,
porta a ritenere sussistente l’interesse al
ricorso di chi agisce contro il
provvedimento che ha permesso la
realizzazione delle nuove opere
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 16.01.2012 n. 61 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
un contesto di legislazione regionale
concorrente quale quella sulla materia
“governo del territorio” ex art. 117, co. 3,
Cost., nel territorio della regione
Lombardia le disposizioni dell’art. 9 l.
122/1989 devono essere lette in uno con
quelle degli artt. 66 e 67 l.r. 12/2005 che
permettono espressamente la realizzabilità
del parcheggio pertienenziale anche in
favore di unità immobiliari non site nel
luogo in cui viene realizzato il parcheggio
e “senza limiti di distanza dalle unità
immobiliari cui sono legati da rapporto di
pertinenza, purché nell'ambito del
territorio comunale o in comuni contermini”.
L'art. 9 l. 122/1989 si limita a dire che la
deroga di cui alla l. 122/1989 riguarda
soltanto la sfera urbanistica, ma non quella
del paesaggio e dell’ambiente, ma non
preclude di svolgere opere su beni
vincolati, qualora vi sia la relativa
autorizzazione dell’autorità preposta alla
tutela del vincolo.
Sui motivi del
secondo ricorso per motivi aggiunti relativi
all’utilizzo della procedura in deroga agli
strumenti di piano della c.d. legge Tognoli.
Nessuno dei motivi di ricorso proposto sul
punto può essere accolto, in quanto:
- in ordine alla necessità dell’approvazione
del Consiglio comunale ex art. 40 l.r.
12/2005 per ammettere la deroga urbanistica,
si tratta di norma non pertinente al caso in
esame in cui la deroga urbanistica deriva
direttamente dalla legge, e non deve passare
attraverso una valutazione
dell’amministrazione che sia espressione di
discrezionalità amministrativa; la
previsione dell’art. 40 serve, infatti, a
garantire che il Consiglio comunale,
titolare della potestà di pianificazione,
non venga scavalcato dall’organo
amministrativo attraverso lo strumento del
permesso di costruire in deroga, e riporta
pertanto l’amplissima discrezionalità che
caratterizza l’attività di pianificazione in
capo al suo organo istituzionalmente
titolare; nel caso in esame, la deroga non
deve passare attraverso nessuna valutazione
di ampia discrezionalità, perché prevista
direttamente dal legislatore, che la
giustifica con lo scopo di aumentare la
dotazione di parcheggi privati che
alleggeriscano il carico urbanistico delle
autovetture in aree già ampiamente
urbanizzate ed il degrado ambientale
prodotto dalla sosta degli autoveicoli nei
centri urbani; siamo pertanto completamente
fuori dell’ambito della previsione dell’art.
40 l.r. 12/2005;
- in ordine alla asserita violazione
dell’art. 9 l. 122/1989 in quanto la deroga
viene giustificata con lo scopo di
realizzare parcheggi pertinenziali, ma
questi saranno in realtà venduti sul libero
mercato, va precisato che –in un contesto di
legislazione regionale concorrente quale
quella sulla materia “governo del
territorio” ex art. 117, co. 3, Cost.-
nel territorio della regione Lombardia le
disposizioni dell’art. 9 l. 122/1989 devono
essere lette in uno con quelle degli artt.
66 e 67 l.r. 12/2005 che permettono
espressamente la realizzabilità del
parcheggio pertienenziale anche in favore di
unità immobiliari non site nel luogo in cui
viene realizzato il parcheggio e “senza
limiti di distanza dalle unità immobiliari
cui sono legati da rapporto di pertinenza,
purché nell'ambito del territorio comunale o
in comuni contermini” (e ciò a
prescindere quindi dalla innovativa lettura
della stessa normativa statale proposta da
Cons. Stato, IV, 1842/2010, citata dalla
difesa del Comune, che avvicina il regime di
commerciabilità dei parcheggi realizzati ai
sensi del co. 1 a quelli di cui al co. 4
dell’art. 9);
- in ordine alla asserita violazione
dell’art. 9 l. 122/1989 che non
consentirebbe la procedura di deroga alle
norme di piano in presenza di vincoli
monumentali, come quello di specie, si
ritiene che la lettura della norma proposta
dai ricorrenti non sia corretta, in quanto
la norma in esame si limita a dire che la
deroga di cui alla l. 122/1989 riguarda
soltanto la sfera urbanistica, ma non quella
del paesaggio e dell’ambiente, ma non
preclude di svolgere opere su beni
vincolati, qualora vi sia la relativa
autorizzazione dell’autorità preposta alla
tutela del vincolo;
- in ordine alla asserita violazione
dell’art. 9 l. 122/1989 che consentirebbe la
deroga solo quando non vi sia contrasto con
l’uso delle superfici soprastanti (contrasto
che vi sarebbe nel caso di specie in quanto
l’art. 63 n.t.a. prevede che nelle zone A2
R1 è ammesso solo il restauro ed il
risanamento conservativo e l’art. 67 n.t.a.
prevede mantenimento, piantumazioni e
pavimentazioni tradizionali), in realtà la
generica indicazione dell’inciso contenuto
nell’art. 9 “tenuto conto dell'uso della
superficie sovrastante” non è
utilizzabile nel senso prospettato dai
ricorrenti, perché se si imponesse il
rispetto delle norme di piano relative alla
superficie dove deve sorgere l’opera si
ripristinerebbe la necessità di quella
conformità urbanistica che pure la stessa
disposizione deroga esplicitamente
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 16.01.2012 n. 61 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sull'illegittimità
dell'affidamento in house del servizio
trasporto infermi ad una società consortile
interamente pubblica, in quanto da alcune
previsioni statutarie, emerge la vocazione
commerciale della società consortile.
E' illegittimo l'affidamento in house
del servizio trasporto infermi disposto da
un'Azienda Ospedaliera Universitaria ad una
società consortile interamente pubblica
statutariamente costituita tra la Regione e
le Aziende del S.S.R., in quanto da alcune
previsioni statutarie, emerge la vocazione
commerciale della società consortile,
vocazione commerciale che, rende precario il
controllo (analogo) dell'ente pubblico.
In particolare, le disposizioni statutarie e
della convenzione che mirano a consentire
l'utilizzo del personale per finalità ed "attività
ulteriori" rispetto a quelle del
servizio di emergenza-trasporto 118
rispondono all'esigenza di "portare
ricavi ulteriori", al fine ultimo di
mantenere i livelli occupazionali dei
dipendenti della società. L'affidamento
in house, è stato scelto non tanto e non
solo per le asserite ragioni di economicità
del servizio ma anche per trovare "una
soluzione interna per venire a capo della
grave situazione creata dalla travagliata
vicenda del rapporto convenzionale con la
Croce Rossa e con la SISE s.p.a., sfociata
in un contenzioso ormai inestricabile e
gravissimo ed in una sostanziale bancarotta
della società".
Questa ulteriore finalità ha comportato un
ampliamento dell'oggetto sociale e dei
soggetti destinatari dei servizi, con
conseguente acquisizione da parte della
società di una vocazione commerciale,
perdita del controllo analogo ed
allentamento del nesso di strumentalità
dell'attività sociale con le esigenze
pubbliche degli enti controllanti.
Pertanto, per affermare l'effettività del
cd. controllo analogo, condizione necessaria
ai fini della legittimità di un affidamento
in house, la società affidataria non
può acquisire una vocazione commerciale tale
da rendere precario il controllo dell'ente
pubblico (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 13.01.2012 n. 44 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il comune non può adottare
provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi
prima di aver definito il procedimento di
concessione in sanatoria.
Per giurisprudenza consolidata, l'Autorità comunale non può
adottare provvedimenti sanzionatori (nella
fattispecie, di carattere ripristinatorio)
di abusi edilizi prima di aver definito, con
pronuncia espressa e motivata, il
procedimento di concessione in sanatoria, in
quanto in caso di eventuale sussistenza
della conformità dell’abuso alla disciplina
urbanistica la pronuncia positiva sarebbe
inutiliter data e gravemente illegittima
risulterebbe la demolizione o il ripristino
del bene.
In definitiva, una volta presentata
un'istanza di concessione in sanatoria o di
condono edilizio, in assenza di preventiva
determinazione su quest'ultima ed in
pendenza del relativo procedimento, ne
consegue l'illegittimità dell'adozione di un
provvedimento sanzionatorio repressivo,
essendo l'Autorità urbanistica venuta meno
all'obbligo su di lei incombente di
determinarsi sull'istanza medesima prima di
procedere all'irrogazione delle sanzioni
definitive; e, ciò per non correre il
rischio che, portata ad esecuzione
l'ingiunzione a demolire o a ridurre in
pristino stato, risulti vanificato un
eventuale provvedimento di accoglimento
dell'istanza di concessione in sanatoria per
la conseguente impossibilità di restituire
alla legalità un'opera non più esistente (in
termini, da ultimo, TAR Sardegna, Sez. II, 02.09.2011
n. 914) (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 13.01.2012 n. 16 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Tra gli obblighi dell’appaltatore
rientra il controllo sulla validità tecnica
del progetto approvato dal committente.
Nell’appalto pubblico, come in quello
privato, rientra tra gli obblighi di
diligenza dell’appaltatore esercitare il
controllo sulla validità tecnica e la
completezza del progetto approvato dal
committente, in quanto il risultato
promesso, che contraddistingue
l’obbligazione dell’impresa, dipende dalla
corretta progettazione, oltre che
dall’esecuzione dell’opera (Tribunale
Napoli, VI, 21.04.2009; Tribunale Piacenza,
23.02.2010, n. 108) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 11.01.2012 n. 28 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il persistente obbligo di
demolire un edificio si estende agli
interventi postumi accessori sul medesimo.
La ristrutturazione oggetto del gravato
provvedimento accede ad immobile per il
quale il Comune aveva denegato il condono
edilizio e la Procura della Repubblica di
Firenze, in data 13.10.2001, aveva ordinato
la demolizione (ordine ripetuto con diffida
del 28.04.2009 –documento n. 11 depositato
in giudizio dal Comune-).
Invero l’edificio su cui è stata realizzata
la copertura avrebbe dovuto essere demolito
in esecuzione della sentenza della Corte
d’Appello di Firenze n. 891 del 19.03.2001;
la stessa Corte d’Appello, con ordinanza del
23.04.2009 (documento n. 10 depositato in
giudizio), ha respinto l’istanza di revoca
dell’ordine di demolizione.
Rileva altresì l’ordine di demolizione del
Comune di Vaglia, datato 16.09.1998.
Pertanto, l’edificio su cui insiste l’opera
oggetto dell’atto impugnato costituisce
abuso edilizio non regolarizzato che avrebbe
dovuto essere demolito in forza di
provvedimenti giudiziari esecutivi ed in
forza della citata ordinanza comunale di
demolizione, la quale non è stata oggetto di
pronuncia cautelare di sospensione degli
effetti.
Né rileva la presentazione del ricorso
avverso l’ordinanza stessa ed il connesso
diniego di condono dell’edificio, in quanto
la pendenza del gravame non vale di per sé a
sospendere gli effetti degli atti impugnati.
In conclusione, la condizione di opera
abusiva non sanata dell’edificio sul quale è
stata posta la copertura de qua preclude
qualsiasi intervento di manutenzione
straordinaria o di ristrutturazione, in
quanto gli interventi di trasformazione o
modifica richiedenti un titolo edilizio
(riconducibili alla manutenzione
straordinaria, al risanamento conservativo o
alla ristrutturazione edilizia) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell’opera
principale alla quale ineriscono, con la
conseguenza che il persistente obbligo di
demolire l’edificio si estende agli
interventi postumi accessori sul medesimo
(TAR Campania, Napoli, VI, 03.12.2010, n.
26787) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 11.01.2012 n. 25 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Modulistica
errata della Stazione appaltante: il giudice
amministrativo abilita il "fai da te".
L'esigenza di apprestare tutela
all'affidamento inibisce alla stazione
appaltante di escludere dalla gara pubblica
un'impresa che abbia compilato l'offerta in
conformità al facsimile all'uopo da essa
stessa approntato, potendo eventuali
parziali difformità rispetto al disciplinare
costituire oggetto di richiesta di
integrazione, atteso che nessun addebito
poteva a detta impresa essere contestato per
essere stata indotta in errore, all'atto
della presentazione della domanda di
partecipazione alla gara, dal negligente
comportamento della stazione appaltante, che
aveva mal predisposto la relativa
modulistica (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 10.01.2012 n. 31 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE -
URBANISTICA: Il
dies a quo per la determinazione
dell'indennità in caso di pubblica utilità
implicita decorre inderogabilmente dalla
pianificazione attuativa.
Secondo il Consiglio di Stato il chiaro
disposto dell’ultimo comma dell'art. 20 del
d.P.R. nr. 327 del 2001, a mente del quale,
qualora la dichiarazione di pubblica utilità
sia implicita nell’approvazione di un piano
esecutivo, il dies a quo del
procedimento di determinazione
dell’indennità corrisponde al momento
dell’approvazione del piano di attuazione di
questo, non vale a superare le doglianze
ritenute pur comprensibili sul piano umano
avanzate nel caso di specie dai ricorrenti
che lamentano come in tal caso, dovendosi il
piano esecutivo predisporsi entro 25 anni
dall’approvazione del P.E.E.P., vi sia una
indefinita deminutio di valore dei
suoli in loro proprietà a fronte di una
contropartita economica che, in
considerazione della non verde età degli
interessati, potrebbe intervenire in un
momento in cui sarà inidonea a costituire
seria e concreta utilità
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 10.01.2012 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I piccoli manufatti per il
contenimento di impianti tecnologici possono
essere considerati pertinenza urbanistica.
Il ricorrente ha realizzato alcune opere
abusive utilizzate per l’allevamento dei
cavalli nonché per servizi vari funzionali
all’attività allevatoriale e sportiva.
Il Comune constatato il loro carattere
abusivo, per assenza del titolo edilizio, ne
ordinava la demolizione ed il ripristino
dello stato dei luoghi con il provvedimento
in epigrafe indicato.
...
Le opere abusive analiticamente descritte
nell’ordinanza impugnata e nel verbale di
accertamento degli abusi edilizi
richiedevano il rilascio di un permesso di
costruzione.
Infatti, le opere realizzate per le loro
caratteristiche strutturali hanno un proprio
impatto volumetrico e sono destinate ad usi
di natura permanente, come dimostra la
circostanza della loro presenza almeno
ventennale. Inoltre, non sono affatto di
modeste dimensioni sia considerate
complessivamente sia considerate
singolarmente, come emerge dal provvedimento
impugnato.
Quindi, incidendo in modo permanente e non
precario sull’assetto edilizio del
territorio (cfr. Cons. Stato, sez. V,
sent. 15.06.2000, n. 3321 che richiede la
concessione anche per un container non
infisso al suolo essendo destinato ad usi
permanenti) sono assoggettabili a permesso
di costruzione ed al conseguente regime demolitorio di cui all’articolo 7 della
legge n. 47 del 1985, come esattamente
rilevato dall’Amministrazione nel
provvedimento impugnato (cfr. TAR
Emilia-Romagna, sez. II, n. 463 del
14.04.2006; TAR Emilia-Romagna, sez. II,
n. 681 dell'01/06/2006; TAR Emilia-Romagna,
sez. II, n. 2970 del 13/11/2006).
Del resto le stesse non hanno natura
pertinenziale.
Infatti, le opere edilizie in contestazione
non hanno natura di pertinenza urbanistica,
essendo suscettibili di un autonomo
utilizzo, ed hanno un proprio impatto
volumetrico. Quindi, incidendo in modo
permanente e non precario sull’assetto
edilizio del territorio (cfr. Cons. Stato,
sez. V, sent. 15/06/2000, n. 3321 che
richiede la concessione anche per un
container non infisso al suolo essendo
destinato ad usi permanenti; TAR per
l’Emilia Romagna, sez. II, n. 463 del
14/04/2006; TAR per l’Emilia Romagna,
sez. II, n. 16 dell'08/01/2004) sono
assoggettabili, come sopra evidenziato, a
permesso di costruzione con conseguente
obbligo di demolizione, ai sensi
dell’articolo 7 della legge n. 47 del 1985,
in caso di realizzazione abusiva.
In proposito, infatti, costituisce un
orientamento consolidato di questa sezione
quello per cui il concetto di pertinenza
urbanistica è diverso dal concetto di
pertinenza civilistica. Infatti, la
pertinenza urbanistica, assoggettata ad un
regime edilizio particolarmente semplice e
favorevole, riguarda soltanto opere di
modesta entità ed accessorie rispetto ad
un'opera principale, quali ad esempio i
piccoli manufatti per il contenimento di
impianti tecnologici, e non può riguardare
opere che dal punto di vista delle
dimensioni e della funzione possono avere
una propria autonomia rispetto all'opera
cosiddetta principale. Nel caso in esame,
tali requisiti non ricorrono in quanto le
dimensioni e la destinazione dell’opera ne
evidenziano l’autonoma rilevanza anche
funzionale dal punto di vista edilizio con
conseguente assoggettazione al regime del
permesso di costruzione necessario per la
sua realizzazione (TAR per l’Emilia
Romagna, sez. II, n. 462 del 14/04/2006).
E’, inoltre, irrilevante l’epoca di
realizzazione degli abusi edilizi in parola
in quanto la repressione degli abusi edilizi
costituisce un attività dovuta a carattere
vincolato e non è soggetta a termini di
prescrizione e decadenza (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 09.01.2012 n. 11 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Motivi
di urgenza possono legittimare l'esecuzione
immediata dei lavori prima
dell'aggiudicazione definitiva.
La consegna anticipata dei lavori segue di
norma l’aggiudicazione definitiva, ma
oggettivi ed inequivocabili motivi di
urgenza nella realizzazione dei lavori
consentono la immediata esecuzione dei
lavori stessi, sotto riserva di legge, anche
dopo l’aggiudicazione provvisoria, e
l’ipotesi è contemplata in sede di
giurisprudenza amministrativa
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 05.01.2012 n. 12 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Escussione
della cauzione provvisoria in caso di
esclusione dalla gara per mancanza dei
requisiti richiesti.
L’esclusione della gara per l’accertata
mancanza di uno dei requisiti di capacità
economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa determina ai sensi
dell’art. 48, comma 1, del Codice dei
Contratti, l’escussione della cauzione
provvisoria prestata e la segnalazione del
fatto all’Autorità per la Vigilanza sui
Contratti Pubblici per i provvedimenti di
cui all’art. 6, comma 11, dello stesso
Codice.
Secondo il Consiglio di Stato anche a volere
ammettere la non automaticità della misura
dell’incameramento della cauzione in seguito
ad un provvedimento di esclusione da una
gara, la stessa non può essere comunque
esclusa quando risulti accertata la carenza,
sul piano sostanziale, dei requisiti di
capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa che l’impresa avrebbe
dovuto possedere per partecipare alla gara.
Ferma restando l’autonomia della Autorità
per la Vigilanza sui Contratti Pubblici
nella determinazione delle ulteriori
conseguenze della esclusione, anche a
carattere sanzionatorio (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 04.01.2012 n. 3 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sul divieto per le società che
gestiscono servizi pubblici locali in virtù
di affidamento diretto di "acquisire la
gestione di servizi ulteriori" (art. 23-bis,
c. 9, del d.l. 25.06.2008, n. 112).
L'art. 23-bis del d.l. 25.06.2008, n. 112,
nel disciplinare i servizi pubblici locali
di rilevanza economica ha introdotto al c. 9
il divieto per le società che gestiscono
servizi pubblici locali in virtù di
affidamento diretto ad "acquisire la
gestione di servizi ulteriori".
Pertanto, nel caso di specie, è legittima la
mancata aggiudicazione di una gara per
l'affidamento, per un periodo di cinque
anni, del servizio di raccolta e trasporto
rifiuti urbani alle due società costituenti
l'a.t.i. per non aver dimostrato, così come
richiesto dalla stazione appaltante,
l'intervenuta cessazione degli affidamenti
diretti in corso mediante l'esibizione di
una lettera liberatoria dei Comuni
interessati (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 30.12.2011 n. 733 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Modalità
di calcolo della misura dell'oblazione per
il conseguimento della concessione in
sanatoria.
La tabella allegata alla legge n. 47 del
1985 prevede che la misura dell’oblazione ai
fini del condono sia determinata
moltiplicando i metri quadrati delle opere
abusive con un coefficiente che tiene conto
delle caratteristiche dell’abuso e del
periodo in cui esso è stato commesso; dal
punto 1 al punto 7 sono previste diverse
ipotesi, che sono state prese in
considerazione dal legislatore a seconda
della gravità dell’abuso, con la previsione
di importi decrescenti in relazione alla
tipologia dell’abuso, la cui fattispecie più
grave è descritta proprio dal punto 1 per le
“opere realizzate in assenza o difformità
dalla licenza edilizia o concessione e non
conformi alle norme urbanistiche ed alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
Il successivo punto 4 prevede il pagamento
di un diverso e minore importo, tra l’altro,
per le “opere che abbiano determinato
mutamento di destinazione d’uso”
(definizione poi chiarita dall’art. 2, comma
53, della L. 23.12.1996, n. 662, secondo cui
la tipologia dell’abuso di cui al predetto
n. 4 della tabella “deve intendersi
applicabile anche agli abusi consistenti in
mutamenti di destinazione d’uso eseguiti
senza opere edilizie”).
La giurisprudenza ha precisato che, ai fini
della determinazione della misura
dell'oblazione da corrispondere per il
conseguimento della concessione in
sanatoria, se sono realizzate opere in
assenza o in difformità dalla concessione e
non conformi alle previsioni dello strumento
urbanistico, si applica il punto 1 tab. all.
alla l. 28.02.1985 n. 47 (che si applica
anche quando le opere comportano il solo
aumento di cubatura); se le opere realizzate
in difformità dalla concessione hanno
determinato il mutamento della destinazione
d'uso, si applica il solo punto 4 della
tabella (Cons. Stato, V, n. 1247/1994). Nel
caso attenzionato nella presente sentenza,
si ricade in tale seconda ipotesi,
trattandosi di opere realizzate in
conformità alla concessione edilizia (che
aveva autorizzato la costruzione di un
capannone agricolo), ma con mutamento di
destinazione d’uso.
Il chiaro tenore letterale della tabella non
consente di distinguere all’interno dei
cambi di destinazione d’uso, risultando
quindi irrilevante l’originaria destinazione
agricola del manufatto, invocata dal comune
appellante ai fini del diverso calcolo della
volumetria, dovendo applicarsi il punto 4
per ogni ipotesi di mutamento di
destinazione d’uso senza incremento di
cubatura
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 29.12.2011 n. 6984 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
concorrente legittimamente escluso dalla
gara non può impugnare l'aggiudicazione.
Con la sentenza della Adunanza Plenaria n. 4
del 2011 è stato precisato che, nel caso in
cui venga accertato che l'amministrazione ha
legittimamente escluso dalla gara un
concorrente, questi non conserva la
legittimazione ad impugnare l'aggiudicazione
al controinteressato.
Ciò in quanto la determinazione di
esclusione non annullata cristallizza
definitivamente la posizione sostanziale del
concorrente, ponendolo nelle stesse
condizioni di colui che sia rimasto estraneo
alla gara. Sono quindi da ritenere
improcedibili, per sopravvenuto difetto
all'interesse, le doglianze mosse contro
l'aggiudicazione di una gara ad altro
concorrente, da parte della ditta nei cui
confronti viene accertato che è stata
legittimamente esclusa dalla gara.
Ciò anche se le concorrenti in gara siano
solamente due, in quanto la riscontrata
assenza di una posizione legittimante in
capo al concorrente illegittimamente ammesso
alla gara è stato ritenuto che determini il
superamento della tesi proposta dalla
decisione della A.P. del Consiglio di Stato
n. 11/2008, secondo cui in tal caso esso
conserverebbe interesse alla rinnovazione
della procedura di gara
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.12.2011 n. 6965 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
P.A. nelle gare pubbliche può richiedere
integrazioni documentali soltanto se esiste
un indizio circa il possesso dei requisiti.
Il rimedio della regolarizzazione
documentale, di cui all'art. 46, del d. lgs.
n. 163/2006, non si applica al caso in cui
l'impresa concorrente abbia integralmente
omesso la produzione documentale prevista
dall'art. 38 dello stesso d.lgs.; viceversa,
qualora la documentazione prodotta dal
concorrente ad una pubblica gara sia
presente, ma carente di taluni elementi
formali, di guisa che sussista un indizio
del possesso del requisito richiesto,
l'Amministrazione non può pronunciare
l'esclusione dalla procedura, ma è tenuta a
richiedere al partecipante di integrare e
chiarire il contenuto di un documento già
presente, costituendo tale attività
acquisitiva un ordinario “modus
procedendi”, ispirato all'esigenza di
far prevalere la sostanza sulla forma.
Il rimedio della regolarizzazione postuma è
attivabile solo nelle ipotesi di
dichiarazioni, documenti e certificati non
chiari o di dubbio contenuto, ma che siano
pur sempre stati presentati, e non anche
laddove si sia in presenza di documentazione
del tutto mancante, risolvendosi in caso
contrario in una palese violazione della par
condicio rispetto alle imprese concorrenti
che abbiano rispettato la disciplina
prevista dalla "lex specialis"
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.12.2011 n. 6965 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L'annullamento
dell'aggiudicazione non determina
l'automatica inefficacia del contratto.
Dopo l'entrata in vigore delle disposizioni
attuative della direttiva comunitaria
2007/66/Ce, ora trasfuse negli art. 121 e
122 del codice del processo amministrativo,
in caso di annullamento giudiziale
dell'aggiudicazione di una pubblica gara,
spetta al G.A. il potere di decidere
discrezionalmente (anche nei casi di
violazioni gravi) se mantenere o meno
l'efficacia del contratto nel frattempo
stipulato; il che significa che
l'inefficacia non è conseguenza automatica
dell'annullamento dell'aggiudicazione, che
determina solo il sorgere del potere in capo
al Giudice di valutare se il contratto debba
o meno continuare a produrre effetti
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.12.2011 n. 6965 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Determinazione
della misura delle distanze fra nuove
costruzioni in mancanza di norme nel
regolamento edilizio comunale.
In materia di distanze tra nuove
costruzioni, quando il regolamento edilizio
comunale presenta una lacuna normativa, la
disciplina applicabile è quella contenuta
nell'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del
1942 che richiama l'art. 9 d.m. 02.04.1968
n. 1444, ed ha natura di norma integrativa
dell'art. 873 c.c..
In difetto di norme regolamentari, quindi
deve applicarsi la norma del d.m. del 1968,
n. 1444 (art. 9), concernente la distanza
minima di dieci metri tra edifici finestrati
e, per dato logico, in assenza di tali
edifici, di 5 metri dal confine in quanto se
e' pur vero che l’art. 9 citato è nella sua
formulazione rivolto ad indirizzare la
pianificazione urbanistica (formazione degli
strumenti urbanistici), è altrettanto vero
che in assenza di norme locali esso è
direttamente applicabile in sede di rilascio
degli assensi edilizi
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.12.2011 n. 6955 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: E'
automatica l'esclusione dalla gara per
l'impresa inaffidabile per gravi negligenze
nell'esecuzione di precedenti contratti con
la stessa P.A..
L'esclusione dalle gare pubbliche per
inaffidabilità delle imprese concorrenti per
grave negligenza e malafede commessa nel
corso di esecuzione di precedenti contratti
pubblici può essere pronunciata in termini
di automaticità soltanto quando il
comportamento di deplorevole trascuratezza e
slealtà sia stato posto in essere in
occasione di un pregresso rapporto negoziale
intercorso con la stessa stazione appaltante
che indice la gara.
In caso contrario, invece, il giudizio di
inaffidabilità professionale su un'impresa
partecipante ad una gara pubblica è
subordinato alla preventiva motivata
valutazione della stazione appaltante o
della commissione giudicatrice, che è tenuta
a valorizzare i precedenti professionali
delle imprese concorrenti nel loro
complesso, nonché a valutare gravità e
rilevanza sul piano professionale di
precedenti risoluzioni contrattuali
comminate da altre Amministrazioni.
Ciò che rileva a detti fini è che l'errore
ascritto sia espressione di un difetto di
capacità professionale e lo stesso, nella
sua obiettiva rilevanza, costituisca
elemento sintomatico della perdita del
requisito di affidabilità e capacità
professionale a fornire prestazioni che
soddisfino gli interessi di rilievo pubblico
perseguiti dall'ente committente. La
violazione deve quindi essere tanto grave da
escludere l'affidabilità
tecnico-professionale del potenziale
aggiudicatario, tale da costituire
violazione dei principi di correttezza e
buona fede, determinando il venir meno della
fiducia dell'amministrazione nella propria
fornitrice e della possibilità futura del
corretto svolgimento del rapporto
contrattuale.
A tal fine, il concetto normativo di "violazione
dei doveri professionali" abbraccia
un'ampia gamma di ipotesi, riconducibili
alla negligenza, all'errore ed alla
malafede, purché tutte qualificabili "gravi"
e richiede che la responsabilità risulti
accertata e provata con qualsiasi mezzo di
prova, sebbene senza la necessità di una
sentenza passata in giudicato.
Pertanto nell'apprezzamento dell'errore
grave nell'esecuzione di precedenti
forniture si deve procedere in maniera
particolarmente rigorosa, evidenziando tutti
i profili di specificità che consentano di
giustificare un giudizio complessivo di
inaffidabilità e di incapacità tecnica
dell'impresa che si intende escludere dalla
gara.
E’ quindi all'Amministrazione aggiudicatrice
che compete il potere di valutare la gravità
delle infrazioni commesse, con riferimento
alla specificità del rapporto, e reputare se
sia conseguentemente venuto meno il rapporto
fiduciario con la stessa impresa (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.12.2011 n. 6951 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
caso di aggiudicazione a seguito di ricorso
giudiziale il ricorrente ha il dovere di non
concorrere ad aggravare il danno ritenendosi
risarcibili soltanto mezzi e manodopera
inutilizzati per altri lavori in quanto
necessari a dar corso all'esecuzione
dell'appalto oggetto del giudizio.
In sede di risarcimento dei danni derivanti
dalla mancata aggiudicazione di una gara di
appalto, il mancato utile nella misura
integrale spetta, nel caso di annullamento
dell'aggiudicazione e di certezza
dell'aggiudicazione in favore del
ricorrente, solo se il ricorrente dimostri
di non aver potuto altrimenti utilizzare
maestranze e mezzi, tenuti a disposizione in
vista dell'aggiudicazione; in difetto di
tale dimostrazione, è da ritenere che
l'impresa possa aver ragionevolmente
riutilizzato mezzi e manodopera per altri
lavori o servizi e, pertanto, in tale
ipotesi deve operarsi una decurtazione del
risarcimento di una misura per l'"aliunde
perceptum vel percipiendum”.
Deve inoltre evidenziarsi che ai sensi
dell'art. 1227 c.c., il danneggiato ha un
puntuale dovere di non concorrere ad
aggravare il danno. Nelle gare di appalto,
l'impresa non aggiudicataria, ancorché
proponga ricorso e possa ragionevolmente
confidare che riuscirà vittoriosa, non può
mai nutrire la matematica certezza che le
verrà aggiudicato il contratto, atteso che
sono molteplici le possibili sopravvenienze
ostative.
Pertanto, non costituisce, normalmente, e
salvi casi particolari, condotta ragionevole
immobilizzare tutti i mezzi di impresa nelle
more del giudizio, nell'attesa
dell'aggiudicazione in proprio favore,
essendo invece ragionevole che l'impresa si
attivi per svolgere altre attività (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.12.2011 n. 6951 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
costanza di domanda di concessione in
sanatoria diventano inefficaci le misure
repressive.
La presentazione della domanda di rilascio
di concessione in sanatoria per abusi
edilizi impone al Comune la sua disamina e
l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di
talché gli atti repressivi dell'abuso in
precedenza adottati perdono efficacia.
Pertanto, in presenza della richiesta di
rilascio della concessione in sanatoria,
l'interesse all'appello già proposto avverso
i detti atti repressivi assume natura
recessiva con conseguente improcedibilità
dello stesso
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.12.2011 n. 6938 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Onere
di immediata impugnazione delle clausole del
bando sui requisiti di ammissione.
Come statuito dall’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato con la decisione n. 1 del
2003, “nei pubblici appalti
l’impugnazione delle clausole e delle regole
della “lex specialis” della gara, diverse da
quelle che impediscano la partecipazione,
può essere effettuata contestualmente a
quella dell’atto che determina per il
concorrente l’esito negativo della
procedura: l’unico interesse del concorrente
è infatti quello al conseguimento della
aggiudicazione, mentre va esclusa la
sussistenza di un interesse autonomo alla
legittimità delle regole e delle operazioni
di gara”.
L’onere di impugnazione immediata riguarda
cioè solo le clausole del bando di gara o
della lettera invito concernenti i requisiti
di ammissione alla procedura e che
precludono la partecipazione alla selezione,
mentre l’eventuale illegittimità di altre
clausole può essere fatta valere in un
momento successivo, con l’impugnazione del
provvedimento di aggiudicazione (massima
tratta da www.gazzettaamministrativa.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.12.2011 n. 6937 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L'impresa
esclusa non può impugnare gli esiti della
gara se non ha impugnato l’atto di
esclusione ovvero l'impugnazione sia stata
respinta.
Con la recente decisione n. 4/2011,
l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di
Stato ha avuto modo di precisare che in
materia di pubblici appalti, per configurare
una posizione sostanziale differenziata che
radica la legittimazione al ricorso non è
sufficiente il solo “fatto storico”
della iniziale partecipazione alla gara,
indipendentemente dalla successiva
esclusione, oppure dall’accertamento della
sua illegittimità.
La situazione legittimante costituita
dall’intervento nel procedimento selettivo,
infatti, deriva da una qualificazione di
carattere normativo, che postula il positivo
esito del sindacato sulla ritualità
dell’ammissione del soggetto ricorrente alla
procedura selettiva.
Pertanto, la definitiva esclusione o
l’accertamento della illegittimità della
partecipazione alla gara impedisce di
assegnare al concorrente la titolarità di
una situazione sostanziale che lo abiliti ad
impugnare gli esiti della procedura
selettiva. Tale esito rimane fermo in tutti
i casi in cui l’illegittimità della
partecipazione alla gara è definitivamente
accertata, sia per inoppugnabilità dell’atto
di esclusione, sia per annullamento
dell’atto di ammissione.
L’Adunanza Plenaria, quindi, ha chiarito
che, nel caso in cui l’amministrazione abbia
escluso dalla gara il concorrente, questi
non ha la legittimazione ad impugnare
l’aggiudicazione al controinteressato, a
meno che non ottenga una pronuncia di
accertamento della illegittimità
dell’esclusione. Infatti, la determinazione
di esclusione, non impugnata o non
annullata, cristallizza definitivamente la
posizione sostanziale del concorrente,
ponendolo nelle stesse condizioni di colui
che sia rimasto estraneo alla gara.
Ne deriva, pertanto, che non spetta alcuna
legittimazione a contestare gli esiti della
gara al concorrente escluso dalla gara, che
non abbia impugnato l’atto di esclusione o
la cui impugnazione sia stata respinta
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.12.2011 n. 6934 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: False
dichiarazioni o falsa documentazione nelle
procedure di gara: il Consiglio di Stato
chiarisce le novità introdotte con il
Decreto sviluppo.
Il quadro normativo di riferimento, per
effetto delle modifiche alla materia dei
contratti pubblici introdotte dal D.L.
13.05.2011, n. 70 (c.d. “Decreto sviluppo”)
e della relativa legge di conversione (L.
12.07.2011, n. 106), è profondamente mutato
per quanto attiene alla comunicazione ai
fini dell’inserimento nel Casellario
Informatico delle esclusioni ex art. 38 del
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, nonché per
l’annotazione di tutte le altre notizie
ritenute utili. Infatti, la norma attuale
dell’art. 38 contempla un comma 1-ter che
stabilisce che in caso di presentazione di
falsa dichiarazione o falsa documentazione,
nelle procedure di gara e negli affidamenti
di subappalto, la stazione appaltante ne dà
segnalazione all'Autorità che, se ritiene
che siano state rese con dolo o colpa grave
in considerazione della rilevanza o della
gravità dei fatti oggetto della falsa
dichiarazione o della presentazione di falsa
documentazione, dispone l'iscrizione nel
casellario informatico ai fini
dell'esclusione dalle procedure di gara e
dagli affidamenti di subappalto ai sensi del
comma 1, lettera h), per un periodo di un
anno, decorso il quale l'iscrizione è
cancellata e perde comunque efficacia.
Pertanto, nell’assetto attuale, è indubbia
la valenza costitutiva dell’iscrizione da
parte dell’Autorità. Nell’assetto
antecedente, invece, prevale l’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale, quando
la legge prescrive in via automatica la
segnalazione di determinati dati
all'Osservatorio, senza alcuna possibilità
di valutazione discrezionale in ordine al se
della comunicazione e al contenuto della
stessa, si possono, come regola generale,
individuare equipollenti dell'avviso di
avvio del procedimento di iscrizione.
Diverso discorso va svolto per dati la cui
comunicazione non è automatica e dovuta, ma
frutto di valutazioni da parte della
stazione appaltante su dati opinabili; ciò
accade ad es. nel caso di segnalazione di
episodi di grave negligenza o grave
inadempimento, e nel caso di false
dichiarazioni (come nel caso di specie).
Infatti, in tali casi la stazione
appaltante, per effettuare la segnalazione,
deve valutare se vi è o meno grave
negligenza, grave inadempimento, falsità
della dichiarazione.
Sicché l'interessato non può sapere ex
ante se e quando tale valutazione verrà
svolta in senso affermativo e se vi sarà o
meno segnalazione all'Osservatorio.
Pertanto, tale segnalazione non può che
avere natura costitutiva, con la sua
conseguente immediata impugnabilità
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.12.2011 n. 6911 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia edilizia e' inutile denunciare il
vizio di disparità di trattamento.
Il vizio di disparità di trattamento non è
configurabile in relazione ad una materia
come quella edilizia in cui vengono in
rilievo atti sanzionatori aventi carattere
vincolato e non discrezionale, rivelandosi
del tutto irrilevante la denunciata
circostanza per cui in zona vi sarebbero
altri casi di opere edilizie non conformi
alla normativa urbanistica che non sarebbero
stati assoggettati a provvedimenti
sanzionatori (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 27.12.2011 n. 6873 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Modalità
di indicazione negli atti di gara dei costi
relativi alla sicurezza.
L’art. 86, comma 3-bis, e l’art. 87, comma
4, del Codice dei Contratti Pubblici
impongono, anche per gli appalti di servizi
e forniture, la specifica indicazione
nell’offerta economica di tutti i costi
relativi alla sicurezza.
In particolare gli oneri della sicurezza
–sia nel comparto dei lavori che in quelli
dei servizi e delle forniture– devono essere
distinti tra oneri, non soggetti a ribasso,
finalizzati all’eliminazione dei rischi da
interferenze (che devono essere quantificati
dalla stazione appaltante nel DUVRI) ed
oneri concernenti i costi specifici connessi
con l’attività delle imprese che devono
essere indicati dalle stesse nelle
rispettive offerte, con il conseguente onere
per la stazione appaltante di valutarne la
congruità (anche al di fuori del
procedimento di verifica delle offerte
anomale) rispetto all’entità ed alle
caratteristiche del lavoro, servizio o
fornitura.
L’art. 86, comma 3-bis, e l’art. 87, comma
4, del d.lgs. n. 163 del 2006 impongono la
specifica stima ed indicazione di tutti i
costi relativi alla sicurezza, tanto nella
fase della “predisposizione delle gare di
appalto” (e quindi nella predisposizione
della documentazione di gara) quanto nella
fase della formulazione dell’offerta
economica.
Peraltro, anche l’art. 26, comma 6, del
d.lgs. n. 281 del 09.04.2008 (recante norme
in materia di tutela della salute e di
sicurezza nei luoghi di lavoro), emanato in
attuazione della delega prevista dall’art.
1, comma 1, della legge n. 123 del 2007,
stabilisce che nella predisposizione delle
gare di appalto e nella valutazione
dell’anomalia delle offerte, nelle procedure
di affidamento di appalti di lavori
pubblici, di servizi e di forniture, gli
enti aggiudicatori sono tenuti a valutare
che il valore economico sia adeguato e
sufficiente rispetto al costo del lavoro ed
al costo relativo alla sicurezza, “che
deve essere specificamente indicato e
risultare congruo rispetto all’entità e alle
caratteristiche dei lavori, dei servizi o
delle forniture”.
Ciò significa che, negli atti di gara,
devono essere specificamente indicati,
separatamente dall’importo dell’appalto
posto a base d’asta, i costi relativi alla
sicurezza derivanti dalla valutazione delle
interferenze, per i quali è precluso
qualsiasi ribasso (art. 86, comma 3-bis. e
comma 3-ter, del d.lgs. n. 163/2006),
trattandosi di costi ritenuti necessari per
la tutela dei soggetti interessati. Gli atti
di gara devono poi prevedere che,
nell’offerta economica, siano indicati gli
altri oneri per la sicurezza (da rischio
specifico) che sono variabili perché legati
all’offerta economica delle imprese
partecipanti alla gara.
A loro volta le imprese partecipanti devono
includere necessariamente nella loro offerta
sia gli oneri di sicurezza per le
interferenze (nella esatta misura
predeterminata dalla stazione appaltante),
sia gli altri oneri di sicurezza da rischio
specifico (o aziendali) la cui misura può
variare in relazione al contenuto
dell’offerta economica, trattandosi di costi
il cui ammontare è determinato da ciascun
concorrente in relazione alle altre voci di
costo dell’offerta
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 19.12.2011 n. 6677 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Falso
innocuo del concorrente nella procedura di
gara.
Le eventuali inesattezze delle dichiarazioni
rese dai concorrenti nell’ambito di una
procedura per l’affidamento di un contratto
pubblico rilevano solo se idonee,
effettivamente, ad incidere sullo
svolgimento della gara
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 19.12.2011 n. 6639 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulle
controversie in materia di DIA e SCIA decide
il giudice amministrativo.
Ogni controversia avente ad oggetto il
corretto e tempestivo esercizio del potere
amministrativo di controllo circa la
conformità dell'attività dichiarata al
paradigma normativo, con conseguente
adozione della misura inibitoria in caso di
esito negativo del riscontro, rientra nella
giurisdizione del giudice amministrativo.
L’art. 133 del codice del processo
amministrativo, comma 1, lett. a n. 3 e
lett. f dispone che le controversie in
materia di “Dia” devono essere affidate alla
giurisdizione esclusiva del plesso
giurisdizionale amministrativo. Muovendo
dall’insegnamento dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato n. 15/2011 (“SCIA e
DIA sono dichiarazioni imputabili a
manifestazione di volontà privata dalla
quale scaturisce, ai sensi degli artt. 19,
comma 3, legge n. 241/1990 un procedimento
doveroso di verifica che, in assenza di
requisiti alla continuazione o all'avvio
dell'attività, si conclude con un diniego
espresso o con un "diniego tacito" di
adozione del provvedimento inibitorio.
Il silenzio che segue allo scadere del
termine perentorio per la verifica e
l'inibizione dell'attività denunciata, va
equiparato, in assenza dei previsti
requisiti, all'"atto tacito di diniego di
provvedimento inibitorio" che rappresenta
l'esito negativo del procedimento
finalizzato all'adozione del provvedimento
restrittivo dell'attività esercitata. La
formazione dell'"atto tacito di diniego"
alla scadenza del termine previsto per
l'esercizio della potestà di verifica è
direttamente connessa alla perentorietà del
termine stabilito negli artt. 19, comma 3,
legge n. 241/1990 -per la SCIA- e 23 comma
6, D.P.R. n. 380/2001 -per la DIA- , decorso
il quale la competente amministrazione perde
la potestà inibitoria dell'attività
esercitata salva la residua potestà di
autotutela.
Nei confronti dell'atto tacito di diniego di
provvedimento inibitorio -espresso o
tacito-, il terzo pregiudicato dispone
dell'azione di annullamento a tutela
dell'interesse pretensivo al corretto
esercizio della potestà di verifica e
controllo. Al terzo pregiudicato
dall'attività proseguita o iniziata
illegittimamente è altresì attribuita,
congiuntamente o separatamente da quella di
annullamento dell'"atto tacito di diniego",
l'azione di adempimento dell'obbligo
dell'amministrazione di adottare i
provvedimenti interdittivi o restrittivi, da
esercitare comunque nel termine di un anno
previsto dall'art. 31, co. 3, cod. proc. amm.
- D.Lgs. n. 104/2010 - per l'azione avverso
il silenzio.”) deve affermarsi che,
quale che sia la tecnica di tutela prescelta
dal controinteressato asseritamente leso,
ciò non incide sul riparto della
giurisdizione in subiecta materia
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 15.12.2011 n. 6614 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Integrazione
documentale nelle gare pubbliche.
Nelle gare pubbliche l'integrazione
documentale è ammissibile solo per la
documentazione attestante il possesso dei
requisiti di partecipazione, per cui non è
possibile rettificare, precisare o comunque
modificare gli elementi costitutivi
dell'offerta, e comunque essa non
costituisce un obbligo assoluto ed
incondizionato per la stazione appaltante,
ma incontra precisi limiti applicativi
ravvisabili nella necessità del rispetto
della par condicio, atteso che l'art. 6, l.
07.08.1990 n. 241 non può essere invocato
per supplire all'inosservanza di adempimenti
procedimentali significativi o all'omessa
produzione di documenti richiesti a pena di
esclusione dalla gara
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 15.12.2011 n. 6602 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Interpretazione
delle clausole del bando di gara.
In sede di gara pubblica, le clausole poste
a pena di esclusione devono essere chiare e
puntuali e, nella eventuale incertezza
interpretativa, deve essere favorita, anche
nell'ottica della più ampia partecipazione
di concorrenti, una interpretazione meno
restrittiva delle stessa che, comunque, non
lede la par condicio tra i concorrenti
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 15.12.2011 n. 6602 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
giudice di regola non può sindacare le
scelte discrezionali della commissione
giudicatrice.
Le valutazioni espresse dalle Commissioni
giudicatrici in merito alle prove di
concorso, seppure qualificabili quali
analisi di fatti (correzione dell'elaborato
del candidato con attribuzione di punteggio
o giudizio) e non come ponderazione di
interessi, costituiscono pur sempre
l'espressione di ampia discrezionalità,
finalizzata a stabilire in concreto
l'idoneità tecnica e/o culturale, ovvero
attitudinale, dei candidati, con la
conseguenza che le stesse valutazioni non
sono sindacabili dal giudice amministrativo,
se non nei casi in cui sussistono elementi
idonei ad evidenziarne uno sviamento logico
od un errore di fatto, o ancora una
contraddittorietà ictu oculi
rilevabile.
Ne consegue che il giudicante non può
ingerirsi negli ambiti riservati alla
discrezionalità tecnica dell'organo
valutatore (e quindi sostituire il proprio
giudizio a quello della Commissione), se non
nei casi in cui il giudizio si appalesi
viziato sotto il profilo della logicità,
vizio la cui sostanza non può essere confusa
con l'adeguatezza della motivazione, ben
potendo questa essere adeguata e sufficiente
e tuttavia al tempo stesso illogica
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 15.12.2011 n. 6601 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Acquisizione
delle opere abusive e dell'area al
patrimonio comunale.
Il preavviso di accesso ai luoghi per i
rilievi tecnici preordinati all’acquisizione
delle opere abusive e dell’area al
patrimonio del Comune è un atto
endoprocedimentale del procedimento
sanzionatorio culminante nell’acquisizione
al patrimonio del Comune delle opere
abusivamente realizzate e non demolite dal
proprietario.
Il ricorso avverso tale preavviso è,
pertanto, inammissibile in quanto quale atto
endoprocedimentale esso non produce un
effetto lesivo
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 15.12.2011 n. 6588 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Conseguenze
della presenza del rappresentante
dell'impresa esclusa alle seduta di gara.
Se l’impresa assiste, tramite proprio
rappresentante, alla seduta in cui vengono
adottate le determinazioni sulle offerte
anomale, è in detta seduta che l’impresa
acquisisce la piena conoscenza del
provvedimento, ed è dalla data di detta
seduta che decorre il termine per impugnare
il provvedimento medesimo; la presenza di un
rappresentante della ditta partecipante alla
gara di appalto nella riunione nella quale
la commissione giudicatrice ha escluso la
ditta stessa dalla competizione non comporta
ex se piena conoscenza dell’atto di
esclusione ai fini della decorrenza del
termine per l’impugnazione solo qualora non
risulti che il rappresentante stesso era
munito di mandato ad hoc, oppure
rivestiva una specifica carica sociale, per
cui la conoscenza avuta dal medesimo doveva
ritenersi riferibile alla società
concorrente
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 13.12.2011 n. 6531 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
stazione appaltante decide sull'esclusione
dalla gara per anomalia dell'offerta.
Le operazioni tecniche di verifica di
anomalia possono essere condotte
direttamente dalla stazione appaltante, o da
apposita commissione all’uopo nominata, che
può essere diversa dalla commissione di gara
(artt. 88, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006,
n. 163 e 121, commi 2 e 5, d.P.R.
05.10.2010, n. 207).
In ogni caso, l’esclusione per anomalia non
è mai atto di competenza della commissione
incaricata della verifica di anomalia, ma
sempre della stazione appaltante e per essa
del soggetto che presiede la gara (artt. 88,
comma 7, d.lgs. n. 163 del 2006 e art. 121,
comma 3, d.P.R. n. 207 del 2010)
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 13.12.2011 n. 6531 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
rapporto di coniugio tra l'amministratore di
una società ed un mafioso non basta per
affermare l'esistenza di un pericolo di
inquinamento mafioso a carico della società.
Nell’ambito dell’informativa prefettizia
antimafia, al fine della sussistenza di un
pericolo di inquinamento mafioso nell’ambito
di una società, gli indizi devono avere un
ragionevole grado di attendibilità, serietà
e concordanza. Il solo rapporto di coniugio
tra l’amministratore della società e un
soggetto indagato, imputato o condannato per
mafia, è un indizio rilevante, ma che deve
essere corroborato da altri riscontri,
atteso che il solo rapporto di coniugio non
comprova senz’altro il pericolo di
infiltrazione criminale (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 12.12.2011 n. 6497 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Nessun
diritto di proroga in capo al gestore
uscente alla scadenza del contratto.
In assenza di puntuali obblighi giuridici o
contrattuali in tal senso, l’amministrazione
non è affatto tenuta a prorogare il servizio
in atto con il gestore uscente alla scadenza
del precedente rapporto contrattuale e fino
alla stipulazione del nuovo contratto,
all’esito della rinnovata procedura
selettiva.
L'utilità meramente eventuale del gestore
uscente a proseguire il servizio,
costituisce un semplice interesse di fatto
che non le attribuisce alcuna autonoma
legittimazione alla impugnazione degli atti
della gara, una volta accertato che essa non
aveva titolo a partecipare alla contestata
procedura selettiva
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 07.12.2011 n. 6441 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Aggiudicazione
appalto: insindacabilità nel merito del
giudizio della Commissione di gara.
Il Consiglio di Stato nella sentenza in
esame ribadisce il principio secondo cui i
giudizi valutativi espressi dalla
Commissione non sono sindacabili nel merito,
e sono, viceversa, legittima espressione di
discrezionalità se non affetti da
macroscopici vizi logici, disparità di
trattamento, errore manifesto, rientrando
nel potere valutativo quello di ritenere
migliore un progetto che contiene elementi
maggiormente specifici (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 07.12.2011 n. 6434 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Differenza
tra la certificazione antimafia delle Camere
di Commercio e l'Informativa antimafia del
Prefetto.
Il rilascio di certificazione antimafia da
parte della locale Camera di Commercio ha
natura, finalità e contenuto di valenza ben
diversa dall’interdittiva antimafia. Invero,
quest'ultima non deve necessariamente
collegarsi ad accertamenti in sede penale di
carattere definitivo e certo sull’esistenza
della contiguità con organizzazioni
malavitose e del condizionamento in atto
dell’attività di impresa, ma può essere
sorretta da elementi sintomatici ed
indiziari da cui emergano gli elementi di
pericolo di dette infiltrazioni mafiose.
Pertanto, il Consiglio di Stato ha inteso
ribadire l’orientamento consolidato, secondo
cui, l’efficacia interdittiva proviene
direttamente dalla valutazione del Prefetto,
per cui alla stazione appaltante non sono
riconosciuti né il potere discrezionale né
l’onere di verificare la portata e i
presupposti dell’informativa, posto che i
citati provvedimenti derivano direttamente
dall’atto prefettizio e sono vincolati al
giudizio circa il pericolo di infiltrazione
maturato dal Prefetto (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 07.12.2011 n. 6427 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Presupposti
per il rilascio della concessione edilizia
in sanatoria.
Per la pacifica giurisprudenza ai fini del
rilascio di concessione edilizia in
sanatoria ai sensi dell'art. 31, l. n.
47/1985 e dell'art. 39, l. n. 724/1994,
risultano sanabili le opere abusive
relativamente alle quali, alla data del
31.12.1993, sia stato eseguito il rustico e
completata la copertura; l'esecuzione del
c.d. rustico, in particolare, è riferita al
completamento di tutte le strutture
essenziali, tra le quali vanno annoverate le
tamponature esterne, che determinano
l'isolamento dell'immobile dalle intemperie
e configurano l'opera nella sua fondamentale
volumetria.
In particolare, poi, non è ritenuta
sufficiente, ai fini della configurabilità
del "rustico", neppure la
realizzazione parziale delle mura
perimetrali, richiedendosi una necessaria
continuità tra queste ultime e la copertura
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 06.12.2011 n. 6401 - ink a www.giustizia-amministrativa.it). |
ECOLOGIA-ECOLOGIA: Rimozione,
recupero e smaltimento rifiuti: accertamento
della colpa del proprietario dell'area.
Il profilo di colpevolezza del proprietario
dell’area in cui sono stati smaltiti i
rifiuti in ordine alla eventuale inidoneità
delle misure di protezione, nonché lo stato
di incuria e la carenza di manutenzione
delle stesse misure, non può essere
accertato dal Comune sulla base di
un’attività istruttoria che è posteriore
all’adozione del provvedimento stesso, in
quanto in tal modo si avrebbe
un’inammissibile integrazione postuma della
motivazione e delle relative valutazioni
provvedimentali
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 05.12.2011 n. 6392 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
motivazione del provvedimento di
reiterazione di un vincolo espropriativo.
La motivazione idonea a sorreggere la
legittimità della reiterazione di un vincolo
espropriativo non può rinvenirsi nelle
indicazioni di carattere generale che
giustificano le scelte urbanistiche, così
come enunciate nella relazione illustrativa
dello strumento urbanistico, in quanto le
indicazioni medesime, ancorché sufficienti
in relazione all’ampia discrezionalità di
cui è titolare l’Amministrazione comunale
nell’esercizio delle proprie funzioni di
pianificazione urbanistica, sono per loro
stessa natura necessariamente generali e
sono, pertanto, deputate ad assicurare la
ragionevolezza e la non arbitrarietà
dell’esercizio della discrezionalità, ma non
possono essere in alcun modo idonee a dare
conto dell’esigenza attuale di vincolare
nuovamente per la realizzazione di un
interesse pubblico aree che, secondo
precedenti strumenti regolatori, avevano già
avuto –seppur senza esito– una destinazione
di tipo espropriativo.
Vale, quindi, il principio per cui l’obbligo
di motivazione, costituendo al riguardo
eccezione alla regola che sottrae ad un
simile onere formale gli atti generali,
richiede in particolare che si dia conto
della persistenza dell’interesse pubblico e
della sua attualità ed effettività, nonché
dell’intervenuta adeguata comparazione degli
interessi pubblici e privati coinvolti,
dell’ineluttabilità della scelta
pianificatrice operata e della serietà ed
affidabilità della realizzazione
dell’intervento pubblico nel quinquennio
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 02.12.2011 n. 6373 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Il
Comune che acquisisce le opere di
urbanizzazione e' tenuto a manutenerle.
Il trasferimento della proprietà delle opere
di urbanizzazione in capo al Comune
nell’ambito del piano di lottizzazione,
costituisce un’obbligazione ex lege
che si sottrae alla disponibilità delle
parti, in quanto prevista dall’art. 28, l.
n. 1150/1942 e relativa ad opere strumentali
allo svolgimento di pubblici servizi
fisiologicamente rientranti nelle competenze
dell’amministrazione locale. Ne consegue
che, ove il Comune intenda affidare ad altri
la gestione delle opere non può che operare
previo atto di concessione di pubblico
servizio, contenente le regole da osservare
per garantire l’ottimale soddisfacimento del
servizio offerto ai cittadini.
In conclusione, poiché è un dato pacifico
che gli oneri di manutenzione ordinaria e
straordinaria connessi alle opere di
urbanizzazione ricadono interamente
sull’ente locale una volta che esse siano
acquisite al suo patrimonio per cessione
(previo collaudo sulla loro regolare
esecuzione) da parte del lottizzante, ciò
comporta l’estraneità dei lottizzanti,
iniziali proprietari delle aree e delle
opere di cui trattasi a sopportare le
relative spese di manutenzione e
l’estraneità anche dei successivi acquirenti
degli immobili, essendosi estinta
l’originaria obbligazione di convenzione con
il trasferimento delle opere al Comune
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 02.12.2011 n. 6368 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Differenza
tra PIP e PRG.
Il Piano per gli insediamenti produttivi (P.I.P.)
previsto dall’art. 27 della legge n.
865/1971 è uno strumento urbanistico di
natura attuativa, dotato di efficacia
decennale dalla data di approvazione ed
avente valore di piano particolareggiato di
esecuzione, la cui funzione è quella di
incentivare le imprese, offrendo ad un
prezzo politico le aree occorrenti per il
loro impianto ed espansione: come tale,
trascorsi i dieci anni, l’Amministrazione
non può disporre alcuna proroga dello
stesso, potendo invece unicamente valutare
l’opportunità di predisporre un nuovo
strumento con conseguente rinnovazione della
scelta pianificatoria attuativa rimasta
inattuata.
Una volta scaduto il PIP non può valere,
agli stessi fini la scelta pianificatori
effettuata in sede di adozione del PRG. Sono
infatti, completamente diversi i livelli di
intervento e le finalità dei due strumenti
urbanistici, l’uno di carattere generale e
sovraordinato, l’altro avente, invece,
natura di piano particolareggiato di
esecuzione, con valore di dichiarazione di
pubblica utilità delle opere in esso
previste.
L’amministrazione, pertanto, scaduto
l’originario PIP, può soltanto valutare
l’opportunità di predisporne uno nuovo,
esperendo ab initio tutte le relative
attività procedimentali previste dalla legge
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 02.12.2011 n. 6363 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Occupazione
sine titulo della P.A.: il Consiglio di
Stato fa il punto in ordine alla vecchia e
all'attuale normativa.
Il Consiglio di Stato procede nell'excursus
della normativa in materia di occupazione
sine titolo evidenziando in primis
come l'abrogato art. 43 del Testo Unico
sugli espropri era stato emanato dal
legislatore delegato per consentire una ‘legale
via di uscita’ per i moltissimi casi in
cui una P.A. avesse occupato senza titolo
un’area di proprietà altrui, in assenza di
un valido ed efficace decreto di esproprio.
In precedenza, la prassi giudiziaria
nazionale –innovando dal 1983 rispetto alla
precedente ultrasecondare giurisprudenza
della Corte di Cassazione e del Consiglio di
Stato che avevano costantemente ammesso la
immanente titolarità di un potere di
esproprio in sanatoria- si era consolidata
nel senso dell’acquisto dell’area da parte
dell’amministrazione nel caso di
irreversibile destinazione di un’area, per
la quale fosse stata dichiarata la pubblica
utilità dell’opera da realizzare.
Poiché tale prassi era stata qualificata
dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo
come ‘sistematica violazione’ delle
disposizioni della Convenzione del 1950,
sulla tutela del diritto di proprietà,
l’art. 43 aveva dunque consentito che –in
presenza di un effettivo interesse pubblico,
rilevato nell’atto ablatorio–
l’amministrazione avrebbe potuto adeguare la
situazione di fatto a quella di diritto,
risarcendo integralmente il danno cagionato
al proprietario ed esercitando il potere di
acquisizione dell’area detenuta senza
titolo. Con la dichiarazione di
incostituzionalità dell’art. 43 del testo
unico operato dalla Corte Costituzione
(sentenza n. 293/2010) non era però divenuto
applicabile l’istituto della accessione.
Tale istituto era stato sempre escluso dalla
pacifica giurisprudenza sin dalla seconda
metà dell’Ottocento. Infatti, la
realizzazione di un’opera pubblica o di
interesse pubblico, quando avvenga
legittimamente, in esecuzione di atti di
natura ablatoria solo successivamente
annullati in sede di giustizia
amministrativa, ha la propria peculiarità
nella avvenuta realizzazione di opere
nell’interesse della collettività(e in
esecuzione di provvedimenti) e comporta il
verificarsi di situazioni irriducibili a
quelle disciplinate dal codice civile, le
cui disposizioni dunque non si applicano.
Secondo il Collegio, la sentenza della Corte
n. 293 del 2010 aveva comportato il ritorno
alla attualità del sistema normativo,
risalente al 1865, sulla sussistenza del
potere di esproprio in sanatoria, sistema
sul quale si era consolidata la
giurisprudenza della Corte di Cassazione e
del Consiglio di Stato (superata a partire
dal 1983 dalla prassi nazionale postasi in
contrasto con la CEDU). Infatti, in assenza
di un valido ed efficace provvedimento di
natura ablatoria, la richiamata
plurisecolare giurisprudenza riconosceva il
proprietario dell’area ancora come tale: ciò
che il Supremo Consesso ribadisce, alla luce
della pacifica giurisprudenza della Corte di
Strasburgo.
Mentre però la giurisprudenza civile (allora
avente giurisdizione) riteneva che la tutela
restitutoria spettante al proprietario fosse
preclusa da un atto tacito di destinazione
dell’area al pubblico servizio e dunque
dall’art. 4 dell’allegato E della legge del
1865 (sulla abolizione del contenzioso
amministrativo), tale preclusione si è posta
in contrasto con i principi dello Stato di
diritto, in quanto “l’atto di
destinazione” non era preso in
considerazione dalla legge.
In occasione della redazione del testo
unico, il Consiglio di Stato aveva redatto
l’art. 43, poi trasfuso nel testo unico
sugli espropri, proprio per prevedere una
legale via d’uscita, per dare una soluzione
legislativa –con l’attribuzione di un potere
discrezionale all’Amministrazione- ai casi
che oramai stavano comportando la
sistematica condanna della Repubblica
Italiana innanzi alla CEDU, nei giudizi
posti in essere dai proprietari che
lamentavano di aver perso il loro diritto di
proprietà, sulla base di sentenze
pronunciate ex post e senza
fondamento normativo, e non sulla base di
atti amministrativi la cui emanazione fosse
consentita dalla legge.
La sentenza della Corte Costituzionale –nel
rilevare un eccesso di delega e nel
dichiarare l’incostituzionalità dell’art.
43– ha dunque fatto tornare l’ordinamento ad
una peculiare situazione, in cui di certo da
un lato non poteva disconoscersi il
perdurante diritto di proprietà del
titolare, malgrado la avvenuta costruzione
dell’opera pubblica o di interesse pubblico,
e dall’altro non poteva negarsi l’immanente
potere di disporre l’esproprio in sanatoria,
per evitare la demolizione di quanto
costruito a spese della collettività e che,
se del caso, ancora risultava conforme alle
esigenze di questa.
L’art. 42-bis del decreto legge n. 98 del
2011, convertito nella legge n. 2011, ha
reintrodotto il potere discrezionale già
disciplinato dall’art. 43: l’amministrazione
-valutate le circostanze e comparati gli
interessi in conflitto– può decidere se
demolire in tutto o in parte l’opera
(affrontando le relative spese) e restituire
l’area al proprietario, oppure se disporre
l’acquisizione (evitando che sia demolito,
paradossalmente, quanto altrimenti
risulterebbe meritevole di essere
ricostruito). L’art. 42-bis prevede, al
comma 1, che l’Amministrazione, valutati gli
interessi in conflitto, possa disporre, con
formale provvedimento, l’acquisizione del
bene, con la corresponsione al privato di un
indennizzo per il pregiudizio subito,
patrimoniale e non patrimoniale; al comma 8
prevede poi che le sue disposizioni “trovano
altresì applicazione ai fatti anteriori”,
sicché esso si applica senza alcun dubbio
anche nella fattispecie in esame.
Anche nell’attuale quadro normativo,
l’Amministrazione ha dunque l’obbligo
giuridico di far venir meno la occupazione
sine titulo e cioè deve adeguare la
situazione di fatto a quella di diritto.
Essa o deve restituire i terreni ai
titolari, demolendo quanto realizzato e
disponendo la riduzione in pristino, oppure
deve attivarsi perché vi sia un titolo di
acquisto dell’area da parte del soggetto
attuale possessore (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 01.12.2011 n. 6351 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: La
destinazione all'uso pubblico di un bene
demaniale permane anche se il bene e'
occupato da privati.
La sdemanializzazione tacita del bene deve
risultare da comportamenti univoci e
concludenti da cui emerga con certezza la
rinuncia alla funzione pubblica del bene,
che va accertata con rigore, e che siano
incompatibili con la volontà di conservare
la destinazione del bene stesso all'uso
pubblico; di conseguenza essa non può
desumersi dalla pura e semplice circostanza
che il bene non sia adibito, anche da lungo
tempo, all'uso pubblico.
Non costituiscono, quindi, elementi
sufficienti a provare in maniera non
equivoca la cessazione della destinazione
del bene all'uso pubblico il prolungato
disuso di un bene demaniale da parte
dell'ente pubblico proprietario, ovvero la
tolleranza osservata da quest'ultimo
rispetto a un'occupazione da parte di
privati, essendo ulteriormente necessario,
al riguardo, che tali elementi indiziari
siano accompagnati da fatti concludenti e da
circostanze così significative da non
lasciare adito ad altre ipotesi se non a
quella che l'amministrazione abbia
definitivamente rinunciato al ripristino
dell'uso pubblico (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 30.11.2011 n. 6338 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nessun
obbligo solidale di pagamento del contributo
per il costo di costruzione in capo al
venditore che non ha usufruito della
concessione edilizia.
L’art. 3 della l. n. 10/1977 stabilisce che
la concessione edilizia comporta la
corresponsione di un contributo commisurato
all’incidenza delle spese di urbanizzazione
e al costo di costruzione.
La più accreditata dottrina e la
giurisprudenza hanno chiarito che il costo
di costruzione è una prestazione
patrimoniale di natura impositiva e trova la
sua ratio nell’incremento
patrimoniale che il titolare del permesso di
costruire consegue in dipendenza
dell’intervento edilizio. Essa, pertanto,
postula quale condizione di esigibilità la
sussistenza di un titolo abilitativo valido
ed efficace e la concreta fruizione del
titolo da parte del concessionario, ovvero
la effettiva attività di edificazione.
La causa giuridica del pagamento è, dunque,
nella fruizione dell’atto abilitativo
all’edificazione a mezzo della effettiva
realizzazione dell’intervento assentito. La
suddetta natura trova conferma nella
disposizione dell’art. 11 della l. n.
10/1977 e del vigente l’art. 16 del T.U.
dell’edilizia, che stabiliscono che la quota
di contributo per costo di costruzione,
determinata al momento del rilascio della
concessione, deve essere corrisposta in
corso d’opera o comunque non oltre 60 giorni
dall’ultimazione delle opere.
Ne consegue che qualora il richiedente il
titolo edilizio, non abbia mai usufruito
della concessione edilizia (nel caso di
specie non ha mai nemmeno ritirato il
titolo, avendone chiesto la voltura) non è
soggetto obbligato per legge a pagare il
contributo commisurato al costo di
costruzione (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 30.11.2011 n. 6333 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Le
prescrizioni del bando che comminano
l'esclusione non sono valutabili dalla
commissione di gara.
Confermato dal Consiglio di Stato il
principio ormai consolidato in
giurisprudenza secondo cui qualora il bando
commini l’esclusione obbligatoria dalla
gara, l’amministrazione è tenuta a dare
precisa ed incondizionata esecuzione a tali
prescrizioni, senza alcuna possibilità di
valutazione
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 30.11.2011 n. 6330 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Edificabilità
in area soggetta a vincolo archeologico.
Il vincolo archeologico posto su un'area non
ne comporta l’inedificabilità assoluta, ma
l’obbligo di verificare, da parte
dell’Amministrazione preposta alla tutela
del vincolo stesso, la compatibilità
dell’intervento edilizio con le ragioni di
tutela.
Infatti, la valutazione di compatibilità non
muta in relazione al fatto che l'opera sia
stata realizzata o meno: l'autorità preposta
alla tutela del vincolo deve in ogni caso
verificare se quel determinato tipo di
intervento sia o meno compatibile con il
vincolo.
Il giudizio circa tale compatibilità non è
in alcun modo influenzato dal fatto che
l'opera sia stata, o meno, realizzata: o
l'intervento è compatibile con il vincolo ed
allora lo era sia prima che dopo la
realizzazione, o non lo è ed allora
l'autorizzazione postuma non può essere
rilasciata, non già perché non chiesta in
precedenza, ma perché non poteva essere
rilasciata anche se richiesta
tempestivamente (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 30.11.2011 n. 6323 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nella
lex specialis la stazione appaltante deve
predeterminare i criteri e i sub-criteri di
valutazione nonché il loro specifico peso.
La lex specialis deve consentire ai
concorrenti di conoscere preventivamente la
rilevanza, in termini di punteggio, di
ciascun sub-criterio onde evitare di
precludere di fatto, agli operatori
economici interessati, di predisporre
l’offerta in modo da valorizzare quegli
aspetti tecnico-qualitativi cui la stazione
appaltante intendeva riconoscere maggiore
rilevanza.
Il d.l.vo n. 152/2008 (terzo decreto
correttivo del codice dei contratti
pubblici), in adesione al parere espresso
dalla Adunanza Consultiva del Consiglio di
Stato del 14.07.2008, ha espunto dall’art.
83, comma 4, del codice, l’inciso secondo
cui ”... la commissione giudicatrice
prima della apertura delle buste contenenti
le offerte fissa in generale i criteri
motivazionali cui si atterrà per attribuire
a ciascun criterio e sub-criterio di
valutazione il punteggio tra il minimo e il
massimo prestabiliti dal bando”.
La modifica normativa conferma, quindi, che
il giudizio espresso dalla commissione di
gara deve trovare il suo substrato nella
puntuale e rigorosa predeterminazione di
criteri e sub-criteri di valutazione nonché
del loro specifico peso ponderale da parte
della stazione appaltante in sede di
preventiva redazione della lex specialis.
Né assume rilevo la circostanza che la
commissione di gara tenti di sopperire
all’incontestabile mancata indicazione nella
lex specialis di sub-pesi o
sub-punteggi attraverso una relazione posta
in calce ai verbali di gara.
Tale modus operandi si configura,
infatti, come il tentativo della commissione
di sanare in via postuma la illegittimità in
cui era incorsa la stazione appaltante
all’atto della redazione della lex
specialis e giammai tale motivazione
postuma può considerarsi surrogatoria della
mancata prefissione di precisi criteri di
valutazione
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 29.11.2011 n. 6306 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Composizione
qualificata della commissione di gara.
Fermo l'art. 84 del codice dei contratti
pubblici che impone, in generale, la
composizione qualificata della commissione
di gara, il Consiglio di Stato precisa che
la necessaria presenza di esperti
all’interno delle commissioni di gara
costituisce comunque un principio generale
delle procedure selettive a contenuto
tecnico
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 19.11.2011 n. 6640 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Rinnovo
della gara solo se c'e una chance di
vittoria.
L'interesse a ricorrere avverso il
provvedimento di esclusione da una gara è
configurabile ex se e non richiede la
dimostrazione che l'esito della gara sarebbe
stato sicuramente o probabilmente favorevole
al ricorrente solo nelle ipotesi in cui il
criterio di aggiudicazione previsto sia di
tipo non automatico, in quanto la parte
ricorrente ha interesse a veder valutata la
propria offerta in sede di gara e dunque è
portatore di un interesse strumentale
all'annullamento degli atti impugnati e alla
rinnovazione della procedura: dal rinnovo
deriva una nuova chance di partecipazione e
di vittoria.
Nel caso, invece, di procedure di
aggiudicazione di tipo meccanico, in cui non
si fa luogo a valutazioni
tecnico-discrezionali da parte del seggio di
gara, una volta aperte le buste contenenti
le offerte dei concorrenti, l'idoneità della
singola offerta a conseguire
l'aggiudicazione è oggettivamente
determinabile attraverso meri calcoli
aritmetici e dunque, a differenza dell'altro
caso, il concorrente escluso è in grado di
determinare se la propria offerta sarebbe
stata sufficiente ad assicurargli la
vittoria
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 18.11.2011 n. 6090 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Termine
per impugnare l'esclusione dalla gara
d'appalto.
Per gli atti come l'esclusione dalle gare
pubbliche, per i quali è richiesta la
notificazione individuale, trova
applicazione la regola generale della piena
conoscenza ed il termine per impugnare non
decorre sino a che non si dimostri che è
avvenuta la notifica o la comunicazione
diretta dell'atto all'interessato.
Tale termine decorre quindi normalmente
dalla ricezione della comunicazione di cui
all'art. 79 d.lgs. n. 163/2006, salva
ovviamente l'ipotesi della piena conoscenza
dell'atto, acquisita con altre modalità,
come d'altronde ribadito dall'art. 41 del
c.p.a.: fra queste ipotesi, rientra quella
in cui all'atto dell'esclusione dalla gara
sia presente un rappresentante della impresa
esclusa munito di mandato speciale, ovvero
che riveste una specifica carica sociale,
per cui la conoscenza acquisita dallo stesso
sia riferibile alla società concorrente (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 18.11.2011 n. 6084 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: L'Avvalimento
deve essere reale e non solo formale pena
l'esclusione dalla gara.
L'art. 49 del D.Lgs. n. 163/2006 ammette
esplicitamente l’avvalimento anche per
l’attestazione della certificazione SOA
subordinando tale facoltà all’espresso
impegno da parte dell’impresa ausiliaria,
nei confronti dell’impresa ausiliata e della
stazione appaltante, di mettere a
disposizione per tutta la durata
dell’appalto le risorse necessarie di cui è
carente il concorrente.
L’omissione di tale dichiarazione, nel caso
di specie prevista anche dal bando di
concorso, non poteva che comportare
l’esclusione dalla gara in quanto l’avvalimento
nei requisiti soggettivi di qualità deve
essere reale e non formale, nel senso che
non può considerarsi sufficiente “prestare”
la certificazione posseduta, giacché in
questo modo verrebbe meno la stessa essenza
dell’istituto, finalizzato a consentire a
soggetti che ne siano sprovvisti di
concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti
di altri soggetti (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 18.11.2011 n. 6079 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
cultura del sospetto salva talvolta il
settore degli appalti pubblici dalle
infiltrazioni della criminalità organizzata.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto
sufficiente l’accertamento di meri elementi
di sospetto per far scattare il meccanismo
di salvaguardia del sistema attraverso
l’inibizione dell’accesso al rapporto
contrattuale o alla gara per l’impresa
sospettata di contiguità mafiosa.
Quanto al riferimento alla cultura del
sospetto come regola da preferire a quella
della legalità, secondo i Giudici di Palazzo
Spada è affermazione non pertinente, in
quanto l'informativa antimafia atipica e'
una forma di tutela anticipata volta a
prevenire l’inquinamento del territorio
attraverso possibili infiltrazioni della
malavita organizzata ed il giudizio espresso
dal Comune nell’ambito dell’informativa
antimafia atipica non riguarda la singola
persona, nel caso il rappresentante legale
della società, ma l’affidabilità nel suo
complesso dell’aggiudicatario per i rapporti
di contiguità con la criminalità
organizzata, desumibile anche da condotte
che di per sé non realizzano necessariamente
fattispecie penalmente rilevanti.
Esse in breve assolvono la funzione di
accrescere il bagaglio conoscitivo della
p.a. ai fini di un più ponderato esercizio
dei propri poteri discrezionali nel corso
del procedimento di evidenza pubblica,
integrando una forma anticipatoria della
soglia di difesa sociale nel campo del
contrasto alla criminalità organizzata nel
settore dei pubblici appalti di opere e
servizi
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 18.11.2011 n. 6076 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Quando
può essere affisso sulla strada privata il
cartello "divieto di accesso esclusi i
residenti"?
L'autorizzazione comunale può consentire
l’installazione di un cartello recante la
sola dicitura di “strada privata”
quando la strada, che pure non risulta
acquisita al patrimonio comunale, né
assoggettata ad uso pubblico, e' comunque
usata come via di collegamento con altre
proprietà.
Qualora invece in detta via privata, non
esistono oggettivamente gli elementi per la
destinazione a pubblico transito in quanto
lungo la strada non esistono altri accessi
privati oltre a quelli del soggetto
richiedente l'autorizzazione, allora il
Comune può legittimamente rilasciare
l'autorizzazione all'installazione del
cartello "divieto di accesso esclusi i
residenti"
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 18.11.2011 n. 6074 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Infiltrazioni
mafiose negli appalti pubblici.
Gli elementi relativi al “tentativo di
infiltrazione mafiosa” devono avere una
consistenza oggettiva circostanziata,
ancorché anche solo indiziaria, che renda
evidente la concretezza e attualità del
tentativo di infiltrazione mafiosa.
Nel caso attenzionato, il Consiglio di Stato
ha, per contro, evidenziato che
l'informativa antimafia si fondava, invece,
su elementi in parte non provati, in parte
inattuali, in parte del tutto occasionali,
essendo incensurato l’amministratore e
avendo il socio reati estinti che per la
loro tipologia non sono indiziari di
contiguità mafiosa, e non essendovi prova di
loro frequentazioni in ambienti criminali (massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 15.11.2011 n. 6027 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
motivazione dell'ordine di ripristino dello
stato dei luoghi.
L'ordine di rimessione in pristino in quanto
atto vincolato di repressione di illecito
edilizio non abbisogna di particolare
motivazione specie quando si possa escludere
–in considerazione della particolare
consistenza degli interventi abusivi sia
sotto il profilo quantitativo, sia sotto il
profilo qualitativo, e tenuto conto del
carattere recente dell’esecuzione delle
opere abusive– la configurabilità di una
situazione di consolidamento della posizione
del privato per decorso del tempo e inerzia
dell’amministrazione (massima tratta
da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.11.2011 n. 5997 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Polizza
fideiussoria nel raggruppamento temporaneo
di imprese.
Nel caso di partecipazione alla gara di
appalto di un raggruppamento temporaneo di
imprese, la polizza fideiussoria deve essere
intestata a tutte le imprese componenti il
costituendo raggruppamento di imprese al
fine di costituire la cauzione provvisoria
richiesta per la partecipazione alla gara
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 11.11.2011 n. 5959 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Opere
soggette a VIA: termini per l'impugnazione
degli atti adottati dalla Conferenza di
servizi.
Il procedimento di VIA rappresenta solo una
fase interna al procedimento di rilascio
dell’autorizzazione unica. L’autorizzazione
unica è, infatti, prevista dall'art. 12 del
d.lgs n. 387/2003, come epilogo
procedimentale per le opere finalizzate alla
costruzione ed esercizio degli impianti
eolici di produzione di energia.
Gli atti presupposti costituiscono atti
interni di una Conferenza dei servizi
decisoria, nei cui confronti non è
ammissibile una impugnazione diretta con la
conseguenza che il dies a quo per la
proposizione dell’impugnazione avverso i
provvedimenti adottati in Conferenza dei
servizi per opere soggette a VIA è
rappresentato dalla pubblicazione del
provvedimento finale nella Gazzetta
Ufficiale
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 09.11.2011 n. 5921 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Concorrente
escluso per mancanza del sigillo previsto
dal bando.
L'uso della ceralacca per sigillare le
buste, qualora previsto dal disciplinare
quale requisito essenziale, determina
l'esclusione del concorrente che non si
attenga a tale previsione a nulla rilevando
la sua fungibilità con altri metodi
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 21.10.2011 n. 5658 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Aggiudicazione
solo se permane il Durc positivo.
La regolarità contributiva deve essere
conservata nel corso di tutto l’arco
temporale impegnato dallo svolgimento della
procedura e non assume rilievo l’intervento
di un adempimento tardivo da parte
dell’impresa.
E', pertanto, legittima la decisione con la
quale la stazione appaltante ha deciso di
non disporre l’aggiudicazione in favore
della ricorrente originaria con riguardo
alla quale era stata accertata, durante la
gara, una situazione di irregolarità
mediante d.u.r.c. negativo
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 12.10.2011 n. 5531 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
demolizione di vecchi abusi edilizi va
congruamente motivata.
La risalenza delle opere può avere rilievo
poiché nell'ipotesi in cui, per il lungo
lasso di tempo trascorso dalla commissione
dell'abuso e per il protrarsi dell'inerzia
dell'Amministrazione preposta alla
vigilanza, si sia ingenerata una posizione
di affidamento nel privato, vi è a carico
dell'Autorità edilizia l'obbligo di motivare
congruamente, avuto riguardo anche
all'entità ed alla tipologia dell'abuso,
sull'interesse pubblico che giustifichi il
sacrificio del contrapposto interesse
privato.
Ovviamente non basta affermare la risalenza
di un manufatto realizzato sine titulo,
ma è necessario provarla
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - TAR
Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 11.10.2011 n. 7858 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 02.02.2012 |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il procedimento amministrativo
per l’accertamento della compatibilità
paesaggistica deve essere concluso in un
termine di 180 gg., previo parere vincolante
della Soprintendenza da esprimersi nel
termine di 90 gg. (ex art. 181, co.
1-quater, d.lgs. 42/2004).
Sicché, risulta illegittimo il silenzio-inadempimento
operato dalla Soprintendenza che non
consente all'amministrazione comunale di
concludere il procedimento amministrativo di
competenza con provvedimento espresso (e,
conseguentemente, il TAR ordina alla
Soprintendenza di provvedere, con atto
espresso e motivato, nel termine di giorni
30 dalla comunicazione in via
amministrativa, ovvero dalla notificazione
della presente sentenza, sull'istanza di
accertamento di compatibilità paesaggistica
presentata).
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1259
del 2011, proposto da: ...
... per l'accertamento
della illegittimità del silenzio tenuto dal
Comune di Brescia in ordine alla richiesta
25/05/2010 n. 34746/2010 P.G. di
accertamento della compatibilità
paesaggistica e rilascio del relativo
parere.
FATTO
La ... srl ricorre con la procedura di cui
all'art. 21-bis della l. 1034/1971 contro il
comportamento inerte tenuto dal Comune di
Brescia e dalla Soprintendenza per i beni
architettonici a fronte della sua richiesta
di accertamento di compatibilità
paesaggistica per un abuso realizzato.
Si costituivano in giudizio il Comune di
Brescia e l’Avvocatura dello Stato, che
deducevano l’infondatezza dei motivi di
ricorso.
Il ricorso veniva discusso nella camera di
consiglio del 11.01.2012, all’esito della
quale veniva trattenuto in decisione.
DIRITTO
Il ricorso è fondato.
Il procedimento amministrativo per
l’accertamento della compatibilità
paesaggistica deve essere concluso in un
termine di 180 gg., previo parere vincolante
della Soprintendenza da esprimersi nel
termine di 90 gg. (ex art. 181, co.
1-quater, d.lgs. 42/2004).
Nel caso in esame, la domanda è stata
presentata il 25.05.2010, ed anche a voler
ritenere la decorrenza del termine soltanto
dal deposito della documentazione
integrativa del 04.11.2010 (trasmessa alla
Soprintendenza il 18.11.2010), il termine
era comunque decorso alla data
dell’11.10.2011 in cui è stato depositato il
ricorso.
Le spese tra ricorrente e Ministero beni
culturali seguono la soccombenza. Le spese
tra ricorrente e Comune vengono compensate,
in quanto il Comune non ha potuto emettere
il provvedimento finale, a causa della
mancata emissione del parere vincolante da
parte della Soprintendenza.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la
Lombardia sezione staccata di Brescia
(Sezione Prima), definitivamente
pronunciando sul ricorso, come in epigrafe
proposto:
- Accoglie il ricorso, e per l’effetto,
ordina alla Soprintendenza per i beni
architettonici di provvedere, con atto
espresso e motivato, nel termine di giorni
trenta dalla comunicazione in via
amministrativa, ovvero dalla notificazione
della presente sentenza, sull'istanza di
accertamento di compatibilità paesaggistica
presentata dalla ... srl il 25.05.2010.
- Condanna il Ministero dei beni culturali
al pagamento in favore della ricorrente
delle spese di lite, che determina in euro
1.000, più i.v.a. e c.p.a..
- Compensa le spese di lite tra ricorrente e
Comune di Brescia ... (TAR Lombardia-Brescia,
Sez. I,
sentenza 31.01.2012 n. 156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Adesso, ne siamo convinti tutti quanti ??
A noi sembrava più che chiara la questione
ma, evidentemente, così non è se è vero,
come è vero, che ancora oggi ci risulta:
● che la Soprintendenza (dipende da
funzionario a funzionario!!) non sempre esprime
il proprio obbligatorio e vincolante parere,
entro il termine di 90 gg., propedeutico al
rilascio dell'atto finale da parte del
comune (di assenso ovvero di diniego) in merito ad
un'istanza di compatibilità paesaggistica;
● che ci sono comuni che, pur in assenza
dell'obbligatorio e vincolante parere
preventivo da parte della Soprintendenza,
rilasciano ugualmente l'atto finale
(addirittura di assenso!!).
Ad onor del vero, la sentenza de qua riguarda il
ricorso proposto da parte di una società nei
confronti sia della Soprintendenza sia del comune.
Tuttavia, a sommesso nostro parere, nel caso in cui
la Soprintendenza non esprima il proprio parere
obbligatorio e vincolante il comune non è che deve
fare altrettanto: invero, scaduto il termine di 90
gg., il comune dovrebbe diffidare la Soprintendenza
ad esprimere il parere in questione e se ciò non
avvenisse nel termine indicato in diffida dovrebbe
adire al TAR per obbligare la stessa ad esprimersi,
senza il cui parere il comune non può
(legittimamente) concludere il procedimento
amministrativo di competenza entro il termine di 180
gg..
In altri termini, è il comune e non il
cittadino/società che, nel caso di
silenzio-inadempimento da parte della
Soprintendenza, deve -in estrema ratio- adire il TAR
per fornire una risposta certa all'istanza di
compatibilità paesaggistica presentata (al comune e
non alla Soprintendenza!!) da parte del
cittadino/società.
02.02.2012 - LA SEGRETERIA PTPL |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
ENTI LOCALI:
Oggetto: interpretazione dell'art. 148,
comma 5, del D.Lgs. n. 152/2006
(Ministero dell'Ambiente, ed ella Tutela del
Territorio ed el Mare,
nota 26.01.2012 n. 1477/UL di prot.).
---------------
Acqua
senza paletti. In montagna sì alle gestioni
dirette. Dal Minambiente chance ai comuni
fino a 1.000 abitanti.
Piccoli comuni di
montagna padroni della propria acqua. I
municipi fino a 1.000 abitanti, inseriti nel
territorio di una comunità montana, possono
gestire direttamente il servizio idrico
integrato in economia senza dover
necessariamente ricorrere a società
partecipate e quindi all'in house.
Il via libera è arrivato ufficialmente dal
Ministero dell'Ambiente che, sollecitato da
numerose richieste di parere da parte di
alcuni sindaci di piccoli municipi montani,
con la
nota 26.01.2012
n. 1477/UL di prot., ha fornito
l'interpretazione autentica di una
controversa norma del Codice ambientale
(art. 148, comma 5 dlgs n. 152/2006) su cui
fino ad ora si era pronunciata solo la Corte
conti Abruzzo, Sez. controllo (con
parere
29.03.2011 n. 16).
Nel parere inviato all'Anpci e all'Uncem, il
dicastero guidato da Corrado Clini ha
ritenuto di non doversi discostare
dall'interpretazione dei giudici abruzzesi
secondo cui per gli enti montani fino a
1.000 abitanti l'adesione alla gestione
unica del servizio idrico integrato è
facoltativa «a condizione che gestiscano
l'intero servizio e previo consenso
dell'autorità competente».
Tale facoltatività, scrive il Minambiente,
non può che «sottintendere
l'ammissibilità di una forma di gestione del
servizio idrico integrato alternativa».
Il che non rappresenterebbe neppure
un'anomalia del sistema visto che la Corte
costituzionale nella poderosa sentenza n.
325/2010 (quella che in pratica dichiarò in
larga parte legittima la riforma dei servizi
pubblici locali contenuta nell'art. 23-bis
del 112/2008 così come modificato dal
decreto Fitto-Ronchi) ha chiarito che «la
normativa comunitaria consente agli stati
membri di prevedere in via eccezionale e per
alcuni casi determinati la gestione diretta
del servizio pubblico da parte dell'ente
locale».
L'ufficio legislativo del ministero
dell'ambiente ha infine puntualizzato che
l'art. 148, comma 58, non risulta abrogato
dal regolamento attuativo del dl
Fitto-Ronchi (dpr 168/2010). La norma è
quindi vigente «e di conseguenza deve
ritenersi ammessa la gestione diretta del
servizio idrico integrato per i comuni con
popolazione fino a 1.000 abitanti inclusi
nel territorio di comunità montane, previa
valutazione economica del servizio e con il
consenso dell'Autorità d'ambito competente».
Per Enrico Borghi, vicepresidente Anci con
delega alla montagna, il via libera
ministeriale «è importante perché
riconosce l'autonomia dei comuni in una
materia significativa come quella dell'acqua».
«I piccoli comuni di montagna potranno
decidere di gestire direttamente le proprie
risorse idriche dopo aver svolto un'adeguata
pianificazione e valutazione economica»,
ha proseguito. «È un ottimo segnale di
sussidiarietà in controtendenza rispetto
agli ultimi provvedimenti»
(articolo ItaliaOggi
dell'01.02.2012). |
SEGRETARI COMUNALI:
OGGETTO: precisazioni in ordine alla
corretta interpretazione di talune
disposizioni normative con riguardo ai
segretari comunali e provinciali
(Ragioneria Generale dello Stato,
nota 10.01.2012 n. 191 di prot.).
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Trattamento economico dei Segretari.
Con nota prot. n. 191 del 10.01.2012, la
Ragioneria Generale dello Stato dà
chiarimenti sul trattamento economico dei
Segretari Comunali e Provinciali con
specifico riferimento ai diritti di
segreteria per attività rogatoria dei
contratti e per l'applicazione del c.d.
"galleggiamento" (commento
tratto da www.publika.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: L.
Bellagamba,
La regolarità contributiva è
autocertificabile anche per l’ipotesi di cui
al D.Lgs. 81/2008, art. 90, comma 9
(30.01.2012 - link a www.linobellagamba.it). |
URBANISTICA:
A. Carafa,
LA MOTIVAZIONE DEL PIANO REGOLATORE GENERALE
(17.01.2012 - link a
www.pausania.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Cipolla,
IN TEMA DI RESPONSABILITÀ DEL PROPRIETARIO
IMMOBILIARE PER OPERE EDILIZIE ABUSIVE
REALIZZATE DA ALTRI (link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
F. Chiaramonte,
GLI ILLECITI PENALI RELATIVI ALLO SCARICO DI
ACQUE REFLUE TRA NORME SPECIALI E PREVISIONI
CODICISTICHE (link a
www.lexambiente.it). |
NEWS |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, ancora proroghe in arrivo.
Slitta la piena operatività del Sistri. A
cascata Mud e Mudino. Dopo i rinvii di fine
2011 previsti nuovi mutamenti nella legge di
conversione del dl 216/2011.
In continuo mutamento il calendario delle
scadenze 2012 relative alle comunicazioni
ambientali. Dopo le proroghe sancite dal
legislatore di fine 2011 per «Sistri», «Mudino»,
«Mud» (acronimi che sottendono,
rispettivamente, il tracciamento telematico
dei rifiuti, la denuncia transitoria dei
dati ad esso inerenti, la comunicazione dei
beni di rilevanza ambientale non
diversamente monitorati) una nuova
riformulazione del calendario è prevista
proprio in relazione al nuovo sistema di
controllo online dei rifiuti dalla legge di
conversione del dl 216/2011 (cd. «Milleproroghe»).
Il testo della legge in parola, attualmente
all'esame del Parlamento che dovrà
licenziarlo entro la fine del prossimo
febbraio, prevede infatti l'ulteriore
slittamento della piena operatività del
Sistri (già portato al 02.04.2012 dal «Milleproroghe»)
al 30.06.2012, facendo immaginare, a
cascata, una nuova rivisitazione delle
collegate scadenze relative a «Mudino», «Mud».
Sistri, l'attuale calendario. In base
all'attuale assetto normativo, gli obblighi
operativi del nuovo sistema di tracciamento
telematico dei rifiuti (comunicazione online
dei dati al cervellone gestito dall'Arma dei
carabinieri, monitoraggio satellitare mezzi
di trasporto, videosorveglianze
ingressi/uscite dalle discariche) scattano
in base ad un sofisticato calendario: dal 02.04.2012 (data così stabilita dal dl
216/2011) per i medi/grandi gestori; dopo il
01.06.2012, ed a far data dal termine
stabilito da un futuro dm Ambiente, per i
piccoli produttori di rifiuti speciali
pericolosi (non più di 10 dipendenti,
compresi i produttori che effettuano il
trasporto dei propri rifiuti entro i 30
kg/litri al giorno) come stabilito dal dl
70/2011; dal 02.07.2012 per gli
imprenditori agricoli che producono e
trasportano a piattaforma di conferimento,
oppure conferiscono ad un circuito
organizzato di raccolta, i propri rifiuti
pericolosi in modo «occasionale e saltuario»
(termine così stabilito dal citato dl
216/2011).
Le regole procedurali che i
soggetti obbligati al Sistri dovranno
seguire per la comunicazione telematica dei
dati relativi ai rifiuti gestiti sono invece
quelle recate dal nuovo dm Ambiente 10.11.2011 n. 219, decreto che ha
riformulato le norme dettate dal dm 18.02.2011 n. 52 (cd «Testo unico
Sistri») in relazione a gestione dei
dispositivi usb, responsabilità per la
comunicazione dei dati, compilazione delle
schede elettroniche, gestione dei problemi
di connettività e dei cambiamenti aziendali.
Sistri, le novità in arrivo. Come accennato,
dovrebbero arrivare con la legge di
conversione del citato dl 216/2011 (e il
condizionale è d'obbligo poiché il relativo
testo, pur prevedendoli, ancora non è stato
licenziato dal Parlamento) ulteriori
slittamenti delle tappe di operatività del
Sistri.
La legge di conversione del «Milleproroghe»
prevede infatti un nuovo termine, quello del
30.06.2012, intorno al quale far ruotare
gli adempimenti delle prime due categorie di
soggetti (allineandole, così, con la terza,
costituita dai citati imprenditori
agricoli), ipotizzando il seguente nuovo
calendario: partenza dal 30.06.2012 per
i medi/grandi gestori di rifiuti; partenza
dopo il 30.06.2012 (secondo la data
stabilita dal futuro Dm Ambiente in materia)
per i piccoli produttori.
«Mudino», le scadenze. A interessare nel
2012 i soggetti obbligati al «Sistri» (in
particolare: i produttori iniziali di
rifiuti; le imprese e gli enti che
effettuano operazioni di recupero e
smaltimento dei rifiuti già tenuti alla
presentazione «Mud» ex legge 70/1994) è
altresì la comunicazione dei rifiuti gestiti
nelle more della partenza del nuovo sistema
di tracciamento telematico dei rifiuti.
Prevista dal dm 17.12.2009 (uno dei
primi regolamenti sul Sistri) e
soprannominato «Mudino» per la sua
somiglianza alla storica denuncia «Mud» (ma
dalla quale si distingue per il suo
carattere transitorio) la comunicazione in
parola dovrà essere effettuata (secondo
quanto stabilito dal dm Ambiente 10.11.2011 n. 219) secondo il seguente calendario:
entro il 30.04.2012 dovranno essere
comunicate le informazioni relative ai
rifiuti gestiti nel corso dell'anno 2011;
entro i successivi sei mesi dalla
operatività del nuovo sistema di
tracciamento telematico dei rifiuti dovranno
essere invece comunicate le informazioni
relative ai rifiuti gestiti nel corso
dell'anno 2012 non coperte dal Sistri.
Mud, nuove regole 2012. L'appuntamento al 30.04.2012 con la storica dichiarazione
ambientale istituita legge 70/1994 resta
invariato per i soggetti che, avendone
facoltà, non aderiranno al Sistri e per
quelli che gestiscono altri beni di impatto
ambientale da tracciare per legge. A
cambiare è invece la modulistica da
utilizzare, che per la comunicazione 2012 è
quella recata dal nuovo dpcm 23.12.2011 (pubblicato sulla G.U. 30.12.2011, n. 303).
Seguendo le istruzioni
dettate dal nuovo dpcm, entro il 30.04.2012
si dovranno così comunicare allo stato (per
il tramite delle Camere di commercio): i
dati relativi a rifiuti e veicoli fuori uso
gestiti nel corso del 2011 (per i soggetti
obbligati si veda il box più sotto
riportato); gli imballaggi e le
apparecchiature elettriche ed elettroniche
immesse nello stesso arco temporale sul
mercato (per i soggetti interessati si veda
il box più sotto riportato)
(articolo ItaliaOggi
Sette del 30.01.2012). |
ENTI LOCALI: Dal
pasticcio sui revisori un'occasione per fare
meglio.
LA CHANCE/
Il rinvio di nove mesi nel Milleproroghe può
lasciare spazio a una riforma che eviti
sorteggi e altre amenità.
È difficile non farsi sfuggire un sorriso
guardando la successione di norme che si
susseguono nella vicenda della nomina dei
revisori degli enti locali.
Si ricorderà che il Dl 138/2011 aveva
sparigliato le carte inventandosi il più
bizzarro metodo di selezione dei membri
dell'organo di revisione che mente umana
potesse immaginare. L'articolo 16, comma 25,
ha previsto un meccanismo che si fonda su
tre cardini tipici della «meritocrazia»:
l'anzianità, la residenza ed il caso. Un
approccio che certo voleva affrontare il
problema di non far più nominare i
controllori dai controllati ma che, per
evidente mancanza di coraggio e coerenza,
non arrivava alle logiche conseguenze, che
avrebbero dovuto portare ad affidare il
compito di individuare i revisori a un ente
terzo consapevole, come la Corte dei Conti,
il ministero dell'Interno o al limite quello
dell'Economia, e non a una sorta di gioco
del lotto.
La scelta è caduta sulla buona sorte, sul
sorteggio, che crea problemi evidenti di
equità e rispetto delle regole Ue. Perché un
revisore residente in un Comune della
provincia di Modena può ambire a fare il suo
lavoro a Madrid o Londra e non in un ente
locale toscano? Per iscriversi a questo
lotteria, inoltre, la norma aveva previsto
persino il rilevante requisito «di aver in
precedenza avanzato richiesta di svolgere la
funzione nell'organo di revisione degli enti
locali», qualificando dunque come elemento
di merito avere fatto una domanda; creando
un ostacolo all'iscrizione ai giovani
iscritti all'Ordine dei Dottori
commercialisti ed esperti contabili, che
ancora non avessero avuto modo di rispondere
a un qualche bando.
In molti speravano che tutto ciò sarebbe
rimasto lettera morta, lasciando così
inapplicata una disposizione che offende il
merito e la libertàlgere liberamente la
propria professione. Invece, nonostante le
proteste, ecco che il decreto attuativo
arriva alla firma del ministro, e viene così
inviato alla «Gazzetta Ufficiale» (si veda
Il Sole 24 Ore del 21 gennaio).
Finito il film, come sembra? No, perché,
ancora il decreto è fresco di firma del
ministro Cancellieri, forse neppure la sua
copia è arrivata al protocollo della
Poligrafico dello Stato, ed ecco che il Dl
Milleproroghe tra i suoi tanti rinvii ha
deciso di toccare anche il famigerato comma
25, rinviando la sua applicazione al 29.09.2012. Non sappiamo lo spirito che
ha mosso chi ha proposto l'emendamento.
Comunque, quale che sia stata la motivazione
politica che ha ispirato questa scelta, il
rinvio può rivelarsi opportuno, perché dà il
tempo per correggere profondamente la
normativa in modo da garantire terzietà
all'organo di revisione ma non a scapito
dell'autorevolezza professionale dei suoi
membri.
Sarebbe importante, soprattutto,
approfittare di questa «pausa» per
riflettere seriamente sull'efficacia dei
controlli nel loro complesso. E l'occasione,
se il Parlamento riterrà di riprendere il
suo lavoro in proposito, potrebbe e dovrebbe
essere la Carta delle Autonomie, che prevede
al suo interno proprio una rimodulazione del
sistema dei controlli che ormai richiede di
essere ripensato e reso più adeguato ai
tempi
(articolo Il Sole 24
Ore del 30.01.2012 - link a www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI: Servizi
pubblici. Il calendario delle gestioni.
In house, tempi lunghi e clausola di
salvaguardia.
Le gestioni esistenti dei servizi pubblici
locali con rilevanza economica hanno un
nuovo quadro di scadenze, che individua per
molte di esse il termine anticipato tra la
fine del 2012 e la primavera del 2013, ma
che garantisce la continuità delle
prestazioni qualora le procedure per i nuovi
affidamenti si prolunghino troppo.
Il Dl ha reimpostato le regole del periodo
transitorio, modificando varie parti
dell'articolo 4, comma 32, della legge
148/2011, in modo tale da consentire agli
enti affidanti di gestire meglio il
passaggio tra i gestori uscenti e quelli
subentranti.
L'elemento di maggior rilievo è individuato
nel nuovo termine per gli affidamenti in
house e per le altre tipologie di
affidamenti impropri: la deadline per tali
gestioni è stabilita al 31.12.2012. La
disposizione riguarda tutti gli affidamenti
diretti di valore superiore a 200mila euro
annui (secondo il nuovo parametro) o che non
abbiano i requisiti comunitari per l'in
house (controllo analogo e prevalenza
dell'attività a favore dell'ente affidante).
La scadenza di fine anno per queste gestioni
ha tuttavia un'alternativa importante,
poiché la riformulazione operata dal Dl
1/2012 consente alle società esistenti che
siano affidatarie dirette di aggregarsi per
una gestione unitaria dei servizi, avendo a
riferimento l'ambito o il bacino
territoriale ottimale.
Il percorso è esplicitamente indicato come
derogatorio della norma generale, quindi
lascia presumere la possibilità del
mantenimento dell'in house anche per valori
superiori ai 200mila euro, ma deve condurre
a un'azienda frutto dell'integrazione
operativa delle preesistenti gestioni
dirette, con varie soluzioni possibili dalla
fusione alla società consortile.
Tuttavia il nuovo gestore unico dopo il
riassetto è destinato a operare con un
vincolo temporale stretto, poiché il suo
spazio di attività e limitato a tre anni,
decorrenti dal 31.12.2012, nonché in
base a condizioni rigorose sotto il profilo
della qualità e delle garanzie per l'utenza.
La deroga è finalizzata a superare il
frazionamento delle gestioni in molti
contesti e a consentire la costituzione di
organismi societari più forti e più
efficienti, in grado di sostenere meglio il
confronto con altri operatori economici
nelle gare per l'affidamento dei servizi
dimensionati sugli ambiti o sui bacini
territoriali ottimali. Proprio questa
prospettiva si collega alla nuova norma,
definita nell'articolo 3-bis, comma 1, della
legge 148/2011, che obbliga le Regioni a
definire i bacini e gli ambiti ottimali per
i servizi entro il 30.06.2012.
Il termine del periodo transitorio è stato
ridefinito anche per le gestioni affidate a
società miste nelle quali il socio privato,
anche se scelto con gara, non sia risultato
originariamente affidatario anche di
specifici compiti operativi: in tal caso la
scadenza degli affidamenti in essere è
stabilita al 31.03.2012.
Restano invece invariate le disposizioni che
consentono la prosecuzione delle gestioni
alle società miste conformi alle norme Ue,
che stabiliscono due scadenze per la
progressiva dismissione delle quote o azioni
di proprietà pubblica per consentire il
mantenimento degli affidamenti in essere
alle società quotate.
La complessa gestione delle nuove procedure
di affidamento lascia presupporre che molte
di esse giungeranno all'individuazione del
nuovo gestore ben oltre le scadenze del
periodo transitorio, tanto che il Dl 1/2012
ha introdotto una norma di salvaguardia. Per
non pregiudicare la continuità
nell'erogazione dei servizi di rilevanza
economica, il nuovo comma 32-ter stabilisce
che i soggetti gestori dei servizi
assicurano l'integrale prosecuzione delle
attività anche oltre le scadenze previste,
fino al subentro del nuovo gestore e
comunque, in caso di liberalizzazione del
settore, fino all'apertura del mercato alla
concorrenza
(articolo Il Sole 24
Ore del 30.01.2012 - link a
www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine
di demolizione può essere emesso sia nei
confronti dell'autore dell'abuso edilizio
che del proprietario dell'immobile. In
particolare, l'ordine di demolizione del
manufatto abusivo è legittimamente adottato
nei confronti del proprietario dell'immobile
indipendentemente dall'essere egli stato
anche autore dell'abuso, salva la facoltà
del medesimo di far valere, sul piano
civile, la responsabilità, contrattuale o
extracontrattuale, del proprio dante causa.
Il provvedimento che ingiunge la demolizione
dell'abuso, pertanto, non è illegittimo per
il solo fatto che l'ordine venga indirizzato
al proprietario (anche se estraneo alla
commissione dell'illecito edilizio) del
suolo su cui ricade la costruzione, atteso
che a quest'ultimo deve riconoscersi
comunque l'interesse a contestare anche il
carattere abusivo della stessa
realizzazione, perché non può escludersi che
la rimozione del manufatto possa arrecare
anche un danno all'area di sua proprietà.
In caso di inottemperanza del responsabile
dell'abuso all'ingiunzione di demolizione,
l'acquisizione gratuita dell'area non può
essere, però, dichiarata nei confronti del
proprietario che, del tutto estraneo al
compimento dell'opera abusiva, non può
ritenersi responsabile della stessa; l'unica
eccezione a tale principio sussiste quando
il proprietario, sebbene non responsabile
dell'abuso, sia venuto a conoscenza dello
stesso e non si sia adoperato per impedirlo
con gli strumenti offerti dall'ordinamento;
l'amministrazione, ferma restando l'attività
demolitoria dell'immobile illecitamente
realizzato, legittimamente ingiunta nei
confronti del responsabile dell'abuso, non
può prefigurare l'acquisizione dell'area di
sedime e di pertinenza ai danni del
ricorrente, proprietario del terreno, ove
abbia accertato la completa estraneità dello
stesso al compimento dell'opera abusiva e,
nel caso in cui l'interessato fosse comunque
venuto a conoscenza dell'abuso, ove abbia
accertato il suo adoperarsi per impedire
l'attività illecita con gli strumenti
offerti dall'ordinamento.
E’ stato, infatti, costantemente affermato che l'ordine di
demolizione può essere emesso sia nei
confronti dell'autore dell'abuso edilizio
che del proprietario dell'immobile. In
particolare, l'ordine di demolizione del
manufatto abusivo è legittimamente adottato
nei confronti del proprietario dell'immobile
indipendentemente dall'essere egli stato
anche autore dell'abuso, salva la facoltà
del medesimo di far valere, sul piano
civile, la responsabilità, contrattuale o
extracontrattuale, del proprio dante causa.
Il provvedimento che ingiunge la demolizione
dell'abuso, pertanto, non è illegittimo per
il solo fatto che l'ordine venga indirizzato
al proprietario (anche se estraneo alla
commissione dell'illecito edilizio) del
suolo su cui ricade la costruzione, atteso
che a quest'ultimo deve riconoscersi
comunque l'interesse a contestare anche il
carattere abusivo della stessa
realizzazione, perché non può escludersi che
la rimozione del manufatto possa arrecare
anche un danno all'area di sua proprietà
(cfr., fra le tante, TAR Lazio, sez. II, 04.02.2011, n. 1072).
In caso di inottemperanza del responsabile
dell'abuso all'ingiunzione di demolizione,
l'acquisizione gratuita dell'area non può
essere, però, dichiarata nei confronti del
proprietario che, del tutto estraneo al
compimento dell'opera abusiva, non può
ritenersi responsabile della stessa; l'unica
eccezione a tale principio sussiste quando
il proprietario, sebbene non responsabile
dell'abuso, sia venuto a conoscenza dello
stesso e non si sia adoperato per impedirlo
con gli strumenti offerti dall'ordinamento;
l'amministrazione, ferma restando l'attività
demolitoria dell'immobile illecitamente
realizzato, legittimamente ingiunta nei
confronti del responsabile dell'abuso, non
può prefigurare l'acquisizione dell'area di
sedime e di pertinenza ai danni del
ricorrente, proprietario del terreno, ove
abbia accertato la completa estraneità dello
stesso al compimento dell'opera abusiva e,
nel caso in cui l'interessato fosse comunque
venuto a conoscenza dell'abuso, ove abbia
accertato il suo adoperarsi per impedire
l'attività illecita con gli strumenti
offerti dall'ordinamento (cfr. TAR Campania,
sez. II, 20.12.2010, n. 27683)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 31.01.2012 n. 347 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In sede di valutazione comparativa delle offerte tecniche presentate
nelle gare d’appalto le valutazioni
tecniche, caratterizzate dalla complessità
delle discipline specialistiche di
riferimento e dalla opinabilità dell’esito
della valutazione, sfuggono al sindacato
intrinseco del giudice amministrativo, se
non vengono in rilievo specifiche censure
circa la plausibilità dei criteri valutativi
o circa la loro applicazione. Le valutazioni
della Commissione di gara in ordine
all’(in)idoneità tecnica delle offerte dei
vari partecipanti alla gara costituiscono,
invero, espressione di un potere di natura
tecnico-discrezionale a carattere complesso,
alle quali non possono essere contrapposte
le valutazioni di parte circa la
(in)sussistenza delle prescritte qualità,
trattandosi di questioni afferenti al merito
delle suddette valutazioni
tecnico-discrezionali, non sindacabili se
non sotto il profilo dei criteri.
La valutazione in ordine alla idoneità della
scelta progettuale proposta è espressione di
una valutazione di merito riservata alla
Commissione, che la ricorrente non contesta
nella sostanza, deducendo soltanto un non
contrasto con la disciplina di gara.
“In sede di valutazione comparativa delle offerte tecniche presentate
nelle gare d’appalto le valutazioni
tecniche, caratterizzate dalla complessità
delle discipline specialistiche di
riferimento e dalla opinabilità dell’esito
della valutazione, sfuggono al sindacato
intrinseco del giudice amministrativo, se
non vengono in rilievo specifiche censure
circa la plausibilità dei criteri valutativi
o circa la loro applicazione. Le valutazioni
della Commissione di gara in ordine
all’(in)idoneità tecnica delle offerte dei
vari partecipanti alla gara costituiscono,
invero, espressione di un potere di natura
tecnico-discrezionale a carattere complesso,
alle quali non possono essere contrapposte
le valutazioni di parte circa la
(in)sussistenza delle prescritte qualità,
trattandosi di questioni afferenti al merito
delle suddette valutazioni
tecnico-discrezionali, non sindacabili se
non sotto il profilo dei criteri” (Consiglio
di Stato, V, 08.03.2011, n. 1464).
La
valutazione in ordine alla idoneità della
scelta progettuale proposta è espressione di
una valutazione di merito riservata alla
Commissione, che la ricorrente non contesta
nella sostanza, deducendo soltanto un non
contrasto con la disciplina di gara (cfr.
TAR Lombardia, Milano, I, 18.11.2011, n.
2802) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 31.01.2012 n. 346 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Il
verbale della conferenza di servizi non deve
essere impugnato fintato che le sue
determinazioni non vengono recepite
dall’autorità che è competente ad emettere
il provvedimento finale l’unico veramente
lesivo.
In tema di bonifica di siti di
interesse nazionale va confermato che la
conferenza di servizi decisoria è uno
strumento procedimentale di mero
coordinamento tra amministrazioni autonome e
distinte; di conseguenza i verbali stilati a
conclusione dei lavori, avendo natura endoprocedimentale, non sono autonomamente
impugnabili per carenza di interesse.
La giurisprudenza in tema di legittimazione
passiva avverso ricorsi che riguardano atti
conseguenti a conferenze di servizi ha
affermato che il ricorso proposto avverso la
conferenza di servizi ex artt. 14 ss. l.
07.08.1990, n. 241 deve essere notificato
alle sole amministrazioni che hanno una
competenza esoprocedimentale.
Invero, il ricorso contro l'atto finale
della conferenza di servizi non va
notificato a tutte le autorità
amministrative partecipanti, ma soltanto a
quelle che hanno esercitato la potestà
correlata alla posizione giuridica di cui si
chiede tutela.
---------------
Il nuovo codice dell'ambiente riprende in
tema l'impostazione già seguita dal d.lgs.
n. 22/1997 il cui art. 17 stabiliva che
"Chiunque cagiona, anche in maniera
accidentale, il superamento dei limiti di
cui al comma 1, lettera a), ovvero determini
un pericolo concreto ed attuale di
superamento dei limiti medesimi, è tenuto a
procedere a proprie spese agli interventi di
messa in sicurezza, di bonifica e di
ripristino ambientale delle aree inquinate e
degli impianti dai quali deriva il pericolo
di inquinamento".
Per quanto attiene ai procedimenti di
bonifica dei siti di interesse nazionale,
l'art. 252, comma 5, del d.lgs. n. 152/2006
dispone che "Nel caso in cui il responsabile
non provveda o non sia individuabile oppure
non provveda il proprietario del sito
contaminato né altro soggetto interessato,
gli interventi sono predisposti dal
Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio...".
La disposizione appena citata non può che
essere interpretata nel senso che l'obbligo
di adottare le misure, sia urgenti che
definitive, idonee a fronteggiare la
situazione di inquinamento incombe solamente
a carico di colui che di tale situazione sia
responsabile, per avervi dato causa (nello
stesso senso, l'art. 252-bis in tema di
"Siti di preminente interesse pubblico per
la riconversione industriale").
La norma individua, perciò, dal punto di
vista di soggettivo nella responsabilità
dell'autore dell'inquinamento, a titolo di
dolo o di colpa, la fonte dell'obbligo a
provvedere alla messa in sicurezza e
all'eventuale bonifica del sito inquinato.
Da ciò la giurisprudenza quasi univoca,
condivisa dal Collegio, deduce la mancanza
di responsabilità, e quindi di obbligo a
bonificare o di mettere in sicurezza, del
proprietario incolpevole.
Ne consegue che l'amministrazione non può
imporre ai privati che non hanno alcuna
responsabilità diretta sull'origine del
fenomeno contestato, ma che vengono
individuati solo in quanto proprietari del
bene, lo svolgimento di attività di recupero
e di risanamento.
L'enunciato, è d'altronde conforme al
principio a cui si ispira la legislazione
comunitaria "chi inquina paga" (art. 174, ex
art. 130/R, Trattato CE) che impone a chi fa
correre un rischio di inquinamento o a chi
provoca un inquinamento di sostenere i costi
della prevenzione o della riparazione.
A carico del proprietario dell'area
inquinata non responsabile della
contaminazione, invero, non grava alcun
obbligo di porre in essere gli interventi
ambientali in argomento, ma solo la facoltà
di eseguirli al fine di evitare
l'espropriazione del terreno interessato
gravato da onere reale, al pari delle spese
sostenute per gli interventi di recupero
ambientale, assistite anche da privilegio
speciale immobiliare (art. 253 d.lgs. n.
152/2006).
La normativa citata prevede, infatti, che,
in caso di mancata esecuzione degli
interventi in argomento da parte del
responsabile dell'inquinamento ovvero in
caso di mancata individuazione del predetto,
le opere di recupero ambientale vanno
eseguite dall'amministrazione competente la
quale potrà rivalersi sul soggetto
responsabile, nei limiti del valore
dell'area bonificata, anche esercitando, nel
caso in cui la rivalsa non vada a buon fine,
le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei
suddetti interventi.
E' principio unanimemente affermato che il verbale della conferenza
di servizi non deve essere impugnato fintato
che le sue determinazioni non vengono
recepite dall’autorità che è competente ad
emettere il provvedimento finale l’unico
veramente lesivo (vedasi Consiglio di
Stato 712/2011, TAR Lazio 2815/2008, TAR
Friuli Venezia Giulia 291/2007 ).
In particolare proprio sul tema specifico
una pronuncia del TAR Toscana 1398/2009 ha
affermato che in tema di bonifica di siti di
interesse nazionale va confermato che la
conferenza di servizi decisoria è uno
strumento procedimentale di mero
coordinamento tra amministrazioni autonome e
distinte; di conseguenza i verbali stilati a
conclusione dei lavori, avendo natura endoprocedimentale, non sono autonomamente
impugnabili per carenza di interesse.
La conferenza di servizi del 2009 non fu
seguita da una determinazione dirigenziale e
quindi non poneva obblighi nei confronti
della ricorrente non avendo pertanto
efficacia lesiva diretta; inoltre la
conferma delle prescrizioni decisi nella
conferenza di servizi del 2009 era stata
assunta dopo un’ulteriore attività
istruttoria e questo è sufficiente per
affermare che il provvedimento conseguente
non è attività meramente confermativa.
Si veda in proposito la massima della
sentenza 868/2011 del TAR Sicilia sezione
staccata di Catania: “Soltanto se il
provvedimento della P.A. è meramente
confermativo di una antecedente
determinazione non tempestivamente
impugnata, del primo si deve escludere
l'impugnabilità; viceversa, quando
l'antecedente determinazione della stessa
Amministrazione non impugnata viene, come
nella fattispecie, successivamente
sottoposta a riesame nell'ambito di una
attività istruttoria, seppure con esito
sostanzialmente confermativo, non incorre
nel termine decadenziale l'interessato che
promuove ricorso nei riguardi della
determinazione finale successiva”.
Ulteriore motivo di inammissibilità dovrebbe
ravvisarsi a parere della società
controinteressata per la mancata citazione
della Provincia di Milano che conserva
specifiche competenza in materia e che
pertanto doveva essere parte necessaria del
processo.
La giurisprudenza in tema di legittimazione
passiva avverso ricorsi che riguardano atti
conseguenti a conferenze di servizi ha
affermato che il ricorso proposto avverso la
conferenza di servizi ex artt. 14 ss. l. 07.08.1990, n. 241 deve essere notificato
alle sole amministrazioni che hanno una
competenza esoprocedimentale.
Interessante a questo proposito è la
sentenza 50/2008 del TAR Molise che sul
punto afferma: “il ricorso contro l'atto
finale della conferenza di servizi non va
notificato a tutte le autorità
amministrative partecipanti, ma soltanto a
quelle che hanno esercitato la potestà
correlata alla posizione giuridica di cui si
chiede tutela (cfr.: Cons. Stato IV 07.05.2004
n. 2874; TAR Latina 29.03.2006 n. 212)“.
La Provincia di Milano in relazione alla
procedura di bonifica dei siti di interesse
nazionale partecipa come altri enti alla
conferenza di servizi, ma non deve assumere
alcun provvedimento conclusivo né dispone di
autonomi poteri in materia; non vi era
quindi alcuna necessità di procedere alla
sua citazione in giudizio.
Peraltro l’inesistenza di un autonoma
competenza degli enti locali è stato
affermato anche dalla sentenza 247/2009
della Corte Costituzionale che ha ritenuto
non fondate, in riferimento agli art. 117 e
118 cost., le questioni di legittimità
costituzionale dell'art. 252 d.lgs. 03.04.2006 n. 152, il quale regola le procedura di
bonifica dei siti inquinati "d'interesse
nazionale".
La Corte affermando che la disciplina
dettata dalle disposizioni censurate è
quella della tutela dell'ambiente, di
competenza esclusiva dello Stato, ai sensi
dell'art. 117, comma 2, lett. s), cost., ha
ritenuto che la stessa costituisce un limite
alla disciplina che le regioni e le province
autonome dettano in altre materie di loro
competenza, per cui queste ultime non
possono in alcun modo derogare il livello di
tutela ambientale stabilito dallo Stato; ne
consegue che anche qualora possano rilevarsi
ambiti di competenza spettanti alle regioni,
il citato titolo di legittimazione statale
prevale, anche in ragione della sussistenza
di un interesse unitario alla disciplina
omogenea di siti che travalicano l'interesse
locale e regionale, fermo restando,
peraltro, che la disciplina censurata
prevede chiaramente il coinvolgimento delle
regioni nelle varie fasi della procedura.
La terza eccezione preliminare sollevata
dalla società controinteressata riguarda la
carenza di interesse derivante dal fatto che
quale soggetto interessato la ricorrente
sarebbe comunque tenuta ad adempiere alle
prescrizioni contenute nel provvedimento
impugnato.
L’eccezione è inammissibile perché riguarda
proprio un aspetto che è stato posto a
fondamento del ricorso e cioè l’inesistenza
di un obbligo giuridico del soggetto
interessato a compiere le opere richieste ai
sensi dell’art. 242 D.lgs. 152/2006 e
pertanto non può essere valutato sotto il
profilo dell’interesse a ricorrere, ma andrà
valutato nel merito.
Venendo al merito del ricorso il Collegio
ritiene che esso sia fondato.
Il primo motivo contesta la possibilità di
addossare al soggetto proprietario ed
utilizzatore dell’area da bonificare gli
oneri di tale bonifica, in mancanza di
accertamento di una sua responsabilità
rispetto all’inquinamento presente.
La sentenza 762/2009 del TAR Toscana
affronta la medesima questione proposta in
questa sede e merita riportare un ampio
brano della sua motivazione poiché presenta
una lettura complessiva delle norme che
attengono alla bonifica dei siti inquinati
che il Collegio condivide pienamente. “Il
nuovo codice dell'ambiente riprende in tema
l'impostazione già seguita dal d.lgs. n.
22/1997 il cui art. 17 stabiliva che
"Chiunque cagiona, anche in maniera
accidentale, il superamento dei limiti di
cui al comma 1, lettera a), ovvero determini
un pericolo concreto ed attuale di
superamento dei limiti medesimi, è tenuto a
procedere a proprie spese agli interventi di
messa in sicurezza, di bonifica e di
ripristino ambientale delle aree inquinate e
degli impianti dai quali deriva il pericolo
di inquinamento".
Per quanto attiene ai procedimenti di
bonifica dei siti di interesse nazionale,
l'art. 252, comma 5, del d.lgs. n. 152/2006
dispone che "Nel caso in cui il responsabile
non provveda o non sia individuabile oppure
non provveda il proprietario del sito
contaminato né altro soggetto interessato,
gli interventi sono predisposti dal
Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio...".
La disposizione appena citata non può che
essere interpretata nel senso che l'obbligo
di adottare le misure, sia urgenti che
definitive, idonee a fronteggiare la
situazione di inquinamento incombe solamente
a carico di colui che di tale situazione sia
responsabile, per avervi dato causa (nello
stesso senso, l'art. 252-bis in tema di
"Siti di preminente interesse pubblico per
la riconversione industriale").
La norma individua, perciò, dal punto di
vista di soggettivo nella responsabilità
dell'autore dell'inquinamento, a titolo di
dolo o di colpa, la fonte dell'obbligo a
provvedere alla messa in sicurezza e
all'eventuale bonifica del sito inquinato.
Da ciò la giurisprudenza quasi univoca,
condivisa dal Collegio, deduce la mancanza
di responsabilità, e quindi di obbligo a
bonificare o di mettere in sicurezza, del
proprietario incolpevole (cfr., TAR
Toscana, sez. II, 17.04.2009, n. 665;
TAR Veneto, sez. III, 25.05.2005, n.
2174; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 08.10.2004, n. 5473; TAR Campania, sez.
V, 28.09.1998, n. 2988).
Ne consegue che l'amministrazione non può
imporre ai privati che non hanno alcuna
responsabilità diretta sull'origine del
fenomeno contestato, ma che vengono
individuati solo in quanto proprietari del
bene, lo svolgimento di attività di recupero
e di risanamento (TAR Veneto, sez. III, 02.02.2002, n. 320).
L'enunciato, è d'altronde conforme al
principio a cui si ispira la legislazione
comunitaria "chi inquina paga" (art. 174, ex
art. 130/R, Trattato CE) che impone a chi fa
correre un rischio di inquinamento o a chi
provoca un inquinamento di sostenere i costi
della prevenzione o della riparazione.
A carico del proprietario dell'area
inquinata non responsabile della
contaminazione, invero, non grava alcun
obbligo di porre in essere gli interventi
ambientali in argomento, ma solo la facoltà
di eseguirli al fine di evitare
l'espropriazione del terreno interessato
gravato da onere reale, al pari delle spese
sostenute per gli interventi di recupero
ambientale, assistite anche da privilegio
speciale immobiliare (art. 253 d.lgs. n.
152/2006).
La normativa citata prevede, infatti, che,
in caso di mancata esecuzione degli
interventi in argomento da parte del
responsabile dell'inquinamento ovvero in
caso di mancata individuazione del predetto,
le opere di recupero ambientale vanno
eseguite dall'amministrazione competente la
quale potrà rivalersi sul soggetto
responsabile, nei limiti del valore
dell'area bonificata, anche esercitando, nel
caso in cui la rivalsa non vada a buon fine,
le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei
suddetti interventi (TAR Lombardia,
Brescia, 16.03.2006, n. 291; TAR
Lombardia Milano, sez. II, 10.07.2007, n.
5355)”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 31.01.2012 n. 332 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Un
piazzale come quello per cui è causa (ndr:
terreno adibito a piazzale per scaricare,
accatastare e caricare blocchi di marmo e di
granito mediante un carro ponte, il tutto al
servizio di una attività di commercio di
materiali per l’edilizia), pacificamente
destinato alla movimentazione di mezzi
pesanti, costituisce trasformazione del
territorio, soggetta come tale a permesso di
costruire.
Siffatto piazzale poi nemmeno può essere
considerato pertinenza, in quanto tali sono
soltanto i “manufatti di dimensioni modeste
e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in
modo significativo l'assetto del
territorio”.
La prospettazione della p.a., ad avviso del
Collegio è corretta e condivisibile.
In primo luogo, un piazzale come quello per
cui è causa, pacificamente destinato alla
movimentazione di mezzi pesanti, costituisce
trasformazione del territorio, soggetta come
tale a permesso di costruire, come ritenuto,
fra le molte, da Cass. pen. sez. III
25.03.2010 n. 18543, TAR Puglia Bari sez.
III 26.02.2009 n. 404 e TAR sez. I
25.10.2007 n. 3242, le due ultime relative
proprio a fattispecie di diniego del condono
edilizio; siffatto piazzale poi nemmeno può
essere considerato pertinenza, in quanto
tali sono soltanto i “manufatti di
dimensioni modeste e ridotte, inidonei,
quindi, ad alterare in modo significativo
l'assetto del territorio”, come ritenuto
da ultimo da C.d.S. sez. IV 13.01.2010 n.
41, e ciò anche a prescindere dal rilievo
per cui, nel caso di specie, nemmeno è
spiegato rispetto a quale altro immobile, in
ipotesi legittimamente edificato, il
rapporto pertinenziale dovrebbe ravvisarsi
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.01.2012 n. 163 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento
abilitativo condizionato è ammesso da tempo
dalla giurisprudenza amministrativa e
rientra nello schema legale tipico previsto
dalla norma attributiva di potere.
A fronte delle perplessità che vennero
espresse in anni risalenti dalla dottrina
giuridica che costruiva l’atto
amministrativo all’interno della teoria
generale degli atti giuridici e che
quindi si era posta il problema della
possibilità di introdurre elementi
accidentali nell’atto amministrativo, la
giurisprudenza, invece, spinta da una prassi
degli organi amministrativi che è sempre
stata molto propensa all’utilizzo di
provvedimenti di approvazione condizionati
ad alcune prescrizioni introdotte
dall’amministrazione, ha finito per
riconoscere la legittimità di tale tipo di
provvedimenti, che semplifica la procedura
(se non fosse possibile approvare con
condizioni occorrerebbe, infatti,
respingere; e tutto ciò sarebbe oggi anche
in contrasto con la regola generale sul
divieto di aggravamento del procedimento
amministrativo di cui all’art 1, co. 2, l.
241/1990), ed in realtà consente di esercitare
meglio la potestà conformativa.
Se alla semplice alternativa approvare/non
approvare si aggiunge, infatti, anche la
possibilità di approvare con prescrizioni,
si ampliano i poteri conformativi
dell’amministrazione che ha la possibilità
in questo modo di modellare meglio la
propria decisione alle particolarità del
caso di specie.
---------------
Il danno ambientale
costituisce non il presupposto sostanziale
indefettibile per l'applicazione della
sanzione ma esclusivamente un elemento che
viene in rilievo ai fini del diverso profilo
della quantificazione della sanzione, ossia
un semplice criterio di commisurazione della
sanzione (alternativo al profitto
conseguito).
Il danno
ambientale non costituisce il presupposto
sostanziale indefettibile per l'applicazione
della sanzione di cui all'art. 15 della l.
n. 1497 del 1939, ma un elemento che viene
in rilievo ai fini del diverso profilo della
quantificazione della sanzione.
L'autorizzazione postuma per
effetto della verifica di compatibilità
ambientale non preclude la possibilità di
infliggere anche la sola sanzione pecuniaria
di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del
1939, dal momento che "un'autorizzazione
postuma ai fini ambientali, valevole ai fini
della positiva definizione del procedimento
di sanatoria ai sensi dell'art. 13 della
legge n. 47 del 1985 semmai indirizza,
vincolandolo nell'esito, il residuo
potere-dovere dell'autorità competente di
procedere all'applicazione della sanzione di
cui all'art. 15 della legge n. 1497 del
1939. La circostanza, infatti, che
l'Amministrazione, esercitando un potere
nella sostanza conferito dallo stesso art.
15, abbia verificato la compatibilità
ambientale in via postuma, se da un lato
esclude la compromissione sostanziale
dell'integrità paesaggistica, dall'altro non
cancella la violazione dell'obbligo,
discendente dall'art. 7, di conseguire in
via preventiva il titolo di assenso
necessario per la realizzazione
dell'intervento modificativo dell'assetto
territoriale.
---------------
La sanzione ex art. 167
dlgs n. 42/2004 non è un risarcimento del
danno, ma una sanzione afflittiva per
un’opera abusiva.
La misura pecuniaria prevista dall'art. 15
della legge n. 1497 del 1939, nonostante il
riferimento al termine "indennità", non
costituisce un'ipotesi di risarcimento del
danno ambientale ma rappresenta una sanzione
amministrativa, applicabile sia nel caso di
illeciti sostanziali, ovvero in caso di
compromissione dell'indennità paesaggistica,
sia nell'ipotesi di illeciti formali, quale
è, appunto, da ritenersi il caso di
violazione dell'obbligo di conseguire
l'autorizzazione a fronte di un intervento
compatibile con il contesto paesistico
oggetto di protezione.
In altri termini, la sanzione è solo la
conseguenza della violazione di un obbligo
(di non essersi dotati preventivamente di
autorizzazione paesaggistica); il
legislatore avrebbe potuto prevedere una
misura fissa, come usa di solito per le
sanzioni penali, invece ha preferito
modellarla sul caso di specie non
predeterminandone minimi e massimi, ma
rapportandola al danno ambientale, ma questo
non significa che essa debba consistere
nelle spese affrontate per il ripristino,
perché altrimenti essa consisterebbe in un
risarcimento del danno.
In una situazione riconosciuta come idonea a
compromettere l'ambiente quale fatto
ingiusto implicante una lesione presunta del
valore giuridico tutelato, la
quantificazione del danno avviene in via
equitativa, tenendo conto dell'ampiezza
dell'inquinamento, della gravità della colpa
individuale e del costo necessario per la
depurazione.
FATTO
L’azienda agricola ricorrente impugna il
provvedimento del 19.06.2008 con cui il
Comune di Cazzago San Martino le ha
applicato la sanzione pecuniaria di 7.142,85
euro per opere eseguite in assenza di
autorizzazione paesaggistica in zona
paesaggisticamente vincolata.
Le opere consistevano in modifica
geomorfologica dei terreni per impiantare
nuovo vigneto, ed il Comune le aveva
ritenute compatibili paesaggisticamente.
I motivi che sostengono il ricorso sono i
seguenti:
1. il provvedimento sarebbe illegittimo
perché sarebbe stata violata la norma che
impone l’alternativa tra ripristino e
sanzione pecuniaria, in quanto è stato
comunque ordinato l’impianto di 10 roveri
adulte, che è una sorta di ripristino e non
andava abbinato alla sanzione pecuniaria;
sarebbe stata applicata, inoltre, una
sanzione pecuniaria parametrata al danno con
motivazione illogica in quanto nello stesso
provvedimento si dice che il danno
ambientale non v’è; sarebbe irragionevole,
da ultimo, la quantificazione del danno;
2. il provvedimento sarebbe illegittimo
perché l’attività che avrebbe compiuto la
ricorrente è solo di pulizia dal fondo delle
sterpaglie, che non può essere produttiva di
danno ambientale;
3. il provvedimento sarebbe illegittimo,
inoltre, perché da esso non si comprende
perché l’amministrazione abbia imposto
l’impianto di 10 roveri.
...
DIRITTO
I. Il ricorso è infondato.
...
II. Nel primo motivo di ricorso la
ricorrente ritiene che questa procedura non
sia stata corretta, perché sarebbe stata
violata l’alternativa tra sanzione
ripristinatoria e sanzione pecuniaria (in
quanto l’impianto delle roveri sarebbe
comunque un ripristino).
Ma questa prospettazione non è corretta. Il
ripristino è cosa diversa da quanto è stato
ordinato alla impresa ricorrente, perché per
aversi ripristino occorreva tornare allo
status quo antecedente l’inizio dei lavori
non autorizzati. Ma lo status quo
antecedente l’inizio dei lavori non è stato
ripristinato dalle opere realizzate
spontaneamente dalla ricorrente, che si è
limitata a ricreare il salto di quota con
un’inclinazione prossima a quella naturale
preesistente, ma non ha ricostituito
l’originario bosco.
Né il ripristino è garantito dall’impianto
delle roveri adulte e dall’inerbimento delle
ripe, che sono soltanto la condizione cui
nel parere del 30.08.2007 gli esperti
ambientali hanno assoggettato il rilascio
della certificazione di compatibilità
paesaggistica.
Si può senz’altro contestare che attraverso
il combinato di una certificazione di
compatibilità paesaggistica sottoposta a
condizioni (da un lato) e dell’applicazione
della sanzione pecuniaria (dall’altro) si
sia realizzato un cumulo tra due tipologie
di sanzioni diverse, ma il provvedimento
abilitativo condizionato è ammesso da tempo
dalla giurisprudenza amministrativa e
rientra nello schema legale tipico previsto
dalla norma attributiva di potere.
A fronte delle perplessità che vennero
espresse in anni risalenti dalla dottrina
giuridica che costruiva l’atto
amministrativo all’interno della teoria
generale degli atti giuridici (che, com’è
noto, era modellata su quella positiva del
negozio giuridico di diritto tedesco), e che
quindi si era posta il problema della
possibilità di introdurre elementi
accidentali nell’atto amministrativo, la
giurisprudenza, invece, spinta da una prassi
degli organi amministrativi che è sempre
stata molto propensa all’utilizzo di
provvedimenti di approvazione condizionati
ad alcune prescrizioni introdotte
dall’amministrazione, ha finito per
riconoscere la legittimità di tale tipo di
provvedimenti, che semplifica la procedura
(se non fosse possibile approvare con
condizioni occorrerebbe, infatti,
respingere; e tutto ciò sarebbe oggi anche
in contrasto con la regola generale sul
divieto di aggravamento del procedimento
amministrativo di cui all’art 1, co. 2, l.
241/1990), ed in realtà consente di esercitare
meglio la potestà conformativa.
Se alla semplice alternativa approvare/non
approvare si aggiunge, infatti, anche la
possibilità di approvare con prescrizioni,
si ampliano i poteri conformativi
dell’amministrazione che ha la possibilità
in questo modo di modellare meglio la
propria decisione alle particolarità del
caso di specie.
---------------
III. Nello stesso primo motivo di ricorso si
sostiene che sarebbe stata applicata,
inoltre, una sanzione pecuniaria parametrata
al danno con motivazione illogica in quanto
nello stesso provvedimento si dice che il
danno ambientale non v’è, ma in realtà
questa deduzione si scontra con
giurisprudenza amministrativa consolidata.
Secondo Tar Lazio, I, 1450/2009, infatti, il
danno ambientale costituisce non il
presupposto sostanziale indefettibile per
l'applicazione della sanzione ma
esclusivamente un elemento che viene in
rilievo ai fini del diverso profilo della
quantificazione della sanzione, ossia un
semplice criterio di commisurazione della
sanzione (alternativo al profitto
conseguito).
La stessa tesi era stata sostenuta da Cons.
Stato, VI, 2653/2003, secondo cui il danno
ambientale non costituisce il presupposto
sostanziale indefettibile per l'applicazione
della sanzione di cui all'art. 15 della l.
n. 1497 del 1939, ma un elemento che viene
in rilievo ai fini del diverso profilo della
quantificazione della sanzione.
Come ha spiegato bene tale ultima pronuncia
(che riprende un precedente dello stesso
Consiglio di Stato, la pronuncia 912/2001)
la Sezione ha, altresì, espressamente
chiarito che l'autorizzazione postuma per
effetto della verifica di compatibilità
ambientale non preclude la possibilità di
infliggere anche la sola sanzione pecuniaria
di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del
1939, dal momento che "un'autorizzazione
postuma ai fini ambientali, valevole ai fini
della positiva definizione del procedimento
di sanatoria ai sensi dell'art. 13 della
legge n. 47 del 1985 semmai indirizza,
vincolandolo nell'esito, il residuo
potere-dovere dell'autorità competente di
procedere all'applicazione della sanzione di
cui all'art. 15 della legge n. 1497 del
1939. La circostanza, infatti, che
l'Amministrazione, esercitando un potere
nella sostanza conferito dallo stesso art.
15, abbia verificato la compatibilità
ambientale in via postuma, se da un lato
esclude la compromissione sostanziale
dell'integrità paesaggistica, dall'altro non
cancella la violazione dell'obbligo,
discendente dall'art. 7, di conseguire in
via preventiva il titolo di assenso
necessario per la realizzazione
dell'intervento modificativo dell'assetto
territoriale”.
---------------
IV. E’ infondato anche il motivo che
contesta la quantificazione della sanzione,
evidenziando che essa sarebbe stata
parametrata sulle spese di ripristino, ma in
realtà il ripristino sarebbe stato
effettuato a sue spese dalla ricorrente.
Ciò non rileva perché, come argomenta
correttamente la difesa del Comune, la
sanzione ex art. 167 non è un risarcimento
del danno, ma una sanzione afflittiva per
un’opera abusiva.
Si riprende ancora una volta quanto
riportato nella motivazione della pronuncia
del Cons. Stato, VI, 2653/2003, secondo cui
“la misura pecuniaria prevista dall'art. 15
della legge n. 1497 del 1939, nonostante il
riferimento al termine "indennità", non
costituisce un'ipotesi di risarcimento del
danno ambientale ma rappresenta una sanzione
amministrativa, applicabile sia nel caso di
illeciti sostanziali, ovvero in caso di
compromissione dell'indennità paesaggistica,
sia nell'ipotesi di illeciti formali, quale
è, appunto, da ritenersi il caso di
violazione dell'obbligo di conseguire
l'autorizzazione a fronte di un intervento
compatibile con il contesto paesistico
oggetto di protezione (Sez. VI, n. 912 del
2001, cit. n. 3184 del 2000)”.
In altri termini, la sanzione è solo la
conseguenza della violazione di un obbligo
(di non essersi dotati preventivamente di
autorizzazione paesaggistica); il
legislatore avrebbe potuto prevedere una
misura fissa, come usa di solito per le
sanzioni penali, invece ha preferito
modellarla sul caso di specie non
predeterminandone minimi e massimi, ma
rapportandola al danno ambientale, ma questo
non significa che essa debba consistere
nelle spese affrontate per il ripristino,
perché altrimenti essa consisterebbe in un
risarcimento del danno.
La ricorrente sostiene, inoltre, che la
quantificazione del materiale movimentato
sarebbe eccessivo, essendo stata effettuata
verificando al centimetro le differenze di
quota, senza tenere conto delle soglie di
tolleranza inevitabili in un terreno che
viene arato prima della coltivazione.
Ma, in realtà, il criterio del calcolo al
centimetro delle differenze di quota è
l’unico metodo scientifico utilizzabile per
calcolare la movimentazione dei terreni; la
stessa richiesta della difesa della
ricorrente di tener conto di soglie di
tolleranza dovute alla aratura dei terreni,
se non si individuano dei valori percentuali
di tipo generale per introdurre nel calcolo
i riporti dovuti ad aratura, finisce per
introdurre un margine di approssimazione
incompatibile con una metodologia di calcolo
scientifica.
Si ricorda, d’altronde, che il calcolo al
centimetro neanche è imposto alle
amministrazioni, perché, come rilevato da
Tribunale Milano 31.03.2008, “in una
situazione riconosciuta come idonea a
compromettere l'ambiente quale fatto
ingiusto implicante una lesione presunta del
valore giuridico tutelato, la
quantificazione del danno avviene in via
equitativa, tenendo conto dell'ampiezza
dell'inquinamento, della gravità della colpa
individuale e del costo necessario per la
depurazione”, e che lo stesso criterio
equitativo sembrerebbe desumersi (a
contrario) da Tar Lazio 1450/2009 cit. (a
contrario, perché essa ritiene che invece
debba essere effettuata una ricostruzione
analitica del profitto) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.01.2012 n. 145 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di dinieghi di
condono, le specifiche caratteristiche dei
manufatti, nel concreto spazio in cui
insistono, possono consentire al giudice,
cui sia offerto un adeguato supporto
probatorio, di intendere ed eventualmente
approvare (sempre, naturalmente, nei limiti
del sindacato di legittimità) le ragioni del
diniego stesso, per quanto solo compendiate
nel provvedimento.
Fuorviante risulta il richiamo all’orientamento della giurisprudenza
secondo cui il diniego di concessione
edilizia necessita di una motivazione
esplicativa delle reali ragioni impeditive,
da individuarsi nel contrasto del progetto
presentato con specifiche norme
urbanistiche, esplicitamente indicate.
Invero, se la ratio sottesa a tale indirizzo
è quella di consentire al richiedente di
conoscere le reali ragioni del diniego là
dove sono possibili più ipotesi normative,
nella specie tale scopo è stato palesemente
raggiunto, posto che il dr. Capitanio -dopo
aver negato, con il primo motivo, di
conoscere la reale ragione ostativa al
condono- ha poi provveduto a contestare (con
la seconda doglianza) la fondatezza del
diniego in relazione alla sussistenza del
carattere di pertinenzialità della
struttura, risultando incontroverso che la
struttura intesa come autonoma non era
ammessa a condono.
Inoltre, va condiviso l’indirizzo
giurisprudenziale (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 24.01.2009, n. 151; Sez. II,
27.05.2009 n. 1624) secondo il quale, in
materia di dinieghi di condono, le
specifiche caratteristiche dei manufatti,
nel concreto spazio in cui insistono,
possono consentire al giudice, cui sia
offerto un adeguato supporto probatorio, di
intendere ed eventualmente approvare
(sempre, naturalmente, nei limiti del
sindacato di legittimità) le ragioni del
diniego stesso, per quanto solo compendiate
nel provvedimento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.01.2012 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
nozione di pertinenza, in materia edilizia,
è più ristretta di quella civilistica ed è
riferibile solo a manufatti tali da non
alterare in modo significativo l'assetto del
territorio, cioè di dimensioni modeste e
ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono.
La giurisprudenza richiede che dette opere,
per loro natura, risultino funzionalmente ed
esclusivamente inserite al servizio di un
manufatto principale, siano prive di
autonomo valore di mercato e non valutabili
in termini di cubatura (o comunque dotate di
volume minimo e trascurabile), in modo da
non poter essere utilizzate autonomamente e
separatamente dal manufatto cui accedono.
La strumentalità non può mai desumersi dalla
destinazione soggettivamente data dal
proprietario e devono comportare una
circoscritta incisione sul cd. “carico
urbanistico”.
La norma regionale -pur non fornendo una
definizione del concetto di pertinenzialità,
sicché deve farsi riferimento al concetto,
generalmente accettato, di pertinenza in
materia edilizia- ha cura di specificare che
le strutture pertinenziali debbono essere
“prive di funzionalità autonoma”.
La proporzionalità del manufatto accessorio
rispetto a quello principale non può
costituire l’unico criterio di giudizio,
dovendo in concomitanza operare anche il
criterio oggettivo, dato che, in caso
contrario, si perverrebbe a riconoscere
carattere pertinenziale a qualsiasi nuova
costruzione, in palese contrasto con la
ratio sottesa alla norma regionale
Al
riguardo va rilevato (cfr. TAR Brescia Sez.
I, 01.07.2010 n. 2408) che:
- la nozione di pertinenza, in materia
edilizia, è più ristretta di quella
civilistica ed è riferibile solo a manufatti
tali da non alterare in modo significativo
l'assetto del territorio, cioè di dimensioni
modeste e ridotte rispetto alla cosa cui
ineriscono.
- la giurisprudenza richiede (cfr. Cons. St.
Sez. IV, 17.05.2010 n. 3127 e precedenti
ivi richiamati) che dette opere, per loro
natura, risultino funzionalmente ed
esclusivamente inserite al servizio di un
manufatto principale, siano prive di
autonomo valore di mercato e non valutabili
in termini di cubatura (o comunque dotate di
volume minimo e trascurabile), in modo da
non poter essere utilizzate autonomamente e
separatamente dal manufatto cui accedono.
- la Sezione (cfr. TAR Brescia 11.01.2006 n.
32) ha sottolineato che la strumentalità non
può mai desumersi dalla destinazione
soggettivamente data dal proprietario e
devono comportare una circoscritta incisione
sul cd. “carico urbanistico”.
- la norma regionale -pur non fornendo una
definizione del concetto di pertinenzialità,
sicché deve farsi riferimento al concetto,
generalmente accettato, di pertinenza in
materia edilizia- ha cura di specificare
che le strutture pertinenziali debbono
essere “prive di funzionalità autonoma”.
- la proporzionalità del manufatto
accessorio rispetto a quello principale non
può costituire l’unico criterio di giudizio,
dovendo in concomitanza operare anche il
criterio oggettivo, dato che, in caso
contrario, si perverrebbe a riconoscere
carattere pertinenziale a qualsiasi nuova
costruzione, in palese contrasto con la
ratio sottesa alla norma regionale
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.01.2012 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Rientrano
nella materia espropriativa non solo le
controversie che abbiano per oggetto i
provvedimenti emanati nel corso di un
ordinario procedimento espropriativo, tra i
quali in particolare quelli recanti la
dichiarazione di pubblica utilità, ma anche
quelle che hanno per oggetto i provvedimenti
di acquisizione sanante (in precedenza
previsti e disciplinati dall’art. 43 del d.P.R. n. 327/2001, ed oggi previsti e
disciplinati, dopo la dichiarazione di
incostituzionalità della predetta norma,
dall’art. 42-bis dello stesso d.P.R.) ai
quali non può essere negata valenza
espropriativa.
Invero, secondo la prevalente
giurisprudenza, rientrano in tale materia
non solo le controversie che abbiano per
oggetto i provvedimenti emanati nel corso di
un ordinario procedimento espropriativo, tra
i quali in particolare quelli recanti la
dichiarazione di pubblica utilità, ma anche
quelle che hanno per oggetto i provvedimenti
di acquisizione sanante (in precedenza
previsti e disciplinati dall’art. 43 del
d.P.R. n. 327/2001, ed oggi previsti e
disciplinati, dopo la dichiarazione di
incostituzionalità della predetta norma,
dall’art. 42-bis dello stesso d.P.R.) ai
quali non può essere negata valenza
espropriativa (cfr. Consiglio di Stato, sez.
IV, 26.11.2009 n. 7446; TAR Sicilia
Palermo, sez. III, 07.06.2010, n. 7237)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 30.01.2012 n. 322 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Per
fondare l’interesse al ricorso in relazione
alle censure afferenti la V.A.S. occorre
fornire la dimostrazione che i lamentati
vizi della V.A.S. stessa abbiano inciso in
modo diretto e determinante sulle scelte
specificamente riguardanti le aree dei
ricorrenti, traendo da ciò la logica
conseguenza che dette scelte avrebbero
potuto essere differenti ove si fosse
proceduto ad una nuova V.A.S. emendata dei
ridetti vizi.
Ad avviso del Collegio, alla luce della
più recente impostazione giurisprudenziale,
incline a porre forti limiti alla
configurabilità anche dell’interesse cd.
strumentale all’impugnazione dello strumento
urbanistico, neppure l’esistenza di siffatto
interesse sotteso alla riedizione della
procedura di V.A.S. può essere ritenuta
sufficiente ad integrare la condizione
dell’azione qui contestata.
Ciò, sul presupposto che, in subiecta
materia, l’interesse al ricorso non può
sostanziarsi in un generico interesse a una
migliore pianificazione dei suoli di propria
spettanza, che in quanto tale non si
differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo
potrebbe nutrire.
Per evitare di pervenire a una legitimatio
generalis … occorre che le “determinazioni
lesive” fondanti l’interesse a ricorrere
siano effettivamente “condizionate”, ossia
causalmente riconducibili in modo decisivo,
alle preliminari conclusioni raggiunte in
sede di V.A.S., e pertanto l’istante avrebbe
dovuto precisare come e perché tali
conclusioni nella specie abbiano svolto un
tale ruolo decisivo sulle opzioni relative
ai suoli di sua proprietà, ciò che non ha
fatto.
Come evidenziato dal Consiglio di Stato nella sentenza del
12.01.2011 n. 133, che ha riformato la su
richiamata pronuncia di questo TAR, per
fondare l’interesse al ricorso in relazione
alle censure afferenti la V.A.S. occorre
fornire la dimostrazione che i lamentati
vizi della V.A.S. stessa abbiano inciso in
modo diretto e determinante sulle scelte
specificamente riguardanti le aree dei
ricorrenti, traendo da ciò la logica
conseguenza che dette scelte avrebbero
potuto essere differenti ove si fosse
proceduto ad una nuova V.A.S. emendata dei
ridetti vizi.
Ad avviso del Collegio, alla luce della
più recente impostazione giurisprudenziale,
incline a porre forti limiti alla
configurabilità anche dell’interesse cd.
strumentale all’impugnazione dello strumento
urbanistico, neppure l’esistenza di siffatto
interesse sotteso alla riedizione della
procedura di V.A.S. può essere ritenuta
sufficiente ad integrare la condizione
dell’azione qui contestata.
Ciò, sul presupposto che, in subiecta
materia, l’interesse al ricorso non può
sostanziarsi in un generico interesse a una
migliore pianificazione dei suoli di propria
spettanza, che in quanto tale non si
differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire (cfr.
Consiglio di Stato 12.01.2011 n. 133, cit;
nonché, id. 12.10.2010 n. 7439; id.
13.07.2010 n. 4542; id. 06.05.2010 n. 2629;
nonché, sempre in tema di legittimazione e
interesse al ricorso, la decisione
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato, del 07.04.2011 n. 4).
Applicando tali coordinate ermeneutiche
al caso di specie, ne deriva che, non
soltanto, non risulta fornita alcuna
dimostrazione dell’incidenza dei vizi
afferenti la V.A.S. rispetto alla
pianificazione avente ad oggetto le aree dei
ricorrenti ma altresì che, a conferma del
predetto assunto, le censure specificamente
volte a contestare il regime dei suoli di
proprietà degli esponenti sono, come si
illustrerà di seguito, tutte destituite di
fondamento..
Merita, pertanto, di essere
preliminarmente condivisa, la tesi
resistente, secondo cui l’inammissibilità
dei gravami, in parte qua, consegue alla
mancata dimostrazione del se e in quale
misura le doglianze relative alla fase di
V.A.S. incidano sul “regime” riservato ai
suoli di proprietà dei ricorrenti.
Al riguardo il Collegio non può che fare
proprio l’insegnamento espresso dal
Consiglio di Stato nella decisione n.
133/20111 cit., per cui: <<per evitare di
pervenire a una legitimatio generalis …
occorre che le “determinazioni lesive”
fondanti l’interesse a ricorrere siano
effettivamente “condizionate”, ossia
causalmente riconducibili in modo decisivo,
alle preliminari conclusioni raggiunte in
sede di V.A.S., e pertanto l’istante avrebbe
dovuto precisare come e perché tali
conclusioni nella specie abbiano svolto un
tale ruolo decisivo sulle opzioni relative
ai suoli di sua proprietà, ciò che non ha
fatto>>
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
27.01.2012 n.
297 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte effettuate dall'Amministrazione
nell'adozione degli strumenti urbanistici
costituiscono apprezzamenti di merito, come
tali sottratti al sindacato di legittimità,
salvo che non siano inficiate da errori di
fatto o da abnormi illogicità. Per tale via,
anche la destinazione data alle singole aree
non necessita di apposita motivazione, oltre
quella che si può evincere dai criteri
generali, di ordine tecnico discrezionale,
seguiti nell'impostazione del piano stesso,
salvo che particolari situazioni, nel caso
di specie non allegate, non abbiano creato
aspettative o affidamenti in favore di
soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifiche considerazioni.
L''attribuzione di una destinazione agricola
ad un determinato terreno è volta non tanto
e non solo a garantire il suo effettivo
utilizzo a scopi agricoli, quanto piuttosto
a preservarne le caratteristiche attuali di
zona di salvaguardia da ogni possibile nuova
edificazione, anche in funzione conservativa
di valori naturalistici, nonché a favorire
il recupero di aree dismesse o
congestionate.
---------------
Il potere di pianificazione urbanistica
riveste un carattere ampiamente
discrezionale, e si concretizza in scelte
che, nel merito, appaiono insindacabili e
che sono per ciò stesso attaccabili solo per
errori di fatto, per abnormità e
irrazionalità.
In ragione di tale discrezionalità,
l'Amministrazione non è tenuta a fornire
apposita motivazione in ordine alle scelte
operate nella predetta sede di
pianificazione del territorio comunale, se
non richiamando le ragioni di carattere
generale che giustificano l'impostazione del
piano.
Ne consegue che le scelte adottate per ciò
che attiene la destinazione di singole aree
non necessitano di una specifica
motivazione, se non nel caso in cui esse
vadano ad incidere negativamente su
posizioni giuridicamente differenziate,
rispetto alle quali il principio della
tutela dell'affidamento impone che lo
strumento urbanistico dia conto del modo in
cui sia stata effettuata la ponderazione
degli interessi pubblici e siano state
operate le scelte di pianificazione,
rendendole, così, sindacabili davanti al
giudice amministrativo.
Ciò che si verifica solo nei casi in cui la
nuova destinazione urbanistica innovi
rispetto alla precedente, incidendo con ciò
su singole posizioni, connotate da una
fondata aspettativa alla conservazione della
destinazione dell'area, che per questo si
differenziano dalle posizioni degli altri
soggetti interessati.
In tali evenienze, l'Amministrazione ha il
dovere di valutare attentamente
l'opportunità di una modifica della
precedente destinazione urbanistica
dell'area e, dove ritenga di doverla
diversamente disciplinare, sacrificando gli
interessi dei soggetti coinvolti, deve
indicare le ragioni che l’hanno indotta a
tale nuova scelta pianificatoria.
Le situazioni che, per costante
giurisprudenza, vengono riconosciute
meritevoli di questa particolare forma di
tutela sono, infatti, solo quelle
caratterizzate da un affidamento
«qualificato», presente nei casi di:
a) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 —
con l'avvertenza che la motivazione
ulteriore va riferita esclusivamente alle
previsioni urbanistiche complessive di
sovradimensionamento, indipendentemente dal
riferimento alla destinazione di zona di
determinate aree;
b) lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da
convenzioni di lottizzazione, accordi di
diritto privato intercorsi tra il Comune e i
proprietari delle aree, dalle aspettative
nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di permesso di costruire o di
silenzio-rifiuto su una domanda di
concessione;
c) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area
limitata, interclusa da fondi edificati in
modo non abusivo.
Come
ripetutamente affermato in giurisprudenza
(da ultimo anche con la più volte citata
sentenza n. 133/2011), le scelte effettuate
dall'Amministrazione nell'adozione degli
strumenti urbanistici costituiscono
apprezzamenti di merito, come tali sottratti
al sindacato di legittimità, salvo che non
siano inficiate da errori di fatto o da
abnormi illogicità. Per tale via, anche la
destinazione data alle singole aree non
necessita di apposita motivazione, oltre
quella che si può evincere dai criteri
generali, di ordine tecnico discrezionale,
seguiti nell'impostazione del piano stesso,
salvo che particolari situazioni, nel caso
di specie non allegate, non abbiano creato
aspettative o affidamenti in favore di
soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifiche considerazioni.
Con precipuo riguardo alla fattispecie
in esame, giova anche osservare che, sempre
secondo la prevalente giurisprudenza (cfr.
fra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV,
15.09.2010, n. 6874; id. 30.12.2008, n. 6600; id n. 3559/2004; id. n.
4466/2004; id. n. 1181/2003, id. n.
8146/2003; id. n. 3817/2002 e n. 6177/2000),
l'attribuzione di una destinazione agricola
ad un determinato terreno è volta non tanto
e non solo a garantire il suo effettivo
utilizzo a scopi agricoli, quanto piuttosto
a preservarne le caratteristiche attuali di
zona di salvaguardia da ogni possibile nuova
edificazione, anche in funzione conservativa
di valori naturalistici, nonché a favorire
il recupero di aree dismesse o congestionate
(cfr. di recente, in termini, anche TAR
Campania Salerno, sez. II, 17.02.2011,
n. 255).
---------------
Giova
rammentare come, per consolidata opinione
dottrinale e giurisprudenziale, il potere di
pianificazione urbanistica rivesta un
carattere ampiamente discrezionale, e si
concretizzi in scelte che, nel merito,
appaiono insindacabili e che sono per ciò
stesso attaccabili solo per errori di fatto,
per abnormità e irrazionalità (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.02.2011, n. 1015, ove si ribadisce
come dette scelte urbanistiche per la
disciplina del territorio possano formare
oggetto di sindacato giurisdizionale nei
soli casi di arbitrarietà, irrazionalità o
irragionevolezza ovvero di palese
travisamento dei fatti, che costituiscono i
limiti della discrezionalità amministrativa;
analogamente, Consiglio di Stato, Sez. III,
17.09.2010, n. 2536; id. Sez. IV, 27.07.2010 n. 4920; id., 21.04.2010, n.
2264; id., 18.06.2009, n. 4024; id., 06.02.2002 n. 664).
In ragione di tale discrezionalità,
l'Amministrazione non è tenuta a fornire
apposita motivazione in ordine alle scelte
operate nella predetta sede di
pianificazione del territorio comunale, se
non richiamando le ragioni di carattere
generale che giustificano l'impostazione del
piano (cfr. ancora Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.02.2011, n. 1015; id. 10.08.2004 n. 4550).
Ne consegue, come già accennato, che le
scelte adottate per ciò che attiene la
destinazione di singole aree non necessitano
di una specifica motivazione, se non nel
caso in cui esse vadano ad incidere
negativamente su posizioni giuridicamente
differenziate, rispetto alle quali il
principio della tutela dell'affidamento
impone che lo strumento urbanistico dia
conto del modo in cui sia stata effettuata
la ponderazione degli interessi pubblici e
siano state operate le scelte di
pianificazione, rendendole, così,
sindacabili davanti al giudice
amministrativo.
Ciò che si verifica solo nei casi in
cui la nuova destinazione urbanistica innovi
rispetto alla precedente, incidendo con ciò
su singole posizioni, connotate da una
fondata aspettativa alla conservazione della
destinazione dell'area, che per questo si
differenziano dalle posizioni degli altri
soggetti interessati.
In tali evenienze, l'Amministrazione ha il
dovere di valutare attentamente
l'opportunità di una modifica della
precedente destinazione urbanistica
dell'area e, dove ritenga di doverla
diversamente disciplinare, sacrificando gli
interessi dei soggetti coinvolti, deve
indicare le ragioni che l’hanno indotta a
tale nuova scelta pianificatoria.
Le situazioni che, per costante
giurisprudenza, vengono riconosciute
meritevoli di questa particolare forma di
tutela sono, infatti, solo quelle
caratterizzate da un affidamento
«qualificato», presente nei casi di:
a) superamento degli standard minimi di cui
al d.m. 02.04.1968 — con l'avvertenza che
la motivazione ulteriore va riferita
esclusivamente alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla
destinazione di zona di determinate aree;
b)
lesione dell'affidamento qualificato del
privato derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi tra il Comune e i proprietari
delle aree, dalle aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di dinieghi di
permesso di costruire o di silenzio-rifiuto
su una domanda di concessione;
c)
modificazione in zona agricola della
destinazione di un'area limitata, interclusa
da fondi edificati in modo non abusivo (cfr.
in tal senso, ex plurimis, Consiglio di
Stato, Sez. IV, 10.02.2009 n. 2418;
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 06.10.2011 n. 2379; TAR Lazio, Roma, Sez. II,
02.03.2011, n. 1950) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
27.01.2012 n.
297 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
c.d. cessione perequativa:
- è alternativa all'espropriazione perché
non prevede l'apposizione di un vincolo
pre-espropriativo sulle aree destinate a
servizi pubblici, ma prevede che tutti i
proprietari, sia quelli che possono
edificare sulle loro aree, sia quelli i cui
immobili dovranno realizzare la “città
pubblica”, partecipino alla realizzazione
delle infrastrutture pubbliche attraverso
l'equa ed uniforme distribuzione di diritti
edificatori indipendentemente dalla
localizzazione delle aree per attrezzature
pubbliche e dei relativi obblighi nei
confronti del Comune;
- si caratterizza per il fatto che il
terreno da trasferire al comune sviluppa
volumetria propria (espressa, appunto
dall'indice di edificabilità territoriale
che gli viene attribuito) che, però, può
essere realizzata solo sulle aree su cui
deve concentrarsi l'edificabilità (aree alle
quali è attribuito un indice urbanistico
adeguato a ricevere anche la cubatura
proveniente dai terreni oggetto di
cessione).
Ne consegue che la perequazione è bensì
finalizzata ad attenuare le disuguaglianze
derivanti dalla pianificazione urbanistica,
ma assicurando al contempo
all'Amministrazione lo strumento per
acquisire, senza oneri, con modalità diverse
dall'esproprio, aree da destinare a scopi di
pubblico interesse.
Il perseguimento di tale fine può, pertanto,
legittimamente risolversi nella sostituzione
della proprietà pubblica a quella privata
sulle aree destinate a servizi pubblici,
senza denotare perciò solo alcun profilo di
illegittimità, trattandosi di un effetto
riconducibile, in parte all’esercizio del
potere conformativo e, per il resto,
all’accordo tra p.a. e privato in sede di
pianificazione di dettaglio.
---------------
E’ noto come la perequazione urbanistica
rappresenti un mezzo ideato per superare, o
se si vuole, attenuare l’intrinseca
discriminatorietà che caratterizza la
funzione pianificatoria nel suo inevitabile
estrinsecarsi in una disciplina
necessariamente disuguagliante delle
potenzialità di impiego dei suoli e
conseguentemente del loro valore economico.
Di siffatto metodo perequativo si rinviene
un sicuro fondamento nell’art. 3 della
Costituzione, allorché se ne valorizzi
proprio lo scopo di attenuazione delle
disuguaglianze create dalla pianificazione.
In ogni caso, l’istituto perequativo della
cessione di aree, pur in assenza di una
specifica previsione normativa, trova il suo
fondamento “in due pilastri fondamentali”
del nostro ordinamento, e cioè nella potestà
conformativa del territorio di cui è
titolare l’Amministrazione nell’esercizio
della propria attività di pianificazione e,
al contempo, nella possibilità di utilizzare
modelli consensuali per il perseguimento di
finalità di interesse pubblico, secondo
quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis,
e 11 della legge n. 241 del 1990
Questo
Tribunale ha già avuto occasione di rilevare
(cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 23.04.2010, n. 1145; id. 17.09.2009
n. 4671) che: <<la c.d. cessione
perequativa:
- è alternativa all'espropriazione perché
non prevede l'apposizione di un vincolo
pre-espropriativo sulle aree destinate a
servizi pubblici, ma prevede che tutti i
proprietari, sia quelli che possono
edificare sulle loro aree, sia quelli i cui
immobili dovranno realizzare la “città
pubblica”, partecipino alla realizzazione
delle infrastrutture pubbliche attraverso
l'equa ed uniforme distribuzione di diritti
edificatori indipendentemente dalla
localizzazione delle aree per attrezzature
pubbliche e dei relativi obblighi nei
confronti del Comune;
- si caratterizza per il fatto che il
terreno da trasferire al comune sviluppa
volumetria propria (espressa, appunto
dall'indice di edificabilità territoriale
che gli viene attribuito) che, però, può
essere realizzata solo sulle aree su cui
deve concentrarsi l'edificabilità (aree alle
quali è attribuito un indice urbanistico
adeguato a ricevere anche la cubatura
proveniente dai terreni oggetto di
cessione)>> (così, TAR Lombardia, Milano,
Sez. II, 23.04.2010, n. 1145 cit.).
Ne consegue che la perequazione è bensì
finalizzata ad attenuare le disuguaglianze
derivanti dalla pianificazione urbanistica,
ma assicurando al contempo
all'Amministrazione lo strumento per
acquisire, senza oneri, con modalità diverse
dall'esproprio, aree da destinare a scopi di
pubblico interesse.
Il perseguimento di tale fine può,
pertanto, legittimamente risolversi nella
sostituzione della proprietà pubblica a
quella privata sulle aree destinate a
servizi pubblici, senza denotare perciò solo
alcun profilo di illegittimità, trattandosi
di un effetto riconducibile, in parte
all’esercizio del potere conformativo e, per
il resto, all’accordo tra p.a. e privato in
sede di pianificazione di dettaglio.
---------------
E’ noto,
ed è stato già rilevato al punto 12.4, come
la perequazione urbanistica rappresenti un
mezzo ideato per superare, o se si vuole,
attenuare l’intrinseca discriminatorietà che
caratterizza la funzione pianificatoria nel
suo inevitabile estrinsecarsi in una
disciplina necessariamente disuguagliante
delle potenzialità di impiego dei suoli e
conseguentemente del loro valore economico
(cfr. la risalente affermazione che si legge
in Consiglio di Stato, Sez. V, 14.04.1981 n. 367, secondo cui la sperequazione
fra terreni posti in zone diverse è
legittima “ove trovi la sua giustificazione
nella natura intrinseca della zona”).
Di siffatto metodo perequativo si rinviene
un sicuro fondamento nell’art. 3 della
Costituzione, allorché se ne valorizzi
proprio lo scopo di attenuazione delle
disuguaglianze create dalla pianificazione.
In ogni caso, come anche da ultimo
evidenziato dalla giurisprudenza
amministrativa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
13.07.2010, n. 4545), l’istituto
perequativo della cessione di aree, pur in
assenza di una specifica previsione
normativa, trova il suo fondamento “in due
pilastri fondamentali” del nostro
ordinamento, e cioè nella potestà conformativa
del territorio di cui è titolare
l’Amministrazione nell’esercizio della
propria attività di pianificazione e, al
contempo, nella possibilità di utilizzare
modelli consensuali per il perseguimento di
finalità di interesse pubblico, secondo
quanto previsto dagli artt. 1, comma 1-bis,
e 11 della legge n. 241 del 1990 (cfr. TAR
Salerno, sez. I, 05.07.2002, n. 670, TAR
Veneto Venezia, sez. I, 19.05.2009, n.
15049) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
27.01.2012 n.
297 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
incombe a carico del Comune l'onere della
previa individuazione dell'effettivo
proprietario dell'area, atteso che
l'ordinanza di demolizione, per
giurisprudenza consolidata nella materia,
può essere legittimamente notificata anche
esclusivamente all'autore materiale
dell'abuso nel caso in cui non corrisponda
con il proprietario dell'area interessata
dai lavori edilizi abusivi.
In tali evenienze, infatti, l'estraneità del
proprietario (o del titolare del diritto
reale) agli abusi edilizi si tradurrà, in
caso di non ottemperanza all’ordine di
riduzione in pristino, nella insuscettività
del provvedimento repressivo e sanzionatorio
a costituire titolo per l'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale dell'area di
sedime sulla quale insiste il bene.
Non incombe a carico del Comune l'onere
della previa individuazione dell'effettivo
proprietario dell'area, atteso che
l'ordinanza di demolizione, per
giurisprudenza consolidata nella materia,
può essere legittimamente notificata anche
esclusivamente all'autore materiale
dell'abuso nel caso in cui non corrisponda
con il proprietario dell'area interessata
dai lavori edilizi abusivi.
In tali evenienze, infatti, l'estraneità del
proprietario (o del titolare del diritto
reale) agli abusi edilizi si tradurrà, in
caso di non ottemperanza all’ordine di
riduzione in pristino, nella insuscettività
del provvedimento repressivo e sanzionatorio
a costituire titolo per l'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale dell'area di
sedime sulla quale insiste il bene (cfr. TAR
Lazio Roma, sez. I, 07.03.2011, n. 2031; TAR
Campania Napoli, sez. VI, 05.03.2010, n.
1317; TAR Umbria Perugia, sez. I,
21.01.2010, n. 24; TAR Campania Napoli, sez.
IV, 28.12.2009, n. 9605; TAR Basilicata
Potenza, sez. I, 17.11.2009, n. 765; Cons.
giust. amm. Sicilia, sez. giurisd.,
02.03.2009, n. 60) (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza
27.01.2012 n.
292 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio non ritiene di potere condividere
la tesi comunale, secondo cui la mancata
comunicazione dell’inizio dei lavori
impedisca l’acquisto di efficacia della
D.I.A. “sia ai fini del relativo
procedimento che risulta mai formalmente
avviato, che ai fini della decorrenza dei
termini previsti dal D.P.R. 06/06/2001 n.
380 e s.m.i..
L’art. 42 della
legge regionale n. 12/2005 prevede, al comma
1, che: “il proprietario dell'immobile o
chi abbia titolo per presentare la denuncia
di inizio attività, almeno 30 giorni
prima dell'effettivo inizio dei lavori,
presenta la denuncia,…”, indi, al comma
6, precisa che: “I lavori oggetto della
denuncia di inizio attività devono essere
iniziati entro un anno dalla data di
efficacia della denuncia stessa ed ultimati
entro tre anni dall'inizio dei lavori...
L'interessato è tenuto a comunicare
immediatamente al comune la data di inizio e
di ultimazione dei lavori, secondo le
modalità indicate nel regolamento edilizio”.
Quest’ultimo, per il Comune di Limbiate,
all’art. 116, co. 3, prevede chiaramente
che: <<A seguito di presentazione di
denuncia di inizio dell’attività l’inizio
dei lavori avviene a partire dal ventesimo
giorno successivo alla presentazione stessa,
fatti salvi eventuali dinieghi sopravvenuti
con provvedimenti motivati>>.
Tenuto conto di tale quadro normativo, il
Collegio non ritiene di potere condividere
la tesi comunale, secondo cui la mancata
comunicazione dell’inizio dei lavori da
parte dell’Immobiliare impedisca l’acquisto
di efficacia della D.I.A. “sia ai fini
del relativo procedimento che risulta mai
formalmente avviato, che ai fini della
decorrenza dei termini previsti dal D.P.R.
06/06/2001 n. 380 e s.m.i.” (così
l’ordinanza impugnata).
In verità, se con l’espressione “procedimento”
l’amministrazione ha inteso riferirsi al
procedimento di verifica della sussistenza
delle “condizioni stabilite”, ex art.
23, co. 6, d.P.R. n. 380/2001, preordinato
all’esercizio del cd. potere inibitorio, non
v’è dubbio che esso si attivi già con la
presentazione della D.I.A., segnando semmai
l’effettivo inizio dei lavori, in
coincidenza del 30° giorno dalla
dichiarazione, il momento conclusivo per
l’esercizio del predetto potere (cfr. TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 07.11.2008, n.
5296, per cui il potere di vigilanza
urbanistico-edilizia, decorsi i 30 giorni,
non deve svolgersi più nelle forme
dell'intervento inibitorio, ma in quelle
della procedura di autotutela di cui agli
artt. 21-quinquies e 21-nonies, l. n. 241
del 1990, come modificata dalla l. n. 15 del
2005).
Un ampio riscontro di tale interpretazione
si rinviene anche nella lettera dell’art. 42
L.R. cit., ove, ai commi 8 e ss., si prevede
che:
“Il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale, ovvero, laddove
costituito, dello sportello unico per
l'edilizia, entro il termine di trenta
giorni dalla presentazione della denuncia di
inizio attività:
a) verifica la regolarità formale e la
completezza della documentazione presentata;
b) accerta che l'intervento non rientri nel
caso di esclusione previsto dall'articolo
41;
c) verifica la correttezza del calcolo del
contributo di costruzione dovuto in
relazione all'intervento.
Il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale, ovvero, laddove
costituito, dello sportello unico per
l'edilizia, qualora entro il termine sopra
indicato di trenta giorni sia riscontrata
l'assenza di una o più delle condizioni
stabilite, notifica all'interessato l'ordine
motivato di non effettuare il previsto
intervento e, in caso di falsa attestazione
del professionista abilitato, informa
l'autorità giudiziaria ed il consiglio
dell'ordine di appartenenza”.
La mancata comunicazione di inizio lavori
può, in realtà, giustificare la declaratoria
di inefficacia della D.I.A., ove si accerti
che entro l’anno dalla dichiarazione non
siano stati effettivamente iniziati i lavori
oggetto dell’intervento dichiarato. Ma tale
non è la situazione che qui occupa, ove non
si contesta il mancato effettivo inizio dei
lavori entro l’anno dalla D.I.A., ma la
mancata comunicazione dell’inizio lavori,
pur tuttavia iniziati.
In tali evenienze, non può ricollegarsi alla
omissione in questione la conseguenza
indicata dal Comune in termini di
inefficacia della D.I.A., non trovando tale
conseguenza alcun riscontro nella succitata
normativa (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza
27.01.2012 n.
292 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: I
termini del procedimento amministrativo
devono essere considerati ordinatori,
qualora non siano dichiarati espressamente
perentori dalla legge.
Ne consegue che un provvedimento
amministrativo non possa essere ritenuto
illegittimo in ragione soltanto della sua
tardività, in assenza della violazione di un
termine espressamente qualificato dalla
legge come perentorio.
Costituisce, infatti, principio generale del
diritto, di cui le previsioni dell'art. 2
della legge n. 241 del 1990 risultano essere
una conferma a livello di normazione
primaria, quello secondo cui i termini del
procedimento amministrativo devono essere
considerati ordinatori, qualora non siano
dichiarati espressamente perentori dalla
legge (così Consiglio di Stato, Sez. VI,
20.04.2006, n. 2195).
Ne consegue che, un provvedimento
amministrativo non possa essere ritenuto
illegittimo in ragione soltanto della sua
tardività, in assenza della violazione di un
termine espressamente qualificato dalla
legge come perentorio (così Consiglio di
Stato, Sez. IV, 03.04.2009, n. 2110).
La violazione dei termini previsti dall’art.
38 della legge regionale n. 12/2005, non
essendo essi previsti come perentori, non
può dare luogo all’invocata illegittimità
dell’azione amministrativa.
Né si può ritenere che gli adempimenti
istruttori disposti dal Comune siano in
violazione del principio di non
aggravamento, occorrendo a tal fine che
l’esponente dimostri (ciò che non risulta
qui accaduto) la superfluità
dell’adempimento richiesto rispetto alle
valutazioni rimesse all’amministrazione ai
fini del rilascio del titolo edilizio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
27.01.2012 n.
291 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
E' illegittimo il decreto di
esproprio adottato dopo la scadenza del
termine finale della procedura
espropriativa.
La giurisprudenza civile ed amministrativa,
dal canto suo, ha sempre considerato
illegittimo il decreto di esproprio adottato
dopo la scadenza del termine finale della
procedura espropriativa (cfr., fra le tante,
Cassazione civile, sez. I, 27.04.2011, n.
9370; TAR Sicilia, Catania, sez. II,
23.12.2011, n. 3184 e TAR Campania, Napoli,
sez. V, 04.05.2010, n. 2509, con la
giurisprudenza ivi richiamata)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
24.01.2012 n.
257 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Risponde di attività di gestione
dei rifiuti non autorizzata l’assessore che
organizza lo stoccaggio dei rifiuti
ricorrendo all’ordinanza urgente “in forma
verbale”.
Così ha deciso la Corte di Cassazione, con
sentenza 23.01.2012 n. 2683,
pronunciandosi nei confronti di un ricorso
presentato da un uomo che, nella sua qualità
di assessore, era stato condannato per il
reato di attività di gestioni rifiuti non
autorizzata ex art. 256, comma 1, lettera
a), del D.Lgs. 152/2006, per aver
autorizzato verbalmente una società di
smaltimento di rifiuti ad utilizzare un’area
del Comune per lo stoccaggio di rifiuti non
pericolosi.
L’imputato, invocando la discriminante
dell’adempimento di un dovere di cui
all’art. 51 c.p., si era difeso sostenendo
che, in sostituzione del sindaco e degli
altri assessori nel periodo feriale, aveva
adottato una ordinanza contingibile ed
urgente per fronteggiare una situazione di
assoluta emergenza, rappresentata
dall’impossibilità di trovare un luogo dove
smaltire i rifiuti raccolti in città.
Debole è sembrata la linea difensiva
dell’assessore alla Suprema Corte, la quale
ha sostenuto che l’invocata discriminante
non potesse operare nel caso di specie a
fronte di un ordine verbale impartito
dall’imputato, atto tanto macroscopicamente
illegittimo da essere giuridicamente
inesistente e certamente non riconducibile
alla categoria delle ordinanze di necessità
ed urgenza. Infatti, l’art. 54, comma 4, del
testo unico sugli enti locali autorizza il
sindaco
o l’assessore che lo sostituisce ad adottare
ordinanze di necessità ed urgenza,
provvedimenti che devono necessariamente
essere dotati di forma scritta e di una
adeguata motivazione (requisiti tra l’altro
richiesti in via generale per tutti gli atti
amministrativi dalla L. 241/1990 e a maggior
ragione necessari in presenza di
provvedimenti urgenti volti a derogare
leggi). La motivazione delle ordinanze di
urgenza deve indicare, inoltre, le ragioni
della ritenuta sussistenza dell’eccezionale
situazione di necessità ed urgenza e della
scelta del particolare strumento di
smaltimento di rifiuti adottato. Infatti, il
potere esercitabile dal sindaco ai sensi
dell’art. 54 presuppone una situazione
pericolo effettivo da esternare con congrua
motivazione che non possa essere affrontata
con nessuna altro tipo di provvedimento e
può essere utilizzato per risolvere una
situazione comunque temporanea e mai per
esigenze prevedibili ed ordinarie (commento
tratto da www.diritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La zona interessata all’attività di
kartodromo è stata classificata in
classe acustica I, senza minimamente
considerare la presenza di tale attività.
Ciò si pone in contrasto con la
giurisprudenza, anche di questa Sezione,
secondo cui “l’avvertita necessità di
salvaguardia per un insediamento
residenziale (…) realizzato in prossimità
della struttura (…) della ricorrente
disattende, infatti, acriticamente le
caratteristiche morfologiche dell’area
interessata, quali consolidatesi nel tempo,
mortificando l’affidamento di quanti abbiano
legittimamente confidato in una tutela
corrispondente a quell’assetto del
territorio, laddove assoggetta quella zona a
limiti di emissione acustica minori,
pregiudicando le esigenze dei soggetti che
operano nel settore (…) ove lo stesso
legislatore ha consentito più elevati
livelli di rumorosità in considerazione
delle esigenze scaturenti dalla natura
dell’attività svolta”.
L’art. 3, comma 2, del D.P.R. n. 304 precisa che “agli autodromi,
alle piste motoristiche di prova e per
attività sportive, non si applica il
disposto dell’articolo 4 del decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri 14.11.1997, recante valori limite
differenziali di immissione”. Il
provvedimento impugnato invece si fonda
invece proprio sul limite differenziale
previsto dall’art. 4 del D.P.C.M. 14.11.1997. Di conseguenza in presenza di
una pista motoristica, il Comune e l’A.R.P.A.
avrebbero dovuto tenere conto dei differenti
limiti differenziali di rumore previsti dal
terzo comma dell’art. 3 del D.P.R. n. 304.
Anche la parte della doglianza che
assume l’illegittimità del piano di
zonizzazione classificante l’area in cui
insiste il kartodromo in classe acustica I
piuttosto che in classe V o VI è fondata.
La zona interessata all’attività di
kartodromo sarebbe stata classificata in
classe acustica I, senza minimamente
considerare la presenza di tale attività.
Ciò si pone in contrasto con la
giurisprudenza, anche di questa Sezione,
secondo cui “l’avvertita necessità di
salvaguardia per un insediamento
residenziale (…) realizzato in prossimità
della struttura (…) della ricorrente
disattende, infatti, acriticamente le
caratteristiche morfologiche dell’area
interessata, quali consolidatesi nel tempo,
mortificando l’affidamento di quanti abbiano
legittimamente confidato in una tutela
corrispondente a quell’assetto del
territorio, laddove assoggetta quella zona a
limiti di emissione acustica minori,
pregiudicando le esigenze dei soggetti che
operano nel settore (…) ove lo stesso
legislatore ha consentito più elevati
livelli di rumorosità in considerazione
delle esigenze scaturenti dalla natura
dell’attività svolta” (TAR Lombardia,
Milano, IV, 05.07.2011, n. 1781) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
23.01.2012 n.
256 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
COMPETENZE GESTIONALI: L’art. 9 della legge 447/1995 attribuisce
espressamente al Sindaco il potere di
adottare ordinanze per il contenimento o
l’abbattimento delle emissioni sonore,
inclusa l’inibitoria parziale o totale di
determinate attività. Si tratta di un potere
sostanzialmente analogo a quello attribuito
al Sindaco dal D.Lgs. 267/2000 (Testo Unico
degli Enti Locali), agli articoli 50 e 54 e
che pertanto deve essere esercitato dal
Sindaco stesso, con esclusione della
competenza dei dirigenti, cui spetta invece
l’adozione di tutti gli atti di gestione del
Comune, ai sensi dell’art. 107 del medesimo
D.Lgs. 267/2000.
Con una
ulteriore censura si assume l’illegittimità
dell’ordinanza impugnata che sarebbe stata
adottata, invece che dal Sindaco, dal
dirigente, non considerandosi la sua natura
di atto contingibile e urgente, secondo la
previsione dell’art. 9 della legge n. 447
del 1995; oltretutto tale provvedimento
sarebbe stato adottato in base a rilievi
fonometrici effettuati molto tempo prima e
non rinnovati in prossimità dell’emanazione
dell’atto di sospensione: ciò ne
dimostrerebbe la non urgenza e la non
attualità.
Anche tale doglianza è fondata.
Con riferimento all’asserita incompetenza
del dirigente ad adottare tale atto, va
richiamata la giurisprudenza della Sezione
secondo cui “l’art. 9 della legge
447/1995 attribuisce espressamente al
Sindaco il potere di adottare ordinanze per
il contenimento o l’abbattimento delle
emissioni sonore, inclusa l’inibitoria
parziale o totale di determinate attività.
Si tratta di un potere sostanzialmente
analogo a quello attribuito al Sindaco dal
D.Lgs. 267/2000 (Testo Unico degli Enti
Locali), agli articoli 50 e 54 e che
pertanto deve essere esercitato dal Sindaco
stesso, con esclusione della competenza dei
dirigenti, cui spetta invece l’adozione di
tutti gli atti di gestione del Comune, ai
sensi dell’art. 107 del medesimo D.Lgs.
267/2000” (TAR Lombardia, Milano, IV,
01.07.2009, n. 4225) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
23.01.2012 n.
256 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
possibilità di ricorrere allo strumento
dell’ordinanza contingibile e urgente è
legata alla sussistenza di un pericolo
concreto e attuale, non fronteggiabile con
gli ordinari strumenti a disposizione
dell’Autorità amministrativa.
La
possibilità di ricorrere allo strumento
dell’ordinanza contingibile e urgente è
legata alla sussistenza di un pericolo
concreto e attuale, non fronteggiabile con
gli ordinari strumenti a disposizione
dell’Autorità amministrativa (cfr. Consiglio
di Stato, V, 10.02.2010, n. 670).
Nel caso di specie, come risulta dal
provvedimento impugnato in via principale,
l’accertamento dell’A.R.P.A. è stato
effettuato in data 22.10.2005 e il
provvedimento comunale è stato adottato il
22.06.2009, ossia a quasi quattro anni
di distanza dal rilievo fonometrico sopra
indicato, cui non hanno fatto seguito
ulteriori e più recenti verifiche ed
attività istruttorie per appurare se la
situazione di inquinamento acustico fosse
ancora sussistente e quale fosse la sua
reale consistenza.
Di conseguenza, in
assenza di una idonea e completa
istruttoria, non si può giustificare e
ritenere legittimo l’utilizzo dello
strumento provvedimentale adottato nel caso
di specie (cfr. TAR Lombardia, Milano, IV,
08.06.2010, n. 1758) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
23.01.2012 n.
256 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’omessa
dichiarazione in ordine all’esistenza di
condanne penali non è da considerarsi di per
sé causa di esclusione (in assenza effettiva
di condanne) sempre che il bando "non
preveda espressamente la pena
dell’esclusione in relazione alla mancata
osservanza delle puntuali prescrizioni sulle
modalità e sull’oggetto delle dichiarazioni
da fornire”.
Analogamente è stata confermata la
doverosità, in difetto di esplicite
previsioni escludenti della lex specialis,
di una valutazione sostanzialistica della
sussistenza delle cause di esclusione.
Allo stato degli atti non consta che alcuno
dei soggetti sopra menzionati sia sprovvisto
dei requisiti morali di cui all'art. 38, non
essendo stato emesso nei loro confronti
alcun provvedimento penale, ciò che in ogni
caso la stazione appaltante accerterà
d'ufficio in conformità alla normativa
vigente, prima della stipula del contratto,
ex art. 38, comma 3, del D.Lgs. n. 163/2006.
Quanto alla lex specialis, come sopra
testualmente riportata, la stessa non
sanzionava "a pena di esclusione", la
mera incompletezza delle produzioni
documentali ivi indicate, ma solo la non
veridicità delle dichiarazioni rilasciate ("qualora
in sede di accertamento della veridicità dei
requisiti attestati in sede di domanda di
partecipazione e comprovati in sede di
offerta, emerga la non veridicità delle
dichiarazioni rese, e/o non risulti
comprovato il possesso dei requisiti
previsti ai fini della partecipazione alla
gara, il concorrente verrà escluso dalla
gara").
Il Collegio ritiene pertanto applicabile al
caso di specie i principi espressi nella
sentenza del Consiglio di Stato - Sez. IV
01.04.2011, n. 2066, con cui, dopo esser
stato dato atto dell’esistenza di contrasti
giurisprudenziali in ordine alle conseguenze
derivanti dal cosiddetto “falso innocuo”
(mancata allegazione dell’attestazione
dell’esistenza di condanne penali per i
soggetti indicati, a fronte di inesistenza
di tali condanne), tra un orientamento “sostanzialista”
ed altro più rigoroso, è stato affermato che
l’omessa dichiarazione in ordine
all’esistenza di condanne penali non è da
considerarsi di per sé causa di esclusione
(in assenza effettiva di condanne) sempre
che il bando, come avviene nel caso di
specie, “non preveda espressamente la
pena dell’esclusione in relazione alla
mancata osservanza delle puntuali
prescrizioni sulle modalità e sull’oggetto
delle dichiarazioni da fornire”.
Analogamente la sentenza della Sez. V
24.11.2011, n. 6240 ha confermato la
doverosità, in difetto di esplicite
previsioni escludenti della lex specialis,
di una valutazione sostanzialistica della
sussistenza delle cause di esclusione. Non è
pertanto dirimente il richiamo fatto alla
sentenza di questo TAR Sez. III 01.03.2011,
n. 599, che appare coerente con le dette
pronunce del Consiglio di Stato, essendo
stato ivi affermato espressamente che
l'omessa menzione del Direttore tecnico
cessato non può considerarsi un falso
innocuo “perché contrasta con una
specifica prescrizione disposta dalla lex
specialis a pena della esclusione”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
23.01.2012 n.
248 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Laddove
una determinazione amministrativa di segno
negativo tragga forza da una pluralità di
ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé
idonea a supportarla in modo autonomo, è
sufficiente che anche una sola di esse passi
indenne alle censure mosse in sede
giurisdizionale perché il provvedimento nel
suo complesso resti esente
dall'annullamento.
In conclusione le ordinanze impugnate erano
almeno in parte fondate e pertanto non
possono essere annullate; infatti, soccorre
in merito il fondamentale principio
giurisprudenziale secondo il quale, laddove
una determinazione amministrativa di segno
negativo tragga forza da una pluralità di
ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé
idonea a supportarla in modo autonomo, è
sufficiente che anche una sola di esse passi
indenne alle censure mosse in sede
giurisdizionale perché il provvedimento nel
suo complesso resti esente dall'annullamento
(cfr. per tutte Consiglio di Stato,
4243/2010; 6301/2004, TAR Campania
1966/2011)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
17.01.2012 n.
162 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
titolo superiore può ritenersi assorbente di
quello inferiore, con conseguente
possibilità di partecipazione ai concorsi
pubblici per i quali sia prescritto il
possesso di quest’ultimo, allorché le
materie di studio del primo comprendono, con
un maggiore livello di approfondimento,
quelle del secondo.
Giova pertanto richiamare quell’indirizzo
giurisprudenziale secondo il quale il titolo
superiore può ritenersi assorbente di quello
inferiore, con conseguente possibilità di
partecipazione ai concorsi pubblici per i
quali sia prescritto il possesso di
quest’ultimo, allorché le materie di studio
del primo comprendono, con un maggiore
livello di approfondimento, quelle del
secondo (si vedano, sul punto, TAR Abruzzo,
Pescara, sez. I, 09.05.2008, n. 463,
sull’assorbimento del diploma di geometra
nella laurea in architettura e TAR Sicilia,
Catania, sez. IV, 21.06.2007, n. 1063,
sull’assorbimento del titolo di tecnico di
laboratorio nella laurea in scienze
biologiche)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
17.01.2012 n.
159 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Risulta
carente di motivazione il diniego di
concessione in sanatoria fondato su un
generico contrasto dell’opera con leggi o
regolamenti in materia edilizia, dovendo
invece il diniego stesso soffermarsi sulle
disposizioni che si assumano ostative al
rilascio del titolo e sulle previsioni di
riferimento contenute negli strumenti
urbanistici, in modo da consentire
all’interessato da un lato di rendersi conto
degli impedimenti che si frappongono alla
regolarizzazione ed al mantenimento
dell’opera abusiva, dall’altro di confutare
in giudizio, in maniera pienamente
consapevole ed esaustiva, la legittimità del
provvedimento impugnato.
Il provvedimento impugnato si limita a
negare le sanatorie perché “non sono
conformi al piano di lottizzazione”.
Tale sintetica motivazione rende illegittimo
il provvedimento impugnato, tenuto conto che
secondo la giurisprudenza consolidata
risulta “carente di motivazione il
diniego di concessione in sanatoria fondato
su un generico contrasto dell’opera con
leggi o regolamenti in materia edilizia,
dovendo invece il diniego stesso soffermarsi
sulle disposizioni che si assumano ostative
al rilascio del titolo e sulle previsioni di
riferimento contenute negli strumenti
urbanistici, in modo da consentire
all’interessato da un lato di rendersi conto
degli impedimenti che si frappongono alla
regolarizzazione ed al mantenimento
dell’opera abusiva, dall’altro di confutare
in giudizio, in maniera pienamente
consapevole ed esaustiva, la legittimità del
provvedimento impugnato” (TAR Liguria,
I, 11.07.2011, n. 1086)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
17.01.2012 n.
153 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Ampia discrezionalità del Comune
sulla destinazione dei suoli.
Con riguardo al
contenuto ed alle motivazioni delle scelte
urbanistiche va richiamato il consolidato
indirizzo giurisprudenziale in ordine
all'ampia discrezionalità che connota le
scelte della PA in ordine alla destinazione
dei suoli in sede di pianificazione generale
del territorio, tali da non richiedere una
particolare motivazione al di là di quella
ricavabile dai criteri e principi generali
che ispirano il PRG.
Ne consegue che, di certo, un'aspettativa
giuridicamente tutelabile non può discendere
dalla pregressa destinazione del suolo e
nemmeno dalla mera circostanza che, come
nella specie, la società istante avesse
presentato una proposta di lottizzazione,
mai esaminata dal Comune.
Il "Piano delle Certezze" si pone
rispetto al previgente PRG del Comune di
Roma (1965) non già come una variante
generale, ma come una forma di intervento
circoscritta alle aree in quella fase
individuate come soggette a pressanti
esigenze di tutela paesaggistica e
ambientale.
Con tale strumento si riteneva
indispensabile, in funzione parzialmente
anticipatoria del nuovo strumento
urbanistico in itinere, modificare la
destinazione di dette aree, rinviando alla
definitiva approvazione del Nuovo PRG le
complete ed esaustive scelte di fondo sul
territorio comunale.
Tale essendo la situazione, è evidente che,
nel caso in esame, il silenzio mantenuto
dalla variante de qua sui suoli in proprietà
della società appellante non implica affatto
che per essi, sulla base di una rinnovata
istruttoria, fosse stata confermata la
pregressa destinazione urbanistica, ma
significa semplicemente che gli stessi non
erano stati per nulla presi in
considerazione dalla variante, con la
conseguenza che il permanere dell'originaria
vocazione edificatoria non escludeva affatto
il potere della PA di imprimervi una nuova e
diversa destinazione nell'ambito del Nuovo
PRG.
Né può condividersi l'impostazione secondo
cui, una volta non ricompresi i suoli de
quibus fra quelli assoggettati a tutela
nell'ambito del "Piano delle certezze",
vi sarebbe stata una sorta di consumazione
del relativo potere in capo alla PA,
restando precluse ulteriori scelte
limitative dell'edificabilità delle aree.
Ciò in ragione del pacifico indirizzo
secondo cui in sede di pianificazione
generale ben possono essere soddisfatte,
attraverso l'attribuzione di destinazioni
limitative o preclusive dell'edificazione,
esigenze di contenimento dell'espansione
dell'abitato nonché di salvaguardia di
valori paesaggistici e ambientali, in vista
del perseguimento di obiettivi di
miglioramento della vivibilità del
territorio comunale (commento tratto da
www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.01.2012
n. 119 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Antenne tv, non serve
l'unanimità.
Per intervenire su un servizio comune basta
la maggioranza. La Cassazione: occorre
evitare la paralisi gestionale condominiale,
nei limiti dei diritti dei singoli.
Per rimuovere l'antenna centralizzata del
condominio basta la maggioranza assembleare.
La delibera che stabilisca lo smantellamento
dell'impianto non impedisce, infatti, il
godimento individuale di un bene comune, ma
dispone semplicemente di interrompere il
relativo servizio.
Lo ha chiarito la seconda
sezione civile della Corte di Cassazione,
Sez. II civile, con
la
sentenza 11.01.2012 n. 144.
I fatti di causa. Nel caso in questione un
condomino si era rivolto al giudice di pace
di Roma per ottenere la condanna del
condominio al ripristino di un'antenna
centralizzata, esistente fin dal 1970. Il
giudice di prime cure, con sentenza del
2002, non aveva accolto la domanda e questo
aveva spinto il proprietario a presentare
appello al tribunale capitolino.
Tuttavia
anche detto giudice, con sentenza del 2004,
aveva rigettato l'istanza, confermando la
decisione del giudice di pace. Il tribunale
aveva infatti ritenuto che l'assemblea
condominiale, nel deliberare negativamente
su un ordine del giorno relativo
all'installazione o all'eventuale
adeguamento dell'antenna centralizzata,
avesse agito conformemente all'esercizio dei
propri poteri, con una decisione che di
conseguenza risultava essere efficace e
vincolante nei confronti di tutti i
condomini. Il condomino in questione, non
soddisfatto dell'esito processuale, aveva
quindi deciso di giocare l'ultima carta,
depositando ricorso in Cassazione e
lamentando l'invalidità della delibera
impugnata per avere disposto a maggioranza
di un bene o servizio comune, laddove al
contrario sarebbe stata necessaria
l'unanimità dei consensi.
A tale riguardo il
condomino ricorrente aveva menzionato vari
precedenti della medesima Suprema corte, sia
in relazione all'affermazione che i diritti
di ciascun condomino sulle parti comuni non
possono essere lesi da delibere assembleari
(sentenza n. 5369/1997), sia in merito alla
nullità delle delibere concernenti
innovazioni lesive dei diritti di ciascun
condomino su cose o servizi comuni (sentenza
n. 2288/1980) e delle delibere che
stabiliscano a maggioranza di non eseguire i
lavori di manutenzione e di adattamento di
un impianto comune, posto che tale rifiuto
impedisce l'uso stesso dell'impianto e
conseguentemente menoma i diritti di tutti i
condomini (sentenza n. 1302/1998).
La decisione della Corte di cassazione.
Anche la Suprema Corte ha infine rigettato
la domanda del condomino che si riteneva
leso nei propri diritti dall'approvazione a
maggioranza di una delibera assembleare che
stabiliva lo smantellamento dell'antenna
centralizzata condominiale. La difesa del
proprietario aveva puntato tutto sul
carattere di bene comune dell'antenna c.d.
centralizzata e, quindi, sulla base della
normativa codicistica e della
giurisprudenza, si richiamava al principio
per cui un bene comune non può essere
sottratto alla propria destinazione se non
con il consenso di tutti i condomini.
Nella
sentenza in questione i giudici di
legittimità hanno infatti in primo luogo
voluto ricordare come in materia di
condominio siano da ritenersi comuni le
opere, le installazioni e i manufatti di
qualunque genere che servano all'uso e al
godimento di tutti i condomini. A
quest'ultima categoria, secondo la Suprema
corte, vanno ricondotte anche le antenne
c.d. centralizzate, cioè quegli impianti di
trasmissione destinati a servire tutte o,
almeno, più unità immobiliari di proprietà
esclusiva.
Tuttavia, secondo la Suprema corte, pur
trattandosi di beni comuni, bisogna
riconoscere che le attribuzioni
dell'assemblea di condominio riguardano
l'intera gestione di questi ultimi, che deve
necessariamente svolgersi in modo dinamico e
che non potrebbe quindi essere condizionata
dall'ipotetica volontà contraria anche di un
solo condomino. Si tratterebbe,
all'evidenza, di un'interpretazione tale
comportare la paralisi della gestione
condominiale. Nella sentenza in questione si
è dunque chiarito che rientra nei poteri
dell'assemblea quello di disciplinare beni e
servizi comuni, al fine della migliore e più
razionale utilizzazione degli stessi, anche
quando ciò comporti la dismissione o il
trasferimento a terzi dei beni comuni.
L'assemblea, secondo la Cassazione, ha
quindi il potere di modificare, sostituire
o, eventualmente, sopprimere un servizio
comune con deliberazione a maggioranza anche
laddove lo stesso sia stato istituito e
disciplinato dal regolamento condominiale,
purché si rimanga nei limiti della
disciplina delle modalità di svolgimento del
servizio e non si vada a incidere sulla
sfera dei diritti dei singoli condomini
(articolo ItaliaOggi
Sette del 30.01.2012). |
CONDOMINIO:
Le
regole per l'installazione e la dismissione
degli impianti. Veti limitati anche dal
condominio vicino.
Non è raro che all'interno del condominio
sorgano discussioni in merito alla
possibilità del singolo di installare
un'antenna e di eseguire tutte opere
conseguenti (passaggi di fili attraverso le
parti comuni, ancoraggio di sostegni ecc.)
quando esista già un antenna centralizzata
installata dal costruttore.
Vediamo quindi, anche sulla base di quanto
stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. II
civile, nella predetta
sentenza 11.01.2012 n. 144, quali
sono le regole comuni da seguire per
l'installazione e la dismissione di questo
genere di impianti.
Il diritto di antenna del singolo. Secondo
la normativa vigente il proprietario o il
condominio non può opporsi all'appoggio di
antenne, di sostegni, nonché al passaggio di
condutture, fili o qualsiasi altro impianto,
nell'immobile di proprietà occorrente per
soddisfare le richieste di utenza da parte
di colui che abita nello stabile. Tale
diritto ha contenuto personale e, quindi, il
titolare di esso può essere, oltre che il
condomino, anche il conduttore (non spetta a
chi non abita nell'edificio).
Quindi il
singolo condomino (o inquilino) per
collocare l'antenna può utilizzare spazi
condominiali, ma anche la proprietà del
condominio vicino, il quale non potrà
impedire ai tecnici installatori di passare
attraverso i suoi locali, né potrà chiedere
una somma a titolo indennizzo. Se si
rifiuta, è lecito chiedere un provvedimento
d'urgenza al giudice (in base al dlgs n.
259/2003).
Questo significa che la delibera
dell'assemblea condominiale che vieti a un
condomino l'installazione di un'antenna
autonoma, in mancanza di un pregiudizio
concreto all'uso del bene comune, ma per il
solo fatto della presenza di un'antenna
centralizzata, è giuridicamente nulla, con
la conseguenza che il condomino leso può
sempre fare accertare il proprio diritto
all'installazione.
I limiti all'installazione dell'antenna
singola. Il diritto di antenna spettante a
ogni singolo condomino a installare sulle
parti comuni dell'edificio condominiale
un'antenna per la ricezione dei programmi
radiotelevisivi non è illimitato. È vero
infatti che per legge le antenne, i relativi
sostegni, cavi e accessori non devono in
alcun modo impedire il libero uso dei beni
comuni o di quelli del vicino, secondo la
sua destinazione, né arrecare danno al
condominio o ai vicini o a terzi. Tale
diritto, inoltre, va coordinato con la
sussistenza di un'effettiva esigenza di
soddisfare le richieste di tutela degli
inquilini o dei condomini.
In altre parole il diritto di collocare
nell'altrui proprietà antenne televisive è
subordinato all'impossibilità per il
condomino di utilizzare spazi propri, poiché
il diritto all'installazione non comporta
anche quello di scegliere a piacimento il
luogo preferito per collocare l'antenna.
Così, per esempio, non è possibile far
passare i cavi nei locali o nel terrazzo del
vicino se esiste un'alternativa alla loro
collocazione, anche più costosa, nei propri
locali o in uno spazio condominiale che può
servire allo scopo. In ogni caso la
richiesta di far passare i cavi può
riguardare solo un condomino dell'edificio
ma non un soggetto estraneo al caseggiato,
cioè inquilino o condominio di altro
stabile, sia pure confinante. Inoltre si
deve ricordare che è lecita la delibera che
impone ai condomini dove montare l'antenna
onde evitare un uso distorto dei beni
comuni.
Una regolamentazione in sede condominiale
delle antenne va ritenuta ammissibile e
rientrante nei poteri della collettività
condominiale, posto che un libero potere dei
condomini, al riguardo, può generare
limitazioni indebite della cosa comune. Si
tratta, dunque, di reperire un punto di
bilanciamento degli interessi, nel senso che
il diritto del singolo condomino
all'installazione dell'antenna deve essere
consentito, ma con il limite che essa non
arrechi pregiudizio all'uso del bene da
parte degli altri condomini, né produca un
qualsiasi apprezzabile danno alle parti
comuni.
Infine bisogna ricordare che
ulteriori limiti per quanti abitano nei
centri storici possono derivare dalle
amministrazioni comunali che devono
regolamentare le installazioni nei centri
storici. In particolare, nei regolamenti
edilizi più recenti è previsto che le
antenne debbano essere centralizzate (tranne
il caso in cui sia dimostrabile tecnicamente
che un intervento di questo tipo non sia
possibile) e collocate sul tetto in modo da
ridurne l'impatto visivo (quindi nella parte
centrale o sulle falde secondarie opposte
alla pubblica via).
La partecipazione alle spese dell'antenna
comune. Bisogna chiarire che l'installazione
di un'antenna a uso esclusivo di un solo
condomino non lo esime dal partecipare alle
spese per la manutenzione dell'antenna
comune. Infatti, il condomino non può,
rinunziando al diritto di utilizzare
l'antenna centralizzata, sottrarsi al
contributo nelle spese per la sua
conservazione, nelle quali rientrano anche
quelle per l'aggiornamento tecnico (per
ragioni estetiche, di sicurezza, di maggior
rendimento ecc.) o le opere per assicurare
la statica delle antenne, fondamentale per
garantire la qualità della ricezione.
In
sostanza senza una delibera presa
all'unanimità, che stabilisca diversamente,
dovrà continuare a pagare per l'antenna
centrale dalla quale non trae alcuna utilità
(articolo ItaliaOggi
Sette del 30.01.2012). |
ATTI AMMINISTRATIVI - VARI:
Il principio delle Sezioni Unite
in tema di termini e scadenze in giorni
festivi.
Il principio delle Sezioni Unite in tema di
termini e scadenze in giorni festivi:
a) la regola per cui il termine stabilito a
giorni, il quale scade in giorno festivo, è
prorogato di diritto al giorno successivo
non festivo, posta dall’art. 172, comma 3,
cod. proc. pen., si applica anche agli atti
e ai provvedimenti del giudice, e si
riferisce perciò anche al termine per la
redazione della sentenza;
b) nei casi in cui, come nell’art. 585,
comma 2, lett. c), cod. proc. pen., è
previsto che il termine assegnato per il
compimento di una attività processuale
decorra dalla scadenza del termine assegnato
per altra attività processuale, la proroga
di diritto del giorno festivo in cui il
precedente termine venga a cadere al primo
giorno successivo non festivo, determina lo
spostamento altresì della decorrenza del
termine successivo con esso coincidente;
c) tale situazione, tuttavia, non si
verifica ove ricorrano cause di sospensione
quale quella prevista per il periodo feriale
che, diversamente operando per i due
termini, comportino una discontinuità in
base al calendario comune tra il giorno in
cui il primo termine scade e il giorno da
cui deve invece calcolarsi l’inizio del
secondo.
Le Sezioni Unite hanno inoltre statuito che
il diniego di termini a difesa o la
concessione di termini ridotti rispetto a
quelli previsti dall’art. 108, comma primo,
cod. proc. pen., non può dare luogo ad
alcuna nullità quando l’esercizio effettivo
del diritto alla difesa tecnica o di altri
diritti fondamentali dell’imputato non abbia
subito, in assoluto, alcuna lesione o
menomazione (commento tratto da
www.diritto24.ilsole24ore.com - Corte di
Cassazione, Sezz. unite penali,
sentenza 10.01.2012 n. 155 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Aria. Canne fumarie o sistemi di
evacuazione dei prodotti di combustione.
La disciplina vigente in tema di sbocco dei
sistemi di evacuazione dei fumi, oltre a far
salve diverse disposizioni, anche contenute
nei regolamenti edilizi locali, consente una
deroga all’obbligo di carattere generale nel
caso di sostituzione di precedenti impianti
autonomi con nuovi impianti (in sostanza, se
l’impianto da sostituire ha già uno scarico
esterno, che non raggiunge il tetto
dell’edificio, è possibile conservare tale
configurazione senza realizzare lo scarico a
tetto, purché si adotti un generatore di
calore che soddisfi determinate
caratteristiche) (massima tratta da
www.lexambiente.it - Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza
29.12.2011 n. 6978 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Dare del parassita al politico
non è reato se c’è la motivazione.
Definire un politico
“parassita” in un articolo di giornale è
diffamazione?...Non sempre….
Per i giudici della
Suprema Corte di Cassazione sarebbe lecito
dare del parassita ad un politico nel caso
in cui vi sia una valida motivazione; ossia
se si è nella ipotesi in cui si argomenti in
merito ai dati fattuali per cui è lanciato
l’insulto, ci si trova nell’ambito del
diritto di critica. Nel caso in cui, invece,
non vengano date motivazioni all’insulto è
diffamazione.
Così ha sentenziato la Corte di Cassazione,
Sez. V penale, con la
sentenza 28.12.2011 n. 48553.
Il termine parassita può rientrare nei
confini del sopra menzionato diritto di
critica, più ampi rispetto a quelli del
diritto di cronaca, nel quale il requisito
della verità assume il carattere vincolante
che non può essere richiesto quando ci si
sposta nel campo delle opinioni.
Nella decisione in commento i giudici della
Corte precisano che “una opinione non è
vera o falsa, ma vero o falso può essere il
presupposto fattuale sul quale essa poggia”.
Si legge ancora nella sentenza che …….”infine
è vero che un uomo politico è più esposto
del comune cittadino alle critiche e ai
giudizi della opinione pubblica, in ragione
del mandato rappresentativo che ha ricevuto
e, dunque, della necessità di rendere conto
del suo operato; ma non va dimenticato che
la critica è valutazione argomentata di
condotte, espressioni e/o idee”.
I giudici di legittimità hanno riconosciuto
che un politico è sicuramente più esposto di
un “comune cittadino” ai giudizi,
nonché alle critiche dell’opinione pubblica,
in virtù del mandato rappresentativo
ricevuto e anche della necessità di render
conto del proprio operato.
Spiega ancora la Corte che è, quindi,
possibile giustificare quale “espressione
di folclore giornalistico”
l’attribuzione del termine “parassita”
a dei politici.
Necessario, però, affinché non si offenda la
reputazione del diretto interessato, è che
l’espressione sopra menzionata venga
motivata con una serie di ragionamenti (link
a www.altalex.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Attività di sbancamento.
Le opere di sbancamento del terreno
finalizzate ad usi diversi da quelli
agricoli in quanto incidano sul tessuto
urbanistico del territorio, sono
assoggettate a titolo abilitativo edilizio.
Anche in seguito alle modifiche apportate
dal DL 25.03.2010, n. 40, convertito con
modificazioni dalla legge 22.05.2010, n. 73,
l'art. 6, comma 1 - lett. d), del TU n.
380/2001 prevede che nessun titolo
abilitativo è richiesto per i movimenti di
terra soltanto se "strettamente
pertinenti all'esercizio dell'attività
agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali";
il permesso di costruire è invece necessario
nei casi non connessi all'esercizio
dell'agricoltura in cui la morfologia del
territorio venga alterata in conseguenza
delle opere di sbancamento realizzate in
concreto (massima tratta da
www.lexambiente.it - Corte di cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 28.12.2011 n. 48479). |
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