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LOMBARDIA: ANCORA SULLA QUESTIONE DELLA SCIA
E DEL SILENZIO-ASSENSO SULL'ISTANZA DI
PERMESSO DI COSTRUIRE. |
L'ANCI Lombardia ha diffuso, lo scorso 21.10.2011,
la bozza del Pdl “Norme per la valorizzazione del
patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni
in materia urbanistico-edilizia” (testo
19.10.2011) ove, in pratica, si tratta
del cosiddetto PIANO CASA-BIS con altre modifiche
legislative di non poco conto.
Il Pdl non è stato ancora approvato dalla Giunta
Regione e, pertanto, è suscettibile di eventuali
modifiche e/o integrazioni prima di essere posto al
vaglio delle competenti commissioni regionali e,
poi, del Consiglio regionale.
Più volte abbiamo scritto su questo Portale [e,
precisamente
il 06.06.2011,
il 13.07.2011 ed
il
17.10.2011 (nella rubrica UTILITA')] esplicitando le motivazioni per
cui in Lombardia -ad
oggi- non si può applicare in materia edilizia
l'istituto della Scia (Segnalazione certificata di
inizio attività) e non si può applicare l'istituto
del silenzio-assenso alle istanze di permesso di
costruire.
Orbene, la Regione Lombardia col nuovo PIANO CASA-BIS
di cui sopra si accinge a recepire l'istituto del
silenzio-assenso sulle istanze di permesso di
costruire laddove l'art. 14, comma 1, del Pdl così
recita:
"Art.
14 (Procedimento per il rilascio del permesso di
costruire).
1. Ai fini del rilascio del permesso di costruire si
applica la disciplina di cui all’articolo 20 del
d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia) (testo A).".
E l'art. 20 del DPR n. 380/2011 (come sostituito
dall'articolo 5, comma 2, lettera a), legge n.
106/2011) così recita al comma 8:
"8.
Decorso inutilmente il termine per l'adozione del
provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il
responsabile dell'ufficio non abbia opposto motivato
diniego, sulla domanda di permesso di costruire si
intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i
casi in cui sussistano vincoli ambientali,
paesaggistici o culturali, per i quali si applicano
le disposizioni di cui ai commi 9 e 10.".
Ciò premesso,
la bontà delle nostre
argomentazioni sulla NON applicabilità -ad oggi-
dell'istituto del silenzio-assenso trova conferma
e tutti coloro che ancora oggi sostengono il
contrario si devono ricredere senza appello.
Sulla questione, invece, della cosiddetta Scia possiamo
constatare come il Pdl lombardo NULLA dica in
merito, ovverosia NULLA abbia recepito di quanto
disposto dal
noto
D.L. n. 70/2011 convertito con
modificazioni dalla
legge 12.07.2011 n. 106.
Conseguentemente, e per l'ennesima volta, non ci resta
che rimarcare come l'odierno legislatore
nazionale, col decreto-legge de quo, abbia
scritto, nero su bianco, che
"...
Le disposizioni di
cui all’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n.
241 si interpretano nel senso che le stesse si
applicano alle denunce di inizio attività in materia
edilizia disciplinate dal decreto del Presidente
della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380,
con esclusione dei casi in cui le denunce
stesse, in base alla normativa statale o regionale,
siano alternative o sostitutive del permesso di
costruire.".
E se è vero, come è
vero, che in Lombardia la DIA è alternativa al
permesso di costruire senza alcuna limitazione (a
parte i nuovi fabbricati in zona agricola ed i
mutamenti di destinazione d’uso di cui all’art. 52,
comma 3-bis, della L.R. n. 12/2005, assoggettati
unicamente al permesso di costruire) e cioè, in
altri termini, non esistono interventi edilizi che
sono obbligatoriamente soggetti alla DIA, ne
deriva una conclusione evidente, chiara,
incontrovertibile:
in Lombardia NON si può applicare
l'istituto della Scia!!
27.10.2011 - LA SEGRETERIA PTPL |
ENTI LOCALI - VARI:
Bozza provvisoria del decreto
crescita.
In quattro parti, ecco il testo base del
provvedimento del governo su infrastrutture
e sviluppo:
1^ parte -
2^ parte -
3^
parte -
4^ parte
(link a www.lastampa.it). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI:
Manovra-bis: la disciplina dei
servizi pubblici locali - Le società di
proprietà pubblica e i loro dipendenti
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 24.10.2011). |
CORTE DEI
CONTI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Niente tagli al portavoce. Corte
conti Liguria sulla stretta del dl 78/2010.
L'incarico di
portavoce del sindaco, che si colloca
all'interno delle disposizioni previste
dalla legge n.150/2000, rappresenta la
realizzazione di una finalità
dell'amministrazione, che è quella di
assicurare la comunicazione
politica-istituzionale secondo gli indirizzi
stabiliti dal vertice dell'amministrazione
pubblica. Per tale motivo all'indennità
prevista per tale funzione non si applicano
i tagli disposti dall'articolo 6, comma 7,
del dl n. 78/2010.
È quanto ha messo nero su bianco la Corte
dei conti Liguria, nel testo del
parere 19.10.2011 n.
70, rispondendo a un quesito
posto dal comune di Santa Margherita Ligure,
per sapere se tra i tagli alla spesa annua
per studi e consulenze, dovesse rientrare
anche l'indennità prevista per la funzione
di portavoce del sindaco.
Il collegio della Corte ligure ha rilevato
che l'incarico di portavoce non configura
una mera consulenza, ma rappresenta la
realizzazione di una finalità dell'ente,
ovvero quella di assicurare la comunicazione
politica-istituzionale secondo gli indirizzi
stabiliti dal vertice della p.a.
La legge n. 150/2000, infatti, ha immesso
nell'ordinamento il concetto di
comunicazione pubblica, riconoscendo alla
stessa il carattere di risorsa prioritaria e
strutturale, legittimandone e prevedendone
la diffusione in ogni momento e settore
della pubblica amministrazione. Il portavoce
è legato da un totale rapporto fiduciario al
soggetto/organo che egli rappresenta,
collaborando in prima persona nei rapporti
di carattere politico-istituzionale con gli
organi d'informazione e per il suo incarico
non viene previsto un contratto, ma solo
un'indennità stabilita dall'organo di
vertice.
È una figura innovativa, ha proseguito il
collegio, «che coniuga un'elevata
competenza professionale con un rapporto di
fiducia e di appartenenza con il capo
dell'amministrazione, di cui deve essere
capace di comunicare scelte, orientamenti e
strategie».
Tali caratteristiche, pertanto, rendono
evidente che la spesa relativa all'indennità
per il portavoce, esula in realtà dalla
disciplina degli incarichi di studio e di
consulenza di cui all'art. 6, comma 7, del
dl n. 78/2010. Se così non fosse, infatti,
si vanificherebbero gli effetti voluti dalla
legge n. 150/2000, che ha individuato nel
portavoce «una figura precisa di raccordo
con il vertice dell'amministrazione per
assicurare la comunicazione
politica-istituzionale»
(articolo ItaliaOggi del 25.10.2011
- tratto da www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: In
comune dirigenti con la laurea. Il titolo di
studio è essenziale. Anche per i contratti a
termine. La Corte conti stoppa il tentativo
del sindaco di Milano di nominare manager
senza requisiti.
Negli enti locali, la
mancanza del diploma di laurea impedisce lo
svolgimento della funzione di dirigente a
tempo determinato, anche se in presenza dei
requisiti di comprovata esperienza
professionale. Infatti, come prevede
l'articolo 19, comma 6, del dlgs n.
165/2001, il possesso del diploma di laurea
è presupposto inderogabile per il
conferimento di un incarico dirigenziale
negli enti locali, in quanto si tratta di un
requisito di base e necessariamente
propedeutico per l'accesso alla qualifica
dirigenziale.
È quanto ha messo nero su bianco la sezione
regionale di controllo della Corte dei conti
per la Lombardia, nel testo del recente
parere 11.10.2011 n.
504, rispondendo in tal senso a
una richiesta pervenuta dal sindaco di
Milano, Giuliano Pisapia.
L'istanza formulata dal primo cittadino
milanese, infatti, tendeva a conoscere se a
soggetti esterni all'organigramma del
comune, in possesso di particolari e
comprovate qualifiche professionali, con
maturata esperienza in funzioni dirigenziali
per almeno un quinquennio, si potesse
conferire incarichi dirigenziali con
rapporto di lavoro subordinato a tempo
determinato, pur in mancanza del possesso
del diploma di laurea.
A sostegno della possibilità di poter
instaurare tali rapporti, Pisapia ha
rilevato che dalla lettura del citato
articolo 19, comma 6, sembrerebbe che i
requisiti culturali, professionali e di
comprovata esperienza siano tra loro
alternativi. In poche parole, secondo il
titolare di palazzo Marino, soggetti privi
di laurea, ma in possesso di particolari
specializzazioni professionali, culturali o
scientifiche, potrebbero essere incardinati
nei ruoli della dirigenza comunale.
Una fattispecie che ricorda da vicino la
sentenza della Corte dei conti Toscana (si
veda ItaliaOggi del 22 ottobre scorso), che
ha condannato gli amministratori di un
comune per aver conferito la funzione di
direttore generale a un soggetto privo di
laurea, in quanto la mancanza del titolo ha
reso la prestazione lavorativa per l'ente
assolutamente inadeguata. Il collegio della
magistratura contabile non è stato dello
stesso avviso della prospettazione di
Pisapia. Infatti, come disciplinato dal più
volte citato articolo 19, comma 6, del dlgs
n. 165, il requisito del possesso del
diploma di laurea è necessario per il
conferimento di un incarico dirigenziale
negli enti locali, così come nelle altre
amministrazioni che rientrano nell'alveo
delle pubbliche amministrazioni, in quanto «si
tratta di un requisito di base e
necessariamente propedeutico per l'accesso
alla qualifica dirigenziale».
È pur vero, ha rilevato la Corte, che l'art.
110 del Tuel e la disciplina introdotta
dall'art. 19, comma 6, del dlgs n. 165 del
2001, consentono l'accesso di soggetti
particolarmente qualificati alla dirigenza a
tempo, prevedendo che i soggetti che possono
rientrare in questa categoria debbono
possedere alcuni requisiti di specifica
preparazione ed esperienza professionale, ma
occorre evidenziare che «le previsioni
normative in esame non sono sostitutive del
requisito di base del possesso della laurea
ma sono aggiuntive, nel senso che purché in
possesso del diploma di laurea i soggetti
che siano dotati di uno dei requisiti
delineati nell'art. 19, c. 6, possono
ottenere un incarico dirigenziale temporaneo».
Un orientamento che la stessa sezione del
controllo (cfr. parere n. 20/2006), aveva
già espresso, nel senso della necessaria
compresenza di entrambi i presupposti,
diploma di laurea ed esperienza lavorativa,
affinché si possa dar corso al conferimento
degli incarichi dirigenziali
(articolo ItaliaOggi del 25.10.2011
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Mobbing: quando scatta il danno
erariale?
Molto interessante la
sentenza 23.05.2011 n. 2028 della
Sez. siciliana della Corte dei Conti.
Oltre che sui diversi profili processuali, i
giudici si sono soffermati su una
fattispecie di danno erariale relativa ad
un’ipotesi di mobbing da cui è scaturita una
perdita per l’erario per essere stata
l’amministrazione costretta a risarcire il
danno subito dal mobbizzato.
Quando il mobbing è causa
di danno erariale.
In sostanza, il mobbing è causa di danno
erariale nel caso in cui il dipendente “maltrattato”
ottenga dalla sua amministrazione il
risarcimento del danno per le vessazioni
subite dai superiori ovvero nel caso in cui
sia la stessa amministrazione a versare una
somma in via transattiva tacitando le
ulteriori pretese risarcitorie. Il giudice
contabile -pur discostandosi in parte dalla
originaria domanda risarcitoria- ha aderito
alla tesi di fondo e ha accertato che le
somme versate al lavoratore dalla sua
amministrazione (un Comune siciliano) devono
essere rifuse alla stessa dal dirigente che
ha tenuto la condotta mobbizzante.
È questa un’ipotesi di danno indiretto, di
danno cioè prodotto all’amministrazione per
effetto di somme che la stessa è stata
obbligata a versare per colpa di un suo
dipendente a terzi, circostanza che fa
sorgere in capo alla stessa il diritto di
rivalsa, il cui esercizio è affidato alla
procura contabile in veste di sostituto
processuale. Fondamento del diritto di
rivalsa è l’art. 28 della Costituzione, nel
quale è espressamente previsto che “I
funzionari e i dipendenti dello Stato e
degli enti pubblici sono direttamente
responsabili, secondo le leggi penali,
civili e amministrative, degli atti compiuti
in violazione di diritti. In tali casi la
responsabilità civile si estende allo Stato
e agli enti pubblici”.
Tale disposizione sul piano civilistico
introduce una responsabilità solidale,
diretta e paritaria del dipendente e dello
Stato. Ne deriva che il terzo leso può
rivolgersi ad entrambi per esercitare la
pretesa risarcitoria: ma è evidente che
l’azione sarà rivolta più agevolmente nei
confronti dello Stato per ottenere un sicuro
soddisfacimento, considerata la certa
solvibilità della PA. La scelta del
legislatore costituente deve individuarsi
evidentemente nella necessità di dare
massima copertura risarcitoria ai terzi
danneggiati, in considerazione del fatto che
il pubblico dipendente verso l’esterno si
presenta –ed è percepito- come parte
dell’amministrazione (recte, come
l’amministrazione stessa) in cui presta
servizio.
Gli atti a cui fa riferimento l’art. 28
della Carta fondamentale sono gli atti
d’ufficio, intesi in termini di omissioni e
attività che il funzionario o il dipendente
compie nell’esercizio dei poteri che gli
spettano in quanto titolare dell’ufficio. In
questa accezione sono compresi anche gli
atti compiuti “in occasione dell’ufficio”,
in relazione ai quali presupposto necessario
è l’esistenza di un rapporto di servizio fra
l’agente che ne è l’autore e l’ente di cui
questi fa parte.
Ne consegue che l’obbligo di risarcimento
della pubblica amministrazione sorge solo se
intercorre un rapporto di servizio tra
questa e l’agente, che è presupposto
necessario per quella “estensione”
della responsabilità agli enti pubblici di
cui all’art. 28 della Costituzione, e se
l’illecito sia stato commesso nell’esercizio
delle incombenze inerenti al posto
ricoperto.
Come detto, secondo una dottrina autorevole,
in difetto di ogni specificazione normativa,
tra questi vi sarebbe concorrenza
alternativa e, quindi, paritarietà, di tal
che il danneggiato può rivolgersi
(alternativamente o congiuntamente, ma non
cumulativamente) –sempre che ne ricorrano le
condizioni (e sempre che l’agente sia in
colpa perseguibile)– tanto verso l’agente
che verso l’amministrazione, salvo a
quest’ultima il diritto di pretendere a sua
volta dall’agente il ristoro per il
sacrificio patrimoniale subito per
soddisfare l’obbligo di risarcimento da lui
provocato.
Il principio della solidarietà passiva
previsto dalla Carta costituzionale è poi
stato ripreso dagli artt. 22 e seguenti del
Dpr 10.01.1957 n. 3, della cui vigenza non
si dubita neppure dopo la c.d.
privatizzazione del pubblico impiego, in
considerazione del richiamo espresso
effettuato dall’art. 55, comma 2, del Dlgs
30.03.2001 n. 165, come modificato di
recente dal comma 1 dell’art. 68 del Dlgs
27.10.2009 n. 150, secondo cui resta “ferma
la disciplina in materia di responsabilità
civile, amministrativa, penale e contabile”.
Il citato art. 22, inserito nella rubrica “responsabilità
verso terzi”, prevede la personale
responsabilità dell’impiegato che cagioni ad
altro un danno ingiusto, che deve intendersi
il danno derivante da ogni violazione dei
diritti di terzi commessa con dolo o colpa
grave.
È fin troppo evidente la sostanziale
differenza sussistente tra i criteri di
imputazione della responsabilità del
dipendente e quelli di imputazione della
pubblica amministrazione: il primo risponde
solo se si ravvisa almeno la colpa grave, la
seconda anche in caso di colpa ai sensi
dell’art. 2043 c.c. L’innalzamento della
soglia della punibilità per il lavoratore
pubblico risponde alla logica di alleggerire
in generale la responsabilità dei funzionari
e dei dipendenti pubblici.
In tale evenienza, peraltro, l’indagine del
giudice contabile per accertare i fatti
causativi della deminutio patrimonii
non si riduce nell’adesione alle risultanze
del giudicato civile –ove vi sia stato- ma
si basa sempre su una rilettura della
fattispecie al fine di formare un suo libero
convincimento. A parte la differenza sul
piano dell’elemento psicologico, possono
rilevarsi anche forti difformità sulla
quantificazione del danno risarcibile, da
cui deriva che non sempre la rivalsa fa
incassare alla PA quanto ha versato ai terzi
danneggiati.
Nell’azione susseguente di rivalsa per danno
indiretto, il giudice contabile -hanno
stigmatizzato, proprio, i giudici siciliani-
dovrà, al fine di addivenire ad una sentenza
di condanna nei confronti degli
amministratori che hanno agito, individuare
la colpa grave dell’agente pubblico e,
successivamente, al fine di assicurare una
corretta quantificazione della condanna,
dovrà valutare l’eventuale vantaggio
comunque conseguito dall’amministrazione o
dalla comunità di riferimento, con il
comportamento, pur per altri versi dannoso,
da lui tenuto, potendo, inoltre, ricorrere
anche all’applicazione del potere riduttivo.
Non deve essere sottaciuto che il giudice
contabile “ove giunga a pronunce diverse
da quelle prese del giudice ordinario, deve
adeguatamente e puntualmente motivarle,
anche in specifico riferimento alla diversa
ricostruzione, interpretazione o valutazione
dei fatti di causa comuni e del relativo
materiale probatorio” (Corte conti, sez.
III appello, n. 623/2005).
Ne deriva che i due giudici possono giungere
a una diversa conclusione.
Il caso di specie è, appunto, espressione
della richiamata disciplina, poiché la Corte
arriva alla conclusione di ritenere
responsabile del danno il superiore del
dipendente vittima di mobbing per una somma
pari a un terzo di quella versata allo
stesso dall’amministrazione.
I fatti da cui ha tratto
origine il danno erariale.
Era accaduto che la vittima del mobbing, un
impiegato della polizia municipale di un
paese della Sicilia -qualifica D1, vigile
urbano più anziano ed alto in grado al
momento in servizio– si era visto trasferire
più volte e, da ultimo, negare il posto di
comandante dei vigili urbani al momento
della vacanza del posto per le dimissioni
volontarie del titolare ovvero la reggenza
dello stesso che era assegnata ad interim al
segretario generale.
Costui si era rivolto al giudice del lavoro
per essere reintegrato nel suo posto che gli
era stato sottratto e successivamente per
ottenere il riconoscimento del suo diritto
al risarcimento dei danni per condotta, a
suo dire mobbizzante, tenuta nei suoi
confronti dall’amministrazione comunale. Il
ricorso, in cui venivano descritti episodi
di mortificazione, di emarginazione ed
isolamento tenuti nei suoi confronti, era
accolto e l’amministrazione comunale era
condannata al risarcimento dei danni.
Numerose erano state le vessazioni:
- la mancata attribuzione delle funzioni
indicate nella sentenza del giudice del
lavoro;
- la collocazione del dipendente in locali
distaccati rispetto ai colleghi;
- i diversi episodi di mortificazione posti
in essere dei confronti dello stesso,
descritti nella sentenza di condanna per
mobbing;
- mancata inclusione nei turni e nello
svolgimento di mansioni che assicurino la
percezione di diverse indennità.
La Corte d’appello di Catania aveva
riformato la sentenza del primo giudice,
confermando tra l’altro l’impossibilità, già
riconosciuta dal giudice di primo grado, di
rimuovere il vice comandante dei vigili
urbani dalle sue funzioni, e riconoscendo
come unico limite a tale divieto,
l’incompatibilità ambientale, innegabilmente
emersa dai fatti di causa e, pertanto, in
riforma della sentenza di primo grado, aveva
ritenuto legittimo il trasferimento del
dipendente leso.
Il Comune, in ogni caso, aveva deciso di non
impugnare la sentenza di condanna per
mobbing e di addivenire, quindi, ad una
transazione con la parte vincitrice al solo
fine di dilazionare il pagamento,
successivamente avvenuto con l’approvazione
di un debito fuori bilancio.
La decisione del giudice
contabile
La Corte dei conti ha individuato un unico
responsabile, assolvendo il sindaco e il
direttore generale. Come detto, il
responsabile è stato identificato nel
diretto superiore della parte lesa, sulla
scorta di una serie di prove schiaccianti
che hanno permesso di accertare la chiara
volontà di questi di volere vessare il suo
subalterno con l’intento anche di eludere il
giudicato del giudice del lavoro che aveva
disposto la sua reintegrazione.
Altamente probante (e oltremodo
imbarazzante) era stato l’episodio della
riunione appositamente convocata dal
comandante stesso in un bar di un’area di
servizio al fine di informare, in un luogo
ben lontano dalla sede di lavoro, gli altri
vigili urbani in servizio presso il Comune
dell’imminente rientro del vice comandante
mobbizzato presso il settore Polizia
municipale. In quell’occasione costui aveva
informato i colleghi del fatto che questi
non avrebbe però preso servizio presso il
Comando, ma presso i locali del Palazzo di
città; li aveva invitati poi a non prendere
ordini da questi, sebbene loro superiore, e
di rivolgersi sempre a lui.
La scelta di collocarlo presso uffici
diversi da quelli del Comando rispondeva a
un intento altamente persecutorio: il
mobbizzato, pur rientrato nel settore di
Polizia municipale, era stato, di fatto,
isolato presso locali diversi da quelli del
Comando; non gli era stata fornita una
stanza né l’attrezzatura idonea per lavorare
ed i locali a lui destinati ospitavano, al
momento del suo arrivo, una mostra di
decoupage che era durata per tutta
l’estate. Dopo oltre un biennio, non era
stato ancora dotato di una divisa e
dell’arma; non aveva, rispetto alle unità di
personale a lui sottoposte, alcun potere,
ingerendo il dirigente superiore anche sulla
gestione delle stesse unità.
L’atteggiamento persecutorio e
discriminatorio si era rivelato in sede di
valutazioni del personale. Al dipendente,
infatti, il suo superiore, nella qualità di
dirigente del servizio, aveva dato punteggi
di valutazione quasi pari allo zero ciò, a
suo dire, in ragione di alcune ripetute
assenze dal posto di lavoro. Era emerso che
-sulla base di testimonianze- il dirigente
aveva “‘ritoccato’ le valutazioni
assegnate in modo tale da determinare un
esiguo valore totale assegnato […].
Il disegno discriminatorio posto in essere
dal mobber si era spinto sino
all’idea di isolare il mobbizzato dai suoi
colleghi. Rappresentativo era stato
l’episodio dato dalla trasferta ad Avola per
rendere testimonianza innanzi al Tribunale
di alcuni vigili urbani. In quella occasione
al solo mobbizzato era stato riservato
inspiegabilmente un mezzo di trasporto
diverso dagli altri. Così mentre tutti i
colleghi viaggiavano insieme su di un’auto,
questi viaggiava isolato su di un’auto
diversa.
Pur se quelli richiamati erano singoli
episodi, la Corte è giunta al convincimento
di ritenerli tutti collegati in quanto parte
di un disegno vessatorio e discriminatorio
ordito dal superiore al solo fine di
distruggere psicologicamente e annichilire
il suo subalterno. Ciò in linea con i
principi della Cassazione (sez. un.,
04.05.2004, n. 8438; 29.12.2005, n. 19053),
secondo al quale, al fine di valutare una
condotta come mobbizzante, non deve
guardarsi ai singoli atti posti in essere,
che potrebbero rivelarsi anche
intrinsecamente legittimi, ma allo specifico
intento di chi li ha posti in essere ed alla
sua protrazione nel tempo, che distingue
detta condotta mobbizzante, anche da singoli
atti illegittimi. I principi esposti dalla
Suprema corte sono utili ai fini della
corretta valutazione dei fatti posti alla
base della vicenda in esame.
Alla luce di ciò, secondo la Corte, il
complessivo comportamento tenuto dal
mobber denota una condotta non orientata
ad assicurare una sana gestione della cosa
pubblica, bensì di una condotta sprezzante
dei più elementari principi di correttezza e
efficienza dell’azione amministrativa,
palesemente finalisticamente orientata alla
realizzazione di interessi personali anziché
all’attuazione del pubblico interesse e,
come tale, quindi, gravemente colposa.
La Corte ha fatto, peraltro, ricorso
all’esercizio del potere riduttivo
richiamando a giustificazione il clima
altamente conflittuale, chiaramente
manifestatosi sin dall’inizio dell’intera
vicenda, che avrebbe inasprito i rapporti
fra i protagonisti della vicenda (tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
ENTI LOCALI: Personale,
l'irrigidimento della Corte conti danneggia
gli enti. L'analisi/ a rischio l'autonomia
delle amministrazioni locali.
L'irrigidimento delle
modalità di calcolo della spesa di
personale, portato avanti negli ultimi mesi
dalla Corte di conti, compromette la
funzionalità di importanti servizi erogati
ai cittadini ed è relativo ad una norma che
lo stesso organo considera in dubbio di
legittimità costituzionale, in quanto viola
i principi di autonomia organizzativa degli
enti locali.
Con la
deliberazione 12.05.2011 n. 27 le
sezioni riunite della Corte hanno affermato
il principio secondo il quale la voce spesa
di personale assume una composizione diversa
a seconda che si riferisca agli obiettivi
del patto di stabilità ovvero al fine del
contenimento della spesa.
In particolare nel meccanismo di raffronto
spesa corrente/spesa di personale, dovrebbe
essere utilizzata una nozione di spesa che
tenga conto di tutte le componenti, sia
incluse che escluse dall'applicazione del
comma 557 della Finanziaria 2007, così come
novellato dal dl n. 78/2010, in quanto non
si tratta di un mero obbligo di riduzione
della spesa, ma di un limite strutturale
alle assunzioni. Il principio è stato
anticipato con il questionario al bilancio
di previsione 2011, allegato alle linee
guida, che deve essere presentato dal
collegio dei revisori. Al punto 7.4 del
questionario la spesa del personale, da
rapportare alla spesa corrente, non tiene
conto delle esclusioni, che comunque sono
indicate nello stesso prospetto, generando,
negli stessi revisori, dubbi di
compilazione.
In un ambito così influente per l'attività
degli enti si segnala la totale assenza di
una previsione normativa che indichi con
certezza e in modo definitivo le componenti
dell'aggregato spesa di personale, con
particolare riferimento alle voci da
includere e quelle da escludere. In
mancanza, si ritiene che la normativa in
tema di personale degli enti locali ha come
obiettivo la riduzione progressiva della
relativa spesa e pertanto le azioni da
intraprendere e i limiti da rispettare,
vanno considerati insieme nella loro
finalità, anche se agiscono con procedure e
modalità differenti: la serie storica, per
la riduzione, e il rapporto nello stesso
periodo tra due diversi aggregati di
bilancio, nel caso della percentuale. Lo
stesso comma 557, anche nella versione
novellata, indica le misure organizzative
necessarie ad assicurare il raggiungimento
dell'obiettivo di contenimento iniziando con
una riduzione dell'incidenza percentuale
spesa di personale/spesa corrente.
È la stessa Corte dei conti che nella
propria deliberazione riconosce che il
rapporto in esame converge al generale
intento di riduzione della spesa di
personale. Per tale motivo il riferimento
all'intervento 01 della spesa corrente non è
appropriato, ma è necessario tener conto
della qualità della spesa. Per la Corte la
lettura delle disposizioni sembrerebbe
escludere, ai fini del calcolo della
percentuale, un'esatta coincidenza tra
l'aggregato spese di personale per la
verifica dell'obbligo di riduzione, ex comma
557, e l'aggregato da utilizzare ai fini del
calcolo della percentuale sulla spesa
corrente e pertanto appare utile, e
maggiormente coerente, prendere in
considerazione la spesa di personale nel suo
complesso.
Le conclusioni della deliberazione non sono
per nulla condivisibili, anche in
considerazione del fatto che non si ben
comprende a chi appare utile e a cosa è
maggiormente coerente una tale nozione della
spesa di personale. Circa il significato
dell'espressione spese di personale, che non
ha subito alcuna modifica testuale con il dl
n. 78/2010, la Sezione delle Autonomie della
Corte dei conti nella deliberazione n.
16/2009 ha affermato che nel quadro delle
disposizioni in materia e della ratio
che sta alla base, non sembra corretto
definire la categoria della spesa per il
personale in termini formali e
nominalistici, riconducendo, pertanto, ad
essa qualsiasi somma pagata al dipendente.
È necessario, continua la Corte, far
riferimento sia alla natura della singola
spesa sia all'impatto che ha sulla gestione
finanziaria dell'ente. Ricomprendere tutte
le spese vuol dire conteggiare anche oneri
coperti da finanziamenti comunitari o da
sponsorizzazioni. Lo stesso dicasi per le
spese finanziate con i proventi delle
violazioni al codice della strada o i
proventi per il recupero dell'evasione
tributaria o della progettazione interna che
sono, con principio ormai consolidato,
esclusi dal calcolo dell'aggregato spesa di
personale. Lo stesso dicasi per i rinnovi
contrattuali, la cui esclusione è fissata
dal comma 557.
Già con la modifica normativa del 2010 la
Corte conti Toscana ha ritenuto che
l'aggregato spesa di personale debba essere
lo stesso anche per il calcolo della
percentuale, in quanto la logica ispiratrice
è unitaria ed univoca. Pertanto, l'aggregato
spesa di personale non può che essere unico
sia per la determinazione dell'obiettivo
della riduzione che per il calcolo della
percentuale sulle spese correnti
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2011
- tratto da www.corteconti). |
NEWS |
INCARICHI PROGETTUALI: Progettazioni,
gare in estinzione. A causa
dell'innalzamento della soglia per gli
affidamenti. Dopo le modifiche al Codice
appalti e l'approvazione del senato allo
Statuto di impresa.
Il mercato delle gare dei servizi di
ingegneria e architettura rischia di sparire
dopo le recenti modifiche normative che
cancellano le gare nazionali (fino a 193
mila euro) a vantaggio di affidamenti
diretti e trattative private; viceversa
viene rafforzato lo spazio operativo delle
progettazioni interne alle stazioni
appaltanti.
Ed è allarme rosso fra i progettisti. Tutto
ciò accade dopo il varo delle modifiche al
Codice di luglio e la recente approvazione
al Senato del disegno di legge «Statuto
di impresa» in attesa dell'approvazione,
in terza lettura, della Camera (ma dovrebbe
trattarsi di una formalità). Con
quest'ultimo provvedimento si porta a 125
mila euro (per le amministrazioni centrali
dello Stato) e a 193 mila per tutte le altre
stazioni appaltanti, la soglia fino alla
quale è ammesso scegliere i progettisti con
una gara informale previo invito di cinque
soggetti.
Si va, quindi a toccare, l'articolo 91,
comma 2 del Codice che rinvia all'articolo
57, comma 6 del Codice per la scelta dei
progettisti quando un incarico risulti di
importo inferiore a 100 mila euro e, quindi,
ammette la scelta con una sorta di gara
informale con invito a cinque soggetti
scelti a seguito di indagine di mercato, ma
in pratica fortemente discrezionale e senza
trasparenza successiva. La materia è
disciplinata anche dal regolamento del
Codice (dpr 207/2010) nel presupposto, però
che vi sia anche una fascia di incarichi (da
100 mila a 193 mila) affidabile con
ordinaria gara, senza inviti limitati a
pochi soggetti.
Invece con la norma approvata in Aula (dopo
che in Commissione industria era stata
soppressa) si cancellano di fatto le gare
nazionali (sotto la soglia dei 193 mila euro
di importo stimato) e si rende obbligatorio
il ricorso alla procedura negoziata con
invito a cinque da 40 mila a 193 mila.
Questo recente intervento normativo si somma
infatti al precedente ritocco apportato dal
decreto-legge 70/2011 che ha portato da 20
mila a 40 mila il tetto fino al quale le
stazioni appaltanti potranno sceglie
addirittura fiduciariamente, in via diretta,
l'affidatario dei servizi.
Dietro ad entrambe le operazioni c'è lo
zampino della Lega che ha caldeggiato la
modifica di luglio e che, con il disegno di
legge «Statuto di impresa», ha
portato a compimento un vero e proprio blitz
con un emendamento in Aula (del senatore
Luciano Cagnin) approvato nella quasi
indifferenza generale. Ma non è tutto: di
recente anche la Corte dei conti, con la
delibera n. 51 del 4 ottobre, ha escluso gli
incentivi per la progettazione interna di
opere pubbliche (che vanno al Rup, stazione
unica appaltante, e ai tecnici comunali) dal
tetto di spesa per il personale degli enti
locali.
Al riguardo la magistratura contabile sembra
essere stata chiara: gli incentivi sono «destinati
a remunerare prestazioni professionali
tipiche di soggetti individuati o
individuabili e che peraltro potrebbero
essere acquisite attraverso il ricorso
all'esterno dell'amministrazione pubblica
con possibili costi aggiuntivi per il
bilancio dei singoli enti». Per il
Centro studi del Cni, Consiglio nazionale
ingegneri, (dati riferiti al 2009) si tratta
dell'8,7% del mercato complessivo, per un
valore di 1,48 miliardi di corrispettivo
sottratto al libero mercato.
Le prospettive sono quindi fosche, tanto che
l'Oice, con il presidente Gabriele
Giacobazzi, ha sottolineato come la recente
norma approvata al Senato «renda
discrezionali il 92% degli affidamenti e
incentiva fortemente il processo di
suddivisione degli incarichi di rilievo
comunitario e oltre, con un quasi certo e
annunciato azzeramento delle gare
comunitarie». Senza parlare dei costi,
dal momento che in una trattativa privata,
di norma, il prezzo è più alto di almeno il
15-20%
(articolo
ItaliaOggi del 26.10.2011 -
tratto da www.corteconti). |
ENTI LOCALI: Una
tassa pigliatutto per i sindaci. Ingloberà
rifiuti, illuminazione, manutenzione e
sicurezza. Service tax nel primo decreto
correttivo del fisco municipale (ancora in
fase di stesura).
Una tassa in più a beneficio dei comuni. La
service tax, ossia l'imposta unica che i
cittadini dovranno pagare ai sindaci per la
fruizione dei cosiddetti servizi
indivisibili (illuminazione, manutenzione
strade, sicurezza, pulizie), verrà portata
in dono dal decreto correttivo del fisco
municipale approvato lunedì in tarda serata
dal consiglio dei ministri (si veda
ItaliaOggi del 18/10/2011).
Il nuovo tributo a beneficio dei sindaci
ingloberà anche la tassa rifiuti nelle sue
varie articolazioni (Tarsu, Tia1 o Tia2).
In realtà più che di un'approvazione vera e
propria si è trattato di un via libera «sulla
fiducia» visto che il decreto è stato
oggetto di trattativa per tutta la giornata
di ieri. E un testo ufficiale non è ancora
stato trasmesso alla Commissione bicamerale
guidata da Enrico La Loggia che oggi
riprenderà i lavori con l'audizione del
Comitato dei 12.
Il destino della tassazione sui rifiuti è
rimasto in bilico fino all'ultimo. Il Pd e
anche il ministro della semplificazione
Roberto Calderoli (che a marzo le tentò
tutte per cercare di convincere Silvio
Berlusconi a introdurre il nuovo tributo,
scontrandosi però con il veto del premier)
non hanno mai fatto mistero di voler
inglobare Tarsu e Tia nella service tax. Ma
per farlo hanno dovuto superare i rilievi
dell'Unione europea che ha avanzato dubbi
sulla possibilità di quantificare la parte
variabile della tariffa, quella legata
all'effettiva produzione di rifiuti. «Rilievi
superabili», ha fatto notare Marco
Causi, deputato Pd e vicepresidente della
Bicamerale, «perché in Francia c'è una
tassa molto simile che ingloba anche il
prelievo sui rifiuti».
La service tax si pagherà per tutti quei
servizi comunali non tariffabili e non a
domanda individuale. L'illuminazione
pubblica per esempio, ma anche la pulizia
delle strade e la sicurezza. «Il comune
definirà il costo totale dei servizi con
delibera del consiglio e la cifra verrà
divisa tra tutti i cittadini residenti in
misura proporzionale al valore e alla
grandezza dell'immobile», spiega Causi. «In
pratica quello che accade nei condomìni
quando c'è da ripartire le spese». Il
meccanismo dovrà essere corretto in rapporto
al quoziente familiare.
Per i comuni la service tax potrebbe essere
una bella boccata d'ossigeno perché
consentirebbe di finanziare da sola i costi
di una lunga serie di servizi che oggi
pesano non poco sui bilanci locali. E in più
avrebbe il pregio di gravare sui cittadini
residenti, ripristinando quel circolo
virtuoso pago-vedo-voto che dovrebbe
costituire l'essenza del federalismo fiscale
e che invece risulta essere piuttosto
impalpabile vista la decisione del governo
di continuare a non tassare la prima casa.
L'Ici oggi e l'Imu domani non riguardano
infatti i cittadini residenti. La service
tax per forza di cose sì.
Il decreto approvato dal consiglio dei
ministri anticipa di un anno (dal 2014 al
2013) l'entrata in vigore dell'Imposta
municipale. E sostituisce la
compartecipazione Iva, ritenuta dai sindaci
troppo sperequata a livello territoriale,
con quella all'Irpef. La cifra totale su cui
potranno contare i comuni sarà la stessa
(2,9 miliardi di euro) ma cambierà la
ripartizione del gettito a livello
municipale
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2011). |
APPALTI: Pmi,
semplificato l'accesso alle gare.
Accesso semplificato
alle gare d'appalto per le piccole e medie
imprese. Le gare saranno assegnate non solo
in base al criterio dell'offerta più bassa,
ma anche in base a quello dell'offerta più
innovativa o con un miglior impatto
ambientale.
Saranno queste le proposte di riforma che la
Commissione europea presenterà dicembre.
Intanto, però, una risoluzione preparata dal
deputato Heide Rühle (Verdi) e approvata dal
Parlamento Ue anticipa le proposte
legislative di riforma dell'esecutivo di
Bruxelles.
«In questa crisi profonda, abbiamo
bisogno di regole chiare: solo così le
autorità pubbliche potranno sostenere
innovazione e crescita», ha detto la
relatrice durante il dibattito.
Fra le varie proposte approvate dall'Aula
per semplificare le procedure di
assegnazione di un appalto vi è la creazione
di un passaporto elettronico che certifichi
rapidamente il rispetto, da parte
dell'impresa in gara, delle regole
comunitarie in materia.
I deputati, per semplificare ulteriormente
l'iter amministrativo, hanno proposto
l'autocertificazione sul possesso dei
requisiti per partecipare all'appalto. In
pratica la richiesta della documentazione
originale da parte delle autorità si farà
solo per le imprese selezionate per la fase
finale della gara.
Le norme semplificate per le pmi partono da
un dato di fatto. Le piccole imprese
ottengono una percentuale di contratti
pubblici minore rispetto al loro peso
nell'economia europea: circa il 31-38%
rispetto a una partecipazione globale
all'economia stimata al 52%. Il motivo
principale, secondo il Parlamento, sono le
procedure di accesso agli appalti, oggi
troppo complicate e costose.
L'aula di Strasburgo per questo ha proposto
di suddividere in lotti gli appalti in modo
da garantire alle piccole e medie imprese
migliori possibilità di partecipazione alle
gare. I deputati hanno chiesto inoltre alla
Commissione di verificare «se per il
subappalto siano necessarie nuove norme, ad
esempio l'istituzione di una catena di
responsabilità» per evitare che le pmi
subappaltatrici siano soggette a condizioni
peggiori di quelle applicabili all'impresa
principale che si è aggiudicata l'appalto.
Infine, per gli eurodeputati il criterio del
«prezzo più basso» non dovrebbe più
essere un fattore determinante per
l'assegnazione dei contratti, ma dovrebbe
essere sostituito da criteri più ampi che
includano l'impatto sociale e ambientale
della proposta e prendano in considerazione
l'intero ciclo di produzione del bene o del
servizio in appalto
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2011). |
APPALTI: Stop
alla direttiva sul ritardo dei pagamenti.
Per la commissione bilancio della camera
costa troppo.
Slitta l'applicazione in
Italia della direttiva europea sul ritardo
dei pagamenti (direttiva
2011/7/Ue del 16/02/2011).
Ieri, la commissione bilancio della camera
ha chiesto che il provvedimento sia tolto
dalla legge comunitaria 2011. Il motivo?
Applicarla costa troppo alle casse dello
stato. Almeno per il momento. Così, se
l'aula di Montecitorio dovesse far proprio
l'orientamento della commissione, il
recepimento della direttiva, che regola i
tempi di pagamento di tutte le transazioni
commerciali, sarà congelato.
I deputati, nel dire stop hanno votato un
parere da inoltrare alla commissione
politiche Ue. Nel parere si chiede a chiare
lettere di rinviare l'adozione delle norme.
Secondo quanto risulta a ItaliaOggi, l'aut
aut è giunto direttamente dal ministero
dell'economia.
La direttiva stabilisce che, a partire dal
16.03.2013, il periodo di pagamento nelle
transazioni commerciali tra imprese non
superi in linea generale i 60 giorni, anche
se sono ammesse deroghe. Nei contratti con
le imprese, invece, la pubblica
amministrazione sarà tenuta a pagare entro
30 giorni prorogabili a 60 solo in caso, tra
l'altro, di enti pubblici che forniscono
assistenza sanitaria. In caso di ritardo nel
saldo delle fatture, l'Ue ha stabilito
l'obbligo di pagamento degli interessi di
mora.
Lo stop.
Tutto parte da Massimo Polledri (Lnp),
relatore sulla Comunitaria 2011 presso la
commissione bilancio. Il deputato ha chiesto
un chiarimento in merito alla commissione.
In particolare Polledri si è interrogato
sull'opportunità o meno di dar via libera
alla direttiva, visto che, simili
emendamenti, allegati però al ddl
Comunitaria 2010, erano stati bocciati
proprio dalla commissione bilancio.
Con la comunitaria 2011, poi, l'impegno al
recepimento è stato anche rafforzato, poiché
la direttiva sui pagamenti è stata inserita
direttamente nel testo iniziale dl ddl. Al
quesito proposto da Polledri ha risposto il
governo, nella persona del sottosegretario
all'economia Bruno Cesario (Responsabili).
Il sottosegretario ha riportato una nota
della Ragioneria dello stato, che ha messo
in guardia sugli effetti finanziari
dell'adozione delle nuove regole.
In particolare, secondo il dipartimento
guidato da Mario Canzio, il recepimento
della direttiva avrebbe potenziali effetti
negativi sulla finanza pubblica; per
l'esattezza «profili di onerosità».
Sulla base di questa nota il relatore
Polledri ha proposto alla commissione
bilancio di cancellare ogni riferimento
all'adozione della direttiva dall'allegato
alla Comunitaria 2011. Tutto ciò, va detto,
non costerà nulla all'Italia per il momento.
Il recepimento nell'ordinamento italiano
della direttiva sui ritardati pagamenti
dovrà avvenire entro maggio del 2013. Se
Montecitorio dovesse accettare il parere
della commissione bilancio, dunque, al
momento non scatterebbero procedure di
infrazione.
Né messe in mora da parte
di Bruxelles.
Ma, un effetto è chiaro da subito: lo stop
del governo arriva per motivi legati ai
tempi di pagamento imposti alla pubblica
amministrazione (30 giorni al massimo) e,
soprattutto, per la gravosità delle sanzioni
che scatterebbero in capo alle p.a.
irrispettose di questo limite.
Tutto ciò nonostante esista già il dlgs
231/2002, che prevede tempi di pagamento
stringenti; un provvedimento mai rispettato
dalle p.a., visto che, secondo gli ultimi
dati diffusi dall'Ance, oggi le pubbliche
amministrazioni pagherebbero a otto mesi
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2011). |
EDILIZIA PRIVATA: Armi
spuntate contro la Scia. Pochi rimedi se il
Comune non blocca il cantiere.
Non è facile impugnare la Scia del vicino.
La proliferazione dei titoli edilizi e della
relative procedure di formazione ha
complicato l'attivazione dei rimedi
giurisdizionali per contestare la
costruzione di un nuovo edificio o
l'ampliamento di quelli esistenti.
I titoli edilizi possono dividersi in due
generali categorie a seconda che siano
espressamente rilasciati dal Comune, oppure
che si formino in ragione della mancata
assunzione dell'ordine comunale di non
eseguire l'intervento.
Nel primo gruppo, i titoli "espressi",
ricadono così il permesso di costruire
ordinario (anche in variante) e in sanatoria
(tanto ordinaria, ai sensi cioè
dell'articolo 36 del testo unico
dell'edilizia, quanto straordinaria, il
condono introdotto dalla legge 47/1985),
nonché le sanzioni pecuniarie non di natura
ripristinatoria (che in sostanza autorizzano
il mantenimento degli abusi, per cui è
imposto solo il pagamento di una somma di
denaro).
Nel secondo, i titoli "taciti", si
collocano invece la Dia (denuncia di inizio
attività), la Scia (segnalazione certificata
di inizio attività, anche edilizia) e la
comunicazione di inizio lavori introdotta
dal Dl 40/2010, asseverata o meno. Sempre al
secondo gruppo vanno ricondotti gli
interventi liberi (quelli non soggetti ad
alcun titolo edilizio) che il vicino ritiene
illegittimi lamentandosi per il mancato
intervento repressivo del Comune.
L'impugnativa dei titoli "espressi"
non pone particolari problemi: è possibile
proporre ricorso al Tar entro 60 giorni
dalla loro conoscenza (termine che decorre
al più tardi dal momento in cui i lavori
raggiungono uno stadio tale da evidenziarne
la concreta lesività per il vicino), ma
impugnare i titoli "taciti" è più
complicato. Per un certo un periodo, la
giurisprudenza amministrativa si era divisa
tra la tesi secondo cui la Dia/Scia restava
un atto privato, come tale non impugnabile,
e la tesi che riconosceva la diretta
aggredibilità al Tar della Dia/Scia
(interpretazione che in sostanza afferma la
natura provvedimentale del comportamento
inerte mantenuto dal Comune, in questo
senso). Su questo secondo punto, lo scorso
29 luglio si era assestato il Consiglio di
Stato, con l'adunanza plenaria 15/2011: la
situazione si è consolidata con l'articolo
6, comma 1, lettera c), del Dl 138/2011 –la
manovra di Ferragosto– convertito nella
legge 148 dello scorso 14 settembre.
La nuova disposizione prevede espressamente
che «la segnalazione certificata di
inizio attività, la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività non
costituiscono provvedimenti taciti
direttamente impugnabili». Gli
interessati –prosegue la norma– possono
sollecitare l'esercizio delle verifiche
spettanti all'amministrazione e, in caso di
inerzia, possono impugnare al Tar il
silenzio che il Comune mantenga sulla
domanda volta a impedire lo svolgimento
dell'attività in contestazione.
È importante rilevare che, in questi casi,
l'articolo 31, commi 1, 2 e 3 del Dlgs
104/2010 (codice del processo
amministrativo) assegna normalmente al
giudice soltanto il potere di ordinare al
Comune di provvedere sulla verifica
richiesta dal privato. La possibilità di
riconoscere direttamente l'illegittimità
dell'attività disponendone la cessazione è
infatti riconosciuta al Tar solo quando si
tratti di attività vincolata o quando
risulti che non residuano ulteriori margini
di esercizio della discrezionalità e non
siano necessari adempimenti istruttori che
debbano essere compiuti
dall'amministrazione. Condizioni che non
sempre ricorrono in edilizia, specie
rispetto ai progetti più complessi, e che
rendono dunque difficile la tutela rispetto
ai lavori oggetto di Dia/Scia
(articolo Il Sole 24
Ore del 24.10.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Solo
un interesse reale e concreto giustifica il
ricorso.
IL CRITERIO - Le sentenze chiedono il
requisito della «vicinitas» che però dipende
dalle caratteristiche dell'intervento
contestato.
Quanto vicino deve
essere il vicino? L'impugnazione dei titoli
edilizi non è esercitabile da tutti; solo
chi lamenti una lesione concreta ed attuale
dai lavori può rivolgersi al Tar, nei limiti
e con le procedure trattate nell'articolo
qui sopra.
Su questo punto la giurisprudenza
amministrativa ha elaborato il concetto di
vicinitas, intesa come prossimità fra
immobili, quale «condizione sufficiente a
legittimare l'impugnazione di una
concessione edilizia, anche quella in
sanatoria, sicché a maggior ragione non può
negarsi un interesse processuale ad agendum
da parte del proprietario di un immobile
confinante» (Consiglio di Stato, sezione
IV, 13.07.2011, n. 4268).
Alla vicinitas va però attribuito il
senso non di stretta contiguità, bensì di
stabile e significativo collegamento, da
indagare caso per caso, del ricorrente con
la zona oggetto delle opere (Consiglio di
Stato, sezione VI, 27.03.2003, n. 1600).
Il tema si pone soprattutto rispetto agli
interventi edilizi e infrastrutturali che
incidano su vaste aree. In un caso esaminato
dal Consiglio di Stato (decisione 1134/2010)
si è così ritenuto che la «distanza da
600 a 2.000 metri non sia di ostacolo alla
configurazione della ripetuta situazione di
vicinitas avuto riguardo alla natura e alla
potenzialità dell'impianto autorizzato con
gli atti impugnati».
È ancora del tutto pacifico in
giurisprudenza che il controllo sulla
legittimità dei titoli abilitativi in
edilizia prescinda dalla proprietà del fondo
leso dall'attività edilizia, essendo
sufficiente che il ricorrente si trovi in un
rapporto diretto e stabile con l'area
oggetto dei lavori (Consiglio di Stato,
sezione IV, 10.03.2011, n. 1566).
La vicinitas è comunque condizione
necessaria ma non sufficiente a radicare
(ferma la legittimazione) l'interesse al
ricorso, il quale necessita anche la
dimostrazione del pregiudizio concreto alle
facoltà dominicali del vicino (Consiglio di
Stato, sezione IV, 24.01.2011, n. 485), per
cui per proporre una azione in giudizio è
necessario che dalla stessa possa derivare
all'attore una qualche concreta utilità,
sotto il profilo di un vantaggio sperato
oppure, come appunto nella specie, di un
danno prevenuto.
È stato ad esempio ritenuto che per
giustificare la legittimazione fondata sulla
vicinitas in caso di edifici adibiti
a ufficio o abitazione sia richiesta –almeno
in termini presuntivi– la prova di un
potenziale pregiudizio che il ricorrente
potrebbe subire dai lavori. Altrimenti,
sarebbe come introdurre nel nostro
ordinamento un'azione popolare sconosciuta
nel nostro ordinamento.
L'opposto vale nel caso dell'impugnazione di
atti relativi alla realizzazione di impianti
industriali: in tal caso, non sarà
necessaria la prova rigorosa
dell'effettività del danno che si potrebbe
subire. Così ha deciso ad esempio il
Consiglio di Stato (sezione V, 18.08.2010,
n. 5819) in relazione al progetto di
costruzione di un termovalorizzatore.
Allo stesso modo, non si potrebbe sostenere
che un insediamento composto da un complesso
di edifici abitativi, commerciali e
direzionali -inserito in un quartiere già
densamente urbanizzato- sia di per sé in
grado di stravolgere o peggiorare la
fisionomia della zona. A maggior ragione se
l'intervento edilizio consiste nel recupero
con cambio d'uso di edifici produttivi
dismessi. O se i ricorrenti non hanno la
residenza nel quartiere interessato dai
lavori ma in un'altra zona della città.
---------------
Gli esempi
01 | IMPIANTI INDUSTRIALI
La legittimazione ad agire è ampiamente
riconosciuta dai giudici. Per contestare, ad
esempio, la realizzazione di un
termovalorizzatore non serve provare in modo
rigoroso l'effettività del danno che si
potrebbe subire.
02 | EDIFICI A USO UFFICIO
O ABITAZIONE
Per opporsi alla realizzazione di edifici
dallo scarso impatto urbanistico –come le
abitazioni o gli uffici– la verifica della
legittimazione ad agire è più severa. Un
intervento di edilizio che si inserisce in
un contesto già densamente urbanizzato è
difficile da contestare.
Diverso potrebbe essere il caso di strutture
commerciali con un impatto particolarmente
pesante sulla circolazione e l'afflusso di
persone.
03 | I FATTORI CRITICI
Per opporsi alla realizzazione di un
intervento diverso dalla costruzione di
impianti industriali, occorre documentare in
modo rigoroso il proprio interesse: un
ricorso intentato da soggetti che risiedono
in un altro quartiere, ad esempio, potrebbe
essere bocciato in radice; così come
un'opposizione fondata sul presupposto di un
incremento del traffico veicolare non
documentato da uno studio inoppugnabile (articolo Il Sole 24
Ore del 24.10.2011). |
SEGRETARI COMUNALI: Più
magre le buste dei segretari.
Si applica prima il galleggiamento o la
maggiorazione nel calcolo della retribuzione
di posizione dei segretari comunali e
provinciali?
La questione, che si trascina ormai da un
quinquennio, trova il suo epilogo nella
legge di stabilità, la quale
prevede che la maggiorazione preceda il
galleggiamento, abbracciando l'ipotesi meno
favorevole ai segretari. D'altronde, non
poteva essere diversamente, in un periodo di
limiti e vincoli alla spesa pubblica.
Come si ricorderà, la vicenda prende avvio
nel 2006 con la contrapposizione che vedeva
da un lato l'Aran e la Ragioneria dello
Stato, che volevano applicare prima il
galleggiamento di cui all'articolo 41, comma
5, del Ccnl 16.05.2001, mentre dall'altro
lato si schieravano l'Agenzia per la
gestione dell'albo dei segretari e le
organizzazioni sindacali, per le quali
doveva avere la precedenza la maggiorazione
prevista dall'articolo 41, comma 5, del
medesimo Ccnl.
Anche il tentativo di ottenere
l'interpretazione autentica, promosso dalla
stessa Ages, ha ricevuto un rifiuto fermo e
netto da parte dell'Aran. Per quest'ultima,
la questione era già sufficientemente
chiara: la comparazione per la
determinazione dell'importo del
galleggiamento deve effettuarsi fra la
posizione dirigenziale più elevata presente
nell'ente e la retribuzione di posizione del
segretario, intendendo come tale quella
determinata in base alla tipologia e alla
dimensione del l'ente, a cui si deve
aggiungere l'eventuale maggiorazione di
retribuzione riconosciuta dal
l'amministrazione per incarichi ulteriori e
aggiuntivi.
Seguendo le indicazioni dell'Aran e della
Ragioneria dello Stato, le amministrazioni
locali hanno calcolato gli stipendi dei
segretari applicando prima la maggiorazione
e poi il galleggiamento. E contro tale
impostazione, alcuni segretari comunali
hanno impugnato gli atti conseguenti,
trovando piena ragione in sede di
contenzioso. Ne sono esempi le sentenze del
Tribunale di Pistoia, di La Spezia, di
Rimini, dell'Aquila e di Mantova.
Forse proprio questo fiume di pronunce
sfavorevoli agli enti e alle casse pubbliche
ha spinto il legislatore a disporre un
intervento, alquanto bizzarro, di "interpretazione"
di una disposizione inserita in un contratto
collettivo di lavoro. Come tale, non può
definirsi "autentica" in quanto
promana da soggetto diverso dall'originario
e, quindi, può disporre solo per il futuro.
La legge di stabilità, all'articolo 4, comma
26, impone il calcolo del galleggiamento,
prendendo a base sia la retribuzione di
posizione in godimento del segretario, sia
l'eventuale maggiorazione. Sposando, di
fatto, la linea dell'Aran e della Ragioneria
dello Stato. Dall'01.01.2012, sarà, quindi,
vietato calcolare la maggiorazione della
retribuzione di posizione in modo difforme
da quello indicato nella legge di stabilità
e, quindi, andando a quantificare
maggiorazione e galleggiamento in maniera
disgiunta o, peggio ancora, porre il
galleggiamento a base della maggiorazione.
Dovranno cessare dunque dall'anno prossimo
le interpretazioni "generose" nei
confronti dei segretari, pena ipotesi di
danno erariale in quanto i compensi in
questione sarebbero elargiti contra legem.
Permane l'obbligo, invece, di dare
esecuzione a tutte le decisioni, anche in
senso contrario, adottate dai giudici entro
alla fine dell'anno
(articolo Il Sole 24
Ore del 24.10.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Meno
co.co.co. nei mini-enti. Il tetto al lavoro
flessibile colpisce anche i Comuni fuori dal
Patto.
Le assunzioni a tempo
determinato, le collaborazioni coordinate e
continuative e le altre forme di lavoro
flessibile potranno avvenire nel limite del
50% della corrispondente spesa dell'anno
2009; le assunzioni a tempo indeterminato
nel limite del 20% della spesa delle
cessazioni dell'anno precedente.
A chiudere la questione delle assunzioni
negli enti locali ci pensa direttamente il
legislatore che con la
legge di stabilità supera le
interpretazioni che si sono succedute
dall'approvazione del Dl n. 78/2010 in poi.
Soprattutto la deliberazione n. 46/2011
della Corte dei conti, sezioni riunite
secondo cui il limite del turn-over del 20%
si applica sia alle assunzioni a tempo
indeterminato che a qualsiasi altra
tipologia contrattuale di lavoro, ma che
contemporaneamente aveva aperto alla
possibilità di deroga in casi di massima
urgenza e per servizi infungibili ed
essenziali.
Effettivamente negli enti locali stava
dominando la confusione più assoluta.
Infatti, fin dal primo momento della
deliberazione, i tentativi per giustificare
lo sforamento del 20% per i contratti a
tempo determinato erano già diffusissimi e
si concretizzavano in deliberazioni di
giunta per l'individuazione di tutte le
possibilità e casistiche di deroga. Ora, il
legislatore, sollecitato probabilmente da
tale interpretazione, interviene a suo modo:
nel 20% ci sta solo il tempo indeterminato,
mentre le assunzioni di lavoro flessibile
andranno fatte nel limite del 50% della
spesa sostenuta nel 2009.
E così, anche i piccoli enti, cioè le
amministrazioni non soggette a patto di
stabilità, si ritrovano con un vincolo che
fino all'altro giorno non esisteva. Infatti,
come sostenuto dalla stessa Corte dei conti,
sezioni riunite nella deliberazione n.
3/2011 ai comuni sotto i 5mila abitanti si
continuava ad applicare la disposizione del
comma 562 della Finanziaria 2007 che
prevedeva un'assunzione per una cessazione
dell'anno prima. Con la novità legislativa e
con l'introduzione della dicitura «e
degli enti locali» all'articolo 9, comma
28 del Dl n. 78/2010 l'obbligo di assestarsi
per il tempo determinato nel limite del 50%
del 2009 sembra valido per tutti. Salvo
future analisi diverse.
Paletti quindi estremamente rigidi, ma
immediatamente efficaci dal momento
dell'entrata in vigore della legge di
stabilità. In attesa, si spera, di una
pronuncia da parte della Corte
costituzionale che confermi quanto già
affermato nella sentenza 390/2004 su una
situazione praticamente uguale.
La Consulta aveva infatti concluso che la
disposizione che fissava un turn-over del
50% rispetto alle vacanze del 2002 non si
limitava a fissare un principio di
coordinamento della finanza pubblica, ma
poneva invece un precetto specifico e
puntuale; precetto che, proprio perché
specifico e puntuale e per il suo oggetto,
si risolve in una indebita invasione, da
parte della legge statale, del l'area
(organizzazione della propria struttura
amministrativa) riservata alle autonomie
regionali e degli enti locali, alle quali la
legge statale può prescrivere criteri e
obiettivi ma non imporre nel dettaglio gli
strumenti concreti da utilizzare per
raggiungere quegli obiettivi.
E infine una curiosità: cosa accade se
l'ente nel 2009 non aveva avuto spese per
contratti di lavoro flessibile e si ritrova
oggi nel bisogno e in presenza di
un'esigenza temporanea ed eccezionale?
Insomma, probabilmente nella fretta di
contingentare la spesa pubblica spesso si
creano norme di difficile attuazione con il
forte rischio di minare lo svolgimento dei
servizi locali
(articolo Il Sole 24
Ore del 24.10.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Addio
ai rimborsi per trasferte e traslochi.
PROSPETTIVE - Il provvedimento è tanto più
oneroso in quanto con la manovra di
Ferragosto è più facile ricollocare i
pubblici dipendenti.
Le indennità di
trasferta per il trasferimento e il rimborso
delle spese di viaggio sostenute dai
familiari del dipendente pubblico
trasferito, nonché i rimborsi delle spese di
trasloco riconosciute in questo caso e il
contributo riconosciuto nel caso di trasloco
nella stessa città da o per o tra alloggi di
servizio, sono abrogati. La possibilità di
erogazione dell'indennità di prima
sistemazione nel caso di trasferimenti per
ragioni di servizio viene limitata solamente
al caso di effettivo trasferimento della
residenza.
Sono queste le disposizioni restrittive
previste dalla proposta di legge di
stabilità e per il trasferimento dei
dipendenti pubblici, salvo quelli dei
comparti sicurezza, difesa e soccorso
pubblico. Disposizioni che, una volta
approvate, produrranno effetti ancora più
rilevanti alla luce delle previsioni
contenute nel recente Dl n. 138/2011, la «Manovra
di ferragosto», in base alle quali i
dipendenti pubblici possono essere
facilmente trasferiti dai dirigenti per
ragioni di servizio in altre sedi
nell'ambito della stessa regione, ambito che
invece per i dipendenti del ministero
dell'Interno si estende all'intero Paese.
Vediamo le norme abrogate, anche se
contenute in contratti collettivi. In primo
luogo il dipendente e i familiari hanno
diritto all'indennità di trasferta per tutto
il periodo di viaggio necessario al
trasferimento per esigenze di servizio.
L'indennità comprende anche gli oneri per
una sosta non superiore a 24 ore, nel caso
di trasferimento in località posta a
distanza superiore a 800 km. Ricordiamo che
l'indennità di trasferta per missioni è già
stata abolita per tutti i dipendenti
pubblici dai commi 213 e 214 della legge n.
266/2005, Finanziaria 2006.
E ancora, nel caso di trasferimento del
dipendente pubblico viene erogata
un'indennità che copre gli oneri di viaggio
suoi e dei familiari, oneri che devono
essere calcolati sulla base del costo dei
biglietti dei mezzi di trasporto pubblico
ovvero di 2,20 centesimi a km in caso di
assenza di mezzi pubblici. A questi oneri si
aggiungono anche quelli necessari per il
trasloco dei mobili, sulla base del costo
sostenuto. Spetta inoltre al dipendente il «rimborso
delle spese per l'imballaggio, per la presa
e resa a domicilio e per il carico e lo
scarico» dei suoi bagagli. E infine gli
spetta un contributo nel caso di passaggio,
su decisione dell'amministrazione,
nell'ambito dello stesso comune da un
alloggio di servizio a un altro o a un
alloggio privato o nel caso opposto. I
benefici verranno meno per tutti i
dipendenti pubblici al momento della
definitiva approvazione della legge di
stabilità. Mentre l'indennità di prima
sistemazione, prevista in una misura
compresa tra poco più di 200 euro e poco più
di 60 sulla base della qualifica di
inquadramento, viene limitata solamente al
caso di effettivo trasferimento della
residenza.
Ricordiamo che il legislatore ha di recente
previsto, articolo 1, comma 29, Dl n.
138/2011, che le Pa possano per «motivate
esigenze tecniche, organizzative e
produttive» contenute nel piano delle
performance e di razionalizzazione disporre
il trasferimento del personale nell'ambito
della stessa regione. La relativa disciplina
sarà dettata nei contratti collettivi
nazionali di lavoro, ma fino ad allora la
decisione spetta ai dirigenti in quanto
siamo nell'ambito dei "criteri datoriali"
e l'unica forma di relazione sindacale è la
semplice informazione preventiva
(articolo Il Sole 24
Ore del 24.10.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
P.a., tariffe da avvocati.
La p.a. che, nelle cause di lavoro, si
difende da sé (senza avvocato), se vince,
potrà chiedere la condanna del lavoratore a
pagare le spese processuali calcolate in
proporzione sul tariffario degli avvocati.
Nei primi gradi di giudizio delle cause di
lavoro contro le pubbliche amministrazioni,
infatti, queste possono stare in giudizio
senza avvocato, ma avvalendosi di propri
dipendenti.
Il
ddl stabilità stabilisce che,
nelle liquidazioni delle spese del giudizio
(art. 91 cpc) a favore delle pubbliche
amministrazioni (quelle istituzionali
definite dall'art. 1, comma 2, del dlgs
165/2001, T.u. del pubblico impiego), se
assistite da propri dipendenti, si applica
la tariffa vigente per gli avvocati, con la
riduzione del 20% degli onorari.
La novità è
che viene stabilito espressamente che la
p.a. ha diritto al rimborso delle spese
processuali calcolate con il tariffario
forense. Nella giurisprudenza attuale,
invece, alla p.a., che vince la causa senza
avvocato, non vengono riconosciuti gli
onorari, ma al massimo un rimborso delle
spese vive. Nella giurisprudenza si arriva,
talvolta, a calcolare le spese vie
conteggiando le ore di lavoro per la
preparazione delle difese e per la stesura
degli atti difensivi, ma certamente non si
calcolano diritti e onorari di avvocato. In
effetti il ragionamento è che non c'è
possibilità di applicazione delle tariffe
degli avvocati se in realtà in giudizio non
c'è l'avvocato.
La disposizione proposta dal
ddl stabilità toglie questo ostacolo e
estende espressamente al dipendente (non
avvocato) difensore della p.a. in giudizio
la disciplina prevista per gli emolumenti
degli avvocati, anche se con un
abbattimento. Questo significa che il
lavoratore soccombente dovrà pagare le spese
legali all'amministrazione, anche se questa
non si è difesa con un avvocato. Tra l'altro
si tratta di manovre disincentivanti che si
combinano con l'assoggettamento al
contributo unificato delle cause di lavoro.
La norma in esame estende anche alle
controversie di lavoro una regola già
dettata nei processi tributari (art. 15,
comma 2-bis, del dl 546/1992). La riscossione
avverrà mediante iscrizione al ruolo.
La
novità non si applica alle cause pendenti,
ma solo alle controversie insorte
successivamente alla futura data di entrata
in vigore della legge di stabilità. Rimane
fermo, invece, il mancato rimborso delle
spese processuali per altri contenziosi che
ammettono l'ente pubblico alla difesa in
proprio. Anche se non si comprende perché
l'ente pubblico non ha diritto alle spese
processuali nelle cause di opposizione a
sanzioni amministrative, mentre ne ha
diritto per le cause di lavoro e per i
ricorsi tributari.
Il ddl stabilità propone, poi, la modifica
dell'art. 52, comma 1-bis, del T.u. pubblico
impiego, riducendo il tempo per impugnare le
progressioni di carriera. Secondo il ddl
tutte le impugnazioni concernenti le
progressioni all'interno della stessa area
devono essere proposte, a pena di decadenza,
entro 120 giorni dalla comunicazione
dell'esito della procedura. La disposizione
si applicherà per il futuro e, quindi, alle
graduatorie pubblicate successivamente alla
data di entrata in vigore della legge di
stabilità.
Analogo termine di 120 giorni è proposto da
una novità del ddl stabilità per la domanda
di risarcimento del danno non patrimoniale
derivante da provvedimenti
dell'amministrazione, nelle controversie
relative ai rapporti di lavoro dei
dipendenti delle p.a. rientranti nella
giurisdizione del giudice ordinario. La
domanda deve essere proposta entro il
termine di decadenza decorrente dal
passaggio in giudicato della sentenza che ha
definito il giudizio di impugnazione dei
provvedimenti della p.a. La disposizione
avrà effetto solo per il futuro, in quanto
il ddl specifica che la tagliola non si
applica alle domande già proposte nei
giudizi pendenti alla data di entrata in
vigore della legge stabilità (articolo ItaliaOggi Sette del
24.10.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Per demolire un manufatto è
sufficiente la denuncia di inizio attività.
La demolizione di un
manufatto non integra la fattispecie di cui
all’art. 44, primo comma, lett. b), del
Testo Unico Edilizia, perché per un simile
intervento non è necessario il permesso a
costruire, ma è sufficiente la semplice
denuncia di inizio attività, la cui mancanza
costituisce illecito amministrativo .
E’ questo il principio di diritto ribadito
dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale,
con la
sentenza 17.06.2011 n. 24423 in
merito ad una questione rilevante, ancora di
incerta soluzione dottrinaria, relativa alla
individuazione della natura dei titoli
abilitativi necessari per la demolizione di
opere.
Nel caso di specie si è trattato di un
ricorso promosso dalla Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Firenze
contro un’ordinanza pronunciata dallo stesso
Tribunale in funzione di giudice del
riesame. In particolare, il provvedimento
aveva disposto la revoca del decreto di
sequestro preventivo di un immobile sul
quale erano stati effettuati interventi di
demolizione in assenza del necessario titolo
abilitativo.
La decisione dei giudici del Palazzaccio,
anche se non in maniera decisiva, risolve
ancora una volta la questione escludendo la
sussistenza del reato richiamato, che di per
sé avrebbe comportato la sanzione
dell’arresto fino a due anni e l’ammenda da
30.986 a 103.290 euro, in quanto nel caso
specifico per i lavori di cui alle DIA
risultava essere stata rilasciata apposita
autorizzazione paesaggistica.
Resta tuttavia un margine di incertezza di
carattere generale che ad oggi non trova una
vera e propria linea di confine tra le
ipotesi in cui risulti necessario il
permesso a costruire.
Il ricorso in Cassazione, tuttavia, è stato
rigettato per una questione di carattere
pregiudiziale, in quanto l’ordinanza del
Tribunale del riesame, oltre al fumus
del reato, aveva escluso la sussistenza
delle esigenze cautelari che giustificassero
la misura del sequestro preventivo, non
essendo in corso l’esecuzione di interventi
edilizi né prevedibile la loro prosecuzione.
Infatti, secondo i giudici di Piazza Cavour,
l’impugnazione della pubblica accusa ha
totalmente ignorato tale argomentazione, di
per sé sola sufficiente ad escludere la
necessità della misura cautelare. Da qui il
rigetto del ricorso del P.M. (link a
www.altalex.com). |
URBANISTICA: Il
piano di recupero, quale strumento
attuativo, è suscettibile di perseguire sia
finalità di recupero del patrimonio edilizio
esistente in misura via via più complessa
dagli interventi di manutenzione ordinaria a
quelli di ristrutturazione edilizia [lettere
da a) a d) del comma 1 dell'art. 31 della
legge n. 457/1978], sia finalità di recupero
urbanistico, laddove, come contemplato
dall'art. 31, comma 1, lettera e), della
legge n. 457 del 1978, esso può prevedere
interventi "rivolti a sostituire l'esistente
tessuto urbanistico-edilizio con altro
diverso, mediante un insieme sistematico di
interventi edilizi anche con la
modificazione del disegno dei lotti, degli
isolati e della rete stradale", nonché dalla
normativa regionale.
La funzione precipua del piano di recupero è
la conservazione del patrimonio edilizio
esistente mediante la riqualificazione e la
ridefinizione del tessuto urbano ai fini di
recupero del patrimonio edilizio ed
urbanistico degradato per conservare e
riutilizzare il patrimonio, sicché la
connotazione tipica dello strumento in
questione che ne individua i limiti
oggettivi, è pur sempre caratterizzata dalla
conservazione, ricostruzione e
riutilizzazione del patrimonio esistente,
con la conseguenza che è del tutto marginale
che il recupero edilizio, consistendo in
interventi sugli elementi costitutivi degli
edifici esistenti, possa comportare
incrementi volumetrici ossia nuove
edificazioni.
Il piano di recupero è, normalmente, un
delicato equilibrio volto alla conservazione
e al recupero di un ambiente urbano
degradato.
Va ricordata la giurisprudenza del Consiglio
di Stato sulla natura del piano di recupero.
Il piano di recupero, quale strumento
attuativo, è suscettibile di perseguire sia
finalità di recupero del patrimonio edilizio
esistente in misura via via più complessa
dagli interventi di manutenzione ordinaria a
quelli di ristrutturazione edilizia [lettere
da a) a d) del comma 1 dell'art. 31 della
legge n. 457/1978], sia finalità di recupero
urbanistico, laddove, come contemplato
dall'art. 31, comma 1, lettera e), della
legge n. 457 del 1978, esso può prevedere
interventi "rivolti a sostituire
l'esistente tessuto urbanistico-edilizio con
altro diverso, mediante un insieme
sistematico di interventi edilizi anche con
la modificazione del disegno dei lotti,
degli isolati e della rete stradale",
nonché dalla normativa regionale (tra le
tante decisioni CdS sez. IV 05.03.2008 n.
922).
Ancora, secondo condivisibile
giurisprudenza, la funzione precipua del
piano di recupero è la conservazione del
patrimonio edilizio esistente mediante la
riqualificazione e la ridefinizione del
tessuto urbano ai fini di recupero del
patrimonio edilizio ed urbanistico degradato
per conservare e riutilizzare il patrimonio,
sicché la connotazione tipica dello
strumento in questione che ne individua i
limiti oggettivi, è pur sempre
caratterizzata dalla conservazione,
ricostruzione e riutilizzazione del
patrimonio esistente, con la conseguenza che
è del tutto marginale che il recupero
edilizio, consistendo in interventi sugli
elementi costitutivi degli edifici
esistenti, possa comportare incrementi
volumetrici ossia nuove edificazioni (Tar
Bari 19.09.2002 n. 4016).
Come sopra chiarito, il piano di recupero è,
normalmente, un delicato equilibrio volto
alla conservazione e al recupero di un
ambiente urbano degradato
(TAR Marche,
sentenza 16.05.2011 n. 324 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: I
piani attuativi soggiacciono alla regola
secondo cui il termine per l'impugnazione,
da parte dei soggetti non direttamente
contemplati, quali i confinanti o i vicini,
decorre dalla pubblicazione della delibera
che li approva.
Sul punto va affermato che i piani attuativi
soggiacciono alla regola secondo cui il
termine per l'impugnazione, da parte dei
soggetti non direttamente contemplati, quali
i confinanti o i vicini, decorre dalla
pubblicazione della delibera che li approva
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 31.01.2005 n.
254; Sez. V, 14.07.1995 n. 1080; 30.07.1993
n. 812; TAR Lombardia Brescia, Sez. I,
05.11.2010 n. 4559; TAR Emilia Romagna
Bologna, Sez. II, 14.06.2005 n. 824)
(TAR Marche,
sentenza 16.05.2011 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Ii
completamento dei lavori è considerato
indizio idoneo a far presumere la data della
piena conoscenza del titolo edilizio, salvo
termini più brevi nel caso in cui venga
fornita la prova di una conoscenza
anticipata o che venga dedotta l'inedificabilità
dell'area.
In punto di diritto trova applicazione il
principio, ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza amministrativa, secondo cui
il completamento dei lavori è considerato
indizio idoneo a far presumere la data della
piena conoscenza del titolo edilizio, salvo
termini più brevi nel caso in cui venga
fornita la prova di una conoscenza
anticipata o che venga dedotta l'inedificabilità
dell'area (cfr. Cons. Stato, Sez. VI,
10.12.2010 n. 8705; Sez. IV, 27.05.2010 n.
3378; Sez. IV, 18.06.2009 n. 4015; Sez. V,
04.03.2008 n. 885)
(TAR Marche,
sentenza 16.05.2011 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
convenzioni urbanistiche devono sempre
considerarsi rebus sic stantibus e, persino
durante la piena efficacia di un piano
urbanistico e della relativa convenzione
urbanistica, legittimamente
l'amministrazione, in presenza di un
interesse pubblico sopravvenuto, ha la
facoltà di introdurre nuove previsioni, con
il solo onere di motivare le esigenze che le
determinano.
In presenza di nuove esigenze non sussiste,
quindi, preclusione a nuovi interventi,
atteso che lo ius variandi relativo alle
prescrizioni di piano regolatore generale
include anche un ius poenitendi relativo ai
vincoli precedentemente assunti, rispetto ai
quali il Comune non può ritenersi
permanentemente vincolato nemmeno da una
preesistente convenzione di lottizzazione.
La vigenza di una convenzione di
lottizzazione si riflette, semmai, solamente
in termini di obbligo di motivazione
nell'esercizio della potestas variandi, in
quanto incidente su aspettative qualificate
del privato parte della convenzione.
---------------
L'omessa indicazione nel piano
particolareggiato del termine di validità
non può considerarsi causa d'illegittimità
dello stesso, operando, in tal caso, il
termine massimo decennale fissato dall'art.
16 l. n. 1150 del 1942.
Parimenti, la mancata indicazione nel piano
particolareggiato dei termini per il
compimento delle espropriazioni rileva solo
per la legittimità di queste ultime ma non
per quella del piano, giacché la certezza
dei rapporti giuridici è garantita dalla
decadenza legale del piano.
La giurisprudenza è costante nell’affermare
che le convenzioni urbanistiche devono
sempre considerarsi rebus sic stantibu,
e, persino durante la piena efficacia di un
piano urbanistico e della relativa
convenzione urbanistica, legittimamente
l'amministrazione, in presenza di un
interesse pubblico sopravvenuto, ha la
facoltà di introdurre nuove previsioni, con
il solo onere di motivare le esigenze che le
determinano.
In presenza di nuove esigenze non sussiste,
quindi, preclusione a nuovi interventi,
atteso che lo ius variandi relativo
alle prescrizioni di piano regolatore
generale include anche un ius poenitendi
relativo ai vincoli precedentemente assunti,
rispetto ai quali il Comune non può
ritenersi permanentemente vincolato nemmeno
da una preesistente convenzione di
lottizzazione (fra le tante Cons. Stato,
Sez. IV, 29.07.2008, n. 3766; n. 711 del
13.07.1993; 25.07.2001, n. 4073).
La vigenza di una convenzione di
lottizzazione si riflette, semmai, solamente
in termini di obbligo di motivazione
nell'esercizio della potestas variandi,
in quanto incidente su aspettative
qualificate del privato parte della
convenzione (Cons. Stato, Sez. IV,
28.02.2005, n. 719).
---------------
L'omessa
indicazione nel piano particolareggiato del
termine di validità non può considerarsi
causa d'illegittimità dello stesso,
operando, in tal caso, il termine massimo
decennale fissato dall'art. 16 l. n. 1150
del 1942 (Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2005 ,
n. 985).
Parimenti, la mancata indicazione nel piano
particolareggiato dei termini per il
compimento delle espropriazioni rileva solo
per la legittimità di queste ultime ma non
per quella del piano, giacché la certezza
dei rapporti giuridici è garantita dalla
decadenza legale del piano (TAR Umbria
Perugia, 07.12.2001, n. 650)
(TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 11.05.2011 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
comunicazione di avvio del procedimento,
prevista dall'art. 7 della legge 07.08.1990
n. 241, è necessaria soltanto per i
procedimenti iniziati d'ufficio e non già
per quelli avviati ad istanza di parte nei
quali lo stesso interessato con la sua
domanda può inserire tutti gli elementi che
ritiene debbano essere presi in
considerazione dalla Pubblica
Amministrazione ai fini dell'adozione del
provvedimento finale.
Ai sensi dell’art. 21-octies della l. n. 241
del 1990 non è annullabile il provvedimento
amministrativo adottato in violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli
atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto
adottato.
Vero è che l'art. 21-octies cit. pone in
capo all'Amministrazione (e non del privato)
l'onere di dimostrare, in caso di mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento,
che il contenuto del provvedimento non
poteva essere diverso; tuttavia, onde
evitare di gravare la p.a. di una probatio
diabolica (quale sarebbe quella consistente
nel dimostrare che ogni eventuale contributo
partecipativo del privato non avrebbe mutato
l'esito del procedimento), risulta
preferibile interpretare la norma in esame
nel senso che il privato non possa limitarsi
a dolersi della mancata comunicazione di
avvio, ma debba anche quantomeno indicare o
allegare quali sono gli elementi conoscitivi
che avrebbe introdotto nel procedimento ove
avesse ricevuto la comunicazione.
Va condiviso, infatti, quell'orientamento
giurisprudenziale (ex multis, TAR
Campania Napoli, sez. IV, 11.11.2004, n.
16752) secondo cui la comunicazione di avvio
del procedimento, prevista dall'art. 7 della
legge 07.08.1990 n. 241, è necessaria
soltanto per i procedimenti iniziati
d'ufficio e non già per quelli avviati ad
istanza di parte nei quali lo stesso
interessato con la sua domanda può inserire
tutti gli elementi che ritiene debbano
essere presi in considerazione dalla
Pubblica Amministrazione ai fini
dell'adozione del provvedimento finale.
Considerato che nella fattispecie in esame
la sanzione applicata, in disparte il
carattere vincolato della sua irrogazione, è
diretta conseguenza dell’accoglimento della
domanda di sanatoria edilizia richiesta dai
ricorrenti per l’intervento abusivo
realizzato in un'area di valore
paesaggistico, il procedimento deve
considerarsi avviato ad istanza di parte
(con la domanda di sanatoria), con la
conseguenza che l'amministrazione non era
tenuta a comunicare al ricorrente l'avvio
del connesso e necessario procedimento di
irrogazione della sanzione ambientale (in
termini TAR Lazio-Roma sez. II, 20.04.2002,
n. 3370).
Il Collegio evidenzia, peraltro, che ai
sensi dell’art. 21-octies della l. n. 241
del 1990 –applicabile alla fattispecie in
quanto, come chiarito dalla maggioritaria
giurisprudenza, norma avente carattere
processuale (cfr., Cons. St., sez. V,
17.09.2008, n. 4414)– non è annullabile il
provvedimento amministrativo adottato in
violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che
il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto
adottato (TAR Campania Napoli, sez. V,
04.03.2008, n. 1073; crf. anche Consiglio di
Stato n. 5414/2006). La medesima
disposizione, inoltre, nella sua seconda
parte prevede che il provvedimento
amministrativo non è comunque annullabile
per mancata comunicazione dell'avvio del
procedimento qualora l'amministrazione
dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
Nella fattispecie oggetto di giudizio gli
elementi addotti da parte ricorrente a
sostegno del ricorso non si presentano
affatto idonei a revocare in dubbio, come di
seguito il Collegio avrà modo di
evidenziare, che, ove anche rappresentati
all’amministrazione provinciale, avrebbero
comportato l’adozione di una diversa
determinazione.
Come affermato dalla giurisprudenza del
giudice d’appello, condivisa dal Collegio,
vero è che l'art. 21-octies cit. pone in
capo all'Amministrazione (e non del privato)
l'onere di dimostrare, in caso di mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento,
che il contenuto del provvedimento non
poteva essere diverso; tuttavia, "onde
evitare di gravare la p.a. di una probatio
diabolica (quale sarebbe quella consistente
nel dimostrare che ogni eventuale contributo
partecipativo del privato non avrebbe mutato
l'esito del procedimento), risulta
preferibile interpretare la norma in esame
nel senso che il privato non possa limitarsi
a dolersi della mancata comunicazione di
avvio, ma debba anche quantomeno indicare o
allegare quali sono gli elementi conoscitivi
che avrebbe introdotto nel procedimento ove
avesse ricevuto la comunicazione" (così
Cons. St., sez. VI, 29.07.2008, n. 3786)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 06.05.2011 n. 784 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
15 della legge n. 1497 del 1939 (divenuto
poi l'art. 164 del d.lgs. nr. 490 del 1999,
ed oggi l'art. 167 del d.lgs. n. 42 del
2004) va interpretato nel senso che
l'indennità prevista per abusi edilizi in
zone soggette a vincoli paesaggistici
costituisce vera e propria sanzione
amministrativa (e non una forma di
risarcimento del danno), che come tale
prescinde dalla sussistenza effettiva di un
danno ambientale.
Come chiarito
dalla consolidata giurisprudenza in materia,
l'art. 15 della legge n. 1497 del 1939
(divenuto poi l'art. 164 del d.lgs. nr. 490
del 1999, ed oggi l'art. 167 del d.lgs. n.
42 del 2004) va interpretato nel senso che
l'indennità prevista per abusi edilizi in
zone soggette a vincoli paesaggistici
costituisce vera e propria sanzione
amministrativa (e non una forma di
risarcimento del danno), che come tale
prescinde dalla sussistenza effettiva di un
danno ambientale (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
28.07.2006, n. 4690; Cons. Stato, sez. IV,
15.11.2004, n. 7405; id. 03.11.2003, n.
7047; Cons. Stato, sez. VI, 03.04.2003, n.
1729; Cons. Stato, sez. IV, 12.11.2002, n.
6279; Cons. Stato, sez. VI, 08.11.2000, n.
6007; id. 06.06.2000, n. 3185)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 06.05.2011 n. 784 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
QUESITI &
PARERI |
APPALTI:
Società pubbliche locali, quali i requisiti
del soggetto adibito ai compiti del R.U.P.?
Domanda.
Una S.r.l. a totale e unica partecipazione
del Comune -che esercita sulla stessa il "controllo
analogo"- deve appaltare un lavoro di
2.500.000 euro per ristrutturare un immobile
di proprietà. Vi chiediamo come la Società
-che ha solo personale impiegatizio e
fungerà da Stazione Appaltante- debba
regolarsi in merito all'individuazione del
R.U.P. così come previsto dall'art. 9 e 10
del D.P.R. 05-10-2010, n. 207 (Regolamento
di Attuazione del Codice dei Lavori
Pubblici).
In particolare chiediamo -nel caso che sia
tenuta anch'essa ad individuarlo- quale sia
il titolo di studio/qualifica richiesto.
Risposta.
Giova ricordare che la questione relativa
alla soggezione di Società costituite o
partecipate dall'Ente Locale all'obbligo di
nominare il Responsabile Unico del
Procedimento (di seguito solo R.U.P.) non è
nuova nella legislazione statale ma trovava
già nella previgente normativa interna in
materia di lavori pubblici, vale a dire nel
complesso costituito dalla L. 11.02.1994, n.
109 e dal D.P.R. 21.12.1999, n. 554,
un'espressa disciplina positiva.
Come noto, la c.d. Legge Merloni
assoggettava le Società costituite e/o
partecipate dagli Enti Locali ai sensi
dell'art. 2, comma 2, lettera b), alle norme
sull'evidenza pubblica, ma le esonerava
dall'obbligo della nomina del R.U.P., posto
che, ai sensi dell'art. 7, comma 1, Legge
cit. tale obbligo era previsto solo in capo
ai soggetti indicati all'art. 2, comma 2,
lettera a), tra i quali non erano comprese
le Società costituite o partecipate dagli
Enti Locali.
L'art. 7, comma 1, L. 11-02-1994, n. 109
doveva leggersi in combinato disposto con
l'art. 7, comma 6, D.P.R. 21.12.1999, n.
554, che vincolava i soggetti non tenuti
all'applicazione dell'art. 7 della Legge a
garantire lo svolgimento dei compiti
previsti per il responsabile del
procedimento dalle norme della legge e del
regolamento che li riguardano.
La situazione giuridica delle Società
costituite o partecipate da Enti Locali di
fronte alla nomina del R.U.P. non sembra
essere mutata nel nuovo quadro normativo
costituito dal D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 e
dal D.P.R. 05.10.2010, n. 207.
L'art. 10, comma 9, D.Lgs. 12.04.2006, n.
163 e s.m.i. prevede, infatti, che "Le
stazioni appaltanti che non sono pubbliche
amministrazioni e enti pubblici, in
conformità ai principi della legge
07.08.1990, n. 241, individuano, secondo i
propri ordinamenti, uno o più soggetti cui
affidare i compiti propri del responsabile
del procedimento, limitatamente al rispetto
delle norme del presente codice alla cui
osservanza sono tenuti".
Le Società costituite o partecipate
dall'Ente Locale, ancorché totalitarie, sono
soggetti all'applicazione di questa deroga
perché sono qualificabili alla stregua di
Enti privatistici.
L'attuale disciplina dell'art. 10, comma 9,
D.Lgs. cit. deve, peraltro, essere
sincronizzata con le novità introdotte dalla
L. 11.02.2005, n. 15 nel corpo della L.
07.08.1990, n. 241.
Assume particolare rilevanza il
coordinamento della norma in commento con
l'art. 1, comma 1-ter, L. 07.08.1990, n. 241
e s.m.i., a mente del quale i soggetti
privati preposti all'esercizio di attività
amministrative assicurano il rispetto dei
criteri e dei principi di cui al comma 1,
cioè economicità, di efficacia, di
imparzialità, di pubblicità e di trasparenza
(v. anche art. 2, D.Lgs. 12.04.2006, n.
163).
In tale prospettiva, la norma settoriale
dell'art. 10 deve intendersi, in coerenza
alla norma generale sul procedimento, nel
senso che gli Enti privatistici, come le
Società miste e le stesse Società a
partecipazione pubblica totalitaria, non
sono strictu sensu obbligate a
nominare un soggetto da adibire al ruolo di
R.U.P. per i procedimenti amministrativi di
rispettiva competenza, come i procedimenti
di evidenza pubblica; tali soggetti hanno,
tuttavia, un distinto obbligo, quello cioè
di affidare a uno o anche più soggetti i
compiti che le legge e il regolamento
demandano al R.U.P. e che scaturiscono
dall'applicazione delle norme del Codice (e
del Regolamento di Attuazione) applicabili
anche a tali Enti privatistici.
Nel caso di specie, dunque, la Società potrà
e dovrà affidare i compiti del R.U.P. a uno
o più soggetti, senza però sottostare
all'obbligo di nominare un soggetto da
adibire al ruolo di R.U.P.
L'art. 10, comma 9, D.Lgs. 12.04.2006, n.
163, peraltro, non offre puntuali
indicazioni circa i criteri di scelta del
soggetto o dei soggetti da adibire ai
compiti di cui all'art. 10, comma 9, D.Lgs.
12.04.2006, n. 163 e, in particolare, circa
la qualificazione -professionale e
lavorativa- del soggetto o dei soggetti da
preporre ai compiti del R.U.P.
La soluzione che meglio si armonizza con la
previsione dell'esonero delle Società
costituite o partecipate da Enti Locali
dall'obbligo di nominare un vero e proprio
R.U.P., dovrebbe ritenersi quella che
esclude che questi Enti, nell'individuare i
soggetti da adibire ai relativi compiti,
siano tenuti in modo rigido a rispettare le
previsioni del Codice e del Regolamento che
identificano requisiti e le qualifiche che
il soggetto da nominare a R.U.P. deve
possedere.
Diversamente, infatti, cioè opinando che
anche Enti privatistici debbono
pedissequamente seguire le stesse regole
previste dall'art. 10 del D.Lgs. 12.04.2006,
n. 163 e del D.P.R. 05.10.2010, n. 207 per
la scelta del R.U.P. da parte di Pubbliche
Amministrazioni e Enti pubblici, verrebbero
ad essere frustrate le ragioni sottese alla
previsione derogatoria dell'art. 10, comma 9
cit. e svilite le peculiarità, organizzative
e ordinamentali, favorevolmente apprezzate
dal Legislatore codicistico.
Vero è, invece, che gli Enti privatistici in
parola devono garantire che i compiti del
R.U.P. siano esercitati in modo efficiente,
economico, imparziale, trasparente e
proporzionato ai fini pubblici perseguiti,
come si desume dal coordinamento dell'art.
10, comma 9, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 e
s.m.i. con l'art. 1, L. 07.08.1990, n. 241
e, ancor prima, con l'art. 2, D.Lgs.
12.04.2006, n. 163 medesimo.
Ciò significa, quindi, che, per tornare al
quesito sottoposto, le Società pubbliche
locali nell'operare la scelta del soggetto o
dei soggetti da adibire ai compiti del
R.U.P. ad esse applicabili:
- potranno operare con maggiore elasticità
sul fronte organizzativo, operando la
designazione in modo più confacente al
proprio ordinamento interno;
- non potranno derogare alla regola -diretto
corollario del principio di imparzialità e
buon andamento dell'azione amministrativa ad
esse applicabile- che impone di affidare i
compiti del R.U.P. a un soggetto in grado di
assolverli adeguatamente e, quindi, a un
soggetto che, ancorché privo della
qualificazione di tecnico, possa sopperire
efficacemente alle sue lacune curriculari
avvalendosi di soggetti adeguatamente
qualificati in relazione alla tipologia e
alla natura dell'intervento (cfr. art. 10,
comma 7, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 e s.m.i.)
(24.10.2011 - commento tratto da
www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto:
Comunicazione di eseguita attività (c.e.a.)
ex art. 41, comma 2, L.R. n. 12/2005 ed
esame impatto paesistico dei progetti
(Regione
Lombardia, Giunta Regionale, Direzione
Generale Sistemi Verdi e Paesaggio, Progetti
Integrati Paesaggio, Paesaggio,
nota 20.10.2011 n. 21568 di prot.). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Licenziamento per giusta causa,
la graduazione della sanzione va sempre
motivata.
Il licenziamento per
giusta causa deve sempre essere corroborato
da un ragionamento sulla proporzionalità
della sanzione che giustifichi la
graduazione della pena. Non è sufficiente,
dunque, il mero richiamo da parte del
giudice alla sussistenza di una infrazione
al codice disciplinare.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez.
lavoro,
sentenza 25.10.2011 n. 22129,
accogliendo il ricorso di un cassiere di
supermercato licenziato per aver accreditato
sulla propria fidelity card i punti
della spesa accumulati dai clienti del
supermercato, e rinviando per la decisione
alla Corte di appello di Milano.
Per la Suprema corte, infatti, “giusta
causa di licenziamento e proporzionalità
della sanzione disciplinare sono nozioni che
la legge, allo scopo di adeguare le norme
alla realtà da disciplinare, articolata e
mutevole nel tempo, configura con
disposizioni, ascrivibili alla tipologia
delle cosiddette clausole generali, di
limitato contenuto e delineanti un modulo
generico che richiede di essere specificato
in sede interpretativa”. Simili
specificazioni “hanno natura giuridica e
la loro disapplicazione è, quindi,
deducibile in sede di legittimità”.
All'opposto: “Nel caso in esame la Corte
territoriale, al fine di giudicare la
proporzionalità della sanzione, ha omesso
ogni considerazione riguardo alla
graduazione della pena, limitandosi ad
affermare la sussistenza della fattispecie
disciplinare”.
Bocciato, invece, il secondo motivo di
ricorso relativo alla mancata
predeterminazione delle sanzioni
disciplinari. La Corte ha chiarito che “il
codice disciplinare aziendale non
necessariamente deve contenere una analitica
e specifica predeterminazione delle
infrazioni e, in relazione allo loro
gravità, delle corrispondenti sanzioni
secondo il rigore formale proprio del
sistema sanzionatorio penale statuale”.
Ma “è sufficiente che sia redatto in
forma che renda chiare le ipotesi di
infrazione, sia pure dandone una nozione
schematica e non dettagliata delle varie
prevedibili o possibili azioni del singolo”
(link a www.diritto24.ilsole24ore.com). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Anche nel caso di condanna
definitiva del dipendente è possibile la
ricostruzione della posizione giuridica ed
economica per il periodo di sospensione
cautelare.
Nella controversia in rassegna l'appellante,
dipendente presso un Comune, veniva
cautelativamente sospeso dal servizio a
seguito di arresto, e, sottoposto a
procedimento penale, veniva condannato a due
anni di reclusione ed all'interdizione dai
pubblici uffici per cinque anni.
L’Ente locale ha perciò applicato la
sanzione disciplinare della sospensione
della qualifica per sei mesi che
l’interessato ha contestato presso il
Tribunale amministrativo di primo grado; il
Tar ha accolto il ricorso condannando
l'amministrazione al pagamento del
trattamento retributivo corrispondente alla
durata della sospensione dal servizio. Il
Comune, pertanto, ha impugnato la sentenza
di primo grado, sostenendo di non essere
tenuto al pagamento degli emolumenti per i
periodi di sospensione sino all'esito del
procedimento penale.
L'appello, secondo i giudici del Consiglio
di Stato, è infondato: ai sensi dell'art.
91, d.P.R n. 3/1957, infatti, l'impiegato
sottoposto a procedimento penale può essere
sospeso dal servizio quando la natura del
reato sia particolarmente grave, mentre deve
necessariamente essere sospeso quando sia
destinatario di misure restrittive della
libertà personale.
La sospensione cautelare disposta a causa
del procedimento penale, ove questo si
concluda con sentenza di proscioglimento o
di assoluzione, è revocata con conseguente
diritto dell'imputato a godere di tutti gli
assegni non percepiti, escluse le indennità
di lavoro straordinario, mentre, nel caso in
cui il procedimento penale si concluda con
sentenza di proscioglimento o di assoluzione
per motivi differenti da quelli di cui al
comma 1 del cit. art. 91, la sospensione può
essere mantenuta qualora venga iniziato,
entro 180 giorni, apposito procedimento
disciplinare.
I giudici di Palazzo Spada affermano che non
risulta regolata l'ipotesi in cui il
dipendente, sospeso ex art. 91, d.P.R.. n.
3/1957, sia destinatario, come in
quest’occasione, di una sentenza definitiva
di condanna. In tal caso, ritiene il
collegio che, in base all'esame sistematico
delle citate disposizioni, la misura
sospensiva ed i relativi effetti debbano
considerarsi sussistenti anche nel caso in
cui la pubblica amministrazione non abbia
iniziato il procedimento disciplinare (o
questo sia stato annullato), allorché il
dipendente sia stato destinatario di una
sentenza di condanna passata in giudicato.
Ciò in quanto la sentenza di condanna del
pubblico dipendente, anche se non scontata,
determina l'interruzione del rapporto di
lavoro per fatto imputabile allo stesso, con
conseguente insussistenza dei presupposti
idonei a giustificare il ripristino dello
status quo ante dell'impiegato a suo tempo
sospeso (cfr. C.S., dec. n. 5568/2010).
Pertanto, la ricostruzione della posizione
giuridica ed economica per il periodo di
sospensione cautelare è possibile,
nonostante l'intervenuta condanna
definitiva, purché siano preventivamente
dedotti i periodi corrispondenti alla
condanna penale inflitta, anche se non
scontata per l'eventuale sospensione
condizionale della pena (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 21.10.2011 n. 5660 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ai fini della legittimazione ad
agire deve considerarsi l’effettiva
concorrenzialità del settore merceologico e
del bacino di utenza tra due attività.
Se da un lato è
vero che la giurisprudenza, al fine di
verificare la legittimazione ad agire,
considera rilevante la distanza tra
esercizi, va rilevato che, con il
progressivo sviluppo delle strutture di
vendita, si è ampliata l'interpretazione
giurisprudenziale della vicinitas,
nel senso di dare rilievo al collegamento
territoriale in relazione al c.d “bacino
di utenza”; pertanto, non può ritenersi
dirimente, ai fini della legittimazione,
l’effettiva distanza lineare tra due
attività concorrenti, venendo in rilievo,
piuttosto, l’effettiva concorrenzialità del
settore merceologico e del bacino di utenza,
per cui il criterio topografico della
distanza tra due sedi commerciali ha
acquisito un contenuto elastico, che va
misurato in rapporto ai citati parametri
(Consiglio di Stato, Sez. V ,
sentenza 21.10.2011 n. 5656 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Affidamenti
blindati per l'ente. Palazzo Spada: sì a
polizza fideiussoria.
Affidamento di servizi
blindato per il comune. È legittima la
clausola del bando che prevede una polizza
fideiussoria per la quale, una volta
ottenuta l'aggiudicazione, il concessionario
dovrà essere in possesso di una fideiussione
bancaria, pari al 10% dell'importo della
gara vinta, in modo che l'ente locale abbia
una garanzia rafforzata del pagamento da
parte del concessionario del canone offerto
per ogni stallo.
È quanto emerge dalla
sentenza 21.10.2011 n. 5636 della V
Sez. del Consiglio di stato.
Stallo escluso.
Accolto il ricorso dell'amministrazione
nell'ambito di un contenzioso
sull'affidamento della gestione dei
parcheggi: legittima l'esclusione dalla gara
dell'azienda concorrente che, con
riferimento alla cauzione prescritta dal
bando, allega all'offerta soltanto
l'appendice scheda-tecnica, secondo lo
schema tipo 1.1. di cui al dm 123/2004,
rilasciata dalla compagnia assicurativa.
Il bando di gara parla chiaro: dispone
espressamente a pena di esclusione che la
polizza fideiussoria debba contenere «l'impegno
a rilasciare, in caso di aggiudicazione
dell'appalto, una fideiussione bancaria pari
al 10% dell'importo di aggiudicazione, oltre
Iva se e in quanto dovuta, da svincolarsi
dopo due mesi dalla fine del contratto con
l'espressa previsione che, se non si
ottempererà al pagamento (del canone), il
comune potrà procedere alla riscossione
della stessa, senza ulteriori adempimenti e
con la contestuale risoluzione del contratto».
La clausola voluta dall'amministrazione è
pienamente lecita perché le relative
prescrizioni puntano a evitare eventuali
contestazioni in sede di esecuzione del
contratto: nonostante le cauzioni
provvisorie e definitive ex articoli 75 e
113 dlgs 163/2006 siano garanzie autonome
e/o a prima richiesta, cioè prive di
accessorietà con il debito dell'obbligato
principale, non si può escludere a priori
che il soggetto aggiudicatario (che è il
debitore principale) possa agire in via di
regresso e/o rivalsa nei confronti del
comune garantito
(articolo ItaliaOggi del 25.10.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di ultimazione delle
opere ai fini dell’applicabilità della
disciplina sul condono edilizio coincide con
l’esecuzione del rustico.
Diversamente da quanto sostenuto dai primi
giudici, la giurisprudenza sul punto ha
avuto modo di precisare che la nozione di
ultimazione delle opere, cui occorre far
riferimento ai fini dell’applicabilità della
disciplina sul condono edilizio, coincide
con l’esecuzione del rustico [da intendersi
come muratura priva di rifinitura (Cass. pen.,
sez. III, 02.12.1998, n. 10082) e da non
confondere con lo scheletro, le pareti
esterne non potendo considerarsi mere
rifiniture (C.d.S., sez. IV, 12.03.2009, n.
1474)] e comprende anche il necessario
completamento della copertura (Cass. pen.
Sez. III, 02.012.2008, n. 8064; 15.02.2005,
n. 10896; C.d.S., sez. IV, 07.09.2006, n.
5212; sez. V, 18.11.2004, n. 7547;
20.10.2000, n. 5638) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 19.10.2011 n. 5625 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Non è prospettabile una questione
di giurisdizione sulla domanda di accesso a
documenti amministrativi.
Come chiarito dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato n. 4/1999 e dalla
successiva giurisprudenza (di recente, Cons.
St. Sez. VI, 19.04.2011, n. 2434; Sez. VI,
12.01.2011, n. 117), la normativa
sull’accesso ha il medesimo ambito di
applicazione dell’art. 97 della costituzione
e riguarda tutti gli atti riferibili
all’amministrazione, non rilevando la loro
disciplina sostanziale pubblicistica o
privatistica e neppure se, nel caso di
controversia, vi sia la giurisdizione del
giudice ordinario o di quello
amministrativo.
Pertanto, non è prospettabile la questione
di giurisdizione in ordine alla domanda di
accesso a documenti amministrativi, non
potendo in tale sede il giudice verificare
altresì la giurisdizione sulla controversia
avente ad oggetto atti del procedimento cui
appartengono quelli richiesti e, per tale
via, omettere di pronunciarsi a riguardo.
Non può, in altri termini, la questione del
riparto di giurisdizione sul ricorso
principale –peraltro concernente il corretto
esercizio da parte dell’amministrazione
comunale, mediante atti organizzativi, del
potere di escludere o fortemente limitare il
ricorso alla copertura di posti attraverso
la procedura concorsuale, in applicazione
dei commi 519 e 558 della legge 27.12.2006,
n. 296 (cfr. Cass. SS.UU. ord. 01.07.2010,
n. 15648)- influire sulla decisione del
ricorso avverso il diniego di accesso, sul
quale il giudice amministrativo conosce in
sede di giurisdizione esclusiva (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 18.10.2011 n. 5566 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Può ricorrere contro il bando di
gara la ditta che abbia solo comunicato di
non poter presentare un’offerta remunerativa
in base allo stesso.
---------------
Se è vero che la misura del prezzo a base
d'asta non implica una mera scelta di
convenienza e opportunità, ma una
valutazione alla stregua di cognizioni
tecniche (andamento del mercato nel settore
di cui trattasi, tecnologie che le ditte
devono adoperare nell'espletamento dei
servizi oggetto dell'appalto, numero di
dipendenti che devono essere impiegati,
rapporto qualità-prezzo per ogni servizio)
sulla quale è possibile il sindacato del
giudice amministrativo, va precisato che
tale sindacato è limitato ai casi di
complessiva inattendibilità delle operazioni
e valutazioni tecniche operate
dall'amministrazione, alla illogicità
manifesta, alla disparità di trattamento,
non potendo il giudizio che il Tribunale
compie giungere alla determinazione del
prezzo congruo.
Va difatti ricordato che la legittimazione
del soggetto che contrasta immediatamente il
bando di gara (in relazione alle sue
clausole "escludenti"), senza
partecipare al procedimento, ha una
giustificazione logica evidente,
direttamente collegata alla affermazione
giurisprudenziale dell'onere di sollecita
impugnazione di tale atto lesivo, senza
attendere l'esito della selezione.
La certezza del pregiudizio determinato dal
bando rende superflua la domanda di
partecipazione e l'adozione di un atto
esplicito di esclusione.
Come ben ha ricordato l’Adunanza Plenaria
nella citata sentenza n. 4/2011 “al di
fuori delle ipotesi tassativamente enucleate
dalla giurisprudenza, pertanto, deve restare
fermo il principio secondo il quale la
legittimazione al ricorso, nelle
controversie riguardanti l'affidamento dei
contratti pubblici, spetti esclusivamente ai
soggetti partecipanti alla gara, poiché solo
tale qualità si connette all'attribuzione di
una posizione sostanziale differenziata e
meritevole di tutela. In questa veste, il
ricorrente che ha partecipato legittimamente
alla gara può far valere tanto un interesse
"finale" al conseguimento dell'appalto
affidato al controinteressato, quanto, in
via alternativa l'interesse strumentale alla
caducazione dell'intera gara e alla sua
riedizione".
Ciò premesso, va ricordato che la definitiva
esclusione o l'accertamento della
illegittimità della partecipazione alla gara
o la mancata partecipazione impediscono di
assegnare al concorrente la titolarità di
una situazione sostanziale che lo abiliti ad
impugnare gli esiti della procedura
selettiva.
---------------
Va ricordato,
in punto di diritto, che se è vero che la
misura del prezzo a base d'asta non implica
una mera scelta di convenienza e
opportunità, ma una valutazione alla stregua
di cognizioni tecniche (andamento del
mercato nel settore di cui trattasi,
tecnologie che le ditte devono adoperare
nell'espletamento dei servizi oggetto
dell'appalto, numero di dipendenti che
devono essere impiegati, rapporto
qualità-prezzo per ogni servizio) sulla
quale è possibile il sindacato del giudice
amministrativo, va precisato che tale
sindacato è limitato ai casi di complessiva
inattendibilità delle operazioni e
valutazioni tecniche operate
dall'amministrazione, alla illogicità
manifesta, alla disparità di trattamento,
non potendo il giudizio che il Tribunale
compie giungere alla determinazione del
prezzo congruo (cfr. TAR Sicilia Catania,
sez. II, 09.05.2006 , n. 716, Tar Sardegna,
Sez. I, 20.5.2010, n. 1232)
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 18.10.2011 n. 992 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Funzionario pubblico investito di
un ruolo dirigenziale. Per le mansioni
apicali sono dovute le differenze
retributive.
Nel caso in cui ad un
funzionario ministeriale siano attribuite in
maniera illegittima funzioni dirigenziali e'
dovuta, comunque, la differenza retributiva
laddove le prestazioni sono svolte secondo i
compiti propri del caso.
E' l'importante sentenza della Corte di
Cassazione, che ha riconosciuto che ad un
funzionario reggente deve essere pagata la
retribuzione da dirigente fino a quando il
posto vacante non viene ricoperto.
La Corte d'Appello aveva rigettato la
sentenza del giudice del lavoro del
Tribunale di una città umbra con la quale il
Ministero della Giustizia era stato
condannato al pagamento in favore di un
funzionario pubblico dell’importante somma
di € 290.551,28 a titolo di differenze
retributive dovutegli a decorrere dal
novembre del 2000 per aver diretto una Casa
Circondariale, individuata da quella data
come ufficio di livello dirigenziale non
generale per effetto del D.M. del
23.10.2001.
Le mansioni superiori nella
PA.
Come è stato più volte affermato in
giurisprudenza la disciplina legale del
lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni (desunta principalmente
dall'art. 97 Cost., secondo la lettura che
ne ha dato ripetutamente la Corte
Costituzionale, del quale sono attuazione il
D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 35 e 52), non
consente inquadramenti automatici del
personale, in base al profilo professionale
posseduto o alle mansioni svolte.
Il D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 –Norme generali
sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze
delle pubbliche amministrazioni pubbliche-
prevede, all’articolo 52, che per obiettive
esigenze di servizio il prestatore di lavoro
può essere adibito a mansioni proprie della
qualifica immediatamente superiore:
a) nel caso di vacanza di posto in organico,
per non più di sei mesi, prorogabili fino a
dodici qualora siano state avviate le
procedure per la copertura dei posti
vacanti;
b) nel caso di sostituzione di altro
dipendente assente con diritto alla
conservazione del posto, con esclusione
dell'assenza per ferie, per la durata
dell'assenza.
Si considera svolgimento di mansioni
superiori soltanto l'attribuzione in modo
prevalente, sotto il profilo qualitativo,
quantitativo e temporale, dei compiti propri
di dette mansioni.
Nei casi suindicati per il periodo di
effettiva prestazione, il lavoratore ha
diritto al trattamento previsto per la
qualifica superiore. Qualora l'utilizzazione
del dipendente sia disposta per sopperire a
vacanze dei posti in organico,
immediatamente, e comunque nel termine
massimo di novanta giorni dalla data in cui
il dipendente è assegnato alle predette
mansioni, devono essere avviate le procedure
per la copertura dei posti vacanti. Al di
fuori delle ipotesi appena viste è nulla
l'assegnazione del lavoratore a mansioni
proprie di una qualifica superiore, ma al
lavoratore è corrisposta la differenza di
trattamento economico con la qualifica
superiore. Il dirigente che ha disposto
l'assegnazione risponde personalmente del
maggior onere conseguente, se ha agito con
dolo o colpa grave.
L’analisi dei giudici della
Cassazione.
Per i giudici di merito di secondo grado
l’applicazione art. 52 del D.lgs. n. 165/2001
dipendeva dalla circostanza che nella
fattispecie non poteva ritenersi sussistente
l'ipotesi contemplata da quest'ultima norma,
vale a dire lo svolgimento di mansioni della
qualifica immediatamente superiore, in
quanto il ruolo dirigenziale rivendicato dal
funzionario ricorrente rappresentava uno
status, comportante poteri ed obblighi
diversi, e non una qualifica superiore. Il
funzionario per far valere le proprie
ragioni ricorreva in Cassazione.
Ai giudici di legittimità si chiedeva in
particolare se in applicazione dell'art. 4
D.lgs. 146/2000, sia illegittima
l'attribuzione delle mansioni superiori ad
un funzionario di livello C3 per un periodo
di tempo illimitato, quando vi sia totale
assenza dell'avvio delle procedure per la
nomina del dirigente e quindi se sia stato
erroneamente ritenuto dalla Corte
territoriale che il ricorrente, pur
svolgendo per molti anni con continuità, le
funzioni di dirigente del penitenziario
abbia avuto attribuito unicamente il livello
retributivo di C/3 ancorché contestualmente
l'amministrazione datoriale non abbia
avviato alcuna procedura per la copertura
del posto di dirigente dell'istituto.
I giudici di merito osservano che l'art. 31
del CCNL del i 16/02/1999 prevede
l'istituzione di un Fondo unico di
amministrazione presso ciascuna
amministrazione e le fonti di finanziamento
dello stesso Fondo. Quindi, come è dato
vedere, non si tratta di una indennità
appositamente destinata ai casi di
sostituzione di dirigenti impediti o assenti
o di reggenza in attesa di dirigenti da
nominare, bensì di un emolumento previsto
per il personale preposto alla direzione di
istituti penitenziari, inteso a compensare i
rischi e le responsabilità connaturati
all'espletamento dell'attività penitenziaria
in genere, la qual cosa prescinde dalla
circostanza dell'espletamento di mansioni
superiori dirigenziali in regime di
sostituzione o di reggenza.
La giurisprudenza della Corte
costituzionale, infatti, ha ripetutamente
affermato l'applicabilità, anche nel
pubblico impiego e nel lavoro pubblico in
generale, dell’articolo 36 Costituzione,
nella parte in cui attribuisce al lavoratore
il diritto ad una retribuzione proporzionale
anche alla qualità del lavoro prestato;
pertanto, si deve ritenere che intenzione
del legislatore sia stata di rimuovere, con
la disposizione correttiva, una norma in
contrasto con i principi costituzionali.
D'altra parte, la considerazione delle
specifiche caratteristiche delle posizioni
organizzative di livello dirigenziale e
delle relative attribuzioni regolate dal
contratto di incarico, come della diversità
delle "carriere", non può escludere
l'applicazione della disciplina in esame
quando venga dedotto, come nella specie,
l'espletamento di fatto, protratto nel
tempo, di mansioni dirigenziali da parte di
un funzionario di posizione economica "C3",
nonostante l'esistenza di una norma (art. 4
del D.lgs n. 146/2000 sulla copertura delle
sedi di livello dirigenziale) che consentiva
di avvalersi del personale con specifica
esperienza professionale per la copertura
delle sedi dirigenziali solo nella fase
transitoria e che prevedeva l'adozione, non
verificatasi nella fattispecie, di adeguate
procedure selettive, con le modalità
indicate, per l'assunzione dei dirigenti;
tale ipotesi può essere, invece, ricondotta
certamente alla previsione del quinto comma
dell’articolo 52 del D.Lgs. n. 165/2001
relativa al conseguimento del diritto
corrispondente trattamento economico,
secondo la ratio della norma che è
quella di assicurare al lavoratore una
retribuzione proporzionata alla qualità del
lavoro prestato, in ossequio al principio di
cui all’articolo 36 della Costituzione.
Le conclusioni.
La Corte di Cassazione accoglie il ricorso
del funzionario e rinvia a diversa Corte
d'appello, che uniformandosi ai suddetti
principi, deve provvedere ad individuare
l'esatto periodo di svolgimento delle
superiori funzioni dirigenziali da parte del
ricorrente e a determinare le relative
differenze retributive che gli competono con
riguardo al diverso trattamento economico
del ruolo dirigenziale ricoperto (commento
tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione
civile, sentenza 12.10.2011 n. 20978). |
APPALTI SERVIZI: Gestione
dei tributi: cadono i vincoli sul capitale
sociale. Interessati i soggetti iscritti
all'albo.
Le società partecipanti
alle gare per la gestione dei tributi locali
possono avvalersi del capitale sociale di
altri soggetti iscritti all'albo.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez.
V, con la
sentenza 08.10.2011 n. 5496,
ribaltando la decisione di primo grado.
Sul punto, il Tar Latina aveva escluso la
possibilità di utilizzare l'avvalimento del
capitale sociale minimo, trattandosi di
requisito soggettivo e personalissimo
preordinato a garantire l'affidabilità
dell'impresa partecipante (sentenza
1865/2010).
L'impostazione del Tar non è stata tuttavia
condivisa dal Consiglio di Stato, il quale
ha precisato che l'avvalimento, istituto di
derivazione comunitaria disciplinato
dall'articolo 49 del Dlgs 163/2006, ha
portata generale ed è finalizzato a
soddisfare i requisiti di carattere
economico, finanziario, tecnico,
organizzativo, usufruendo dei requisiti di
un altro soggetto. Pertanto l'avvalimento
del capitale sociale non incontra alcun
limite e prevale su qualunque disposizione
contraria, compresa quella che richiedeva il
requisito del capitale sociale di 10 milioni
di euro per l'iscrizione all'albo dei
soggetti abilitati a effettuare
l'accertamento e la riscossione delle
entrate locali.
Si tratta dell'albo ministeriale introdotto
dall'articolo 53 del Dlgs 446/1997, che
integra un vero e proprio obbligo per gli
enti locali di riservare la partecipazione
alle gare solo alle imprese in possesso di
questo requisito, che costituisce garanzia
di affidabilità e capacità operativa
assicurata da una preselezione operata a
monte. Il regolamento istitutivo dell'albo
–approvato con Dm Finanze 289/2000– prevede
il possesso di diversi requisiti (tecnici,
finanziari, morali, eccetera) tra cui il
capitale sociale minimo, sul quale è più
volte intervenuto il legislatore. In
particolare il Dl 185/2008 ha quadruplicato
l'importo precedente elevandolo a 10 milioni
di euro, ma la disposizione è stata
censurata e sottoposta al vaglio della Corte
Ue per presunta violazione dei principi di
ragionevolezza e proporzionalità (Tar Milano
210/2010).
Per risolvere il contrasto con l'ordinamento
comunitario, il Dl 40/2010 ha introdotto tre
classi operative, con diverse soglie di
capitale sociale minimo (uno, cinque e dieci
milioni), proporzionate alla popolazione
degli enti, in modo da consentire anche a
operatori di minori dimensioni di poter
svolgere l'attività per i piccoli comuni.
Operatori che, alla luce della decisione
5496/2011 del Consiglio di Stato, potranno
ora partecipare alle gare bandite dai Comuni
più grandi, chiedendo in prestito ad
un'altra società il requisito del capitale
sociale minimo richiesto dal bando.
Restano comunque da sciogliere alcuni nodi.
Andrebbe in primo luogo chiarito se
l'iscrizione all'albo sia necessaria anche
per svolgere attività complementari ed
accessorie (inserimento dati, rilevazione
superfici, bollettazione, eccetera) –come ha
più volte affermato il ministero delle
Finanze e in un primo momento anche il
Consiglio di Stato (2792/2003)– oppure se si
deve seguire l'orientamento più recente del
Consiglio di Stato che ritiene obbligatoria
l'abilitazione «soltanto per
l'affidamento dei servizi di liquidazione,
accertamento e riscossione dei tributi»
non in caso di attività di supporto
(1878/2006).
Inoltre il legislatore si è sempre limitato
a intervenire sulla misura minima del
capitale sociale, requisito che in realtà
non garantisce l'ente locale dagli eventuali
inadempimenti delle società. È necessaria
pertanto una rivisitazione complessiva delle
regole per l'iscrizione all'albo, revisione
peraltro prevista chiaramente dall'articolo
3 del Dl 40/2010, ma rimasta sinora lettera
morta
(articolo Il Sole 24
Ore del 24.10.2011 - link a
www.corteconti). |
APPALTI:
Obbligo di comunicare l'avvenuta
esclusione.
Nelle gare pubbliche di appalto, l'obbligo
previsto dall'art. 79, comma 5, D.Lgs. n.
163 del 2006 di comunicare l'avvenuta
esclusione, entro un termine non superiore a
cinque giorni, non contiene alcuna espressa
sanzione, e pertanto non può dedursi, da una
omissione che non ha arrecato alcun
nocumento alla parte interessata,
l'esistenza di un vizio tale da rendere
annullabile il provvedimento (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 06.10.2011 n. 5491 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ciò che contraddistingue la
ristrutturazione dalla nuova edificazione è
la già avvenuta trasformazione del
territorio, attraverso una edificazione di
cui si conservi la struttura fisica (sia
pure con la sovrapposizione di un "insieme
sistematico di opere, che possono portare ad
un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente"), ovvero la cui
stessa struttura fisica venga del tutto
sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con
ricostruzione, se non "fedele" -termine
espunto dall'attuale disciplina-, comunque,
rispettosa della volumetria e della sagoma
della costruzione preesistente.
E la distinzione non è priva di rilievo,
posto che va precisato il differente regime
cui sono soggetti gli interventi di
ristrutturazione edilizia rispetto alle
nuove costruzioni: ove la ristrutturazione
mantenga inalterati i parametri urbanistici
ed edilizi preesistenti, l'intervento non è
subordinato al rispetto dei vincoli posti
dagli strumenti urbanistici sopravvenuti,
giacché la legittimazione urbanistica del
manufatto da demolire si trasferisce su
quello ricostruito.
Dai principi sopra esposti si possono
prospettare le seguenti categorie di
ristrutturazione edilizia:
1) interventi edilizi che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino
aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle
superfici, ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle zone omogenee A,
comportino mutamenti della destinazione
d'uso (necessitanti il permesso di
costruire);
2) interventi edilizi consistenti nella
realizzazione di un organismo edilizio
identico al precedente, senza aumento di
unità immobiliari, modifiche del volume,
della sagoma, dei prospetti o delle
superfici, né, limitatamente agli immobili
compresi nelle zone omogenee A, mutamenti
della destinazione d'uso (per i quali è
sufficienti la d.i.a.);
3) ristrutturazione relativa alla
ricostruzione seguita alla demolizione di un
organismo di cui mantiene quanto meno sagoma
e volume.
Quindi, non è configurabile un’ipotesi
residuale di ristrutturazione derivante da
una demolizione e ricostruzione che non
mantenga, quanto meno, sagoma e volume.
Per mera completezza, è da dire che, in
riferimento al concetto di ristrutturazione,
è possibile, sia pure in maniera del tutto
limitata, anche la traslazione dell’area
originaria. Secondo la Circolare 07.08.2003,
n. 4174 del Ministero delle Infrastrutture e
dei Trasporti <<debbono considerarsi
ammissibili, in sede di ristrutturazione
edilizia, solo modifiche di collocazione
rispetto alla precedente area di sedime,
sempreché rientrino nelle varianti non
essenziali, ed a questo fine il riferimento
e' nelle definizioni stabilite dalle leggi
regionali in attuazione dell'art. 32 del
Testo unico. Resta in ogni caso possibile,
nel diverso posizionamento dell'edificio,
adeguarsi alle disposizioni contenute nella
strumentazione urbanistica vigente per
quanto attiene allineamenti, distanze e
distacchi.
In ragione delle considerazioni espresse,
per gli interventi di demolizione e
ricostruzione inclusi nella ristrutturazione
non può trovare applicazione quella parte
della normativa vigente che detta
prescrizioni per quanto riguarda gli indici
di edificabilità ed ogni ulteriore parametro
di carattere quantitativo (altezze,
distanze, distacchi, inclinate, ecc.)
riferibile alle nuove costruzioni. Ciò in
quanto il relativo rispetto potrebbe
risultare inconciliabile con la demolizione
e ricostruzione intesa come operazione da
effettuarsi con la sola osservanza della
sagoma e della volumetria preesistenti (ed
in tale prospettiva, qualora non venga
utilizzata per intero la sagoma e la
volumetria esistenti, l'intervento non può
essere incluso nella categoria della
ristrutturazione edilizia).
Va però soggiunto che la demolizione e
ricostruzione, rientrando per espressa
declaratoria legislativa nella
ristrutturazione edilizia, dovrà rispettare
le prescrizioni ed i limiti dello strumento
urbanistico vigente per quanto compatibili
con la natura dell'intervento e quindi non
in contrasto con la possibilità,
esplicitamente prevista dal legislatore, di
poter operare la ricostruzione attenendosi
al solo rispetto di sagoma e volume. Più
specificatamente la demolizione e
ricostruzione può comportare aumenti della
superficie utile nei limiti consentiti o non
preclusi per la ristrutturazione edilizia:
in proposito, deve ritenersi insita nella
natura di tale intervento la possibilità di
aumento della superficie utile con il
conseguente incremento del carico
urbanistico, stante la fondamentale ratio
legislativa di favorire il rinnovo del
patrimonio edilizio anche sotto un profilo
tecnico-qualitativo che comporta il più
delle volte, per la stessa praticabilità
dell'intervento, un diverso dimensionamento
della superficie utile>>.
Secondo
condivisibile giurisprudenza (cfr. TAR
Lombardia Brescia, sez. I, 09.02.2011, n.
239; Cons. St., Sez. IV, 09.07.2010 n. 4462,
ivi richiamato), <<la giurisprudenza del
Consiglio di Stato ha ripetutamente chiarito
che . . . il concetto di ristrutturazione
edilizia comprende anche la demolizione
seguita dalla fedele ricostruzione del
manufatto, purché tale ricostruzione
assicuri la piena conformità di sagoma, di
volume e di superficie tra il vecchio ed il
nuovo manufatto e venga, comunque,
effettuata in un tempo ragionevolmente
prossimo a quello della demolizione (si
veda, fra le tante, Cons. St., Sez. sez. V,
03.04.2000, n. 1906)>>.
Intervenuto, come sopra chiarito, a definire
siffatto intervento edilizio, l'art. 3 del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, e la modifica
introdotta dall'art. 1 del D.Lgs.
27.12.2002, n. 301, il vincolo della fedele
ricostruzione richiesto dalla prima norma è
venuto meno, così estendendosi ulteriormente
il concetto della ristrutturazione edilizia,
che, continua la decisione n. 239/2011 Tar
Brescia cit., <<per quanto riguarda gli
interventi di ricostruzione e demolizione ad
essa riconducibili, resta distinta
dall'intervento di nuova costruzione per la
necessità che la ricostruzione corrisponda,
quanto meno nel volume e nella sagoma, al
fabbricato demolito (Cons. St., Sez. IV,
28.07.2005 n. 4011; Cons. St., Sez. V,
30.08.2006 n. 5061).
In particolare, la giurisprudenza (cfr.
Cons. St., Sez. VI, 16.12.2008 n. 6214; Sez.
IV, 16.06.2008 n. 2981; Sez. V, 04.03.2008
n. 918; Sez. IV, 26.02.2008 n. 681) ha
sottolineato che ciò che contraddistingue la
ristrutturazione dalla nuova edificazione è
la già avvenuta trasformazione del
territorio, attraverso una edificazione di
cui si conservi la struttura fisica (sia
pure con la sovrapposizione di un "insieme
sistematico di opere, che possono portare ad
un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente"), ovvero la cui
stessa struttura fisica venga del tutto
sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con
ricostruzione, se non "fedele" -termine
espunto dall'attuale disciplina-, comunque,
rispettosa della volumetria e della sagoma
della costruzione preesistente>>.
Quindi, non esiste un tertius genus
di ristrutturazione preceduta da demolizione
che consenta anche la realizzazione di un
organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comporti
aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle
superfici, ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle zone omogenee A,
comporti mutamenti della destinazione d'uso.
E la distinzione, continua la citata
decisione del TAR Lombardo n. 239/2011, <<non
è priva di rilievo, posto che va precisato
il differente regime cui sono soggetti gli
interventi di ristrutturazione edilizia
rispetto alle nuove costruzioni: ove la
ristrutturazione mantenga inalterati i
parametri urbanistici ed edilizi
preesistenti, l'intervento non è subordinato
al rispetto dei vincoli posti dagli
strumenti urbanistici sopravvenuti, giacché
la legittimazione urbanistica del manufatto
da demolire si trasferisce su quello
ricostruito (cfr. TAR Milano, Sez. 2°,
07.09.2010 n. 5122, Cons. St, Sez. V,
14.11.1996 n. 1359; Cons. St., Sez. V,
28.03.1998 n. 369; Cass. civ., sez. II,
12.06.2001 n. 7909; Tar Calabria, Reggio
Calabria, 24.01.2001 n. 36; Puglia, Bari,
sez. III, 22.07.2004 n. 3210)>> .
Ritiene il Collegio, conclusivamente, che
dai principi sopra esposti si possano
prospettare le seguenti categorie di
ristrutturazione edilizia:
1) interventi edilizi che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino
aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle
superfici, ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle zone omogenee A,
comportino mutamenti della destinazione
d'uso (necessitanti il permesso di
costruire);
2) interventi edilizi consistenti nella
realizzazione di un organismo edilizio
identico al precedente, senza aumento di
unità immobiliari, modifiche del volume,
della sagoma, dei prospetti o delle
superfici, né, limitatamente agli immobili
compresi nelle zone omogenee A, mutamenti
della destinazione d'uso (per i quali è
sufficienti la d.i.a.);
3) ristrutturazione relativa alla
ricostruzione seguita alla demolizione di un
organismo di cui mantiene quanto meno sagoma
e volume (per i quali è sufficienti la
d.i.a. e, in Sicilia –secondo la medesima
citata decisione n. 480/2010 del CG –,
l’autorizzazione edilizia ex art. 5 L.R. n.
37/1985).
Quindi, non è configurabile un’ipotesi
residuale di ristrutturazione derivante da
una demolizione e ricostruzione che non
mantenga, quanto meno, sagoma e volume.
Invero, per mera completezza, è da dire che,
in riferimento al concetto di
ristrutturazione, è possibile, sia pure in
maniera del tutto limitata, anche la
traslazione dell’area originaria.
Secondo la Circolare 07.08.2003, n. 4174 del
Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti <<debbono considerarsi
ammissibili, in sede di ristrutturazione
edilizia, solo modifiche di collocazione
rispetto alla precedente area di sedime,
sempreché rientrino nelle varianti non
essenziali, ed a questo fine il riferimento
e' nelle definizioni stabilite dalle leggi
regionali in attuazione dell'art. 32 del
Testo unico. Resta in ogni caso possibile,
nel diverso posizionamento dell'edificio,
adeguarsi alle disposizioni contenute nella
strumentazione urbanistica vigente per
quanto attiene allineamenti, distanze e
distacchi.
In ragione delle considerazioni espresse,
per gli interventi di demolizione e
ricostruzione inclusi nella ristrutturazione
non può trovare applicazione quella parte
della normativa vigente che detta
prescrizioni per quanto riguarda gli indici
di edificabilità ed ogni ulteriore parametro
di carattere quantitativo (altezze,
distanze, distacchi, inclinate, ecc.)
riferibile alle nuove costruzioni. Ciò in
quanto il relativo rispetto potrebbe
risultare inconciliabile con la demolizione
e ricostruzione intesa come operazione da
effettuarsi con la sola osservanza della
sagoma e della volumetria preesistenti (ed
in tale prospettiva, qualora non venga
utilizzata per intero la sagoma e la
volumetria esistenti, l'intervento non può
essere incluso nella categoria della
ristrutturazione edilizia).
Va però soggiunto che la demolizione e
ricostruzione, rientrando per espressa
declaratoria legislativa nella
ristrutturazione edilizia, dovrà rispettare
le prescrizioni ed i limiti dello strumento
urbanistico vigente per quanto compatibili
con la natura dell'intervento e quindi non
in contrasto con la possibilità,
esplicitamente prevista dal legislatore, di
poter operare la ricostruzione attenendosi
al solo rispetto di sagoma e volume. Più
specificatamente la demolizione e
ricostruzione può comportare aumenti della
superficie utile nei limiti consentiti o non
preclusi per la ristrutturazione edilizia:
in proposito, deve ritenersi insita nella
natura di tale intervento la possibilità di
aumento della superficie utile con il
conseguente incremento del carico
urbanistico, stante la fondamentale ratio
legislativa di favorire il rinnovo del
patrimonio edilizio anche sotto un profilo
tecnico-qualitativo che comporta il più
delle volte, per la stessa praticabilità
dell'intervento, un diverso dimensionamento
della superficie utile>> (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 06.10.2011 n. 2417 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: No
all'apertura senza limiti orari.
È legittimo il diniego
del Comune all'apertura per 24 ore su 24 e
per tutti i giorni della settimana, dei
«negozi automatici» che provvedono alla
vendita di alimenti caldi e pronti, mediante
apparecchi automatici.
Così ha deciso il TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 06.10.2011 n.
1454, che ha stabilito, tra l'altro,
un'importante interpretazione del principio
di libertà di concorrenza.
Il caso riguardava una Società, chiamata «Caldo
in automatico», che svolgeva attività di
vendita di alimenti pronti per il consumo
mediante apparecchi automatici collocati in
locali adibiti esclusivamente a questa
attività e senza personale addetto alla
consegna dei prodotti e alla riscossione del
denaro.
La Società aveva chiesto l'autorizzazione
all'apertura di questi locali per 24 ore su
24 e per tutti i giorni della settimana, ma
il Comune aveva risposto negativamente. La
società aveva allora proposto ricorso al
Tar, sostenendo tra l'altro che i negozi
automatici costituivano una categoria
speciale di esercizi pubblici assimilabili
alle rosticcerie o alle gastronomie e che le
limitazioni all'orario di apertura violavano
la libertà di concorrenza. Il Tar ha però
respinto il ricorso in base ai seguenti
argomenti, tra loro collegati.
I negozi automatici non sono riconducibili
agli esercizi di somministrazione o di
vendita, ma anche se dovessero essere
considerati una categoria nuova o speciale,
varrebbero per essi i limiti previsti per
tutti gli altri esercizi commerciali, e non
potrebbe essere consentita la loro apertura
nelle ore notturne.
Le limitazioni di orario per i negozi
automatici non violano la libertà di
concorrenza, perché il principio della
libertà di concorrenza deve essere
considerato in riferimento al «diritto di
libero accesso al mercato di riferimento».
Questo principio riguarda quindi la
concorrenza «nel mercato», e non
quello, più ristretto, legato «all'attività
di imprenditori già presenti nel mercato di
riferimento».
Di conseguenza, le limitazioni di orario per
i negozi automatici non incidono
negativamente sull'accesso al mercato di
riferimento.
La sentenza, in riferimento al caso di
specie, è esatta, ed ha il merito di avere
precisato alcune significative sfaccettature
di quel complesso poliedro giuridico che è
il principio della libertà di concorrenza
(articolo Il Sole 24
Ore del 24.10.2011 - link a
www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Poiché l’art. 149, lett. a),
D.Lg.vo n. 42/2004 statuisce che l’esonero
dall’obbligo del previo rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica viene
espressamente stabilito soltanto “per gli
interventi di manutenzione ordinaria,
manutenzione straordinaria, consolidamento
statico e restauro conservativo che non
alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto
esteriore degli edifici”, deve ritenersi che
non può rientrare nell’ambito oggettivo di
tale norma l’installazione di pannelli
fotovoltaici sulla falda di tetto in quanto
anch’essi alterano l’aspetto esteriore degli
edifici e perciò non può escludersi a priori
che possano risultare incompatibili con la
protezione del contesto paesaggistico
tutelato, come quello, nella specie,
previsto dall’art. 142, comma 1, lett. f),
D.Lg.vo n. 42/2004.
Va rilevato che l’installazione di tre
impianti fotovoltaici, aventi una potenza
complessiva di 46,98 kw, sul tetto dei due
capannoni della società ricorrente (“con lo
stesso orientamento e inclinazione” delle
falde, di cui uno, composto da 6 stringhe di
13 moduli, e gli altri due, composti da 3
stringhe di 16 moduli) rientra quantomeno
nell’ambito degli interventi di manutenzione
straordinaria, espressamente previsti
dall’art. 31, comma 1, lett. b), L. n.
457/1978, in quanto trattasi della
realizzazione di un nuovo impianto
tecnologico, che non altera i volumi e le
superfici e non comporta la modifica della
destinazione d’uso dell’immobile che ci
occupa.
In via preliminare, va precisato che, pur
prescindendo dalla circostanza che la
società ricorrente non ha dimostrato che i
tre impianti fotovoltaici di cui è causa
hanno una superficie di massimo 25 mq., non
risulta condivisibile la tesi, proposta
dalla società ricorrente, secondo cui il
combinato disposto di cui al punto 28
dell’Allegato 1 al DPR n. 139/2010 ed
all’art. 11, comma 3, D.Lg.vo n. 115/2008
andrebbe interpretato nel senso che
l’installazione dei pannelli solari, “aderenti
o integrati nei tetti degli edifici con la
stessa inclinazione e lo stesso orientamento
della falda e i cui componenti non
modificano la sagoma degli edifici”, non
sarebbe sottoposta neppure al procedimento
semplificato del rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, previsto
dall’art. 146, comma 9, D.Lg.vo n. 42/2004 e
disciplinato dal DPR n. 139 del 09.07.2010
(pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del
26.08.2010 ed entrato in vigore il
10.09.2010), dal momento che l’art. 11,
comma 3, D.Lg.vo n. 115/2008 (come
sostituito dall’art. 5 D.L. n. 40/2010 conv.
nella L. n. 73/2010), espressamente
richiamato dal punto 28 dell’Allegato 1 al
DPR n. 139/2010, statuisce soltanto che “sono
considerati interventi di manutenzione
ordinaria e non sono soggetti alla
disciplina della Denuncia di Inizio Attività
di cui agli artt. 22 e 23 DPR n. 380/2001”,
ma non prevede alcunché con riferimento
all’autorizzazione paesaggistica, mentre
l’analogo art. 6, comma 2, lett. d), DPR n.
380/2001 (anch’esso sostituito dall’art. 5
D.L. n. 40/2010 conv. nella L. n. 73/2010)
al precedente comma 1 fa espressamente salve
le disposizioni contenute nel D.Lg.vo n.
42/2004.
Poiché l’art. 149, lett. a), D.Lg.vo n.
42/2004 statuisce che l’esonero dall’obbligo
del previo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica viene espressamente stabilito
soltanto “per gli interventi di
manutenzione ordinaria, manutenzione
straordinaria, consolidamento statico e
restauro conservativo che non alterino lo
stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli
edifici”, deve ritenersi che non può
rientrare nell’ambito oggettivo di tale
norma l’installazione del predetto tipo di
pannelli solari, in quanto anch’essi
alterano l’aspetto esteriore degli edifici e
perciò non può escludersi a priori che
possano risultare incompatibili con la
protezione del contesto paesaggistico
tutelato, come quello, nella specie,
previsto dall’art. 142, comma 1, lett. f),
D.Lg.vo n. 42/2004.
Comunque, va rilevato che, al momento, non
risulta vigente alcuna disposizione
normativa, che non sottopone ad
autorizzazione paesaggistica l’installazione
della sopra descritta tipologia di pannelli
solari.
Pertanto, deve ritenersi che non vi sia
corrispondenza biunivoca tra interventi
liberi ai fini edilizi ed interventi
esonerati dall’obbligo del previo rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, in quanto
le discipline giuridiche del paesaggio e
dell’edilizia sono connesse, ma distinte,
poiché le parti del territorio di rilevanza
paesaggistica esprimono valori ed interessi
pubblici diversi ed autonomi rispetto a
quelli dell’ordinata e razionale
trasformazione dello stesso territorio,
sottesi alla normativa in materia di
edilizia ed urbanistica.
In ogni caso, tenuto conto della circostanza
che la società ricorrente ha in seguito
ottenuto, ai sensi dell’art. 146 D.Lg.vo n.
42/2004, il rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica con la Determinazione
Dirigente Ufficio Urbanistica e Tutela del
Paesaggio della Regione Basilicata n. 1678
del 6.12.2010, il ricorso in epigrafe va
accolto, in quanto, poiché l’ultima frase
dell’art. 6, comma 3, L. n. 394/1991
statuisce espressamente che “resta ferma
la possibilità di realizzare gli interventi
di manutenzione ordinaria e straordinaria di
cui alle lettere a) e b) del primo comma
dell’art. 31 L. n. 457/1978” (anche se
sono sottoposti all’onere di darne
comunicazione agli organi di gestione dei
Parchi Nazionali), cioè stabilisce che gli
interventi edilizi di manutenzione ordinaria
e straordinaria ex art. 31, comma 1, lett.
a) e b), L. n. 457/1978 possono sempre
essere realizzati nell’ambito dei perimetri
dei Parchi Nazionali, si desume agevolmente
che il successivo art. 13 L. n. 394/1991,
nella parte in cui sottopone al preventivo
nulla osta dell’Ente Parco Nazionale il “rilascio
di concessioni o autorizzazioni relative ad
interventi, impianti ed opere all’interno
del Parco” Nazionale, si riferisce ad
interventi edilizi diversi da quelli di
manutenzione ordinaria e straordinaria ex
art. 31, comma 1, lett. a) e b), L. n.
457/1978.
Al riguardo, va precisato che l’espresso
rinvio a queste ultime due norme, a maggiore
tutela degli interessi pubblici di tutela
dell’ambiente, va qualificato come di
carattere statico e non dinamico, cioè va
applicato soltanto alle fattispecie indicate
nelle predette lett. a) e b) del comma 1
dell’art. 31 L. n. 457/1978 e perciò non può
essere esteso alle ulteriori fattispecie di
manutenzione ordinaria e straordinaria,
individuate successivamente dal Legislatore,
come quella di cui è causa istituita
dall’art. 5, comma 1, D.L. n. 40/2010 conv.
nella L. n. 73/2010, il quale ha modificato
sia l’art. 6 DPR n. 380/2001, sia l’art. 11,
comma 3, D.Lg.vo n. 115/2008.
Infatti, poiché la ratio del nulla
osta ex art. 13 L. n. 394/1991 è quella di
tutelare e valorizzare il patrimonio
ecologico-naturale di una particolare
località (secondo le finalità previste
dall’art. 1, comma 3, L. n. 349/1991, come:
la conservazione delle specie animali e
vegetali, delle singolarità geologiche e
delle formazioni paleontologiche;
realizzazione dell’integrazione tra uomo e
ambiente naturale, mediante la salvaguardia
dei valori antropologici, archeologici,
storici e architettonici e delle attività
agro-silvo-pastorali e tradizionali;
promozione di attività ricreative
compatibili; difesa e ricostituzione degli
equilibri idraulici e idrogeologici) e non
l’estetica del paesaggio, il predetto nulla
osta non risulta necessario con riferimento
agli interventi edilizi di manutenzione
ordinaria e straordinaria ex art. 31, comma
1, lett. a) e b), L. n. 457/1978, mentre
risulta utile soltanto l’onere di
comunicazione di tali interventi edilizi, al
fine di vigilare e controllare se
effettivamente trattasi di interventi
edilizi di manutenzione ordinaria e
straordinaria ex art. 31, comma 1, lett. a)
e b), L. n. 457/1978.
Inoltre, va sottolineato che “la
possibilità di realizzare gli interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria, così
come definiti dall’art. 31, comma 1, lett.
a) e b), L. n. 457/1978, dandone
comunicazione all’organismo di gestione”
risulta confermata dall’art. 7, comma 2, DPR
08.12.2007, istitutivo dell’Ente Parco
Nazionale Appennino Lucano Val d’Agri
Lagonegrese.
Al riguardo va pure evidenziato che,
comunque, il successivo art. 11 del medesimo
DPR 08.12.2007 statuisce che “nelle more
dell’entrata a regime dell’Ente Parco”
(situazione attuale al momento della
proposizione del ricorso in esame, in quanto
non erano ancora stati approvati i
Regolamento del Parco ex art. 11 L. n.
394/1991 ed il Piano del Parco ex art. 12 l.
n. 394/1991), i pareri per i progetti e gli
strumenti di pianificazione, previsti dagli
artt. 6, 7 e 8 dello stesso DPR 08.12.2007,
“sono ricompresi nelle rispettive
procedure autorizzative espletate ai sensi
dell’art. 142, comma 1, lett. f), D.Lg.vo n.
42/2004”, per cui, allo stato, in ogni
caso, il nulla osta ex art. 13 L. 394/1991
andrebbe acquisito di regola nell’ambito del
procedimento di autorizzazione paesaggistica
anche mediante l’indizione di un’apposita
Conferenza di servizi.
In conclusione, va rilevato che
l’installazione dei tre predetti impianti
fotovoltaici, aventi una potenza complessiva
di 46,98 kw, sul tetto dei due capannoni
della società ricorrente (“con lo stesso
orientamento e inclinazione” delle
falde, di cui uno, composto da 6 stringhe di
13 moduli, e gli altri due, composti da 3
stringhe di 16 moduli) rientra quantomeno
nell’ambito degli interventi di manutenzione
straordinaria, espressamente previsti
dall’art. 31, comma 1, lett. b), L. n.
457/1978, in quanto trattasi della
realizzazione di un nuovo impianto
tecnologico, che non altera i volumi e le
superfici e non comporta la modifica della
destinazione d’uso dell’immobile che ci
occupa.
Per completezza, va pure precisato che non
può condividersi la tesi
dell’Amministrazione resistente, secondo
cui, poiché gli impianti fotovoltaici di cui
è causa dovevano essere qualificati come “opere
tecnologiche”, ai sensi dell’art. 7,
comma 1, lett. a), DPR 08.12.2007
(istitutivo dell’Ente Parco Nazionale
Appennino Lucano Val d’Agri Lagonegrese)
tali opere, se ricadenti nella Zona 1,
rientravano tra quelle sottoposte ad
autorizzazione dell’Ente Parco, in quanto le
“opere tecnologiche”, previste dal
citato art. 7, comma 1, lett. a), DPR
08.12.2007, sono quelle autonome e distanti
dagli immobili esistenti (anche se
pertinenziali agli stessi immobili), mentre
gli impianti fotovoltaici di cui è causa
aderiscono (con la stessa inclinazione e lo
stesso orientamento) al tetto dei due
esistenti capannoni rurali della azienda
agricola ricorrente, come prescritto
dall’art. 11, comma 3, D.Lg.vo n. 115/2008,
per cui tali pannelli solari rientrano
nell’ambito della manutenzione ordinaria (ai
sensi del citato art. 11, comma 3, D.Lg.vo
n. 115/2008) oppure, come sopra detto,
nell’ambito della manutenzione straordinaria
ai sensi dell’art. 31, comma 1, lett. b), L.
n. 457/1978.
Diversamente, accedendo alla predetta tesi
dell’Amministrazione resistente, secondo cui
qualsiasi opera tecnologica, anche se va
qualificata come opera di manutenzione
ordinaria o straordinaria, va assoggettata
al nulla osta ex art. 13 L. n. 394/1991,
sarebbe privo di effetto il successivo comma
2 dello stesso art. 7 DPR 08.12.2007, ai
sensi del quale, come sopra detto ed
analogamente a quanto già statuito dall’art.
6, comma 3, L. n. 394/1991, viene
espressamente sancita “la possibilità di
realizzare gli interventi di manutenzione
ordinaria e straordinaria, così come
definiti dall’art. 31, comma 1, lett. a) e
b), L. n. 457/1978, dandone comunicazione
all’organismo di gestione”. Ma secondo
un principio generale dell’ordinamento
giuridico (desumibile dall’art. 1367 C.C.)
due norme, contenute in uno stesso articolo,
non possono essere interpretate nel senso
che una di esse non possa avere effetto.
Pertanto, l’impugnata nota Ente Parco
Nazionale Appennino Lucano Val d’Agri
Lagonegrese prot. n. 862 del 17.11.2010
risulta illegittima, nella parte in cui
prescrive, per l’installazione dei predetti
impianti fotovoltaici, l’obbligo del nulla
osta ex art. 13 L. n. 394/1991
(TAR Basilicata,
sentenza 06.10.2011 n. 508 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Pubblicità
richiesta anche in caso di iter informali.
Anche le gare informali
appaltate mediante procedure in economia
(cottimo fiduciario) –dunque senza
pubblicazione di un bando– sono soggette, ai
fini della legittimità del procedimento,
all'applicazione del principio di pubblicità
dell'apertura dei plichi e delle offerte
economiche; non rilevando motivazioni di
tipo organizzativo dell'ente, quali
l'urgenza di provvedere all'assegnazione
dell'appalto o l'esiguità del personale in
forza alla stazione appaltante. In tal caso,
il procedimento così viziato deve essere
interamente annullato, non potendosi
ammettere alcuna rinnovazione, neanche
parziale, dell'iter di affidamento, tenuto
conto che ogni ripetizione dell'esame
tecnico sarebbe condizionata dalla
conoscenza ormai acquisita delle offerte.
L'orientamento.
Così ha ritenuto la V Sez. del Consiglio
di Stato nella
sentenza 05.10.2011 n. 5454, in
relazione a una gara per servizi informatici
la cui lettera d'invito agli operatori
economici selezionati prevedeva che tutte le
fasi, anche quelle di apertura delle offerte
economiche, si sarebbero svolte in seduta
riservata.
Secondo l'orientamento del Collegio, non
sono ammesse deroghe al principio di
pubblicità delle sedute di gara, neanche nel
caso delle procedure negoziate precedute da
una gara informale, caratterizzate dalle
previsioni semplificate previste
dall'articolo 125 del Dlgs 163/2006, che
sono largamente utilizzate quando il valore
dell'appalto non richiede la pubblicazione
del bando di gara.
La norma in questione introduce l'iter
semplificato del procedimento per appalti di
valore (ora) compresi tra 40.000 e 200.000
euro, caratterizzati dalla consultazione di
almeno (se possibile) cinque operatori
economici nel rispetto dei principi di
trasparenza, rotazione, parità di
trattamento, individuati in base a indagini
di mercato o tramite appositi elenchi
predisposti dalla stazione appaltante.
Il principio.
Il principio di pubblicità trova il suo
fondamento nel dettato costituzionale
(articolo 97) e nei principi comunitari. In
questa prospettiva è quindi irrilevante,
come ribadito dal Consiglio di Stato, che la
commissione di gara abbia dato atto nei
verbali della correttezza del procedimento
di verifica e apertura delle offerte, benché
sempre in seduta riservata.
D'altro canto lo stesso Codice degli appalti
richiama il rispetto della pubblicità degli
affidamenti tra i propri principi generali
(articolo 2), applicabili a tutte le
procedure di affidamento previste dal
legislatore (dunque anche alle gare
informali, in economia). Principi ribaditi
anche nel più recente regolamento attuativo
(Dpr 207/2010), che, al comma 2
dell'articolo 331, richiama l'obbligo, anche
per le procedure in economia, di uniformarsi
al rispetto del principio di massima
trasparenza, contemperando l'efficienza
dell'azione amministrativa con i principi di
parità di trattamento, non discriminazione e
concorrenza tra gli operatori economici.
Al comma 1 dello stesso articolo, il
disposto sulla non applicazione alle
procedure in economia degli obblighi di
pubblicità e di comunicazione non si
riferisce ai citati principi generali di
trasparenza bensì al regime ordinario di
pubblicazione del bando di gara previsto in
ambito sovranazionale (articolo 124 del Dlgs
163/2006)
(articolo Il Sole 24
Ore del 24.10.2011 - link a
www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Cellulari,
impianti di utilità pubblica.
È illegittimo il «no»
del Comune alla domanda di installazione di
un impianto di telefonia mobile, se il
rifiuto è motivato con l'incompatibilità tra
l'impianto e la destinazione urbanistica
della zona, qualificata come zona in
espansione e da attuarsi mediante un piano
urbanistico.
Così ha deciso il TAR Emilia Romagna-Bologna,
Sez. II,
sentenza
04.10.2011 n. 691, che ha
interpretato la nuova normativa statale
sulla telefonia mobile, e ha indicato le
linee di comportamento dei Comuni su questi
problemi.
Il caso riguardava una società di
telecomunicazioni che aveva chiesto al
Comune l'autorizzazione all'installazione di
una stazione radio base di telefonia mobile.
Il Comune aveva negato l'autorizzazione,
sostenendo che vi era incompatibilità tra
l'impianto progettato e la disciplina
urbanistica della zona in cui esso sarebbe
stato installato. La società aveva però
impugnato il diniego davanti al Tar, che ha
accolto il ricorso, per diversi motivi.
La precedente disciplina normativa stabilita
nella legge 22.02.2001, n. 36 è stata in
parte modificata, e il problema deve ora
essere considerato sulla base delle norme
del Codice delle comunicazioni elettroniche
(Dlgs 01.08.2003, n. 259), il quale
all'articolo 86, comma 3, stabilisce che le
«infrastrutture di reti pubbliche di
comunicazione (…) sono assimilate ad ogni
effetto alle opere di urbanizzazione
primaria (…)».
Di conseguenza, gli impianti di telefonia
mobile (considerati opere di pubblica
utilità) sono ora ricondotti alle opere di
urbanizzazione, e la loro installazione è
svincolata dalla destinazione urbanistica di
zona, che prevedeva l'approvazione di uno
strumento urbanistico attuativo.
Da questo deriva l'illegittimità del
provvedimento che ha negato
l'autorizzazione, per la mancata
pianificazione dell'area mediante questo
strumento urbanistico attuativo.
La sentenza è esatta ed è puntualmente
motivata. Essa ha chiarito alcuni problemi
sull'installazione degli impianti di
telefonia mobile, che ora ogni Comune
potrebbe prevedere e risolvere, adottando il
regolamento (previsto dall'articolo 8 della
legge 36/2001) per «assicurare il
corretto insediamento urbanistico e
territoriale degli impianti e minimizzare
l'esposizione della popolazione della
popolazione ai campi elettromagnetici»
(articolo Il Sole 24
Ore del 24.10.2011 - link a
www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Danno ''morale'' anche alle
associazioni ambientali. Riconosciuto per
l'opera di tutela del territorio.
Il danno risarcibile
all'associazione ambientalista non e' solo
quello patrimoniale, ma anche il danno
morale derivante dal pregiudizio arrecato
all'attività da quest'ultima concretamente
svolta per la valorizzazione e la tutela del
territorio sul quale incidono i beni oggetto
del fatto lesivo, come normativamente
desumibile dal combinato disposto degli
artt. 185, comma 2, c.p. e 2059 c.c..
La sentenza qui commentata si sofferma su un
tema assai dibattuto nella giurisprudenza di
legittimità, concernente non tanto la
questione, ormai pacifica, della
legittimazione delle associazioni
ambientaliste a costituirsi parte civile nei
processi penali per reati ambientali,
quanto, piuttosto, sulla determinazione del
«tipo» di danno risarcibile. Come,
infatti, si vedrà oltre, si registra sul
punto un contrasto giurisprudenziale che,
assai probabilmente, potrebbe condurre nei
prossimi mesi i giudici di Piazza Cavour a
rimettere la decisione alle Sezioni Unite.
La tesi sostenuta dalla decisione in
commento, infatti, si inserisce in quel
filone giurisprudenziale secondo cui il
danno risarcibile secondo la disciplina
civilistica può anche configurarsi sub
specie del pregiudizio arrecato all'attività
concretamente svolta dall'associazione
ambientalista per la valorizzazione e la
tutela del territorio sul quale incidono i
beni oggetto del fatto lesivo. In tali
ipotesi, infatti, potrebbe identificarsi un
nocumento suscettibile anche di valutazione
economica in considerazione degli eventuali
esborsi finanziari sostenuti dall'ente per
l'espletamento dell'attività di tutela.
La possibilità di risarcimento in favore
dell'associazione ambientalista, in ogni
caso, secondo l'orientamento di cui è
espressione la decisione in esame, non deve
ritenersi limitata all'ambito patrimoniale
di cui all'art. 2043 c.c., poiché l'art.
185, comma 2, c.p. -che costituisce
l'ipotesi più importante “determinata
dalla legge” per la risarcibilità del
danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.-
dispone che ogni reato, che abbia cagionato
un danno patrimoniale o non patrimoniale,
obbliga il colpevole al risarcimento nei
confronti non solo del soggetto passivo del
reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi
“danneggiato” per avere riportato un
pregiudizio eziologicamente riferibile
all'azione od omissione del soggetto attivo.
Il caso.
La vicenda processuale sottoposta
all'attenzione del Supremo Collegio vedeva
imputati alcuni soggetti (privati ed
amministratori comunali) per i reati di
falso ed abuso d'ufficio, commessi alla fine
degli anni novanta in un comune pugliese e
relativi alla realizzazione di attività
edilizie eseguite, da un lato, senza le
necessarie autorizzazioni edilizie ed
ambientali e, dall'altro, attestando
falsamente alla Soprintendenza dei BB.CC.AA.
l'entità delle opere realizzate e la loro
non-incidenza su un'area di interesse
archeologico.
I giudizi di merito, conclusisi con la
condanna in sede penale degli imputati, si
erano altresì definiti con la condanna
generica al risarcimento dei danni in favore
di una nota associazione ambientalista,
considerando quale fatto illecito produttivo
di danno civile risarcibile il reato di
abuso d'ufficio. La Corte d'appello, per
quanto qui di interesse, aveva osservato,
nel confermare le statuizioni civili, che
l'associazione ambientalista deve sempre
considerarsi come "danneggiata" dai
falsi e dall'abuso d'ufficio, i quali hanno
consentito che non fermasse in tempo la
devastazione ambientale.
Il ricorso.
Il giudizio di condanna veniva ritenuto
eccessivamente severo dalla difesa degli
imputati i quali affidavano le censure alla
condanna in sede penale e civile a plurimi
motivi di ricorso. Limitando l'attenzione ai
soli motivi inerenti il danno risarcibile,
in particolare veniva contestata sia
legittimazione dell'associazione
ambientalista che il diritto al risarcimento
del danno sostenendosi, quanto al danno, che
lo stesso avrebbe potuto essere risarcito
solo se discendente in maniera immediata e
diretta dai reati ambientali «stricto
sensu» intesi, ma giammai poteva essere
ricollegato ai reati di abuso d'ufficio e
falso, da cui non potrebbe mai derivare, in
via diretta, un danno per l'ambiente.
La decisione della
Cassazione.
La Corte ha invece, con ampia e lucida
motivazione, ritenuto destituiti di
fondamento gli argomenti sostenuti dalla
difesa degli imputati, giungendo a
dichiarare inammissibile il ricorso.
La motivazione della decisione, assai
completa e dettagliata, può essere così
sintetizzata anche ai fini di una miglior
comprensione del percorso logico–giuridico
ad essa sotteso. I giudici di legittimità,
infatti, nel ricostruire con attenzione
l'iter legislativo tendente al
riconoscimento della legittimazione
risarcitoria delle associazioni
ambientaliste, evidenziano come il
fondamento della legitimatio ad causam
delle associazioni ambientaliste fosse stato
per la prima volta riconosciuto dalla nota
legge istitutiva del Ministero dell'Ambiente
(L. 08.07.1986, n. 349) che, all'art. 18,
introdusse un'azione di risarcimento del
danno ambientale conseguente ad una
responsabilità di tipo extracontrattuale od
aquiliana, prevista dall'art. 2043 c.c.
L'attuale T.U.A. (D.Lgs. 03.04.2006, n. 152)
ha poi disciplinato in maniera più
dettagliata la questione in quanto, pur
abrogando il richiamato art. 18, ha fornito
la definizione di «danno ambientale»
(art. 300 T.U.A.) ed ha riservato allo Stato
l'azione risarcitoria in caso di danno
all'ambiente (art. 311 T.U.A.), ma ha
mantenuto intatto il diritto dei soggetti
danneggiati dal fatto produttivo di danno
ambientale, nella loro salute o nei beni di
loro proprietà, di agire in giudizio nei
confronti del responsabile a tutela dei
diritti e degli interessi lesi (art. 313,
comma 7, T.U.A.).
Quanto, in particolare, alle associazioni
ambientaliste, pur ritenendosi ormai
pacifica la legittimazione a costituirsi
parte civile nei processi penali per reati
ambientali (pur in presenza dell'art. 311
T.U.A. che ha attribuito in via esclusiva la
richiesta risarcitoria per danno ambientale
al Ministero dell'Ambiente), si precisa che
la loro legittimazione è consentita al solo
fine di ottenere il risarcimento dei danni
patiti dal sodalizio a causa del degrado
ambientale, mentre le stesse non possono
agire in giudizio per il risarcimento del
danno ambientale di natura pubblica (v., da
ultimo: Cass., Sez. 3, 11.02.2010, n. 14828,
Imp. D.F. e altro, Ced Cass., n. 246812;
nella specie detta legittimazione è stata
riconosciuta al Circolo Legambiente ed al
WWF Italia).
Posto tale limite, tuttavia, non v'è
uniformità di vedute sulla natura del danno
risarcibile alle associazioni di protezione
ambientale. Sulla questione, infatti, si
registrano divergenti posizioni.
A fronte di decisioni, espressione di un
orientamento più rigoroso (da cui si
discosta consapevolmente la sentenza in
commento), secondo cui le associazioni
ambientaliste possono agire ai sensi
dell'art. 2043 c.c. per ottenere il
risarcimento di qualsiasi danno "patrimoniale",
ulteriore e concreto da essi subito, diverso
da quello ambientale (v., ad es.: Cass.,
Sez. 3, 21.10.2010, n. 41015, imp. G., Ced
Cass., n. 248707), si affiancano decisioni,
come quella qui commentata, che ritengono
invece che il danno risarcibile ad
un'associazione ambientalista possa
consistere anche nel pregiudizio arrecato
all'attività concretamente svolta da
quest'ultima per la valorizzazione e la
tutela del territorio sul quale incidono i
beni oggetto del fatto lesivo.
In tali ipotesi, infatti, evidenziando gli
Ermellini, potrebbe identificarsi un
nocumento suscettibile anche di valutazione
economica in considerazione degli eventuali
esborsi finanziari sostenuti dall'ente per
l'espletamento dell'attività di tutela.
In tale contesto, quindi, sarebbe riduttivo
limitare la possibilità di risarcimento in
favore dell'associazione ambientalista
all'ambito patrimoniale di cui all'art. 2043
c.c., poiché l'art. 185, comma 2, c.p. -che
costituisce l'ipotesi più importante “determinata
dalla legge” per la risarcibilità del
danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.-
dispone che ogni reato, che abbia cagionato
un danno patrimoniale o non patrimoniale,
obbliga il colpevole al risarcimento nei
confronti non solo del soggetto passivo del
reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi
“danneggiato” per avere riportato un
pregiudizio eziologicamente riferibile
all'azione od omissione del soggetto attivo.
La soluzione offerta dalla Corte nel caso in
esame, pur in presenza di divergenti vedute
dello stesso giudice di legittimità,
sembrerebbe quella più corretta. Ed infatti,
è sicuramente ipotizzabile la lesione del
diritto della personalità dell'ente e la
conseguente facoltà dell'associazione di
protezione ambientale di agire per il
risarcimento dei danni morali e materiali
relativi all'offesa, diretta ed immediata,
dello "scopo sociale", che costituisce la
finalità propria del sodalizio.
Non a caso la stessa Corte, in una vicenda
che vedeva coinvolta la stessa associazione
ambientalista di cui si discute nella
sentenza in commento, aveva ritenuto detta
associazione, quale ente esponenziale della
comunità in cui si trovava il bene
collettivo oggetto di lesione ed avente a
scopo la salvaguardia degli interessi lesi
dal reato, era legittimata a costituirsi
parte civile, ai sensi degli artt. c.p. e 74
c.p.p., sia per la tutela del diritto
collettivo all'ambiente salubre sia per la
protezione del diritto della personalità in
conseguenza del discredito derivante alla
propria sfera funzionale dalla condotta
illecita (Cass., Sez. 3, 09.07.1996, n.
8699, imp. P. e altri, Ced Cass., n. 209096)
(commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di
Cassazione penale, sentenza 26.09.2011 n.
34761 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Non tutto quel che resta è rifiuto.
I residui vanno trattati secondo la normale
pratica industriale. La Cassazione applica
la nuova definizione di sottoprodotto
prevista dal dlgs 205/2010.
È il tipo di trattamento cui i residui da
lavorazione industriale sono sottoposti
prima del loro riutilizzo a determinarne
l'inquadramento tra i «rifiuti» (la cui
gestione necessita di autorizzazione in base
al Codice ambientale) o tra i
«sottoprodotti» (la cui gestione non
soggiace invece alle stesse stringenti
regole).
A effettuare una ricognizione sul
confine tra rifiuti e beni è la Corte di
Cassazione, che con sentenza 26.09.2011 n. 34753 ha offerto una disamina della
nuova disciplina prevista in materia di
sottoprodotti dal dlgs 152/2006 (c.d. Codice
ambientale) alla luce della riformulazione
effettuata dal dlgs 03.12.2010 n. 205
in recepimento dell'ultima direttiva
comunitaria 2008/98/Ce.
Il punto della Cassazione. La Cassazione ha
sottolineato come la riforma del 2010 abbia
allargato la nozione di sottoprodotto
prevista dal Codice ambientale, facendovi
rientrare anche le sostanze e gli oggetti
che sono sottoposti, dopo la loro produzione
e prima del successivo riutilizzo, a un
trattamento previsto dalla «normale pratica
industriale», con ciò innovando la
precedente disciplina che invece considerava
sottoprodotti unicamente i residui oggetto
di reimpiego «diretto», senza quindi
ammettere trattamenti intermedi.
Nella
stessa sentenza la Corte ricorda che
affinché un residuo sia considerato un
«sottoprodotto» e non un «rifiuto», occorre
altresì che esso rispetti allo stesso tempo
le altre condizioni previste (già
nell'originaria versione) dal dlgs 152/2006,
ossia: l'essere il residuo in parola
originato da un processo di produzione del
quale costituiscono parte integrante, ma il
cui scopo principale non è la sua
fabbricazione; l'essere il residuo destinato
a un riutilizzo nello stesso o in un altro
processo di produzione o utilizzazione;
l'essere tale riutilizzo «legale», ossia
avente a oggetto una sostanza che soddisfi
(per l'utilizzo specifico) i requisiti dei
prodotti e che non abbia impatti negativi su
ambiente e salute umana.
Il caso. La questione verteva sul giusto
inquadramento («rifiuti» o «sottoprodotti»)
da dare ai fanghi provenienti da un impianto
di depurazione delle acque e dall'impianto
di aspirazione polveri della smaltatura di
piastrelle, fanghi sottoposti a un
trattamento di disidratazione prima di
essere reimpiegati nel processo produttivo
attraverso la loro aggiunta all'impasto di
terre vergini per la fabbricazione di
piastrelle di terza scelta.
Annullando la
sentenza di merito che condannava il
responsabile del trattamento per attività di
recupero di rifiuti non autorizzata, la
Suprema corte ha rinviato al giudice di
merito la questione, chiedendo di ridefinire
la qualificazione data ai fanghi oggetto di
trattamento, e ciò alla luce di due principi
normativi fondamentali, ossia: quello in
base al quale la nuova disciplina sui
sottoprodotti introdotta dal dlgs 205/2010
non considera più rifiuti i residui trattati
secondo la «normale pratica industriale» (e
ciò in aderenza al principio comunitario che
predilige il recupero dei rifiuti consacrato
dalla citata direttiva 2008/98/Ce e da esso
decreto recepito); quello in base al quale
la nuova ed allargata nozione di
«sottoprodotto» (vigente dal 25.12.2010, data di entrata in vigore del dlgs
205/2010 di riformulazione del Codice
ambientale) va necessariamente applicata
anche alle questioni pregresse e ancora
pendenti (come quella in analisi, per il
noto principio del «favor rei»).
La «normale pratica
industriale».
Sul tipo di trattamento che consente di
inquadrare i residui da lavorazione
industriale tra i «sottoprodotti»
(piuttosto che tra i «rifiuti») la
formulazione della legge appare a una prima
analisi sibillina. L'articolo 184-bis del
Codice ambientale, tra le condizioni che
tali residui devono soddisfare per poter
essere considerati sottoprodotti, infatti
testualmente recita (comma 1, lettera c): «La
sostanza o l'oggetto può essere utilizzato
direttamente senza alcun ulteriore
trattamento diverso dalla normale pratica
industriale».
Fermo restando l'utilizzo, in via
interpretativa, delle altre e citate
condizioni stabile dallo stesso articolo
184-bis per considerare sottoprodotto un
residuo (produzione non diretta alla
fabbricazione dello stesso, certezza del suo
riutilizzo, compatibilità con
caratteristiche dei normali beni) e in
assenza (a oggi) di una positiva definizione
normativa della «normale pratica
industriale», la sua nozione è
innanzitutto da rintracciare nella prassi
industriale e nella evoluzione
giurisprudenziale.
Il tutto considerando, altresì, i
suggerimenti in materia elargiti dalla
migliore dottrina giuridica, in base alla
quale: la «normalità» della pratica
industriale andrebbe cercata nella «tipicità»
dell'operazione svolta in un determinato
contesto produttivo; tale «tipicità»
dovrebbe essere poi intesa non in termini
assoluti ma relativi, ossia facendo
riferimento alla pratica utilizzata nello
stabilimento nel quale il sottoprodotto è
destinato a essere riutilizzato (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.10.2011 - link a
www.corteconti.it). |
CONDOMINIO:
Bilancio ok solo se è trasparente.
La documentazione deve essere a disposizione
dei condomini. La Cassazione punisce il
comportamento negligente
dell'amministratore. Delibera annullabile.
Il comportamento negligente
dell'amministratore che non consenta ai
condomini di visionare la documentazione
contabile può essere causa di annullamento
della delibera assembleare.
Lo ha chiarito
la Corte di Cassazione con la recente sentenza 21.09.2011 n. 19210.
Nel
caso posto al vaglio della Suprema corte, il
tribunale aveva rigettato l'impugnazione
della delibera condominiale di approvazione
del bilancio consuntivo di lavori effettuati
nelle parti comuni e del relativo piano di
riparto proposta da un condomino che aveva
lamentato di non avere avuto la possibilità
di visionare la relativa documentazione
poiché l'amministratore non aveva
acconsentito a mostrargliela nonostante
esplicita richiesta prima dell'assemblea.
Il tribunale aveva infatti rilevato che la
mancata esibizione dei documenti di spesa
non poteva comunque inficiare la validità
della delibera assembleare di approvazione
del bilancio consuntivo, venendo in
questione solo una presunta inadempienza
dell'amministratore e non potendosi invece
configurare una radicale impossibilità di
accedere alle pezze giustificative della
deliberazione.
La Corte d'appello, investita del riesame
della questione dal condomino, dopo aver
richiamato il principio affermato dalla
Cassazione con la sentenza n. 8460 del 1998,
secondo cui ogni proprietario ha facoltà di
ottenere dall'amministratore del condominio
l'esibizione dei documenti contabili in
qualsiasi tempo e senza l'onere di
specificare le ragioni della richiesta
finalizzata a prendere visione o a estrarre
copia dei documenti, aveva ritenuto che tale
facoltà non sia fine a se stessa, bensì
finalizzata a rendere possibile un controllo
non solo formale sull'attività
dell'amministratore e che quindi il suo
impedimento, finendo per paralizzare detta
possibilità di controllo, influisca
negativamente sulla legittimità della
deliberazione assembleare.
Circa l'eccezione
del condominio, che aveva fatto rilevare
come nella specie fosse comunque intervenuta
l'approvazione del consuntivo da parte
dell'assemblea, la Corte d'appello aveva
rilevato come non era possibile sapere in
che modo la medesima assemblea si sarebbe
orientata se il condomino che ne aveva fatto
richiesta avesse potuto accedere alla
documentazione richiesta e che, proprio per
non avere avuto detta possibilità, si era
determinato a non partecipare alla riunione
nella quale la delibera impugnata era stata
adottata.
Anche la Suprema corte, nel ricordare il
predetto principio di legittimità e nel
condividerne l'applicazione operata dalla
Corte d'appello, ha evidenziato come il
condomino ha diritto di accedere alla
documentazione contabile in vista della
consapevole partecipazione all'assemblea
condominiale e che a tale diritto
corrisponde l'onere dell'amministratore di
predisporre un'organizzazione, sia pur
minima, che consenta di venire incontro in
maniera efficace alle richieste dei
proprietari. In caso contrario, secondo i
giudici di legittimità, la delibera
assembleare può essere annullata ove
tempestivamente impugnata.
---------------
Le richieste non devono
ostacolare l'attività.
Le attribuzioni dell'amministratore
consistono sostanzialmente nel dare
esecuzione alle delibere assembleari e nel
fare rispettare il regolamento di
condominio, comminando ammonizioni o
sanzioni e, se necessario, promuovendo, nei
confronti dei singoli condomini, azioni
giudiziarie: per queste attività
l'amministratore, essendo un puro esecutore,
non ha facoltà discrezionali bensì precisi
doveri. Quest'ultimo dispone invece di
maggior autonomia nel disciplinare l'uso
delle cose comuni e la prestazione dei
servizi nell'interesse comune, in modo che
ne sia assicurato il migliore godimento a
tutti i condomini. L'amministratore deve
inoltre riscuotere i contributi sulla base
del preventivo e dello stato di ripartizione
approvati dall'assemblea.
Una volta in possesso dei fondi, deve
provvedere alla manutenzione ordinaria delle
parti condominiali e all'efficienza dei
servizi comuni: per le spese che eccedono
l'ordinaria amministrazione è necessaria,
invece, una delibera assembleare che le
autorizzi. Tuttavia può, di sua iniziativa,
ordinare opere di manutenzione straordinaria
che abbiano carattere d'urgenza, fermo
restando l'obbligo di riferirne alla prima
assemblea. L'amministratore del condominio
ha, tra gli altri, anche il compito di porre
in essere gli atti conservativi, tra i quali
rientrano anche le azioni possessorie, dei
diritti inerenti alle parti comuni
dell'edificio.
Nell'ambito di tale attribuzione ha la
rappresentanza dei partecipanti al
condominio e può agire in giudizio,
richiedendo le necessarie misure cautelari e
il risarcimento dei danni conseguenti, sia
contro i condomini sia contro i terzi. Fra
le incombenze dell'amministratore vi è,
infine, quella di rendere, alla fine di
ciascun anno, conto della propria gestione,
fornendo tutte le cifre e la documentazione
relativa e consentendo i controlli che, per
diritto, spettano ai condomini.
Si noti che i condomini possono visionare i
documenti senza la necessità di specificare
la ragione per cui vogliono prendere visione
o estrarre copia degli stessi: spetta semmai
all'amministratore dedurre e dimostrare
l'insussistenza di qualsivoglia interesse
effettivo in capo ai condomini, perché i
documenti personalmente non li riguardano,
ovvero l'esistenza di motivi futili o
inconsistenti e comunque contrari alla
correttezza.
Tuttavia il condomino che vuole visionare e
fotocopiare i documenti contabili deve
rispettare alcune regole. In particolare la
vigilanza e il controllo non devono
intralciare l'attività dell'amministratore
e, quindi, è necessario concordare con lo
stesso il giorno e l'ora per la visione dei
documenti (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.10.2011). |
AGGIORNAMENTO AL 24.10.2011 |
ã |
CONCORSI &
MOBILITA' |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'Ordine degli Architetti di Bergamo ha
emanato un AVVISO DI MOBILITÀ ESTERNA PER LA
COPERTURA DI UN POSTO DI ISTRUTTORE TECNICO
DIRETTIVO - CATEGORIA C - A TEMPO PIENO.
Termine per presentazione domande:
02.12.2011.
Leggi il
bando di
mobilità e la
domanda di mobilità. |
dite la vostra
... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla costituzione delle unioni
dei comuni per l’esercizio associato delle
funzioni fondamentali previste dall’art. 21
della legge 42 del 2009.
Spettabile Redazione sito PTPL,
leggo sulla ‘home page’ del giorno
17.10.2011 la comunicazione della CGIL –
FUNZIONE PUBBLICA DI BERGAMO datata
13.10.2011 avente per oggetto “costituzione
delle unioni dei comuni per l’esercizio
associato delle funzioni fondamentali
previste dall’art.21 della legge 42 del 2009”.
La comunicazione della CGIL-FP parrebbe
rivolta unicamente ad attirare l’attenzione
di Sindaci, Segretari e Dipendenti, sulla
questione (... continua
cliccando qui)
(21.10.2011
- roberto pagliaro - responsabile UT comune
del bergamasco). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
P. Giampietro,
IL FRESATO D’ASFALTO COME “SOTTOPRODOTTO” -
Profili giuridici e tecnici (link
a www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
F. Magnosi,
Sulla preminenza del Piano Paesaggistico
sugli altri strumenti di pianificazione
(link a www.pausania.it). |
APPALTI:
F. Gavioli,
Codice appalti senza sponsorizzazioni
(link a www.ipsoa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
M. Massavelli,
Regolamentazione della circolazione
stradale: chi è responsabile?
(link a www.diritto.it). |
QUESITI &
PARERI |
COMPETENZE GESTIONALI:
Domanda: Chi è competente ad adottare le
ordinanze di disciplina del traffico
adottate a tutela della sicurezza stradale?
Risposta: La materia è disciplinata dal
codice della strada (d.lgs.vo 285/1992 e
s.m.i) e dal testo unico degli enti locali (d.lgs.vo
267/2000).
In particolare l’articolo 7 del codice della
strada, comma 1, stabilisce che “Nei
centri abitati i comuni possono, con
ordinanza del sindaco:
- adottare i provvedimenti indicati
nell'art. 6, commi 1, 2 e 4;
- limitare la circolazione di tutte o di
alcune categorie di veicoli per accertate e
motivate esigenze di prevenzione degli
inquinamenti e di tutela del patrimonio
artistico, ambientale e naturale,
conformemente alle direttive impartite dal
Ministro dei lavori pubblici, sentiti, per
le rispettive competenze, il Ministro
dell'ambiente, il Ministro per i problemi
delle aree urbane ed il Ministro per i beni
culturali e ambientali;
- stabilire la precedenza su determinate
strade o tratti di strade, ovvero in una
determinata intersezione, in relazione alla
classificazione di cui all'art. 2, e, quando
la intensità o la sicurezza del traffico lo
richiedano, prescrivere ai conducenti, prima
di' immettersi su una determinata strada,
l'obbligo di arrestarsi all'intersezione e
di dare la precedenza a chi circola su
quest'ultima;
- riservare limitati spazi alla sosta dei
veicoli degli organi di polizia stradale di
cui all'art. 12, dei vigili del fuoco, dei
servizi di soccorso, nonché di quelli
adibiti al servizio di persone con limitata
o impedita capacità motoria, munite del
contrassegno speciale ovvero a servizi di
linea per lo stazionamento ai capilinea;
- stabilire aree nelle quali e' autorizzato
il parcheggio dei veicoli;
- stabilire, previa deliberazione della
giunta, aree destinate al parcheggio sulle
quali la sosta dei veicoli e' subordinata al
pagamento di una somma da riscuotere
mediante dispositivi di controllo di durata
della sosta, anche senza custodia del
veicolo, fissando le relative condizioni e
tariffe in conformità alle direttive del
Ministero dei lavori pubblici, di concerto
con la Presidenza del Consiglio dei Ministri
Dipartimento per le aree urbane;
- prescrivere orari e riservare spazi per i
veicoli utilizzati per il carico e lo
scarico di cose;
- istituire le aree attrezzate riservate
alla sosta e al parcheggio delle autocaravan
di cui all'art. 185;
- riservare strade alla circolazione dei
veicoli adibiti a servizi pubblici di
trasporto, al fine di favorire la mobilità
urbana” .
La portata normativa dell’art. 7 del codice
della strada va adeguata alle disposizioni
del testo unico degli enti locali decreto
legislativo 267/2000 che nell’affermare al
2° comma che “spettano ai dirigenti tutti
i compiti, compresa l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, non
ricompresi espressamente dalla legge o dallo
statuto tra le funzioni di indirizzo e
controllo politico-amministrativo degli
organi di governo dell'ente….”, al 5°
comma dispone che a seguito dell’entrata in
vigore del decreto legislativo 267/2000 “le
disposizioni che conferiscono agli organi di
cui al Capo I Titolo III l'adozione di atti
di gestione e di atti o provvedimenti
amministrativi si intendono nel senso che la
relativa competenza spetta ai dirigenti,
salvo quanto previsto dall'articolo 50,
comma 3, e dall'articolo 54”.
Ne deriva che la competenza
ad adottare ordinanze nelle materie indicate
nel 1° comma dell’art. 7 del codice della
strada rientra nella competenza dei
dirigenti.
Conformemente, la giurisprudenza
amministrativa per la quale sono escluse
dalla competenza della dirigenza
esclusivamente le ordinanze di maggiore
impatto sull’intera collettività locale, per
le quali la legge prevede l’intervento di un
organo politico, come nel caso della
delimitazione delle aree pedonali e delle
zone a traffico limitato, per la quale si
provvede “con deliberazione della giunta”
(art. 7, nono comma, D.L.vo n. 285/1992),
ovvero quelle di limitazioni connesse al
rispetto dei limiti del tasso di
inquinamento atmosferico (cfr. circ. min.
ambiente, 30.06.1999, n. 2708/1999), ovvero,
ancora, quelle di esercizio del potere di
ordinanza contingibile ed urgente (Cons.
Stato, Sez. II, parere del 02.04.2003, n.
1661; TAR Campania, Napoli, Sez. I,
20.12.2005, n. 20503; TAR Basilicata,
05.03.2007, n. 146) (link a
www.entilocali.provincia.le.it). |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO: Figure
della Sicurezza nei luoghi di lavoro e nei
cantieri edili: chi sono, cosa devono fare e
cosa non devono fare!
Le figure coinvolte nella sicurezza sui
luoghi del lavoro, e in particolare sui
cantieri, sono diverse e ciascuna di essa ha
degli adempimenti ben precisi.
Tra queste figure ricordiamo:
● Committente privato;
● Committente pubblico;
● Coordinatore per la sicurezza in fase di
progettazione;
● Coordinatore per la sicurezza in fase di
esecuzione;
● Medico competente;
● Lavoratore;
● Responsabile del servizio di prevenzione e
protezione;
● Rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza.
Ciascuna di queste figure ha degli obblighi
ben precisi, individuati dalla normativa
vigente.
L'ASLE (Associazione per la Sicurezza dei
Lavoratori Edili) di Milano e Lodi ha
pubblicato in passato un manuale rivolto ai
lavoratori e a tutti i soggetti che
concorrono alla sicurezza sui luoghi di
lavoro. Il documento, seppur riferito alla
vecchia normativa (D.Lgs. 626/1994),
contiene tutte le definizioni, i compiti e
gli adempimenti relativi alle varie figure
impegnate sia dentro che fuori dal cantiere
e risulta di semplice comprensione.
Chiaramente va riadattato alle modifiche
previste dal D.Lgs. 81/2008 e s.m.i.
(20.10.2011 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO: Come
porre quesiti interpretativi sul Testo Unico
sulla Sicurezza.
Il Testo Unico in materia di salute e
sicurezza nel lavoro (D.Lgs. 81/2008)
stabilisce, all'articolo 12, che il
Ministero del Lavoro, della salute e delle
politiche sociali istituisca la Commissione
per gli Interpelli, con la finalità di
fornire risposte ai quesiti che
costituiscano criteri interpretativi e
direttivi per l’esercizio delle attività di
vigilanza.
Con Decreto Direttoriale del 28.09.2011 è
stata istituita la Commissione per gli
Interpelli ed è stato attivato l’indirizzo
di posta elettronica interpellosicurezza@lavoro.gov.it.
I tecnici o le imprese o i datori di lavoro
che abbiano necessità di formulare quesiti
interpretativi o di ordine generale
sull’applicazione della normativa in materia
di salute e sicurezza del lavoro possono
rivolgersi agli ordini professionali o ad
organismi di rilevanza nazionale, al fine di
inoltrare tali quesiti alla Commissione per
gli Interpelli.
Infatti, hanno possibilità di consultare la
Commissione per gli interpelli solo:
● gli organismi associativi a rilevanza
nazionale;
● le organizzazioni sindacali dei datori di
lavoro e dei lavoratori;
● i consigli nazionali degli ordini o
collegi professionali.
Le istanze di interpello dovranno essere
necessariamente inoltrate via e-mail (interpellosicurezza@lavoro.gov.it).
Le indicazioni fornite nelle risposte ai
quesiti costituiscono criteri interpretativi
e direttivi per l’esercizio delle attività
di vigilanza
(20.10.2011 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Meno
carte e più sicurezza! Arriva il Vademecum
dei Vigili del Fuoco sul nuovo Regolamento
Antincendio.
Gianni è un imprenditore che desidera
costruire un’autorimessa di 400 m²…
Maria è un’imprenditrice che vuole aprire un
ampio locale per la vendita al dettaglio, la
cui metratura si aggira intorno ai 1.000 m²…
Paolo ha intenzione di costruire una grande
casa di riposo che riesca a ospitare e
assistere fino a 110 anziani
contemporaneamente…
Come dovrà operare ciascuno
di questi tre imprenditori?
Fino a ieri (prima del 07.10.2011) la
procedura da seguire sarebbe stata la stessa
per tutti e tre gli imprenditori: prima di
cominciare i lavori, il titolare
dell’attività doveva inviare al Comando dei
VV.F. il progetto. I Vigili del Fuoco, dopo
aver analizzato il progetto e entro 90
giorni, davano il proprio parere sulla
conformità del progetto alle norme
antincendio. I lavori potevano cominciare
solo se il parere risultava positivo.
Oggi la questione cambia: le procedure sono
notevolmente semplificate e viene adottato
un criterio di proporzionalità degli
adempimenti: gli adempimenti amministrativi
sono diversificati sulla base della
complessità dell'attività da avviare e in
base al rischio per l'incolumità pubblica.
Infatti:
►
Gianni può iniziare direttamente i lavori
(attività di Categoria A). A lavori ultimati
raccoglie la documentazione attestante la
conformità dell’attività realizzata alle
prescrizioni vigenti in materia di sicurezza
antincendio e la spedisce, tramite procedura
on-line, al SUAP, ottenendo la ricevuta. Può
immediatamente cominciare la sua attività. I
Vigili del Fuoco possono effettuare
controlli a campione entro 60 giorni;
►
Maria (attività di Categoria B) prima di
iniziare i lavori deve trasmettere, tramite
il SUAP, istanza ai Vigili del Fuoco per
l’esame del progetto. Entro 60 giorni dalla
presentazione della documentazione completa
i Vigili del Fuoco rilasciano il parere. A
lavori ultimati dovrà raccogliere la
documentazione attestante la conformità
dell’attività realizzata alle prescrizioni
vigenti in materia di sicurezza antincendio
e spedire la documentazione tramite
procedura on-line al SUAP. I Vigili del
Fuoco possono effettuare controlli a
campione entro 60 giorni;
►
Mario (attività di Categoria C) dovrà
adottare la stessa procedura seguita da
Maria. Il Vigili del Fuoco effettueranno il
controllo entro 60 giorni. In caso di esito
positivo, il Comando Provinciale rilascerà
il CPI.
N.B. – Il CPI per le attività di Categoria
C, così come il verbale di visita tecnica
per le attività di Categoria A e B, non è
più il provvedimento finale di un
procedimento amministrativo, ma costituisce
solo il risultato di un controllo effettuato
e non ha scadenza temporale.
Questi sono solo alcuni esempi contenuti nel
documento pubblicato dal Corpo Nazionale dei
Vigili del Fuoco che costituisce un vero e
proprio Vademecum sul nuovo Regolamento
antincendio.
Inoltre, in allegato a questo articolo,
proponiamo uno schema con le procedure da
adottare in funzione della Categoria di
attività
(20.10.2011 - link a www.acca.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 20.10.2011 n. 245 "Regolamento di
attuazione in materia di risoluzione del
rapporto di lavoro dei dipendenti delle
amministrazioni pubbliche dello Stato e
degli enti pubblici nazionali in caso di
permanente inidoneità psicofisica, a norma
dell'articolo 55-octies del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165"
(D.P.R. 27.07.2011 n.
171).
---------------
P.a.,
l'irrequieto resta a casa. In G.U. dpr sulla
sospensione cautelare.
Il dipendente pubblico «turbolento» potrà
essere sospeso cautelativamente dal
servizio. Infatti, in presenza di
comportamenti gravi e ripetuti, tali da
poter generare pericolo per sé, per gli
altri lavoratori o per l'utenza,
l'amministrazione pubblica potrà invitarlo a
non presentarsi in ufficio, attivando, per
il tramite delle aziende sanitarie, l'iter
di verifica della sua idoneità alle mansioni
svolte. Inoltre, se al lavoratore viene
riconosciuta una inidoneità psicofisica
assoluta, l'amministrazione deve risolvere
il rapporto di lavoro.
Questo è quanto si
rileva dalla lettura del dpr 27.07.2011 n.
171,
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 20
ottobre scorso, attuativo delle disposizioni
contenute all'articolo 55-octies del dlgs
n. 165/2001. Come si ricorderà, (si veda ItaliaOggi del 14 luglio scorso) le
disposizioni si applicano ai dipendenti,
anche con qualifica dirigenziale, delle
amministrazioni dello stato, anche ad
ordinamento autonomo, degli enti pubblici
non economici, degli enti di ricerca e delle
università, nonché al personale delle
Agenzie fiscali. Mentre restano escluse le
categorie del personale cosiddetto non
contrattualizzato (come ad esempio i
prefetti, professori universitari,
magistrati).
Il dpr prevede che se il dipendente supera
la soglia prevista dal contratto in caso di
assenze per malattia, oppure, come detto in
presenza di gravi e ripetuti comportamenti
sul luogo di lavoro, l'amministrazione (ma
anche il dipendente potrà chiederlo) ha la
facoltà di attivare tutte le iniziative per
accertare l'inidoneità del dipendente allo
svolgimento delle mansioni. Inidoneità che
può essere assoluta (quindi con
l'impossibilità di svolgere qualsiasi
attività lavorativa), oppure relativa, nel
caso in cui il dipendente non potrà svolgere
le attività proprie del suo profilo
professionale ma che potrà essere «ricollocato»
in altro profilo professionale.
In quest'ultimo caso, infatti, il dpr
prevede che l'amministrazione dovrà
attivarsi per «rinquadrarlo» in
mansioni equivalenti, ovvero inferiori,
assicurandogli comunque, il trattamento
economico di provenienza. Solo se non sarà
possibile collocare in alcun modo il
dipendente, anche attraverso consultazioni
con altre p.a., questi sarà messo in «soprannumero».
Nei casi limite, infine, ovvero se il
dipendente viene riconosciuto inidoneo
assoluto al servizio, l'amministrazione,
previa comunicazione, risolve il rapporto di
lavoro e corrisponderà l'indennità di
preavviso
(articolo ItaliaOggi del 22.10.2011 - link a www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 42 del
20.10.2011 "Modifica della d.g.r. 713 del
26.10.2010 in materia di canoni demaniali di
polizia idraulica" (deliberazione
G.R. 13.10.2011 n. 2362). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA: Niente
Scia per occupazioni e pubblicità sulle
strade.
Chi richiede l'autorizzazione
all'occupazione della sede stradale per
effettuare lavori o per necessità diverse
anche di carattere commerciale deve sempre
ottenere una regolare licenza rilasciata
dall'ente proprietario della strada che non
può essere sostituita dalla Scia. E questa
indicazione riguarda anche la pubblicità
stradale e in generale tutte le
autorizzazioni necessarie per l'uso delle
strade e delle relative pertinenze.
Lo ha
messo nero su bianco il Ministero dei
Trasporti con il
parere 05.10.2011 n. 4928
di prot..
Un comune della riviera
romagnola ha richiesto al ministero dei
trasporti se la semplificazione introdotta
nell'art. 19 della legge 241/1990 con
l'avvento della segnalazione certificata di
inizio attività possa interessare anche il
codice della strada e in particolare le
ordinanze e le autorizzazioni disciplinate
dall'art. 26 del dlgs 285/1992.
A parere dell'organo centrale di via Caraci
non ci sono dubbi di sorta. La
semplificazione introdotta progressivamente
nella legge 241/1990 negli ultimi due anni
non interessa la disciplina dei
provvedimenti da adottare per la
regolamentazione del traffico e neppure
quella per il rilascio delle licenze
necessarie per occupare strade, impiantare
manufatti ed effettuare interventi.
Il nuovo articolo 19 della legge 241/1990,
specifica letteralmente che «ogni atto di
autorizzazione il cui rilascio dipenda
esclusivamente dall'accertamento di
requisiti e presupposti richiesti dalla
legge o da atti amministrativi a contenuto
generale, e non sia previsto alcun limite o
contingente complessivo o specifici
strumenti di programmazione settoriale per
il rilascio degli atti stessi, è sostituito
da una segnalazione dell'interessato, con la
sola esclusione dei casi in cui sussistano
vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali e degli atti rilasciati dalle
amministrazioni preposte alla difesa
nazionale, alla pubblica sicurezza,
all'immigrazione, all'asilo, alla
cittadinanza».
Le autorizzazioni e le concessioni
rilasciate ai sensi dell'art. 26 del codice
della strada, conclude il parere
ministeriale, sono riferite a norme
riguardanti la costruzione e la tutela delle
strade. Ovvero sono atti che interessano la
pubblica sicurezza e la cittadinanza. Per
questo motivo specificamente esclusi
dall'applicazione della disciplina
introdotta con la segnalazione certificata
di inizio attività
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2011). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI: Arriva
il primo default federalista.
Carte in Procura per l'eventuale
ineleggibilità dei responsabili.
È bastato meno di un mese al decreto
legislativo federalista 149/2011 sui «premi
e sanzioni» agli amministratori locali per
avviare la prima procedura di «dissesto
guidato» di un Comune.
Il primo semaforo rosso si è acceso alla
Corte dei conti della Toscana, che con la
delibera 18.10.2011 n. 211 diffusa ieri ha messo sui
binari del dissesto il Comune di Castiglion
Fiorentino, 13.400 abitanti in provincia di
Arezzo.
Le voragini nei conti del Comune
toscano erano emerse da un'indagine degli
ispettori della Ragioneria generale dello
Stato, che hanno scoperto un buco da 8-9
milioni (in un bilancio che in tutto ne vale
25) coperto, sulla carta, da entrate per
conto terzi gonfiate nell'affannoso
tentativo di raggiungere l'equilibrio
contabile (si veda anche Il Sole 24 Ore del
24 settembre scorso). Il gioco, che secondo
gli ispettori di Via XX Settembre durava
almeno dal 2005, è diventato ingestibile
quest'anno, con il risultato che meno di un
mese fa la Giunta, guidata dall'ex assessore
al Bilancio diventato sindaco alle
amministrative di maggio, ha dovuto alzare
bandiera bianca e lasciare il campo a un
commissario a termine, che sospende per 90
giorni il consiglio comunale, senza però
dichiarare il dissesto.
La novità arriva dalla Corte dei conti, che
nella delibera della sezione di controllo
applica per la prima volta il nuovo
meccanismo con cui la scelta sul default
esce dalla piena disponibilità dell'ente
locale per offrire un ruolo determinante
proprio alla magistratura contabile. Il
problema, spiega la delibera, è che tutte le
tappe previste dalla procedura sono state
percorse, senza che però si riuscisse a
mettere in campo qualche contromisura in
grado di far approvare il rendiconto 2010 e
il preventivo 2011.
I passaggi applicativi
sono quelli delineati dalla stessa sezione
Toscana nelle «prime linee di indirizzo»
sulle nuove regole (delibera 204/2011; si
veda Il Sole 24 Ore del 4 ottobre scorso):
prima la «pronuncia specifica di
inattendibilità e non veridicità» dei dati
indicati dal Comune nel questionario sul
rendiconto 2009 poi, vista l'assenza di
correttivi, l'indicazione di un termine (30
settembre) entro cui il Comune avrebbe
dovuto mostrare la propria reale situazione
debitoria e creditoria. Nulla di tutto ciò è
avvenuto, e la Corte dei conti ha deciso di
riprendere carta e penna per una nuova
delibera con cui segnala il tutto al
Prefetto di Arezzo.
A questo punto, si è all'ultimo miglio della
nuova procedura verso il dissesto: se in 30
giorni l'ente non sarà in grado di chiudere
i conti (ipotesi che lo stesso commissario
attuale giudica «impossibile»), al Prefetto
non resterà altro da fare che imporre un
termine di 20 giorni per la dichiarazione
del dissesto.
Tutte le carte sono state già girate anche
alla Procura regionale della Corte, per il
secondo capitolo delle conseguenze legate
alla nuova strada verso il default locale.
Se la magistratura affibbierà anche delle
condanne per danni gravi compiuti negli
ultimi cinque anni, infatti, gli
amministratori colpiti incapperanno nello
stop decennale alla candidatura a qualsiasi
elezione, dalle Europee alle comunali
(articolo
Il Sole 24 Ore del 20.10.2010 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: City
manager con la laurea. La Corte conti
Toscana bacchetta un ente.
Negli enti locali, le funzioni di city
manager richiedono per il loro utile
svolgimento, il possesso del titolo
accademico, da cui non si può prescindere.
Infatti, in relazione a tale incarico, la
pubblica amministrazione locale è chiamata a
remunerare non una prestazione qualsiasi, ma
la specifica prestazione di un contratto di
alta dirigenza, con standard qualitativi,
quantitativi e di professionalità ben
determinati. Mancando tali parametri, ovvero
l'adeguata preparazione culturale, la
prestazione lavorativa è del tutto
inadeguata alle esigenze
dell'amministrazione.
Così la Corte dei
conti Toscana, nel testo della
sentenza
03.10.2011 n.
363, con la quale ha condannato gli ex
amministratori del comune di Pontassieve, a
rifondere le casse comunali del danno patito
per le indebite erogazioni stipendiali a
favore dell'ex direttore generale dell'ente,
nominato dalla giunta nonostante lo stesso
fosse sprovvisto del diploma di laurea.
La figura del direttore generale dell'ente
locale è un incarico «indubbiamente
concepito dal legislatore» in termini di
alta professionalità ed elevato livello
culturale. Per queste figure, la p.a. è
chiamata pertanto a remunerare non una
prestazione qualsiasi, ma una in
particolare, caratterizzata da elevati
livelli di qualità e professionalità. Ora,
mancando la preparazione culturale la
prestazione lavorativa è del tutto
inadeguata alle esigenze
dell'amministrazione pubblica e la
controprestazione, ovvero la retribuzione,
non è correlata alla prestazione che viene
richiesta.
Senza dimenticare, rileva il collegio, che è
avvenuta la manifesta violazione di norme di
legge. Ovvero degli articoli 19 e 28 del dlgs
n. 165/2001, dalla cui lettura si evince che
il possesso della laurea deve considerarsi
requisito culturale obbligatoriamente
richiesto per l'accesso, a qualunque titolo,
alla dirigenza. E questo sia per le
amministrazioni centrali che per quelle
locali. Il titolo accademico, ha concluso il
collegio, lungi dal costituire una mera
formalità, deve ritenersi come metro di
valutazione della legittimità e della
congruità della spesa pubblica, a fronte
della scelta dell'organo di vertice
politico.
Nell'affidamento di un incarico di direttore
generale vi è una discrezionalità nella
scelta, ma questa non deve ricadere
nell'arbitrio, in quanto la natura
fiduciaria dell'incarico «deve comunque
cedere all'accertamento dei requisiti
accademici e professionali»
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2011 - link a www.corteconti.it). |
URBANISTICA: Richiesta
di parere del Comune di Arona in materia di
destinazione dei proventi della
trasformazione del diritto di superficie.
I proventi derivanti
della trasformazione del diritto di
superficie in diritto di proprietà piena
sono assoggettati a un vincolo di
destinazione, dovendo essere reimpiegati
esclusivamente nel finanziamento di
interventi di eguale natura. Il vincolo di
destinazione trova giustificazione nella
funzione sociale della proprietà e nella
accessibilità a tutti della stessa che i
comuni, attraverso le proprie politiche di
edilizia residenziale pubblica, sono
chiamati ad assicurare, garantendo il
diritto alla casa a prezzi accessibili anche
per i non abbienti e calmierando, nel
contempo, i prezzi di mercato.
L’art. 31, comma 45, della legge 23.12.1998,
n. 448, prevede la possibilità, per i
comuni, di cedere in proprietà le aree, già
concesse in diritto di superficie, comprese
nei piani approvati a norma della legge
18.04.1962, n. 167 (“Disposizioni per
favorire l’acquisizione di aree per
l’edilizia economica e popolare”),
ovvero delimitate ai sensi dell'articolo 51
della legge 22.10.1971, n. 865.
Il comma 47, del medesimo articolo 31,
prevede che la trasformazione del diritto di
superficie in diritto di piena proprietà su
tali aree possa avvenire a seguito di
proposta da parte del comune e di
accettazione da parte dei singoli
proprietari degli alloggi, dietro pagamento
di un corrispettivo calcolato ai sensi del
successivo comma 48 (sui criteri per la la
determinazione del corrispettivo, si rinvia
a quanto precisato dalle Sezioni riunite in
sede di controllo di questo Istituto, con
delibera 14.04.2011 n. 22).
Il quesito posto dal Comune istante verte
sulle possibili destinazioni per i proventi
derivanti dalla trasformazione del diritto
di superficie, in particolare si chiede se
sia possibile utilizzarli per finanziare
opere di urbanizzazione primaria e
secondaria a miglioramento delle stesse aree
PEEP ove risiedono i beneficiari delle
trasformazioni o, in via subordinata, a
miglioramento delle aree limitrofe, comunque
con beneficio prevalente degli stessi
soggetti.
Ai fini dell’esame della questione posta, va
preliminarmente richiamato il principio
generale del perfetto pareggio economico che
ispira la disciplina sulla realizzazione dei
PEEP. Detto principio implica il necessario
rimborso, da parte degli assegnatari delle
aree, ovvero degli acquirenti degli alloggi,
di tutte le spese sostenute (cfr. Cons. di
Stato, sez. IV, n. 361/2003 e n. 431/2009).
In particolare, la disciplina di cui
all’art. 35 della citata legge n. 865 del
1971 (novellato dall'art. 3, comma 63, L.
23.12.1996, n. 662), nel modificare l’art.
10 della legge 18.04.1962, n. 167, ha
imposto il necessario equilibrio economico
finanziario tra l’introito dei prezzi di
cessione delle aree da una parte, e le spese
sostenute dai comuni o dai consorzi per
l’acquisizione delle aree e per la
realizzazione delle opere di urbanizzazione,
dall’altra.
La necessità del rispetto del principio del
pareggio è statuita anche nella disciplina
di cui all’art. 16 del D.L. 22.12.1981, n.
786, convertito in legge 26.02.1982, n. 51,
che, ai commi 1 e 2, prevede: “1. I
comuni sono tenuti ad evidenziare con
particolari annotazioni gli stanziamenti di
bilancio relativi all'acquisizione,
urbanizzazione, alienazione e concessione di
diritto di superficie di aree e fabbricati
da destinarsi alla residenza, alle attività
produttive e terziarie ai sensi delle leggi
18.04.1962, n. 167, e successive
modificazioni ed integrazioni, 22.10.1971,
n. 865, e 05.08.1978, n. 457.
2. Il prezzo di alienazione o di concessione
in diritto di superficie delle aree e dei
fabbricati, di cui al comma precedente, deve
essere determinato in misura tale da coprire
le spese di acquisto, gli oneri finanziari,
gli oneri per le opere di urbanizzazione
eseguite o da eseguire ad eccezione di
quelli che la legislazione vigente pone a
carico delle amministrazioni comunali”.
Si rileva ancora che nell’annuale delibera
consiliare, allegata al bilancio di
previsione, di cui all’art. 172, comma 1,
lett. c), del D.Lgs. n. 267 del 2000 (TUEL),
con la quale l’ente verifica annualmente la
quantità e qualità di aree e fabbricati da
destinarsi alla residenza, alle attività
produttive e terziarie che possono essere
cedute in proprietà od in diritto di
superficie, i relativi
prezzi di cessione devono essere determinati
in misura tale che i proventi coprano
integralmente anche le spese sostenute dal
comune per l'acquisizione delle aree di cui
parla l’art. 35, comma 12, della legge n.
865 del 1971
(cfr. Sezione controllo Veneto,
parere 09.06.2009 n. 98).
Tanto chiarito in merito al principio della
piena corrispondenza fra entrate ed uscite
da parte dei Comuni in tale settore, ci si
deve interrogare sulle possibili
destinazioni di eventuali eccedenze di
entrata, quali quelle derivanti, come nel
caso di specie, dalla determinazione
dell’ente di trasferire, in un momento
successivo, la piena proprietà a chi è già
titolare del diritto di superficie sulle
aree in parola.
In primo luogo va ricordato che
i proventi derivanti da alienazione
di beni patrimoniali non possono essere
utilizzati per spese diverse dagli
investimenti, se non nei casi e nei limiti
previsti da specifiche norme di legge, come
dall’art. 2, comma 8, della legge n.
244/2007 (finanziaria per il 2008), ovvero
nelle ipotesi in cui occorra provvedere al
mantenimento degli equilibri di bilancio
(cfr. art. 193, commi 2 e 3 del TUEL).
In materia di edilizia residenziale, oltre a
tale criterio generale, viene in rilievo un
vero e proprio vincolo di destinazione posto
dal legislatore al comma 3 del già citato
art. 16 del D.L. n. 786 del 1981, ove, una
volta affermato al comma precedente il
principio del pareggio fra entrate e uscite,
si precisa che l’eventuale avanzo, riferito
agli stanziamenti risultanti dal bilancio
consuntivo dovrà essere impiegato
esclusivamente per il finanziamento di
investimenti di eguale natura. Si ricorda
che, ai sensi del primo comma, sono poste
specifiche annotazioni sugli stanziamenti di
bilancio relativi all'acquisizione,
urbanizzazione, alienazione e concessione di
diritto di superficie di aree e fabbricati
da destinarsi alla residenza, alle attività
produttive e terziarie.
I proventi derivanti dal
trasferimento dei diritti in parola sono
assoggettati dunque a un vincolo di
destinazione, dovendo essere reimpiegati
esclusivamente nel finanziamento di
interventi di eguale natura. Fra detti
diritti deve ritenersi inclusa anche la
trasformazione del diritto di superficie in
diritto di proprietà piena, trattandosi pur
sempre di un’alienazione.
Il vincolo di destinazione trova
giustificazione nella funzione sociale della
proprietà e nella accessibilità a tutti
della stessa (art. 42, comma 2 della
Costituzione) che i comuni, attraverso le
proprie politiche di edilizia residenziale
pubblica, sono chiamati ad assicurare,
garantendo il diritto alla casa a prezzi
accessibili anche per i non abbienti e
calmierando, nel contempo, i prezzi di
mercato (cfr. Sez. controllo Veneto,
parere 09.06.2009 n. 98; Sez.
controllo Lombardia,
parere 23.02.2011 n. 94; Sez.
controllo Basilicata,
delibera 17.05.2011 n. 28).
E’ inoltre da tener presente, come ricordato
nei pareri da ultimo citati, che il
legislatore, con la disposizione contenuta
nel comma 28 dell’art. 3 della legge n.
350/2003, ha stabilito che gli enti locali “hanno
facoltà di utilizzare le entrate derivanti
dal plusvalore realizzato con l'alienazione
di beni patrimoniali, inclusi i beni
immobili, per spese, aventi carattere non
permanente”, connesse alle finalità di
cui all'articolo 187, comma 2, del TUEL. Le
somme in parola possono essere ulteriormente
utilizzate, a partire dall'01.01.2005, anche
per il rimborso della quota di capitale
delle rate di ammortamento dei mutui (art.
1, comma 66, legge 30.12.2004, n. 311).
Passando allo specifico
quesito posto dal Comune,
alla luce della complessa disciplina
esaminata, una volta
ritenuti assoggettati anche i proventi della
trasformazione del diritto di superficie al
vincolo di destinazione di cui all’art. 16,
comma 3, il quesito si riduce alla verifica
della possibilità di qualificare o meno le
fattispecie prospettate quali “interventi
di eguale natura”.
Al riguardo, il collegio
ritiene che possono ritenersi tali anche le
opere di urbanizzazione a miglioramento
delle aree su cui siano stati realizzati
interventi a norma delle leggi indicate
all’art. 16, comma 1, del D.L. n. 786 del
1981.
Del resto il comma citato precisa, da un
alto che il prezzo di alienazione o di
concessione in diritto di superficie delle
aree e dei fabbricati deve essere
determinato in misura tale da coprire anche
gli oneri per le “opere di urbanizzazione
eseguite o da eseguire”, dall’altro che
l’avanzo su cui verte il vincolo di
destinazione si riferisce agli stanziamenti
risultanti dal bilancio consuntivo relativi
anche all’urbanizzazione delle aree
interessate. Appare evidente, pertanto, che
possono ritenersi “di eguale
natura” anche gli investimenti per opere
di urbanizzazione per il miglioramento delle
medesime aree, in quanto strumentali
all’edilizia residenziale e dunque alla
realizzazione, anche attraverso di essi,
della funzione sociale della proprietà.
Resta ovviamente demandata alla valutazione
discrezionale dell’Ente, tenuto conto delle
esigenze della cittadinanza amministrata,
l’individuazione delle priorità degli
interventi nell’ambito in esame, e dunque il
riconoscimento dell’eventuale preminenza di
opere di urbanizzazione rispetto ad altre
finalità, sempre di “eguale natura”.
In ogni caso, avuto riguardo alle già citate
disposizioni di cui al comma 28 dell’art. 3
della legge n. 350 del 2003 e al comma 66
dell’art. 1 della legge n. 311 del 2004,
l’Ente dovrà anche misurarsi con le
eventuali priorità segnalate all’art. 187
del TUEL ovvero con l’esigenza di provvedere
al rimborso della quota di capitale delle
rate di ammortamento dei mutui
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 29.09.2011 n. 117). |
NEWS |
ENTI LOCALI: La p.a. lumaca si salva in corner.
Ok alla deroga unilaterale nei pagamenti
alle aziende. Nel ddl recante lo Statuto
d'impresa molte disposizioni modificate con
gli emendamenti.
Depotenziata l'efficacia della tutela delle
piccole e medie imprese contro i ritardati
pagamenti da parte delle Amministrazioni
pubbliche, con la soppressione delle norme
sulla nullità dei patti in deroga in materia
di interessi e del divieto di deroga ai
termini previsti dal dlgs 231/2002 per la
decorrenza degli interessi di mora.
Contrariamente a quanto affermato da alcuni
organi di stampa, sono infatti spariti,
nell'approvazione in Aula del disegno di
legge «statuto di impresa», alcune
importanti norme, varate in Commissione
attività produttive (si veda ItaliaOggi di
ieri) a tutela delle transazioni commerciali
delle piccole e medie imprese con le
amministrazioni pubbliche.
In particolare,
con un emendamento presentato dal relatore
del provvedimento, Cesare Cursi, in Aula
sono saltati i primi tre commi dell'articolo
11 esaminato dall'Aula. Di particolare
rilievo soprattutto i primi due: il primo
comma stabiliva che le pubbliche
amministrazioni, nelle transazioni
commerciali, non potessero derogare
unilateralmente ai termini di cui al
presente articolo, cioè ai termini
dell'articolo 4 del decreto legislativo
231/2002 (trenta o sessanta giorni da cui
decorrono gli interessi di mora)
Il secondo e ancora più importante comma
prevedeva invece la nullità (ex lege,
quindi) della rinuncia agli interessi di
mora successivamente alla conclusione del
contratto, qualora una delle parti
contraenti fosse stata una pubblica
amministrazione. Lo stesso relatore ha anche
proposto (e l'Aula ha approvato) un
emendamento con il quale è stato anche
soppressa la norma che prevedeva un sistema
di diffide e sanzioni nei casi di ritardato
pagamento, mancato versamento degli
interessi moratori e mancato risarcimento
dei costi di recupero, di cui agli articoli
4 e 6 del decreto legislativo 09.10.2002, n. 231.
Nella sostanza, tutto quello
che poteva rappresentare un onere per
l'Amministrazione, o quanto meno un
inasprimento del quadro normativo vigente è
stato soppresso. Così come non sono passati
gli emendamenti che proponevano un sistema
di certificazione dei crediti verso la
pubblica amministrazione a favore delle
piccole e medie imprese (stimati in
complessivi 40 miliardi).
In questo caso è
stata la Commissione bilancio a bocciare gli
emendamenti e il presidente Antonio Azzollini, in Aula, ha avuto modo di
chiarire le ragioni del parere negativo: «se
non si vogliono prendere in giro le imprese,
bisogna coprire pesantemente queste norme in
quanto è evidente che immediatamente
provocano per lo Stato e per le pubbliche
amministrazioni necessità di fabbisogno
assai considerevoli, che in questo momento
ovviamente non possono essere soddisfatte».
Rimangono invece le norme che, nell'ambito
della delega a recepire la nuova direttiva
europea sui ritardati pagamenti (la
77/2010), prevedono interventi
dell'Antitrust con diffide e sanzioni
relativamente ai comportamenti illeciti
messi in atto da grandi imprese nei
confronti delle piccole e mede imprese.
Si
stabilisce inoltre che la direttiva debba
essere recepita per limitare soprattutto gli
effetti negativi della posizione dominante
di imprese sui propri fornitori o sulle
imprese subcommittenti
(articolo ItaliaOggi del 22.10.2011 - link a www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Commissioni al restyling. Se un
componente transita in un altro gruppo. Il
cambio di casacca richiede una revisione
globale delle rappresentanze.
Qual è la procedura da
applicare per la sostituzione, nelle
commissioni consiliari, di un consigliere
uscito da un gruppo e transitato in un
altro?
In base a quanto disposto dall'articolo 38,
comma 6, del dlgs n. 267/2000, le
commissioni consiliari, una volta istituite
sulla base di una facoltativa previsione
statutaria, sono disciplinate dall'apposito
regolamento comunale con l'inderogabile
limite, posto dal legislatore, riguardante
il rispetto del criterio proporzionale nella
composizione.
Ciò significa che le forze politiche
presenti in consiglio devono essere il più
possibile rispecchiate anche nelle
commissioni, in modo che in ciascuna di esse
sia riprodotto il peso numerico e di voto.
Il legislatore non precisa come debba essere
applicato tale criterio di proporzionalità.
È da ritenersi che spetti al regolamento,
cui sono demandate la determinazione dei
poteri delle commissioni nonché la
disciplina dell'organizzazione e delle forme
di pubblicità dei lavori, stabilire i
meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Secondo l'univoco e consolidato indirizzo
giurisprudenziale, il criterio proporzionale
può dirsi rispettato ove sia assicurata, in
ogni commissione, la presenza di ciascun
gruppo presente in consiglio in modo che, se
una lista è rappresentata da un solo
consigliere, questi deve essere presente in
tutte le commissioni costituite (Tar
Lombardia, Brescia, 04/07/1992, n. 796, Tar
Lombardia Milano, 03/05/1996, n. 567),
assicurando una composizione delle
commissioni proporzionata all'entità di
ciascun gruppo consiliare.
Nel caso di specie, se lo statuto, nel
disciplinare le commissioni, stabilisce che
queste debbano essere costituite con
criterio proporzionale e il regolamento
comunale fissa la determinazione numerica
dei commissari, demanda ai gruppi consiliari
la designazione dei consiglieri incaricati
di far parte delle commissioni consiliari in
rappresentanza dei singoli gruppi -in modo
da garantire adeguata rappresentanza a
ciascuno di essi- e stabilisce il diritto di
ogni consigliere a far parte di almeno una
commissione, ne consegue che gli eventuali
mutamenti in corso di consiliatura nel
rapporto tra maggioranza e minoranza
consiliare, ovvero nella consistenza
numerica dei gruppi, dovrebbero implicare
una revisione, a cura del consiglio
comunale, degli assetti preesistenti nelle
commissioni consiliari, al fine di
ripristinare il rispetto dei criteri a cui
le stesse devono essere conformate.
In tale prospettiva, l'ipotesi del distacco
di uno o più consiglieri dal gruppo di
appartenenza originaria per aderire o
formare altro gruppo, va inquadrata
nell'ambito di un riequilibrio generale
degli assetti presenti nelle commissioni, e
non già di mera sostituzione degli stessi.
Resta rimessa all'autonomia organizzativa
dell'ente locale l'individuazione, anche
mediante opportune integrazioni del
regolamento comunale, del meccanismo tecnico
-quale voto plurimo, voto ponderato o altro-
reputato maggiormente idoneo ad assicurare a
ciascun commissario un peso corrispondente a
quello del gruppo che rappresenta.
Come rilevato nella citata sentenza del Tar
Lombardia, Milano, n. 567/1996, infatti, il
criterio proporzionale «è posto dal
legislatore come direttiva suscettibile di
svariate opzioni applicative, egualmente
legittime purché coerenti con la ratio che
quel principio sottende, e che consiste
nell'assicurare in seno alle commissioni la
maggiore rappresentatività possibile»
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2011 - link a www.ecostampa.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Incentivi fuori dai
tagli, restano ancora dubbi. I chiarimenti
delle sezioni unite non sciolgono tutti i nodi.
Gli incentivi alla realizzazione di opere
pubbliche derogano al tetto al fondo, al
pari di quelli per gli avvocati dipendenti e
dirigenti (per costoro si deve però chiarire
se ci si riferisce solamente alla condanna
dell'altra parte al rimborso delle spese o
anche alle cifre da corrispondere in caso di
semplice vittoria), mentre gli incentivi al
personale dell'ufficio tributi per il
recupero di evasione Ici e quelli destinati
ai vigili provenienti da sponsorizzazioni
non possono derogare tale tetto.
Sono queste
le indicazioni dettate dalle Sezz. riunite
di controllo della Corte dei conti con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51.
Rimane da chiarire,
sulla base dei principi dettati dalla
deliberazione, se la deroga al tetto del
fondo 2010 si può estendere ai compensi per
i vigili derivanti da una quota dei proventi
delle sanzioni per le inosservanze al codice
della strada, nonché ai risparmi nella
utilizzazione del fondo del 2010, a quelli
provenienti dallo straordinario non
utilizzato nell'anno precedente e alla
utilizzazione dei commi 2 e 5 del Ccnl 01/04/1999.
Le sezioni riunite di controllo della Corte
dei conti hanno ritenuto che le risorse
provenienti dall'incentivazione per la
realizzazione di opere pubbliche vadano
escluse dal tetto al fondo per le risorse
decentrate, in quanto destinate «a
remunerare prestazioni professionali tipiche
di soggetti individuati o individuabili». Si
deve ritenere, ma mancano indicazioni
espresse, che le stesse considerazioni si
debbano applicare anche alla incentivazione
per la progettazione di strumenti
urbanistici.
Le stesse ragioni consentono la
deroga anche per le risorse destinate alla
incentivazione degli avvocati dipendenti o
dirigenti: al riguardo si deve evidenziare
che il parere non chiarisce se tale deroga
si applichi solamente ai compensi
provenienti dalla condanna dell'altra parte
al rimborso delle spese legali o anche
quelli da riconoscere nel caso, molto più
frequente, in cui l'altra parte sia
condannata, ma le spese sono rimborsate.
Infatti, nella parte iniziale del parere,
quella in cui si riassume il quesito, ci si
riferisce solamente alla prima possibilità,
mentre nella parte finale, in cui dettano le
indicazioni, il riferimento è generico. Il
parere esclude espressamente dalla deroga,
nonostante questi compensi siano destinati
anch'essi a gruppi predeterminati di
dipendenti, quelli per gli uffici tributi a
seguito del recupero di evasione Ici e
quelli per i vigili a seguito di
sponsorizzazioni private della loro
attività.
Mancano indicazioni per i compensi
previsti dall'articolo 208 del codice della
strada per i vigili provenienti da una quota
dei proventi delle sanzioni per le
infrazioni alla circolazione stradale (tema
su cui abbiamo pareri diversificati tra le
sezioni regionali della magistratura
contabile): sulla base dei principi dettati
dal parere sembra doversi ritenere
applicabile la deroga anche in questo caso.
Principio che, per le stesse ragioni, si
deve ritenere applicabile anche ai compensi
provenienti dall'Istat per il censimento.
Rimangono i dubbi su altre componenti della
parte variabile del fondo, in particolare
per le economie derivanti dalla mancata
integrale applicazione del fondo dell'anno
precedente (per la sezione di controllo
della Corte dei conti della Puglia si
applica una deroga) e per i risparmi sul
lavoro straordinario dell'anno precedente.
Da evidenziare infine che sicuramente
l'aumento del fondo sulla base della
utilizzazione dei commi 2 (incremento fino
all'1,2% del monte salari 1997 per il
miglioramento della qualità dei servizi) e 5
(incremento per l'attivazione di nuovi
servizi) del Ccnl 01/04/1999 è vietato se si
eccede il fondo 2010. Per il divieto di
utilizzazione in aumento del citato comma 2
si era espressa la Corte dei conti della
Lombardia
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2011 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni, si volta pagina.
Subito.
Il limite del 20% non si applica ai
contratti a termine. Gli enti locali possono
disapplicare immediatamente le pronunce
restrittive della Corte conti.
Disapplicabili da subito le pronunzie della
Corte dei conti secondo le quali il limite
delle assunzioni pari al 20% del costo delle
cessazioni degli anni precedenti si
applicherebbe anche alle assunzioni a tempo
determinato.
I
lavori preparatori alla legge
di stabilità, e in particolare la relazione
tecnica allegata, che smentiscono sul punto
le conclusioni della magistratura contabile,
consentono agli enti di non tenere conto di
tali conclusioni, senza dover
necessariamente aspettare l'approvazione del
testo normativo.
La relazione tecnica, commentando l'articolo
4, comma 110, dell'attuale testo del ddl di
stabilità precisa che «la norma interviene
attraverso una parziale modifica dell'art.
76 del dl n. 112/2008, convertito nella
legge n. 133/2008, e successive
modificazioni. In particolare: la lettera a)
interviene in materia di assunzioni del
sistema degli enti locali -integrando
l'art. 76, comma 7, del dl 112- ed è intesa
a offrire un'interpretazione univoca della
norma di cui trattasi, specificando che la
disciplina assunzionale ivi prevista per
regioni ed enti locali si riferisce alle
sole assunzioni a tempo indeterminato. La
disposizione, configurandosi come
interpretativa, non comporta oneri a carico
della finanza pubblica».
Se già il testo dell'articolo 4 del ddl è
chiarissimo, poiché inserisce nell'articolo
76, comma 7, della legge 133/2010 la
precisazione che il tetto del 20% si applica
solo ai contratti a tempo indeterminato,
ancor più lineare è l'indicazione data dalla
relazione tecnica. La quale espressamente
rivela l'intento del legislatore di «offrire
un'interpretazione univoca», con chiaro
indiretto riferimento alle contrastanti
posizioni espresse, sul merito, anche
nell'ambito delle stesse sezioni regionali
di controllo della Corte dei conti. Non
solo: la relazione considera altrettanto
esplicitamente la norma come
«interpretativa», certo allo scopo di
chiarire la sua neutralità sul piano dei
costi, ma finendo per qualificarla
indirettamente come disposizione di
interpretazione autentica, che pone nel
nulla dall'origine le letture di segno
contrario sancite dalla deliberazione
46/2011 delle sezioni riunite e
recentissimamente confermate dalla sezione
Lazio con deliberazione 12.10.2011, n.
59, certamente antecedente all'iniziativa
legislativa.
Sul piano operativo, prudenza
potrebbe consigliare alle amministrazioni di
attendere l'approvazione del testo di legge
e così agire libere dagli effetti
vincolativi derivanti dalla lettura
restrittiva della magistratura contabile.
Tuttavia, occorre ricordare che le sezioni
della Corte dei conti esprimono pareri, non
emettono sentenze, né tanto meno possono
creare diritto (anche se la deliberazione
46/2011 ha, in effetti, introdotto elementi
di novità nella disciplina delle assunzioni,
non sussistenti nella norma).
Si tratta di
un'attività collaborativa, svolta ai sensi
dell'articolo 7, comma 8, della legge
131/2003. In quanto pareri, essi non sono
ovviamente vincolanti: si tratta di una
funzione di amministrazione consultiva,
volta a meglio chiarire aspetti controversi
di una disciplina agli organi competenti, i
quali restano comunque integralmente
responsabili comunque delle scelte
amministrative concretamente adottate. Ivi
comprese, quelle di non aderire ai pareri
espressi, con l'onere di fornire ampia ed
approfondita motivazione che espliciti le
ragioni di tale eventuale decisione.
I pareri delle sezioni restano, dunque,
comunque fonti di interpretazione e non
fonti di produzione del diritto
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2011 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Brunetta
con una mano semplifica ma con l'altra
complica.
Se due negazioni affermano, due
semplificazioni complicano. Lo schema di
decreto sviluppo, alla ricerca della
riduzione degli adempimenti burocratici,
così come vuole il ministro della funzione
pubblica Renato Brunetta, crea non poca
confusione nell'ambito della procedura di
gara d'appalto, rendendo inestricabile le
modalità con le quali controllare il
possesso in capo alle imprese aggiudicatarie
dei requisiti di moralità, tecnici e
finanziari per poter stipulare il contratto.
Da un lato, infatti, il decreto intende
eliminare le certificazioni come mezzi di
comprova del possesso di determinati
requisiti, da utilizzare per entrare in
contatto con la pubblica amministrazione.
L'articolo 61 dell'attuale schema del
decreto dispone espressamente che le
certificazioni rilasciate dalla p.a. in
ordine a stati, qualità personali e fatti
sono valide e utilizzabili «solo nei
rapporti tra privati». Aggiungendo, con
coerente consequenzialità che «nei rapporti
con gli organi della pubblica
amministrazione e i gestori di pubblici
servizi i certificati e gli atti di
notorietà sono sempre sostituiti dalle
dichiarazioni» sostitutive di certificazioni
e dell'atto di notorietà.
Per completare l'opera, il decreto impone, a
pena di nullità, di inserire in ogni
certificato la dicitura attestante che il
documento non possa essere prodotto agli
organi della p.a., obbliga a effettuare i
controlli delle dichiarazioni mediante
accesso diretto alle banche dati, prevedendo
sanzioni nei confronti dei dirigenti che
manchino di rispettare il precetto.
Tuttavia, l'articolo 89 del decreto modifica
l'articolo 48 del dlgs 163/2006, norma
finalizzata a regolamentare i controlli sui
requisiti delle imprese appaltatrici. Allo
scopo di velocizzare tale passaggio, si
stabilisce di limitare alla sola impresa
aggiudicataria le verifiche, e non più di
estenderle anche alla seconda in
graduatoria.
Infatti, si inserisce un comma 2-bis
nell'articolo 48, ai sensi del quale «le
stazioni appaltanti richiedono al solo
operatore economico aggiudicatario la
presentazione della documentazione
probatoria dei requisiti».
Ma è qui che emerge la contraddizione in
termini. Nel caso degli appalti quanto
stabilito prima sul valore delle
dichiarazioni sostitutive non vale più.
Perfino i certificati riacquistano il loro
potere probatorio in via esclusiva. Molti
dei requisiti richiesti all'aggiudicatario
sono comprovati proprio da certificati:
altro non è, infatti, il Durc, ma anche il
casellario giudiziale o l'attestazione del
rispetto delle norme sul diritto al lavoro
dei disabili. Per effetto del decreto
sviluppo, tuttavia, quei certificati non
potrebbero essere esibiti alle pubbliche
amministrazioni e dovrebbero essere dotati,
del resto, della dicitura vista sopra.
Per acquisire, dunque, la documentazione a
comprova del possesso dei requisiti, i
dirigenti delle pubbliche amministrazioni
non potrebbero che violare le norme sulla
semplificazione disposte dal decreto.
Un cortocircuito che può risolversi solo
imponendo la messa in rete telematica di
tutte le banche dati e prevedendo sempre e
solo l'accesso diretto, senza oneri, delle
amministrazioni che gestiscono le procedure
ai dati posseduti dalle amministrazioni da
consultare. In mancanza di questo, il
rischio è che la semplificazione, giusto
obiettivo da perseguire, rimarrà sempre un
proclama giustissimo, ma difficile da
realizzare concretamente
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2011). |
ENTI LOCALI: DECRETO
SVILUPPO/ Compromesso sui pagamenti p.a..
Certificazione debiti facoltativa. Ma il
rifiuto va motivato. Le misure allo studio
per favorire la liquidità delle imprese creditrici.
Certificazione dei debiti della p.a.
facoltativa, ma con obbligo di motivazione
in caso di diniego.
È questo il compromesso
su cui i tecnici del Mef e del ministero
della semplificazione, al lavoro sul
prossimo decreto sviluppo, stanno trovando
la quadra per rivitalizzare le norme sui
ritardati pagamenti nei confronti delle
imprese. Una soluzione intermedia tra ciò
che la legge (art. 9, comma 3-bis del dl
185/2008, convertito nella legge n. 2/2009)
dice già oggi, (senza peraltro aver ottenuto
grandi risultati, visto lo stato di perenne
sofferenza in cui versano le aziende che
lavorano con la pubblica amministrazione) e
le proposte di modifica avanzate da Roberto
Calderoli, ma frenate dalla Ragioneria dello
stato.
Il ministro della semplificazione avrebbe
voluto obbligare gli enti locali, le regioni
e gli enti della sanità indebitati con le
imprese a certificare i crediti delle
aziende in modo da favorirne la cessione
alle banche. Ma dopo i rilievi del
dipartimento guidato da Mario Canzio sui
possibili effetti finanziari di una modifica
così «spinta» si è preferita una soluzione
soft.
La certificazione dei crediti certi, liquidi
ed esigibili resterà facoltativa ma con
l'obbligo in caso di rifiuto di spiegare il
perché.
Una modifica apparentemente piccola, ma che
combinata con l'altra novità in cantiere (il
visto della Ragioneria comunale sulla
copertura finanziaria delle opere dovrà
essere dato non solo per competenza, ma
anche per cassa) dovrebbe fornire alla
certificazione dei crediti un'accelerazione
decisiva per dare una boccata d'ossigeno al
sistema produttivo.
Inoltre, la naturale ritrosia da parte delle
banche ad accettare la cessione dei crediti
sarà superata inserendo l'impegno a non
opporsi alla cessione tra i requisiti
previsti per aggiudicarsi il servizio di
tesoreria degli enti. La certificazione dei
crediti non è però l'unico tema al centro
dei tavoli tecnici di questi giorni. A
tenere banco è ovviamente il patto di
stabilità 2012 i cui contorni sono diventati
quanto mai nebulosi dopo i rilievi di Corte
conti e Eurostat (si veda ItaliaOggi del
19/10/2011) che mettono in discussione la
possibilità per comuni, province e regioni
di scontare dagli obiettivi 2012 la propria
quota del gettito della Robin tax. I
nodi dovranno essere sciolti a breve perché
di certo la disciplina del nuovo patto verrà
inserita come emendamento al disegno di
legge di stabilità che inizierà il proprio
cammino parlamentare dal senato.
Ieri il presidente di palazzo Madama, Renato
Schifani, ha dato ufficialmente il via alla
sessione di bilancio, disponendo lo stralcio
di otto commi dal ddl. Le norme, ha
spiegato, «andranno a costituire autonomi
disegni di legge». Tra queste si
segnalano i commi 49 e 50 dell'articolo 4,
che introducono un termine di 120 giorni per
impugnare le progressioni di carriera
all'interno della stessa area nelle
pubbliche amministrazioni, nonché per
presentare le domande di risarcimento del
danno non patrimoniale derivante da
provvedimenti dell'amministrazione
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2011 - link a www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Dia e Scia
stoppate subito.
Istanza al Tar per accertare illegittimità
in atto. È questo quanto emerso nel corso di
un convegno organizzato a Torino.
Dia e Scia alla sbarra subito: il terzo,
interessato a bloccare l'attività iniziata
con una denuncia o una segnalazione di
inizio attività, può chiedere immediatamente
al Tar di accertare l'illegittimità in
corso. Senza dover aspettare il termine (60
giorni) lasciato alla Pubblica
Amministrazione per disporre il blocco
dell'attività, quando questa è illegittima.
È quanto emerso al convegno di studi sul
codice del processo amministrativo,
organizzato il 13.10.2011 a Torino dal
Tar Piemonte, dalla sezione piemontese della
Associazione degli avvocati amministrativisti e dalla avvocatura del
comune di Torino.
Al centro dell'attenzione una delle più
significative della manovra di Ferragosto
(decreto legge 138/2011).
Il decreto 138 ha modificato l'articolo 19
della legge 241/1990 inserendo il comma
6-ter. Questo comma prevede che la
segnalazione certificata di inizio attività,
la denuncia e la dichiarazione di inizio
attività non costituiscono provvedimenti
taciti direttamente impugnabili e che gli
interessati possono sollecitare l'esercizio
delle verifiche spettanti
all'amministrazione e, in caso di inerzia,
esperire esclusivamente l'azione contro il
silenzio dell'amministrazione (articolo 31
del codice del processo amministrativo, dlgs
104/2010).
In sostanza il problema è di individuare
quali strumenti di tutela abbia, per
esempio, il vicino di casa di chi sta
realizzando un'opera edilizia con una Scia o
con una Dia oppure il titolare di un
esercizio commerciale concorrente di chi sta
aprendo un negozio dall'altro lato della
strada e così via. In sostanza se, da una
parte, c'è l'esigenza di semplificare e
sburocratizzare le attività economiche e
produttive, dall'altro lato c'è l'esigenza
di non trascurare la tutela dei
controinteressati, nel caso vengano iniziate
attività non in regola con leggi e
regolamenti.
Il problema si pone soprattutto in relazione
a quei casi in cui l'attività può essere
iniziata subito prima dello scadere del
termine assegnato all'amministrazione per
fare i controlli e ordinare il blocco
dell'attività.
Si prenda il caso della Scia. L'attività
oggetto della segnalazione può essere
iniziata già dalla data della presentazione
della segnalazione all'amministrazione
competente. A questo punto l'amministrazione
ha sessanta giorni di tempo per adottare
motivati provvedimenti di divieto di
prosecuzione dell'attività e di rimozione
degli eventuali effetti dannosi a meno che
non sia possibile ricondurre l'attività alla
piena regolarità.
Ora, siccome il comma 6-ter sopra citato
individua come unica possibilità di reazione
contro la scia la contestazione dell'inerzia
dell'amministrazione (che non adotta i
provvedimenti inibitori), ci si chiede se si
devono aspettare i sessanta giorni oppure se
il terzo possa agire subito. Anche perché
magari una volta passati i sessanta giorni
il danno per il terzo si è definitivamente
consumato (ad esempio l'opera edilizia è
completamente terminata).
Tra l'altro c'è una complicazione ad andare
dal giudice amministrativo: l'articolo 34,
comma 2, del codice del processo
amministrativo prescrive che in nessun caso
il giudice può pronunciarsi con riferimento
a poteri amministrativi non ancora
esercitati. Dunque se si agisce prima dello
scadere dei sessanta giorni lo si farebbe in
un momento in cui l'amministrazione avrebbe
ancora tempo per adottare i provvedimento di
blocco dell'attività e allora si rischia di
incorrere nel divieto dell'articolo 34.
Secondo quanto emerso al convegno torinese
il controinteressato ha la possibilità di
agire subito senza dovere aspettare i
sessanta giorni. Questo perché in questo
caso (controllo su Dia e Scia)
l'amministrazione ha un dovere di attivarsi
subito a colpire una scia o una dia
illegittima e il termine è un termine
massimo. Ma l'obbligo di adozione dei
provvedimenti di blocco sorge subito.
Quindi l'inerzia matura subito e si protrae
giorno per giorno. Inoltre non c'è
violazione dell'articolo 34 sui poteri del
giudice, perché la regola di non ingerenza
rispetto a poteri non ancora esercitati vale
solo nel caso di atti discrezionali e non
nel caso di attività vincolata (come quella
relativa ai casi in cui si può operare con
Dia e Scia)
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2011 - link a www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Privacy,
documento programmatico addio.
Basta Dps privacy. Scompare il documento
programmatico sulla sicurezza. Per tutti:
per imprese, professionisti, enti pubblici.
E comunque niente più tutela della
riservatezza per le imprese, pubbliche
amministrazioni e per le persone giuridiche.
I dati degli enti sono liberamente
utilizzabili. Tranne nel settore delle
comunicazioni elettroniche. Quindi enti e
imprese rimangono tutelati da telefonate e
comunicazioni indesiderate.
Così la bozza
del decreto sviluppo modifica il codice
della privacy (d. legislativo 196/2003), a
cominciare dall'articolo 4. Ma vediamo le
novità più importanti di una manovra che
svuota di molto l'impianto del codice della
privacy.
Mentre nella versione attuale i soggetti
tutelati dal codice della privacy sono le
persone fisiche, le persone giuridiche, gli
enti e le associazioni, nella versione
proposta dal decreto sviluppo persone
giuridiche, gli enti e le associazioni sono
considerati solo in quanto abbonati a un
servizio di comunicazione elettronica
accessibile al pubblico. Questo significa
che le società e gli enti in genere sono
tutelati dal marketing selvaggio e che,
invece, per altre finalità i dati si possono
usare senza sottostare ad adempimenti
privacy (informativa, consenso ecc.).
Per coerenza viene modificata anche la
lettera i) del comma 1, dell'articolo 4 del
codice della privacy, in cui si definisce
chi è il soggetto «interessato» e cioè
protetto dalla disciplina sulla
riservatezza. Nella versione attuale
«interessato», la persona fisica, la persona
giuridica, l'ente o l'associazione cui si
riferiscono i dati personali; nella versione
modificata viene limitata la portata
relativa a persone giuridiche, enti e
associazioni, che sono considerati solo in
quanto abbonati a un servizio di
comunicazione elettronica accessibile al
pubblico, limitatamente al trattamento dati
nel settore delle comunicazioni
elettroniche.
Non ci sarebbe, poi, più bisogno del comma
3-bis dell'articolo 5 del codice della
privacy, disposizione, tra l'altro, appena
inserita dal decreto 70/2011. Questa norma
esonerava dagli adempimenti privacy il
trattamento dei dati personali relativi a
persone giuridiche, imprese, enti o
associazioni effettuato nell'ambito di
rapporti intercorrenti esclusivamente tra i
medesimi soggetti per finalità
amministrativo-contabili. Con le modifiche
proposte anche altri trattamenti (tranne
quelle relative alle comunicazioni
elettroniche) sono radicalmente fuori ambito
privacy: da qui l'abrogazione del comma
3-bis citato.
Ma la novità più importante è l'azzeramento
dell'obbligo di tenere un aggiornato dps, e
cioè il documento programmatico sulla
sicurezza. Un adempimento che è risultato
inviso a imprese e professionisti e che ha
comportato anche ingenti spese. Il documento
è previsto dall'articolo 34, comma 1,
lettera g), e cioè da una disposizione
soppressa dal decreto sviluppo.
La
soppressione vale sia per le imprese, ma
anche per i professionisti. Decade anche la
sezione dell'Allegato b) al codice della
privacy attuativa del dps. Da sottolineare
che se cade l'obbligo di dotarsi di Dps, non
viene meno la normativa sulle garanzie
sostanziali di preservare condizioni di
sicurezza nel trattamento dei dati (per
esempio, password e back up e così via). A
fronte della cancellazione totale
dell'obbligo di dps non hanno più senso le
disposizioni sul Dps semplificato (articolo
34, comma 1-bis), che infatti vengono
abrogate.
E scompare la possibilità di sanzioni
amministrative e penali per omessa adozione
del Documento programmatico sulla sicurezza
(mente rimangono le sanzioni per la
violazione degli altri adempimenti in
materia di sicurezza privacy)
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2011). |
ATTI AMMINISTRATIVI: LEGGE DI
STABILITÀ/ Onorari
sempre alla p.a. vincente.
Chi perde paga anche se alla difesa c'è un
dipendente. Mancata attuazione di norme Ue,
dimezzati i termini per i danni.
Dimezzato il termine di prescrizione per
chiedere i danni allo stato causati dal
mancato recepimento di direttive
comunitarie: è di cinque anni. E inoltre
tempi stretti per contestare le progressioni
di carriera nel pubblico impiego e per
chiedere i danni non patrimoniali causati al
lavoratore pubblico da atti dell'ente.
Infine nelle cause di lavoro si pagano gli
onorari alla p.a. vincitrice, anche se si è
difesa con un proprio dipendente e non con
un avvocato.
Il
disegno di legge stabilità approvato
venerdì scorso dal consiglio dei ministri
interviene pesantemente su alcune azioni,
con la chiara finalità di ottenere che lo
stato abbia meno esborsi in caso di
soccombenza in giudizio; l'altro obiettivo è
di far recuperare le spese sostenute per la
difesa con proprio personale nei primi gradi
delle cause di lavoro. Ma vediamo le novità
in progetto.
Colpo di spugna sui risarcimento da tardivo
recepimento di direttive comunitarie.
Il ddl Stabilità limita a cinque anni la
prescrizione del diritto al risarcimento del
danno derivante da mancato recepimento di
direttive o altri provvedimenti obbligatori
comunitari. La disposizione in esame
include, infatti, il diritto al risarcimento
del danno nella disciplina dell'articolo
2947 codice civile e precisa anche che il
termine del quinquennio decorre dalla data
in cui il fatto, dal quale sarebbero
derivati i diritti se la direttiva fosse
stata tempestivamente recepita, si è
effettivamente verificato.
La relazione al disegno di legge stabilisce
che la norma ha lo scopo di chiarire il
forte conflitto giurisprudenziale esistente
sul tema del risarcimento del danno da
mancato recepimento di direttive
comunitarie. Solo qualche mese fa, infatti,
la Cassazione (sentenza 10813 del 18.05.2011) si era pronunciata affermando il
termine decennale.
La relazione sostiene anche che la norma ha
valore specificamente interpretativo e,
quindi, dovrebbe applicarsi anche alle cause
in corso. Questo significa che si potrà
registrare un mini colpo di spugna sui
contenziosi pendenti; d'altra parte la
relazione esplicitamente ammette che la
norma è volta sostanzialmente a ridurre
l'impatto oneroso dei contenziosi.
Spese legali alla p.a. che si difende senza
avvocato.
Nei primi gradi di giudizio delle cause di
lavoro contro le pubbliche amministrazioni,
queste possono stare in giudizio senza
avvocato, ma avvalendosi di propri
dipendenti.
Il disegno di legge stabilità stabilisce
che, nelle liquidazioni delle spese del
giudizio (articolo 91 codice procedura
civile) a favore delle pubbliche
amministrazioni (quelle istituzionali
definite dall'articolo 1, comma 2, del dlgs
165/2001, Testo unico del pubblico impiego),
se assistite da propri dipendenti, si
applica la tariffa vigente per gli avvocati,
con la riduzione del venti per cento degli
onorari.
La novità è che viene stabilito
espressamente che la p.a. ha diritto al
rimborso delle spese processuali calcolate
con il tariffario forense. Nella
giurisprudenza attuale, invece, alla p.a.,
che vince la causa senza avvocato, non
vengono riconosciuti gli onorari, ma al
massimo un rimborso delle spese vive.
Questo significa che il lavoratore
soccombente dovrà pagare le spese legali
all'amministrazione, anche se questa non si
è difesa con un avvocato.
Vene così estesa anche alle controversie di
lavoro una regola già dettata nei processi
tributari (articolo 15, comma 2-bis, del dlgs
546/1992). La riscossione avverrà mediante
iscrizione al ruolo. La novità non si
applica alle cause pendenti, ma solo alle
controversie insorte successivamente alla
futura data di entrata in vigore della legge
di stabilità.
Rimane fermo, invece, il mancato rimborso
delle spese processuali per altri
contenziosi che ammettono l'ente pubblico
alla difesa in proprio (ad esempio ricorsi
contro le multe del codice della strada).
Progressioni di carriera nel pubblico
impiego.
Il ddl stabilità propone la modifica
dell'articolo 52, comma 1-bis, del Testo
unico pubblico impiego, riducendo il tempo
per impugnare le progressioni di carriera.
Secondo il ddl tutte le impugnazioni
concernenti le progressioni all'interno
della stessa area, l'ammissione e la
partecipazione alle medesime, e la validità,
l'interpretazione e l'applicazione dei
relativi atti presupposti, devono essere
proposte, a pena di decadenza, entro 120
giorni dalla comunicazione dell'esito della
procedura. La disposizione si applicherà per
il futuro e, quindi, alle graduatorie
pubblicate successivamente alla data di
entrata in vigore della legge di stabilità.
Danno non patrimoniale.
Analogo termine di centoventi giorni è
proposto per la domanda di risarcimento del
danno non patrimoniale derivante da
provvedimenti dell'amministrazione, nelle
controversie relative ai rapporti di lavoro
dei dipendenti delle p.a. rientranti nella
giurisdizione del giudice ordinario. La
domanda deve essere proposta entro il
termine di decadenza decorrente dal
passaggio in giudicato della sentenza che ha
definito il giudizio di impugnazione dei
provvedimenti della p.a..
La disposizione avrà effetto solo per il
futuro, in quanto il ddl specifica che la
tagliola non si applica alle domande già
proposte nei giudizi pendenti alla data di
entrata in vigore della legge stabilità
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2011 - link a www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: PRIVACY/
Basta
l'estratto per rettificare il punteggio di
un candidato. Il Garante stabilisce un
principio valido per tutti i concorsi
pubblici.
Concorsi pubblici più riservati. Per
rettificare il punteggio di un candidato
nella graduatoria di un concorso a
vicepresidente di sezione di commissioni
tributarie provinciali, è sufficiente
pubblicare solo il dispositivo della
delibera. Per pubblicare l'atto in forma
integrale è necessario invece che lo
disponga una norma di legge o di
regolamento.
Così il Garante privacy ha deciso un ricorso
stabilendo un principio valido in tutte le
procedure selettive.
Il Garante con altri
provvedimenti si è occupato anche di sms per
protezione civile, form delle università
telematiche e trattamento dei dati sanitari
dei militari. Vediamo il contenuto dei
provvedimenti.
Concorsi pubblici. Nel caso specifico la
delibera di rettificazione del punteggio
assegnato al candidato, affissa conteneva
numerosi dati personali, tra i quali
valutazioni e apprezzamenti sulla persona, e
informazioni sulle attività prestate
ritenute lesive della dignità umana e
professionale. Vista la presa di posizione
del Garante per questi concorsi è stata
cambiata la modalità di pubblicazione,
prevedendo l'affissione della sola parte
dispositiva.
Il principio può essere esteso
agli altri casi di pubblicazione di delibere
di enti pubblici: tale forma di diffusione è
legittima solo se è prevista da una norma di
legge o di regolamento (come per esempio per
comuni e province il Testo unico degli enti
locali).
Sms di protezione civile. Il Centro di
coordinamento nazionale per la viabilità
(«Viabilità Italia»), costituito presso il
ministero dell'interno, potrà inviare sms
utili alla gestione di situazioni di crisi
della viabilità a tutte le persone presenti
sul territorio interessato dall'emergenza.
Via libera del Garante allo schema di
convenzione stipulato tra «Viabilità Italia»
e le società telefoniche.
«Viabilità
Italia», in seguito a una ordinanza contingibile e urgente emanata da una
autorità di pubblica sicurezza, potrà
chiedere alle società telefoniche di
individuare i cellulari dei clienti presenti
nell'area di crisi per allertarli via sms
sulla situazione di emergenza o di imminente
pericolo.
È stato escluso l'obbligo di acquisire il
consenso considerato che si tratta di
contattare le persone in casi di urgenza.
Università telematica. Il
form di iscrizione
a un sito web può contenere solo i dati
personali strettamente necessari a fornire
il servizio per il quale l'utente si
registra. Altrimenti si viola la privacy e
il Garante può bloccare il trattamento. Come
è successo a una università telematica che
raccoglieva anche informazioni, quali luogo
e data di nascita, codice fiscale,
cittadinanza, risultati eccedenti e non
pertinenti rispetto alle finalità di
mantenere contatti con gli utenti
interessati al mondo dell'ateneo e di
informare sulle novità e gli appuntamenti
universitari.
Dati sanitari dei militari.
Parere favorevole del Garante su uno schema
di dpr predisposto dal ministero della
difesa. Lo schema di regolamento disciplina
l'adozione del «doppio certificato»:
per il militare in malattia prevista la
trasmissione di due certificati medici: uno
con la sola prognosi, da consegnare al
superiore diretto, e un altro, recante anche
la diagnosi, da inviare alle strutture
sanitarie militari
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2011 - link a www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il Tar perdona
l'avvocato.
Regolarizzazione per chi dimentica Pec e fax.
Circolare della Giustizia amministrativa sul
super-contributo unificato.
Davanti al Tar dimenticare di scrivere fax e
pec dell'avvocato può essere perdonato.
L'ufficio può invitare alla regolarizzazione
degli atti, senza passare automaticamente
alla richiesta di un contributo unificato
aumentato della metà.
È una delle
precisazioni contenute nella
circolare 18.10.2011 del Segretariato generale della
giustizia amministrativa, che illustra le
novità in materia di contributo unificato a
seguito del decreto 98/2011. Vediamo i
principali chiarimenti.
Dimenticati fax e pec. La mancata
indicazione della posta elettronica è
sanabile. Non necessariamente si passa
all'aumento della metà del contributo
unificato. Se negli atti viene omessa
l'indicazione dell'indirizzo di posta
elettronica certificata e del recapito fax
l'articolo 37, sesto comma, del decreto n.
98 del 2011 prevede l'aumento della metà
dell'importo del contributo dovuto.
La circolare precisa che, trattandosi
comunque di una previsione di natura
sanzionatoria, deve ammettersi la
possibilità che, anche su espresso invito
della segreteria dell'ufficio giudiziario e,
in questo caso nel termine accordato,
l'interessato possa sanare l'omissione,
depositando in giudizio un atto che rechi
l'indicazione dell'indirizzo di posta
elettronica e del fax. E non occorre che
tale atto sia preventivamente notificato
alla controparte eventualmente costituita.
Più domande, un contributo. Se il ricorso
introduttivo del giudizio contiene una
pluralità di «domande» (annullatorie,
costitutive, di condanna o di accertamento),
è dovuto, sempre e comunque, un unico
contributo unificato. Per esempio, spiega la
circolare, ciò si verifica con l'impugnativa
diretta, contestualmente, all'annullamento
di un atto amministrativo e alla condanna
della p.a. al risarcimento del danno.
Se la
pluralità di domande non è contenuta nello
stesso atto introduttivo, ma è frutto di più
ricorsi (quello introduttivo e quello
successivo contenente motivi aggiunti), al
deposito dei motivi aggiunti di ricorso
andrà versato un ulteriore contributo
unificato. Il contributo non è dovuto,
invece, qualora con i motivi aggiunti venga
impugnato l'originario provvedimento per
vizi diversi da quelli fatti valere con il
ricorso originario.
Sospensiva. Non si paga il contributo
unificato per la richiesta di misure
cautelari monocratiche, per la richiesta di
misure cautelari collegiali e per la
richiesta di misure cautelari anteriori alla
causa. Non comportano il pagamento del
contributo unificato neppure la richiesta di
esecuzione di ordinanza cautelare; la
proposizione dell'appello cautelare;
l'istanza di sospensione della sentenza di
primo grado (art. 98 del Codice del processo
amministrativo).
Risarcimento del danno. La domanda di
risarcimento del danno proposta unitamente
al ricorso per l'annullamento di un atto non
implica il pagamento di un contributo
unificato calcolato autonomamente sul valore
del risarcimento richiesto: si paga il
contributo di 600 euro previsto per la
domanda principale.
Se la domanda di risarcimento è proposta in
via autonoma (come domanda giudiziale
formulata nel corso del processo con il
deposito di motivi aggiunti, o dopo un
giudizio impugnatorio o come richiesta
risarcitoria non correlata ad azione
annullatoria) il contributo unificato va
corrisposto nella misura ordinaria di 600
euro (salvo il caso di controversie esenti
da oneri fiscali).
Per la richiesta
risarcitoria formulata in via autonoma
nell'ambito del contenzioso sulle procedure
di affidamento di lavori, servizi e
forniture, la richiesta di risarcimento del
danno in forma specifica (subentro nel
contratto) è soggetta al contributo di 4
mila euro; mentre la richiesta di
risarcimento del danno per equivalente (solo
il ristoro monetario) comporta il pagamento
del contributo unificato nella misura
ordinaria di 600 euro.
Motivi aggiunti. L'ampliamento della
controversia con la presentazione,
successivamente al ricorso introduttivo, di
motivi aggiunti di ricorso, comporta un
nuovo pagamento del contributo.
Decorrenza delle novità.
Le disposizioni contenute nel dl n. 98 del
2011 sono entrate in vigore il 06.07.2011.
Di conseguenza le novità si applicano ai
ricorsi per i quali il deposito presso la
segreteria del giudice amministrativo sia
stato effettuato dal 06.07.2011 compreso
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2011). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: DECRETO
SVILUPPO/ Semplificazione per i rifiuti: dalla
terra ai parrucchieri. Facilitata la
gestione alle attività di scavo. Ma anche
agli estetisti.
Lo sviluppo riparte dall'ambiente e riguarda
parrucchieri, callisti, piercing e manicure,
ma anche le terre e rocce da scavo.
Nella
bozza del decreto sviluppo c'è una serie di
norme che riguardando sottoprodotti e
rifiuti. La prima e più significativa è
quella che considera le terre e rocce da
scavo, derivanti anche da gallerie, sia pure
contaminate, dei sotto prodotti e non dei
rifiuti da riutilizzare secondo i progetti
approvati dalle competenti autorità
urbanistiche e ambientali. E ciò anche
quando siano mischiate con residui di varia
natura, ma a condizione che non siano state
assoggettate a pratiche di trasformazione
diverse dalla normale prassi industriale
effettuate nello stesso o in altro processo
di utilizzazione. Ovviamente detta prassi,
precisa la bozza di decreto legge, include
la selezione granulometrica, riduzione
volumetrica, la biodegradazione naturale
degli additivi condizionanti,
l'essiccamento, la stabilizzazione con calce
e cemento.
La norma considera anche il caso,
di superamento della concentrazione dei
valori limite oggi previsti a causa di
fenomeni naturali. In questo caso si
potranno adottare i valori di fondo che sono
senza dubbio meno restrittivi. A questo
proposito si ricorda che recentemente il dlgs n. 205/2010 (che ha recepito la nuova
direttiva rifiuti) ha recepito la nozione
comunitaria di sottoprodotto, prevedendo,
nel contempo, l'adozione di decreti
ministeriali per l'individuazione di
specifiche tipologie di sottoprodotti (tra
cui possono ricadere terre e rocce di cui
sopra).
Torna, poi, l'esenzione dalla
prestazione delle garanzie finanziarie per i
produttori iniziali di rifiuto non
pericolosi che trasportano in conto proprio.
Essi sono iscritti all'Albo regionale dei
gestori ambientali competente tramite una
semplice comunicazione. Questa esenzione
riguarda anche i produttori iniziali di
rifiuti pericolosi nei limiti però di 150
kili o litri al giorno. Unica condizione che
questa attività di trasporto sia parte
integrante e accessoria dell'organizzazione
aziendale. Soppressa anche la tassa di
concessione governativa per l'iscrizione
all'Albo dei gestori ambientali, mentre la
tassa di iscrizione viene determinata in
soli 50 euro.
Cambiano anche le regole per i
Rifiuti elettrici ed elettronici (Raee) da
trasportare obbligatoriamente nei centri di
raccolta. Attualmente, infatti, i Raee sono
trasportati presso i centri di raccolta con
cadenza mensile e, comunque, quando il
quantitativo raggruppato raggiunga
complessivamente i 3.500 kg. Secondo la
bozza in esame il limite di 3.500 kg non
riguarderà più il raggruppamento
complessivo, ma sarà riferito alla singola
tipologia di Raee.
Semplificate anche le
procedure di trasporto dei rifiuti per i
rifiuti a rischio infettivo. Nonostante il
titolo altisonante la norma avrà una
ricaduta molto ampia considerata la
diffusione sul territorio delle relative
attività. Ciò vuol dire che podologi,
calliste, estetiste, piercing, manicure che
producono rifiuti a rischio infettivo (Cer
18 01 03, aghi, siringhe e oggetti taglienti
usati) potranno trasportarli in conto
proprio per una quantità non superiore a 30
kg giorno sino all'impianto di smaltimento
tramite termodistruzione. Unico obbligo
«contabile» rimane quello della
compilazione dei formulari di trasporto, che
dovranno essere conservati per comprovare il
regolare smaltimento. Risolto anche
l'obbligo di comunicazione al Catasto dei
Rifiuti e che verrà assolto dall'impianto di
destinazione finale. Nulla questa volta in
materia di Sistri
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2011). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: DECRETO
SVILUPPO/ Un eco-permesso unico per le pmi.
E più concorrenza per gli imballaggi.
Maggiore competitività nel settore
ambientale. Anche attraverso modifiche
rilevanti nella gestione degli imballaggi e
nelle procedure che sovraintendono
all'esercizio delle attività
imprenditoriali.
La
bozza di decreto
sviluppo modifica la gestione degli
imballaggi, introducendo la regola secondo
cui i produttori di imballaggio, anche in
forma collettiva, possono raccogliere i
rifiuti di imballaggio analoghi a quelli,
che per tipologia e quantità immettono sul
mercato.
L'obiettivo della norma è di mantenere un
elevato livello di tutela dell'ambiente con
i migliori prezzi possibile. Oggi l'art. 221
del dlgs n. 15272006 (Testo unico
Ambientale) prevede in proposito la raccolta
in forma autonoma degli imballaggi (in
alternativa all'adesione ai consorzi) ma non
prevede espressamente la possibilità di
usare a questo fine quelli «analoghi»,
piccolo cambiamento nella forma ma
significativo sotto il profilo operativo. Ma
si va anche oltre.
Lo schema di decreto prevede l'introduzione
dell'autorizzazione unica ambientale anche
per le piccole e medie imprese. Essa
presuppone che sia rilasciata da sola
autorità e sia improntata alla massima
semplicità e chiarezza, senza oneri
addizionali. La norma intende «copiare»
quanto già avvenuto per i grandi impianti
industriali per i quali è vigente il sistema
dell'Autorizzazione integrata ambientale di
derivazione comunitaria, Con una sola
autorizzazione si comprendono acqua, rifiuti
e emissioni in atmosfera.
E a proposito di disciplina
dell'Autorizzazione integrata ambientale, il
dl sviluppo interviene proprio sui grandi
impianti. Come noto, attualmente i gestori
dei grandi impianti sono tenuti a comunicare
i dati dei controlli ambientali alle
autorità competenti, che possono poi
utilizzarli anche per fini pubblici.
Ebbene, lo schema di decreto stabilisce che
i dati che comunica il gestore non possono
essere usati ai fini dell'accertamento delle
violazioni dei valori limite fissati
dall'autorizzazione
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2011 - link a www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: DECRETO
SVILUPPO/ Meno
aiuti al fotovoltaico del Sud.
Più irraggiamento, meno incentivi. E sarà
più facile costruire. Basta la Scia per
impianti fino a 200 kw. Sotto i 20 kw è manutenzione.
Da un lato, le agevolazioni al fotovoltaico
saranno perequate, cioè livellate a livello
nazionale in base ai gradi-giorni toccati
per singola zona climatica del paese.
Tradotto: saranno tagliati gli incentivi al
Sud. Dall'altro, saranno semplificate le
attività di costruzione e ristrutturazione
dei piccoli impianti di produzione di
energia elettrica da fonti rinnovabili: ogni
opera riguardante impianti di potenza
massima di 20 Kw non sarà più soggetta alla
disciplina della segnalazione certificata
d'inizio attività (Scia).
Ma verrà considerata un semplice intervento
di manutenzione ordinaria. Mentre, per gli
impianti compresi tra 20 e 200 kw, bisognerà
presentare segnalazione certificata d'inizio
attività all'amministrazione competente.
Sono queste le due principali novità in
fatto di energie rinnovabili, contenute
nella
bozza di decreto sviluppo, a cui sta
lavorando il governo.
Per il passato,
invece, non v'è traccia al momento del
condono tombale degli impianti fotovoltaici
abusivi; cioè di quella sorta di sanatoria a
fronte di una possibile oblazione di 10 euro
per kw installato (ne occorrono in media 3
per famiglia), di cui nei giorni scorsi
avevano parlato alcuni organi di stampa.
La perequazione degli incentivi: più sole,
meno agevolazioni. La norma contenuta nella
bozza di decreto non dice molto. Annuncia
l'applicazione di «un correttivo
perequativo» collegato ai gradi-giorni delle
zone climatiche del paese, «in modo da
uniformare il valore dell'agevolazione su
tutto il territorio nazionale». In sostanza,
la misura delle agevolazioni verrebbe
ricondotta agli stessi parametri utilizzati
per stabilire i calendari di accensione e
spegnimento delle caldaie.
Per misure e
modalità di applicazione del meccanismo
perequativo, il governo rinvia a un futuro
decreto interministeriale. Si può, però, già
anticipare che l'introduzione di un sistema
di perequazione geografica degli incentivi
comporterà la riduzione degli incentivi
statali per gli impianti installati nelle
aree del paese a maggior irraggiamento. Si
tradurrà, quindi, in un calo sensibile degli
incentivi per il fotovoltaico nelle regioni
del Sud Italia.
La semplificazione per i piccoli impianti.
Il decreto dispone che l'obbligo di
incassare l'autorizzazione unica dalla
regione (o un suo ente delegato) prima di
costruire, mettere in esercizio o
ristrutturare impianti di produzione di
energia elettrica da fonti rinnovabili,
rimanga per i soli impianti con potenza
superiore a 200 kw. La semplificazione
riguarda anche gli interventi di modifica,
potenziamento, riattivazione e rifacimento
(totale o parziale) degli impianti stessi. E
tutte le opere e le infrastrutture connesse
alla costruzione e all'esercizio degli
impianti in questione. Per quanto riguarda,
invece, tutti gli interventi relativi a
impianti con potenza compresa tra 200 e 20
kw, il decreto sviluppo prevede che siano
sottoposti alla sola disciplina Scia
(segnalazione certificata di inizio
attività). Infine, ancora più facile sarà
costruire e mettere in esercizio piccoli
impianti di potenza inferiore a 20 kw:
questi non saranno neanche soggetti alla
disciplina Scia. Stessa cosa per gli
interventi di ristrutturazione e le opere e
le infrastrutture a essi connesse.
Il condono, secondo indiscrezioni, sarebbe
impostato su un sistema di silenzio-assenso
della p.a. Un dispositivo piuttosto
difficile da applicare, visto che la
costruzione di impianti fotovoltaici è
soggetto all'obbligo di «Via», valutazione
di impatto ambientale. E il mancato rispetto
di questo vincolo ha ricadute penali.
Dunque, la scelta sul punto sarà tutta
politica, visto che, secondo quanto risulta
a ItaliaOggi, i tecnici ministeriali stanno
comunque lavorando alla misura. E la platea
degli interessati potrebbe essere
potenzialmente enorme, visto che l'Autorità
per l'Energia stima in circa 22 mila i
progetti che non hanno ancora ricevuto
un'autorizzazione, con richieste pari a150
mila MW di potenza elettrica (cioè il triplo
della domanda di elettricità del paese).
Due numeri. Per la cronaca, secondo stime Gse, gli impianti in esercizio oggi in
Italia sarebbero per oltre 11 mila Mw (con
previsione 12 mila mw entro fine anno).
Mentre a fine 2010 gli allacci alla rete
valevano per 3.500 mw. In sostanza, nel solo
2011 sarebbero stati allacciati 8.500 mw a
fotovoltaico, di cui però 3700 mw
deriverebbero dalla legge salva Alcoa (n.
129/2010) e graverebbero sul Secondo conto
energia e non sul quarto.
Se i conti
tornano, i residui 4.800 mw allacciati nel
solo 2011 avrebbero già esaurito la quota di
potenza installabile messa a disposizione
dal quarto conto energia, quantomeno fino a
fine 2013. Che prevede fino a 2.690 kw
incentivati nel periodo 2011/2012 e fino a
5030 mw incentivabili entro il 2013
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2011). |
VARI: DECRETO
SVILUPPO/ Pagelle, tasse scolastiche,
ricette mediche: si farà tutto online.
La semplificazione viaggia sul web. Parte il
fascicolo sanitario elettronico.
Le pagelle scolastiche, i certificati di
iscrizione, i pagamenti delle tasse e le
ricette mediche saranno disponibili online
con grande risparmio di carta. Per le
università, le procedure telematiche
relative all'iscrizione, alla carriera degli
studenti e alla prenotazione degli esami,
dovranno essere rese operative dall'anno
accademico 2012-2013. Anche la
certificazione di malattia del figlio, ai
fini della concessione del relativo congedo,
dovrà essere trasmessa dal pediatra in forma
telematica all'Inps, così come oggi avviene
per i lavoratori dei settori pubblici e
privati. Infine, saranno semplificati per i
gestori di alberghi e strutture ricettive,
gli obblighi relativi all'identificazione
dei clienti. A breve, si potrà trasmettere
alle questure competenti, la scheda
rilevazione delle presenze attraverso mezzi
informatici.
La
bozza di decreto sviluppo
contiene una decisa spinta in avanti sul
fronte della digitalizzazione della p.a.
Vediamo le novità più importanti.
Scuole e università digitalizzate.
Semplificare e migliorare il quadro delle
comunicazioni scuola-famiglia e riduzioni
dei costi. Con queste lodevoli premesse, la
bozza in esame prevede che, dal 2013, le
scuole pubbliche, di ogni ordine e grado,
dovranno mettere a disposizione degli
utenti, procedure telematiche per rilasciare
le pagelle e i certificati scolastici in
formato elettronico, nonché la
documentazione relativa alla gestione delle
carriere degli studenti e la possibilità di
effettuare le iscrizioni e i pagamenti delle
tasse scolastiche online.
Le pagelle e i
certificati telematici sostituiranno gli
equivalenti documenti cartacei e saranno
resi disponibili agli interessati sul sito
internet istituzionale dell'istituto
scolastico o attraverso la posta
elettronica. Resta tuttavia fermo il diritto
dell'interessato di ottenere le copie
cartacee dei predetti documenti. Sul
versante delle università, gli atenei
statali e quelli non statali (ma legalmente
riconosciuti), dovranno accelerare i
processi di informatizzazione.
Dall'anno
accademico 2012-2013, è obbligatorio per gli
atenei, mettere a disposizione degli
studenti la possibilità di iscriversi,
effettuare i pagamenti, verificare la
propria carriera e poter prenotare gli esami
delle materie.
Malattia del figlio online. Vi è la
necessità di assicurare un quadro completo
delle assenze nei settori pubblico e
privato, così da assicurare un efficace
sistema di controllo delle stesse. Queste le
ragioni per cui, in tutti i casi di assenza
per malattia del figlio (ex art. 47 dlgs n.
151/2001), la certificazione di malattia è
inviata per via telematica all'Inps,
direttamente dal medico specialista del
Servizio sanitario nazionale o con esso
convenzionato. Per il via, occorrerà
attendere apposito dpcm, in conformità alle
regole tecniche previste dal codice
dell'amministrazione digitale e alle
prescrizioni in materia di protezione dei
dati personali.
Alberghi, dati dei clienti online. I gestori
di alberghi o strutture ricettive potranno
comunicare alle questure, entro 24 ore
successive all'arrivo, le generalità delle
persone alloggiate, mediante l'invio dei
dati contenuti nella scheda rilevazione,
attraverso mezzi informatici.
Tuttavia, fino
al 31/12/2011, restano immutate le procedure
oggi vigenti, ovvero la consegna
all'autorità locale di pubblica sicurezza di
copia della scheda rilevazione delle
generalità, anche a mezzo fax.
Ricette online e fascicolo sanitario
elettronico. Entro il 2014 almeno il 90%
delle ricette mediche di farmaci e visite
specialistiche a carico del Servizio
sanitario nazionale dovrà essere inviato
attraverso i canali telematici. A questa
soglia di digitalizzazione si arriverà
gradatamente.
Nel 2012, l'obiettivo del
governo è di dematerializzare almeno il 40%
delle ricette. La percentuale dovrà salire
al 70% nel 2013. La bozza di dl sviluppo
istituisce anche il fascicolo sanitario
elettronico. Sarà una sorta di diario
digitale della storia clinica dell'assistito
e conterrà per esempio i dati dei ricoveri,
degli interventi chirurgici, delle visite.
Il fascicolo verrà aggiornato in via
continuativa dal medico curante del paziente
e dalle strutture mediche che lo hanno avuto
in cura. La consultazione dei dati sarà
possibile solo previo consenso
dell'interessato
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2011). |
ENTI LOCALI - VARI: DECRETO
SVILUPPO/ P.a.,
i certificati vanno in soffitta.
Restano solo tra privati. Cessione crediti,
rifiuto da motivare. Mutui casa dei
giovani garantiti dallo stato. Dismissioni
fuori dal Patto.
Niente più certificati alla p.a. Gli uffici
pubblici d'ora in avanti avranno solo due
possibilità: acquisire d'ufficio dati e
informazioni da cittadini e imprese o
accettare le autocertificazioni. «Il
presente certificato non può essere prodotto
agli organi della pubblica amministrazione o
ai privati gestori di pubblici servizi»:
sarà questa la frase che d'ora in poi
campeggerà (a pena di nullità) sui
certificati. Che potranno essere utilizzati
solo nei rapporti tra privati. E anche il Durc (il Documento unico di regolarità
contributiva che attesta l'assolvimento, da
parte dell'impresa, degli obblighi
legislativi e contrattuali nei confronti di
Inps, Inail e Cassa Edile) dovrà essere
acquisito d'ufficio.
Hanno trovato posto nella
prima bozza di
decreto sviluppo (anticipata ieri da ItaliaOggi) le misure di semplificazione per
cittadini e imprese, annunciate dal ministro
della funzione pubblica Renato Brunetta a
fine settembre (si veda ItaliaOggi del
27/09/2011). Non senza qualche polemica a
seguito delle dichiarazioni del ministro sui
certificati antimafia. Che però non
scompariranno affatto, ma dovranno essere
acquisiti d'ufficio dalle p.a. «nel rispetto
della normativa di settore».
La misure allo studio introdurranno una
serie di «modifiche chirurgiche» al Testo
unico sulla documentazione amministrativa
(dpr n. 445/2000). Per scongiurare il
rischio di un nuovo flop (le norme in
materia di semplificazione amministrativa ci
sono già ma sono inattuate da 20 anni) le
p.a. che emettono i certificati dovranno
individuare un ufficio responsabile «per
tutte le attività volte a gestire, garantire
e verificare la trasmissione dei dati o
l'accesso diretto alle informazioni da parte
delle amministrazioni». Chi non si adeguerà
al nuovo corso rischierà grosso, perché la
mancata risposta alle richieste di controllo
entro 30 giorni costituirà violazione dei
doveri d'ufficio e verrà presa in
considerazione ai fini della valutazione
delle performance individuali.
Rendicontazione periodica. Entro il 31
gennaio di ogni anno le p.a. statali
dovranno trasmettere alla presidenza del
consiglio una relazione sul bilancio
complessivo degli oneri amministrativi a
carico di cittadini e imprese. Palazzo Vidoni ogni anno dovrà predisporre una
relazione contenente il bilancio annuale
degli oneri amministrativi, introdotti o
eliminati, per ciascun ente.
Le
amministrazioni col bilancio in rosso (in
cui cioè gli oneri introdotti sono stati
maggiori rispetto a quelli eliminati)
dovranno darsi da fare (per esempio non
chiedendo più agli utenti dichiarazioni,
attestazioni, certificazioni e incentivando
l'utilizzo dell'autocertificazione) seguendo
alla lettera un apposito piano di
semplificazione che verrà messo a punto dal
governo entro 90 giorni.
Certificazione dei debiti della p.a. e mutui
garantiti dallo stato. Nella bozza di
decreto sviluppo troverà anche spazio il
restyling della normativa in materia di
certificazione dei debiti delle pubbliche
amministrazioni. Ci stanno lavorando i
tecnici del Mef e del ministero della
semplificazione e trovano conferma le
anticipazioni pubblicate su ItaliaOggi lo
scorso 04/10/2011. Con una sola novità: la
certificazione da parte di enti locali,
regioni ed enti sanitari dei crediti vantati
nei loro confronti dalle imprese resterà
facoltativa e non diventerà obbligatoria (la
Ragioneria generale dello stato ha bocciato
la proposta temendo possibili ricadute
negative in termini finanziari). Ma gli enti
che rifiuteranno la certificazione dovranno
motivare il loro diniego.
Nei bandi di gara
per la gestione dei servizi di tesoreria
degli enti sarà previsto come requisito
essenziale l'impegno da parte del tesoriere
comunale a non opporsi alla cessione pro
soluto delle somme dovute per
somministrazioni, forniture e appalti.
Inoltre, onde evitare che gli enti facciano
il passo più lungo della gamba, verrà
previsto un doppio nulla osta da parte delle
ragionerie comunali sulla copertura
finanziaria dell'opera: non solo per
competenza, come previsto oggi, ma anche per
cassa. Per questo motivo è allo studio una
modifica all'art. 9 del dl 78/2009
(convertito nella legge n. 102/2009) che già
si occupa di tempestività dei pagamenti
della p.a..
Oggi però si prevede che «il
funzionario che adotta provvedimenti che
comportano impegni di spesa ha l'obbligo di
accertare preventivamente che il programma
dei conseguenti pagamenti sia compatibile
con i relativi stanziamenti di bilancio e
con le regole di finanza pubblica». In
pratica una compatibilità per competenza.
Con le modifiche allo studio (i tecnici di
Calderoli prima di sciogliere la riserva
sono in attesa di un parere della Rgs sul
tema dei pagamenti della p.a.) il visto
della ragioneria comunale dovrà tenere conto
anche delle risorse immediatamente
disponibili e cioè della cassa.
Tra le altre misure su cui stanno lavorando
Giulio Tremonti e Roberto Calderoli c'è
anche la garanzia dello stato sui mutui casa
contratti dalle giovani coppie di sposi
senza un lavoro a tempo indeterminato.
Tagli agli immobili e dismissioni. Nel 2012
e nel 2013 le amministrazioni centrali dello
stato dovranno ridurre di almeno il 10% la
superficie degli immobili demaniali
utilizzati per ospitare gli uffici pubblici.
Nel caso in cui la p.a. sottoscriva nuovi
contratti di locazione, sarà la spesa per i
canoni d'affitto a dover essere ridotta del
10%. I risparmi ottenuti rispetto al 2011
serviranno per metà a migliorare i saldi di
finanza pubblica e per l'altra metà saranno
destinati alla contrattazione integrativa.
I proventi derivanti dalle dismissioni del
patrimonio residenziale pubblico potranno
essere utilizzati da regioni ed enti locali
solo per finanziare gli investimenti e non
concorreranno a determinare gli obiettivi di
finanza pubblica individuati dal patto di
stabilità.
Un fondo di 15 milioni di euro per lanciare
gli Its. È il finanziamento aggiuntivo che è
stato scovato nelle pieghe del decreto legge
sviluppo per sostenere gli istituti tecnici
superiori. Il dl sviluppo interviene anche
sulla governance degli Its, fondazioni di
diritto privato in cui possono partecipare
enti locali, aziende, università e anche
sindacati: i consigli di indirizzo e le
giunte potranno adottare delibere con la
previsione di voti di diverso peso o di
diverso quorum
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2011 - link a www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: DECRETO
SVILUPPO/ Permesso di
costruire accelerato.
Scatta il silenzio-assenso dopo 90 giorni
dalla domanda. La bozza introduce molte
novità in materia di edilizia e urbanistica.
Permesso di costruire con il silenzio
assenso in 90 giorni e parcheggi
pertinenziali liberamente commerciabili.
Sono due novità della bozza di decreto legge
sviluppo in materia di edilizia e
urbanistica. Tra l'altro si introduce una
norma di principio che dovrebbe alleggerire
gli oneri urbanistici per gli interventi di
recupero del patrimonio esistente. E spunta
anche una polizza anti-calamità naturali per
garantire un'adeguata e tempestiva
riparazione e ricostruzione di beni immobili
privati destinati a uso abitativo
danneggiati o distrutti da calamità
naturali.
Nella bozza di ddl si prevede infatti
«una copertura assicurativa obbligatoria del
rischio calamità naturali nelle nuove
polizze che garantiscono i fabbricati
privati destinati ad uso abitativo contro
l'incendio, con esclusione dei fabbricati
abusivi, compresi i fabbricati abusivi per i
quali pur essendo stata presentata la
domanda di definizione dell'illecito
edilizio, non sono stati corrisposti
interamente l'oblazione e gli oneri
accessori».
Ma vediamo le novità (il
provvedimento, suscettibile di modifiche,
dovrebbe essere varato nei prossimi giorni).
Permesso di costruire.
Viene modificata la regola del
silenzio-assenso sulle richieste di permesso
di costruire.
Nella versione attuale dell'articolo 20,
comma 8, del Testo Unico per l'Edilizia (Dpr
380/2001) si legge che decorso inutilmente
il termine per l'adozione del provvedimento
conclusivo, se il dirigente o il
responsabile dell'ufficio non abbia opposto
motivato diniego, sulla domanda di permesso
di costruire si intende formato il
silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui
sussistano vincoli ambientali, paesaggistici
o culturali.
Nella versione riformulata del decreto legge
si prevede che se il dirigente o il
responsabile dell'ufficio non abbia opposto
motivato diniego, sulla domanda di permesso
di costruire si intende formato il silenzio
assenso decorsi inutilmente novanta giorni
dalla presentazione della domanda (salvo
interruzione del termine per richiesta di
integrazioni documentali).
Il termine diventa di centoquaranta giorni
per i comuni con più di 100 mila abitanti, e
per i progetti particolarmente complessi
secondo la motivata risoluzione del
responsabile del procedimento.
Se l'immobile oggetto dell'intervento è
sottoposto a un vincolo il procedimento deve
essere definito con un provvedimento
espresso e se spira il termine di
conclusione del procedimento stesso sulla
domanda di permesso di costruire si intende
formato il silenzio-rifiuto.
Con la modifica in esame chi fa una
richiesta di permesso di costruire sa che
comunque in novanta giorni la pratica sarà
definita, eventualmente con il
silenzio-assenso.
Patrimonio edilizio.
Gli enti locali devono uniformare la propria
azione al criterio che impone di
differenziare adeguatamente i contributi
commisurati all'incidenza degli oneri di
urbanizzazione relativi al recupero e alla
ristrutturazione del patrimonio edilizio
esistente rispetto a quelli relativi alle
nuove costruzioni.
Il criterio enunciato è
dichiarato principio fondamentale per la
disciplina dell'attività edilizia e quindi
regioni ed enti locali devono adeguarsi allo
stesso. Il significato della disposizione è
di favorire le attività di recupero del
patrimonio edilizio esistente, senza aggravi
economici sproporzionati.
Parcheggi pertinenziali.
Il decreto interviene sui parcheggi
pertinenziali disciplinati dalla legge
Tognoli (legge 122/1989). Nel testo oggi in
vigore i box auto, realizzati con un regime
edilizio agevolato, non possono essere
ceduti separatamente dall'unità immobiliare
alla quale sono legati da vincolo
pertinenziale e i relativi atti di cessione
sono nulli. Nella versione introdotta dal
decreto sviluppo si consente la
trasferibilità dei parcheggi a una sola
condizione.
In particolare si consente il
trasferimento della proprietà, anche in
deroga a quanto previsto del titolo edilizio
che ha legittimato la costruzione e in
successivi atti convenzionali, ma solo
previa destinazione del parcheggio
trasferito a pertinenza di altra unità
immobiliare. Il decreto prevede che la
previsione prevale su eventuali disposizioni
difformi contenute nelle leggi regionali e
si applica anche ai parcheggi pertinenziali
già realizzati.
In sostanza cade il vincolo che implica la
incommerciabilità del parcheggio
(considerato il suo vincolo con una sola
unità immobiliare, quella alla quale è stato
in origine collegato) e si mantiene solo il
vincolo con una qualsiasi unità immobiliare.
La norma prevede una applicazione a tutti i
parcheggi realizzati con la legge Tognoli
(che consente deroghe alla normativa
urbanistica ed edilizia). Il regime si
estende ai parcheggi già realizzati e non
solo a quelli da realizzare
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2011 - link a www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
La stazione appaltante non può
incamerare la cauzione provvisoria nel caso
di contemporanea partecipazione del
consorzio e del consorziato.
La normativa di settore –sia l’art. 12,
comma 5, della L. n. 109/1994, e sia l’art.
36, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006– non
prevede l’incameramento della cauzione
provvisoria nelle ipotesi di contemporanea
partecipazione del consorzio e del
consorziato alla medesima procedura di gara,
e poiché le norme sanzionatorie che
prevedono l’incameramento della cauzione
provvisoria hanno carattere tassativo, non
possono essere estese ad altre ipotesi
(massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR
Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 21.10.2011 n. 2547 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Altolà ai parlamentari-sindaci.
No al doppio incarico nei comuni sopra i 20
mila abitanti. Lo ha stabilito la Consulta
decidendo sul caso del primo cittadino di
Catania, Raffaele Stancanelli.
Una poltrona in parlamento basta e avanza.
Troppo pensare di aggiungerci anche quella
di sindaco di un grande comune. Deputati e
senatori non potranno più candidarsi alla
carica di primo cittadino in municipi sopra
i 20.000 abitanti, sfruttando, come hanno
fatto finora, un mero cavillo giuridico. E
cioè il fatto che la legge sulle
incompatibilità parlamentari, risalente al
1953 (n. 60), vieta ai sindaci dei comuni
medio-grandi di candidarsi al parlamento, ma
non l'opposto.
Una sottigliezza a cui si
sono aggrappati in questi anni un drappello
di parlamentari (tutti del Pdl) che ora dopo
la
sentenza
21.10.2011 n. 277 della Consulta, dovranno scegliere. Da ieri
versano in una condizione di incompatibilità
alla camera Adriano Paroli (Brescia) e
Giulio Marini (Viterbo). Mentre a palazzo
Madama siedono tre senatori-sindaci:
Vincenzo Nespoli (Afragola) Antonio
Azzollini (Molfetta) e Raffaele Stancanelli,
sindaco di Catania, dal cui caso è partito
il ricorso di un elettore che ha dato
origine al giudizio davanti alla Consulta.
A sollevare la questione di legittimità è
stato il tribunale di Catania che ha
evidenziato dubbi di costituzionalità non
solo sulle norme nazionali, ma anche su tre
leggi regionali siciliane in materia
elettorale tutte conformi al dettato della
legge n. 60/1953. La Consulta però ha deciso
di restringere il campo della propria
decisione alla sola legge statale, ritenendo
che la Sicilia (ancorché titolare di una
potestà legislativa in materia elettorale
più ampia rispetto a quella delle altre
regioni) non avrebbe potuto determinare da
sé cause di incompatibilità tra la carica di
sindaco e quella di deputato o senatore. Una
prerogativa, questa, che spetta solo allo
stato.
Una volta circoscritto il tema della
decisione, i giudici delle leggi hanno
riconosciuto che una lacuna legislativa
nell'ordinamento italiano c'è. Ed è tanto
più grave quanto non superabile in via
interpretativa. Nel 2002, infatti, ricorda
la Corte, le giunte per le elezioni di
camera e senato avevano sostenuto di non
poter colmare il vuoto normativo applicando
in via analogica le disposizioni in materia
di ineleggibilità.
La tassatività delle
ipotesi in materia e la considerazione che
«l'elettorato passivo rientra tra i diritti
politici fondamentali del cittadino» avevano
frenato il parlamento dal supplire al
silenzio della legge. E così, mentre restava
vietato a un sindaco di un comune sopra i
20.000 abitanti di candidarsi alla camera o
al senato, un deputato o un senatore già in
carica poteva tranquillamente accomodarsi
sulla poltrona di sindaco. Esattamente
quanto ha fatto nel 2008 Raffaele Stancanelli, che due mesi dopo essere
diventato senatore ha deciso di correre per
la carica di sindaco di Catania risultando
eletto.
Ma con la sentenza di ieri (redatta dal
giudice Paolo Grossi) la Consulta ha detto
basta. Perché, ha affermato, non c'è nessuna
giustificazione razionale che legittimi
questa disparità di trattamento. «La
previsione della non compatibilità di un
incarico pubblico rispetto ad un altro
preesistente, a cui non si accompagni, una
disciplina reciprocamente speculare, si pone
in violazione della naturale corrispondenza
biunivoca delle cause di ineleggibilità», si
legge nella sentenza. «Tanto più che»,
proseguono i giudici, «la regola
dell'esclusione unidirezionale viene in
concreto fatta dipendere dalla circostanza,
puramente casuale, connessa alla cadenza
temporale delle relative tornate
elettorali».
Di qui la decisione di dichiarare
illegittimi gli articoli 1,2,3 e 4 della
legge n. 60/1953 nella parte in cui non
prevedono l'incompatibilità.
Per Graziano Delrio, presidente dell'Anci,
l'intervento della Corte «chiarisce in
maniera definitiva una querelle che è andata
avanti per molti anni». Anche se, ha
aggiunto, «resta comunque la necessità di
una normativa unica di riferimento per tutte
le cariche elettive»
(articolo ItaliaOggi del 22.10.2011 - link a www.ecostampa.it). |
APPALTI:
Le offerte con identico ribasso
-se poste a cavallo delle ali- vanno escluse
fittiziamente dalla gara.
Nell'ipotesi caratterizzata dalla presenza,
a cavallo delle ali, di due imprese con
identico ribasso, entrambe le imprese, alla
luce dell’ormai univoco orientamento
giurisprudenziale, codificato dal
regolamento di attuazione approvato con DPR
n. 207/2010, devono essere fittiziamente
escluse dalla gara (massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it -
TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 20.10.2011 n. 2502 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: CASSAZIONE/ Multa valida
anche senza i vigili.
Telecamera a infrarossi (T-Red) regolarmente
omologata. Cambio di rotta: la normativa del
2003 ha mutato quadro di riferimento.
Cambio di rotta della Cassazione sul
semaforo rosso. La multa spiccata con T-Red
(telecamera infrarossi) è valida anche in
assenza degli agenti.
Lo ha sancito la II Sez. civile della Corte
di Cassazione che,
con la
sentenza 19.10.2011 n. 21605, ha respinto il ricorso della
proprietaria di un'auto e del conducente,
multati per essere passati col semaforo
rosso.
I due avevano ottenuto da un giudice di pace
di Pistoia l'annullamento della sanzione
perché l'apparecchiatura T-Red non era stata
attivata alla presenza di un agente.
Poi il Tribunale aveva ribaltato il verdetto
ora confermato dagli Ermellini.
In particolare la Cassazione, pur essendo
cosciente del deposito di alcune pronunce
che avevano sancito la necessità della
presenza dell'agente al semaforo, ha ora
sostenuto che un decreto ministeriale del
2003 ha cambiato il quadro normativo di
riferimento.
«Tutte queste decisioni», si legge nel
passaggio chiave della motivazione, «si
riferiscono a violazioni dell'art. 146,
comma 3, del codice della strada commesse
anteriormente alla data nella quale, con
decreto dirigenziale del ministero delle
infrastrutture e dei trasporti, sono stati
accertati i requisiti di omologazione delle
apparecchiature di rilevamento fotografico».
Difatti, l'art. 201 del codice dalla strada,
introdotto proprio in quell'anno prevede che
nell'ipotesi di attraversamento di un
incrocio con il semaforo indicante la luce
rossa (ipotesi contemplata dalla lettera b
del comma 1-bis della medesima disposizione)
non è necessaria la presenza degli organi di
polizia stradale qualora l'accertamento
avvenga mediante rilievo con apposite
apparecchiature debitamente omologate.
In poche parole, il decreto ministeriale ha
messo a posto anche il T-Red che essendo ora
regolarmente omologato può funzionare anche
senza la polizia.
Nell'affermare questi principi i consiglieri
ne hanno ricordato un altro: il giudice
chiamato a decidere sull'opposizione al
verbale può anche d'ufficio (quando dà torto
all'automobilista), «in assenza di espressa
domanda da parte dell'Amministrazione in
ordine alla determinazione della misura
della sanzione - quantificare, in base al
suo libero convincimento, la sanzione
pecuniaria, che non sia predeterminata
normativamente, in misura congrua, tra il
minimo e il massimo edittale».
Anche la Procura generale del Palazzaccio,
nell'udienza tenutasi lo scorso 21
settembre, aveva chiesto di confermare la
legittimità del verbale
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2010 - link a www.corteconti.it). |
VARI: Multa
per il rosso, basta la foto.
Per le infrazioni post-2003 non serve la
presenza di un agente.
Data spartiacque 2003. Prima non bastava la
fotografia per ritenere legittima la
contravvenzione inflitta a chi era passato
con il rosso: serviva anche la presenza di
un agente per effettuare la contestazione
immediata; poi la presenza di un vigile non
è stata più necessaria. A renderla superflua
è stato, appunto nel 2003, il decreto legge
n. 151.
A fare un po' di chiarezza in una
materia tradizionalmente intricata è la
Corte di Cassazione con la
sentenza
19.10.2011 n. 21605
della II Sez. civile.
Di fronte al ricorso presentato dalla difesa
di un automobilista che si era visto
infliggere una sanzione pecuniaria per avere
attraversato con il semaforo rosso,
infrazione rilevata attraverso fotografia
scattata con apparecchio T-Red, i giudici
hanno osservato che è vero che esiste un
orientamento consolidato della Cassazione
nel considerare non giustificata l'assenza
non occasionale di agenti sul posto che
possono effettuare la contestazione
immediata. E questo anche in relazione alle
situazioni che si possono concretamente
venire a creare come nel caso del veicolo
che si trova bloccato su un incrocio senza
riuscire a superarlo per la presenza di una
coda.
Tuttavia, sottolinea la Corte, bisogna
considerare che tutte le pronunce, anche in
anni recenti, sono però relative a
violazioni dell'articolo 146 del Codice
della strada commesse prima della data di
entrata in vigore del decreto legge n. 151
del 2003 il quale ha previsto che, nel caso
di attraversamento di un incrocio con il
semaforo rosso «non è necessaria la presenza
degli organi di polizia stradale qualora
l'accertamento avvenga mediante rilievo con
apposita apparecchiature debitamente
omologate».
Via libera quindi all'automatismo della
contestazione senza la presenza fisica
dell'agente. Solo a patto però che i
dispositivi siano stati omologati. Cosa che,
ricorda la sentenza, è avvenuta in
particolare con il decreto 18.03.2004 per
quanto riguarda il dispositivo Ftr e il
decreto 15.12.2005 per il
documentatore fotografico T-Red. Decreti
dirigenziali emanati proprio a causa del
cambiamento del quadro normativo.
Così, «i documentatori fotografici delle
infrazioni commesse alle intersezioni
regolate da semaforo, ove omologati ed
utilizzati nel rispetto delle prescrizioni
riguardanti le modalità di installazione e
di ripresa delle infrazioni, sono divenuti
idonei a funzionare anche in modalità
completamente automatica senza la presenza
degli agenti di polizia»
(articolo
Il Sole 24 Ore del 20.10.2010 - link a www.corteconti.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla portata di una clausola
contenuta nell'Accordo di Programma
intercorso tra un Comune ad una Provincia in
materia di affidamento del servizio di
trasporto pubblico locale.
La controversia riguardante la portata della
clausola contenuta nell'Accordo di Programma
in materia di affidamento del servizio di
trasporto pubblico locale ed in particolare
se l'importo da corrispondersi dal Comune
alla Provincia sia una somma
forfettariamente determinata, comunque
dovuta dall'ente locale alla Provincia per
il servizio di trasporto pubblico urbano o
possa essere modulata in ragione della
misura in cui l'ente territoriale assolva ai
propri impegni, va letta alla luce dei
principi dettati dall'art. 1362 cod. civ.,
che evidenziano un rapporto di
sinallagmaticità tra il trasferimento delle
risorse ed il complesso dei servizi che la
Provincia è tenuta ad espletare.
Esiste, dunque, un'interdipendenza
funzionale delle reciproche obbligazioni,
sicché l'importo costituisce il
corrispettivo dovuto dal Comune a fronte
dell'integrale "esatto" adempimento
da parte della Provincia a tutti gli impegni
assunti, che comprendono anche i servizi
definiti nel documento elaborato di comune
accordo.
Una diversa interpretazione della clausola,
non solo non corrisponde al significato
letterale della locuzione usata nell'Accordo
che fa riferimento alle risorse necessarie
all'espletamento del servizio di trasporto
pubblico urbano che completi il livello dei
servizi minimi essenziali, ma determina un
trasferimento di risorse senza causa, ove
non è stato completato il livello dei
servizi minimi.
Pertanto, l'importo in questione sta ad
indicare il valore da computare ai fini
della gara e, quindi, il limite massimo
delle risorse che il Comune si impegna a
trasferire quale corrispettivo di tutti i
servizi previsti dall'Accordo (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 19.10.2011 n. 5627 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Sull'interpretazione dell'art. 1,
n. 5, della direttiva 85/337/CEE,
concernente la valutazione dell'impatto
ambientale di determinati progetti pubblici
e privati, come modificata dalla direttiva
2003/35/CE.
Convenzione di Aarhus – Accesso alla
giustizia in materia ambientale – Portata
del diritto di ricorso contro un atto
legislativo.
L'art. 1, n. 5, della direttiva del
Consiglio 27.06.1985, 85/337/CEE,
concernente la valutazione dell'impatto
ambientale di determinati progetti pubblici
e privati, come modificata dalla direttiva
del Parlamento europeo e del Consiglio
26.05.2003, 2003/35/CE, deve essere
interpretato nel senso che sono esclusi
dall'ambito di applicazione di tale
direttiva soltanto i progetti adottati nei
dettagli mediante un atto legislativo
specifico, di modo che gli obiettivi della
medesima direttiva siano stati raggiunti
tramite la procedura legislativa. Spetta al
giudice nazionale verificare che detti due
requisiti siano stati rispettati tenendo
conto sia del contenuto dell'atto
legislativo adottato sia di tutta la
procedura legislativa che ha condotto alla
sua adozione e, in particolare, degli atti
preparatori e dei dibattiti parlamentari. Al
riguardo, un atto legislativo che non faccia
altro che "ratificare" puramente e
semplicemente un atto amministrativo
preesistente, limitandosi a constatare
l'esistenza di motivi imperativi di
interesse generale, senza il previo avvio di
una procedura legislativa nel merito che
consenta di rispettare detti requisiti, non
può essere considerato un atto legislativo
specifico ai sensi della citata disposizione
e non è dunque sufficiente ad escludere un
progetto dall'ambito di applicazione della
direttiva 85/337, come modificata dalla
direttiva 2003/35.
L'art. 9, n. 2, della convenzione
sull'accesso alle informazioni, la
partecipazione del pubblico ai processi
decisionali e l'accesso alla giustizia in
materia ambientale, conclusa il 25.06.1998 e
approvata a nome della Comunità europea con
decisione del Consiglio 17.02.2005,
2005/370/CE, e l'art. 10-bis della direttiva
85/337, come modificata dalla direttiva
2003/35, devono essere interpretati nel
senso che:
- qualora un progetto rientrante nell'ambito
d'applicazione di tali disposizioni sia
adottato mediante un atto legislativo, la
verifica del rispetto, da parte di
quest'ultimo, dei requisiti stabiliti
all'art. 1, n. 5, di detta direttiva deve
poter essere sottoposta, in base alle norme
nazionali procedurali, ad un organo
giurisdizionale o ad un organo indipendente
e imparziale istituito dalla legge;
- nel caso in cui contro un simile atto non
sia esperibile alcun ricorso della natura e
della portata sopra rammentate, spetterebbe
ad ogni organo giurisdizionale nazionale
adito nell'ambito della sua competenza
esercitare il controllo descritto al
precedente trattino e trarne le eventuali
conseguenze, disapplicando tale atto
legislativo (Corte di giustizia europea,
Grande Sezione,
sentenza 18/10/2011 n. C-128/09 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Il
potere spettante alla Soprintendenza ai
sensi dell'art. 18 L. n. 1089/1939 di
autorizzare i progetti delle opere
concernenti i beni sottoposti alla legge
stessa, che mira ad assicurare la conformità
dell'intervento alla salvaguardia del valore
storico-artistico del bene, non può non
estendersi anche alla verifica della
idoneità professionale del progettista (come
stabilita dal legislatore).
● La ripartizione delle competenze
professionali tra architetto e ingegnere,
come delineata nel citato art. 52, R.D. n.
2537/1925, non è venuta meno per effetto
della normativa successiva che ha innovato
la disciplina per il conseguimento del
titolo di architetto e di ingegnere.
È bensì vero, infatti, che nel 1925 per
conseguire tali titoli era sufficiente il
semplice diploma di istruzione secondaria (e
non già il diploma di laurea), e che
nell'attuale ordinamento universitario il
laureato in ingegneria civile deve avere
acquisito una specifica preparazione anche
nel campo dell'architettura, talché potrebbe
ritenersi ormai anacronistica la limitazione
posta dal citato art. 52 alla competenza
professionale dell'odierno laureato in
ingegneria, e in ogni caso meritevole di
essere adeguata alla mutata disciplina delle
professioni di architetto e di ingegnere
civile.
Nondimeno la norma in questione, nella
misura in cui vuole garantire che a
progettare interventi edilizi su immobili di
interesse storico-artistico siano
professionisti forniti di una specifica
preparazione nel campo delle arti, e
segnatamente di una adeguata formazione
umanistica, deve ritenersi tuttora vigente.
● Non sussiste l’incostituzionalità
dell’art. 52, comma 2, del R.D. n. 2357/1925
in quanto “il principio di uguaglianza deve
ritenersi nella specie rispettato atteso
che, gli architetti in ragione dello
specifico corso di laurea che sono tenuti a
percorrere e della conseguente
professionalità (e sensibilità) artistica ed
estetica che acquisiscono devono ritenersi
più idonei (rispetto agli ingegneri) a
tutelare l’interesse pubblico connesso alla
tutela dei beni artistici e storici e quindi
a redigere i progetti di restauro e
ripristino degli edifici che si
caratterizzano per la loro valenza
culturale”.
---------------
● L’art. 52 del R.D. n. 2537/1925 che
recita: "Formano oggetto tanto della
professione di ingegnere quanto di quella di
architetto le opere di edilizia civile,
nonché i rilievi geometrici e le operazioni
di estimo ad esse relative. Tuttavia le
opere di edilizia civile che presentano
rilevante carattere artistico ed il restauro
e il ripristino degli edifici contemplati
dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità
e le belle arti, sono di spettanza della
professione di architetto; ma la parte
tecnica ne può essere compiuta tanto
dall'architetto quanto dall'ingegnere".
La giurisprudenza ha già chiarito che la
terminologia usata dal Legislatore del 1925
deve essere considerata in senso atecnico, e
non può essere riferita alle specifiche
categorie di interventi sul patrimonio
edilizio esistente poi codificate dall'art.
31 della legge 05.08.1978, n. 457 e oggi
recepite nell'art. 3 del D.P.R. 06.06.2001,
n. 380.
L'espressione "restauro e ripristino" va
quindi intesa in senso omnicomprensivo, come
relativa a qualsiasi attività di recupero di
una struttura edilizia assoggettata a
vincolo storico artistico.
Inoltre, la norma distingue nettamente tra
“le opere di edilizia civile che presentano
rilevante carattere artistico” ed “il
restauro ed il ripristino degli edifici
contemplati dalla legge 20.06.1909 n. 364”
(ora R.D. n. 1089/1939).
● Il Consiglio di Stato ha chiarito che la
nozione di “opere di edilizia civile che
presentano rilevante interesse artistico” si
riferisce sia alle nuove opere, sia agli
interventi su opere già esistenti
(consistenti quindi in manutenzioni,
ristrutturazioni, ecc.), effettuate su
immobili non assoggettati a vincolo storico
artistico.
Ne consegue che per sussistere la riserva di
competenza degli architetti nella
progettazione di interventi su immobili non
soggetti a vincolo storico artistico, deve
ricorrere il presupposto costituito dal
“rilevante” interesse artistico
dell’intervento.
Infine, l’art. 52 attribuisce alla
competenza dell'ingegnere civile la cd.
parte tecnica, cioè «le attività progettuali
e di direzione dei lavori che riguardano
l'edilizia civile vera e propria ...».
Pertanto, secondo l’interpretazione della
norma fornita dalla giurisprudenza, le cui
affermazioni sono condivise dal Collegio, la
riserva di competenza degli architetti
sussiste per ogni tipologia di intervento su
immobili gravati da vincolo storico
artistico ai sensi della L. 1089/1939 (oggi
D.Lgs. 42/2004), ad eccezione delle attività
propriamente tecniche di edilizia civile per
le quali lo stesso art. 52 prevede la
competenza anche degli ingegneri; la
competenza degli architetti, poi, si estende
anche agli interventi realizzati su immobili
non assoggettati a vincolo storico artistico
quando presentino “rilevante interesse
artistico”.
● I progetti di intervento sui beni
vincolati devono essere sottoscritti da un
architetto, potendosi prevedere l’intervento
dell’ingegnere soltanto per ciò che concerne
la sola parte tecnica, ma con la necessaria
ed imprescindibile stretta collaborazione
con l’architetto e dunque mediante la
sottoscrizione congiunta del progetto da
parte dei due professionisti.
Con il ricorso R.G. 10073/1998 i ricorrenti
hanno impugnato il provvedimento del
25.05.1998 con il quale la Soprintendenza
per i Beni Ambientali ed Architettonici di
Verona ha reso noto ai Consigli dell’Ordine
degli Architetti e degli Ingegneri e al
Collegio dei Geometri delle Province
limitrofe (Verona, Vicenza, Rovigo, Trento e
Bolzano) che dalla data di adozione
dell’atto non avrebbe più esaminato i
progetti di restauro di immobili di
interesse storico artistico se non
sottoscritti da un architetto in conformità
alle disposizioni di cui all’art. 52 del
R.D. 22.10.1925 n. 2537 bensì avrebbe
esaminato i progetti cofirmati, ove
l’intervento richiedesse ambiti di
competenza diversi.
Con il successivo ricorso R.G. 9247/1999 i
ricorrenti hanno impugnato il provvedimento
del Ministero per i Beni e le Attività
Culturali, con il quale è stata ribadita la
vigenza dell’art. 52 del R.D. n. 2537 del
1925 e la conseguente competenza esclusiva
degli architetti in materia di immobili
vincolati ai sensi della L. 1089/1939.
Avverso detti provvedimenti i ricorrenti
–rispettivamente il Consiglio dell’Ordine
degli Ingegneri di Verona e gli Ingegneri
Montresor Giovanni, Rubinelli Gaetano,
Sartori Alberto Maria, Zocca Mario– hanno
dedotto, in estrema sintesi:
a)
che l’Amministrazione non potrebbe esimersi
dall’esaminare i progetti facendo
riferimento soltanto alla qualifica del
progettista;
b)
che la norma dell’art. 25 del R.D. n.
2537/1925 sarebbe stata superata dalla
legislazione successiva, ed in particolare
dall’art. 173 del R.D. 31.08.1933 n. 1592 e
dalla tabella L annessa a tale decreto;
c)
che la norma di cui all’art. 25 del R.D. n.
2537/1925 sarebbe stata superata dalla
direttiva comunitaria n. 85/384 recepita con
L. n. 129/1992;
d)
che l’art. 25 del R.D. n. 2537/1925 sarebbe
stato falsamente interpretato, in quanto
detta disposizione non precluderebbe agli
ingegneri di firmare progetti su immobili di
interesse storico artistico, ove riguardanti
la sola parte tecnica e non quella
tipicamente artistica, ovvero riguardanti
immobili soggetti a vincoli diversi da
quelli previsti dall’attuale L. 1089/39,
unica normativa richiamata nell’art. 25 del
R.D. n. 2537/1925, ovvero riguardanti
interventi differenti dal restauro e
ripristino, uniche attività individuate
nella norma.
I primi tre punti sono stati
compiutamente esaminati dalla
giurisprudenza, le cui conclusioni sono
pienamente condivise dal Collegio (Cons.
Stato Sez. VI 11/09/1906 n. 5239; TAR
Lombardia Sez. Brescia 24/08/2004 n. 925;
Cons. Stato Sez. VI 16/05/2006 n. 2776; TAR
Sardegna Cagliari, sez. I, 03.01.2005, n. 2;
TAR Veneto Sez. II 28/01/2005 n. 381).
In particolare, con riferimento al primo
aspetto, il Consiglio di Stato con la
decisione della Sez. VI, 11.09.2006, n.
5239, ha chiarito che il potere spettante
alla Soprintendenza ai sensi dell'art. 18 L.
n. 1089/1939 di autorizzare i progetti delle
opere concernenti i beni sottoposti alla
legge stessa, che mira ad assicurare la
conformità dell'intervento alla salvaguardia
del valore storico-artistico del bene, non
può non estendersi anche alla verifica della
idoneità professionale del progettista (come
stabilita dal legislatore), secondo quanto
riconosciuto anche in un precedente parere
del Consiglio di Stato (Cfr. Cons. St. II,
23.07.1997, n. 386/1997).
Con riferimento al secondo punto, il
Consiglio di Stato nella già citata sentenza
n. 5239/2006 ha rilevato che “Nella
ordinanza n. 2379 dell'11.05.2005, con la
quale era stato rimesso alla Corte di
Giustizia delle Comunità Europee di decidere
pregiudizialmente sulla interpretazione
della direttiva comunitaria n. 384/1985, la
Sezione ha già riconosciuto che tale
asserita abrogazione non può essere
comprovata facendo riferimento al T.U. del
1933 sulla istruzione superiore (art. 173 e
tabelle allegate), ove il legislatore si è
limitato ad equiparare le lauree di
architettura e di ingegneria civile in
funzione dell'accesso alla professione di
architetto; e neppure richiamando la legge
07.12.1961, n. 1264 (art. 15, 3° comma) che,
laddove prevede come requisito per ricoprire
il ruolo di architetto presso le
Soprintendenze il possesso della laurea in
architettura o in ingegneria civile, non
stabilisce con ciò alcuna equipollenza tra
le due lauree ai fini dello svolgimento
della attività professionale.
Occorre aggiungere che la ripartizione delle
competenze professionali tra architetto e
ingegnere, come delineata nel citato art.
52, R.D. n. 2537/1925, non è venuta meno per
effetto della normativa successiva che ha
innovato la disciplina per il conseguimento
del titolo di architetto e di ingegnere.
È bensì vero, infatti, che nel 1925 per
conseguire tali titoli era sufficiente il
semplice diploma di istruzione secondaria (e
non già il diploma di laurea), e che
nell'attuale ordinamento universitario il
laureato in ingegneria civile deve avere
acquisito una specifica preparazione anche
nel campo dell'architettura, talché potrebbe
ritenersi ormai anacronistica la limitazione
posta dal citato art. 52 alla competenza
professionale dell'odierno laureato in
ingegneria, e in ogni caso meritevole di
essere adeguata alla mutata disciplina delle
professioni di architetto e di ingegnere
civile.
Nondimeno la norma in questione, nella
misura in cui vuole garantire che a
progettare interventi edilizi su immobili di
interesse storico-artistico siano
professionisti forniti di una specifica
preparazione nel campo delle arti, e
segnatamente di una adeguata formazione
umanistica, deve ritenersi tuttora vigente”.
Con riferimento alla terza questione,
relativa al superamento della normativa di
cui all’art. 25 del R.D. 2537/1925 per
effetto della direttiva comunitaria del
10.06.1985 n. 384 che ha equiparato i titoli
di architetto e di ingegnere civile ai fini
dell'esercizio delle attività professionali
nel campo della architettura, il Consiglio
di Stato nella già citata decisione n.
5239/2006 ha rilevato che “… gli artt. 2
e segg. della direttiva dettano le norme per
il reciproco riconoscimento dei titoli di
studio conseguiti dai cittadini degli Stati
membri a conclusione di studi universitari
riguardanti l'architettura, introducendo
anche un regime transitorio di reciproco
riconoscimento di taluni titoli
tassativamente indicati.
Tra i titoli che beneficiano di tale
riconoscimento automatico l'art. 11 menziona
per l'Italia:
<<- i diplomi di "laurea in architettura"
rilasciati dalle università, dagli istituti
politecnici e dagli istituti superiori di
architettura di Venezia e di Reggio
Calabria, accompagnati dal diploma di
abilitazione all'esercizio indipendente
della professione di architetto, rilasciato
dal ministro della Pubblica Istruzione una
volta che il candidato abbia sostenuto con
successo, davanti ad un'apposita
Commissione, l'esame di Stato che abilita
all'esercizio indipendente della professione
di architetto (dott. architetto);
- i diplomi di "laurea in ingegneria" nel
settore della costruzione civile rilasciati
dalle università e dagli istituti
politecnici, accompagnati dal diploma di
abilitazione all'esercizio indipendente di
una professione nel settore
dell'architettura, rilasciato dal ministro
della Pubblica Istruzione una volta che il
candidato abbia sostenuto con successo,
davanti ad un'apposita Commissione, l'esame
di Stato che lo abilita all'esercizio
indipendente della professione (dott. ing.
architetto o dott. ing. in ingegneria
civile>>.
Con la ordinanza n. 2379 dell'11.05.2005 la
Sezione ha rimesso alla Corte di Giustizia
delle Comunità Europee di decidere
pregiudizialmente se per effetto della
applicazione degli artt. 10 e 11 della
Direttiva dovesse ritenersi attuata
nell'ordinamento interno la equiparazione
anzidetta. Con la stessa ordinanza si
sottoponeva alla Corte di Giustizia la
prospettazione degli odierni appellanti
secondo cui, in difetto di una siffatta
equiparazione, la normativa italiana avrebbe
potuto dar luogo ad una discriminazione alla
rovescia poiché, diversamente dagli
ingegneri civili che hanno conseguito il
titolo rilasciato in Italia, i soggetti in
possesso di un titolo di ingegnere civile
rilasciato da altro Stato membro avrebbero
accesso (ove tale titolo sia menzionato
nell'elenco di cui all'art. 11 della
Direttiva) alle attività che in Italia sono
riservate agli architetti, ai sensi del
ripetuto art. 52 R.D. n. 2537/1925.
Ma alla ordinanza della Sezione la Corte ha
risposto trasmettendo la decisione già
assunta in fattispecie del tutto identica a
quella in esame, nella quale si afferma che
<<la Direttiva 85/384 non si propone di
disciplinare le condizioni di accesso alla
professione di architetto, né di definire la
natura delle attività svolte da chi esercita
tale professione>>; ma ha invece ad oggetto
solamente <<il reciproco riconoscimento, da
parte degli Stati membri, dei diplomi, dei
certificati e degli altri titoli rispondenti
a determinati requisiti qualitativi e
quantitativi minimi in materia di formazione
allo scopo di agevolare l'esercizio
effettivo del diritto di stabilimento e di
libera prestazione dei servizi per le
attività del settore della
architettura...>>.
In definitiva, secondo la Corte, la
direttiva non impone allo Stato membro di
porre i diplomi di laurea in architettura e
in ingegneria civile indicati all'art. 11 su
un piano di perfetta parità per quanto
riguarda l'accesso alla professione di
architetto in Italia e tantomeno può essere
di ostacolo ad una normativa nazionale che
riservi ai soli architetti i lavori
riguardanti gli immobili d'interesse
storico-artistico sottoposti a vincolo.
Alla stregua delle conclusioni formulate
dalla Corte deve dunque ritenersi infondata
la tesi degli appellanti secondo cui la
disposizione dell'art. 52 R.D. cit. sarebbe
stata superata dalla direttiva comunitaria.
Residua il problema, prospettato nella
stessa pronuncia della Corte di Giustizia,
se la disposizione in questione per effetto
della direttiva comunitaria realizzi una
discriminazione vietata dal diritto
nazionale in relazione al trattamento che
sarebbe riservato a chi è in possesso di uno
dei titoli di ingegneria civile elencati
all'art. 11 della direttiva; e se dunque
possa essere sospettata di illegittimità
costituzionale per contrasto con gli artt.
3, 35 e 41 Cost. secondo quanto sostenuto
dalle parti appellanti.
Ma siffatti dubbi non hanno ragion d'essere
ove si consideri che la stessa Corte di
Giustizia ritiene che la direttiva non
imponga allo Stato membro di porre su un
piano di perfetta parità i diplomi di laurea
in architettura e in ingegneria civile per
quanto riguarda l'accesso all'attività di
architetto in Italia” (così testualmente
Cons. Stato Sez. VI 11/09/2006 n. 5239).
Del resto sul punto si era già pronunciato
il TAR Veneto Sez. II 28/01/2005 n. 381 che
nel richiamare il proprio precedente n.
1089/1999 ed il parere del Consiglio di
Stato n. 386 del 1997, ha rilevato che non
sussiste l’incostituzionalità dell’art. 52,
comma 2, del R.D. n. 2357/1925 in quanto “il
principio di uguaglianza deve ritenersi
nella specie rispettato atteso che, gli
architetti in ragione dello specifico corso
di laurea che sono tenuti a percorrere e
della conseguente professionalità (e
sensibilità) artistica ed estetica che
acquisiscono devono ritenersi più idonei
(rispetto agli ingegneri) a tutelare
l’interesse pubblico connesso alla tutela
dei beni artistici e storici e quindi a
redigere i progetti di restauro e ripristino
degli edifici che si caratterizzano per la
loro valenza culturale”.
---------------
Resta da
esaminare l’ultimo aspetto, più
prettamente connesso con lo specifico
contenuto del provvedimento impugnato con il
ricorso R.G. 10073/1998.
I ricorrenti sostengono, infatti, che la
Soprintendenza avrebbe mal interpretato la
norma dell’art. 52 del R.D. n. 2537/1925 che
recita: "Formano oggetto tanto della
professione di ingegnere quanto di quella di
architetto le opere di edilizia civile,
nonché i rilievi geometrici e le operazioni
di estimo ad esse relative. Tuttavia le
opere di edilizia civile che presentano
rilevante carattere artistico ed il restauro
e il ripristino degli edifici contemplati
dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità
e le belle arti, sono di spettanza della
professione di architetto; ma la parte
tecnica ne può essere compiuta tanto
dall'architetto quanto dall'ingegnere".
La giurisprudenza ha già chiarito che la
terminologia usata dal Legislatore del 1925
deve essere considerata in senso atecnico, e
non può essere riferita alle specifiche
categorie di interventi sul patrimonio
edilizio esistente poi codificate dall'art.
31 della legge 05.08.1978, n. 457 e oggi
recepite nell'art. 3 del D.P.R. 06.06.2001,
n. 380.
L'espressione "restauro e ripristino"
va quindi intesa in senso omnicomprensivo,
come relativa a qualsiasi attività di
recupero di una struttura edilizia
assoggettata a vincolo storico artistico
(cfr. TAR Sardegna Sez. I 24/10/2009 n.
1559).
Inoltre, la norma distingue nettamente tra “le
opere di edilizia civile che presentano
rilevante carattere artistico” ed “il
restauro ed il ripristino degli edifici
contemplati dalla legge 20.06.1909 n. 364”
(ora R.D. n. 1089/1939).
Se non possono sussistere dubbi in merito
all’identificazione della seconda categoria,
trattandosi evidentemente di immobili
sottoposti a vincolo storico-artistico, più
complessa è l’identificazione della prima.
Il Consiglio di Stato, nella decisione della
Sez. VI 30/04/2002 n. 2303, ha chiarito che
la nozione di “opere di edilizia civile
che presentano rilevante interesse artistico”
si riferisce sia alle nuove opere, sia agli
interventi su opere già esistenti
(consistenti quindi in manutenzioni,
ristrutturazioni, ecc.), effettuate su
immobili non assoggettati a vincolo storico
artistico.
Ne consegue che per sussistere la riserva di
competenza degli architetti nella
progettazione di interventi su immobili non
soggetti a vincolo storico artistico, deve
ricorrere il presupposto costituito dal “rilevante”
interesse artistico dell’intervento.
Infine, l’art. 52 attribuisce alla
competenza dell'ingegnere civile la cd.
parte tecnica, cioè «le attività
progettuali e di direzione dei lavori che
riguardano l'edilizia civile vera e propria
...» (Consiglio Stato, sez. VI,
11.09.2006, n. 5239).
Pertanto, secondo l’interpretazione della
norma fornita dalla giurisprudenza, le cui
affermazioni sono condivise dal Collegio, la
riserva di competenza degli architetti
sussiste per ogni tipologia di intervento su
immobili gravati da vincolo storico
artistico ai sensi della L. 1089/1939 (oggi
D.Lgs. 42/2004), ad eccezione delle attività
propriamente tecniche di edilizia civile per
le quali lo stesso art. 52 prevede la
competenza anche degli ingegneri; la
competenza degli architetti, poi, si estende
anche agli interventi realizzati su immobili
non assoggettati a vincolo storico artistico
quando presentino “rilevante interesse
artistico”.
Ne consegue che il provvedimento impugnato,
che riguarda specificatamente i “beni
immobili di interesse artistico-storico”
e che richiede per i progetti di restauro di
detti beni la sottoscrizione di un
architetto, in conformità a quanto previsto
dall’art. 25 del R.D. n. 2537/1925, è immune
dai vizi denunciati.
Il provvedimento della Soprintendenza, nel
richiamare l’art. 52 del R.D. n. 2537/1925,
implicitamente riconosce l’ambito di
competenza degli ingegneri –per quanto
concerne la parte tecnica dell’intervento–
prevedendo, infatti, la disamina dei
progetti cofirmati.
Come ha correttamente rilevato il Ministero
nel provvedimento impugnato con il ricorso
RG. 9247/1999, richiamando il parere del
Consiglio di Stato n. 382/1997, i progetti
di intervento sui beni vincolati devono
essere sottoscritti da un architetto,
potendosi prevedere l’intervento
dell’ingegnere soltanto per ciò che concerne
la sola parte tecnica, ma con la necessaria
ed imprescindibile stretta collaborazione
con l’architetto e dunque mediante la
sottoscrizione congiunta del progetto da
parte dei due professionisti
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 17.10.2011 n. 7997 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Non è autonomamente impugnabile
il silenzio su un'stanza di annullamento in
autotutela.
Il privato non può diffidare
l'amministrazione ad esercitare il potere
discrezionale di annullamento in autotutela
di un proprio provvedimento, al fine di
impugnare l'eventuale silenzio rifiuto
formatosi sull'istanza.
Tale escamotage infatti si traduce in una
inammissibile elusione del termine
decadenziale di impugnazione degli atti
amministrativi atteso che il privato, ormai
decaduto dall'azione di annullamento avverso
il provvedimento lesivo grazie ad un uso
distorto dell'azione avverso il
silenzio-rifiuto, sarebbe sostanzialmente
rimesso in termini semplicemente notificando
un'istanza, volta a sollecitare l'esercizio
dei poteri di autotutela della p.a.
competente (massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 17.10.2011 n. 1859 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
certificato di agibilità delle costruzioni
costituisce un'attestazione da parte dei
competenti uffici tecnici comunali in ordine
alla sussistenza delle condizioni di
sicurezza, igiene, salubrità e risparmio
energetico degli edifici e degli impianti
tecnologici in essi installati, alla stregua
della normativa vigente.
Il certificato di agibilità non assume
<<alcun rilievo sotto il profilo urbanistico
edilizio, assolvendo all'esclusiva funzione
di controllo sanitario-urbanistico rispetto
alla concessione edilizia a monte rilasciata
e con opere concluse>>.
La motivazione addotta dalla P.A. per negare
il rilascio del certificato idi agibilità
(versamento in ritardo dei contributi di
costruzione rispetto a quanto previsto dal
D.P.R. 380/2001 e necessità del previo
versamento della sanzione ivi prevista
ammontante in euro 14.127,19) non risulta
avere alcun fondamento normativo, tanto più
che in caso di mancato pagamento della
sanzione per il ritardato pagamento dei
contributi di costruzione, la P.A. potrà
avviare ogni azione prevista all’uopo
dall’ordinamento.
In base a quanto previsto dagli art. 24 e
25, D.P.R. 06.06.2001 n. 380, il certificato
di agibilità delle costruzioni costituisce
un'attestazione da parte dei competenti
uffici tecnici comunali in ordine alla
sussistenza delle condizioni di sicurezza,
igiene, salubrità e risparmio energetico
degli edifici e degli impianti tecnologici
in essi installati, alla stregua della
normativa vigente.
In particolare, l'art. 25, commi 3-5 del
d.p.r. 06.06.2001 n. 380 prevede un
procedimento di rilascio del certificato di
agibilità, articolato sui seguenti principi
fondamentali:
1) il procedimento deve essere concluso nel
termine di 30 giorni dalla ricezione della
domanda di rilascio del certificato di
agibilità o di 60 giorni, nel caso in cui il
ricorrente si sia avvalso della possibilità
di sostituire con autocertificazione il
parere dell'A.S.L. previsto dall'art. 5, 3°
comma, lett. a), del d.p.r. 380 del 2001;
2) il decorso del termine per la definizione
del procedimento, importa la formazione del
silenzio assenso sull'istanza di rilascio
del certificato di agibilità;
3) il termine del procedimento può essere
interrotto una sola volta dal responsabile
del procedimento, entro quindici giorni
dalla domanda, esclusivamente per la
richiesta di documentazione integrativa, che
non sia già nella disponibilità
dell'amministrazione o che non possa essere
acquisita autonomamente; in tal caso, il
termine per la conclusione del procedimento
ricomincia a decorrere dalla data di
ricezione della documentazione integrativa
A ciò aggiungasi che secondo prevalente
orientamento giurisprudenziale, il
certificato di agibilità non assume <<alcun
rilievo sotto il profilo urbanistico
edilizio, assolvendo all'esclusiva funzione
di controllo sanitario-urbanistico rispetto
alla concessione edilizia a monte rilasciata
e con opere concluse>> (TAR Sardegna
Cagliari, 26.11.2002, n. 1699).
Le considerazioni innanzi esplicitate
consentono quindi al Collegio di ritenere
che la motivazione addotta dalla P.A. per
negare il rilascio del certificato in parola
(versamento in ritardo dei contributi di
costruzione rispetto a quanto previsto dal
D.P.R. 380/2001 e necessità del previo
versamento della sanzione ivi prevista
ammontante in euro 14.127,19) non risulta
avere alcun fondamento normativo, tanto più
che in caso di mancato pagamento della
sanzione per il ritardato pagamento dei
contributi di costruzione, la P.A. potrà
avviare ogni azione prevista all’uopo
dall’ordinamento
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 14.10.2011 n. 1762 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla dichiarazione di
insussistenza delle cause di esclusione ex
art. 38 dlgs. n. 163/2006.
Nel caso in cui il bando di gara, richiede
genericamente una dichiarazione di
insussistenza delle cause di esclusione di
cui all'art. 38, del d.lgs. n. 163/2006,
esso giustifica una valutazione di
gravità/non gravità compiuta dal
concorrente, sicché questi non può essere
escluso per il solo fatto dell'omissione
formale, cioè di non aver dichiarato tutte
le condanne penali o tutte le violazioni
contributive; andrà escluso solo ove la
stazione appaltante ritenga che le condanne
o le violazioni contributive siano gravi e
definitivamente accertate. La dichiarazione
del concorrente, in tal caso, non può essere
ritenuta falsa.
Diverso discorso deve essere fatto quando il
bando sia più preciso e non si limiti a
chiedere una generica dichiarazione di
insussistenza delle cause di esclusione di
cui all'art. 38, ma specifichi che vanno
dichiarate tutte le condanne penali o tutte
le violazioni contributive; in tal caso, il
bando esige una dichiarazione dal contenuto
più ampio e più puntuale rispetto a quanto
prescritto dalla legge, all'evidente fine di
riservare alla stazione appaltante la
valutazione di gravità o meno dell'illecito,
al fine di esclusione. In siffatta ipotesi,
la causa di esclusione non è solo quella,
sostanziale, dell'essere stata commessa una
grave violazione, ma anche quella, formale,
di aver omesso una dichiarazione prescritta
dal bando (TAR Umbria,
sentenza 13.10.2011 n. 330 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla legittimità dell'esclusione
da una gara di un'impresa concorrente, per
accertata irregolarità contributiva, con
riguardo ad un importo eccedente la soglia
stabilita dall'art. 8 del d.m. 24.10.2007.
Alla luce della disciplina introdotta dal
d.m. del Ministero del lavoro 24.10.2007 e
dalla successiva circolare applicativa n.
5/2008, la presenza di un d.u.r.c. negativo
alla data di presentazione della domanda di
partecipazione alla gara, obbliga la
stazione appaltante ad escludere dalla
procedura l'impresa interessata, senza che
si possano effettuare apprezzamenti in
ordine alla gravità degli adempimenti ed
alla definitività dell'accertamento
previdenziale.
Inoltre, la regolarità contributiva deve
essere conservata nel corso di tutto l'arco
temporale impegnato dallo svolgimento della
procedura, mentre non assume rilievo
l'intervento di un adempimento tardivo da
parte dell'impresa.
Pertanto, nel caso di deve ritenersi
legittima la decisione con la quale la
stazione appaltante ha escluso dalla
procedura l'impresa concorrente alla quale
era stata accertata, durante la gara, una
situazione di irregolarità mediante d.u.r.c.
negativo con riguardo ad un importo
eccedente la soglia stabilita dall'art. 8
del citato d.m. 24.10.2007 (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 12.10.2011 n. 5531 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
COMPETENZE PROFESSIONALI:
Lottizzazione e ruolo del notaio.
Pure
essendo il notaio tenuto, quale
professionista, ad una prestazione di mezzi
e comportamento e non di risultato l'opera
di cui è richiesto non si riduce al mero
compito di accertamento della volontà delle
parti e di direzione della compilazione
dell'atto, ma si estende a quelle attività
preparatorie e successive necessarie perché
sia garantita la serietà e certezza
dell'atto da rogarsi ed in particolare la
sua attitudine ad assicurare il
conseguimento dello scopo tipico di esso e
del risultato pratico voluto dalle parti
(tratto da www.lexambiente.it - Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.10.2011 n. 36413). |
APPALTI:
In materia di gare d'appalto,
l'obbligo di rendere la dichiarazione
relativa a condanne penali previsto
dall'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, non
sussiste per le fattispecie c.d.
"depenalizzate".
L'obbligo relativo alla dichiarazione di
condanne penali, previsto dall'art. 38 del
d.lgs. n. 163/2006, non sussiste per le
fattispecie c.d. "depenalizzate",
ossia per reati non più previsti come tali
dall'ordinamento, e che dunque non possono
in alcun modo incidere sui requisiti
generali del partecipante alla gara. L'art.
38, c. 1, lett. c), laddove dispone
l'esclusione dalle gare nei riguardi di
coloro nei cui confronti sia stata
pronunciata sentenza di condanna passata in
giudicato…., presuppone, agli effetti del
giudizio negativo in ordine alla moralità
professionale dei concorrenti, di competenza
della stazione appaltante, l'attuale
permanenza della riconduzione a reato della
fattispecie che deve essere valutata.
Il venir meno dell'ascrizione a reato della
condotta a suo tempo sanzionata, non vincola
a dichiarare le condanne riportate all'epoca
della vigenza della norma penale applicata
dal giudice, posto che le stesse non possono
più formare oggetto della predetta
valutazione in ordine alla moralità
professionale dell'imprenditore. Può,
pertanto, affermarsi come nessun obbligo di
dichiarazione di una condanna per cui sia
intervenuta la depenalizzazione poteva
derivare, nel caso di specie, dalla legge di
gara.
Tale indirizzo interpretativo ha trovato
recente conferma anche sul piano
legislativo, atteso che il D.L. n. 70/2011,
nel modificare l'art. 38, c. 1, lett. c),
del d.lgs. n. 163/2006, ha previsto che "l'esclusione
ed il divieto in ogni caso non operano
quando il reato è stato depenalizzato"
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis,
sentenza 07.10.2011 n. 7788 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
TU Ambiente, disapplicazione
delle norme regionali da verificare. La
disapplicazione immediata segue precisi
criteri temporali.
In presenza di normative
regionali, queste non subiscono immediata
disapplicazione, ma si rimanda al
legislatore regionale la possibilità di
introdurre, nell’arco temporale di dodici
mesi dall’entrata in vigore del TU
Ambientale, opportuni adeguamenti per
renderle compatibili e quindi ancora
applicabili.
Le doglianze di parte istante traggano
spunto dalla pretesa violazione della
normativa di cui al D.lgs. n. 152/2006,
oltre che della normativa regionale di cui
alla L.r. n. 10/1999.
Orbene, va al riguardo osservato come la
denunciata violazione delle norme contenute
nel cd. Codice dell’Ambiente non possa
essere configurata nel caso di specie, in
quanto normativa non suscettibile di
applicazione per ragioni di ordine
temporale, considerata la normativa
transitoria introdotta dal medesimo D.lgs.
n. 152/2006 all’art. 35.
L’assunto da cui partono le argomentazioni
difensive di parte istante non può infatti
essere condiviso, in quanto basato su una
non corretta lettura della norma di cui
all’art. 35 del D.lgs. 152/2006 ed in
particolare sull’individuazione del momento
in cui sarebbero entrate in vigore le nuove
disposizioni in esso contemplate per quanto
riguarda la procedura di VIA.
Invero, come hanno sottolineato le difese
resistenti, proprio per effetto del disposto
contenuto nella norma transitoria di cui al
richiamato art. 35, tenuto conto della
tempistica con la quale la domanda di
valutazione dell’impatto ambientale del
progetto di realizzazione dell’autodromo è
stata presentata alla Regione, nel caso in
esame non poteva ancora trovare applicazione
quanto disciplinato dal Codice
dell’Ambiente, bensì doveva essere
osservata, in quanto ancora applicabile, la
normativa regionale.
Dispone infatti l’art. 35 del D.lgs. n.
152/2006 – “Disposizioni transitorie e
finali”:
“1. Le regioni ove necessario adeguano il
proprio ordinamento alle disposizioni del
presente decreto, entro dodici mesi
dall’entrata in vigore. In mancanza di norme
vigenti regionali trovano diretta
applicazione le norme di cui al presente
decreto.
2. Trascorso il termine di cui al comma 1,
trovano diretta applicazione le disposizioni
del presente decreto, ovvero le disposizioni
regionali vigenti in quanto compatibili.
2-bis …..
2-ter. Le procedure di VAS, VIA ed AIA
avviate precedentemente all’entrata in
vigore del presente decreto sono concluse ai
sensi delle norme vigenti al momento
dell’avvio del procedimento.”
Indubbiamente la richiamata disposizione
indica una precisa scansione temporale, in
base alla quale la nuova disciplina
nazionale subentra a quella previgente, di
matrice regionale, salva l’ipotesi che le
Regioni stesse introducano nelle more una
nuova disciplina che si concili con quella
introdotta dal Decreto Legislativo.
Il termine assegnato per adeguare la
normativa regionale al Codice dell’Ambiente
è stato quindi fissato in dodici mesi dalla
data di entrata in vigore del decreto, sulla
base, quindi, dell’esistenza di normative
regionali, sulle quali intervenire in via di
adeguamento alla disciplina statale.
Soltanto nell’ipotesi in cui non vi fossero
state normative regionali sull’argomento, è
stata prevista, in base alla seconda parte
del primo comma, l’applicazione immediata
delle norme contenute nel decreto.
Se ne deduce, pertanto, il principio per
cui, in presenza di normative regionali,
queste non subiscono immediata
disapplicazione, ma si rimanda al
legislatore regionale la possibilità di
introdurre, nell’arco temporale di dodici
mesi dall’entrata in vigore del decreto,
opportuni adeguamenti per renderle
compatibili e quindi ancora applicabili.
Decorso il suddetto termine, avrebbero
trovato diretta applicazione le disposizioni
del decreto o le norme regionali vigenti
(opportunamente adeguate) con esso
compatibili. In linea di massima, quindi,
l’entrata in vigore del Codice dell’Ambiente
non avrebbe provocato l’immediata
disapplicazione delle norme regionali,
essendo evidente la volontà del Legislatore
nazionale di costruire un sistema
compatibile fra la norma statale e quella
regionale, dando la possibilità alle Regioni
di intervenire sulle eventuali normative
vigenti al fine del loro adeguamento a
quella nazionale.
L’altro profilo che interessa
particolarmente il caso di specie è
l’individuazione di un riferimento temporale
per quanto riguarda la disciplina da
applicare ai procedimenti in corso al
momento dell’entrata in vigore del nuovo
decreto: a tale riguardo il comma 2-ter
espressamente stabilisce che le procedure
già avviate (nel nostro caso di VIA)
precedentemente all’entrata in vigore del
decreto sono concluse seguendo le normative
vigenti al momento dell’avvio del
procedimento.
Al riguardo è peraltro necessario chiarire,
al fine di dare un senso logico alla
disposizione testé richiamata, che detto
riferimento temporale deve necessariamente
tenere conto della possibilità per le
Regioni di adeguare nei dodici mesi
dall’entrata in vigore del decreto le
proprie normative, per cui è evidente che
per “norme vigenti al momento dell’avvio
del procedimento” debbono intendersi le
normative regionali vigenti nelle more del
loro eventuale adeguamento: diversamente, la
disposizione non avrebbe senso, risultando
in contrasto con il termine annuale
assegnato alle Regioni per apportare i
necessari adeguamenti, ferma restando la
vigenza nelle more della normativa
esistente.
Tutto quanto sin qui osservato porta quindi
a concludere nel senso che tutte le
procedure avviate prima che le norme del
decreto entrassero in vigore a pieno regime,
dovevano essere disciplinate secondo la
normativa vigente al momento dell’avvio del
procedimento; ne deriva che correttamente
nel procedimento in oggetto è stata data
applicazione alle norme regionali e non a
quelle contenute nel decreto legislativo.
In buona sostanza, riassumendo quanto testé
evidenziato, considerato che, per espressa
previsione transitoria, l’entrata in vigore
immediata delle norme del decreto è stata
prevista solo in caso di mancanza di
normative regionali, mentre ne è stata
differita l’applicabilità per un anno dalla
data di entrata in vigore, salva ancora una
volta la presenza di disposizioni regionali
con essa compatibili, legittimamente è stata
ritenuta l’applicabilità della legge
regionale veneta (commento tratto da
www.ipsoa.it - TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 07.10.2011
n. 1502 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Omissione di atti d'ufficio. Il
ricorso al giudice legittima la P.A. a non
rispondere.
La diffida ad adempiere del privato non
obbliga alla risposta quando
l'amministrazione abbia adito le vie legali.
Si tratta di una corretta lettura dei
principi applicabili in tema di omissione di
atti di ufficio (articolo 328, comma 2,
c.p.).
Secondo la Cassazione, in presenza di un
rapporto controverso tra la pubblica
amministrazione e il privato, nell’ambito
del quale la prima, a fronte di un
provvedimento sfavorevole del TAR, abbia
fatto ricorso al Consiglio di Stato, risulta
pretestuosa ed irragionevole, in quanto
finalizzata a sollecitare la pubblica
amministrazione ad adottare un provvedimento
in contrasto con una precisa scelta già
adottata e nota all’interessato, la “diffida
ad adempiere” da quest’ultimo
indirizzata al responsabile dell’ufficio
competente finalizzata ad ottenere
l’adozione del provvedimento controverso o a
rispondere per indicare le eventuali ragioni
del ritardo.
La Corte, per l’effetto, ha esclusa la
sussistenza del reato di cui all’articolo
328, comma 2, c.p., ritenendo che il
responsabile dell’ufficio, cui era stato
addebitato di non avere corrisposto alla
diffida, non fosse tenuto a farlo, perché la
pendenza del giudizio amministrativo,
conosciuta dall’interessato, rendeva
insussistenza il dovere di attivarsi, per
ribadire del resto quanto già devoluto alla
cognizione del giudice.
Il principio è ineccepibile.
Come risulta evidente dalla formulazione
della norma incriminatrice, dal punto di
vista materiale, il rapporto tra privato e
pubblica amministrazione è normativamente
costruito, nell'articolo 328, comma 2, c.p.,
sulla "richiesta" che il primo
rivolge al funzionario pubblico,
sollecitandogli, pena la configurabilità del
reato, il compimento di un atto dovuto cui
sia "interessato" ovvero, in
alternativa, l'esplicitazione delle ragioni
giustificative del relativo ritardo.
La richiesta de qua è quindi collegata, da
un lato, ad un apprezzabile interesse del
richiedente e, dall'altro, ad uno dei
possibili sbocchi ipotizzati dalla norma
medesima: definizione della pratica,
spiegazione del ritardo, sanzione penale in
mancanza dell'una o dell'altra, nel termine
legale di giorni trenta.
Ebbene, in questa prospettiva, la Cassazione
attribuisce nessun rilievo ad una richiesta
[“diffida”] che non risponde ad un
reale interesse della parte, ma risulta solo
pretestuosa allorquando il comportamento
della amministrazione sia stato già palesato
in modo in equivoco, con l’attivazione delle
vie legali per contrastare l’adozione del
provvedimento preteso dall’interessato
(commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di
Cassazione penale, sentenza 06.10.2011 n.
36249). |
APPALTI SERVIZI:
Il servizio di igiene urbana,
qualificabile come servizio pubblico locale
diretto a soddisfare i bisogni dell'intera
collettività, non può essere affidato
mediante convenzione diretta ai sensi
dell'art. 5 della l. n. 381/1991.
Le cooperative sociali ai sensi dell'art. 5
della l. n. 381 del 1991, possono stipulare
convenzioni con le Amministrazioni in deroga
alla disciplina sui contratti pubblici, per
la fornitura di beni e servizi diversi da
quelli socio-sanitari ed educativi, purché
tali convenzioni siano finalizzate a creare
opportunità di lavoro per le categorie di
persone svantaggiate di cui all'art. 4 della
stessa legge.
Tuttavia, il servizio di igiene urbana,
qualificabile come servizio pubblico locale
diretto a soddisfare i bisogni dell'intera
collettività, non può essere affidato
mediante convenzione diretta ai sensi
dell'art. 5 della l. n. 381 del 1991, poiché
tale norma attribuisce agli enti pubblici la
facoltà di derogare alla disciplina in
materia di contratti per la "fornitura di
beni e servizi diversi da quelli
socio-sanitari ed educativi" e,
correttamente interpretata, può trovare
applicazione nel solo caso in cui
l'Amministrazione debba acquistare beni e
servizi in proprio favore, secondo lo schema
dell'appalto pubblico di servizi i
forniture, e non anche affidare a terzi lo
svolgimento di servizi pubblici, mediante lo
strumento della concessione (TAR
Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 06.10.2011 n. 1466 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
URBANISTICA:
Incidenza sul carico urbanistico.
L’incidenza
di un intervento edilizio sul carico
urbanistico deve essere considerata con
riferimento all’aspetto strutturale e
funzionale dell’opera ed è rilevabile anche
nel caso di una concreta alterazione della
originaria consistenza sostanziale di un
manufatto in relazione alla volumetria, alla
destinazione o alla effettiva utilizzazione
tale da determinare un mutamento
dell’insieme delle esigenze urbanistiche
valutate in sede di pianificazione con
particolare riferimento agli standard
fissati dal D.M. 1444/1968 (link a
www.lexambiente.it - Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 05.10.2011 n. 36104). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Fanghi da depurazione.
L’articolo
127 D.Lv. 152/2006, nell’attuale stesura, ha
fornito una ulteriore indicazione per meglio
stabilire il momento in cui la disciplina
dei rifiuti deve applicarsi ai fanghi e che
viene individuato nella fine del complessivo
trattamento, il quale è effettuato presso
l’impianto e finalizzato a predisporre i
fanghi medesimi per la destinazione finale
–smaltimento o riutilizzo– in condizioni di
sicurezza per l’ambiente mediante
stabilizzazione, riduzione dei volumi ed
altri processi.
Tale precisazione determina, come ulteriore
conseguenza, l’applicabilità della
disciplina sui rifiuti in tutti i casi in
cui il trattamento non venga effettuato o
venga effettuato in luogo diverso
dall’impianto di depurazione o in modo
incompleto, inappropriato o fittizio (link a
www.lexambiente.it - Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 05.10.2011 n. 36096). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
conferenza di servizi è un modello
procedimentale che consente
all’amministrazione procedente di acquisire
in un unico contesto i pareri delle altre
amministrazioni potatrici di interessi
pubblici interferenti con il proprio.
Essa si sostanzia, dunque, in uno strumento
di semplificazione che fa applicazione di
una regola di comune esperienza, secondo la
quale una decisione può essere assunta più
celermente e più ponderatamente quando,
invece di sentire tutti i soggetti
interessati in momenti diversi, si svolge un
confronto contestuale tra tutti gli
interlocutori.
Stabilisce invero l’art. 14, comma 2, della
legge 07.08.1990 n. 241 che “la conferenza
di servizi è sempre indetta quando
l'amministrazione procedente deve acquisire
intese, concerti, nulla osta o assensi
comunque denominati di altre amministrazioni
pubbliche e non li ottenga, entro trenta
giorni dalla ricezione, da parte
dell'amministrazione competente, della
relativa richiesta”.
La norma disciplina la cosiddetta
conferenza di servizi decisoria, che si
ha quando l’amministrazione competente ad
emettere il provvedimento finale deve
necessariamente ottenere l’assenso di altre
amministrazioni; ed impone al ricorrere
della fattispecie in essa prevista,
l’obbligo per l’amministrazione procedente
di avvalersi dello strumento di
semplificazione in esame.
Alla conferenza di servizi decisoria si
contrappone la cosiddetta conferenza di
servizi istruttoria di cui al primo
comma dello stesso art. 14, modello che
ricorre allorquando l’autorità procedente,
pur non essendovi tenuta, decide di
acquisire il parere di altre
amministrazioni.
In questo secondo caso il ricorso alla
conferenza di servizi è sempre facoltativo.
Altra ipotesi di scelta facoltativa è quella
prevista dalla seconda parte del medesimo
comma secondo dell’art. 14 che si occupa
della conferenza di servizi decisoria. In
base a questa disposizione “la conferenza
può essere altresì indetta quando (…) è
intervenuto il dissenso di una o più
amministrazioni interpellate…”.
Anche in questa ipotesi dunque, come in
quello di conferenza di servizi istruttoria,
l’utilizzo del termine “può” da parte del
legislatore lascia intendere che l’organo
procedente non è tenuto a far ricorso al
modello procedimentale in esame.
Cionondimeno deve ritenersi che anche nelle
due fattispecie da ultimo citate il ricorso
alla conferenza di servizi costituisca la
scelta naturale dell’organo procedente,
posto che deve comunque privilegiarsi la
soluzione che assicuri decisioni più
ponderate assunte in tempi più contenuti.
---------------
La funzione della conferenza
di servizi preliminare è quella di
permettere alle amministrazioni interessate
di esprimersi quando la progettazione è
ancora in una fase embrionale, quando cioè
le decisioni sulle caratteristiche
allocative, strutturali e funzionali
dell’opera da realizzare non sono state
ancora definitivamente assunte e possono,
per questo motivo, essere ancora riviste in
modo da renderle conformi o, perlomeno, non
configgenti con gli interessi pubblici
portati da amministrazioni diverse da quella
procedente.
Attraverso la conferenza preliminare,
quest’ultima può dunque raccogliere in via
preventiva le osservazioni che pervengono
dalle altre autorità, procedere alla
redazione di un progetto definitivo conforme
alle osservazioni stesse, ed assicurarsi
conseguentemente buone probabilità di
approvazione del medesimo in sede di
conferenza di servizi decisoria.
La funzione della conferenza di servizi
preliminare è dunque quella di soddisfare un
interesse esclusivo dell’amministrazione
procedente (quello di assicurarsi
l’approvazione del progetto definitivo);
mentre l’interesse delle altre
amministrazioni è comunque salvaguardato
dalla possibilità loro riservata di
esprimersi sul progetto definivo in sede di
conferenza di servizi decisoria o, in
mancanza, a seguito di separata richiesta di
assenso. Per questa ragione, come osservato
in dottrina, la convocazione della
conferenza di servizi preliminare
costituisce per l’amministrazione procedente
un onere e non già un obbligo; e la
decisione di non darvi corso per procedere
direttamente alla convocazione della
conferenza di servizi decisoria non può
costituire di per sé causa di illegittimità
del provvedimento finale adottato.
---------------
Stabilisce l’art.
14-ter, comma 6-bis, della legge n. 241/1990
che, all'esito dei lavori della conferenza
di servizi, l’amministrazione procedente
adotta la determinazione motivata di
conclusione del procedimento “…valutate le
specifiche risultanze della conferenza e
tenendo conto delle posizioni prevalenti
espresse in quella sede…”.
Tale disposizione è stata introdotta
dall’art. 10 della legge 11.02.2005 n. 15 e
sostituisce la previsione contenuta
nell’abrogato comma secondo dell’art.
14-quater della medesima legge n. 241/1990,
il quale stabiliva che “se una o più
amministrazioni hanno espresso nell'ambito
della conferenza il proprio dissenso sulla
proposta dell'amministrazione procedente,
quest'ultima (…) assume comunque la
determinazione di conclusione del
procedimento sulla base della maggioranza
delle posizioni espresse…”.
La novella recata dalla legge n. 15/2005 non
si è limitata ad introdurre una
modificazione letterale al testo delle
disposizioni legislative, ma ha immesso
nell’ordinamento una norma di contenuto
sostanzialmente innovativo, in base alla
quale la determinazione finale assunta
dall’amministrazione procedente non può più
basarsi sul dato squisitamente numerico
afferente alla maggioranza delle posizioni
espresse in sede di conferenza, ma deve
basarsi su una valutazione articolata che
tenga conto della natura degli interessi
fatti valere delle amministrazioni
intervenute.
Da ciò discende che il provvedimento
conclusivo può sì essere assunto anche in
mancanza di assenso unanime; tuttavia, in
tal caso, la determinazione conclusiva
adottata all'esito dei lavori della
conferenza deve considerarsi assoggettata ad
un obbligo di autonoma e specifica
motivazione che tenga conto delle posizioni
emerse e, soprattutto, di quelle espresse da
amministrazioni portatrici di interessi
particolarmente rilevanti.
Come noto la conferenza di servizi è un
modello procedimentale che consente
all’amministrazione procedente di acquisire
in un unico contesto i pareri delle altre
amministrazioni potatrici di interessi
pubblici interferenti con il proprio.
Essa si sostanzia, dunque, in uno strumento
di semplificazione che fa applicazione di
una regola di comune esperienza, secondo la
quale una decisione può essere assunta più
celermente e più ponderatamente quando,
invece di sentire tutti i soggetti
interessati in momenti diversi, si svolge un
confronto contestuale tra tutti gli
interlocutori.
Proprio per tali ragioni, il nostro
legislatore ha inteso promuovere il ricorso
a tale modello procedimentale.
Stabilisce invero l’art. 14, comma 2, della
legge 07.08.1990 n. 241, così come
modificato dall’art. 9 della legge
24.11.2000 n. 340, che “la conferenza di
servizi è sempre indetta quando
l'amministrazione procedente deve acquisire
intese, concerti, nulla osta o assensi
comunque denominati di altre amministrazioni
pubbliche e non li ottenga, entro trenta
giorni dalla ricezione, da parte
dell'amministrazione competente, della
relativa richiesta”.
La norma disciplina la cosiddetta conferenza
di servizi decisoria, che si ha quando
l’amministrazione competente ad emettere il
provvedimento finale deve necessariamente
ottenere l’assenso di altre amministrazioni;
ed impone al ricorrere della fattispecie in
essa prevista, l’obbligo per
l’amministrazione procedente di avvalersi
dello strumento di semplificazione in esame.
Alla conferenza di servizi decisoria si
contrappone la cosiddetta conferenza di
servizi istruttoria di cui al primo comma
dello stesso art. 14, modello che ricorre
allorquando l’autorità procedente, pur non
essendovi tenuta, decide di acquisire il
parere di altre amministrazioni.
In questo secondo caso il ricorso alla
conferenza di servizi è sempre facoltativo
(stabilisce infatti il primo comma dell’art.
14 che qualora sia opportuno effettuare un
esame contestuale di vari interessi pubblici
coinvolti in un procedimento amministrativo,
l'amministrazione procedente può indire una
conferenza di servizi).
Altra ipotesi di scelta facoltativa è quella
prevista dalla seconda parte del medesimo
comma secondo dell’art. 14 che, come visto,
si occupa della conferenza di servizi
decisoria. In base a questa disposizione “la
conferenza può essere altresì indetta quando
(…) è intervenuto il dissenso di una o più
amministrazioni interpellate…”.
Anche in questa ipotesi dunque, come in
quello di conferenza di servizi istruttoria,
l’utilizzo del termine “può” da parte
del legislatore lascia intendere che
l’organo procedente non è tenuto a far
ricorso al modello procedimentale in esame.
Cionondimeno deve ritenersi che anche nelle
due fattispecie da ultimo citate, in
ossequio al principio di buon andamento
dell’attività amministrativa sancito
dall’art. 97 della Costituzione, il ricorso
alla conferenza di servizi costituisca la
scelta naturale dell’organo procedente,
posto che deve comunque privilegiarsi la
soluzione che assicuri decisioni più
ponderate assunte in tempi più contenuti.
E’ vero che secondo l’opinione dominante in
dottrina, nei casi da ultimo esaminati, non
sussiste un vero e proprio obbligo di indire
la conferenza di servizi per
l’amministrazione competente, alla quale è
anzi riservata un’ampia valutazione che
impinge al merito amministrativo, per questa
ragione non sindacabile dall’autorità
giudiziaria.
Tuttavia deve ritenersi anche che solo in
caso di esplicito divieto normativo, ovvero
al ricorrere di circostanze particolari che
sconsiglino il ricorso alla conferenza di
servizi, l’amministrazione procedente sia
tenuta ad acquisire separatamente gli atti
di assenso da parte delle altre
amministrazioni interessate.
---------------
Con una seconda doglianza, la ricorrente
lamenta la mancata convocazione della
conferenza di servizi preliminare di cui al
comma secondo dell’art. 14-bis della legge
n. 241/1990. Si deduce in particolare che
l’autorità procedente non ha sottoposto
all’esame delle altre amministrazioni
interessate il progetto preliminare
dell’opera, obbligandole ad esaminare
direttamente il progetto definitivo della
medesima.
Stabilisce la norma da ultimo citata che “nelle
procedure di realizzazione di opere
pubbliche e di interesse pubblico, la
conferenza di servizi si esprime sul
progetto preliminare al fine di indicare
quali siano le condizioni per ottenere, sul
progetto definitivo, le intese, i pareri, le
concessioni, le autorizzazioni, le licenze,
i nulla osta e gli assensi, comunque
denominati, richiesti dalla normativa
vigente”.
La funzione della conferenza di servizi
preliminare è quella di permettere alle
amministrazioni interessate di esprimersi
quando la progettazione è ancora in una fase
embrionale, quando cioè le decisioni sulle
caratteristiche allocative, strutturali e
funzionali dell’opera da realizzare non sono
state ancora definitivamente assunte e
possono, per questo motivo, essere ancora
riviste in modo da renderle conformi o,
perlomeno, non configgenti con gli interessi
pubblici portati da amministrazioni diverse
da quella procedente.
Attraverso la conferenza preliminare,
quest’ultima può dunque raccogliere in via
preventiva le osservazioni che pervengono
dalle altre autorità, procedere alla
redazione di un progetto definitivo conforme
alle osservazioni stesse, ed assicurarsi
conseguentemente buone probabilità di
approvazione del medesimo in sede di
conferenza di servizi decisoria (in
proposito si osserva che, in base al comma 4
dell’art. 14-bis, le indicazioni fornite
dalle amministrazioni interessate possono
essere motivatamente modificate o integrate
in sede di conferenza di servizi decisoria “…solo
in presenza di significativi elementi emersi
nelle fasi successive del procedimento,
anche a seguito delle osservazioni dei
privati sul progetto definitivo”).
La funzione della conferenza di servizi
preliminare è dunque quella di soddisfare un
interesse esclusivo dell’amministrazione
procedente (quello di assicurarsi
l’approvazione del progetto definitivo);
mentre l’interesse delle altre
amministrazioni è comunque salvaguardato
dalla possibilità loro riservata di
esprimersi sul progetto definivo in sede di
conferenza di servizi decisoria o, in
mancanza, a seguito di separata richiesta di
assenso. Per questa ragione, come osservato
in dottrina, la convocazione della
conferenza di servizi preliminare
costituisce per l’amministrazione procedente
un onere e non già un obbligo; e la
decisione di non darvi corso per procedere
direttamente alla convocazione della
conferenza di servizi decisoria non può
costituire di per sé causa di illegittimità
del provvedimento finale adottato.
---------------
Stabilisce
l’art. 14-ter, comma 6-bis, della legge n.
241/1990 che, all'esito dei lavori della
conferenza di servizi, l’amministrazione
procedente adotta la determinazione motivata
di conclusione del procedimento “…valutate
le specifiche risultanze della conferenza e
tenendo conto delle posizioni prevalenti
espresse in quella sede…”.
Tale disposizione è stata introdotta
dall’art. 10 della legge 11.02.2005 n. 15 e
sostituisce la previsione contenuta
nell’abrogato comma secondo dell’art.
14-quater della medesima legge n. 241/1990,
il quale stabiliva che “se una o più
amministrazioni hanno espresso nell'ambito
della conferenza il proprio dissenso sulla
proposta dell'amministrazione procedente,
quest'ultima (…) assume comunque la
determinazione di conclusione del
procedimento sulla base della maggioranza
delle posizioni espresse…”.
La novella recata dalla legge n. 15/2005 non
si è limitata ad introdurre una
modificazione letterale al testo delle
disposizioni legislative, ma ha immesso
nell’ordinamento una norma di contenuto
sostanzialmente innovativo, in base alla
quale la determinazione finale assunta
dall’amministrazione procedente non può più
basarsi sul dato squisitamente numerico
afferente alla maggioranza delle posizioni
espresse in sede di conferenza, ma deve
basarsi su una valutazione articolata che
tenga conto della natura degli interessi
fatti valere delle amministrazioni
intervenute.
Da ciò discende che il provvedimento
conclusivo può sì essere assunto anche in
mancanza di assenso unanime; tuttavia, in
tal caso, la determinazione conclusiva
adottata all'esito dei lavori della
conferenza deve considerarsi assoggettata ad
un obbligo di autonoma e specifica
motivazione che tenga conto delle posizioni
emerse e, soprattutto, di quelle espresse da
amministrazioni portatrici di interessi
particolarmente rilevanti (cfr. Consiglio
Stato, sez. VI, 03.03.2006 n. 1023; TAR
Toscana Firenze, sez. II, 19.05.2010 n.
1523; TAR Liguria Genova, sez. I, 11.07.2007
n. 1376)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 05.10.2011 n. 2372 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza ha affermato, anche se con
più specifico riferimento alla rinuncia al
condono, che siffatto istituto è “volto alla
celere definizione di illeciti aventi
ordinariamente natura non solo
amministrativa ma anche penale, sicché
l’eventuale rinuncia allo stesso, magari
dopo il decorso di un lungo termine dalla
presentazione della relativa istanza,
rischierebbe di assicurare all’autore
dell’opera abusiva una sostanziale immunità
penale, sfruttando ad esempio l’eventuale
prescrizione del reato edilizio, oltre a
garantirgli il recupero pecuniario delle
somme già versate; mentre l’Amministrazione
comunale potrebbe tutt’al più adottare un
provvedimento di demolizione, contro il
quale l’interessato potrebbe però proporre
impugnazione davanti al giudice
amministrativo, rinviando così
indefinitamente la definizione dell’abuso,
con grave pregiudizio per la certezza dei
rapporti giuridici”.
Oltretutto, non sarebbe chiara la sorte
dell’avvenuto condono dell’opera nel caso di
rigetto del ricorso originario, potendo a
questo punto l’interessato decidere a sua
discrezione di avvantaggiarsi dei benefici
discendenti dal condono, determinando
l’inutilità della pronuncia giurisdizionale.
Ciò potrebbe concretare in definitiva un
abuso del diritto, considerato che “il
divieto di tenere condotte contrarie a buona
fede ha un ancoraggio costituzionale nel
dettato dell’art. 2 Cost., costituisce
canone di valutazione anche delle condotte
processuali ed opera anche nella fase
patologica del rapporto”.
Quanto al primo aspetto, ossia alla
presentazione della domanda di condono in
via cautelativa, in base alla convinzione
dei ricorrenti della non abusività delle
opere, va precisato che dal condono derivano
effetti tipici, prodotti direttamente dalla
legge, senza che sugli stessi possa influire
la volontà del soggetto cui è contestato
l’abuso e che reputa di avvalersi
dell’istituto, non potendo lo stesso
modificare i caratteri e gli effetti di un
istituto regolato in toto dalla legge.
Pertanto, nessuna condizione può ritenersi
apponibile alla domanda di condono e se
questa risulta apposta è tamquam non
esset (vitiatur sed non vitiat).
Del resto, la giurisprudenza ha affermato,
anche se con più specifico riferimento alla
rinuncia al condono, che siffatto istituto è
“volto alla celere definizione di
illeciti aventi ordinariamente natura non
solo amministrativa ma anche penale (cfr.
sul punto art. 38 della legge 47/1985),
sicché l’eventuale rinuncia allo stesso,
magari dopo il decorso di un lungo termine
dalla presentazione della relativa istanza,
rischierebbe di assicurare all’autore
dell’opera abusiva una sostanziale immunità
penale, sfruttando ad esempio l’eventuale
prescrizione del reato edilizio, oltre a
garantirgli il recupero pecuniario delle
somme già versate; mentre l’Amministrazione
comunale potrebbe tutt’al più adottare un
provvedimento di demolizione, contro il
quale l’interessato potrebbe però proporre
impugnazione davanti al giudice
amministrativo, rinviando così
indefinitamente la definizione dell’abuso,
con grave pregiudizio per la certezza dei
rapporti giuridici” (TAR Lombardia,
Milano, II, 18.05.2010, n. 1551).
Oltretutto, non sarebbe chiara la sorte
dell’avvenuto condono dell’opera nel caso di
rigetto del ricorso originario, potendo a
questo punto l’interessato decidere a sua
discrezione di avvantaggiarsi dei benefici
discendenti dal condono, determinando
l’inutilità della pronuncia giurisdizionale.
Ciò potrebbe concretare in definitiva un
abuso del diritto, considerato che “il
divieto di tenere condotte contrarie a buona
fede ha un ancoraggio costituzionale nel
dettato dell’art. 2 Cost., costituisce
canone di valutazione anche delle condotte
processuali ed opera anche nella fase
patologica del rapporto” (Consiglio di
Stato, Ad. plen., 23.03.2011, n. 3)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 05.10.2011 n. 2352 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Un
onere di immediata impugnativa, in
osservanza del termine decadenziale a
partire dalla pubblicazione dello strumento
pianificatorio, [non si pone] con riguardo
alle prescrizioni di dettaglio contenute
nelle norme di natura regolamentare, che
sono suscettibili di ripetuta applicazione
ed esplicano effetto lesivo nel momento in
cui è adottato l’atto applicativo e possono
essere, quindi, oggetto di censura in
occasione della sua impugnazione”.
Pertanto, le regole che più in dettaglio
disciplinano l’esercizio dell’attività
edificatoria, generalmente contenute nelle
norme tecniche di attuazione del piano, come
nel caso di specie, rientrano in questa
categoria e vanno impugnate unitamente agli
atti applicativi delle stesse.
Come ribadito da recente giurisprudenza “un
onere di immediata impugnativa, in
osservanza del termine decadenziale a
partire dalla pubblicazione dello strumento
pianificatorio, [non si pone] con riguardo
alle prescrizioni di dettaglio contenute
nelle norme di natura regolamentare, che
sono suscettibili di ripetuta applicazione
ed esplicano effetto lesivo nel momento in
cui è adottato l’atto applicativo e possono
essere, quindi, oggetto di censura in
occasione della sua impugnazione”
(Consiglio di Stato, IV, 28.03.2011, n.
1868).
Pertanto, le regole che più in dettaglio
disciplinano l’esercizio dell’attività
edificatoria, generalmente contenute nelle
norme tecniche di attuazione del piano, come
nel caso di specie, rientrano in questa
categoria e vanno impugnate unitamente agli
atti applicativi delle stesse
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 05.10.2011 n. 2348 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Inizio lavori e decadenza
permesso di costruire.
La mera
esecuzione di lavori di sbancamento è, di
per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il
presupposto dell'effettivo "inizio dei
lavori" entro il termine di un anno dal
rilascio del permesso di costruire a pena di
decadenza del titolo abilitativo, essendo
necessario, al fine di escludere la
configurabilità del reato di costruzione
abusiva, che lo sbancamento sia accompagnato
dalla compiuta organizzazione del cantiere e
da altri indizi idonei a confermare
l'effettivo intendimento del titolare del
permesso di costruire di realizzare l'opera
assentita (tratto da www.lexambiente.it -
Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.10.2011 n. 35900). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di una strada
sterrata.
La
realizzazione di una strada sterrata in
ambito boschivo integra una trasformazione
urbanistica del territorio, per la quale è
necessario il rilascio di idonei titoli
abilitativi, sia sotto il profilo
urbanistico, sia sotto quello paesaggistico
(tratto da www.lexambiente.it - Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.10.2011 n. 35857). |
EDILIZIA PRIVATA: In
sede di esame del progetto per il quale si è
richiesta la concessione edilizia,
l’amministrazione, facendo “corretta
applicazione dei poteri di valutazione del
progetto” ad essa attribuiti dal complesso
delle norme di natura urbanistico–edilizia,
non ha negato lo ius aedificandi, né ha
fondato il diniego su una non corrispondenza
del progetto medesimo allo strumento
urbanistico attuativo, ma ha esclusivamente
indicato “i profili progettuali da
modificare per consentire la corretta
ambientazione dell’intervento edilizio e la
migliore distribuzione del verde pubblico e
dei parcheggi”.
Da quanto sin qui esposto, consegue che, per
un verso, non appare privo di motivazione il
diniego opposto dal Comune, ovvero privo di
fondamento normativo, così come esso non si
pone, come si è già affermato, né in
violazione di giudicato né in contrasto con
il p.u.c., attuando semmai un coordinamento
tra quanto previsto dallo strumento
attuativo e le esigenze espresse dalle norme
sopra richiamate; esigenze che non appaiono
né meramente estetiche, né irragionevoli.
Il Collegio osserva innanzi tutto che il
diniego di concessione edilizia, derivante
dall’applicazione di talune norme del
regolamento edilizio, non pone affatto in
dubbio la sussistenza dello ius
aedificandi sui terreni di via
dell’Aeroporto, né la concreta potenzialità
edificatoria del suolo.
In definitiva, l’amministrazione non ha
negato per “questioni prettamente
estetiche” l’esistenza dello ius
aedificandi, ma ha fatto legittima
applicazione di norme del regolamento
edilizio (ed ha agito sulla base del parere
reso dalla commissione edilizia), per negare
allo stato il titolo autorizzatorio
edilizio, individuando quelle puntuali
prescrizioni che –fermo lo ius
aedificandi– consentono al progetto di
aderire a quegli interessi pubblici dei
quali le norme del regolamento edilizio sono
espressione.
Ed infatti, quanto al contrasto con l’art.
67 del regolamento edilizio (recante
prescrizioni per decoro estetico-ambientale
e della sicurezza) si è rilevato la non
corrispondenza del progetto con la tipologia
prevista “a residence” ed inoltre che
la collocazione in prossimità alla sede
aeroportuale di due dei tre corpi che
costituiscono l'organismo edilizio "A"
impone una progettazione planivolumetrica
che accorpi l'organismo edilizio "A" in un
solo volume e la realizzazione di
un’opportuna barriera fonoassorbente
eseguita essenzialmente con terra di riporto
e soprastante verde (terrapieno). Si è
inoltre suggerito (con riferimento agli
artt. 15 e 16 NTA) che i parcheggi siano per
quanto possibile previsti in fregio e in
adiacenza all’accesso pubblico.
In definitiva, in sede di esame del progetto
per il quale si è richiesta la concessione
edilizia, l’amministrazione, facendo -come
condivisibilmrente sostiene la sentenza
appellata- “corretta applicazione dei
poteri di valutazione del progetto” ad
essa attribuiti dal complesso delle norme di
natura urbanistico–edilizia, non ha negato
lo ius aedificandi, né ha fondato il
diniego su una non corrispondenza del
progetto medesimo allo strumento urbanistico
attuativo, ma ha esclusivamente indicato
–così come evidenziato dal giudice di I
grado– “i profili progettuali da
modificare per consentire la corretta
ambientazione dell’intervento edilizio e la
migliore distribuzione del verde pubblico e
dei parcheggi”.
Da quanto sin qui esposto, consegue che, per
un verso, non appare privo di motivazione il
diniego opposto dal Comune, ovvero privo di
fondamento normativo, così come esso non si
pone, come si è già affermato, né in
violazione di giudicato né in contrasto con
il p.u.c., attuando semmai un coordinamento
tra quanto previsto dallo strumento
attuativo e le esigenze espresse dalle norme
sopra richiamate; esigenze che non appaiono
né meramente estetiche, né irragionevoli (né
gli appellanti deducono osservazioni “di
merito” in ordine al contenuto delle
prescrizioni)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.10.2011 n. 5443 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Bar,
ordinanza del sindaco per la riduzione degli
orari.
Il sindaco può disporre con ordinanza
contingibile e urgente la riduzione
dell'orario di apertura di un bar a tutela
della quiete pubblica.
Lo ha affermato il TAR Emilia Romagna-Parma,
Sez. I, con la
sentenza
04.10.2011 n. 330.
La vicenda giudiziaria prende spunto dal
ricorso del titolare di un esercizio
pubblico, nella specie di un bar, avverso
l'ordinanza sindacale contingibile e urgente
con la quale il sindaco gli ingiungeva di
anticipare fino al 30.09.2010 la
chiusura alle ore 20 anziché alle 23.
Il provvedimento era motivato con la
circostanza che l'esercizio era oggetto di
numerose segnalazioni da parte dei cittadini
residenti nell'area che lamentavano
schiamazzi, assembramenti chiassosi, rumori
molesti, presenza di attività di
prostituzione, spaccio di sostanze
stupefacenti, presenza di persone ubriache.
Il ricorrente deduceva la falsa applicazione
dell'art. 54 del Tuel e del decreto del
ministro dell'Interno del 05.08.2008, artt. 1
e 2, e la violazione dei principi di
ragionevolezza e proporzionalità, in quanto
nel provvedimento impugnato non si
desumevano le ragioni d'urgenza a cui è,
invece, riconnesso dalla legge il potere di
cui all'art. 54 del dlgs 267/2000.
Il Collegio ha respinto le ragioni del
ricorrente sottolineando che l'art. 54 del
Tuel, seppure la sentenza 04-07.04.2011,
n. 115 della Corte Costituzionale lo ha
ritenuto illegittimo nella parte in cui
comprende la locuzione «anche» prima delle
parole «contingibili e urgenti», è da
interpretarsi nel senso che il requisito
dell'urgenza è riferito al pericolo in sé e
non al fattore causale del rischio, per cui,
anche quando il potere sindacale è
esercitato per risolvere, o anche per
iniziare ad affrontare, una situazione di
pericolo per l'incolumità pubblica, anche se
non nell'immediatezza temporale del fattore
che ha provocato il rischio, tuttavia, il
potere è esercitato entro i limiti della
citata disposizione.
«La ratio, infatti», ha concluso la
sentenza, «è di assicurare un elevato
grado di tutela alla sicurezza urbana, il
che implica che la chiusura anticipata non
deve necessariamente essere assistita dalla
riprova della responsabilità, in senso
soggettivo, del gestore del bar nell'avere
causato la situazione di pericolo e di
insicurezza, ma è sufficiente che
l'esercizio commerciale sia un luogo di
abituale frequentazione e ritrovo,
soprattutto nelle ore notturne, di soggetti
dediti ad attività che arrecano disturbo
alla pubblica quiete, alla pubblica
sicurezza e incolumità»
(articolo ItaliaOggi del 22.10.2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze tra edifici.
Va ribadito
il carattere inderogabile delle disposizioni
di legge sulle distanze tra gli edifici
(tratto da www.lexambiente.it - Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.10.2011 n. 35749). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Decespugliamento.
Anche il
decespugliamento, il disboscamento, il
taglio o la distruzione di ceppaie, al di
fuori di qualsiasi pratica colturale ed in
assenza di autorizzazione o in difformità da
essa, configura il reato di cui all'articolo
181 del decreto legislativo n 42 del 2004
(tratto da www.lexambiente.it - Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.09.2011 n. 35308). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pertinenze e volumi interrati.
Deve
escludersi l'applicabilità del regime delle
pertinenze urbanistiche ove l'opera edilizia
accessoria acceda ad un manufatto principale
abusivo. I locali interrati debbono essere
computati a fini volumetrici (tratto da
www.lexambiente.it - Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 29.09.2011 n. 35283). |
EDILIZIA PRIVATA: Energie
rinnovabili anche senza l'ok dei singoli
comuni.
SILENZIO ASSENSO - Il parere non dato alla
conferenza dei servizi è considerato dai
giudici equiparabile al consenso espresso.
La realizzazione di un impianto per la
produzione di energia elettrica da fonte
rinnovabile non può essere condizionata
all'assenso o al gradimento preventivo dei
comuni sul cui territorio l'impianto verrà
costruito.
La decisione del TAR Puglia-Lecce (Sez. I,
sentenza 29.09.2011 n. 1670) apre la strada alla
semplificazione amministrativa, o per lo
meno dei rapporti istituzionali all'interno
della conferenza dei servizi nell'ambito
dell'impiantistica per le fonti rinnovabili.
La questione affrontata dai giudici
salentini riguardava la controversia
innescata dal comune di Ginosa circa
l'Autorizzazione unica per un generatore di
energia elettrica da «biomasse di legno
vergine» per una potenza di 5 MW. La prima
conferenza dei servizi si era chiusa con il
via libera per la realizzazione, pur in
assenza del parere del piccolo comune.
Conferenza che venne poi riaperta per la
verifica dei requisiti sulla (nel frattempo
intervenuta a livello legislativo regionale)
"filiera corta", cioè il 40% del fabbisogno
di biomasse ottenuto nel raggio di 70 km
dall'impianto. In questa seconda sede Ginosa
aveva espresso parere negativo, circostanza
che non aveva impedito il rilascio
dell'autorizzazione, e quindi il conseguente
ricorso del municipio contrario.
I giudici amministrativi però hanno statuito
che «il procedimento per la realizzazione di
impianti di energia rinnovabile, o comunque
l'esito favorevole dell'istanza, non può
essere in alcun modo condizionato da
qualsivoglia atto di assenso o di gradimento
da parte dei comuni il cui territorio è
interessato dal progetto. In altre parole
non si può ritenere indispensabile a tal
fine la deliberazione favorevole del
Consiglio comunale», in accordo, tra
l'altro, sia con la giurisprudenza di merito
(Tar Lazio, Prima sezione di Latina,
1343/2009) sia con la sentenza 124/2010
della Corte Costituzionale.
Quindi, «in
assenza di una efficacia condizionante di
tale eventuale deliberazione, può dunque
ritenersi pacificamente applicabile
l'articolo 14-ter, comma 7, della legge n.
241 del 1990, a norma del quale "si
considera acquisito l'assenso
dell'amministrazione … il cui
rappresentante, all'esito dei lavori della
conferenza, non abbia espresso
definitivamente la volontà
dell'amministrazione rappresentata"»
(articolo
Il Sole 24 Ore del 20.10.2010). |
VARI: Autovelox
in qualsiasi strada.
E maglie larghe per la regolarità del
verbale spedito a casa.
La polizia municipale può usare l'autovelox
in qualsiasi strada posizionata all'interno
del confine comunale eccetto le autostrade.
E per la regolarità del verbale spedito a
casa è sufficiente evidenziare nella multa
che è stato utilizzato uno strumento che
consente l'accertamento contestualmente al
passaggio dell'automobilista negligente.
Lo
ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II
civile, con la sentenza 27.09.2011 n.
19755.
Il comune di Stignano si è visto annullare
numerose multe accertate dai vigili con
l'uso di un misuratore elettronico della
velocità, senza contestazione immediata.
Contro questi annullamenti seriali,
confermati dal tribunale di Locri, il primo
cittadino ha intrapreso una decisa
determinazione inondando gli ermellini di
ricorsi. Il risultato finale è stato
apprezzabile per le economie del piccolo
comune calabrese che ha vinto praticamente
tutti i ricorsi. Ma soprattutto la corte ha
assunto chiare determinazioni sull'impiego
dei temuti autovelox con pattuglia, senza
arresto del veicolo.
Innanzitutto i controlli di velocità possono
essere effettuati su qualsiasi strada e non
solo nei tratti individuati con decreto del
prefetto. Nel caso di mancata contestazione
immediata, prosegue la corte, la multa è
valida se viene evidenziato chiaramente nel
verbale una delle giustificazioni previste
dalla normativa come per l'esempio l'uso di
un autovelox tradizionale che permette di
effettuare l'accertamento solo al momento
del passaggio del mezzo davanti alla
pattuglia.
E non spetta certamente al giudice di pace
sindacare in questo caso sull'organizzazione
del servizio e sulla possibilità di attivare
una doppia pattuglia. Circa gli strumenti
autovelox il collegio ha ribadito che
l'omologazione dei misuratori riguarda il
modello e non il singolo esemplare. Il
termine di validità dell'omologazione
influenza solo la commercializzazione
dell'autovelox ma non anche il suo impiego
che, fino a prova contraria, è confermato
dalla legge anche se nel verbale non viene
indicato nulla sul corretto funzionamento
dello strumento.
Nessun limite territoriale infine per gli
accertamenti dei vigili, conclude la
sentenza, che in qualità di operatori di
polizia stradale possono elevare le multe su
qualsiasi tratto di strada situata nel
territorio comunale, escluse le autostrade
dove può operare solo la polizia di stato
(articolo ItaliaOggi del 20.10.2010). |
EDILIZIA PRIVATA: E’
condivisa dal Collegio l’interpretazione
secondo cui lo speciale regime di gratuità
della concessione edilizia richiede il
concorso di due requisiti, l'uno di
carattere soggettivo e l'altro di carattere
oggettivo:
1. il primo consiste nell'esecuzione delle
opere da parte di enti "istituzionalmente
competenti", vale a dire da parte di
soggetti ai quali la realizzazione
dell'opera sia demandata in via
istituzionale;
2. il secondo, dall'ascrivibilità del
manufatto oggetto di concessione edilizia
alla categoria delle opere pubbliche o di
interesse generale.
Limitatamente al requisito sub 2) si è
rilevato che, ferma la preliminare
interpretazione in merito all'espressione
“opere pubbliche o di interesse generale”
sostanzialmente ed inequivocabilmente
riconducibile al concetto di “opera
pubblica”, quest’ultima deve essere
realizzata, quindi, o da un soggetto
pubblico o da un soggetto privato, purché
per conto di un ente pubblico, come nella
figura della concessione di opere pubbliche
o in analoghe figure organizzatorie.
Le disposizioni in commento, contenendo
ipotesi di deroghe alla legge generale,
debbono ritenersi di stretta interpretazione
e, quindi, non estensibili quanto a portata
applicativa ad ipotesi simili in assenza di
espresso riferimento normativo. D’altronde
la ratio legis sottesa alla previsione di un
contributo da corrispondere per la
realizzazione di opere che trasformino il
territorio ha portata applicativa talmente
generale che immaginare ipotesi di esenzione
ad ampio spettro non avrebbe alcuna logica e
manifesterebbe, anzi, un approccio
contraddittorio del legislatore in relazione
agli oneri che la collettività, in
dipendenza di esse, è chiamata a sopportare.
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Al titolo abilitativo a costruire relativo
ad un immobile destinato a casa di cura
privata spetta la parziale esenzione dal
contributo urbanistico, prevista
legislativamente fin dall'articolo 10 della
legge 28.01.1977 n. 10 per le concessioni
relative a costruzioni o impianti destinati
ad attività industriali o artigianali
dirette alla trasformazione di beni ed alla
prestazione di servizi, dal momento che
l'attività imprenditoriale diretta alla
prestazione di servizi sanitari è a pieno
titolo un'attività industriale, giusta la
definizione di "attività industriale" che si
ricava dall'art. 2195 cod. civ..
È corretto, quindi, affermare che l'attività
sanitaria, se svolta da soggetto non
istituzionalmente competente, presenta i
caratteri oggettivi dell'industrialità (pur
non perseguendo, soggettivamente, una
finalità di lucro in senso stretto) e,
pertanto, deve essere assoggettata al
relativo trattamento, più favorevole.
E’ condivisa dal Collegio l’interpretazione
che sul punto è stata offerta in
giurisprudenza in coincidenza con ipotesi
analoghe a quella oggetto del presente
giudizio. Sul punto si è, infatti, detto che
lo speciale regime di gratuità della
concessione edilizia richiede il concorso di
due requisiti, l'uno di carattere soggettivo
e l'altro di carattere oggettivo:
1. il primo consiste nell'esecuzione delle
opere da parte di enti "istituzionalmente
competenti", vale a dire da parte di
soggetti ai quali la realizzazione
dell'opera sia demandata in via
istituzionale;
2. il secondo, dall'ascrivibilità del
manufatto oggetto di concessione edilizia
alla categoria delle opere pubbliche o di
interesse generale.
Limitandoci al requisito sub 2) si è
rilevato che, ferma la preliminare
interpretazione in merito all'espressione “opere
pubbliche o di interesse generale”
sostanzialmente ed inequivocabilmente
riconducibile al concetto di “opera
pubblica”, quest’ultima deve essere
realizzata, quindi, o da un soggetto
pubblico o da un soggetto privato, purché
per conto di un ente pubblico, come nella
figura della concessione di opere pubbliche
o in analoghe figure organizzatorie (cfr.
Cons. Stato, Sez. V, 12.07.2005 n. 3774 ed i
precedenti giurisprudenziali dello stesso
tenore ivi richiamati, cioè Cons. Stato,
Sez. V, 02.12.2002 n. 6618; 10.07.2000 n.
3860; 06.12.1999 n. 2061; 10.05.1999 n. 536;
04.05.1998 n. 492; 29.09.1997 n. 1067;
07.09.1995 n. 1280; 10.12.1990 n. 857).
E’ altresì condivisibile l’ulteriore
affermazione svolta dalla decisione del
Consiglio di Stato suindicata (Sez. V, n.
3774 del 2005) in virtù della quale le
disposizioni in commento, contenendo ipotesi
di deroghe alla legge generale, debbono
ritenersi di stretta interpretazione e,
quindi, non estensibili quanto a portata
applicativa ad ipotesi simili in assenza di
espresso riferimento normativo. D’altronde
la ratio legis sottesa alla
previsione di un contributo da corrispondere
per la realizzazione di opere che
trasformino il territorio ha portata
applicativa talmente generale che immaginare
ipotesi di esenzione ad ampio spettro non
avrebbe alcuna logica e manifesterebbe,
anzi, un approccio contraddittorio del
legislatore in relazione agli oneri che la
collettività, in dipendenza di esse, è
chiamata a sopportare.
Conseguentemente, atteso che le opere in
questione (ndr: costruzione di una struttura
socio-sanitaria) non sono state realizzate
da un soggetto pubblico o da un soggetto
privato destinatario di una concessione di
opera pubblica o di analoga figura
organizzatoria, l’ipotesi di esenzione dal
contributo invocata non può trovare
applicazione nel caso qui in esame.
Peraltro la normativa vigente stabilisce in
proposito che il contributo è corrisposto in
misura ridotta per la realizzazione di
interventi relativi a costruzioni o impianti
destinati ad attività industriali o
artigianali dirette alla trasformazione di
beni ed alla presentazione di servizi.
Sul punto, in giurisprudenza, si è chiarito
che al titolo abilitativo a costruire
relativo ad un immobile destinato a casa di
cura privata spetta la parziale esenzione
dal contributo urbanistico, prevista
legislativamente fin dall'articolo 10 della
legge 28.01.1977 n. 10 per le concessioni
relative a costruzioni o impianti destinati
ad attività industriali o artigianali
dirette alla trasformazione di beni ed alla
prestazione di servizi, dal momento che
l'attività imprenditoriale diretta alla
prestazione di servizi sanitari è a pieno
titolo un'attività industriale, giusta la
definizione di "attività industriale"
che si ricava dall'art. 2195 cod. civ.
(cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. V,
16.01.1992 n. 46).
È corretto, quindi, affermare che l'attività
sanitaria, se svolta da soggetto non
istituzionalmente competente, presenta i
caratteri oggettivi dell'industrialità (pur
non perseguendo, soggettivamente, una
finalità di lucro in senso stretto) e,
pertanto, deve essere assoggettata al
relativo trattamento, più favorevole (cfr.,
sul punto TAR Abruzzo, L’Aquila, 24.05.2006
n. 383).
Conseguentemente nel caso di specie, mentre
non è dovuta l'esenzione totale,
correttamente il commissario ad acta
ha ridotto il contributo con la citata
delibera n. 2/2009, sussumendo la
fattispecie nella ipotesi di costruzione a
carattere industriale, sì che appare immune
dai dedotti vizi il riferimento ai parametri
previsti per le zone G (cfr. TAR Firenze
sent. n. 466/2008)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 09.09.2011 n. 4356 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
parere della commissione edilizia può essere
omesso in sede di autotutela (annullamento
concessione edilizia), senza violazione
alcuna del principio del contrarius actus,
qualora l’annullamento si fondi su ragioni
di esclusiva valenza giuridica e non anche
su valutazioni tecnico-edilizie.
Quanto al mancato coinvolgimento della
commissione edilizia nell'annullare una
concessione edilizia rilasciata, per
giurisprudenza costante tale parere può
essere omesso in sede di autotutela, senza
violazione alcuna del principio del
contrarius actus, qualora l’annullamento
si fondi su ragioni di esclusiva valenza
giuridica e non anche su valutazioni
tecnico-edilizie (cfr. Cons. Stato, sez. V,
12.05.2011, n. 2821; TAR Campania Napoli,
sez. VIII, 10.11.2010, n. 23756; TAR
Lombardia Milano, sez. IV, 03.03.2010, n.
532; TAR Emilia Romagna Parma, 20.10.2009,
n. 686)
(TAR
Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 09.09.2011 n. 1586 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Correttamente
l'Amministrazione … tiene conto della
volumetria relativa alla parte interrata del
manufatto, in quanto -così come testualmente
previsto dall'art. 3, comma 1, lett. e),
d.P.R. n. 380 del 2001- il computo della
volumetria di un edificio deve essere
effettuato con riferimento all'opera in ogni
suo elemento, compresi gli ambienti
funzionalmente asserviti o interrati e con
esclusione dei soli volumi tecnici, con la
conseguenza che anche le opere realizzate
entro terra, qualora adibite ad attività
umane di tipo continuativo, devono essere
considerate ai fini dei calcoli delle
volumetrie assentibili in relazione ai
carichi urbanistici che ne derivano”.
In materia edilizia, infatti, i vani
interrati sono computabili ai fini del
calcolo della complessiva volumetria
dell'immobile, salvo che siano
insuscettibili di produrre un aumento del
carico urbanistico, non siano destinati alla
stabile permanenza dell'uomo, o lo strumento
urbanistico non lo escluda espressamente.
Pertanto, "salvo che non si tratti di opere
di modeste dimensioni e con destinazione a
usi episodici o meramente complementari (ad
esempio, cantine, locali adibiti a strutture
tecnologiche, garage al servizio di un
appartamento), anche i locali interrati
devono calcolarsi nella volumetria
ammissibile in sede di rilascio della
concessione edilizia”.
Comunque, il problema della inclusione o
meno nella volumetria realizzabile dei
locali interrati si pone per le costruzioni
che si articolino in volumi fuori terra e
locali interrati a quelli asserviti che non
influiscono sul carico urbanistico portato
dai locali fuori terra; è invece esclusa
ogni questione sulla computabilità della
volumetria interrata se questi locali siano
autonomi,non collegati a costruzioni fuori
terra.
Ritiene il
collegio che, come condivisibilmente
affermato dalla giurisprudenza, “correttamente
l'Amministrazione … tiene conto della
volumetria relativa alla parte interrata del
manufatto, in quanto -così come testualmente
previsto dall'art. 3, comma 1, lett. e),
d.P.R. n. 380 del 2001- il computo della
volumetria di un edificio deve essere
effettuato con riferimento all'opera in ogni
suo elemento, compresi gli ambienti
funzionalmente asserviti o interrati e con
esclusione dei soli volumi tecnici, con la
conseguenza che anche le opere realizzate
entro terra, qualora adibite ad attività
umane di tipo continuativo, devono essere
considerate ai fini dei calcoli delle
volumetrie assentibili in relazione ai
carichi urbanistici che ne derivano”
(così TAR Lazio Roma, sez. I, 02.10.2008, n.
8716; TAR Campania Napoli, sez. IV,
22.01.2007, n. 570).
In materia edilizia, infatti, i vani
interrati sono computabili ai fini del
calcolo della complessiva volumetria
dell'immobile, salvo che siano
insuscettibili di produrre un aumento del
carico urbanistico, non siano destinati alla
stabile permanenza dell'uomo, o lo strumento
urbanistico non lo escluda espressamente
(TAR Sicilia-Palermo, sez. III, 07.06.2005,
n. 960): ipotesi queste da ultimo ricordate
che nella fattispecie in esame non sono
tuttavia riscontrabili.
Pertanto, come affermato dalla prevalente
giurisprudenza amministrativa, “salvo che
non si tratti di opere di modeste dimensioni
e con destinazione a usi episodici o
meramente complementari (ad esempio,
cantine, locali adibiti a strutture
tecnologiche, garage al servizio di un
appartamento), anche i locali interrati
devono calcolarsi nella volumetria
ammissibile in sede di rilascio della
concessione edilizia” (TAR Marche,
04.02.2003, n. 21).
Comunque, il problema della inclusione o
meno nella volumetria realizzabile dei
locali interrati si pone per le costruzioni
che si articolino in volumi fuori terra e
locali interrati a quelli asserviti che non
influiscono sul carico urbanistico portato
dai locali fuori terra; è invece esclusa
ogni questione sulla computabilità della
volumetria interrata se questi locali siano
autonomi,non collegati a costruzioni fuori
terra (TAR
Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 09.09.2011 n. 1586 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: La
verifica in ordine alla sussistenza
dell’interesse a ricorrere (ndr: avverso un
piano di recupero, nella fattispecie)
implica necessariamente un’attenta
valutazione delle specificità del caso
concreto.
L’interesse a ricorrere non può che essere
valutato, infatti, tenendo conto delle
peculiarità proprie della materia
urbanistica, connotata, come noto, da un
ampio margine di discrezionalità
esercitabile da parte dell’amministrazione,
con la conseguenza che l’utilità derivante
dell’accoglimento del ricorso deve essere
apprezzata anche sotto il profilo
strumentale correlato all’eventuale
ulteriore attività dell’amministrazione,
dalla quale parte ricorrente potrebbe
conseguire un risultato positivo.
Il Collegio evidenzia, altresì, che il bene
della vita anelato dalla ricorrente non è né
astratto né teorico, dovendosi individuare
nella tutela della qualità della vita incisa
dalla disponibilità di parcheggi e spazi a
verde adeguati, dal contenimento
dell’inquinamento acustico e da maggiori
servizi, vieppiù significativi in un
contesto, quale quello del centro storico
del Comune di Motegrotto Terme, rinomato per
le proprietà terapeutiche e curative delle
acque termali del proprio sottosuolo, sito
in prossimità dei Colli Euganei, nel quale
la ricorrente gestisce la propria attività
turistico- ricettiva con la diretta
valorizzazione di tali risorse.
Non può revocarsi in dubbio, del resto, che,
sebbene nella rappresentazione della lesione
possano emergere apprezzamenti soggettivi
legati alla sensibilità del singolo, la
sussistenza di standard sufficienti è
oggettivamente valutabile e rilevante; la
ricorrente, infatti, non si limita a
contestare, in sé, l’adozione e
l’approvazione dello strumento urbanistico
attuativo, ma la scelta operata
dall’amministrazione che, attraverso
l’impianto complessivo del Piano e, nello
specifico, attraverso la cessione della
cubatura di aree destinate a piazza,
parcheggi e marciapiedi e di un terreno
contiguo a quelli in proprietà della
controinteressata, ha determinato,
nonostante il significativo incremento del
carico urbanistico, il mancato reperimento
degli standard all’interno dell’area,
ricorrendo del tutto irragionevolmente ed
immotivatamente alla monetizzazione, in
luogo della quale, peraltro, la società
attuatrice si è impegnata a realizzare un
fabbricato da destinare a spogliatori
sportivi da edificare in tutt’altra area, in
prossimità ed a servizio della nuova
arcostruttura nella frazione di Mezzavia.
Tali circostanze vengono valutate
sufficienti ai fini della sussistenza
dell’interesse a ricorrere; una diversa
opzione, infatti, determinerebbe la totale
vanificazione della tutela avverso
interventi urbanistici che, attraverso la
riqualificazione di un’area, dispiegano
un’incidenza che va oltre il perimetro
oggetto del piano.
Occorre considerare, altresì, che
l’interesse pubblico alla realizzazione del
piano di recupero per soddisfare l’esigenza
primaria di risanamento di una porzione
circoscritta del territorio comunale deve
correlarsi e confrontarsi con quello privato
a non vedersi spropositatamente sacrificato
da scelte opinabili, con la conseguente
possibilità del giudice di verificare la
sussistenza di quella correlazione
conformemente ai principi di correttezza,
ragionevolezza, proporzionalità e coerenza.
---------------
Le potenzialità dei Piani di Recupero vanno
oltre la riqualificazione del tessuto
edilizio esistente e, attraverso tali
strumenti attuativi, possono essere
realizzate anche delle ristrutturazione
urbanistiche.
---------------
Qualora vi sia contrasto tra le indicazioni
grafiche del P.R.G. e le prescrizioni
normative, sono queste ultime a prevalere,
in quanto in sede di interpretazione degli
strumenti urbanistici, le risultanze
grafiche possono solo chiarire e completare
quanto è normativamente stabilito nel testo
ma non possono sovrapporsi o negare quanto
risulta da questo.
---------------
Il piano di recupero costituisce uno
strumento urbanistico sostanzialmente
attuativo delle scelte urbanistiche
contenute nel piano regolatore generale,
destinato al recupero del patrimonio
edilizio esistente, senza, tuttavia,
implicare incrementi volumetrici tali da
determinare un aumento del carico
insediativo, come risulta dall’orientamento
consolidato della giurisprudenza
amministrativa.
Tale strumento ha, dunque, per oggetto la
ridefinizione del tessuto urbanistico di
un'area ed è caratterizzato dalla specialità
dei fini del recupero del patrimonio
edilizio ed urbanistico degradato per
mantenere e meglio utilizzare il patrimonio
stesso mediante una globalità di interventi
edilizi organici integrati con il tessuto
urbanistico esistente, nonché con lo
sviluppo programmato, attraverso gli
strumenti urbanistici generali.
Negli ultimi decenni gli interventi organici
di recupero finalizzati al perseguimento di
obiettivi di ristrutturazione urbanistica
hanno assunto una crescente rilevanza; i
piani di recupero, infatti, consentono il
perseguimento sia di finalità di recupero
del patrimonio edilizio esistente in misura
più complessa degli interventi di
manutenzione ordinaria e di ristrutturazione
edilizia, sia finalità di recupero
urbanistico, potendo, nello specifico,
prevedere interventi rivolti a sostituire
l'esistente tessuto urbanistico-edilizio con
altro diverso, anche con la modificazione
del disegno dei lotti, degli isolati e della
rete stradale.
Pur dovendosi riconoscere ampie potenzialità
alle possibilità di intervento attraverso
Piani di Recupero nella ridefinizione del
tessuto urbanistico, residuano, comunque, i
limiti derivanti dalla connotazione tipica
di tale strumento attuativo, connessi alla
conservazione e riutilizzazione del
patrimonio edilizio esistente, con
conseguente esclusione dell’ammissibilità di
interventi che possano comportare incrementi
volumetrici –specie ove manchi un rapporto
di proporzionalità tra le preesistenze da
riqualificare ed i nuovi volumi da
edificare– per i quali risulta evidentemente
più appropriato il ricorso a varianti al
piano regolatore generale ovvero a piani
particolareggiati speciali dotati del potere
di modifica dello strumento urbanistico
generale.
Parte resistente sostiene, nello specifico,
che dall’adozione e dalla successiva
approvazione del Piano di Recupero non
deriverebbe alcun pregiudizio alla società
ricorrente, in quanto l’intervento
urbanistico interessa un’area già edificata.
Sul punto, invero, l’orientamento
giurisprudenziale non è univoco.
Secondo una prima tesi, il terzo ha
titolo ad adire il giudice amministrativo,
quando esista una situazione soggettiva ed
aggettiva di stabile collegamento con la
zona coinvolta da una costruzione che, se
illegittimamente assentita, sia idonea ad
arrecare pregiudizio ai valori urbanistici
della zona medesima, onde la qualifica
giuridica di proprietario di un bene
immobile confinante deve di per sé ritenersi
idonea a radicare la legittimazione e
l'interesse al ricorso, non occorrendo
altresì la verifica della concreta lesione
di un qualsiasi altro interesse
giuridicamente rilevante; detta
legittimazione va riconosciuta ai
proprietari frontisti anche quando la
materia del contendere attiene ad un piano
urbanistico attuativo in quanto
suscettibile, ancor più del singolo permesso
di costruire, di determinare quella
rilevante e pregiudizievole alterazione del
preesistente assetto urbanistico ed
edilizio, che il ricorrente intende
conservare (Cons. St., sez. IV, 29.07.2009,
n. 4756; TAR Campania-Salerno, sez. II,
05.10.2009, n. 5315).
Altro orientamento, condiviso dal
Collegio, sostiene il principio in base al
quale il criterio della vicinitas
–sussistente nella fattispecie e, peraltro,
non controverso– seppure idoneo a supportare
la legittimazione al ricorso dei soggetti
non proprietari di aree ricomprese nel
perimetro del piano di recupero non
esaurisce gli ulteriori profili
dell’interesse concreto all’impugnazione,
che costituisce l’altra fondamentale
condizione dell’azione.
Anche nel processo amministrativo, infatti,
l'interesse a ricorrere è caratterizzato
dalla presenza dei requisiti che qualificano
l'interesse ad agire di cui all'art. 100
c.p.c., vale a dire dalla prospettazione di
una lesione concreta ed attuale della sfera
giuridica del ricorrente e dall'effettiva
utilità che potrebbe derivare a quest'ultimo
dall'annullamento dell'atto impugnato (cfr
Cons. St., sez IV, 12.12.2005, n.39), sicché
sarebbe del tutto inutile l’annullamento di
un provvedimento richiesta dal ricorrente se
questi non può trarre alcun vantaggio in
relazione alla sua posizione legittimante
(cfr. Cons. St., sez. IV, 11.04.2007, n.
1684).
La verifica in ordine alla sussistenza
dell’interesse a ricorrere implica
necessariamente un’attenta valutazione delle
specificità del caso concreto.
Nella fattispecie oggetto di giudizio la
società ricorrente gestisce uno stabilimento
termale ubicato a ridosso dell’ambito
interessato dal Piano di recupero, alla cui
attuazione vengono imputati significativi
effetti pregiudizievoli, da individuare nel
peggioramento della qualità della vita per
l’aumento del traffico, l’inquinamento
atmosferico ed acustico e, soprattutto,
l’assenza di standard adeguati rispetto ad
un intervento che presenta un considerevole
peso insediativo, con inevitabili ed
evidenti ripercussioni negative anche sotto
il profilo turistico- ricettivo.
Il Collegio ritiene che, anche in base
all’orientamento più rigoroso sopra
richiamato, l’interesse a ricorrere deve,
nella fattispecie, ritenersi sussistente.
L’interesse a ricorrere non può che essere
valutato, infatti, tenendo conto delle
peculiarità proprie della materia
urbanistica, connotata, come noto, da un
ampio margine di discrezionalità
esercitabile da parte dell’amministrazione,
con la conseguenza che l’utilità derivante
dell’accoglimento del ricorso deve essere
apprezzata anche sotto il profilo
strumentale correlato all’eventuale
ulteriore attività dell’amministrazione,
dalla quale parte ricorrente potrebbe
conseguire un risultato positivo.
Il Collegio evidenzia, altresì, che il bene
della vita anelato dalla ricorrente non è né
astratto né teorico, dovendosi individuare
nella tutela della qualità della vita incisa
dalla disponibilità di parcheggi e spazi a
verde adeguati, dal contenimento
dell’inquinamento acustico e da maggiori
servizi, vieppiù significativi in un
contesto, quale quello del centro storico
del Comune di Motegrotto Terme, rinomato per
le proprietà terapeutiche e curative delle
acque termali del proprio sottosuolo, sito
in prossimità dei Colli Euganei, nel quale
la ricorrente gestisce la propria attività
turistico- ricettiva con la diretta
valorizzazione di tali risorse.
Non può revocarsi in dubbio, del resto, che,
sebbene nella rappresentazione della lesione
possano emergere apprezzamenti soggettivi
legati alla sensibilità del singolo, la
sussistenza di standard sufficienti è
oggettivamente valutabile e rilevante; la
ricorrente, infatti, non si limita a
contestare, in sé, l’adozione e
l’approvazione dello strumento urbanistico
attuativo, ma la scelta operata
dall’amministrazione che, attraverso
l’impianto complessivo del Piano e, nello
specifico, attraverso la cessione della
cubatura di aree destinate a piazza,
parcheggi e marciapiedi e di un terreno
contiguo a quelli in proprietà della
controinteressata, ha determinato,
nonostante il significativo incremento del
carico urbanistico, il mancato reperimento
degli standard all’interno dell’area,
ricorrendo del tutto irragionevolmente ed
immotivatamente alla monetizzazione, in
luogo della quale, peraltro, la società
attuatrice si è impegnata a realizzare un
fabbricato da destinare a spogliatori
sportivi da edificare in tutt’altra area, in
prossimità ed a servizio della nuova
arcostruttura nella frazione di Mezzavia.
Tali circostanze vengono valutate
sufficienti ai fini della sussistenza
dell’interesse a ricorrere; una diversa
opzione, infatti, determinerebbe la totale
vanificazione della tutela avverso
interventi urbanistici che, attraverso la
riqualificazione di un’area, dispiegano
un’incidenza che va oltre il perimetro
oggetto del piano.
Occorre considerare, altresì, che
l’interesse pubblico alla realizzazione del
piano di recupero per soddisfare l’esigenza
primaria di risanamento di una porzione
circoscritta del territorio comunale deve
correlarsi e confrontarsi con quello privato
a non vedersi spropositatamente sacrificato
da scelte opinabili, con la conseguente
possibilità del giudice di verificare la
sussistenza di quella correlazione
conformemente ai principi di correttezza,
ragionevolezza, proporzionalità e coerenza.
Ciò in specie considerando la consistenza
dell’intervento urbanistico de quo che
prevede l’integrale sfruttamento della
volumetria massima prevista di 6.800 mc.
(pag. 4, terzo capoverso della relazione
tecnica illustrativa, all. 4 delle
produzioni di parte ricorrente), con
sensibile incidenza sugli standard (cfr.
pag. 9 della prefata relazione tecnica
illustrativa), all’interno del centro
storico comunale connotato da una scarsa
disponibilità di spazi pubblici e, in
specie, di aree a verde; il Piano di
Recupero approvato, infatti, lungi dal
limitari alla conservazione del tessuto
urbano costituito dagli edifici
recuperabili, secondo l’accezione originaria
di tale strumento attuativo, contempla un
intervento complesso di sostituzione
dell’esistente.
Alla stregua delle argomentazioni che
precedono, dunque, l’eccezione va respinta,
sussistendo, nella fattispecie, sia la
legittimazione sia l’interesse a ricorrere.
---------------
Il Collegio evidenzia, in primo luogo, che
le potenzialità dei Piani di Recupero vanno
oltre la riqualificazione del tessuto
edilizio esistente e, attraverso tali
strumenti attuativi, possono essere
realizzate anche delle ristrutturazione
urbanistiche.
---------------
Per consolidata giurisprudenza, condivisa
dal Collegio, inoltre, qualora vi sia
contrasto tra le indicazioni grafiche del
P.R.G. e le prescrizioni normative, sono
queste ultime a prevalere, in quanto in sede
di interpretazione degli strumenti
urbanistici, le risultanze grafiche possono
solo chiarire e completare quanto è
normativamente stabilito nel testo ma non
possono sovrapporsi o negare quanto risulta
da questo (cfr., ex multis, TAR
Puglia Bari, sez. III, 13.04.2011, n. 588).
---------------
Il piano di recupero costituisce uno
strumento urbanistico sostanzialmente
attuativo delle scelte urbanistiche
contenute nel piano regolatore generale,
destinato al recupero del patrimonio
edilizio esistente, senza, tuttavia,
implicare incrementi volumetrici tali da
determinare un aumento del carico
insediativo, come risulta dall’orientamento
consolidato della giurisprudenza
amministrativa (TAR Lombardia, Brescia,
09.12.2002 n. 2216; TAR Puglia, Bari, sez.
II, 19.09.2002, n. 4016; TAR Campania,
Napoli, sez. II, 07.10.1997, n. 2468; TAR
Lombardia Milano, sez. II, 24.02.1992, n.
145).
Tale strumento ha, dunque, per oggetto la
ridefinizione del tessuto urbanistico di
un'area ed è caratterizzato dalla specialità
dei fini del recupero del patrimonio
edilizio ed urbanistico degradato per
mantenere e meglio utilizzare il patrimonio
stesso mediante una globalità di interventi
edilizi organici integrati con il tessuto
urbanistico esistente, nonché con lo
sviluppo programmato, attraverso gli
strumenti urbanistici generali.
Negli ultimi decenni gli interventi organici
di recupero finalizzati al perseguimento di
obiettivi di ristrutturazione urbanistica
hanno assunto una crescente rilevanza; i
piani di recupero, infatti, consentono il
perseguimento sia di finalità di recupero
del patrimonio edilizio esistente in misura
più complessa degli interventi di
manutenzione ordinaria e di ristrutturazione
edilizia, sia finalità di recupero
urbanistico, potendo, nello specifico,
prevedere interventi rivolti a sostituire
l'esistente tessuto urbanistico-edilizio con
altro diverso, anche con la modificazione
del disegno dei lotti, degli isolati e della
rete stradale (Cons. St., sez. IV,
29.07.2009, n. 4756).
Da quanto sopra esposto discende, dunque,
che, pur dovendosi riconoscere ampie
potenzialità alle possibilità di intervento
attraverso Piani di Recupero nella
ridefinizione del tessuto urbanistico,
residuano, comunque, i limiti derivanti
dalla connotazione tipica di tale strumento
attuativo, connessi alla conservazione e
riutilizzazione del patrimonio edilizio
esistente, con conseguente esclusione
dell’ammissibilità di interventi che possano
comportare incrementi volumetrici –specie
ove manchi un rapporto di proporzionalità
tra le preesistenze da riqualificare ed i
nuovi volumi da edificare– per i quali
risulta evidentemente più appropriato il
ricorso a varianti al piano regolatore
generale ovvero a piani particolareggiati
speciali dotati del potere di modifica dello
strumento urbanistico generale (TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n. 1369 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Risarcimento dei danni per
responsabilità precontrattuale della P.A..
Va accolta la domanda di risarcimento dei
danni per responsabilità precontrattuale
della P.A., avanzata da una ditta
concorrente ad una gara per l’affidamento di
un appalto, nel caso in cui la stazione
appaltante, senza alcuna preventiva
comunicazione alle ditte interessate, abbia
disposto la revoca in autotutela della
procedura di gara, per la sopravvenuta
necessità di predisporre un nuovo progetto
preliminare, tendente alla ottimizzazione
delle risorse pubbliche impegnate, e tale
revoca -nonostante che la suddetta necessità
fosse conosciuta da molto tempo prima- sia
stata adottata a procedura di gara pressoché
ultimata (nella specie, quando restava
soltanto di dover procedere all’apertura
della busta del "prezzo offerto")
(1).
---------------
(1) Ha aggiunto la sentenza in rassegna
che, nell’ipotesi prospettata, la revoca è
stata disposta quando un apprezzabile
affidamento dei concorrenti si era già
formato, a fronte della tardiva indicazione
della necessità della revisione progettuale,
con la conseguenza che, da una parte, il
comportamento dell’Amministrazione deve
ritenersi contrastante con il dovere di
correttezza e buona fede ex art. 1337 c.c.,
che deve permeare i rapporti anche
contrattuali con le parti private, e che,
dall’altra, deve ritenersi emergente la
responsabilità precontrattuale della P.A.
E’ stato ricordato che, secondo la
giurisprudenza, nel caso di revoca legittima
degli atti della procedura di gara, può
sussistere una responsabilità
precontrattuale della pubblica
amministrazione nel caso di affidamenti
suscitati nella impresa dagli atti della
procedura ad evidenza pubblica poi rimossi
(Cons. Stato, Ad. plen., 05.09.2005, n. 6;
V, 30.11.2007, n. 6137; 08.10.2008, n. 4947;
11.05.2009, n. 2882; VI, 17.12.2008, n.
6264) potendo aver confidato l’impresa sulla
possibilità di diventare affidataria e,
ancor più, in caso di aggiudicazione
intervenuta e revocata, sulla disponibilità
di un titolo che l’abilitava ad accedere
alla stipula del contratto stesso (Cons.
Stato, Ad. plen., n. 6 del 2005) (massima
tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.09.2011 n.
5002 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
False dichiarazioni. Inserimento
della relativa impresa nel casellario
telematico nel caso di falso imputabile.
L’inserimento nel casellario informatico, ai
sensi e per gli effetti dell’art. 17, comma
1, lettera m), e dell’art. 27, comma 2,
lettere s) e t), del d.P.R. 25.01.2000, n.
34, non può essere disposto solo nel caso di
falso non imputabile (1). L’imputabilità,
tuttavia, non può ricondursi in via
esclusiva al solo caso della diretta ed
immediata riconducibilità all’imprenditore
della falsa dichiarazione, ma ha portata più
ampia, perché -per un’immanente esigenza di
tutela dell’affidamento delle
amministrazioni pubbliche- si debbono a
questi effetti ascrivere tra i fatti
sfavorevolmente imputabili anche condotte
non uniformate alla diligenza esigibile nel
mercato dei pubblici appalti, qual è nel
caso di omissione di adeguati controlli in
occasione dell’acquisto di un ramo di
azienda.
Nel caso di acquisto di ramo di azienda,
incombe sull’imprenditore acquirente -che da
quel momento diviene attributario delle
qualificazioni- l’onere della verifica della
veridicità delle preesistenti attestazioni
relative al plesso aziendale da lui
acquisito e di cui assume, con le utilità,
il rischio. Al cessionario d’azienda possono
dunque non essere, a questi fini, addebitate
false dichiarazioni del cedente solo in caso
di comprovata impossibilità di loro
conoscenza, seppur in presenza di opportune
verifiche effettuate in occasione della
cessione, in relazione alle dimensioni
dell’impresa e al settore di attività
interessato (2).
---------------
(1) Cfr., fra le tante, Cons. Stato, Sez.
VI, 04.02.2010, n. 515 e 08.07.2010, n. 4442
Le attestazioni inerenti i lavori effettuati
dalle imprese, infatti, costituiscono la
base di ufficiali certificazioni sui
requisiti di capacità tecnica e finanziaria,
che attestano con effetti di affidamento di
tutte le amministrazioni la capacità
dell’imprenditore rispetto all’oggetto dei
contratti pubblici, e che perciò sono
necessari per partecipare alle gare indette
dalle amministrazioni medesime per
realizzare col mezzo di quei contratti opere
e lavori pubblici.
(2) Cfr., in senso conforme, Cons. Stato,
Sez. II, parere n. 1661/2005 del 25.05.2005,
per il quale rimane imputabile
all’acquirente la falsità non difficilmente
accertabile, ad es. mediante i certificati
penali e dei carichi pendenti dei gestori
della cedente.
In applicazione del principio nella specie è
stata ritenuta legittima l’iscrizione nel
casellario giudiziale di una falsa
dichiarazione resa dall’acquirente di un
ramo di azienda circa la mancanza di
risoluzioni contrattuali, dichiarazione
smentita dal fatto che in precedenza, nei
confronti dell’impresa che aveva ceduto il
ramo d’azienda, una P.A. aveva avviato
azione di risoluzione, in danno
dell’impresa, del contratto di appalto.
E’ stato ritenuto che di tale situazione
contenziosa non sembrava illogico ritenere
che potesse avere avuto notizia sia
l’acquirente del ramo di azienda a circa due
mesi di distanza dall’avvio dell’azione di
risoluzione, sia l’acquirente successiva,
che dell’attestazione contestata intendeva
avvalersi ai fini della qualificazione.
In tal caso la dimostrazione della non
conoscenza della causa di esclusione
spettava quindi all’impresa e non certo
all’Autorità di Vigilanza, che aveva
ravvisato ragionevoli e concordanti indizi
per desumerne l’imputabilità di cui trattasi
(massima tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 05.09.2011 n. 4997 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
mutamento dei prospetti e della sagoma
esterna del fabbricato preesistente), dacché
incidenti sulla volumetria e sulla sagoma
dell’immobile preesistente, e, quindi,
comportanti la realizzazione di un organismo
edilizio sostanzialmente diverso per
caratteristiche morfologiche e
planovolumetriche rispetto al precedente,
impediscono di ricondurre le opere alla
categoria della ristrutturazione edilizia
mediante demolizione e ricostruzione,
riveniente dall’art. 3, comma 1, lett. d,
del d.p.r. n. 380/2001; categoria la quale
include la possibilità di ottenere un
organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente, purché, però, la
diversità sia dovuta a interventi di
ripristino del fabbricato preesistente e
all’inserimento al suo interno di nuovi
elementi e impianti, e non già alla
realizzazione di nuovi volumi e alla
modificazione della sagoma precedente.
Affinché possa aversi ristrutturazione
previa demolizione, si deve verificare la
condizione indispensabile che il nuovo
fabbricato risulti sostanzialmente identico
nella forma, nell’altezza e nel volume
rispetto a quello preesistente, in modo da
integrare la fedele ricostruzione.
... Simili difformità (ndr: mutamento dei
prospetti e della sagoma esterna del
fabbricato preesistente), dacché incidenti
sulla volumetria e sulla sagoma
dell’immobile preesistente, e, quindi,
comportanti la realizzazione di un organismo
edilizio sostanzialmente diverso per
caratteristiche morfologiche e
planovolumetriche rispetto al precedente,
impedivano, dunque, di ricondurre le opere
eseguite alla categoria della
ristrutturazione edilizia mediante
demolizione e ricostruzione, riveniente
dall’art. 3, comma 1, lett. d, del d.p.r. n.
380/2001 (cfr. TAR Milano, sez. II, n.
2107/2010); categoria la quale include la
possibilità di ottenere un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente, purché, però, la diversità sia
dovuta a interventi di ripristino del
fabbricato preesistente e all’inserimento al
suo interno di nuovi elementi e impianti, e
non già alla realizzazione di nuovi volumi e
alla modificazione della sagoma precedente
(Cons. Stato, sez. IV, n. 1276/2007; n.
5214/2007; n. 1177/2008; TAR Bari, sez. III,
n. 5030/2005; TAR Napoli, sez. IV, n.
25190/2010).
In altri termini, affinché potesse aversi
ristrutturazione previa demolizione, avrebbe
dovuto verificarsi la condizione
indispensabile che il nuovo fabbricato
risultasse sostanzialmente identico nella
forma, nell’altezza e nel volume rispetto a
quello preesistente, in modo da integrare la
fedele ricostruzione (cfr. TAR Napoli, sez.
II, n. 16667/2005; TAR Umbria, n. 476/2005).
In mancanza di tale condizione, e ferma
restando l’accertata inapplicabilità
dell’art. 6.7 delle n.t.a. del p.d.r., la
difformità tra l’assentito progetto di
ristrutturazione (mediante demolizione e
fedele ricostruzione) e il fabbricato
realizzato con differente volumetria e
sagoma non poteva non qualificarsi totale e,
pertanto, assoggettata al regime
sanzionatorio di cui all’art. 33 del d.p.r.
n. 380/2001
(TAR
Campania-Napoli Sez. VIII,
sentenza 01.09.2011 n. 4271 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
un consolidato indirizzo giurisprudenziale:
a) quella prevista dall’art. 167, comma 5,
del d.lgs. n. 42/2004 è una vera e propria
sanzione amministrativa, e non una misura
riparatorio-risarcitoria;
b) come tale, si concreta in un atto dovuto
e prescinde dalla sussistenza effettiva di
un danno ambientale;
c) il danno ambientale e il profitto
conseguiti rilevano solo come parametri
alternativi per la commisurazione del
quantum della sanzione.
Secondo un
consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal
quale il Collegio non intende discostarsi:
a) quella prevista dall’art. 167, comma 5,
del d.lgs. n. 42/2004 è una vera e propria
sanzione amministrativa, e non una misura
riparatorio-risarcitoria;
b) come tale, si concreta in un atto dovuto
e prescinde dalla sussistenza effettiva di
un danno ambientale;
c) il danno ambientale e il profitto
conseguiti rilevano solo come parametri
alternativi per la commisurazione del
quantum della sanzione (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 02.06.2000, n. 3184;
08.11.2000, n. 6007; sez. IV, 12.11.2002, n.
6279; sez. VI, 03.04.2003, n. 1729;
15.05.2003, n. 2653; 17.10.2003, n. 6348;
sez. IV, 03.11.2003, n. 7047; 25.11.2003, n.
7765; 04.02.2004, n. 395; sez. II;
27.02.2008, n. 1807/2005; sez. II,
09.04.2008, n. 708/2005; sez. IV,
12.03.2009, n. 1464; sez. IV, 14.04.2010, n.
2083; Cons. giust. amm. sic., sez. giur.,
21.09.2010, n. 1221).
In considerazione di ciò, non può reputarsi
illegittimo il citato art. 4, comma 1, del
d.m. 26.09.1997, nella parte in cui prevede
l’applicabilità della sanzione pecuniaria
anche in caso di danno ambientale pari a
zero. Così come non può reputarsi
illegittima, in via consequenziale, la
determinazione del Comune di Montesarchio,
il quale, a fronte della perizia di stima
giurata presentata dalla Compare,
declinatoria della richiesta quantificazione
della sanzione pecuniaria (cfr. retro, in
narrativa, sub n. 2.5), ha, comunque,
reputato irrogabile la misura punitiva
prevista dall’art. 167, comma 5, del d.lgs.
n. 42/2004 (TAR
Campania-Napoli Sez. VIII,
sentenza 01.09.2011 n. 4271 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Possono
definirsi varianti in corso d'opera i soli
interventi edilizi in lieve difformità dal
progetto assentito, che si rendano necessari
nel corso dell'edificazione per ragioni
tecniche non previste o prevedibili al
momento della redazione di esso, mentre non
possono ricondursi a tale categoria gli
interventi edilizi implicanti una radicale
modifica dell’originario progetto di
ristrutturazione nel senso della nuova
costruzione.
Invero, possono
definirsi varianti in corso d'opera i soli
interventi edilizi in lieve difformità dal
progetto assentito, che si rendano necessari
nel corso dell'edificazione per ragioni
tecniche non previste o prevedibili al
momento della redazione di esso, mentre non
possono ricondursi a tale categoria gli
interventi edilizi implicanti –come nella
fattispecie in esame– una radicale modifica
dell’originario progetto di ristrutturazione
nel senso della nuova costruzione (cfr. TAR
Lombardia, Milano, sez. IV, 09.03.2011, n.
642) (TAR
Campania-Napoli Sez. VIII,
sentenza 01.09.2011 n. 4271 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: In
applicazione della disposizione dell’art.
11, comma 5, del D.Lgs. 152/2006 (“La V.A.S.
costituisce per i piani e programmi cui si
applicano le disposizioni del presente
decreto, parte integrante del procedimento
di adozione ed approvazione. I provvedimenti
amministrativi di approvazione adottati
senza la previa valutazione ambientale
strategica, ove prescritta, sono annullabili
per violazione di legge”), l’omessa
preventiva sottoposizione a V.A.S. del piano
paesaggistico rende illegittimo il
provvedimento di adozione.
La Valutazione Ambientale Strategica,
introdotta dalla Direttiva 2001/42/CE, è la
valutazione delle conseguenze ambientali di
piani e programmi, finalizzata
all’assunzione -attraverso la valutazione di
tutte le possibili alternative
pianificatorie- di determinazioni integrate
e sistematiche di considerazioni di
carattere ambientale, territoriale, sociale
ed economico.
La V.A.S. si realizza in fase di
elaborazione del piano mediante la redazione
di un rapporto ambientale che deve
considerare lo stato dell’ambiente attuale
del territorio interessato e le sue
alterazioni in presenza e non del
provvedimento da valutare, confrontato anche
con possibili alternative strategiche,
localizzative e tecnologiche. L’art. 5 del
D.Lgs. 152/2006 recante le definizioni
rilevanti ai fini dell’applicazione del
codice dell’ambiente afferma che “si
intende per (…) piani e programmi: gli atti
e provvedimenti di pianificazione e di
programmazione, comunque denominati,
compresi quelli cofinanziati dalla Comunità'
europea, nonché le loro modifiche”
(comma 1°, lettera e); il successivo art. 6
dispone: “1. La valutazione ambientale
strategica riguarda i piani e i programmi
che possono avere impatti significativi
sull'ambiente e sul patrimonio culturale.
2. Fatto salvo quanto disposto al comma 3,
viene effettuata una valutazione per tutti i
piani e i programmi: a) che sono elaborati
per la valutazione e gestione della qualità
dell'aria ambiente, (…), della
pianificazione territoriale o della
destinazione dei suoli (…)"; il comma
4°, inoltre, elenca espressamente i piani e
programmi esclusi dal campo di applicazione
delle norme del codice dell’ambiente (e
quindi anche della V.A.S.), e tra questi non
rientrano i piani paesaggistici: il solo
dato letterale sarebbe quindi già
sufficiente per ritenere il piano in
questione sottoposto a V.A.S. E’, in ogni
caso determinante la circostanza che la
valutazione ambientale strategica, quale
strumento di tutela dell’ambiente, va
effettuata in tutti i casi in cui i piani
abbiano “impatti significativi
sull'ambiente e sul patrimonio culturale”.
Invero, contrariamente a quanto sostenuto
dalle associazioni ambientaliste, “l’impatto
significativo” non è quello
caratterizzato da connotazioni negative in
termini di alterazioni delle valenze
ambientali, ma è quello ricavabile dalla
definizione di impatto ambientale contenuto
alla lette c) del’art. 5 citato quale “alterazione
qualitativa e/o quantitativa, diretta ed
indiretta, a breve e a lungo termine,
permanente e temporanea, singola e
cumulativa, POSITIVA e negativa
dell'ambiente, inteso come sistema di
relazioni fra i fattori antropici,
naturalistici, (…)”, per cui la
valutazione ambientale strategica va
eseguita in tutti i casi di interazione
(anche positiva) tra l’attività
pianificatoria e le componenti ambientali.
Del resto, la V.A.S. è solo uno strumento
rispetto al fine che è la sostenibilità
ambientale delle scelte contenute negli atti
di pianificazione ed indirizzo che guidano
la trasformazione del territorio. In
particolare la valutazione di tipo
strategico si propone di verificare che gli
obiettivi individuati nei piani siano
coerenti con quelli propri dello sviluppo
sostenibile, e che le azioni previste nella
struttura degli stessi siano idonee al loro
raggiungimento. Pertanto, a prescindere
dalla qualificazione dell’atto di
pianificazione in termini di piano
urbanistico-territoriale o di piano
paesaggistico, esso va comunque previamente
assoggettato a valutazione ambientale
strategica.
Infine, la tesi difensiva sostenuta
dall’amministrazione regionale secondo la
quale il piano in questione non determina
alcun impatto significativo sull’ambiente e
sul patrimonio culturale essendo “preordinato
a dettare un quadro conoscitivo e una
normativa di riferimento per l’attività di
tutela, eminentemente conservativa de valori
paesaggistici, non appare condivisibile alla
luce di un provvedimento che è invece
imperniato sulla “rivisitazione critica del
rapporto tra pianificazione paesistica e
governo del territorio”, sul parziale
superamento della concezione solo
conservativa del paesaggio e sul
riconoscimento del paesaggio come risorsa
per lo sviluppo (cfr. relazione generale e
relazioni tematiche allegate al piano).
Peraltro, ammettere che un piano preordinato
alla tutela e allo sviluppo dei valori
dell’ambiente del paesaggio (e che quindi
necessariamente impone forme di tutela che
incidono sull’assetto del territorio) non
debba essere preceduto dalla verifica
ambientale finirebbe per vanificare la
finalità della disciplina sulla VAS e di
conseguenza di pregiudicare la corretta
applicazione delle norme comunitarie,
frustrando così gli scopi perseguiti dalla
Comunità Europea con la direttiva
2001/42/CE, come quello di salvaguardia e
promozione dello "sviluppo sostenibile",
espressamente enunciato all'art. 1 della
direttiva.
Per le ragioni che precedono e in
applicazione della disposizione dell’art.
11, comma 5° del D.Lgs. 152/2006 (“La
V.A.S. costituisce per i piani e programmi
cui si applicano le disposizioni del
presente decreto, parte integrante del
procedimento di adozione ed approvazione. I
provvedimenti amministrativi di approvazione
adottati senza la previa valutazione
ambientale strategica, ove prescritta, sono
annullabili per violazione di legge”),
l’omessa preventiva sottoposizione a V.A.S.
del piano paesaggistico rende illegittimo il
provvedimento di adozione impugnato con il
ricorso in esame
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 01.09.2011 n. 2147
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
la definizione delle opere precarie “la
modifica dell’assetto del territorio non
richiede la concessione edilizia solo quando
sia di minima entità ovvero di carattere
precario, così intendendosi le opere,
agevolmente rimuovibili, funzionali a
soddisfare una esigenza oggettivamente
temporanea (es. baracca o pista di cantiere,
manufatto per una manifestazione…) destinata
a cessare dopo il tempo, normalmente non
lungo, entro cui si realizza l’interesse
finale”.
Sulla definizione delle opere precarie la
Sezione ha avuto modo di precisare che “la
modifica dell’assetto del territorio non
richiede la concessione edilizia solo quando
sia di minima entità ovvero di carattere
precario, così intendendosi le opere,
agevolmente rimuovibili, funzionali a
soddisfare una esigenza oggettivamente
temporanea (es. baracca o pista di cantiere,
manufatto per una manifestazione…) destinata
a cessare dopo il tempo, normalmente non
lungo, entro cui si realizza l’interesse
finale” (cfr TAR Sardegna, sez. II,
12.02.2010 n. 158).
Per le opere oggettivamente precarie e
temporanee è sufficiente, ai sensi
dell’articolo 13, comma 1, lett. m), la
semplice autorizzazione edilizia per
l’aspetto edilizio e l’autorizzazione
paesaggistica ove l’opera ricada in ambito
sottoposto a vincolo.
I manufatti realizzati dal ricorrente,
essendo totalmente amovibili (come dallo
stesso asserito e dal Comune non contestato)
potevano ottenere l’autorizzazione edilizia
(anche in accertamento di conformità) nei
limiti e nella parte in cui potevano essere
qualificati come precari in base al
principio su riportato.
In particolare potevano ottenere
l’autorizzazione, entro i limiti indicati
nelle concessioni demaniali, le strutture
strettamente funzionali alla balneazione e
quindi di ridotte dimensioni e per il solo
periodo della stagione balneare
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 01.09.2011 n. 914 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
nozione di "superficie utile" e "volume" ai
fini della compatibilità paesaggistica di
abusi edilizi.
... Con preavviso di rigetto 20.11.2009 n.
30828, la Soprintendenza per i beni
architettonici e paesaggistici per le
Province di Salerno ed Avellino ha segnalato
che le opere realizzate senza autorizzazione
e consistenti in:
- un massetto in calcestruzzo antistante il
fabbricato;
- un muretto in pietra con soprastante
ringhiera in ferro;
- una vasca di raccolta acque, nere e
bianche, e di un serbatoio gas;
- una scala di accesso esterna al primo
piano;
- una maggiore superficie e volumetria del
corpo di fabbrica al piano terra,
non rientrano nei limiti fissati dall’art.
167, comma 4, D.lgs. 22.01.2004 n. 42, in
quanto determinano aumento di volumetria e
di superficie utile. Le stesse, quindi, non
appaiono compatibili con le esigenze di
tutela, apportando alterazioni significative
allo stato dei luoghi ed incrementando la
consistenza e l’impatto del costruito.
Al preavviso, hanno fatto seguito le
osservazioni del ricorrente, datate
03.12.2009 e pervenute il giorno successivo,
nella quali il medesimo:
a) si è impegnato a demolire sia il massetto
in calcestruzzo antistante il fabbricato
-eccetto che per una piccola striscia, larga
m. 1,5 che sarà rivestita in pietra e
fungerà da marciapiede, come da precedenti
autorizzazioni recepite nel permesso di
costruire-, sia il deposito caldaia, la cui
superficie sarebbe stata utilizzata come
continuazione del porticato esistente;
b) ha evidenziato che il muretto in pietra
con soprastante ringhiera serve a proteggere
il corpo di fabbrica, che la vasca di
raccolta acque ed il serbatoio gas sono
completamente interrati, che la scala di
accesso esterna al primo piano è sita sul
fronte interno del lotto e quindi non è
visibile dall’esterno e che, rispetto al
progetto approvato, la maggiore superficie e
volumetria del porticato al piano terra è
aumentata solo del 7%, passando da mq.
138,74 a mq. 172,82.
Sennonché, con l’impugnato provvedimento
31.12.2009 n. 34360, la Soprintendenza ha
comunicato il parere contrario, “perché
le opere abusivamente eseguite non rientrano
nei limiti fissati dal comma 4 dell’art. 167
del D.lgs. n. 42/2004 e s.m.i. e perché
risulta variata la sagoma planivolumetrica
del fabbricato preesistente, con ampliamento
del relativo volume”, incaricando il
comune del conseguente ordine di ripristino
dello stato dei luoghi.
Nella stessa nota, l’autorità emanante ha
richiamato il contenuto di un protocollo
d’intesa tra il Ministero per i beni e le
attività culturali e la Regione Lazio del
18.12.2007, al fine di precisare il
significato da attribuire ai termini “superficie
utile” e “volume”, alla cui
presenza l’accertamento postumo di
compatibilità è espressamente vietato,
chiarendo che:
- per “superficie utile”, deve
intendersi “qualsiasi superficie utile,
qualunque sia la sua destinazione; sono
ammesse le logge e i balconi, nonché i
portici collegati al fabbricato, aperti su
tre lati e contenuti entro il 25% dell’area
di sedime del fabbricato stesso”;
- per “volume”, deve intendersi “qualsiasi
manufatto costruito da parti chiuse
emergente dal terreno o dalla sagoma di un
fabbricato preesistente indipendentemente
dalla destinazione d’uso del manufatto, ad
esclusione dei volumi tecnici” e cioè
dei vani “adibiti alla sistemazione di
impianti aventi un rapporto di strumentalità
necessaria con l’utilizzo della costruzione”.
Tanto premesso, applicando gli stessi
concetti sopra enunciati, deve rilevarsi
che:
- il massetto in calcestruzzo non
rappresenta una criticità, stante l’impegno
del ricorrente di ricondurlo alle funzioni e
dimensioni a suo tempo assentite, cui va
attribuito valore irrevocabile;
- il muretto in pietra con soprastante
ringhiera in ferro non costituisce di per sé
opera munita di autonoma superficie utile o
di volume;
- la vasca di raccolta acque bianche e nere
ed il serbatoio gas rientrano nei volumi
tecnici, esclusi dalla nozione ordinaria di
volume giacché “adibiti alla sistemazione
di impianti aventi un rapporto di
strumentalità necessaria con l’utilizzo
della costruzione”.
Rimangono quindi da verificare la scala di
accesso esterna al primo piano ed il
porticato, rispetto ai quali parte
ricorrente ha illustrato come la prima non
risulta visibile dall’esterno e come il
secondo varia in aumento, rispetto al
progetto approvato, solo del 7%, passando da
mq. 138,74 a mq. 172,82.
Orbene, non vi è dubbio che entrambi gli
interventi, in quanto eseguiti in aree o su
immobili sottoposti a vincolo, restano
soggetti all’obbligo di valutazione a fini
paesaggistici, anche in sede di rilascio di
un titolo edilizio in sanatoria, essendo
comunque suscettibili di alterare l’aspetto
esteriore del fabbricato (cfr. TAR Sardegna,
Sez. II, 24.02.2010, n. 222, riferito
proprio alla realizzazione di una scala
esterna di accesso al primo piano).
E però, il problema che qui si pone è un
altro: se cioè l’apprezzamento della
compatibilità paesaggistica delle dette
opere sia o meno precluso alla
Soprintendenza, in ragione del divieto
assoluto posto dagli artt. 167 e 181 del
citato D.lgs. n. 42/2004.
A tal proposito, occorre infatti ricordare
che la menzionata normativa non esclude la
possibilità di accertare ex post la
compatibilità paesaggistica di un intervento
edilizio eseguito in assenza di
autorizzazione paesistica, in quanto il solo
elemento a ciò ostativo in via assoluta
preso in considerazione dal legislatore è la
creazione di superfici utili o di volumi,
ovvero l’aumento di quelli legittimamente
assentiti, pur con l’esclusione dei lavori
comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria, ai
sensi dell’art. 3 D.P.R. 06.06.2001 n. 380
(cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VII,
05.05.2010, n. 2665).
In merito, ritiene il collegio che entrambe
le opere potevano e dovevano essere
considerate dall’autorità statale, ai fini
della verifica in concreto della loro
compatibilità con le esigenze di tutela del
paesaggio.
Quanto al porticato, già ai sensi del
protocollo d’intesa del 18.12.2007, assunto
dalla Soprintendenza come propria linea
d’azione, esso costituisce un’inammissibile
superficie utile solo se di dimensione
eccedente il 25% dell’area di sedime del
fabbricato.
E però, di tale verifica non vi è alcuna
menzione nella motivazione.
Lo stesso dicasi per la scala esterna,
riguardo alla quale avrebbe dovuto essere
effettuata identica valutazione preliminare,
stante la sua natura di pertinenza, ossia di
opera posta al servizio del fabbricato,
volta a renderne più agevole e funzionale
l’uso e come tale soggetta a denuncia di
nuova opera, ai sensi dell’art. 3, comma 1,
lett. e.1) ed e.6), D.P.R. 06.06.2001 n. 380
(cfr. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II,
05.07.2007, n. 924).
Si tenga infine presente che il procedimento
penale instaurato presso il Tribunale di
Vallo della Lucania si è definito con
richiesta di archiviazione del 22.02.2010,
accolta dal G.I.P. in data 08.04.2010 con
contestuale ordine di dissequestro, sulla
scorta della seguente motivazione: “nella
fattispecie, come emerge dalla consulenza di
ufficio e dall’accertamento in sede di
conformità urbanistica effettuato
dall’ufficio tecnico del comune di Ascea, la
mancanza di un apprezzabile ampliamento
planivolumetrico del fabbricato in corso di
manutenzione esclude in radice che gli
abusivismi minori commessi dall’indagato ...
possano aver leso le bellezze paesaggistiche
ed ambientali o archeologiche”
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 03.05.2011 n. 852 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla necessaria motivazione del
parere della Soprintendenza in merito alla
verifica della compatibilità paesaggistica
di abusi edilizi.
Con il primo motivo (indicato nel ricorso
con la lettera A.II), viene censurata la
determinazione ministeriale sotto diversi
profili.
Il mezzo merita accoglimento.
Innanzi tutto -al di là della circostanza
che il parere è stato effettivamente
rilasciato dopo la scadenza del termine
perentorio di novanta giorni– lo stesso
appare viziato per evidente difetto di
istruttoria e di motivazione.
In primo luogo appare, infatti, erronea
l’affermazione secondo cui l’intervento di
cui è causa <<è escluso dall’istruttoria>>;
l’Amministrazione, adita con una domanda di
autorizzazione c.d. in sanatoria, non può
infatti mai esimersi dallo svolgimento
dell’istruttoria, che dovrà invece essere
sempre svolta, al fine dell’accertamento dei
presupposti ai quali la legge subordina il
rilascio della sanatoria medesima.
La motivazione del parere è poi
effettivamente molto scarna, per non dire
insussistente, visto che si limita a
ripetere la formula di legge (aumento di
volume), senza neppure accertare, come
indicato dalla ricorrente, se non si tratti
invece di volumi tecnici, come tali esclusi
dalla previsione dell’art. 167, comma 4, del
D.Lgs. 42/2004 (sulla nozione di “volume
tecnico”, si veda TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 25.03.2008, n. 582).
Il parere impugnato deve, di conseguenza,
essere annullato (TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 16.02.2009 n. 1309 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: I
vincoli che impongono l’indennizzo sono
quelli di carattere espropriativo, non
quelli di natura meramente conformativa; in
un caso, quale quello in esame, in cui il
Comune si è limitato a prescrivere per
l’area del ricorrente una destinazione di
zona senza localizzarvi alcuna futura opera
pubblica, versiamo nell’ambito di attività
di mera zonizzazione che, in base alla
giurisprudenza che si è formata dopo la
sentenza Corte Cost. 179/1999, costituisce
esercizio di potere conformativo non
suscettibile di generare obblighi di
indennizzo (da ultimo CdS, IV, 2372/2010:
non hanno carattere espropriativo, ma solo
conformativo, e perciò non sono soggetti a
decadenza ed all'obbligo dell'indennizzo,
tutti i vincoli di inedificabilità imposti
dal piano regolatore, a qualsivoglia titolo,
per ragioni lato sensu ambientali: quindi il
vincolo di inedificabilità a tutela di una
strada esistente, il vincolo di verde
attrezzato, il vincolo d'inedificabilità per
un parco e per una zona agricola di pregio,
la destinazione a verde, ecc.).
Le scelte effettuate dalla P.A. in sede di
formazione ed approvazione dello strumento
urbanistico generale sono accompagnate da
un’amplissima valutazione discrezionale che,
nel merito, appaiono insindacabili e sono,
per ciò stesso, attaccabili solo per errori
di fatto, ovvero per abnormità e
irrazionalità delle stesse. In ragione di
tale discrezionalità l’Amministrazione non è
tenuta a fornire apposita motivazione in
ordine alle scelte operate nella predetta
sede di pianificazione del territorio
comunale, se non richiamando le ragioni di
carattere generale che giustificano
l'impostazione del piano.
---------------
La classificazione di un’area ad uso
agricolo non deve rispondere necessariamente
all’esigenza di promuovere l’insediamento di
specifiche attività agricole, una siffatta
destinazione potendo trovare la sua ragion
d’essere nella discrezionale volontà
dell’amministrazione locale di sottrarre
parte del territorio comunale a nuove
edificazioni. Così, la destinazione di piano
regolatore a verde agricolo di un’area ben
può essere funzionale all’esigenza di
conservazione dei valori naturalistici e di
contenimento del fenomeno di espansione
edilizia, di per sé idoneo, quest’ultimo, a
compromettere i valori paesaggistici della
zona.
Di qui il carattere non nemmeno abnorme né
irrazionale della scelta di classificare
l’area dell’appellante come agricola boscata,
in linea con gli obiettivi
dell’amministrazione di assicurare
all’ambiente naturale dei luoghi in
questione, quale bene pubblico di rango
costituzionale una più adeguata tutela; e
ciò a maggior ragione allorché i luoghi
siano già contrassegnati da fenomeni di
significativa urbanizzazione.
I vincoli che impongono l’indennizzo sono
quelli di carattere espropriativo, non
quelli di natura meramente conformativa; in
un caso, quale quello in esame, in cui il
Comune si è limitato a prescrivere per
l’area del ricorrente una destinazione di
zona senza localizzarvi alcuna futura opera
pubblica, versiamo nell’ambito di attività
di mera zonizzazione che, in base alla
giurisprudenza che si è formata dopo la
sentenza Corte Cost. 179/1999, costituisce
esercizio di potere conformativo non
suscettibile di generare obblighi di
indennizzo (da ultimo CdS, IV, 2372/2010:
non hanno carattere espropriativo, ma solo
conformativo, e perciò non sono soggetti a
decadenza ed all'obbligo dell'indennizzo,
tutti i vincoli di inedificabilità imposti
dal piano regolatore, a qualsivoglia titolo,
per ragioni lato sensu ambientali:
quindi il vincolo di inedificabilità a
tutela di una strada esistente, il vincolo
di verde attrezzato, il vincolo d'inedificabilità
per un parco e per una zona agricola di
pregio, la destinazione a verde, ecc.).
E' noto che,
per giurisprudenza straripante, “le
scelte effettuate dalla P.A. in sede di
formazione ed approvazione dello strumento
urbanistico generale sono accompagnate da
un’amplissima valutazione discrezionale che,
nel merito, appaiono insindacabili e sono,
per ciò stesso, attaccabili solo per errori
di fatto, ovvero per abnormità e
irrazionalità delle stesse. In ragione di
tale discrezionalità l’Amministrazione non è
tenuta a fornire apposita motivazione in
ordine alle scelte operate nella predetta
sede di pianificazione del territorio
comunale, se non richiamando le ragioni di
carattere generale che giustificano
l'impostazione del piano” (CdS, IV,
18.01.2011, n. 352).
Ed è noto altresì, anche qui per
giurisprudenza straripante, che “la
classificazione di un’area ad uso agricolo
non deve rispondere necessariamente
all’esigenza di promuovere l’insediamento di
specifiche attività agricole, una siffatta
destinazione potendo trovare la sua ragion
d’essere nella discrezionale volontà
dell’amministrazione locale di sottrarre
parte del territorio comunale a nuove
edificazioni. Così, la destinazione di piano
regolatore a verde agricolo di un’area ben
può essere funzionale all’esigenza di
conservazione dei valori naturalistici e di
contenimento del fenomeno di espansione
edilizia, di per sé idoneo, quest’ultimo, a
compromettere i valori paesaggistici della
zona. Di qui il carattere non nemmeno
abnorme né irrazionale della scelta di
classificare l’area dell’appellante come
agricola boscata, in linea con gli obiettivi
dell’amministrazione di assicurare
all’ambiente naturale dei luoghi in
questione, quale bene pubblico di rango
costituzionale (cfr. Cass. Sez. III,
10/10/2008 n. 25010) una più adeguata
tutela; e ciò a maggior ragione allorché i
luoghi siano già contrassegnati da fenomeni
di significativa urbanizzazione” (sempre
CdS, IV, 18.01.2011, n. 352)
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 16.02.2011 n. 281 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 20.10.2011 |
ã |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
URBANISTICA: M.
Viviani,
La competenza della Giunta comunale nel
procedimento di approvazione dei piani
attuativi conformi allo strumento
urbanistico.
---------------
Ringraziamo l'Avv. Mario Viviani per
l'utile contributo ricevuto che pone
chiarezza in merito al soggetto competente
(Giunta o Consiglio Comunale) ad approvare i
piani attuativi conformi allo strumento
urbanistico a seguito di quanto dispone
l’art. 5 del D.L. 13.05.2011 n. 70,
convertito dalla L. 12.07.2011 n. 106
entrata in vigore il 13.07.2011.
20.10.2011 - LA SEGRETERIA PTPL |
ATTI AMMINISTRATIVI:
F. Caringella,
Architettura e tutela dell’interesse
legittimo dopo il codice del processo
amministrativo: verso il futuro!
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
A. Pozzi,
La contrattazione collettiva nel pubblico
impiego tra illusioni e delusioni. Dalla
legge 421/1992 al d.l. n. 138/2011
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
C. Volpe,
Appalti pubblici e servizi pubblici.
Dall’art. 23-bis al decreto legge manovra di
agosto 2011 attraverso il referendum:
l’attuale quadro normativo (link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Buoni pasto e Faverin "il serio"
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 18.10.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Manovra-bis: la liquidazione del
TFS/TFR tramite l'Inpdap
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 17.10.2011). |
UTILITA' |
ENTI LOCALI - VARI:
Nuovo Decreto Sviluppo: ecco il
testo in anteprima (bozza aggiornata al
18.10.2011).
Pubblichiamo in anteprima il
testo del nuovo Decreto Sviluppo.
Si tratta di una bozza aggiornata,
predisposta ieri dal Governo, ancora in fase
di sistemazione (link a www.leggioggi.it). |
dite la vostra
...
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
Dall'aggiornamento odierno, apriamo questa
nuova rubrica dal titolo "dite
la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO".
Tutti coloro che intendono portare il
proprio contributo circa le materie trattate
su questo portale sono i benvenuti e gradito
sarà pubblicare le loro
opinioni/riflessioni/considerazioni/critiche
purché strutturate in un linguaggio consono
e non foriero di denunce penali.
Tuttavia, la pubblicazione sarà curata ad
insindacabile giudizio della SEGRETERIA PTPL,
senza che il mittente possa accampare
diritti/recriminazioni di sorta.
I contributi che perverranno (da inviare all'indirizzo:
info.ptpl@tiscali.it) dovranno essere
predisposti in formato Word
oppure
come testo di scrittura nella e-mail di
invio e dovranno essere firmati e
riconoscibili (quelli anonimi saranno
cestinati).
Grazie in anticipo a tutti coloro che
vorranno contribuire ad accrescere la
dialettica su questo portale.
20.10.2011 - LA SEGRETERIA PTPL |
EDILIZIA PRIVATA: Sull'esistenza -o meno- della
SCIA in Lombardia.
Spettabile Redazione sito
PTPL,
leggo sulla ‘home page’ del giorno 17 ottobre 2011 un
contributo dell’ Avvocato Mauro Fiorona dal titolo “I
TITOLI ABILITATIVI NEL TU EDILIZIA E NELLA DISCIPLINA
URBANISTICA REGIONALE: SCHEDE ESEMPLIFICATIVE -
(aggiornamento a ottobre 2011).”
Vorrei fare una notazione sull’ istituto
della “SCIA – segnalazione certificata inizio
attività”
considerato -dall’Avvocato Fiorona- come istituto
ammesso in Regione Lombardia.
A mio giudizio, invece, ritengo tale istituto
(... continua
cliccando qui) (17.10.2011 - roberto pagliaro - responsabile UT
comune del bergamasco).
|
APPALTI:
Sulla stazione unica appaltante.
Spettabile Redazione sito PTPL,
leggo sulla ‘home page’ del giorno 17 ottobre 2011 la
“lettera-circolare
05.10.2011 n. 11001/119/7/22”
in merito alla
STAZIONE UNICA APPALTANTE
(DPCM 30 GIUGNO 2011 in GU n. 200 del 29.08.2011 avente per
oggetto “Stazione Unica Appaltante, in attuazione
dell’art.13 della legge 13 agosto 2010, n.136 – Piano
straordinario contro le mafie”).
Con l’istituzione della S.U.A. per il Tecnico comunale
finisce un incubo.
La S.U.A. dovrebbe gestire, perlomeno a livello regionale,
tutto il procedimento (... continua
cliccando qui) (17.10.2011 - roberto pagliaro - responsabile UT
comune del bergamasco).
|
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
ISTRUZIONI SULL’APPLICAZIONE DELLA
DISCIPLINA IN MATERIA DI CONTRIBUTO
UNIFICATO NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO (circolare
18.10.2011 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
al padre con moglie casalinga.
Anche il padre può
fruire dei riposi giornalieri previsti
dall'articolo 40 del Testo Unico sulla
maternità (decreto legislativo 151/2001)
nell'ipotesi di madre casalinga.
Con la
nota operativa
13.10.2011 n. 23, infatti,
l'Inpdap afferma che, sulla scia
dell'interpretazione estensiva che
scaturisce dagli indirizzi giurisprudenziali
(si veda la sentenza del Consiglio di Stato
4293/2008), è possibile riconoscere al
lavoratore padre il diritto a fruire dei
riposi giornalieri anche nell'ipotesi in cui
la madre svolga lavoro casalingo. L'ente di
previdenza chiarisce che, trattandosi di
permessi retribuiti, la fruizione degli
stessi non ha alcuna incidenza ai fini
dell'obbligo di versamento contributivo, che
rimane immutato.
Con lettera circolare 8494/2009 il ministero
del Lavoro, nell'intento di fare chiarezza,
si è espresso in senso favorevole al
riconoscimento dei riposi in capo al padre
in tutte le ipotesi in cui l'altro genitore
sia impegnato in attività lavorative che lo
distolgono dall'assolvimento di tale
compito. In quell'occasione il ministero ha
richiamato la sentenza della Cassazione
20324/2005.
Il padre dipendente potrà quindi fruire dei
riposi entro il primo anno di vita del
bambino o entro il primo anno dall'ingresso
in famiglia del minore adottato o affidato,
in presenza di determinate condizioni
opportunamente documentate (madre impegnata
in accertamenti sanitari, cure mediche,
concorsi pubblici eccetera) e, comunque, dal
giorno successivo alla scadenza del congedo
di maternità.
In caso di parto plurimo è concesso al padre
-nell'ipotesi di madre casalinga- il
raddoppio dei riposi e le ore aggiuntive
possono essere utilizzate dal padre stesso
anche durante i tre mesi dopo il parto. Le
ore di riposo giornaliero non fruite
giornalmente, come di consueto, non potranno
essere fruite successivamente
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.10.2011). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Lavori pubblici, l'Authority si
consulta. Varato il regolamento.
Disciplinate le modalità di svolgimento
delle consultazioni volte all'adozione di
atti regolatori di competenza dell'Autorità,
quali determinazioni, atti di segnalazione,
bandi tipo e linee guida, e delle audizioni
periodiche degli operatori del mercato.
L'Autorità, al fine di migliorare la qualità
dei propri atti regolatori e valutarne
preventivamente l'impatto sul mercato,
utilizza, ove ritenuto opportuno, metodi di
consultazione preventiva, consistenti nel
dare notizia del progetto di atto e nel
consentire agli interessati di far pervenire
i propri suggerimenti e le proprie proposte,
considerazioni e osservazioni, mediante
audizioni, consultazioni on-line, tavoli
tecnici.
Su espressa indicazione del Consiglio può
essere altresì avviata una consultazione
finalizzata all'acquisizione, da parte di
tutti i soggetti a qualunque titolo
interessati, di osservazioni formulate
attraverso la compilazione di un modulo
appositamente predisposto e disponibile
on-line.
L'Autorità convoca, con cadenza di norma
annuale, i rappresentanti delle associazioni
delle imprese e delle stazioni appaltanti,
in audizione congiunta o in audizioni
separate, ai fini della discussione e
dell'informazione su questioni e proposte
particolarmente rilevanti concernenti la
disciplina ed il mercato dei contratti
pubblici.
Alle audizioni possono partecipare i
soggetti portatori sia di interessi pubblici
e privati, sia di interessi collettivi e
diffusi, che l'Autorità ritiene opportuno
ascoltare e consultare con riferimento agli
argomenti posti all'ordine del giorno.
(commento tratto da www.ipsoa.it -
Regolamento-Disciplina della partecipazione
ai procedimenti di regolazione dell’Autorità
per la vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture 10.10.2011
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI: Società
strumentali, calcoli a metà.
Ai fini del rapporto solo gli oneri per
dipendenti si sommano a quelli del Comune -
IL PRINCIPIO - Le risorse sono erogate dallo
stesso ente per cui la mancata esclusione
determinerebbe un raddoppio del denominatore.
Nessuna operazione sul denominatore deve
essere effettuata nel caso in cui l'ente
provveda a consolidare, ai soli fini del
calcolo dell'incidenza della spesa di
personale su quella corrente, i conti delle
proprie società strumentali.
La Corte dei conti, sezione regionale di
controllo per la Toscana, nel
parere
10.10.2011 n. 208 si concentra sui nuovi limiti alla
spesa di personale, rinviando peraltro
l'intera questione anche alle Sezioni
riunite vista la delicatezza del tema.
Secondo i magistrati toscani, il
consolidamento fra le spese del Comune e
quelle delle società strumentali deve essere
operato esclusivamente al numeratore del
rapporto (spesa di personale) e non anche in
riferimento alle uscite correnti
rappresentate al denominatore.
Ciò sul presupposto, sostengono i magistrati
contabili, che la spesa corrente della
società è erogata dall'ente stesso e
pertanto non può essere computata due volte.
Diverso è invece il caso delle altre società
(i cui ricavi derivano anche da altri
soggetti), nei confronti delle quali non può
prescindersi dal valutare la quota erogata
dall'ente in virtù di contratto di servizio
o per altro titolo; in questo caso occorre
pertanto sommare alla spesa (corrente) del
comune la sola spesa corrente societaria che
supera tale importo, rimodulata in
proporzione alla partecipazione detenuta,
per non conteggiare due volte la stessa
cifra.
Al fine di evitare facili elusioni della
norma, anche l'intero costo retributivo
dovrà essere parametrato alla percentuale di
partecipazione, sebbene tale criterio non
corrisponda pienamente all'impiego effettivo
di personale a beneficio dell'ente.
In alternativa a quest'ultima soluzione, in
riferimento alle società partecipate da più
enti per i quali esse svolgono servizi
soggetti a tariffazione, il consolidamento
dei bilanci secondo il metodo Ipsas 8
suggerisce il metodo proporzionale; questo
richiede di sommare ogni singola voce dello
stato patrimoniale e del conto economico
della partecipante con le quote delle
rispettive voci dell'organismo sottoposto a
controllo congiunto.
La maggiore analiticità informativa che ne
deriva impone la strutturazione, all'interno
del gruppo, di una contabilità analitica in
grado di evidenziare, verosimilmente, il
costo dei servizi erogati a beneficio dei
vari enti ed il connesso impiego di risorse
umane, finanziarie e strumentali.
L'articolo 20, comma 9, del Dl 98/2011
stabilisce che, ai fini del computo della
percentuale in questione, si calcolano le
spese sostenute anche dalle società a
partecipazione pubblica locale totale o di
controllo che sono titolari di affidamento
diretto di servizi pubblici locali senza
gara, ovvero che svolgono funzioni volte a
soddisfare esigenze di interesse generale
aventi carattere non industriale, né
commerciale, ovvero che svolgono attività
nei confronti della pubblica amministrazione
a supporto di funzioni amministrative di
natura pubblicistica.
La Corte, in riferimento alla locuzione
società a partecipazione pubblica locale
totale o di controllo individua il perimetro
di consolidamento prospettando due diverse
soluzioni interpretative. Secondo una
lettura restrittiva della norma, il
riferimento sembrerebbe operarsi nei
confronti di partecipazioni configuranti un
controllo di diritto (maggioranza del
capitale) e non anche un controllo di fatto
(influenza dominante) o contrattuale, che
potrebbe risultare di difficile
individuazione e prestarsi a pratiche
elusive delle finalità del legislatore.
Una diversa soluzione potrebbe invece essere
legata ad un concetto di controllo mutuato
dalla regolamentazione in tema di bilancio
consolidato dettata dai principi contabili
dell'Osservatorio per la finanza e la
contabilità degli enti locali, secondo cui
l'ente locale ha, direttamente o
indirettamente, il possesso dei voti
esercitabili in assemblea, o rilevanti
poteri di nomina sui membri del consiglio di
gestione o altro organo direttivo o ancora
esercita la maggioranza dei diritti di voto
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2011
- link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Dismissione immobili, quando il Comune può
iscriverla a bilancio. Insufficiente la
stipula del preliminare.
Per accertare un'entrata
è necessaria la
sussistenza di un idoneo titolo giuridico
che, in riferimento alle entrate
patrimoniali, si realizza a seguito
dell'acquisizione diretta del bene. In caso
di alienazione di bene immobile, quindi, la
certezza dell'entrata si ha solo in presenza
del titolo che ne attesti la compravendita,
non essendo sufficiente il preliminare di
vendita dal quale si acquisisce solo il
diritto a portare a termine l'operazione.
Con
il parere che si presenta, il giudice dei
conti si pronuncia, tra l'altro, a proposito
del titolo necessario (contratto di
compravendita piuttosto che
compromesso/preliminare di vendita) per
iscrivere nel bilancio di previsione del
Comune l'accertamento dell'entrata connesso
a un'alienazione di beni immobili.
Giova preliminarmente ricordare che l'art.
179 D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (che
corrisponde agli artt. 21, 22 e 23, D.Lgs.
25.02.1995, n. 77, ora abrogati),
definisce l'accertamento come la prima delle
tre "fasi" attraverso le quali passano le
entrate comunali (accertamento, riscossione,
versamento).
Infatti, l'entrata è accertata allorché
nasce per l'ente il diritto a riscuotere (è
ininfluente il momento in cui,
materialmente, si realizza l'entrata in
numerario, facendo parte tale fattispecie
dalla gestione di cassa che, a legislazione
vigente, non è rilevata dal bilancio di
previsione del Comune).
In altri termini, si ha l'accertamento di
un'entrata quando, sulla base d'idonea
documentazione, è verificata la ragione del
credito e la sussistenza d'idoneo titolo
giuridico; è individuato il debitore; è
quantificata la somma da riscuotere e,
infine, è stabilita la relativa scadenza.
Attraverso l'accertamento, dunque, è avviato
il processo d'acquisizione delle risorse,
poiché esso è l'atto formale di gestione che
evidenzia il credito dell'Amministrazione,
il soggetto debitore e l'importo del credito
che viene a scadere.
Conseguentemente, gli elementi necessari
dell'accertamento sono:
- la ragione del credito;
- la sussistenza di un idoneo titolo
giuridico;
- la quantificazione della somma da
incassare;
- la fissazione della scadenza di pagamento.
La verifica della sussistente ragione del
credito riassume in sé tutti i punti
successivi, e di fatto annulla la
possibilità di registrare accertamenti di
massima, con gli intuibili effetti
distorsivi sugli equilibri e sui risultati
della gestione.
Tale operazione non consente alcuna
componente discrezionale, ma rappresenta una
semplice presa d'atto, che prescinde dalla
stima delle risorse da acquisire; l'entrata
che è accertata, pertanto, è un'entrata
certa, in relazione al livello di
possibilità che si verifichi.
Si può pertanto affermare che l'accertamento
misura il grado dell'affidamento della
relativa entrata, non avendo efficacia
costitutiva, ma solo dichiarativa, poiché
non traccia ex novo una situazione
giuridica, ma la rende incontestabile
secondo l'ordinamento.
La disciplina pubblicistica
sull'accertamento delle entrate degli enti
locali è del tutto analoga a quella prevista
dalla normativa civilistica che afferisce
alle società commerciali; in particolare:
- la precisazione della definizione di
accertamento è tesa a far corrispondere tale
istituto giuscontabile al concetto di
credito verso terzi;
- l'accertamento rileva la situazione
finanziaria attiva dell'ente mediante
un'annotazione nelle scritture contabili e,
analogamente a una società, il bilancio di
previsione di entrata rappresenta
sostanzialmente un piano dei conti su cui
sono registrate le scritturazioni contabili.
Per concludere, l'accertamento:
- rileva una posizione finanziaria
creditoria;
- non determina il limite quantitativo delle
fasi successive (riscossione/versamento), né
di quella antecedente (previsione), ma solo
fornisce il presupposto per le successive
rilevazioni; a differenza dell'impegno di
spesa, infatti, non rappresenta il limite
massimo per la sua traduzione in numerario,
atteso che non è possibile dare corso al
pagamento di spese non impegnate, mentre è
doveroso riscuotere entrate seppure non
accertate;
- inoltre, il carattere autorizzatorio degli
stanziamenti previsionali del bilancio,
attiene unicamente alla parte spesa: mentre
è legittimo procedere all'accertamento
d'entrate non previste, non è mai possibile
l'impegno di spese il cui stanziamento non è
iscritto a bilancio;
- nell'ipotesi di entrata a destinazione
vincolata, condiziona l'assunzione
dell'impegno, ai sensi dell'art. 183, comma
5, D.Lgs. n. 267 del 2000.
L'insieme dei provvedimenti che
costituiscono presupposto sufficiente per
l'accertamento è alquanto eterogeneo;
tuttavia, quanto all'accertamento derivante
dalla vendita di beni immobili, la Corte dei
Conti, Sez. controllo Toscana, con il
parere 21.09.2011 n. 203, ne chiarisce gli elementi fondanti.
In particolare, il magistrato richiama il
principio contabile n. 2/16, il quale
prevede che "L'accertamento avviene sulla
base del principio della competenza
finanziaria secondo il quale un'entrata è
accertabile nell'esercizio finanziario in
cui è sorto il diritto di credito e
quest'ultimo sia connotato dei requisiti di
certezza, liquidità ed esigibilità.
Un credito è certo in presenza di un idoneo
titolo giuridico in cui esso trova
fondamento; è liquido se ne è determinato
l'ammontare; è esigibile se maturato
nell'esercizio.".
In caso di alienazione di bene immobile (ad
esempio un terreno, un appartamento ecc.),
quindi, la certezza dell'entrata si ha solo
in presenza del titolo che ne attesti la
compravendita, atteso che, in questi casi,
il legislatore impone l'applicazione di
alcune regole volte a tutelare in modo più
intenso la certezza dei traffici giuridici
che riguardano siffatti beni, avendo gli
stessi, generalmente, un valore economico
rilevante; in tali circostanze, infatti, il
contratto dev'essere redatto in forma
scritta ad substantiam, ossia a pena di
nullità, nonché essere trascritto negli
appositi registri immobiliari, a titolo di
pubblicità.
Per registrare a bilancio l'accertamento,
dunque, non è sufficiente il compromesso (o
preliminare di vendita) dal quale si
acquisisce solo il diritto (giuridicamente
inteso) a portare a termine l'operazione,
stabilendone modalità e termini in un
contratto, e che serve a impegnare le parti
per il tempo necessario a risolvere
eventuali problemi che non consentono la
vendita immediata; ciò, ancorché si tratti
di una promessa di vendita trascritta presso
la competente conservatoria di registri
immobiliari: infatti, mentre è chiaro come
il contratto preliminare rappresenti
solamente l'antecedente logico-giuridico del
futuro contratto definitivo d'acquisto tra
lo stesso promittente e promissario, atteso
che lo stesso non produce effetti reali,
vale a dire che col compromesso non si entra
in proprietà del bene e che solo col
contratto definitivo si avranno un venditore
ed un compratore, la pubblicità assicurata
dalla trascrizione del compromesso evita che
lo stesso immobile possa promettersi in
vendita a più persone, per cui il contratto
definitivo non potrà che avvenire tra gli
stessi soggetti del compromesso medesimo.
Per completezza, infatti, e per supportare,
ove occorresse, il pronunciamento della
Corte, va ricordato che, tuttavia, qualora
una delle parti si rifiutasse di stipulare
il contratto definitivo, senza giustificato
motivo, l'ordinamento riconosce alla parte
non inadempiente specifici strumenti a
tutela dei propri diritti:
- rivolgersi al giudice e ottenere una
sentenza sostitutiva del rogito definitivo
(esecuzione in forma specifica);
- richiedere, sempre al giudice, la
risoluzione del contratto nonché il
risarcimento del danno subito;
- se nel contratto preliminare è prevista
una caparra confirmatoria, richiedere il
recesso dal contratto e avvalersi della
caparra, trattenendola o esigendone il
doppio; se ci si avvale della caparra
confirmatoria, peraltro, non si potrà agire
per ottenere il risarcimento dei maggiori
danni, atteso che i due rimedi, per
orientamento giurisprudenziale, non sono
cumulabili (commento tratto da www.ipsoa.it). |
ENTI LOCALI: Il
conto terzi è fuori dalla spesa media.
Con la
deliberazione
21.09.2011 n. 203, la Sez. controllo della Corte dei
Conti della Toscana ha affrontato un
argomento complesso e interessante.
Il Comune richiedente, oltre ad avere
violato il patto di stabilità 2010, aveva
imputato nei precedenti esercizi quote di
spese correnti ai servizi in conto terzi. Il
quesito verteva sulla possibilità, ai fini
dell'applicazione della sanzione di cui
all'articolo 7, comma 2, del Dlgs 149/2011, di
computare, nel calcolo della media triennale
di spesa corrente, oltre agli impegni
riportati nel rendiconto, anche quelli
allocati in conto terzi che, invece,
avrebbero dovuto trovare collocazione al
titolo I.
La sezione sul punto è stata
lapidaria, stabilendo che, a fronte
dell'errata contabilizzazione di spese
correnti nei servizi in conto terzi, è
«contrario a regole di sana gestione, nonché
di corretta contabilizzazione anche agli
effetti degli equilibri fondamentali di
bilancio, calcolare nell'ambito della spesa
media del triennio al fine di determinare il
volume della medesima, la quota
impropriamente imputata ai servizi per conto
di terzi, soprattutto se la stessa non è
dotata di adeguata copertura finanziaria».
Non è possibile, dunque, calcolare ora per
allora la media triennale della spesa
corrente degli esercizi precedenti,
aggiungendovi la quota di spese in conto
terzi che, in caso di corretta gestione,
sarebbe dovuta confluire nel titolo I.
L'operazione, difatti, richiederebbe la
riapprovazione dei bilanci pregressi, il
ricalcolo degli obiettivi del patto, la
rielaborazione dei rendiconti e delle
certificazioni.
Dalla pronuncia si ricava come non sia
lecito beneficiare, a livello di sanzioni,
di pregressi artifici contabili, grazie a
una rielaborazione che faccia rientrare fra
le spese finali rilevanti per il patto
quelle artatamente allocate in conto terzi.
La scelta appare equa, poiché non sembra
logico favorire, a parità di spesa
rilevante, un ente che abbia alterato i
conti rispetto a uno che, pur avendo violato
il patto, li abbia esposti in modo
veritiero.
Dopo questa pronuncia, sarà interessante
conoscere la soluzione della questione
concernente la determinazione del saldo
obiettivo in situazioni simili, vale a dire
di alterazioni di bilancio che abbiano
determinato una minore spesa corrente
impegnata al titolo I rispetto a quella
realmente sostenuta. In questo caso,
infatti, la mera considerazione dei dati
contabili non riclassificati porterebbe,
stanti le regole attuali, al miglioramento
del saldo obiettivo, con un'agevolazione, di
certo non equa, in favore dell'ente che
abbia manipolato i bilanci rispetto ad uno
che, a parità di condizione finanziaria
sostanziale, abbia fornito dati veritieri.
Il tema potrebbe essere non solo dottrinale,
viste le attuali tensioni nell'ambito della
finanza locale.
Un inciso, infine, sui risvolti di simili
episodi in termini di finanza pubblica
allargata. L'imputazione di spese nei
servizi in conto terzi, al pari dei debiti
fuori bilancio, oltre a violare palesemente
le regole del Tuel, può causare anche
un'alterazione, di pari importo, dei conti
pubblici complessivi. In base alle regole
del Sec95, difatti, l'allocazione in conto
terzi fa sì che la spesa, spesso priva di
copertura finanziaria a causa
dell'inesistenza sul piano sostanziale della
correlata entrata, sfugga alle procedure di
consolidamento dei conti nazionali in
termini di indebitamento netto. Per questo,
non si può che richiamare gli operatori alla
massima prudenza
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2011
- link a www.corteconti.it). |
LAVORI PUBBLICI: Il
leasing dipende dal peso del rischio.
La
delibera 16.09.2011 n. 49 della Corte dei
Conti a
Sezz. riunite arriva dopo alcune pronunce
delle sezioni regionali che già avevano
"messo in allerta" le amministrazioni
rispetto all'utilizzo del leasing
immobiliare per spostare un indebitamento
sulla parte corrente del bilancio (82/2010
Piemonte; 14/2011 Marche; 352/2011 Veneto).
In realtà, dai bandi pubblicati era
abbastanza evidente che si trattava in
maggioranza di operazioni che nascondevano o
chiamavano in diverso modo il finanziamento
di un appalto tradizionale: contratti
separati (leasing e appalto), rischi
prevalentemente a carico
dell'amministrazione.
Se il rischio di costruzione risulta spesso
trasferito con il contratto chiavi in mano,
che subordina il pagamento al collaudo
dell'opera, altri tendono a rimanere a
carico dell'amministrazione, esattamente
come in operazioni tradizionali.
Il parere della Corte dei conti gioca un
ruolo molto importante, con riferimento a
due situazioni. Da un lato si lancia la
sfida per la strutturazione di operazioni di
Ppp (partenariato pubblico privato) come
contratti capaci di rispondere alle esigenze
di sviluppo di opere pubbliche e
infrastrutture secondo standard di qualità,
allocando i rischi in modo responsabile tra
le parti in gioco (pubbliche e private) in
base al principio del know how. Dall'altro
lato, il parere della Corte dei conti inizia
a sancire un concetto molto importante di
"neutralità contabile" tra leasing e mutuo.
Questo può rafforzare ulteriormente il Ppp:
si dovrebbe scegliere questa tipologia di
contratti perché veramente in grado di
generare un valore aggiunto, non solo di
breve termine e di tipo contabile.
I pareri non devono comunque, nel caso delle
opere cosiddette fredde, far spostare ora le
amministrazioni verso operazioni di project
finance, il cui costo è ben più alto di
quello di un contratto tradizionale o di
leasing e, in buona sostanza, si potrebbe
configurare anch'esso come debito. Rimane
aperta la questione sviluppo e finanziamento
delle opere pubbliche e infrastrutture,
rispetto a cui servirebbero una politica
chiara, modelli di finanziamento adeguati e,
soprattutto, competenze diffuse e un patto
trasparente e collaborativo tra
amministrazioni, finanziatori (banche e
fondi di equity) e costruttori
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2011
- link a www.corteconti.it). |
NEWS |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: LEGGE
DI STABILITÀ/ P.a., vincoli limati sul
personale. Assunzioni col tetto solo su
impiegati a tempo indeterminato. Smentite
nel ddl le interpretazioni prospettate dalla
Corte dei conti.
Il tetto alle assunzioni
per gli enti soggetti al patto, pari al 20%
del costo del personale cessato l'anno
precedente, si applica solo ai dipendenti a
tempo indeterminato.
È il
disegno di legge
di stabilità per il 2012, approvato
dal consiglio dei ministri venerdì scorso, a
chiarire l'interpretazione corretta
dell'articolo 14, comma 9, del dl 78/2010,
convertito in legge 122/2010, smentendo in
modo piuttosto aperto la deliberazione della
Corte dei conti, Sezioni Riunite 46/2011.
Come si ricorda, le Sezioni Riunite hanno
ritenuto che il tetto di spesa debba valere
per qualsiasi tipo di assunzione e
contratto, ivi comprese, dunque, le
assunzioni flessibili.
Molte sono le perplessità che ha destato la
conclusione della magistratura contabile: la
principale tra esse la considerazione
evidente che il legislatore abbia inteso
ridurre la spesa fissa e continuativa del
personale, ma non quella connessa ad
esigenze flessibili, per sua natura
variabile nel tempo e, dunque, inidonea ad
un tetto di spesa come quello del 20% del
costo delle cessazioni.
Il disegno di legge di stabilità conferma
che l'intenzione del legislatore era ben
diversa da quanto hanno ritenuto le Sezioni
Riunite. E chiarisce la portata della
disciplina del tetto di spesa apportando due
modifiche all'impianto della manovra del
2010.
Il primo intervento è una novellazione
dell'articolo 76, comma 7, della legge
133/2008, (oggetto della norma contenuta
nell'articolo 14, comma 9, del dl 78/2020)
aggiungendovi la precisazione che gli enti
soggetti al patto (i «restanti enti»)
possono procedere ad assunzioni di personale
«a tempo indeterminato». Il nuovo
testo dell'articolo 76, comma 7, della legge
133/2008, pertanto, conterrà espressamente
la limitazione del meccanismo del tetto
della spesa ai soli contratti a tempo
indeterminato.
In secondo luogo il disegno di legge di
stabilità modifica anche l'articolo 9, comma
28, del dl 78/2010, convertito in legge
122/2010, così da precisare che il
contenimento della spesa per personale
flessibile, pari al 50% di quella del 2009
per le amministrazioni statali, valga solo
come principio anche per gli enti locali.
A ben vedere, della novellazione
dell'articolo 9, comma 28, della legge
122/2010 non c'era bisogno. Lo stesso
concetto, ovvero che la riduzione del costo
del personale flessibile costituisca un
principio generale, finalizzato a ridurre il
costo complessivo del personale, è espresso
dall'articolo 1, comma 557, lettera a),
della legge 296/2006, come novellato
dall'articolo 14, comma 7, della legge
122/2010.
In ogni caso, la novellazione dell'articolo
9, comma 28, della legge 122/2010 chiarisce
che il contenimento della spesa per il
lavoro flessibile, per quanto autonomamente
definibile da ciascun ente, deve essere
sostanzioso. Gli enti locali non saranno
obbligati a ridurlo né del 20% del costo
delle cessazioni dell'anno precedente, né
del 50% del costo affrontato a questo titolo
nel 2009, ma dovranno abbatterlo in modo
significativo, così da rispettare i principi
normativamente posti. Senza, tuttavia, le
commistioni tra misure di contenimento del
lavoro a tempo indeterminato e di
diminuzione della spesa del personale
flessibile che avrebbe causato la delibera
46/2011 delle Sezioni Riunite
(articolo ItaliaOggi del 18.10.2011
- link a www.corteconti.it). |
SEGRETARI COMUNALI: Stipendi
dei segretari, galleggiamento limitato.
Limitato il «galleggiamento» dello
stipendio dei segretari comunali e
provinciali.
Il
ddl di stabilità
per il 2012 interviene sul
controverso istituto regolato dall'articolo
41, commi 4 e 5, del Ccnl 16.05.2011, allo
scopo di contenerne gli effetti finanziari
distorsivi e di superare i problemi posti da
alcune sentenze dei giudici del lavoro.
La «clausola del galleggiamento» ha
lo scopo di perequare la retribuzione di
posizione dei segretari a quella del
dipendente di ruolo meglio retribuito. La
relazione tecnica allegata al ddl rileva che
in molti casi, dalle verifiche ispettive, è
emerso che l'istituto è stato applicato in
modo distorto. Tra i tanti problemi posti,
quello di capire se nella retribuzione di
posizione del segretario dovesse
comprendersi o meno l'incremento consentito
dall'articolo 41, comma 4, del Ccnl
16.05.2011, dovuto all'attribuzione di «incarichi
ulteriori». Molti enti hanno apportato
alla retribuzione di posizione sia detto
incremento per incarichi ulteriori, sia il
galleggiamento, senza assorbire nel
galleggiamento stesso l'incremento
contrattuale.
La Ragioneria generale dello Stato e l'Aran
si sono espressi in senso totalmente
opposto. Tuttavia, nell'ambito dell'ampio
contenzioso giudiziale emerso, la
giurisprudenza di merito, in primo grado, si
è orientata nel senso maggiormente
favorevole ai segretari, causando con ciò «effetti
onerosi per i bilanci degli enti e quindi
per la finanza pubblica», come
sottolinea la relazione tecnica al ddl.
Per tale ragione, il legislatore intende
eliminare i dubbi interpretativi e porre un
argine agli effetti negativi, in termini
retributivi, delle sentenze finora emanate.
Per questa ragione, si prevede che
l'allineamento stipendiale «si applica
alla retribuzione di posizione
complessivamente intesa, ivi inclusa
l'eventuale maggiorazione di cui al comma 4
del medesimo articolo 41. A far data
dall'entrata in vigore della presente norma
è fatto divieto di corrispondere somme in
applicazione dell'art. 41, comma 5, del Ccnl
del 16.05.2001 diversamente conteggiate,
anche se riferite a periodi già trascorsi».
Di conseguenza, gli incrementi per gli «incarichi
aggiuntivi» finiranno per ridurre
l'ammontare del galleggiamento.
Il ddl di stabilità farà, tuttavia, salva
l'esecuzione dei giudicati formatisi alla
data di entrata in vigore della presente
legge.
Rimane, tuttavia, interamente irrisolto il
problema dell'ammissibilità nell'ordinamento
di una clausola di galleggiamento
stipendiale come quella regolata dal Ccnl
dei segretari comunali, vigente l'articolo
2, comma 4, del decreto legge 333/1992,
convertito nella legge 438/1992,
interpretato autenticamente dall'articolo 7,
comma 7, del decreto legge 384/1992,
convertito in legge 438/1992, a mente del
quale «l'art. 2, comma 4, del dl
11.07.1992, n. 333, convertito, con
modificazioni, dalla L. 08.08.1992, n. 359,
va interpretato nel senso che dalla data di
entrata in vigore del predetto decreto-legge
non possono essere più adottati
provvedimenti di allineamento stipendiale,
ancorché aventi effetti anteriori
all'11.07.1992»
(articolo ItaliaOggi del 18.10.2011
- link a www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
Scia a pieno titolo negli ordinamenti locali.
In Toscana e in Umbria esce di scena la Dia
e per tutti gli interventi costruttivi per
la cui realizzazione non è richiesto il
permesso di costruire è sufficiente la Scia
(Segnalazione certificata di inizio
attività).
Sono i principali risultati
prodotti, almeno finora, dall'adesione delle
Regioni alle previsioni della parte
dell'articolo 5 del Dl 70/2011 sulla
semplificazione delle procedure relative
all'edilizia privata.
In Toscana, con la sparizione
dall'ordinamento regionale della Dia (legge
40/2001), possono essere realizzati con il
ricorso alla Scia –e quindi avviati appena
dopo aver presentato la documentazione in
Comune– interventi per l'abbattimento delle
barriere architettoniche (anche se
comportano un aumento delle superfici
esistenti o se sono eseguiti in deroga agli
indici di edificabilità), interventi di
manutenzione straordinaria, di restauro e
risanamento conservativo, di
ristrutturazione edilizia. È sufficiente la
Scia anche per particolari casi di mutamento
della destinazione d'uso degli immobili,
edifici e aree.
Tra la documentazione che
deve essere allegata alla Scia vi è la
relazione con la quale il progettista
assevera che l'opera da realizzare è
conforme agli strumenti urbanistico
comunali. Il professionista che attesta il
falso dovrà affrontare oltre al giudizio
disciplinare dell'ordine professionale di
appartenenza anche quello di una corte
penale.
Anche in Umbria si restringe il ventaglio
dei titoli abilitativi alla costruzione, con
la sostituzione generalizzata della Dia con
la Scia. Con un ampio provvedimento di
semplificazione amministrativa
dell'ordinamento regionale e di quello degli
enti locali territoriali (legge 8/2011)
viene recepito nella normativa regionale il
comma 4-ter dell'articolo 49 del Dl 78/2010,
che stabilisce che «le espressioni
segnalazione certificata di inizio attività
o Scia sostituiscono, rispettivamente,
quelle di dichiarazione di inizio attività
Dia, ovunque ricorrano, anche come parte di
una espressione più ampia».
Un ribaltamento
totale pure in fatto di silenzio-assenso:
nella normativa previgente se il
responsabile del procedimento nei 15 giorni
successivi alla richiesta non rilasciava il
permesso di costruire operava il
silenzio-rifiuto; con la nuova legge,
trascorso quello stesso periodo di tempo
senza che l'amministrazione comunale «abbia
adottato un provvedimento di diniego, il
permesso di costruire si intende assentito».
La Regione Lazio con la legge 10/2011, di
modifica del piano casa, è intervenuta per
semplificare le procedure di approvazione
degli strumenti urbanistici. Viene riformata
la legge regionale 36/1987, sullo
snellimento delle procedure urbanistiche ed
edilizie, assegnando esclusivamente alla
giunta regionale l'approvazione dei piani
attuativi degli strumento urbanistici.
Le
nuove norme elencano le modifiche che non
costituiscono variante a un piano attuativo
e che possono essere approvate dallo stesso
organo comunale che rilascia il permesso di
costruire
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2011). |
ENTI LOCALI: Funzionari
nei consigli tributari.
DOPPIO INCENTIVO - La creazione
dell'organismo è indispensabile per i premi
antievasione e gli sconti da Robin Tax.
Entro il 31 dicembre i Comuni dovranno
istituire i consigli tributari, non solo per
elevare dal 50 al 100% la quota di
compartecipazione ai tributi erariali, ma
anche per accedere al beneficio, previsto
nello stesso decreto 138/2011,
dell'alleggerimento del patto di stabilità
interno mediante l'utilizzo del gettito
della "Robin Tax".
È difficile individuare le ragioni di tanto
rigore normativo e di tanta insistenza,
soprattutto se si guarda alla nuova versione
dell'articolo 44 del Dpr 600/1973, che sembra
attribuire al consiglio tributario un ruolo
del tutto autonomo rispetto a quello del
Comune. È infatti previsto che l'agenzia
delle Entrate metta a disposizione dei
consigli tributari le dichiarazioni dei
redditi e che le segnalazioni qualificate
siano inviate, oltre che dal Comune, anche
dal consiglio tributario.
Inoltre,
l'Agenzia, prima dell'emissione di atti di
accertamento sul reddito delle persone
fisiche, dovrà inviare una segnalazione ai
Comuni, «nonché ai relativi consigli
tributari». Peraltro, l'agenzia delle
Entrate finora non ha inviato segnalazioni
ai Comuni, nonostante l'obbligo sancito dal
Dl 78/2010 non fosse subordinato
all'emanazione di alcun provvedimento né,
tantomeno, all'istituzione del consiglio
tributario.
I Comuni si interrogano su ruolo, funzione e
composizione del consiglio tributario. Le
scelte finora compiute sono molto variegate
e a volte contrapposte, come quella del
Comune di Bologna, che ha previsto una
composizione tecnica mista (dirigenti
comunali e dirigenti delle agenzie delle
Entrate e del Territorio, oltre che
dell'Inps), mentre il Comune di Venezia ha
previsto che il consiglio comunale elegga
tre componenti, sancendo l'incompatibilità
per i dipendenti di Entrate e Territorio.
Va segnalata l'iniziativa di Anci Emilia
Romagna (sul sito
www.anci.emilia-romagna.it): una proposta di
delibera e regolamento che prevede la
partecipazione al consiglio tributario dei
funzionari comunali responsabili degli
ambiti di intervento individuati dal
provvedimento del direttore dell'agenzia
delle Entrate del 03.12.2007, oltre
alla possibilità di invitare alle sedute del
consiglio, se necessario, i rappresentanti
della stessa Agenzia e di quella del
Territorio, della Guardia di Finanza,
dell'Inps e delle associazioni di categoria.
Quale che sia la scelta da operare, occorre
partire dalla norma originaria istitutiva
del consiglio tributario, il Dlgs
luogotenenziale 08.03.1945, n. 77,
rilevando che è inapplicabile, in quanto
l'articolo 2 e l'articolo 30 prevedono
l'emanazione di provvedimenti necessari per
l'esecuzione del decreto stesso, che non
risultano mai essere stati emanati. Il vuoto
normativo potrà essere colmato mediante
norme di carattere generale, e in
particolare mediante l'esercizio della
potestà regolamentare, disciplinata
dall'articolo 7 del Dlgs 267/2000 (Tuel) e,
nella specifica materia tributaria,
dall'articolo 52 del Dlgs 446 del 1997.
Per gli enti sotto i 5mila abitanti è
previsto l'obbligo di istituire il consiglio
mediante consorzio, ma queste strutture sono
state soppresse dalla legge 191 del 2009, a
decorrere, in forza di vari rinvii, dall'01.01.2012. Il Comune potrà utilizzare
altre forme di cooperazione, anche alla luce
di provvedimenti normativi che comunque
obbligano le amministrazioni a gestire le
funzioni fondamentali mediante l'Unione o
l'ufficio associato; da ultimo, lo stesso Dl
138 del 2011, all'articolo 16, comma 16, ha
previsto la possibilità di esercitare le
funzioni amministrate e i servizi pubblici
mediante convenzione secondo l'articolo 30
del Tuel
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2011
- link a www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Contributi
legati agli stipendi pagati.
Arrivano i chiarimenti Inpdap su alcune
problematiche applicative del Dl 78/2010.
Con la
nota operativa 05.10.2011 n. 22 l'istituto analizza i
riflessi previdenziali delle progressioni
giuridiche ma non economiche e le modalità
di calcolo e versamento dei contributi per
le riduzioni dei compensi oltre i 90mila e i
150mila euro.
L'articolo 9 della Dl 78/2010 ha introdotto
diverse disposizioni di forte impatto, prima
fra tutte la previsione che per gli anni
2011, 2012 e 2013 le progressioni di
carriera comunque denominate e i passaggi
tra le aree hanno effetti solo giuridici.
Innanzitutto è opportuno ricordare che sia
alcune sezioni regionali della Corte dei
conti che la Ragioneria generale dello Stato
(Rgs) hanno riconosciuto che nella
definizione «progressioni di carriera
comunque denominate» si possono far
rientrare anche le progressioni economiche
(orizzontali), e questo nonostante gli
articoli 23 e 24 del Dlgs 150/2009 abbiano
tenuto distinti i due istituti. La Rgs, con
la circolare 12/2011, ha quindi avallato il
principio secondo il quale in questo
triennio un dipendente possa progredire ad
una posizione economica superiore pur non
percependo almeno fino al 2014 –senza il
beneficio della retroattività– il relativo
compenso, e purché le risorse finanziarie
necessarie siano rese indisponibili fino a
tutto il 2013. La tesi, già messa in
discussione per una serie di motivi non solo
giuridici, ma soprattutto di equilibrio del
fondo delle risorse decentrate, necessitava
però di chiarimenti previdenziali. Che sono
puntualmente arrivati con la nota operativa
22/2011 dell'Inpdap.
A fronte del previsto riconoscimento
soltanto giuridico del maggiore livello
retributivo cui non corrisponde il relativo
adeguamento economico, nessun incremento
contributivo è richiesto, per cui in questa
ipotesi il versamento dovuto all'istituto
deve essere rapportato alle sole
retribuzioni di fatto corrisposte. Non va
quindi versata alcuna contribuzione
figurativa.
Altra questione attesissima riguardava il
corretto calcolo dei contributi
previdenziali in caso di decurtazione delle
retribuzioni ai sensi del comma 2
dell'articolo 9 del Dl 78/2010. Si tratta
della riduzione del 5% per i compensi sopra
i 90mila euro e del 10% per i compensi sopra
i 150mila euro, disposizione peraltro
mantenuta in vita per i lavoratori pubblici.
La norma stessa indica che tale decurtazione
non opera a fini previdenziali. I dubbi però
rimanevano. Gli operatori si chiedevano se
comunque il dipendente dovesse pagare la
contribuzione solo sui compensi
effettivamente percepiti e quindi il datore
dovesse intervenire con la cosiddetta
contribuzione figurativa, oppure se, in
questo caso, anche il lavoratore dovesse
versare i contributi sull'importo spettante
ante riduzione.
La Ragioneria generale dello Stato ha optato
per questa soluzione, confermata ora anche
dall'Inpdap. I contributi da versare devono
essere calcolati sull'intera retribuzione
spettante senza tener conto della riduzione
sia per la quota del datore di lavoro che
per quella a carico del lavoratore.
Un'ultima precisazione. Ai fini del
raggiungimento della quota dei 90mila o
150mila euro, si deve fare riferimento a un
criterio di competenza. Infatti, devono
essere conteggiati anche i compensi
corrisposti nell'anno successivo rispetto a
quello in cui si sono effettuate le
prestazioni. Quindi, per esempio,
l'indennità di risultato per l'anno 2011
erogata nel 2012 entra come competenza
dell'anno attualmente in corso
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2011
- link a www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Fotovoltaico, impianti come case.
Il diritto di superficie è la via
privilegiata all'installazione. Studio del
Notariato sulle forme contrattuali a
disposizione dei privati per acquisire gli spazi.
La costituzione di un diritto di superficie
rappresenta lo strumento privilegiato per
l'acquisizione dell'area sulla quale
installare un impianto fotovoltaico, ferma
restando la possibilità di gestire
installazioni del genere anche con strumenti
negoziali diversi, dalla locazione al
comodato.
Quanto sopra si fonda sul presupposto che
questo tipo di impianti debbano considerarsi
beni immobili, alla stregua degli edifici, e
non semplicemente beni mobili ancorati al
suolo. Queste le conclusioni alle quali è
giunto il Consiglio nazionale del notariato
con il recente
studio 14.07.2011 n. 221-2011/C, nel
quale sono state analizzate le varie forme
contrattuali a disposizione dei privati per
l'acquisizione delle aree sulle quali
posizionare gli impianti fotovoltaici.
La natura di bene immobile dell'impianto
fotovoltaico. Nel prendere le mosse dalla
distinzione operata dal codice civile tra
beni mobili e immobili, il Notariato ha
dunque concluso per la riconduzione alla
seconda categoria delle centrali
fotovoltaiche (ovvero degli impianti di
grandi dimensioni e di potenza
complessivamente superiore ai 20 kW).
E questo perché l'eventuale precarietà
dell'elemento materiale dell'ancoraggio al
suolo risulta compensata da una serie di
considerazioni attinenti al profilo
funzionale dell'impianto. Infatti la messa
in opera di una centrale fotovoltaica, ivi
compresa l'integrazione tra i diversi
elementi e il loro allacciamento alla rete
elettrica nazionale, evidenzia uno stretto
collegamento con il luogo in cui lo stesso
viene installato, con la conseguenza che
l'impianto risulta per sua natura
finalizzato a essere utilizzato in via
duratura in una determinata area di
riferimento.
Le tipologie contrattuali per l'acquisizione
delle aree sulle quali impiantare gli
impianti fotovoltaici. Presupposta la natura
di bene immobile delle centrali
fotovoltaiche, lo studio del Notariato
ritiene che lo strumento migliore per
l'acquisizione delle aree di interesse di
proprietà di soggetti terzi sia la
costituzione di un diritto reale di
superficie, che può garantire al titolare un
potere duraturo di utilizzazione del suolo,
mettendo al sicuro il relativo investimento.
Strumenti contrattuali alternativi, quali la
locazione, il comodato e altre fattispecie
obbligatorie, anche non previste dal codice
civile, sembrano invece essere più idonei al
semplice godimento di impianti già
esistenti, essendo privi della predetta
stabilità reale. Sempre secondo lo studio in
questione, del pari poco utile risulta
essere l'istituto civilistico della servitù,
contraddistinto dal fatto che in tali casi è
necessario che esistano due fondi, uno
servente e uno dominante, rispetto ai quali
il proprietario del secondo può vantare una
serie di poteri e facoltà nei confronti del
proprietario del primo.
Volta per volta, al
fine di individuare a quale strumento
giuridico le parti abbiano realmente fatto
riferimento per consentire l'utilizzazione
dell'area necessaria all'installazione
dell'impianto fotovoltaico, andrà dunque
ricercata la volontà che le stesse hanno
inteso esprimere nel relativo contratto. Si
tratta di una questione interpretativa che
ha importanti ricadute dal punto di vista
degli effetti giuridici, nonché dal punto di
vista fiscale (si veda il relativo
articolo).
In casi analoghi la giurisprudenza ha
mostrato di valutare come dirimente la
circostanza se il fondo sia stato
considerato dalle parti contraenti
semplicemente come bene di cui servirsi
secondo la destinazione pattuita o come
spazio utile alla realizzazione e al
mantenimento delle costruzioni, che in
questo caso costituiscono l'oggetto
principale del negozio.
In quest'ultima ipotesi, infatti,
l'attribuzione non già del godimento del
bene in sé, che è caratteristico della
locazione, ma della facoltà di avvalersi del
bene stesso per conseguire quel peculiare
risultato che si concreta nell'uso
edificatorio del suolo è valso a
identificare il diritto concretamente
attribuito con quello di superficie. Sono
inoltre stati considerati elementi utili a
individuare la natura personale o reale del
diritto, oltre al rapporto intercorrente fra
disponibilità del fondo e godimento delle
costruzioni realizzate, la tipologia
dell'opera (stabile o instabile, di maggiore
o minore entità) e l'eventuale esistenza di
limitazioni del diritto nel tempo.
---------------
Trattamento fiscale legato al profilo
civilistico.
Il trattamento fiscale dell'installazione di
impianti fotovoltaici dipende dalla natura
mobile o immobile del bene e dalla tipologia
di contratto di cui ci si è avvalsi per
giustificare l'utilizzo del suolo o di altre
superfici ed è quindi strettamente connesso
al profilo civilistico.
Il Notariato ha quindi redatto un ulteriore
studio 15.07.2011 n. 35-2011/T
nel quale sono stati
esaminati i vari profili fiscali della
contrattazione relativa a detta tipologia di
impianti ed è stata affrontata la questione
della natura immobiliare/mobiliare degli
stessi, dando rilevanza alle regole
catastali che influenzano la formazione
degli atti autentici, ma che, di riflesso,
incidono anche sui rapporti di leasing. In
caso di locazione/affitto dei terreni,
allorché il locatore non agisca
nell'esercizio dell'impresa, l'atto verrà
assoggettato a imposta di registro con
l'applicazione dell'aliquota per l'affitto
di fondi rustici dello 0,50% o per la
locazione degli altri immobili, pari al 2%
(riguardo alla produzione di energia
fotovoltaica si deve tenere presente che la
stessa è considerata attività agricola
connessa, ove l'affittuario del fondo sia
imprenditore agricolo).
Nell'ipotesi di
ricorso al diritto si superficie la relativa
costituzione e il trasferimento da parte di
cedente-costituente che non agisca
nell'esercizio d'impresa segue le regole
dettate per gli atti aventi per oggetto il
trasferimento o la costituzione di diritti
reali. Qualora il cedente agisca invece
nell'esercizio d'impresa, nel caso in cui il
diritto di superficie abbia per oggetto
terreni non suscettibili di utilizzazione
edificatoria, l'atto è considerato cessione
di bene non soggetta a Iva.
Al contrario,
l'operazione è assoggettata all'imposta sul
valore aggiunto e, per il principio di alternatività,
sconta le imposte fisse di registro,
ipotecaria e catastale. Del tutto speculare
a quella dei terreni è la tassazione degli
atti con i quali si concede la possibilità
di realizzare un impianto fotovoltaico con
riferimento ad un fabbricato, che, di
regola, sarà costituito da un'area urbana
ovvero dalla copertura (tetto o lastrico
solare) di un edificio. In quest'ultimo
caso, tuttavia, seguendo il rigido criterio
proposto dall'amministrazione, collegato
all'accatastamento del bene in categoria B,
C, D e A/10, si potrebbe dubitare che tali
possano risultare i lastrici, in quanto
accatastabili in categoria F/5.
In realtà, secondo lo studio del Notariato,
più elementi inducono a ritenere che i
lastrici solari abbiano natura di fabbricati
strumentali, quanto meno nei casi in cui il
loro autonomo accatastamento sia realizzato
dallo scorporo da un fabbricato avente tale
connotazione. Quanto all'imposta Ici, il
Notariato segnala la possibile assimilazione
degli impianti a quelli di interesse
pubblico, per i quali vale l'esenzione da
dall'imposta
(articolo ItaliaOggi
Sette del 17.10.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Malattia lunga, il certificato
è doc.
Per prognosi oltre i dieci giorni occorre il
medico dell'Ssn. Estesa al settore privato
la disciplina dei dipendenti pubblici sulla
giustificazione delle assenze.
Per la malattia lunga serve un certificato
medico «doc». Nei casi di assenza superiori
ai dieci giorni, infatti, il lavoratore deve
munirsi di certificato rilasciato da un
medico del servizio sanitario o
convenzionato. Il vincolo, finora vigente
per gli impiegati statali, è stato esteso al
privato dal Collegato lavoro.
E vale non solo in caso di lunghe malattie
(superiori a dieci giorni), ma per le
infermità oltre la seconda in un anno.
Malattia online. La novità scaturisce dal
processo di uniformazione dei regimi
previsti per i dipendenti pubblici e quelli
privati in ordine alle certificazioni di
malattia. Unificazione che ha portato, dal
14 settembre, all'entrata in vigore di
un'unica disciplina sulla trasmissione in
via telematica dei certificati medici
all'Inps. La necessità di un certificato
«doc» già vigente per i dipendenti pubblici
e ora estesa ai privati scaturisce proprio
da questa equiparazione.
Regime unico. La legge n. 183/2010
(Collegato lavoro), nel completare questo
processo di unificazione, ha fatto un
rimando integrale ed esplicito all'articolo
55-septies del dlgs n. 165/2001, ossia al
T.U. sul pubblico impiego. Ciò ha
comportato, evidentemente, l'entrata in
vigore di un unico regime per i dipendenti
sia del settore pubblico che privato, anche
per quanto concerne gli aspetti sanzionatori
riferiti ai medici del Ssn o con esso
convenzionati.
Successivamente, con
l'entrata in vigore (dal 6 luglio) del dl n.
98/2011, è arrivata un'ulteriore
innovazione: «Nel caso in cui l'assenza per
malattia abbia luogo per l'espletamento di
visite, terapie, prestazioni specialistiche
o esami diagnostici l'assenza è giustificata
mediante la presentazione di attestazione
rilasciata dal medico o dalla struttura,
anche privata, che hanno svolto la visita o
la prestazione».
Quando serve una certificazione «doc». Il
Collegato lavoro ha stabilito che, per
garantire un quadro completo e univoco delle
assenze per malattia nei settori pubblico e
privato, nonché un efficace sistema di
controllo, dall'01.01.2010 (termine poi
slittato al 14 settembre scorso, per il solo
settore privato), in tutti i casi di assenza
per malattia dei dipendenti di datori di
lavoro privati, per il «rilascio» e la
«trasmissione» della attestazione di
malattia si applicano le disposizioni di cui
all'articolo 55-septies del dlgs n.
165/2001.
È proprio questo rinvio normativo
a determinare, per il settore privato, la
necessità di ricorrere a una certificazione
«doc» in alcune situazioni. Nel dettaglio è
nei casi di assenza per malattia superiori a
dieci giorni e comunque nei casi di eventi
successivi al secondo nel corso dello stesso
anno solare che anche per il lavoratore del
settore privato è divenuto obbligatorio
produrre, al datore di lavoro, idonea
certificazione rilasciata unicamente dal
medico del Ssn o con esso convenzionato.
Fa
eccezione a tale regole l'assenza di
malattia per l'espletamento di visite,
terapie, prestazioni specialistiche o
diagnostiche per le quali la certificazione
giustificativa può essere rilasciata anche
da medico o struttura privata.
---------------
La richiesta viaggia sul canale telematico.
Dall'01.10.2011, le richieste di visita
medica di controllo devono essere inoltrate
mediante canale telematico. La novità fa
parte del piano di «estensione e
potenziamento dei servizi telematici offerti
dall'Inps ai cittadini», in costruzione
progressiva dal 1° gennaio di quest'anno e
che prevede l'utilizzo graduale del canale
telematico per la presentazione delle
principali domande di prestazioni/servizi.
Dal 1° ottobre, dunque, è stata attivata,
per i datori di lavoro, la modalità di
presentazione telematica della richiesta del
servizio di controllo dello stato di salute
dei propri dipendenti in malattia (la
cosiddetta visita fiscale), in virtù di
quanto previsto dall'articolo 38 della legge
n. 122/2010. Il servizio di richiesta, in
modalità telematica, delle visite mediche di
controllo domiciliare e/o ambulatoriale
riguarda tutti i datori di lavoro, pubblici
e privati, compresi quelli i cui dipendenti
non sono tenuti al versamento della
contribuzione di finanziamento
dell'indennità economica di malattia
all'Inps. Per l'utilizzo del servizio
occorre essere abilitati all'accesso.
Tutti
i soggetti già dotati di Pin e attualmente
in grado di consultare gli attestati di
malattia sono abilitati al servizio
automaticamente. Invece i datori di lavoro o
loro incaricati non ancora abilitati ai
servizi di consultazione degli attestati di
malattia, per poter accedere al servizio,
devono presentare presso una sede dell'Inps
i seguenti documenti: modulo di richiesta,
compilato e sottoscritto dallo stesso datore
di lavoro privato o dal legale
rappresentante (ove il datore di lavoro sia
pubblico o organizzato in forma associata o
societaria), con l'elenco dei dipendenti per
i quali si chiede il rilascio del Pin per
l'accesso agli attestati di malattia del
personale con allegata copia del documento
d'identità del sottoscrittore; modulo di
richiesta «individuale» compilato e firmato
da ogni dipendente autorizzato, con allegata
una fotocopia del documento d'identità del
sottoscrittore.
I datori di lavoro o loro
incaricati che intendano affidare il
servizio di richiesta visita medica di
controllo a un soggetto diverso da quello
attualmente dotato di abilitazione per la
consultazione degli attestati di malattia,
devono comunicarlo all'Inps, che provvederà
a modificare i relativi profili
autorizzativi. Inoltre, gli stessi datori di
lavoro o loro incaricati in possesso di Pin
sono tenuti a chiedere tempestivamente la
revoca dell'autorizzazione all'Inps (che
provvederà a cessare, con effetto immediato,
l'abilitazione), al verificarsi della
cessazione dell'attività, della sospensione
o del trasferimento in altra struttura
dell'intestatario del Pin.
La richiesta di visita medica di controllo,
che viene indirizzata in automatico alla
sede competente dell'Inps per
residenza/domicilio o per reperibilità del
lavoratore, può essere effettuata per un
solo lavoratore e per una sola visita alla
volta. È possibile, inoltre, richiedere
anche la visita di controllo ambulatoriale
Inps, per casi eccezionali e motivati, cui
fa seguito una verifica di fattibilità, da
un punto di vista organizzativo-temporale,
da parte della sede territoriale dell'Inps.
La procedura di richiesta di visita medica
di controllo si compone di più pannelli che
consentono un colloquio interattivo con
l'utente che comunica i dati relativi alla
richiesta, in modalità guidata dal sistema
informatico: preimpostando i dati ove già
disponibili (i dati anagrafici del datore di
lavoro, per le imprese iscritte a Inps e del
lavoratore se presente nell'archivio
anagrafico unico); costruendo e completando
dinamicamente le informazioni (per esempio,
la selezione del comune nell'ambito della
provincia già specificata); indirizzando
l'utente con domande specifiche (per esempio
«Il lavoratore ha diritto all'indennità di
malattia a carico dell'Inps?»); segnalando i
dati obbligatori (un asterisco, '*', accanto
al campo); sottoponendo i dati forniti
all'immediato controllo formale; utilizzando
una messaggistica puntuale per segnalare le
informazioni incongruenti. Inoltrata la
richiesta di visita medica di controllo, si
ottiene in risposta una ricevuta, con la
segnatura di protocollo in entrata assegnata
dal sistema Inps. Infine, è possibile
visualizzare anche l'esito della visita.
Come detto, le richieste di visita medica di
controllo devono essere inoltrate attraverso
il canale telematico dal 1° ottobre.
In fase
di prima attuazione del processo telematizzato
è concesso un periodo transitorio, fino al
30 novembre, durante il quale le richieste
di visita medica di controllo inviate
attraverso i canali tradizionali sono
considerate validamente presentate, ai fini
degli effetti giuridici previsti dalla
normativa in materia. Alla scadenza, il
canale telematico diventa esclusivo
(articolo ItaliaOggi
Sette del 17.10.2011). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Il
costo di costruzione c'è. Dall'ingrosso al
dettaglio, il commerciante paga. Sentenza
del Consiglio di stato: l'onere rimane,
anche senza lavori edilizi.
Il costo di costruzione
previsto dagli oneri di urbanizzazione
imposti ai commercianti dalla legge
cosiddetta «Bucalossi» è dovuto in quota
corrispondente anche se nei locali non sono
stati effettuati interventi edilizi per
consentire il passaggio dalla vendita
all'ingrosso a quella al dettaglio.
Lo precisa la
sentenza
14.10.2011 n. 5539 dalla IV Sez. del
Consiglio di Stato.
Trasformazione e vantaggio.
L'impresa che ha sede nell'area urbana
destinata all'industria e all'artigianato è
«pizzicata» dal Comune: il cambio di
destinazione d'uso realizzato nei locali con
il «via» alla vendita al dettaglio
non risulta autorizzato nell'ambito della
concessione ottenuta. Scatta così la
rideterminazione degli oneri di
urbanizzazione, primaria e secondaria. Che
tuttavia il commerciante non contesta.
Ciò
che non vuole pagare l'azienda, che per
ironia della sorte vende prodotti per
l'edilizia, sono i costi di costruzione. E
la motivazione è che non sono stati
realizzati lavori per aprire la vendita al
pubblico: l'ampiezza della superficie «dedicata»
non è cambiata. Ma la censura non coglie nel
segno.
È vero: il contributo relativo al costo di
costruzione di cui alla legge Bucalossi è
riconducibile all'attività costruttiva
considerata in sé. Ma attenzione, si tratta
di un prelievo che ha natura paratributaria:
il corrispettivo è comunque dovuto in
presenza di una «trasformazione edilizia»
produce vantaggi economici connessi
all'utilizzazione. E ciò indipendentemente
dall'esecuzione fisica di opere. Con il
passaggio dall'ingrosso al dettaglio si
verifica un mutamento d'uso rilevante
nell'esercizio commerciale: si tratta,
infatti, di due categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico e la
trasformazione determina comunque un aumento
del cosiddetto «carico urbanistico».
Scorporo impossibile.
La mancata realizzazione di opere edilizie
all'interno dei locali è irrilevante. Il
passaggio dall'ingrosso al dettaglio
comporta maggiori oneri sociali delle opere
di urbanizzazione e fa perciò insorgere il
presupposto imponibile per la debenza del
contributo concessorio comprensivo della
quota relativa al costo di costruzione: ne
consegue che l'utilizzatore del beneficio
deve pagare la differenza tra gli oneri di
urbanizzazione già corrisposti per la
destinazione d'uso originaria e quelli, se
più elevati come nel caso di specie, dovuti
per la nuova destinazione impressa
all'immobile.
E il contributo concessorio
così rideterminato comprende necessariamente
anche il costo di costruzione
(articolo ItaliaOggi del 18.10.2011). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presenza di vincoli di inedificabilità
assoluta a’ sensi dell’art. 33 della L. 47
del 1985 introdotti in un momento successivo
all’edificazione non esclude di per sé la
sanatoria, imponendo comunque la verifica di
compatibilità da parte dell’Autorità
preposta alla tutela del vincolo.
In effetti, la presenza di vincoli di
inedificabilità assoluta a’ sensi dell’art.
33 della L. 47 del 1985 introdotti in un
momento successivo all’edificazione non
esclude di per sé la sanatoria, imponendo
comunque la verifica di compatibilità da
parte dell’Autorità preposta alla tutela del
vincolo (così Cons. Stato, A.P., 22.07.1999
n. 20)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.10.2011 n. 5535 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte effettuate dalla P.A. in sede di
formazione ed approvazione dello strumento
urbanistico sono accompagnate dal
un’amplissima discrezionalità e per ciò
stesso sono nel merito insindacabili se non
per errori di fatto, abnormità e
irrazionalità.
L’Amministrazione, in virtù della suddetta
discrezionalità, non è tenuta a fornire
un’apposita motivazione in ordine alle
scelte operate, rinvenibile, comunque,
questa, nelle ragioni che giustificano
l’impostazione del piano; e, avuto riguardo
alla destinazione delle singole aree, la
scelta urbanistica non abbisogna di
specifica motivazione se non nel caso che si
vada ad incidere su posizioni giuridicamente
differenziate.
Le scelte effettuate dalla P.A. in sede di
formazione ed approvazione dello strumento
urbanistico sono accompagnate dal
un’amplissima discrezionalità e per ciò
stesso sono nel merito insindacabili se non
per errori di fatto, abnormità e
irrazionalità (cfr. Cons. Stato Sez. IV
06/02/2002 n. 664; idem 09/07/2002 n. 3817;
27/07/2010 n. 4920).
L’Amministrazione, in virtù della suddetta
discrezionalità, non è tenuta a fornire
un’apposita motivazione in ordine alle
scelte operate, rinvenibile, comunque,
questa, nelle ragioni che giustificano
l’impostazione del piano (cfr. Cons. Stato
Sez. IV 18/08/2004 n. 4550); e, avuto
riguardo alla destinazione delle singole
aree, la scelta urbanistica non abbisogna di
specifica motivazione se non nel caso che si
vada ad incidere su posizioni giuridicamente
differenziate (cfr. Con stato Sez. IV
10/02/2007 n. 2418; idem n. 4920/2010 già
citata)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.10.2011 n. 5534 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte effettuate dalla P.A. in sede di
redazione di strumenti urbanistici (nella
specie trattasi di variante generale di
assestamento al PRG) sono nel merito
insindacabili (in quanto accompagnate da
un’amplissima valutazione discrezionale) e
per ciò stesso attaccabili solo per errori
di fatto, abnormità ed irrazionalità delle
stesse.
Quanto poi alla destinazione impressa alla
zona, le scelte non necessitano di specifica
motivazione se non nel caso che la scelta
vada ad incidere su una preesistente
posizione giuridica soggettiva
differenziata.
Va in primis osservato come le scelte
effettuate dalla P.A. in sede di redazione
di strumenti urbanistici (nella specie
trattasi di variante generale di
assestamento al PRG) siano nel merito
insindacabili (in quanto accompagnate da
un’amplissima valutazione discrezionale) e
per ciò stesso attaccabili solo per errori
di fatto, abnormità ed irrazionalità delle
stesse (cfr. Cons. Stato Sez. IV 06/02/2002
n. 664; idem 27/07/2010 n. 4920),
connotazioni nella specie non rinvenibili e
comunque non provate dalla parte
interessata.
Quanto poi alla destinazione impressa alla
zona, le scelte non necessitano di specifica
motivazione se non nel caso che la scelta
vada ad incidere su una preesistente
posizione giuridica soggettiva differenziata
(cfr. Cons. Stato Sez. IV 10/02/2009 n.
2418), ma non è questo il caso che ci occupa
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.10.2011 n. 5533 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
L'avviso d'immissione in possesso
è legittimamente notificato al proprietario
catastale del fondo oggetto dell'occupazione
d'urgenza.
In relazione ad essa va premesso che ai
sensi dell'art. 3, comma 4, della l.
03.01.1978 n. 1, l'avviso d'immissione in
possesso è legittimamente notificato al
proprietario catastale del fondo oggetto
dell'occupazione d'urgenza, essendo onere
del privato interessato curare l'esatta
corrispondenza delle risultanze catastali
alla reale situazione giuridica del bene
oggetto della procedura ablatoria (cfr:
Consiglio Stato, sez. IV, 20.05.1997, n.
957).
E’ ben vero che, più recentemente, la
giurisprudenza amministrativa ha ammorbidito
la portata di tale asserzione, affermando
che il principio generale per cui l'avviso
di immissione in possesso è legittimamente
notificato al proprietario catastale del
fondo non trova applicazione, perché ne
viene meno la logica acceleratoria che lo
sorregge, nell'ipotesi in cui
l'Amministrazione abbia sicura ed esatta
conoscenza della situazione dominicale,
tanto da instaurare un contraddittorio nel
procedimento con i proprietari effettivi e
da notificare a questi altri atti della
procedura (cfr: Consiglio Stato , sez. IV,
17.12.2003, n. 8289), ma tale correttivo non
rileva nel caso di specie, non essendosi
data la prova che l’amministrazione fosse
comunque a conoscenza del dichiarato
trasferimento del diritto di proprietà
sull’area interessata dal procedimento
espropriativo (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 12.10.2011 n. 970 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Il Comune non è competente in
ordine alla realizzazione di una Caserma dei
Carabinieri.
La decisione del Comune di annullare in
autotutela le delibere del 2006, con cui si
era deciso di dar corso alla procedura di
finanza di progetto per la scelta del
contraente cui affidare la realizzazione
della Caserma dei Carabinieri, è stata
assunta senza il concorso delle Autorità
statali individuate come competenti dalla
normativa primaria. Difatti, ai sensi
dell’art. 3 della legge n. 16 del 1985 (ora
abrogato dal D.Lgs. n. 66 del 2010, Codice
dell’ordinamento militare), le Caserme dei
Carabinieri, essendo destinate alla difesa,
rientrano tra le opere pubbliche di natura
militare (TAR Lazio, Latina, 15.02.1990, n.
79).
A ciò si ricollega un filone
giurisprudenziale, che il Collegio
condivide, secondo cui “per le opere
militari (tra cui le caserme, pur se ubicate
nell’ambito urbano) tutte le competenze di
programmazione, localizzazione,
progettazione, esecuzione e controllo, sono
di esclusiva pertinenza dell’Autorità
statale, con esclusione di qualsiasi
competenza o intervento di altre Autorità
regionali o comunali” (TAR Sardegna,
Cagliari, II, 06.09.2007, n. 1724).
Nel caso di specie, il Comune sarebbe
intervenuto illegittimamente in un ambito
non rientrante nella propria competenza,
oltretutto senza nemmeno provvedere a
coinvolgere gli organismi a ciò deputati,
attraverso la convocazione, ad esempio, di
una Conferenza di servizi.
Inoltre, l’adozione delle delibera
impugnata, essendo avvenuta nell’esercizio
del potere di autotutela, avrebbe richiesto
necessariamente il coinvolgimento del
soggetto privato inciso dal provvedimento
adottato in precedenza.
Proprio in tema di gare pubbliche è stato
affermato che “con la presentazione della
domanda di partecipazione e, ancor più, con
la predisposizione e l’inoltro dell’offerta,
i soggetti concorrenti assumono una
posizione differenziata e qualificata che
giustifica la posizione di contro
interessati ai quali è necessario comunicare
l’avviso di avvio del procedimento ai sensi
della legge sulla trasparenza
amministrativa, al fine di consentire la
difesa del bene della vita dato dalla chance
di aggiudicazione” (Consiglio di Stato,
V, 29.03.2011, n. 1922).
Questo principio vale a maggior ragione nel
caso de quo, visto che il soggetto
privato era stato individuato quale unico
interlocutore e che, pertanto, poteva fino a
quel momento vantare un interesse
qualificato alla realizzazione, con il
sistema della finanza di progetto, della
Caserma dei Carabinieri (cfr. Consiglio di
Stato, V, 06.10.2010, n. 7334) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 10.10.2011 n. 2412 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Cause di esclusione: il giudice
non può sostituire la lex specialis di gara.
Nella ipotesi in cui una causa di esclusione
non sia espressamente contemplata nella
lex specialis di gara, è precluso
all’interprete, sia in sede amministrativa
che giurisdizionale, di desumerla in via
interpretativa.
È peraltro principio consolidato che
l’inosservanza delle prescrizioni del bando
di gara circa le modalità di presentazione
delle offerte, implica l’esclusione dalla
gara solo quando si tratti di prescrizioni
rispondenti ad un particolare interesse
della pubblica amministrazione appaltante, o
poste a garanzia della par condicio dei
concorrenti.
Tuttavia, in assenza di una espressa
previsione e comminatoria di esclusione, non
è consentito al giudice amministrativo di
sovrapporre le proprie valutazioni a quelle
dell’amministrazione che ha predisposto la
lex specialis, dato che il cd.
criterio teleologico ha un valore
esclusivamente suppletivo rispetto a quello
letterale.
Non appare poi superfluo rilevare che, alla
stregua delle norme del bando, nulla poteva
essere giustificato in via preventiva,
tenuto conto che le valutazioni relative
all’ attendibilità delle offerte erano state
effettuate –nel caso di specie– nel rispetto
del principio del contraddittorio
Analogamente l’’ulteriore profilo di censura
relativo al difetto di motivazione, in esito
alla valutazione di congruità dell’offerta,
deve essere respinta.
Sul punto è sufficiente rilevare che, nel
caso di specie, sussiste comunque la
possibilità di ripercorrere il percorso
valutativo, quindi di controllare la
logicità e la congruità del giudizio tecnico
operato dalla stazione appaltante.
Il mezzo di gravame pertanto non merita
accoglimento (commento tratto da
www.leggioggi.it - TAR Lazio-Latina,
sentenza 10.10.2011 n. 792 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Una richiesta di riqualificazione
urbanistica non può essere negata per il
varo del nuovo PUG.
La p.a. non può rinviare il soddisfacimento
dell’interesse alla riqualificazione
urbanistica di un suolo di proprietà di un
privato al momento della adozione del nuovo
strumento urbanistico generale: essa deve
considerare in concreto l’istanza di
riqualificazione colmando senza indugio la
lacuna di disciplina che si verifichi in
seguito alla decadenza di vincoli impressi
al suolo.
Tale obbligo giuridico ha il suo ambito di
riferimento nell’art. 2 della legge
07.08.1990 n. 241, regola che sancisce il
principio della doverosa conclusione di un
procedimento amministrativo con un
provvedimento espresso e i giudici del
Tribunale amministrativo di Lecce
rammentano, sulla stessa scia, di aver
sostenuto già diverse volte la tesi della
sussistenza dell’obbligo, per
l’amministrazione comunale, di dare
riscontro alla istanza con la quale il
privato rivolge richiesta di
riqualificazione urbanistica di un’area di
sua proprietà, che si rimasta priva di
disciplina a causa della decadenza di
vincoli impressi sulla base di precedenti
destinazioni urbanistiche.
Nello specifico, i giudici amministrativi
salentini sottolineano che l’adozione di una
serie di atti rientranti nella complessa
sequenza procedimentale di formazione di un
Piano Urbanistico Generale sia adatta solo
astrattamente a soddisfare l’interesse
pretensivo alla riqualificazione
urbanistica.
E’, infatti, chiaro che l’avvio di un
procedimento finalizzato a dare un nuovo
assetto urbanistico al territorio comunale
finisce con il ricomprendere anche le
aspettative edificatorie del privato, data
la naturale completezza dello strumento
urbanistico generale, come si deduce
dall’art. 7 della legge 1150/1942. Ma
proprio la prospettiva di un complesso iter
procedimentale contraddistinto, peraltro,
dal necessario coinvolgimento di organi
collegiali rappresentativi della
collettività di riferimento concretizza il
rischio di una sostanziale elusione
dell’interesse pretensivo alla
riqualificazione urbanistica.
Detto interesse richiede, invece, secondo i
giudici pugliesi, “risposta puntuale e
satisfattiva, il che vuol dire che il
procedimento di riqualificazione urbanistica
ben può avere ad oggetto la revisione
lenticolare di un solo brano del territorio
comunale, anche quando la P.a. ha
manifestato l’intento di dotarsi di nuovo
strumento urbanistico generale, come nel
caso in trattazione”.
Nella circostanza in commento, infatti, la
macchinosità del procedimento formativo del
PUG si è manifestata concretamente dando
luogo ad un’interruzione dello stesso, a
causa dell’annullamento giurisdizionale
della delibera che il dirigente aveva
richiamato nel corpo del provvedimento
impugnato, con l’obiettivo di certificare
l’intenzione del Comune di darsi un nuovo
assetto urbanistico, capace di considerare
anche gli interessi del ricorrente (commento
tratto da www.documentazione.ancitel.it -
TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 05.10.2011 n. 1714 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI:
Il comune non può impugnare gli
atti relativi alla gestione di una discarica
sita nel territorio di un altro ente locale.
... il Comune ricorrente avrebbe dovuto
dimostrare il pregiudizio effettivamente
subito dall’area di competenza, “posto
che il criterio della vicinitas non è
considerato sufficiente dalla consolidata
giurisprudenza amministrativa” (cfr.,
tra le altre, C.d.S., 16.04.2003, n. 1948)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter,
sentenza 04.10.2011 n. 7682 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Illegittimo l’accesso agli atti
processuali in cui è coinvolto il Comune.
Per costante giurisprudenza (v., da ultimo,
TAR Molise 09.12.2010 n. 1528),
l’ordinamento consente la proposizione della
domanda di accesso ex art. 22 e segg. della
legge n. 241 del 1990 solo se la stessa ha
ad oggetto documenti qualificabili come
amministrativi –quanto meno in senso
soggettivo e funzionale–, mentre preclude la
richiesta di esibizione degli atti
processuali e di quelli espressione di
attività giurisdizionale, ancorché non
immediatamente collegati a provvedimenti che
siano espressione dello ius dicere ma
intimamente e strumentalmente connessi a
questi ultimi (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 04.10.2011 n. 329 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Disporre
di Pec pubblica è un diritto dei cittadini.
La casella di posta è un canale da non
bloccare.
La class action pubblica
inizia ad aprire qualche breccia
nell'inerzia delle amministrazioni.
Il TAR Basilicata, con
sentenza
23.09.2011 n. 478 ha infatti
certificato il diritto dei cittadini a un
settore pubblico minimamente digitalizzato,
accogliendo l'azione avviata da
un'associazione («Agorà digitale») per
imporre alla Regione Basilicata l'adozione
della Pec come via possibile nel rapporto
con i privati. L'associazione chiedeva
l'accertamento del disservizio prodotto
dalla mancata pubblicazione dell'indirizzo
di posta elettronica certificata sulla
home-page del sito istituzionale della
Regione e la conseguente impossibilità di
utilizzo della posta elettronica certificata
per le comunicazioni all'ente.
I giudici hanno accolto la richiesta,
fornendo innanzitutto una serie di
importanti indicazioni operative
sull'utilizzo dello strumento introdotto nel
2009 con il decreto legislativo n. 198. A
poter proporre l'azione sono le associazioni
dotate di sufficiente rappresentatività
degli interessi diffusi di una particolare
categoria di utenti. Esclusi i partiti e i
movimenti politici quindi, come i radicali
che avevano presentato analoga richiesta al
Tar. Se poi il proponente è una persona
fisica, il suo interesse e la sua omogeneità
rispetto alla classe vanno dimostrati in
concreto, mentre se è un ente a tutela di
una posizione collettiva «non occorre
indagare anche sulla sussistenza dei
requisiti di concretezza, attualità e
immediatezza della lesione». Insomma, è
la stessa rappresentatività dell'ente
rispetto a una particolare categoria di
utenti o consumatori a permettere di
verificare l'omogeneità del suo interesse
rispetto a quello della class che
dichiara di rappresentare.
E poi la pronuncia compie un passo in più
per accertare se, sul punto della
digitalizzazione, esiste un obbligo in capo
alla Regione rimasto inadempiuto. Risposta
affermativa. Dopo una ricostruzione
normativa che si conclude con le «Linee
guida per i siti web delle pubbliche
amministrazioni». In queste ultime si
precisa, tra l'altro, che l'elenco delle
caselle di posta elettronica certificata sia
costantemente disponibile all'interno della
testata.
In sintesi, alla Regione può essere
richiesto «l'obbligo di soddisfare la
richiesta di ogni interessato a comunicare
in via informatica tramite posta elettronica
certificata e quindi, a monte, l'obbligo di
adottare gli atti di carattere tecnico ed
organizzativo finalizzati alla pubblicazione
sulla pagina iniziale del sito degli
indirizzi di posta elettronica certificata e
a consentire l'effettiva, concreta ed
immediata possibilità di interagire con
l'ente attraverso tale modalità di
comunicazione elettronica».
L'inerzia della Regione Basilicata, per il
Tar, ha poi come ricaduta la preclusione di
un canale oggi fondamentale nelle
comunicazioni tra pubblica amministrazione e
cittadini. Un vero e proprio disservizio,
per eliminare il quale è utilizzabile la
class action, che costringe gli
interessati a recarsi personalmente presso
gli uffici e a utilizzare la carta per
ricevere e inoltrare documentazione e
comunicazioni.
A essere compresso è poi il diritto del
cittadino a partecipare al procedimento
amministrativo, visto che il Codice
dell'amministrazione digitale consente di
esercitare questi diritti procedimentali
anche attraverso gli strumenti di
comunicazione telematica. Come pure da
valutare è l'effetto sulla disciplina delle
notificazioni. Da qui la condanna inflitta
alla Regione e cioè quella di rendere
disponibile la casella di Pec entro 60
giorni
(articolo Il Sole 24
Ore del 18.10.2011
- link a www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
«promozione» non è un diritto.
CONSEGUENZE PROCESSUALI - Il giudice
ordinario non può imporre il conferimento di
posizioni organizzative ma solo valutare la
legittimità degli atti.
La posizione giuridica in capo al dipendente
che aspira a una posizione organizzativa non
è corrispondente a un diritto soggettivo
perfetto, ma costituisce "solo" un interesse
legittimo di diritto privato in un contesto
di lavoro pubblico costituzionalizzato. Il
dipendente che aspira ad essere incaricato
di posizione organizzativa ha un interesse
legittimo a che la procedura sia svolta in
modo corretto, al quale si contrappone però
un potere discrezionale da parte del «datore
di lavoro», anch'esso di diritto privato; lo
stesso datore può accogliere o meno la
richiesta di conferimento dell'incarico,
sempre nel rispetto della procedura.
La conseguenza processuale più importante è
che il «giudice giammai può emettere
sentenza con la quale accerta il diritto del
ricorrente a vedersi conferire l'incarico
cui aspira, essendo lo stesso attribuibile
solo a seguito di valutazione discrezionale
della Pa (si veda Cassazione 14.09.2005, n. 18198) ma lo stesso giudice, se
accerta che il potere discrezionale è stato
esercitato fuori dai limiti di legge, potrà
dichiarare illegittimo il conferimento
dell'incarico impugnato». Una tale
conclusione potrà soltanto portare la Pa ad
operare una nuova valutazione, nel rispetto
delle norme in precedenza violate, ma non si
potrà concretizzare nell'affidamento, tanto
meno a carattere retroattivo, delle funzioni
attribuibili alla posizione organizzativa.
Lo ha deciso il Tribunale di Trani, Sez.
lavoro, nella
sentenza 22.09.2011, che conferma la pregressa
giurisprudenza ordinaria (si veda ad esempio
Cassazione Civile, sezione lavoro 15.05.2008, nr. 12315) e quella amministrativa del
Consiglio di Stato (tra le tante, sezione V,
15.02.2010, n. 815) per le quali le
procedure di selezione finalizzate al
conferimento delle posizioni organizzative
al personale non dirigente delle Pa esulano
dall'ambito degli atti amministrativi autoritativi.
La decisione di Trani, seppur inserita in
una scia abbastanza consolidata nei
principi, è importante in quanto ribadisce,
in un momento di particolare ritorno della
pubblicizzazione del rapporto di lavoro, la
discrezionalità della scelta della Pa.
Tuttavia la tesi, malgrado sostenuta da
ampia giurisprudenza, non potrà che essere
rivista alla luce del principio di
effettività della tutela: sostenere,
infatti, che il giudice ordinario non possa
sostituirsi all'amministrazione decidente e,
nel contempo, affermarne la giurisdizione
ordinaria limitandola alla possibilità della
sola disapplicazione degli atti, attraverso
la categoria del l'interesse legittimo di
diritto privato, potrebbe portare a una
carenza di tutela del singolo oggi in
contrasto con i principi sull'effettività
della tutela giurisdizionale, desumibili
dall'articolo 24 della Costituzione e dagli
articoli 6 e 13 della Convenzione europea
dei diritti dell'uomo
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2011
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SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: costituzione delle
unioni di comuni per l’esercizio associato
delle funzioni fondamentali previste
dall’art. 21 della legge 42 del 2009
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 13.10.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO: CGIL
materiali
- a cura dell'ufficio comunicazione della
CGIL di Bergamo
(ottobre 2011). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 41 del
14.10.2011, "Aggiornamento dell’elenco
degli enti locali idonei all’esercizio delle
funzioni paesaggistiche loro attribuite
dall’art. 80 della legge regionale
11.03.2005, n. 12"
(decreto D.G.
12.10.2011 n. 9290). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Fiorona,
I TITOLI
ABILITATIVI NEL TU EDILIZIA E NELLA
DISCIPLINA URBANISTICA REGIONALE: SCHEDE
ESEMPLIFICATIVE - (aggiornamento a ottobre
2011).
---------------
Ringraziamo l'autore per l'invio del
contributo che abbiamo pubblicato.
Tuttavia, non possiamo non evidenziare come
lo scrivente sia parzialmente NON d'accordo
con alcune tesi proposte dall'autore e,
nello specifico, relativamente all'esistenza
in Lombardia della SCIA e del
silenzio-assenso in materia di permesso di
costruire per le
motivazioni ampiamente argomentate lo scorso
13.07.2011 e 06.06.2011.
Giova qui ricordare, ancora una volta, che a tutt'oggi la
Regione Lombardia non si è ancora
pronunciata sulle novità introdotte dal DL.
70/2011 e, segnatamente, alle due
problematiche sopra evidenziate. E prima
ancora che il decreto-legge fosse pubblicato
in G.U. (il 13.05.2011) ci si era adoperati
per chiedere telefonicamente al Servizio
Giuridico della Regione un'anteprima
chiarificatrice tenuto conto che il testo
del "decreto sviluppo" era già di
dominio pubblico ad opera della stampa
specializzata e noi ne davamo conto
nell'aggiornamento dello scorso 09.05.2011
(rubrica NEWS). Alla nostra telefonata di
richiesta chiarimenti ci avevano risposto: "...
abbiamo letto il testo della bozza di d.l.
... lo stiamo studiano".
Ebbene, sono trascorsi più di 5 mesi ma di
chiarimenti regionali, all'orizzonte, non si
vede traccia ...
17.10.2011 - LA SEGRETERIA PTPL |
SICUREZZA LAVORO: Vademecum
per il medico competente: un utile
riferimento per la redazione del DVR.
La Sovrintendenza Medica Generale ha
recentemente pubblicato il Vademecum per il
medico competente, nato dall’esperienza
professionale dei medici del lavoro
dell’INAIL nella Pubblica Amministrazione.
Il vademecum rappresenta certamente un utile
strumento per il medico competente della
Pubblica Amministrazione, ma costituisce
anche una preziosa guida agli adempimenti
normativi necessari alla redazione del DVR
(Documento di Valutazione dei Rischi). Al
riguardo, ricordiamo che inadempienze anche
formali degli obblighi previsti dalla legge
sono oggetto di pesanti sanzioni.
Nel documento vengono forniti i consigli su
come informare i lavoratori, come
predisporre i corsi di formazione e come
gestire i rapporti con il servizio sanitario
nazionale.
La pubblicazione tratta i seguenti
argomenti:
● la sorveglianza sanitaria nella pubblica
amministrazione;
● informazione del lavoratore e consenso
informato;
● organizzazione del pronto soccorso;
● classificazione delle aziende;
● requisiti e formazione degli addetti al
pronto soccorso;
● attrezzature minime per gli interventi di
pronto soccorso;
● contenuto minimo della cassetta di pronto
soccorso;
● contenuto minimo del pacchetto di
medicazione;
● riunione periodica;
● partecipazione a corsi di formazione e
informazione;
● tenuta dei registri;
● rapporti del medico competente con il
servizio sanitario nazionale
(13.10.2011 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Dal
Consiglio Superiore dei LL.PP. le Linee
Guida per i pannelli portanti debolmente
armati.
Il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici
ha pubblicato le “linee guida per sistemi
costruttivi a pannelli portanti basati
sull’impiego di blocchi cassero e
calcestruzzo debolmente armato gettato in
opera”.
Le Linee Guida sono rivolte ai progettisti,
ai tecnici del settore e agli organi di
controllo competenti.
Il documento riporta i riferimenti teorici e
sperimentali e le indicazioni progettuali e
costruttive per la progettazione ed il
calcolo di edifici realizzati con sistemi
costruttivi a pannelli portanti basati
sull’impiego di blocchi cassero e
calcestruzzo debolmente armato gettato in
opera.
Per ogni sistema costruttivo dovrà essere
studiata e proposta una procedura di
verifica della sicurezza ai diversi stati
limite, basata su criteri consolidati e sui
risultati della sperimentazione specifica.
L’approccio per le verifiche di sicurezza
delle strutture in oggetto è quello previsto
dalle Norme Tecniche vigenti per le
strutture in c.a.; in particolare si devono
considerare le stesse procedure che hanno lo
scopo di garantire la sicurezza nei
confronti del collasso, della prestazione in
servizio e la durabilità nel corso della
vita nominale.
Il produttore deve rendere disponibile la
documentazione tecnica dei casseri che deve
contenere: ...
(13.10.2011 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
manuale completo per l’isolamento termico e
acustico delle facciate in laterizio.
In questo articolo di BibLus-net
pubblichiamo il manuale ANDIL (Associazione
Nazionale Degli Industriali dei Laterizi)
relativo alle prestazioni termiche e
acustiche delle pareti in laterizio faccia a
vista.
L’utilizzo del mattone è un’antica
tradizione ma grazie alle nuove tecnologie è
possibile raggiungere elevate prestazioni in
termini di isolamento acustico e termico.
I tamponamenti esterni in laterizio
rappresentano un’ottima soluzione per
l’isolamento termico, anche grazie
all’evoluzione tecnologica che ha portato
alla realizzazione di mattoni ad elevata
resistenza termica.
Al fine di ottenere un elevato isolamento
termico è necessario utilizzare soluzioni
isolanti con elevati spessori, con
conseguenze sulla progettazione esecutiva e
sulla messa in opera. Le normative, inoltre,
hanno introdotto disposizioni che consentono
lo scomputo degli extraspessori delle
chiusure verticali e orizzontali al fine di
incentivare migliori prestazioni
energetiche.
Per l’isolamento acustico, invece, è
necessario garantire determinate prestazioni
che dipendono dai singoli elementi
costituente la facciata e da come questi
vengono disposti in stratificazione. Gli
elementi che pregiudicano le prestazioni di
isolamento sono quelli acusticamente più
deboli come: infissi, cassonetti degli
avvolgibili, prese d’aria, etc..
Nel manuale vengono trattati i seguenti
argomenti: ...
(13.10.2011 - link a www.acca.it). |
NOTE,
COMUNICATI E CIRCOLARI |
APPALTI: Chiarimenti
dal Ministero sulla Stazione Unica
Appaltante.
Il Ministero dell'Interno ha inviato la
lettera-circolare 05.10.2011 n.
11001/119/7/22 di prot. alle
Prefetture delle province italiane,
invitando ad attivarsi per l'adozione delle
Stazioni Uniche Appaltanti, introdotta col
D.P.C.M. 30.06.2011, in attuazione
dell'articolo 13 della legge 13.08.2010, n.
136 - Piano straordinario contro le mafie
(v. art. “E' arrivata la Stazione Unica
Appaltante”).
Ricordiamo che la SUA (Stazione Unica
Appaltante) ha il compito di seguire tutto
l’iter procedurale di affidamento di lavori,
forniture e servizi, collaborando con l’ente
proponente ad individuare i contenuti del
contratto e curando gli eventuali
contenziosi insorti, con la finalità di
prevenire le infiltrazioni mafiose.
La Circolare chiarisce i compiti della
Stazione Unica ed evidenzia i vantaggi per
le amministrazioni che la adottano. La SUA
ha la funzione di curare la procedura della
gara di affidamento nel suo complesso; è una
struttura professionale altamente
qualificata che assicura maggiore efficacia
all'azione amministrativa.
L'Amministrazione ha la facoltà di aderire
alla Stazione, spiega la Circolare, e ciò
contribuisce a rafforzare l'economia legale
e a innalzare il livello di prevenzione
delle infiltrazioni criminali, ricevendo
supporto dal momento dell'individuazione dei
contenuti dello schema di contratto fino a
quello dell'individuazione del contraente
della stipula
(13.10.2011 - link a www.acca.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità, conta il fattore tempo.
Se il lavoratore non è subito sostituito
equivale a cessazione. La Corte conti
Lombardia toglie qualche certezza sul
computo delle spese per il personale.
Mobilità neutrale ai fini delle spese di
personale solo se effettuata contestualmente
in uscita e in entrata. La mobilità in
uscita è invece cessazione se il dipendente
trasferito non viene sostituito velocemente,
entro l'anno finanziario.
Il
parere 29.09.2011
n. 498 della Corte dei Conti,
Sez. regionale di controllo per la
Lombardia, toglie
qualche certezza rispetto alla disciplina
del computo delle spese di personale.
Fin qui, gran parte della dottrina e la
granitica giurisprudenza della magistratura
contabile ha considerato la mobilità
ininfluente ai fini del computo della spesa
di personale, in particolare con riferimento
alla disposizione contenuta nell'articolo 9,
comma 2-bis, della legge 122/2010.
Come è noto, tale disposizione impone agli
enti locali di diminuire la dotazione
finanziaria del fondo delle risorse
decentrate in proporzione alla riduzione del
personale in servizio.
Dando per scontato che la mobilità non
comporta un incremento di oneri di personale
per la finanza pubblica, si è ritenuto che
la fuoriuscita di dipendenti trasferiti per
mobilità non costituisca presupposto per
apportare la diminuzione delle risorse
decentrate indicata dal citato articolo 9,
comma 2-bis.
La sezione Lombardia propone, però, una
lettura diversa della norma. Secondo il
parere reso dalla magistratura contabile,
occorre partire dal presupposto che il
conteggio finalizzato a costituire il fondo
delle risorse decentrate avviene in base al
numero di dipendenti in servizio presso
l'ente. Di conseguenza, secondo la sezione
il criterio di computo non può che «fondarsi
sull'effettiva presenza in organico di
personale». È, infatti, evidente che la
riduzione del personale implica
l'eliminazione dal fondo di alcune voci del
finanziamento.
Del resto, il meccanismo previsto
dall'articolo 9, comma 2-bis, vuole tendere
alla riduzione stabile della spesa di
personale, erodendo il fondo in una misura
(non ancora ben determinata) proporzionata
alla differenza del personale in servizio a
inizio e fine anno.
Allora, ragiona la sezione Lombardia, «il
venire meno di un'unità per mobilità esterna
è da considerare personale cessato, quindi
da prendere a riferimento ai fini
applicativi dell'art. 9, comma 2-bis,
citato».
Per la prima volta, dunque, la mobilità in
uscita viene apertamente assimilata a
cessazione, ai fini della riduzione del
fondo.
Si tratta di una presa di posizione alla
fine inevitabile. Infatti, se è vero che la
mobilità non comporta una crescita della
spesa di personale complessiva nella
pubblica amministrazione, è altrettanto vero
che il sistema di quantificazione di detta
spesa non opera più a livello di singolo
comparto, come ai tempi dell'articolo 1,
comma 47, della legge 311/2004, ma
esclusivamente con riferimento a ciascun
singolo ente.
Dunque, l'uscita per mobilità di un
dipendente, non contestualmente sostituito
da una mobilità in entrata, implica
oggettivamente una riduzione di personale,
da cui non può non derivare l'applicazione
dell'articolo 9, comma 2-bis. E viene messa,
indirettamente, in discussione la vigenza
del citato articolo 1, comma 47, sin cui
data per scontata, ma la cui compatibilità
con la vigente normativa appare molto
discutibile
(articolo ItaliaOggi del 14.10.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Formazione di livello
universitario nelle PA. Coniugare le
esigenze delle PA. e il diritto allo studio.
Sono stati forniti dal Dipartimento della
Funzione Pubblica alcuni chiarimenti in
ordine all’utilizzo di permessi e congedi
per motivi di studio richiesti dal personale
dipendente da Pubbliche Amministrazioni al
fine di contemperare, in un giusto
equilibrio, esigenze amministrative e
diritto allo studio.
La legge, i contratti collettivi e gli
accordi negoziali prevedono numerose
possibilità di accedere proficuamente a
percorsi di studio che consentano ai
lavoratori di incrementare la propria
professionalità, favorendo il necessario
adeguamento ai rapidi cambiamenti del mondo
del lavoro (dovuti anche alle numerose
innovazioni tecnologiche). Le esigenze di
tipo formativo devono, tuttavia,
necessariamente coniugarsi con le esigenze
della Pubblica Amministrazione, sia per
quanto l’organizzazione del lavoro che il
rispetto di limiti di spesa.
La circolare del Dipartimento della Funzione
Pubblica si sofferma in modo particolare
sull’aspettativa per il conseguimento del
dottorato di ricerca (Legge n. 476 del 1984
di recente oggetto di modifica da parte
della legge n. 240 del 2010 (cd. Legge
Gelmini) e del decreto legislativo n. 119
del 2011).
Normativa che si applica anche a coloro che
ricadono nella sfera di applicazione del
Decreto legislativo n. 165, per i quali era
intervenuto il CCNL di comparto. In
particolare nel 2010 è stato previsto, in
maniera innovativa, che il collocamento del
dipendente avvenga compatibilmente con le
esigenze dell’amministrazione, accordando
così all’interessato una posizione giuridica
condizionata, la cui realizzazione è
condizionata al buon andamento. Inoltre, il
diritto al congedo non è riconosciuto a
coloro che hanno già conseguito il titolo di
dottore di ricerca e a coloro che sono stati
iscritti a corsi di dottorato per almeno un
anno accademico beneficiando del congedo
senza poi avere conseguito il titolo.
Inoltre, nei casi di ripetizione degli
importi corrisposti ai dipendenti (qualora
avessero optato per un’aspettativa
retribuita), essa e’ dovuta solo se il
dipendente cessa il rapporto di lavoro con
la P.A.; diversamente, nel caso in cui vi
sia un passaggio per mobilità o vincita di
concorso presso altra pubblica
amministrazione. Per quanto attiene,
inoltre, il regime delle “150 ore di
permesso” (che, viene sottolineato, non
spettano per l’attività di studio, ma per le
attività didattiche/esami) con riferimento
al cd. “personale di prestito”, la
gestione dei permessi è rimessa
all’amministrazione presso cui il personale
e’ in comando. Una fattispecie particolare
riguarda infine coloro che frequentano le
università telematiche.
La disciplina dei permessi ha carattere
generale e non si rinvengono preclusioni in
ordine alla sua applicabilità anche
all’ipotesi in commento. In ogni caso la
fruizione dei permessi resta comunque
subordinata alla presentazione della
documentazione comprovante l’iscrizione e
gli esami sostenuti, nonché all’attestazione
della partecipazione perdonale del
dipendente alle lezioni. In tale ultimo caso
occorre certificare l’avvenuto collegamento
all’università telematica durante l’orario
di lavoro (commento tratto da www.ipsoa.it -
Dipartimento Funzione Pubblica,
circolare 07.10.2011 n. 12/2011). |
NEWS |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Statali, salvati i buoni pasto.
Berlusconi: nessun taglio - Pa: 300mila
dipendenti in meno nel 2014.
EQUO INDENNIZZO - Cancellata anche la norma
che negava il giudizio equitativo nelle
azioni di risarcimento. Per Palazzo Vidoni
era incostituzionale.
«Durante il Consiglio dei ministri se ne
è parlato ma poi abbiamo deciso di non farne
nulla». Silvio Berlusconi ieri ha
smentito così la notizia del taglio ai buoni
pasto dei dipendenti pubblici. La misura è
stata sfilata dall'articolato del disegno di
legge di stabilità messo a punto dai tecnici
dell'Economia dopo un confronto tra i
ministri anche per i «problemi
applicativi» che avrebbe comportato una
sua rigorosa applicazione, ha fatto sapere
in una nota il portavoce del ministro per la
Pa e l'Innovazione, Renato Brunetta.
Con la norma taglia-ticket –che sarebbe
scattata per la maggioranza dei dipendenti,
visto che valeva per presenze in ufficio
inferiori alle 8 ore al giorno– è sparita
anche la misura che negava la possibilità di
equo indennizzo nelle azioni di risarcimento
per danno non patrimoniale. In questo
secondo caso lo scoglio era di natura
costituzionale, stando ai tecnici di palazzo
Vidoni.
Delle misure sul pubblico impiego, a questo
punto, dovrebbero essere rimaste in campo la
mini-tassa sui concorsi per dirigenti, la
soppressione di accertamento e pagamento
dell'indennità per infermità derivante da
cause di servizio (da cui sono comunque
esclusi i dipendenti del comparto sicurezza)
e la norma che riduce a 60 giorni i termini
per le azioni giudiziarie per controversie
di lavoro.
La marcia indietro sui buoni pasto è stata
accolta con soddisfazione da tutto il fronte
sindacale e dalle opposizioni. Ma ora si
tratta di capire con quali misure
alternative saranno garantiti i tagli di
spesa potenziali –il conto dei ticket
restaurant sfiora il miliardo l'anno per
tutta la Pa- visto che con quell'intervento
si contribuiva a garantire i tagli alla
spesa dei ministeri e degli enti
territoriali.
Il pubblico impiego, in effetti, era già
stato colpito da nuove misure restrittive
sulla spesa (in aggiunta a quelle del 2009 e
del 2010) che spaziano dalla proroga fino al
2014 del blocco dei contratti alla proroga
del blocco del turn-over; strette che
in termini cumulati dovrebbero garantire una
minor spesa per oltre un miliardo nel 2014,
anno in cui il numero complessivo dei
dipendenti dovrebbe stabilizzarsi attorno ai
3,3 milioni, con un calo dell'8% rispetto
all'inizio della legislatura. Nel 2014,
inoltre, grazie al blocco della
contrattazione, si realizzerà un
allineamento tra le retribuzioni di fatto
dei dipendenti pubblici con quelle dei
privati, come è confermato dalle stime Aran
raccolte nella relazione al Parlamento sullo
stato della Pa 2010-2011 che il ministro
Brunetta ha consegnato l'altro giorno al
presidente della Camera, Gianfranco Fini.
La Relazione mette a fuoco alcuni dei
profili più importanti di monitoraggio della
spesa non obbligatoria delle
amministrazioni. Un dato, in particolare,
risulta significativo: è scesa sotto quota
un miliardo la spesa per le consulenze
esterne. L'anno scorso -secondo quanto si
legge nella Relazione- sono stati spesi per
le 199.619 consulenze esterne 962.918.344
euro con un calo del 5% rispetto al 2009. Il
numero dei consulenti è diminuito del 16% ma
è aumentato il compenso medio per incarico
da 4.057 euro a 4.366 (+8%) (articolo
Il Sole 24 Ore del 15.10.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: LEGGE DI
STABILITÀ/ P.a., il buono pasto va guadagnato.
Ticket a chi lavora almeno 8 ore. Contributo
per i concorsi. I dipendenti in missione
dovranno alloggiare nelle strutture degli enti.
Il buono pasto al personale pubblico, dovrà
essere corrisposto quando il lavoratore
svolga almeno otto ore di servizio. Ai
dipendenti pubblici comandati presso le
Autority non spetterà più l'erogazione di
emolumenti o indennità finalizzati a operare
perequazioni con il personale di ruolo.
Per poter partecipare ai concorsi indetti
dalla pubblica amministrazione per
l'immissione nella carriera dirigenziale si
dovrà versare un contributo per le spese
della procedura. A tal fine, i bandi,
dovranno prevedere un versamento variabile
dai 10 ai 15 euro.
I dipendenti pubblici in missione, dovranno
usufruire, per il vitto e l'alloggio, delle
apposite strutture messe a disposizione
delle amministrazioni di appartenenza, se
esistenti e disponibili. Dall'anno
scolastico 2012-2013, nel comparto scuola, i
distacchi o i permessi sindacali saranno
ridotti del 15%.
Sono queste alcune delle disposizioni
contenute all'articolo 4 del disegno di
legge di stabilità che l'esecutivo ha varato
nella seduta del consiglio dei ministri di
ieri. Entriamo nel dettaglio delle norme
varate.
Tassa sui concorsi. I concorsi per l'accesso
alle qualifiche dirigenziali delle
amministrazioni pubbliche dovranno prevedere
un «diritto di segreteria», dovuto a titolo
di copertura delle spese della procedura. E'
quanto si prevede al comma 58 del citato
articolo 4. Saranno gli stessi bandi di
concorso a prevedere la misura di tale
contributo che dovrà variare da 10 a 15
euro. Esentati dal versamento del
contributo, i concorsi indetti dalle
regioni, province autonome, dagli enti
locali e dagli enti del Servizio sanitario
nazionale.
Buono pasto solo dopo otto ore. I dipendenti
pubblici, anche con qualifica dirigenziale,
non potranno ricevere il buono pasto nei
giorni in cui la loro prestazione effettiva,
attestata mediante i sistemi di rilevazione
automatica, al netto della pausa pranzo e
degli eventuali riposi, sia inferiore ad
otto ore. Il comma 60 pertanto, opera un
taglio netto con quanto sinora vigente (il
buono pasto spetta dopo almeno sei ore di
prestazione lavorativa).
E infatti, la
disposizione precisa che le disposizioni
contrattuali in contrasto con quanto sopra,
sono nulle e non possono trovare
applicazione. Dall'entrata in vigore della
disposizione, pertanto, tenuto conto che la
pausa pranzo non potrà essere inferiore a
trenta minuti e che la prestazione
lavorativa massima giornaliera non può
superare, per legge, le nove ore, per avere
il buono pasto si dovrà stare (fisicamente)
in ufficio almeno 8 ore e 30 minuti.
Tuttavia, l'esecutivo lancia una ciambella
di salvataggio, prevedendo l'esclusione
dalle disposizioni sopra richiamate per il
personale del comparto sicurezza, difesa e
soccorso pubblico.
Vitto e alloggio durante le missioni.
Stretta sulla spesa per le missioni del
personale statale. Il comma 123 infatti,
precisa che i dipendenti pubblici inviati in
missione (all'interno del territorio
nazionale) per motivi di servizio, dovranno
utilizzare, per il vitto e l'alloggio, delle
strutture che le amministrazioni di
appartenenza metteranno a loro disposizione
«ove esistenti e disponibili».
Una norma
finalizzata ad operare una significativa
stretta sui rimborsi spese sostenuti dai
dipendenti inviati in missione che, a titolo
esemplificativo, oggi permettono di
consumare un pasto per massimo di 22 euro e
il pernottamento, qualora la missione superi
le otto ore, in alberghi tre stelle.
Indennità di trasferta addio. Non sarà più
erogata l'indennità di trasferta e i
relativi rimborsi spese, al personale
pubblico che viene trasferito per ordine
dell'amministrazione di appartenenza. Il
comma 57 prevede infatti, la soppressione
degli artt. 18,19, 20 e 24 della legge
n. 836/1973. Resta in piedi la sola indennità
di prima sistemazione, ma al verificarsi del
presupposto che il dipendenti cambi anche la
residenza nel comune della nuova sede di
servizio.
Distacchi sindacali e scuola. Dal prossimo
anno scolastico, il comma 84 dell'articolo 4
del ddl in esame, precisa che, al fine di
valorizzare le professionalità del personale
scolastico e di pervenire a riduzioni di
spesa, nel comparto scuola, i distacchi, le
aspettative ed i permessi sindacali sono
ridotti del 15%.
Tagli al comparto sicurezza. Meno dieci
milioni di euro per il 2012 e meno cinquanta
milioni dal 2013 nel comparto sicurezza. Il
comma 26 prevede una razionalizzazione delle
risorse umane e strumentali, fermo restando
il raggiungimento degli obiettivi di
sicurezza pubblica. La riduzione delle
risorse sarà operata «salomonicamente» nella
misura del 50% a carico della polizia di
stato e dell'altro 50% a carico dell'Arma
dei carabinieri.
Personale comandato delle Autority.
Stretta (economica) anche per il personale
delle amministrazioni pubbliche che si trova
in posizione di comando o distacco presso le
autorità amministrative indipendenti. A
questi lavoratori, il comma 63 prevede che
non potranno essere erogati, da parte delle
stesse Autorità, indennità, compensi o altri
emolumenti finalizzati ad operare
perequazioni con il trattamento economico
fondamentale del personale di ruolo delle
stesse Autorità
(articolo ItaliaOggi del 15.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Riposi orari ai papà.
Ok anche se la mamma è casalinga. Nota
Inpdap sulle condizioni per usufruire del diritto.
Il papà lavoratore dipendente ha diritto a
fruire dei riposi orari (ex allattamento)
anche se il coniuge è casalinga purché sia
impossibilitata a curare il neonato.
Lo
spiega l'Inpdap nella
nota operativa
13.10.2011 n.
23/2011, precisando che il diritto scatta
solo in certe condizioni opportunamente
documentate; che il padre può fruire dei
riposi entro il primo anno di vita del bimbo
(o dall'ingresso in caso di minore adottato
o affidato); e che non è consentito in alcun
modo il recupero delle ore non godute.
La questione riguarda dunque i riposi orari.
La madre lavoratrice dipendente ne ha
diritto in misura pari a due periodi
giornalieri, anche cumulabili, di un'ora
ciascuno durante il primo anno di vita del
bimbo (dopo il congedo di maternità). La
disciplina (T.u. maternità, dlgs n.
151/2001) prevede che il padre lavoratore
dipendente possa fruire di tali riposi nel
caso in cui la madre non sia lavoratrice
dipendente; qualora i figli siano affidati
al solo padre o in caso di morte o grave
infermità della madre. L'ipotesi di madre
non lavoratrice dipendente è stata intesa
nel senso di madre lavoratrice autonoma (per
esempio artigiana, commerciante,
coltivatrice diretta, co.co.pro. ecc.) e non
anche di madre casalinga.
Con sentenza n.
4293/2008, il consiglio di stato ha
interpretato in maniera più estensiva
quest'ipotesi, equiparando alla madre non
lavoratrice dipendente la casalinga
impegnata in attività che la distolgono
dalla cura del neonato. Praticamente,
dunque, anche in queste ipotesi il papà ha
diritto ai riposi orari.
Alla luce di tali indicazioni l'Inpdap
illustra i riflessi contributivi e
procedurali per quanto di propria
competenza. Innanzitutto spiega che la nuova
interpretazione estensiva consente di
riconoscere al lavoratore padre il diritto a
fruire dei permessi orari anche nell'ipotesi
in cui la madre svolga lavoro casalingo.
Trattandosi di permessi retribuiti, aggiunge
l'Inpdap, la loro fruizione non ha alcuna
incidenza ai fini degli obblighi
contributivi; pertanto, in presenza di
determinate condizioni, «opportunamente
documentate» (madre casalinga
impossibilitata a prendersi cura del neonato
perché impegnata in altre attività, quali ad
esempio accertamenti sanitari,
partecipazione a pubblici concorsi, cure
mediche e altre simili), il padre dipendente
può fruire dei riposi giornalieri nei limiti
di due ore o di un'ora al giorno a seconda
dell'orario giornaliero di lavoro, entro il
primo anno di vita del bambino o entro il
primo anno dall'ingresso in famiglia del
minore adottato o affidato.
I riposi possono essere fruiti a partire dal
giorno successivo ai tre mesi dopo il parto.
In caso di parto plurimo, il padre
dipendente può fruire del raddoppio dei
riposi e le ore aggiuntive possono essere
utilizzate anche durate i primi tre mesi
dopo il parto. Infine, l'Inpdap precisa che
non è consentito in alcun modo il recupero
delle ore di permesso eventualmente non
godute
(articolo ItaliaOggi del 15.10.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO: Malattia, ricaduta
nel certificato. Messaggio Inps sulle
annotazioni.
I medici devono precisare nel certificato se
la malattia si riferisce a un precedente
evento morboso, per evitare al lavoratore la
trattenuta Inps relativa ai tre giorni di
carenza.
Lo spiega, tra l'altro, il
messaggio n. 19405/2011 dell'INPS.
La precisazione fa seguito ad apposite
richieste di chiarimento, da parte degli
uffici Inps, in merito alla nuova procedura
che dal 14 settembre ha praticamente
equiparato la disciplina sulla malattia dei
lavoratori pubblici e privati.
Nel dettaglio
l'Inps spiega che, qualora l'evento morboso
si configuri quale «continuazione» dello
stato patologico in corso, il medico curante
deve farne menzione negli appositi campi
previsti nel certificato e nell'attestazione
di malattia; e che inoltre stessa
annotazione deve essere riportata anche nel
caso di ricaduta, ipotesi ricorrente quando
il lavoratore, rientrato in servizio dopo un
periodo di assenza per malattia, è costretto
ad assentarsi nuovamente a causa di uno
stato patologico riconducibile al precedente
evento morboso «nell'arco temporale di 30
giorni dalla ripresa dell'attività
lavorativa».
Tale annotazione servirà a
configurare la seconda assenza per malattia
non un nuovo evento morboso ma una
prosecuzione del primo con la conseguenza
che, agli effetti della liquidazione delle
prestazioni economiche, l'Inps non
effettuerà la trattenuta dei giorni di
carenza (i primi tre), e potrà effettuare
correttamente il calcolo dell'elevazione
della misura dell'indennità in base ai
limiti temporali previsti dalla normativa.
Infine, il messaggio mette in guardia gli
uffici sulle visite fiscali, chiedendo di
riscontrare gli esiti delle richieste
inoltrate alle Asl. Ciò perché, in base a
quanto riferisce l'Inps, le Asl richiedono
il pagamento del compenso anche nei casi in
cui non riescano a fare le visite nello
stesso giorno in cui sono richieste, ma le
effettuino in giornate successive
(vanificando, però, gli effetti del
controllo)
(articolo ItaliaOggi del 15.10.2011). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Nella prima seduta
scadenze non ultimative. Consiglio di stato:
dal ritardo non possono discendere misure
repressive. In consiglio senza affanni.
Quale disciplina dettano gli artt. 41, 46,
comma 2, e 50, comma 11, del Tuel n. 267/2000
in tema di adempimenti previsti nella prima
seduta del consiglio comunale rinnovato?
In linea generale, le norme di cui agli
artt. 41 e 46, comma 2 del Tuel n. 267/2000
«non stabiliscono scadenze ultimative per
procedere agli adempimenti da esse previsti.
Le due disposizioni in esame prevedono
incombenze preliminari necessarie per un
ordinato inizio dell'attività dell'ente e
hanno una formulazione evidentemente acceleratoria. Si tratta comunque di
incombenze che non possono non essere poste
in essere anche se in ritardo. Dal ritardo
non possono evidentemente discendere, in
mancanza di specifiche previsioni normative
in tal senso, misure repressive» (Cons.
stato sez. V, 22/11/2005, n. 6476).
Pertanto, se il consiglio comunale ha
compiutamente adempiuto in conformità alle
disposizioni citate, adottando le relative
deliberazioni, ogni eventuale loro vizio non
potrà che essere fatto rilevare con le
previste impugnazioni
(articolo ItaliaOggi del 14.10.2011). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Ordine del giorno del consiglio.
Sussiste l'obbligo di inserire nuovamente
nell'ordine del giorno del consiglio
comunale una mozione, presentata da un
gruppo consiliare, già oggetto di
discussione in una precedente seduta che si
è conclusa con una dichiarazione di
abbandono dell'aula da parte dei consiglieri
di maggioranza ed il conseguente
scioglimento della seduta per mancanza del
numero legale?
L'art. 43, comma 1, del dlgs n. 267/2000
riconosce ai «consiglieri comunali e
provinciali» il diritto di iniziativa su
ogni questione sottoposta alla deliberazione
del consiglio, stabilendo che «hanno inoltre
il diritto di chiedere la convocazione del
consiglio secondo le modalità dettate
dall'art. 39, comma 2, e di presentare
interrogazioni e mozioni».
La dottrina definisce le «mozioni» quali
atti approvati dal consiglio per esercitare
un'azione di indirizzo, esprimere posizioni
e giudizi su determinate questioni,
organizzare la propria attività,
disciplinare procedure e stabilire
adempimenti dell'amministrazione nei
confronti del consiglio.
Il Tar Puglia –sezione di Lecce– I sez.,
sentenza n. 1022/2004, individua la mozione
quale «istituto a contenuto non specificato
trattandosi di un potere a tutela della
minoranza per situazioni non predefinibili,
a differenza di altri strumenti più a
valenza di mera conoscenza (quali
l'interrogazione o la interpellanza),
essendo strumento di introduzione a un
dibattito che si conclude con un voto che è
ragione ed effetto proprio della mozione».
Alla luce della dottrina e della
giurisprudenza segnalata, a differenza della
interrogazione e dell'interpellanza a cui
rispondono il sindaco e la giunta, la
mozione è diretta al consiglio comunale -il
cui funzionamento, nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal
regolamento (art. 38 del dlgs n. 267/2000)-
che deve esprimersi nelle forme della
deliberazione, rappresentando l'istituto una
forma di controllo politico-amministrativo
di cui all'art. 42, comma 1, del dlgs n.
267/2000.
Pertanto, sulla base dell'ordine del giorno
fissato, ogni questione di ammissibilità
alla discussione degli argomenti previsti è
attribuita al potere sovrano delle assemblee
politiche (Tar Puglia sent. ult. cit.) al
quale spetta di decidere in via
pregiudiziale
(articolo ItaliaOggi del 14.10.2011). |
ESPROPRIAZIONE:
Indennizzi espropriativi in Corte d'appello.
Per contestare un indennizzo espropriativo
si va in Corte d'appello. L'articolo 29 del
decreto legislativo 150/2011 elenca tra i
procedimenti sottoposti al rito sommario di
cognizione le controversie aventi ad oggetto
l'opposizione alla stima di cui all'articolo
54 del decreto legislativo 327/2001 (Testo
unico espropri), ma mantiene la competenza
della Corte d'appello nel cui distretto si
trova il bene espropriato.
L'opposizione va proposta, a pena di
inammissibilità, entro il termine di trenta
giorni dalla notifica del decreto di
esproprio o dalla notifica della stima
peritale, se quest'ultima sia successiva al
decreto di esproprio. Il termine è
raddoppiato (sessanta giorni) se il
ricorrente risiede all'estero.
Il ricorso è notificato all'autorità
espropriante, al promotore
dell'espropriazione e, se del caso, al
beneficiario dell'espropriazione, se attore
è il proprietario del bene, o all'autorità
espropriante e al proprietario del bene, se
attore è il promotore dell'espropriazione.
Il ricorso è notificato anche al
concessionario dell'opera pubblica, se
tenuto al pagamento dell'indennità.
La relazione illustrativa precisa che le
controversie sono state ricondotte al rito
sommario di cognizione, in considerazione
del fatto che esse, nel loro pratico
svolgimento, sono caratterizzate da una
relativa semplicità quanto all'oggetto della
controversia semplice, cui consegue
ordinariamente un'attività istruttoria
breve, a prescindere dalla natura delle
situazioni giuridiche soggettive coinvolte o
delle questioni giuridiche da trattare e
decidere.
Di solito l'istruttoria è concentrata su una
consulenza tecnica sul valore del bene
espropriato.
Sono state mantenute ferme l'individuazione
e la composizione dell'organo giudicante (la
Corte d'appello, in grado unico di merito e
la competenza territoriale, correlata al
luogo in cui si trova il bene espropriato.
Sempre la relazione illustrativa spiega che
sono state mantenute anche le seguenti
peculiarità: il termine per la proposizione
del ricorso, a pena di inammissibilità, di
30 giorni decorrente dalla notifica del
decreto di esproprio o dalla notifica della
stima peritale, se successiva al decreto di
esproprio, aumentati a 60 giorni se il
ricorrente risiede all'estero; i termini
sono uniformati a quelli previsti nel
decreto legislativo 150, e sono dichiarati
termini posti a pena d'inammissibilità;
l'obbligo di notifica del ricorso
all'autorità espropriante, al promotore
dell'espropriazione e, se del caso, al
beneficiario dell'espropriazione, se attore
è il proprietario del bene, ovvero
all'autorità espropriante e al proprietario
del bene, se attore è il promotore
dell'espropriazione.
È stato ritenuto di
mantenere la previgente dizione letterale
della norma, che, secondo la giurisprudenza
costante integra una ipotesi di mero avviso
sulla pendenza del giudizio, rimanendo fermi
i criteri elaborati dalla giurisprudenza per
la individuazione del soggetto legittimato
passivo rispetto alla pretesa fatta valere
in giudizio (articolo ItaliaOggi
del 13.10.2011). |
ENTI LOCALI:
Enti, chi dismette può
investire.
I proventi possono essere utilizzati senza
sforare il Patto. Le novità che il ministero
delle infrastrutture ha proposto di inserire
nel decreto sviluppo.
Deroga al patto di stabilità per gli
investimenti effettuati con i proventi delle
dismissioni del patrimonio residenziale
pubblico. Conferenza preliminare sul
progetto a base di gara di lavori oltre i 20
milioni. Suddivisione in lotti per favorire
le piccole e medie imprese.
Sono queste
alcune delle novità proposte dal ministero
delle infrastrutture e contenute nella nuova
versione del decreto-legge «sviluppo» in
gestazione ormai da diverse settimane e che
dovrebbe vedere la luce la prossima
settimana, turbolenze politiche permettendo.
Di particolare interesse è la norma che
consente alle regioni e agli enti locali di
utilizzare, ai fini di investimento, i
proventi delle dismissioni del patrimonio
residenziale pubblico; ciò potrà avvenire
«in deroga al patto di stabilità» e tali
somme «non concorreranno a determinare
l'obiettivo di finanza pubblica individuato
dal patto di stabilità». Si tratta di una
norma che dovrebbe quindi incentivare le
dismissioni e gli investimenti a livello
locale, fornendo quelle risorse che mancano
per realizzare opere pubbliche.
Una nuova norma stabilisce che, in caso di
costituzione di società miste per lo
sviluppo di aree territoriali, la quota di
investimento pubblico degli enti locali
risulti esclusa dal computo del saldo
finanziario ai fini del rispetto del patto
di stabilità. Inoltre le società miste
potranno «fissare sistemi tariffari
incentivanti l'utilizzo di modalità di
trasporto meno congestionate o maggiormente
sostenibili sotto il profilo ambientale e
individuare tariffazioni d'area multimodale,
capitalizzando eventuali esternalità
positive».
La nuova versione del decreto-legge
(peraltro con un primo articolo in bianco
dal titolo «defiscalizzazione», di
competenza del ministero dell'economia)
nell'intervenire su più parti del Codice dei
contratti pubblici, conferma la soppressione
della norma del decreto legge 70/2011 che
prevede l'aggiudicazione degli appalti al
netto del costo del lavoro. Viene riscritta
la norma interpretativa sul divieto di
varianti (oltre il 20%) nel senso di
ritenerla applicabile ai contratti stipulati
dopo l'entrata in vigore della legge
106/2011, di conversione del decreto legge
70) mentre, per i contratti stipulati in
precedenza, si applicheranno le norme
vigenti prima dell'approvazione del decreto
legge. In ogni caso si prevede che non
debbano calcolarsi, ai fini dello sforamento
del tetto alle varianti, gli importi
relativi a varianti già approvate al momento
del varo della legge 106.
Collegata a questa è anche la norma che
rende responsabili in solido il progettista
e il verificatore per errori o omissioni
progettuali da fare valere, da parte
dell'impresa, nei confronti dei soggetti
garanti (le compagnie assicuratrici).
Vengono poi introdotte alcune nuove
disposizioni in materia di opere di
urbanizzazione che escludono l'obbligo, per
il titolare del permesso di costruire, dello
svolgimento di una gara per la realizzazione
di lavori al di sotto della soglia
comunitaria.
Si prevede poi, obbligatoriamente per le
opere oltre i 20 milioni di euro, affidati
con procedura ristretta, la cosiddetta
«consultazione preliminare» sul progetto
posto a base di gara. La procedura prevede
che la quale la stazione appaltante convochi
tutte le imprese invitate a presentare
offerta le quali possono chiedere
chiarimenti sul progetto al progettista e al
verificatore.
Il tutto al fine di formulare offerte il più
accurate possibili. Ritoccata anche la
disposizione sul «caro-materiali»
(adeguamento dei prezzi contrattuali, resa
possibile per sforamenti oltre il 15% del
prezzo rilevato con d.m. e relativo all'anno
di presentazione dell'offerta.
Per favorire l'accesso delle piccole e medie
imprese agli appalti si dà la facoltà alle
stazioni appaltanti di suddividere gli
appalti in lotti e si stabilisce che per le
grandi infrastrutture e per le opere
compensative e integrative ad esse
collegate, si debbano «garantire modalità di
coinvolgimento delle piccole e medie
imprese» (articolo ItaliaOggi
del 13.10.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
VARI:
Corte di cassazione sugli incidenti stradali. Mancato uso di cinture di sicurezza,
indennizzo ridotto.
La compagnia di assicurazione può operare
rimborsi parziali o rifiutare in toto il
risarcimento.
In caso di sinistro stradale, verificatosi
con le cinture di sicurezza non regolarmente
allacciate – se non, addirittura,
inutilizzate – la Compagnia di assicurazione
è legittimata a operare un rimborso parziale
o, perfino, a rifiutarlo del tutto: la
mancata adozione dei sistemi di trattenuta
anche da parte di un passeggero rappresenta,
infatti, una ipotesi di concorso causale nel
fatto colposo che, cooperando alla
produzione del danno, determina una
riduzione del risarcimento dello stesso.
È quanto è emerso, da ultimo, nella sentenza
n. 19884/2011 della Corte di Cassazione
(III Sez. civile), la quale ha respinto
il ricorso di una donna, vittima, assieme al
conducente del veicolo a bordo del quale
veniva trasportata, di un incidente.
Avverso la sentenza di merito, la ricorrente
–tra i motivi di censura addotti–
lamentava il fatto che i magistrati di primo
grado avessero desunto «per presunzione» il
mancato utilizzo della cintura di sicurezza
e chiedeva, di conseguenza, di accertare, in
sede di legittimità, quale fosse stata la
causa della contusione cranica riportata
nell'impatto (collisione confermata, tra
l'altro, dallo stesso conducente della
vettura, secondo il quale «la trasportata
aveva urtato violentemente la testa contro
il vetro») se, cioè, l'urto fosse avvenuto
contro il parabrezza ovvero il vetro
laterale.
I Supremi giudici, nel dichiarare
l'inammissibilità della censura, hanno,
tuttavia, chiarito che si trattava di
«questioni di fatto nuove» che avrebbero
indotto a un rinnovato esame degli elementi
probatori emersi e a una loro differente
valutazione.
La vicenda sottoposta all'esame degli
Ermellini non è, però, del tutto singolare:
già nel 2009, con la sentenza n. 12547, la
Terza sezione civile aveva rigettato il
ricorso di un uomo ed una donna che avevano
subito un tamponamento a Napoli, stabilendo
che «non portare la cintura di sicurezza
determina un risarcimento del danno ridotto»;
nello stesso senso, secondo la Cassazione
civile, Terza sezione, 28.08.2007, n. 18177,
«la mancata adozione delle cinture di
sicurezza da parte di un passeggero, poi
deceduto, integra una ipotesi di
cooperazione nel fatto colposo che legittima
la riduzione proporzionale del risarcimento
del danno in favore dei congiunti della
vittima» (articolo ItaliaOggi
del 13.10.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI:
L'articolo 38, comma 1, del dlgs
163/2006 ricollega l'esclusione dalla gara
pubblica al dato sostanziale del mancato
possesso dei requisiti indicati nel bando
mentre il comma 2 non prevede analoga
sanzione per l'ipotesi di mancata o non
perspicua dichiarazione.
Laddove il bando di gara richiede
genericamente una dichiarazione di
insussistenza delle cause di esclusione di
cui all'articolo 38 del Codice, esso
giustifica una valutazione di gravità/non
gravità compiuta dal concorrente, sicché
questi non può essere escluso per il solo
fatto dell'omissione formale, cioè di non
aver dichiarato tutte le condanne penali o
tutte le violazioni contributive; andrà
escluso solo ove la stazione appaltante
ritenga che le condanne o le violazioni
contributive siano gravi e definitivamente
accertate.
Diverso discorso deve essere fatto quando il
bando sia più preciso e non si limiti a
chiedere una generica dichiarazione di
insussistenza delle cause di esclusione di
cui all'articolo 38, ma specifichi che vanno
dichiarate tutte le condanne penali o tutte
le violazioni contributive; in tal caso, il
bando esige una dichiarazione dal contenuto
più ampio e più puntuale rispetto a quanto
prescritto dalla legge, all'evidente fine di
riservare alla stazione appaltante la
valutazione di gravità o meno dell'illecito,
al fine di esclusione. In siffatta ipotesi,
la causa di esclusione non è solo quella,
sostanziale, dell'essere stata commessa una
grave violazione, ma anche quella, formale,
di aver omesso una dichiarazione prescritta
dal bando.
L’articolo 38 del Codice dei contratti
pubblici considera, come cause di
esclusione, al comma 1, lettera c), tra
l’altro, l’aver riportato condanne per <<reati
gravi in danno dello Stato o della Comunità
che incidono sulla moralità professionale>>.
Il comma 2 prevede che <<Il candidato o
il concorrente attesta il possesso dei
requisiti mediante dichiarazione sostitutiva
in conformità alle disposizioni del decreto
del Presidente della Repubblica 28.12.2000,
n. 445, in cui indica anche le eventuali
condanne per le quali abbia beneficiato
della non menzione>>.
La giurisprudenza prevalente afferma che
l'articolo 38, comma 1, (nelle diverse
fattispecie ivi elencate) ricollega
l'esclusione dalla gara pubblica al dato
sostanziale del mancato possesso dei
requisiti indicati nel bando (per la
fattispecie di cui alla lettera c), la
stazione appaltante deve valutare caso per
caso la condotta dell'offerente, tenendo
conto di molteplici aspetti quali quelli
soggettivi, temporali, relazionali per
verificare la sua professionalità per come
nel tempo si è manifestata, dando specifico
conto delle risultanze nella motivazione
dell'eventuale provvedimento di esclusione –
cfr. TAR Umbria, 25.02.2011, n. 58 ), mentre
il comma 2 non prevede analoga sanzione per
l'ipotesi di mancata o non perspicua
dichiarazione (cfr., da ultimo, Cons. Stato,
V, 24.03.2011, n. 1795).
Laddove il bando richiede genericamente una
dichiarazione di insussistenza delle cause
di esclusione di cui all'articolo 38 del
Codice, esso giustifica una valutazione di
gravità/non gravità compiuta dal
concorrente, sicché questi non può essere
escluso per il solo fatto dell'omissione
formale, cioè di non aver dichiarato tutte
le condanne penali o tutte le violazioni
contributive; andrà escluso solo ove la
stazione appaltante ritenga che le condanne
o le violazioni contributive siano gravi e
definitivamente accertate.
Diverso discorso deve essere fatto quando il
bando sia più preciso e non si limiti a
chiedere una generica dichiarazione di
insussistenza delle cause di esclusione di
cui all'articolo 38, ma specifichi che vanno
dichiarate tutte le condanne penali o tutte
le violazioni contributive; in tal caso, il
bando esige una dichiarazione dal contenuto
più ampio e più puntuale rispetto a quanto
prescritto dalla legge, all'evidente fine di
riservare alla stazione appaltante la
valutazione di gravità o meno dell'illecito,
al fine di esclusione. In siffatta ipotesi,
la causa di esclusione non è solo quella,
sostanziale, dell'essere stata commessa una
grave violazione, ma anche quella, formale,
di aver omesso una dichiarazione prescritta
dal bando (cfr. Cons. Stato, VI, 21.12.2010,
n. 9324; 24.06.2010, n. 4019; 22.01.2010, n.
1017 – oltre a n. 4082/2009, cit.)
(TAR Umbria,
sentenza 13.10.2011 n. 330 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Spammare si può.
Non è molesto l'invio ripetuto di mail. La
Cassazione sentenzia che il disturbo non è diretto.
La Suprema corte «scagiona» internet. Non
risponde di molestie chi invia numerosi
messaggi indesiderati di posta elettronica.
È quanto sancito dalla Cassazione che, con
la sentenza 12.10.2011 n. 36779, ha annullato senza rinvio la condanna
inflitta a due giovani di Grosseto che
avevano inviato molte e-mail indesiderate a
una conoscente. Insomma la prima sezione
penale ha tracciato una linea di confine fra
il telefono, gli sms e internet. In poche
parole con la posta elettronica il
destinatario non è costretto a ricevere
suoni indesiderati e quindi non si
configurano le molestie.
In due pagine di motivazioni i giudici hanno
sottolineato come vada «esclusa l'ipotizzabilità
del reato de qua nel caso di molestie recate
con il mezzo della posta elettronica, perché
in tal caso nessuna immediata interazione
tra il mittente e il destinatario si
verificherebbe né veruna intrusione diretta
del primo nella sfera delle attività del
secondo. Contrariamente alla molestia recata
con il telefono, alla quale il destinatario
non può sottrarsi, se non disattivando l'apparecchio telefonico, nel caso di molestia
tramite posta elettronica una tale forzata
intrusione nella libertà di comunicazione
non si potrebbe, secondo il predetto
precedente, verificare, come di certo non si
verifica nel caso di molestia trasmessa
tramite lettera».
Ad avviso della Corte,
tuttavia, va fatta una precisazione. Oggi,
la tecnologia è in grado di veicolare, in
entrata e in uscita, tramite apparecchi
telefonici, sia fissi che mobili, anche di
non ultimissima generazione, sia sms (short messages system) sia e-mail. Il carattere
sincronico o a-sincronico del contenuto
della comunicazione, elemento distintivo dal
quale si dovrebbe ricavare il criterio per
espungere dalla previsione dell'art. 660 Cp
le comunicazione asincrona, non è affatto
dirimente.
In realtà, ad avviso del Collegio
di legittimità, «entrambe le comunicazioni
sono sempre segnalate da un avvertimento
acustico che ne indica l'arrivo, e che può,
specie nel caso di spamming, costituito
dall'affollamento indesiderato del servizio
di posta elettronica con petulanti e-mail,
recare quella molestia e quel disturbo alla
persona che di questa lede con pari
intensità la libertà di comunicazione
costituzionalmente garantita. In tal caso è
palese l'invasività dell'avvertimento al
quale il destinatario non può sottrarsi se
non dismettendo l'uso del telefono, con
conseguente lesione, per la forzata
privazione, della propria tranquillità e
privacy, da un lato, con la compromissione
della propria libertà di comunicazione,
dall'altro».
Nonostante queste affermazioni Piazza Cavour
ha assolto gli imputati perché gli invii
indesiderati, per quanto numerosi, non
creavano un disturbo diretto: la giovane
doveva scaricarsi la posta prima di
leggerla. Anche la Procura generale della
Suprema corte aveva chiesto che gli imputati
fossero assolti in Cassazione (articolo ItaliaOggi del
13.10.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO –
Stazioni radio base – Procedimento
autorizzatorio ex art. 87 cod. com.
elettroniche – Valutazione
urbanistico-edilizia – Assorbimento.
Il procedimento indicato dall’art. 87 del
d.lgs. n. 259/2003 ha finalità
semplificatorie ai fini della realizzazione
di opere aventi una particolare rilevanza
pubblicistica (stazioni radio base), di
talché il titolo autorizzatorio previsto
dall’art. 87 d.lgs. n. 259/2003 assorbe in
sé la valutazione urbanistico–edilizia che
presiede al rilascio del titolo disciplinato
dal d.p.r. n. 380/2001 (Cons. Stato sez. VI
n. 98/2011; Cons. Stato sez. VI n.
4557/2010).
Infatti, ove si ritenesse che il
procedimento previsto dal d.lgs. n. 259/2003
fosse destinato non a sostituire ma ad
abbinarsi a quello edilizio ordinario,
verrebbero vanificati i principi ispiratori
del codice delle comunicazioni elettroniche,
in particolare quelli della previsione di
procedure tempestive, non discriminatorie e
trasparenti per la concessione del diritto
di installazione e della riduzione dei
termini per la conclusione dei procedimenti,
nonché della regolazione uniforme dei
medesimi (Cons. Stato, VI, 19.10.2008, n.
5044) (massima tratta da
www.ambientediritto.it - TAR Lazio-Roma,
Sez. I-quater,
sentenza 12.10.2011 n. 7905 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
circostanza che l’area sulla quale insistono
le opere contestate sia inserita in un
ambito territoriale designato quale Sito di
Importanza Comunitaria (SIC) e Zona di
Protezione Speciale (ZPS), non determina
l’applicazione della disciplina
paesaggistica dettata dal d.lgs. n. 42 del
2004.
Con il ricorso introduttivo del presente
giudizio è stata impugnata l’ordinanza con
la quale l’amministrazione comunale ha
ingiunto, successivamente al rigetto della
domanda di sanatoria, la demolizione ed il
ripristino dello stato dei luoghi in
relazione ad opere edilizie abusive
realizzate sull’immobile in proprietà del
ricorrente, insistente su area sottoposta a
vincolo paesaggistico.
...
Come correttamente rilevato dalla difesa del
ricorrente, la circostanza che l’area sulla
quale insistono le opere contestate sia
inserita in un ambito territoriale designato
quale Sito di Importanza Comunitaria e Zona
di Protezione Speciale, non determina
l’applicazione della disciplina
paesaggistica dettata dal d.lgs. n. 42 del
2004.
I Siti di Importanza Comunitaria e le Zone
di Protezione Speciale sono stati previsti
dalla Direttiva Habitat 92/43/CEE, emanata
dalla Comunità Europea il 21.05.1992 e
recepita nell’ordinamento nazionale con
D.P.R. n. 357 del 1997, successivamente
modificato con il D.P.R. n. 120 del 2003.
La ratio sottesa ai suddetti
interventi normativi è quella della
conservazione e tutela degli habitat
naturali e seminaturali nonché della flora e
fauna selvatica. A tal fine, è stata dettata
una specifica disciplina che prevede
particolari procedure nonché l’introduzione
della Valutazione di Incidenza, la quale
costituisce istituto del tutto distinto
dall’autorizzazione paesaggistica
disciplinata dall’art. 146 del d.lgs. n. 42
del 2004. Inoltre, contrariamente a quanto
sostenuto dall’amministrazione comunale,
l’applicazione del d.lgs. n. 42 del 2004 non
può farsi discendere, nella fattispecie,
neanche dalla previsione dell’art. 142,
comma 1, lett. f), ai sensi della quale “sono
comunque sottoposti alle disposizioni di
questo Titolo per il loro interesse
paesaggistico (….) i parchi e le riserve
nazionali o regionali, nonché i territori di
protezione esterna dei parchi”;
Ai fini dell’applicazione della suddetta
disposizione, non può ritenersi sufficiente
la circostanza che l’area de qua sia
stata inserita, quale zona a previsto parco
naturale, nel Piano Territoriale Regionale
di Coordinamento (PTRC) nonché nel Piano
Territoriale Provinciale (PTP). Infatti,
sebbene il PTRC assuma la valenza –in forza
delle previsioni della l.r. n. 11 del 2004,
che hanno sostanzialmente confermato quanto
già in precedenza disposto dalla l.r. n. 9
del 1986 e dalla l.r. n. 18 del 2006– di "piano
urbanistico-territoriale con specifica
considerazione dei valori paesaggistici",
ciò non determina l’applicazione della
normativa dettata dal d.lgs. n. 42 del 2004.
Dunque, in mancanza di un provvedimento
istitutivo del parco, allo stato solo
previsto a livello di pianificazione
regionale e provinciale, ed in mancanza
dell’approvazione dei Piani Paesaggistici
previsti dagli artt. 143 e 156 del d.lgs. n.
42 del 2004, del tutto illegittimamente
l’amministrazione comunale ha applicato la
disciplina prevista dall’art. 167 del
suddetto testo normativo.
In conclusione, la domanda di annullamento
va accolta, con assorbimento delle restanti
censure, e vanno annullate sia l'ordinanza
n. 55/2010 (prot. n. 10700/2010) del
05.10.2010 sia il provvedimento comunale n.
10/2011 del 12.04.2011, anche questo fondato
sul medesimo erroneo presupposto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 11.10.2011 n. 1535 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nell'ipotesi di A.T.I.
costituende concorrenti in una gara
d'appalto, la polizza per la cauzione
provvisoria deve essere intestata a tutte le
imprese associate.
In materia di gare d'appalto, i principi
regolanti la polizza fideiussoria, impongono
di considerare soggetti obbligati a prestare
la cauzione provvisoria tutti coloro che
intendano eseguire l'opera e/o la
progettazione, senza esclusione alcuna, in
quanto individualmente responsabili delle
dichiarazioni rese ai fini della la
partecipazione alla gara. Diversamente
opinando, qualora l'inadempimento non
dipenda dalla capogruppo designata, bensì
dalle mandanti, verrebbe a configurarsi una
carenza di garanzia per la stazione
appaltante. Tanto trova ragione nella "causa"
e nella "funzione" della cauzione
provvisoria.
Pertanto, nel caso di ATI costituende, la
garanzia deve essere intestata a tutte le
associate, che sono individualmente
responsabili delle dichiarazioni rese per la
partecipazione alla gara, venendosi,
diversamente, a configurare una carenza di
garanzia per la stazione appaltante qualora
l'inadempimento non dipenda dalla capogruppo
designata, ma dalle mandanti (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 08.10.2011 n. 5499 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI: Per
l'affidamento del servizio di tesoreria
comunale, essendo lo stesso un servizio
gratuito, non è dovuto il pagamento del
contributo all’Autorità di vigilanza sui
contratti pubblici.
Il servizio di tesoreria è in via generale
un servizio gratuito, connotato da una
globale vantaggiosità patrimoniale del
servizio per l’aggiudicatario, che tuttavia
non entra nella causa del contratto,
restando confinata nei motivi individuali
del negozio.
Nel caso di specie, poi, né il bando di
gara, né la lettera di invito, in linea con
la natura del servizio, prevedevano un
qualsivoglia tipo di corrispettivo.
Il capitolato speciale d’appalto, all’art.
6, definiva, infatti, il servizio gratuito
salvo:
● i rimborsi delle spese sostenute per
stampati quando non siano stati forniti
dall’ente, delle spese postali, dei bolli e
di qualsiasi altra spesa erogata durante la
gestione per l’espletamento del servizio
nell’anno, escluse le eventuali spese per le
riscossioni di mandati a favore dell’ente
presso la Sezione di Tesoreria provinciale
del Tesoro (art. 6, punto 2, lett. a e b);
● il pagamento di diritti, interessi e
commissioni per tutte quelle prestazioni non
previste dalla convenzione (art. 6, punto 2,
lett. c).
Le suindicate previsioni, cioè il
riferimento al pagamento di diritti,
interessi e commissioni per tutte quelle
prestazioni non previste dalla convenzione
hanno convinto il TAR che il contratto fosse
connotato da elementi che lo configuravano,
come contratto a titolo oneroso.
Il TAR, invero, non ha considerato, che il
rimborso e il pagamento di diritti,
interessi e commissioni per tutte le
prestazioni non previste dalla convenzione
non costituiscono corrispettivo del servizio
di tesoreria, non sussistendo alcun rapporto
sinallagmatico tra detti oneri e il servizio
di tesoreria.
Queste spese attengono a rapporti estranei
alla convenzione e quindi non partecipano
del contenuto pattizio della convenzione
stessa.
Ciò stante, essendo il servizio di tesoreria
un servizio gratuito, non era dovuto il
pagamento del contributo all’Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici.
L’amministrazione proprio in considerazione
della gratuità del servizio non ha indicato
alcun codice identificativo di gara (CIG)
che è condizione necessaria per il
versamento
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.10.2011 n. 5497 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull'ammissibilità del ricorso
all'istituto dell'avvalimento, nel caso in
cui il bando richieda, quale requisito di
partecipazione, un capitale sociale minimo
di importo superiore a quello posseduto
dalla società che intende partecipare alla
gara.
L'istituto dell'avvalimento (art. 49 del
d.lgs. n. 163/2006) ha portata generale, ed
è finalizzato a consentire alle imprese
singole, consorziate o riunite, che
intendano partecipare ad una gara di poter
soddisfare i requisiti di carattere
economico, finanziario, tecnico,
organizzativo, ovvero di attestazione della
certificazione SOA, avvalendosi dei
requisiti o dell'attestazione SOA di altro
soggetto (a prescindere da un'espressa
disposizione del bando in tal senso), ed è
applicabile, ai sensi del successivo art.
50, ai sistemi legali vigenti di
attestazione o di qualificazione nei servizi
e forniture.
La facoltà di avvalersi di tale istituto è
stata riconosciuta ammissibile anche per
integrare requisiti economico - finanziari,
tecnici ovvero organizzativi per
l'iscrizione agli albi professionali.
Pertanto, deve ritenersi ammissibile il
ricorso all'istituto dell'avvalimento, ove
il bando di gara richieda, quale requisito
di partecipazione, un capitale sociale
minimo di importo superiore a quello
posseduto dalla società che intenda
partecipare alla gara.
Trattasi, infatti, di requisito
economico-finanziario che, ai sensi
dell'art. 49, non incontra alcun limite, in
quanto l'interesse sotteso alla norma,
ovvero quello relativo alla solvibilità del
soggetto affidatario del servizio di
riscossione, viene assicurato attraverso
l'impegno dell'impresa ausiliaria di mettere
a disposizione le risorse necessarie di cui
il concorrente è privo (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 08.10.2011 n. 5496 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sul divieto di partecipazione ad
una gara per la distribuzione del gas
naturale, in capo alle società che
gestiscano servizi pubblici locali in virtù
di affidamento diretto, ovvero di una
procedura non avente carattere di evidenza
pubblica.
L'art. 14, c. 5, del d.lgs. n. 164/2000,
recante "Attuazione della direttiva n.
98/30/CE recanti norme comuni per il mercato
interno del gas naturale, a norma dell'art.
41 della l. 17.05.1999, n. 144", commina
l'esclusione, dalle gare aventi ad oggetto
l'attività di distribuzione del gas
naturale, in capo alle società, loro
controllate, controllanti e controllate da
una medesima controllante, le quali
gestiscano di fatto, ovvero per disposizione
di legge, atto amministrativo o contratto,
servizi pubblici locali, in virtù di
affidamento diretto o di una procedura non
avente carattere di evidenza pubblica.
La peculiarità della procedura del
project financing, sussistente nel caso
di specie, nonché la libertà di forme che
caratterizza la prima fase, non esclude
l'applicazione, ad essa, del divieto
previsto per la fase della vera e propria
gara, ove si consideri la finalità di tutela
della concorrenza che tale norma è preposta
a garantire. Ed infatti, la definizione del
quadro progettuale dell'intervento
rappresenta un elemento di assoluta
rilevanza, nell'ambito delle scelte
economiche dei soggetti aspiranti ad
ottenere la concessione, anche prescindendo
dalla titolarità del diritto di prelazione
in capo al promotor.
Ne consegue la necessità che, sin dalla fase
di selezione del promotor, non
debbano sussistere cause di incompatibilità
o preclusive della partecipazione. Al fine
di assicurare condizioni reali di
concorrenzialità nel settore, deve
escludersi la partecipazione alla procedura
in questione di soggetti titolari di
precedenti "affidamenti diretti",
idonea di per sé ad alterare la procedura di
gara pubblica. Il divieto ha portata
generale e va riferito a tutti i soggetti
titolari di un affidamento diretto, e lo
stesso non subisce temperamenti nemmeno
qualora gli affidamenti diretti siano
operati a favore di società che abbiano
svolto una gara per la scelta del socio.
Peraltro, esso (divieto) è correlato al
fatto obiettivo della titolarità di
affidamento diretto, indipendentemente da
ogni considerazione sulla legittimità di
esso, quindi anche nei casi di affidamenti
legittimamente mantenuti in regime
transitorio (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.10.2011 n. 5495 -
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APPALTI:
Sulla legittimità
dell'aggiudicazione di una gara ad un RTI
che abbia omesso di allegare alla propria
offerta alcune giustificazioni preliminari,
qualora ciò non risulti prescritto dal bando
a pena di esclusione.
E' legittimo il provvedimento di
aggiudicazione di una gara, adottato da una
stazione appaltante nei confronti di un RTI
concorrente, che abbia omesso di allegare,
alla propria offerta, alcune giustificazioni
preliminari, qualora ciò non sia
espressamente previsto dal bando a pena di
esclusione. Secondo un consolidato principio
giurisprudenziale, infatti, nell'ambito
delle procedure ad evidenza pubblica, alle
clausole di esclusione deve essere
attribuito valore stringente, dando
prevalenza alle espressioni letterali in
esse contenute; è invece preclusa ogni forma
di estensione analogica diretta ad
evidenziare significati impliciti, che
rischierebbe di vulnerare l'affidamento dei
partecipanti, la "par condicio" dei
concorrenti e l'esigenza della più ampia
partecipazione.
Pertanto, dette clausole vanno interpretate
nel rispetto dei principi di tipicità e
tassatività delle ipotesi di esclusione, in
ragione della valenza delle stesse che, di
per sé, costituiscono fattispecie di
restrizione della libertà di iniziativa
economica tutelata dall'art. 41 Cost., oltre
che dal Trattato comunitario. Nel caso di
specie, l'offerta risulta corredata dalle
giustificazioni preliminari anche con
riferimento alla progettazione esecutiva, il
che non ha precluso alla stazione
appaltante, la quale si è avvalsa della
facoltà di valutare la congruità di ogni
altra offerta che, in base ad elementi
specifici, appaia anormalmente bassa, di
chiedere chiarimenti in merito a taluni
aspetti della stessa offerta, onde
verificarne la congruità.
In mancanza, dunque, di una chiara ed
univoca clausola che imporrebbe alla
stazione appaltante di adottare
provvedimenti espulsivi per l'omessa
produzione degli elementi giustificativi
specificamente indicati, non può disporsi
l'esclusione del concorrente, ove in
concreto si appalesi la necessità di
integrare le giustificazioni preventive
prodotte in modo non esaustivo a supporto
dell'offerta.
Peraltro, in materia di appalti pubblici, le
giustificazioni preliminari, quand'anche
richieste i sensi dell'art. 86, c. 5, del
d.lgs. n. 163/2006, non assurgono a
requisito di partecipazione alla gara a pena
di esclusione, venendo in rilievo la mancata
documentazione delle singole voci che
concorrono a formare il prezzo offerto solo
in via eventuale nella fase successiva a
quella di verifica dell'anomalia, e se ed in
quanto l'offerta ne risulti sospetta (TAR
Lazio-Roma, Sez. III-ter,
sentenza 07.10.2011 n. 7808 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
casi di inquinamento acustico,
l’instaurazione del contraddittorio deve
avvenire in maniera da non inficiare la
correttezza tecnica e la bontà istruttoria
delle operazioni delegate, che richiedono
l’acquisizione “a sorpresa” dei dati
fonometrici.
L’instaurazione del contraddittorio deve
avvenire in maniera da non inficiare la
correttezza tecnica e la bontà istruttoria
delle operazioni delegate, che richiedono
l’acquisizione “a sorpresa” dei dati
fonometrici, di talché, come proposto dallo
stesso organo tecnico deputato alla
verificazione, la comunicazione alla ditta
ricorrente deve avvenire a circa metà del
periodo di rilevazione, consentendo la
partecipazione della stessa, e di suoi
eventuali consulenti tecnici, alle
operazioni di elaborazione dei dati
fonometrici da effettuarsi presso la sede
dell’organo verificatore
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
ordinanza 07.10.2011 n. 831 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Destinazione alberghiera, durata
del vincolo limitabile. Dipende dalle
esigenze concrete.
La durata dei vincoli di
destinazione alberghiera di un immobile ha
natura temporalmente limitata. Tali vincoli,
se in via di principio legittimi perché
espressione di un diverso approccio del
legislatore al modo di vincolare l'uso
dell'immobile, e di instaurare quel
controllo sulla proprietà e l'iniziativa
private che costituisce il riflesso
dell'interesse all'espansione e al
miglioramento dei servizi turistici, hanno
comunque ragione di esistere in ragione di
esigenze concrete e sono destinati,
naturalmente, ad affievolirsi.
La questione della durata dei vincoli di
destinazione alberghiera è stata esaminata
dalla Corte costituzionale, con la sentenza
n. 4 del 28.01.1981 dove, dichiarando la
illegittimità costituzionale dell'art. 5 del
d.l. 27.06.1967, n. 460, convertito nella
legge 28.07.1967, n. 628, il giudice delle
leggi si è espresso per la intrinseca natura
temporalmente limitata dei vincoli per l’uso
alberghiero di un immobile.
Tali vincoli, in via di principio legittimi,
in quanto espressione di “un diverso
approccio del legislatore al modo di
vincolare l'uso dell'immobile, e di
instaurare quel controllo sulla proprietà e
l'iniziativa private, che costituisce il
riflesso dell'interesse, e qui dello stesso
aiuto pubblico, all'espansione e al
miglioramento dei servizi turistici”,
hanno ragione di esistere in ragione di
esigenze concrete e sono destinati
naturalmente ad affievolirsi.
Pertanto, le discriminazioni introdotte con
un regime vincolistico troppo lungo
sconfinano “oltre il ragionevole
esercizio della discrezionalità legislativa”,
venendo così a violare il principio
costituzionale di eguaglianza.
La posizione della Corte costituzionale è
diventata quindi canone di azione del
legislatore.
Con la legge 17.05.1983, n. 217 “Legge
quadro per il turismo e interventi per il
potenziamento e la qualificazione
dell'offerta turistica”, pur prevedendo
all’art. 8 “Vincolo di destinazione”,
la possibilità di istituire un vincolo di
destinazione per le strutture ricettive,
veniva espressamente disposto, al comma 5,
la possibilità di rimozione del detto
vincolo, dando carico alle Regioni, al
successivo comma 6, di procedere
all’individuazione delle modalità, fermo
rimanendo che la detta limitazione dovesse
in ogni caso venir meno “su richiesta del
proprietario solo se viene comprovata la non
convenienza economico-produttiva della
struttura ricettiva e previa restituzione di
contributi e agevolazioni pubbliche
eventualmente percepiti e opportunamente
rivalutati ove lo svincolo avvenga prima
della scadenza del finanziamento agevolato”.
Gli interventi normativi a livello nazionale
successivi, ossia la legge 29.03.2001, n.
135 ed ora il D.Lgs. 23.05.2011 n. 79, hanno
spostato a livello di legislazione regionale
il piano delle attribuzioni, senza però
ovviamente poter intaccare i principi di
rango costituzionale che permeano la
materia.
Da tale ricostruzione, emerge che il
rispetto del canone di temporaneità e di
modificabilità del vincolo di destinazione
d’uso alberghiero, lungi dall’essere una
possibilità liberamente valutabile dal
legislatore regionale, appartiene alla
stessa ragion d’essere della sua istituzione
e deve ritenersi a questo intrinseco.
Il legislatore regionale abruzzese, con la
legge regionale 28.04.1995, n. 75 “Disciplina
delle strutture turistiche extralberghiere”,
si è quindi fatto carico della questione,
prevedendo all’art. 41 la possibilità di
rimozione di tale vincolo.
Tale norma, espressamente evocata dalla B.
s.r.l. come fondamento giuridico per la sua
istanza, non è stata però ritenuta
applicabile dal TAR in quanto ritenuta
inserita nel titolo riguardante le residenze
di campagna e mirata alla sola rimozione del
vincolo e non al mutamento d’uso, come
richiesto dal ricorrente.
Tale lettura però appare in contrasto con la
interpretazione costituzionale sopra
evidenziata, che vede la rimovibilità delle
limitazioni come un canone di compatibilità
della norma stessa con le previsioni della
Carta fondamentale.
In questo senso, evocata l’applicazione
dell’art. 41 citato, la strada operativa
rimessa al giudice non può essere quella dal
mero rispetto del dato normativo, seppur in
questo caso non del tutto inequivoco, ma la
valutazione della sua interpretabilità in
senso costituzionalmente adeguato o, al
limite, nella remissione alla stessa Corte
costituzionale per la valutazione della sua
correttezza, in quanto una apposizione
sine die del vincolo urta con il
principio della sua temporaneità sopra
ricordato.
Per tali ragioni, ritiene la Sezione che il
citato art. 41, che al comma 6 prevede “L'Amministrazione
comunale può autorizzare la cancellazione
del vincolo di cui ai commi precedenti, su
specifica istanza del titolare, quando sia
stata accertata la sopravvenuta
impossibilità o non convenienza
economico-produttiva della destinazione,
subordinando la cancellazione alla revoca
della concessa autorizzazione di variazione
della destinazione d'uso, con conseguente
ripristino della destinazione d'uso
originaria”, rappresenti un principio di
diritto valevole in tutte la fattispecie, ed
in specie in quella qui in discussione,
autorizzando l’ente pubblico a provvedere
non unicamente in relazione alla residenze
agricole, ma per tutte le situazioni
inquadrabili nell’area concettuale in esame
e consentendo ogni tipologia di
provvedimento, anche implicito come il
mutamento di destinazione d’uso, che
permetta di giungere al risultato concreto
auspicato dal privato e imposto
dall’interpretazione costituzionale della
norma.
In questa ottica, il rifiuto
dell’amministrazione comunale di prendere
posizione sull’effettiva sopravvenienza di
situazioni di non economicità della gestione
e quindi sull’attuale esistenza delle
ragioni giustificative del vincolo, viene a
violare il disposto normativo della legge
regionale Abruzzo n. 75 del 28.04.1995,
nella sua interpretazione più accorta e
adeguata ai canoni indicati dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 4 del
28.01.1981.
Sotto questo profilo, il ricorso deve essere
accolto, imponendo al Comune di Francavilla
al mare di provvedere sull’istanza proposta
dalla B. s.r.l., sulla base degli
accertamenti istruttori e della ponderazione
degli interessi conformata dalle norme
evocate (commento tratto da www.ipsoa.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.10.2011 n.
5487 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' illegittimo l'operato di una
stazione appaltante che abbia svolto
l'intero procedimento di gara, affidato
mediante il sistema del cottimo fiduciario,
in seduta riservata.
La questione portata all’esame della Sezione
consiste nello stabilire se sia ammissibile
e legittimo che i procedimenti per
l’affidamento di lavori, servizi e forniture
attraverso il cottimo fiduciario si svolgano
interamente in seduta riservata.
L’art. 125 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163,
disciplinando la fornitura di “Lavori,
servizi e forniture in economia”, al
comma 11 prevede espressamente che
l’affidamento mediante cottimo fiduciario
avviene nel rispetto dei principi di
trasparenza, rotazione, parità di
trattamento, previa consultazione di almeno
cinque operatori economici, se sussistono in
tale numero soggetti idonei, individuati
sulla base di indagini di mercato ovvero
tramite elenchi di operatori economici
predisposti dalla stazione appaltante,
aggiungendo altresì che “Per servizi o
forniture inferiori a ventimila euro, è
consentito l’affidamento diretto da parte
del responsabile del procedimento”.
L’espresso richiamo al rispetto dei principi
di trasparenza, rotazione e parità di
trattamento esclude innanzitutto che
l’affidamento mediante cottimo fiduciario di
lavori, servizi e forniture sia
riconducibile ad una semplice attività
negoziale, essendo per contro evidente la
preoccupazione del legislatore di
salvaguardare l’applicazione dei principi
costituzionali, cui deve essere improntata
in generale l’azione amministrativa (ed in
particolare il procedimento di scelta del
contraente dei contratti pubblici), posti a
tutela non già a tutela degli interessi
singolari dell’amministrazione appaltante o
degli operatori economici interessati,
quanto piuttosto dell’interesse pubblico
generale alla legalità, imparzialità e buon
andamento dell’azione amministrativa (come
valore essenziale ed imprescindibile
dell’intero ordinamento e della convivenza
sociale) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.10.2011 n. 5454 -
link a www.mediagraphic.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Giurisdizione pubblico impiego.
Graduatorie PA, dopo 11 anni il TAR ''cede''
al giudice ordinario.
Nella sfera di giurisdizione del Tar del
Lazio non rientrano le questioni che
riguardano le graduatorie per le assunzioni
del personale nella PA, ivi comprese le
materie concernenti le graduatorie a
esaurimento per l'assunzione dei docenti
della scuola statale.
Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma con 8 sentenze depositate il 30.09.2011. Dopo un braccio di ferro
durato 11 anni il Tar del Lazio si è arreso
all'orientamento delle Sezioni unite della
Cassazione ed ha dichiarato il proprio
difetto di giurisdizione in materia di
graduatorie per le assunzioni nella Pubblica
amministrazione.
Ma la resa non è avvenuta tanto per
uniformarsi alle linee di indirizzo delle
Sezioni unite, il cui orientamento era noto
dal 2000, quanto, invece, per effetto del
mutato orientamento dell'Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato, che con la sentenza
n. 11 del 12 luglio scorso, ha fatto proprie
le argomentazioni delle Sezioni unite,
rivedendo la propria posizione contraria
espressa nel 2007.
Affermando definitivamente che le
graduatorie finalizzate alle assunzioni
nella Pubblica amministrazione (nel caso
concreto: le graduatorie a esaurimento per
l'assunzione dei docenti della scuola
statale) non rientrano nella giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, atteso
che non si tratta di materia concorsuale per
carenza degli elementi essenziali (bando,
prove selettive, compilazione della
graduatoria e provvedimento di approvazione
della stessa da parte della commissione di
concorso).
La resa del TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, è avvenuta il 30.09.2011 con 8 sentenze aventi per
oggetto controversie collegate alle
graduatorie a esaurimento per le assunzioni
del docenti della scuola statale (30.09.2011 n. 7628,
n. 7629,
n. 7630,
n. 7631,
n. 7632,
n. 7655,
n. 7657,
n. 7659).
Il rigetto dei ricorsi per difetto di
giurisdizione comporta la cessazione degli
effetti delle ordinanze cautelari già
emesse, fatta salva la possibilità di
riassunzione davanti al giudice ordinario
entro il termine di 3 mesi dal passaggio in
giudicato delle sentenze.
Le sentenze.
Le questioni oggetto delle decisioni
riguardano anzi tutto la possibilità, per i
docenti inclusi in graduatoria, di
trasferirsi da una provincia all'altra
entrando nella graduatoria della nuova
provincia conservando il punteggio e il
diritto alla posizione corrispondente (c.d.
inserimento a pettine: sentenze n. 7628 del
2011; n. 7629 del 2011 e n. 7630 del 2011).
Su tale questione, peraltro, Il Tar del
Lazio si era già pronunciato accogliendo il
ricorso dei ricorrenti che lamentavano il
mancato inserimento in graduatoria e, a
seguito di diversi giudizi di ottemperanza,
l'Amministrazione scolastica aveva proceduto
a tali inserimenti.
Le altre questioni oggetto di pronunce di
inammissibilità per difetto di giurisdizione
riguardano:
- il diritto a vedersi riconoscere il
punteggio relativo all'anno in cui sia stato
prestato il servizio militare anche se non
in costanza di nomina (n. 7632 del 2011);
- la facoltà di chiedere anche tardivamente
di permanere nelle graduatorie (n. 7659 del
2011);
- la mancata previsione della possibilità di
inserimento in graduatoria per i docenti di
strumento neoabilitati (n. 7631 del 2011 e
n. 7655 del 2011);
- la preclusione dell'inserimento in
graduatoria dei docenti che si sono
abilitati con i corsi del decreto Miur n. 85
del 2005, ma non hanno potuto presentare la
domanda di inserimento con riserva nelle
graduatorie 2007 del 2009 perché non sono
stati attivati i corsi stessi al momento
della scadenza del termine di presentazione
delle istanze (n. 7657 del 2011) e, infine,
la preclusione dell'inserimento o della
permanenza in graduatoria degli aspiranti
docenti ultrasessantacinquenni (n. 7658 del
2011) (commento tratto da www.ipsoa.it -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Esproprio aree agricole.
La Corte di Cassazione indica i criteri per
l'applicazione alle aree agricole
dell'indennizzo pari al valore venale del
bene, a seguito della pronuncia della Corte
Costituzionale che ha dichiarato illegittimo
l'indennizzo parametrico.
La I Sez. civile della Corte di Cassazione,
con la
sentenza 29.09.2011 n. 19936,
individua i casi in cui, a seguito della
sentenza 181/2011 della Corte
Costituzionale, per l'esproprio di suoli
agricoli non edificabili, in luogo di un
indennizzo parametrico definito dal valore
agricolo medio, è dovuto un indennizzo pari
al valore venale del bene, fissato dall'art.
39 della legge 25.06.1865 n. 2359.
Al riguardo la Suprema Corte ha dichiarato
che il criterio del valore venale non si
applica ai soli rapporti ormai esauriti in
modo definitivo (per avvenuta formazione del
giudicato o per essersi verificato altro
evento cui l'ordinamento collega il
consolidamento del rapporto medesimo) ovvero
per essersi verificate preclusioni
processuali (o decadenze e prescrizioni non
direttamente investite, nei loro presupposti
normativi, dalla pronuncia
d'incostituzionalità); viceversa si applica
nel caso in cui l'interessato, mediante
apposita azione non ancora conclusa, abbia
impedito la definitiva ed immodificabile
determinazione dell'indennità.
Con l'occasione la Suprema Corte ha avuto
modo di dichiarare che, per la
determinazione del valore venale del bene, è
consentito dimostrare, in base ad una
documentata valutazione di mercato
(determinata sempre all'interno della
categoria suoli inedificabili e anche
attraverso rigorose indagini tecniche), che
il valore agricolo sia mutato e/o aumentato
in conseguenza di una diversa destinazione
del bene, egualmente compatibile con la sua
ormai accertata non edificabilità tramite
una autorizzabile utilizzazione intermedia
tra l'agricola e l'edificatoria (parcheggi,
impianti sportivi, ecc.) (commento tratto da
www.legislazionetecnica.it). |
APPALTI:
Sull'illegittimità
dell'aggiudicazione di una gara ad un
concorrente che abbia omesso di allegare le
dichiarazioni di cui all'art. 38 del d.lgs.
n. 163/2006, con riferimento ai progettisti
indicati ai sensi dell'art. 53, c. 3, d.lgs.
163/2006.
E' illegittimo il provvedimento di
aggiudicazione di una gara adottato da una
stazione appaltante nei confronti di un RTI
concorrente, che abbia omesso di allegare,
alla propria offerta, le dichiarazioni
sostitutive in ordine alla sussistenza delle
condizioni di affidabilità morale e
professionale, di cui alle lett. b) e c)
dell'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, con
riferimento ai progettisti "indicati",
ai sensi dell'art. 53, c. 3, del d.lgs. n.
163/2006.
Secondo la prevalente giurisprudenza
amministrativa, non solo i progettisti
associati, ma anche quelli "indicati",
se di certo non assumono il ruolo di
concorrenti, nondimeno partecipano alla
gara, apportando al concorrente taluni
requisiti da esso non posseduti, con
l'evenienza che di detti requisiti il
progettista indicato può essere chiamato a
dare effettiva dimostrazione ex art. 48 del
medesimo decreto.
Tale necessità sussiste anche in ordine ai
requisiti "generali", i quali
concorrono a formare, insieme con quelli "speciali",
la "legittimazione" all'appalto. In
questa direzione, il possesso dei requisiti
generali di partecipazione alla gara
d'appalto, va verificato anche in capo alle
singole imprese/professionisti, designati
quali esecutori del servizio di
progettazione.
Infatti, una cosa è l'individuazione del
concorrente in possesso dei requisiti
tecnico-organizzativi, necessari ai fini
della realizzazione dell'opera, altro è
l'individuazione del concorrente "moralmente
affidabile"; la relativa verifica va
pertanto eseguita nei confronti "di tutti
i soggetti ammessi a partecipare alle gare",
dunque anche in capo ai progettisti "individuati"
dall'impresa esecutrice.
Diversamente opinando, risulterebbero
violati sia il principio costituzionale di
buon andamento, sia il principio comunitario
di "precauzione", in quanto si
giungerebbe all'irragionevole conclusione
che le garanzie di serietà economica e
moralità professionale, richieste agli
imprenditori ai fini della partecipazione
alle gare, vengano eluse da altri soggetti i
quali, mediante il sistema della mera "indicazione",
riuscirebbero di fatto ad eseguire servizi
per una gara cui non potrebbero essere
ammessi (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 29.09.2011 n. 1666 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
URBANISTICA: Le
Norme Tecniche di Attuazione di uno
strumento urbanistico “sono atti a contenuto
generale, recanti prescrizioni a carattere
normativo e programmatico, destinate a
regolare la futura attività edilizia e, in
quanto tali, non sono di per sé
immediatamente lesive di posizioni
giuridiche soggettive di singoli, per cui la
loro impugnazione può avvenire soltanto
unitamente all’impugnazione del
provvedimento che ne costituisca la concreta
applicazione e il termine per la
proposizione del relativo ricorso decorre
non dalla data di pubblicazione della norma
di piano, bensì dalla piena conoscenza del
provvedimento esecutivo".
La modifica dello strumento urbanistico in
sede di emenda di errore materiale può
essere disposta solo ove tale attività non
comporti una attività interpretativa della
volontà della Amministrazione.
Come affermato da consolidata Giurisprudenza
del Consiglio di Stato (ex plurimis:
C.d.S. sez. IV 12.07.2002 n. 3929), le Norme
Tecniche di Attuazione di uno strumento
urbanistico “sono atti a contenuto
generale, recanti prescrizioni a carattere
normativo e programmatico, destinate a
regolare la futura attività edilizia e, in
quanto tali, non sono di per sé
immediatamente lesive di posizioni
giuridiche soggettive di singoli, per cui la
loro impugnazione può avvenire soltanto
unitamente all’impugnazione del
provvedimento che ne costituisca la concreta
applicazione e il termine per la
proposizione del relativo ricorso decorre
non dalla data di pubblicazione della norma
di piano, bensì dalla piena conoscenza del
provvedimento esecutivo”.
Il Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza
07.04.2004 n. 1968, ha chiarito che la
modifica dello strumento urbanistico in sede
di emenda di errore materiale può essere
disposta solo ove tale attività non comporti
una attività interpretativa della volontà
della Amministrazione (TAR Puglia-Bari, Sez.
II,
sentenza 29.09.2011 n. 1416 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’autorizzazione
paesaggistica deve necessariamente indicare
le specifiche ragioni sulla base delle quali
l’ente preposto alla tutela del relativo
vincolo ritiene che l’intervento abusivo sia
compatibile con l’ambiente circostante,
oggetto di tutela.
Con il presente ricorso, il proprietario di
due manufatti abusivi, costituiti da un
capanno in lamiera zincata e da una tettoia,
per i quali aveva presentato istanza di
concessione edilizia in sanatoria ex art. 39
della L. n. 724 del 1994, impugna il decreto
in data 25/07/2000, con il quale la
Soprintendenza per i Beni Ambientali e
Architettonici di Ravenna ha annullato
l'autorizzazione paesaggistica
precedentemente rilasciatagli dal Comune di
Santarcangelo di Romagna.
...
Risulta infondato, infine, il motivo facente
leva sull’asserito carattere di controllo di
merito e non di legittimità dell’attività
svolta dalla Soprintendenza con l’adozione
del gravato decreto.
Invero, sotto tale profilo, il controllo
esercitato dalla Soprintendenza risulta
certamente finalizzato a verificare la
legittimità dell’autorizzazione, quanto meno
in riferimento a uno degli autonomi capi di
motivazione su cui si fonda il decreto, vale
a dire quello con il quale si evidenzia il
palese difetto di motivazione
dell’autorizzazione comunale.
Il Collegio osserva che il rilievo della
Soprintendenza è pienamente condivisibile,
non potendo, all’evidenza, ritenersi né
sufficiente né idonea a motivare
l’autorizzazione, la generica e apodittica
affermazione del Comune secondo la quale “…le
opere abusive realizzate non alterano
negativamente lo stato dei luoghi”.
Sul punto, l’oramai pacifico orientamento
della giurisprudenza amministrativa
(orientamento pienamente condiviso anche da
questo Tribunale), ha stabilito che
l’autorizzazione paesaggistica deve
necessariamente indicare le specifiche
ragioni sulla base delle quali l’ente
preposto alla tutela del relativo vincolo
ritiene che l’intervento abusivo sia
compatibile con l’ambiente circostante,
oggetto di tutela (v. ex multis:
Cons. Stato, sez. VI, 06/06/2003 n. 3186;
TAR Emilia–Romagna –BO- sez. II, 16/04/2010
n. 3535; 01/02/2010 n. 539; TAR Campania
–SA- sez. II, 19/07/2007 n. 847)
(TAR Emilia Romagna, Sez. II,
sentenza 28.09.2011 n. 671 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla legittimità dell'esclusione
di un concorrente, per omessa indicazione
dei nominativi dei rappresentanti e dei
direttori tecnici cessati dalla carica
nell'ultimo triennio, in violazione
dell'art. 38, lett. b) e c), del d.lgs. n.
163/2006.
E' legittimo il provvedimento di esclusione
da una gara, adottato da una stazione
appaltante nei confronti di un concorrente
che abbia omesso di indicare i nominativi
degli amministratori con rappresentanza e
dei direttori tecnici cessati dalla carica
nell'ultimo triennio, in quanto ciò vìola
l'art. 38, lett. b) e c), c. 1 e 2, del
d.lgs. n. 163/2006.
Nel caso di specie, infatti, la
dichiarazione presentata dall'amministratore
della società concorrente non consente di
individuare i nominativi e le funzioni
svolte dai soggetti cessati dalla carica, e
la stessa risulta, pertanto, indeterminata,
in quanto incompleta di elementi essenziali.
Né è ammissibile un'integrazione postuma ai
sensi dell'art. 46 del d.lgs. n. 163/2006,
in quanto, nella fattispecie, la lex
specialis di gara prescrive
espressamente che tale dichiarazione sia
inserita nella busta contenente la
documentazione amministrativa, a pena di
esclusione.
Peraltro, la disposizione di cui all'art.
38, c. 2, del d.lgs. n. 163/2006 pone, a
carico del concorrente, l'onere di attestare
il possesso dei requisiti mediante
dichiarazione sostitutiva, con le modalità
previste dal D.P.R. n. 445/2000, e non
ammette altri mezzi atipici equipollenti.
D'altra parte, lo stesso comma 3 dell'art.
38 D.lgs. n. 163/2006, presuppone
l'assolvimento dell'onere, da parte
dell'interessato, della previa indicazione
degli elementi indispensabili ai fini del
reperimento delle informazioni o dei dati
richiesti; analogamente, la dichiarazione
sostitutiva deve necessariamente contenere
gli estremi identificativi dei soggetti
terzi, cui si riferisce, configurandosi
altrimenti una vera e propria carenza in
ordine all'oggetto della dichiarazione
stessa, che non consente di individuare la
portata liberatoria nei confronti dei terzi,
né l'ampiezza della responsabilità del
dichiarante in ordine alla veridicità
dell'asserita sussistenza dei prescritti
requisiti (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 27.09.2011 n. 5385 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Relativamente
alla sanatoria di abusi edilizi, va
condiviso il principio della “doppia
conformità”, secondo cui “la concessione
edilizia in sanatoria presuppone la
conformità del manufatto abusivo agli
strumenti urbanistici vigenti sia al tempo
della sua realizzazione, sia al momento in
cui si chiede il rilascio del provvedimento
di condono”.
Il Collegio ritiene di condividere, sulla
base delle motivazioni espresse al riguardo
dal Giudice di prime cure, il principio
della “doppia conformità”, secondo
cui “la concessione edilizia in sanatoria
presuppone la conformità del manufatto
abusivo agli strumenti urbanistici vigenti
sia al tempo della sua realizzazione, sia al
momento in cui si chiede il rilascio del
provvedimento di condono”
(CGARS,
sentenza 27.09.2011 n. 607 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
“linea di battigia” deve intendersi la linea
di contatto tra mare e terraferma e che la
misurazione debba essere eseguita in
orizzontale.
La distanza va quindi misurata tenendo conto
dell’unica linea retta che congiunge
l’immobile (od anche soltanto lo spigolo
dello stesso) al punto più vicino in cui la
terraferma entra in contatto con il mare.
Per quel che
concerne il criterio da adottare ai fini
della corretta misurazione della distanza
intercorrente tra il punto della battigia
più vicino all’edificio, oggetto di istanza
di rilascio di concessione edilizia in
sanatoria, e l’edificio stesso, il Collegio
ritiene, sulla base di costante
giurisprudenza, anche di questo C.G.A., che
per “linea di battigia” debba
intendersi la linea di contatto tra mare e
terraferma e che la misurazione debba essere
eseguita in orizzontale (cfr. decisione n.
617/2001).
La distanza va quindi misurata tenendo conto
dell’unica linea retta che congiunge
l’immobile (od anche soltanto lo spigolo
dello stesso) al punto più vicino in cui la
terraferma entra in contatto con il mare
(CGARS,
sentenza 27.09.2011 n. 607 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ricostruzione ruderi.
La ricostruzione su ruderi costituisce
sempre “nuova costruzione”, in quanto
il concetto di ristrutturazione edilizia
postula necessariamente la preesistenza di
un fabbricato da ristrutturare, cioè di un
organismo edilizio dotato delle murature
perimetrali, strutture orizzontali e
copertura.
In mancanza di tali elementi strutturali non
è possibile valutare l'esistenza e la
consistenza dell'edificio da consolidare ed
i ruderi non possono che considerarsi alla
stregua di un'area non edificata (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.09.2011 n. 34768 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In base al comma 5 dell'art. 338
del r.d. n. 1265/1934 “per dare
esecuzione ad un'opera pubblica (…), purché
non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il
consiglio comunale può consentire, previo
parere favorevole della competente azienda
sanitaria locale, la riduzione della zona di
rispetto…”.
Questa norma consente, dunque, la
realizzazione di opere pubbliche entro la
fascia di rispetto cimiteriale a condizione
che intervenga l’autorizzazione del Comune e
della ASL competenti; autorizzazione che, in
caso di opere strategiche come quella in
esame, è sostituita dalla deliberazione del
CIPE di approvazione del progetto definitivo
ai sensi dell’art. 165, comma 5, del d.lgs.
n. 163/2006.
--------------
La fascia di rispetto cimiteriale risponde,
da un lato, all’esigenza di tutela
dell'interesse pubblico all'igiene di ogni
tipo di costruzione destinata alla vita
dell'uomo e, dall'altro, all'esigenza di
assicurare tranquillità e decoro ai luoghi
di sepoltura.
Si deve pertanto ritenere che il vincolo in
parola riguardi quelle costruzioni
incompatibili con la funzione cimiteriale in
quanto destinati ad ospitare stabilmente
l’uomo quali, in primo luogo, le abitazioni
(ma si pensi anche agli alberghi, agli
ospedali, alle scuole ecc..); e che esso non
osti alla realizzazione di altri manufatti
che tale funzione non possiedono quali, ad
esempio, strade e parcheggi (ragionando a
contrario dovrebbe ritenersi che neppure le
strade che portano al cimitero potrebbero
realizzarsi).
Questa interpretazione è avvalorata dal dato
letterale della disposizione che, come
visto, vieta specificamente la realizzazione
di nuovi “edifici” e non già la
realizzazione di una qualsiasi opera.
In base al comma 5 dell'art. 338 del r.d. n.
1265/1934 “per dare esecuzione ad
un'opera pubblica (…), purché non vi ostino
ragioni igienico-sanitarie, il consiglio
comunale può consentire, previo parere
favorevole della competente azienda
sanitaria locale, la riduzione della zona di
rispetto…”.
Questa norma consente, dunque, la
realizzazione di opere pubbliche entro la
fascia di rispetto cimiteriale a condizione
che intervenga l’autorizzazione del Comune e
della ASL competenti; autorizzazione che, in
caso di opere strategiche come quella in
esame, è sostituita dalla deliberazione del
CIPE di approvazione del progetto definitivo
ai sensi dell’art. 165, comma 5, del d.lgs.
n. 163/2006.
---------------
Secondo la giurisprudenza la fascia di
rispetto cimiteriale risponde, da un lato,
all’esigenza di tutela dell'interesse
pubblico all'igiene di ogni tipo di
costruzione destinata alla vita dell'uomo e,
dall'altro, all'esigenza di assicurare
tranquillità e decoro ai luoghi di sepoltura
(cfr. ex multis TAR Sicilia-Catania,
sez. I, 15.07.2003, n. 1141).
Si deve pertanto ritenere che il vincolo in
parola riguardi quelle costruzioni
incompatibili con la funzione cimiteriale in
quanto destinati ad ospitare stabilmente
l’uomo quali, in primo luogo, le abitazioni
(ma si pensi anche agli alberghi, agli
ospedali, alle scuole ecc..); e che esso non
osti alla realizzazione di altri manufatti
che tale funzione non possiedono quali, ad
esempio, strade e parcheggi (ragionando a
contrario dovrebbe ritenersi che neppure le
strade che portano al cimitero potrebbero
realizzarsi).
Questa interpretazione è avvalorata dal dato
letterale della disposizione che, come
visto, vieta specificamente la realizzazione
di nuovi “edifici” e non già la
realizzazione di una qualsiasi opera (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 26.09.2011 n. 2295 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
repressione dell’abusivismo edilizio da
parte delle competenti amministrazioni non
si esaurisce nella pronuncia
dell’ingiunzione al ripristino dello stato
dei luoghi e nella minaccia dell’adozione
delle ulteriori misure che la legge prevede
nel caso in cui l’ingiunzione non venga
eseguita; l’amministrazione, infatti, è
tenuta a curare il seguito dell’ingiunzione
al fine di restaurare effettivamente
l’ordine giuridico violato dando
concretezza, ove ne sussistano i
presupposti, a quella “minaccia” (e va detto
per inciso che solo così i procedimenti
sanzionatori in materia edilizia possono
svolgere la funzione dissuasiva, per così
dire general-preventiva, dell’abusivismo che
pure hanno o dovrebbero avere).
Oggetto del giudizio del silenzio è
l’accertamento della inerzia su una
specifica istanza e, in caso positivo, la
condanna dell’amministrazione a dar seguito
all’istanza stessa adottando un
provvedimento esplicito sulla medesima
Nel caso all’esame la diffida (o meglio le
diffide) di parte ricorrente avevano a
oggetto l’emanazione dell’ingiunzione alla
demolizione delle opere abusive e quindi il
comune sulla stessa ha provveduto (ordinando
la demolizione di quelle opere per le quali
non pende il procedimento di accertamento di
conformità).
Non può tuttavia fare a meno di rilevarsi
–anche nell’ottica della prevenzione di
ulteriore contenzioso- che la repressione
dell’abusivismo edilizio da parte delle
competenti amministrazioni non si esaurisce
nella pronuncia dell’ingiunzione al
ripristino dello stato dei luoghi e nella
minaccia dell’adozione delle ulteriori
misure che la legge prevede nel caso in cui
l’ingiunzione non venga eseguita;
l’amministrazione infatti è tenuta a curare
il seguito dell’ingiunzione al fine di
restaurare effettivamente l’ordine giuridico
violato dando concretezza, ove ne sussistano
i presupposti, a quella “minaccia” (e
va detto per inciso che solo così i
procedimenti sanzionatori in materia
edilizia possono svolgere la funzione
dissuasiva, per così dire general-preventiva,
dell’abusivismo che pure hanno o dovrebbero
avere)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 26.09.2011 n. 736 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Valutazione
in forma numerica e necessaria
predeterminazione dei criteri.
La sentenza che si segnala consente di
formulare una breve sintesi degli
orientamenti invalsi sul tema
dell’esaustività della motivazione affidata
alla sola forma numerica nelle procedure
concorsuali.
L’appello deciso dalla Quinta Sezione
verteva sull’impugnazione di una sentenza
del TAR con la quale erano stati annullati
gli atti di un concorso per l’insufficienza
della motivazione numerica espressa in
relazione agli elaborati presentati dai
candidati, in quanto nemmeno i criteri di
valutazione che erano stati deliberati dalla
Commissione erano risultati sufficientemente
predeterminati e, quindi, suscettibili di
consentire un effettivo apprezzamento delle
ragioni sottese all’attribuzione del
punteggio.
Il Consiglio di Stato, nel respingere il
gravame rileva un primo criterio,
identificato nella “capacità di
esposizione” può considerarsi
sicuramente idoneo a sorreggere la
successiva attribuzione del punteggio
numerico, in quanto con tale parametro ci si
riferisce in generale alla “capacità del
candidato di esporre i concetti in un
linguaggio corretto e secondo
un’articolazione logica”.
Per converso, il secondo criterio, relativo
alla “capacità di sintesi” si rivela
generico e deficitario di quei caratteri di
chiarezza ed esaustività necessari a rendere
percepibile “il percorso logico attraverso
il quale i commissari abbiano inteso
valutabile tale «capacità»”.
Considerazioni non dissimili vengono
espresse anche per il terzo criterio,
riguardante le “capacità di risoluzione
del problema”, rispetto al quale il
Consiglio di Stato rileva come “in
assenza di elementi motivazionali o, come
evidenziato dal T.A.R., di sottoparametri
suppletivi, non appare, né può essere stato
idoneo a consentire una valida e razionale
valutazione della prova né a ciò si può
supplire, con giudizio solo numerico”.
Numerose altre sentenze sono intervenute in
materia, sostanzialmente in linea con
l’orientamento da ultimo espresso dal
Consiglio di Stato nella sentenza che qui si
segnala.
Ad esempio, la Sezione Sesta, con sentenza
10.09.2009, n. 5447, aveva rilevato che “l’espressione
del punteggio in termini solo numerici … non
si configura di per sé idonea ad esternare
le ragioni della valutazione discrezionale
dell’Amministrazione, in assenza di una
griglia che ne scomponga l’ entità in
relazione ai plurimi aspetti della carriera
del dipendente interessato che vengono a
formare oggetto di contestuale
considerazione”, con la conseguenza che
“in presenza dell’ ampia sfera di
discrezionalità che viene a caratterizzare
il giudizio oggetto di contestazione proprio
la mancanza di precisi parametri di
riferimento cui raccordare il punteggio
assegnato impone la necessità di dare
motivazione degli elementi elencati alla
categoria terza ritenuti rilevanti ai fini
della sua quantificazione, ovvero del
limitato rilievo assegnato a taluni di essi
agli effetti del punteggio complessivo”.
Per converso, la stessa Sezione Sesta, con
sentenza 08.07.2009 n. 4384 ha riconosciuto
la legittimità degli atti di un concorso in
cui la valutazione in forma numerica trovava
riscontro in criteri, non formulati dalla
Commissione esaminatrice, ma che potevano
essere desunti dagli atti pregressi della
procedura concorsuale, ed in particolare
dallo stesso bando della selezione. Anzi, la
soluzione di anticipare la fissazione dei
criteri valutativi in uno stadio
procedimentale che sia meno prossimo
all’esercizio della effettiva attività
valutativa ad opera della commissione (e di
limitare al massimo per tal via il potere
discrezionale di quest’ultima) è ritenuta
una forma di garanzia ancor più incisiva
(commento tratto da
www.amministrazioneincammino.luiss.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.09.2011 n. 5061 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropri: restituzione del fondo
e riduzione in pristino
Il Consiglio di Stato conferma che il
proprietario di un’area, occupata senza
titolo per la realizzazione di un’opera
pubblica, può legittimamente domandare nel
giudizio di ottemperanza sia il
risarcimento, sia la restituzione del fondo
che la sua riduzione in pristino.
Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza 02.09.2011 n. 4970,
prendendo in esame il ricorso di
ottemperanza per l’esecuzione di una
precedente sentenza che ha dichiarato
illegittimi (e quindi decaduti) gli atti per
l’acquisizione di un’area per la
realizzazione di un’opera pubblica, ha
dichiarato che, in caso di inerzia
dell’Amministrazione nell’acquisire
legittimamente il bene, è suo obbligo
primario procedere alla restituzione della
proprietà illegittimamente detenuta.
Con l’occasione viene evidenziato come, a
seguito della sentenza 293/2010 della Corte
Costituzionale che ha dichiarato illegittima
la cd acquisizione sanante (articolo 43 del
TU sulle espropriazioni), l’Amministrazione
possa acquisire legittimamente il bene
facendo uso dei due strumenti tipici, ossia
il contratto (tramite l’acquisizione del
consenso della controparte) o il
provvedimento (e quindi anche in assenza di
consenso ma tramite la riedizione del
procedimento espropriativo con le sue
garanzie), ai quali va aggiunto il possibile
ricorso al procedimento espropriativo
semplificato (articolo 42-bis del TU sulle
espropriazioni, come introdotto
dall’articolo 34, comma 1, del D.L. 98/2011
in materia di disposizioni urgenti per la
stabilizzazione finanziaria, convertito in
L. 15.07.2011 n. 111).
Pertanto, in assenza -da parte
dell’Amministrazione- della concreta
manifestazione che intenda acquisire
legittimamente il bene, il proprietario può
legittimamente domandare nel giudizio di
ottemperanza sia il risarcimento, sia la
restituzione del fondo che la sua riduzione
in pristino.
Nel caso in esame, emergendo dagli atti come
l’Amministrazione comunale non abbia fatto
uso di nessuno dei mezzi giuridici a sua
disposizione, rimanendo così integra la
situazione di illegittimità nell’uso del
bene, il Consiglio di Stato ne ha intimato
la restituzione nel termine di 120 giorni;
disponendo che, in caso di ulteriore
inadempimento, a tale attività provveda il
commissario ad acta nominato
contestualmente (commento tratto da
www.legislazionetecnica.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Verifica dei requisiti per
l’accesso ad un pubblico impiego.
Sul candidato che partecipa ad un
procedimento concorsuale gravano obblighi di
correttezza –specificati attraverso il
richiamo alla clausola generale della buona
fede e solidarietà e rivenienti il
fondamento sostanziale negli artt. 2 e 98, co. 1, Cost.– fra cui il dovere di
cooperare lealmente fornendo tutte le
informazioni richieste in modo veridico e
indicando tutti i dati necessari per la
gestione di procedimenti di massa (Cfr.
Corte cost., n. 329 del 2007; Cons. St.,
sez. V, n. 2311 del 2011; sez. IV, n. 7382
del 2010.
In applicazione del principio nella specie è
stato ritenuto che una candidata di un
concorso pubblico aveva violato tali doveri
di correttezza perché, a suo tempo, aveva
dichiarato di essere in possesso del diploma
di scuola secondaria superiore indicando un
punteggio in sessantesimi mai conseguito).
Nei concorsi per l’accesso ad un posto di
pubblico impiego, i requisiti generali che
legittimano la nomina e l’instaurazione del
rapporto di lavoro (quale il possesso del
pertinente titolo di studio), devono
permanere in costanza di servizio; pertanto,
in materia, vige il principio generale
(enucleabile dagli artt. 127, lett. d), t.u.
imp. civ. Stato e 3, co. 3, d.P.R. n. 487
del 1994), in base al quale, nell’ipotesi di
mancanza successivamente accertata del
requisito legale, indipendentemente dal
riscontro di qualsivoglia profilo di
colpevolezza del candidato,
l’Amministrazione deve escludere dal
concorso il candidato e dichiarare la
decadenza di diritto dalla nomina con la
conseguente cessazione del rapporto di
servizio; in tal caso il provvedimento è
atto interamente vincolato e, come tale, non
assistito dalle garanzie partecipative e
motivazionali previste dalla l. n. 241 del
1990 e può intervenire in qualunque momento
successivo al reclutamento (Cfr. sul
principio generale ed i suoi corollari
applicativi, Cons. St., sez. IV, n. 7382 del
2010; sez. IV, n. 148 del 2006; sez. III, n.
86/2004 del 03.02.2004).
In linea generale, il riscontro del possesso
dei titoli da parte dei candidati e
l’adozione dei provvedimenti conseguenti
rientrano nella competenza
dell’Amministrazione procedente e non della
commissione esaminatrice (Cfr. Cons. Stato,
sez. V, n. 2968 del 2008) (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 01.09.2011 n. 4896 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Annullamento in sede statale del
nulla osta paesaggistico per difetto di
motivazione del nulla osta rilasciato in
sede locale, in caso di intervento edilizio
di notevole consistenza.
E’ legittimo l’annullamento in sede statale
del nulla osta paesaggistico rilasciato in
sede locale per difetto di motivazione, ove
si tratti un intervento edilizio di notevole
consistenza, in un’area che dalla
documentazione in atti appare inedificata,
nonché interessata da regime vincolistico di
tipo sostanzialmente conservativo; infatti,
in tal caso, non appare illogico che
l’assenso comunale, non accompagnato da
adeguate considerazioni sulla massiccia ed
irreversibile trasformazione del territorio
progettata, sia incorso nelle valutazioni
negative della Soprintendenza, che ha
ritenuto di fatto violato il regime
vincolistico di cui trattasi (1).
---------------
(1) Sull'annullamento in sede statale del
nulla osta paesaggistico v. tra le tante:
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza
09-03-2011 (sul rispetto del termine di 60
giorni per l’annullamento in sede statale
del nulla osta paesaggistico e sulla
necessita o meno per l’Autorità statale, nel
caso di annullamento per difetto di
motivazione, di indicare le ragioni
dell’incompatibilità dell’intervento con
l’assetto paesaggistico).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza
03-02-2011 (sul termine di 60 giorni entro
il quale l’Autorità statale può annullare il
nulla-osta paesaggistico rilasciato in sede
regionale e sull'annullabilità o meno del
nulla-osta stesso per difetto di
motivazione, ove l’annullamento contenga
anche considerazioni attinenti al merito).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza
26-07-2010 (sull’illegittimità
dell’annullamento in sede statale del
nulla-osta paesaggistico per asserito
difetto di motivazione, ma che in realtà
sottende motivi di merito).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza
08-06-2010 (sui limiti del potere di
controllo dell’Autorità statale sui
nulla-osta paesaggistici rilasciati in sede
regionale ed in particolare sulla
possibilità o meno per l’autorità statale di
disporre l’annullamento del nulla-osta per
difetto di motivazione e di istruttoria).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza
22-02-2010 (sui limiti del potere di
controllo dell’Autorità statale sui nulla
osta paesaggistici rilasciati in sede
regionale ed in particolare sulla
possibilità o meno per l’autorità statale di
disporre l’annullamento del nulla osta per
difetto di motivazione e di istruttoria;
fattispecie relativa ad impianto per la
produzione di energia eolica).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza
07-12-2009 (sulla legittimità o meno
dell’annullamento in sede statale
dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata
dal Comune disposto per difetto di
motivazione dell’autorizzazione stessa).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza
06-06-2008 (sul termine previsto dall’art.
159 del Codice dei beni culturali e del
paesaggio per l’annullamento in sede statale
del nulla-osta paesaggistico e
sull’annullamento di tale nulla osta per
difetto di motivazione).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza
08-02-2008 (sulla possibilità di dare
comunicazione dell’avvio del procedimento di
controllo in sede statale del nulla osta
paesaggistico mediante forme equipollenti e
sulla legittimità dell’annullamento da parte
della Soprintendenza del nulla osta
rilasciato dal Comune per difetto di
motivazione).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza
24-01-2006 (sull’illegittimità
dell'annullamento da parte della
Soprintendenza dell’autorizzazione
rilasciata dal Comune per la realizzazione
di una ristrutturazione in zona soggetta a
vincolo paesaggistico con una motivazione
che finisce per sostituire la valutazione
tecnico-discrezionale effettuata dal
Comune).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza
11-05-2005 (sulla necessità di ottenere il
nulla osta per le costruzioni abusive
realizzate in zone soggette a vincolo
paesaggistico a prescindere dalla data di
imposizione del vincolo e sull’illegittimità
dell’annullamento in sede statale del nulla
osta senza adeguata istruttoria e
motivazione).
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. II, sentenza
24-01-2008 (sugli elementi da valutare in
sede di rilascio di una autorizzazione
paesaggistica e sulla motivazione necessaria
per l’annullamento in sede statale
dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata
in sede regionale).
TAR VENETO, SEZ. II, sentenza 22-10-2008
(sul dies a quo ed ad quem del termine di 60
giorni previsto per l’annullamento in sede
statale dell’autorizzazione paesaggistica,
sulla necessità o meno di motivare anche i
provvedimenti ampliativi e sulla legittimità
o meno di una autorizzazione paesaggistica
rilasciata con una motivazione standard)
(massima tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.08.2011 n.
4854 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Casi in cui è ammessa la
procedura negoziata senza previa
pubblicazione del bando.
La procedura negoziata, senza previa
pubblicazione del bando di gara, è ammessa
nei soli e limitati casi individuati dal
legislatore all’art. 57 del D.Lgs. n. 163
del 2006, trattandosi di procedura che,
derogando all’ordinario obbligo
dell’Amministrazione di individuare il
privato contraente attraverso il confronto
concorrenziale, riveste carattere di
eccezionalità e richiede un particolare
rigore nella individuazione ed apprezzamento
dei presupposti che possono legittimarne il
ricorso (cfr., ex multis, Corte
giustizia CE, 13.01.2005, n. 84) di cui,
peraltro, deve essere data adeguata
motivazione nella deliberazione o
determinazione a contrarre (art. 57, comma
1), in modo da scongiurare ogni possibilità
che l’amministrazione utilizzi situazioni
genericamente affermate, come un "commodus
discessus" dall'obbligo di esperire una
pubblica procedura di selezione che è la
sola con carattere di oggettività e
trasparenza (Cfr. TAR Lazio-Roma, Sez. I,
18.02.2009, n. 1656).
Illegittimamente la stazione appaltante, al
fine di affidare un appalto di forniture, fa
ricorso, per ragioni di natura tecnica e di
unicità del prodotto da acquisire,
all’istituto della procedura negoziata senza
previa pubblicazione del bando, ex art. 57
del d.lgs. n. 163 del 2006 (Codice dei
contratti pubblici) nel caso in cui, da un
parte, abbia erroneamente ritenuto che i
prodotti oggetto della fornitura fossero
infungibili, e, dall’altra, abbia dato
contezza dei motivi di carattere tecnico per
cui ha ritenuto di poter trattare e affidare
l’appalto unicamente ad una determinata
società solo successivamente
all’affidamento, e, in particolare, soltanto
nell’avviso volontario per la trasparenza,
pubblicato nella G.U.C.E. (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - TAR Piemonte, Sez.
II,
sentenza
21.07.2011 n. 803 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 13.10.2011 |
ã |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO: Manovra-bis,
come cambiano le pensioni
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 10.10.2011). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sull'applicazione del Regolamento UE
333/2011 - Rottami metallici: applicazione
Regolamento UE 333/2011 “End of Waste”.
A seguito dell’emanazione del Regolamento UE
333/2011 - cosiddetto “End of Waste”
(E.o.W.) - recante “i criteri che
determinano quando alcuni tipi di rottami
metallici cessano di essere considerati
rifiuti ai sensi della direttiva 2008/98/UE
…” (in G.U.U.E. L 94/2 dell'08/04/2011),
sono pervenute a questa Amministrazione, sia
da parte delle Province lombarde che degli
operatori del settore, richieste di
chiarimenti in ordine ai conseguenti
adempimenti da parte degli impianti che
effettuano le operazioni di recupero dei
rifiuti di ferro, acciaio ed alluminio.
Le principali novità introdotte dal
Regolamento riguardano:
● l’applicazione di un sistema di gestione
della qualità;
● l’utilizzo sistematico di dichiarazioni di
conformità per i prodotti generati dal
recupero di rifiuti;
● l’introduzione di caratteristiche di
qualità dei prodotti ottenuti
dall'operazione di recupero, in alcuni casi
più restrittive, in altri meno restrittive
di quelle previste dal d.m. 05.02.1998;
● l’individuazione delle tipologie di
rifiuti recuperabili;
● i processi e le tecniche di trattamento;
● l’adempimento di puntuali obblighi di
monitoraggio delle diverse fasi del
processo.
In tal senso, restando impregiudicata la
sfera di attribuzioni delle Province che
assumono gli atti di competenza sotto la
propria piena ed esclusiva responsabilità,
si forniscono in via collaborativa le
seguenti indicazioni:
1-
per quanto attiene alle procedure E.o.W. dei
rottami metallici in acciaio, ferro,
alluminio e leghe di alluminio, si ricorda
che le disposizioni del Regolamento sono
operative dal 09.10.2011;
2-
tali disposizioni si applicano ai soli
impianti che effettuano operazioni di
recupero rifiuti costituiti da rottami
metallici in acciaio, ferro, alluminio e
leghe di alluminio e non ai produttori
primari di tali rifiuti;
3-
per poter generare prodotti (ex MPS) e non
rifiuti, a partire dal 09.10.2011, tutti gli
impianti, operanti sia con autorizzazione
ordinaria che in procedura semplificata,
devono essere adeguati alle prescrizioni
previste dal Regolamento;
4-
gli impianti che operano esclusivamente in
procedura semplificata e che non si adeguano
al Regolamento, possono continuare a
svolgere il complesso delle operazioni che
per il d.m. 05.02.1998 sono riconducibili
all’operazione R4, ma da tali operazioni
decadono solo rifiuti e non prodotti (ex MPS).
Analogamente, i medesimi impianti possono
continuare a svolgere l’operazione di messa
in riserva R13 che, di per sé, non può dare
origine a prodotti (ex MPS) ma solo a
rifiuti;
5-
se vengono rispettate tutte le prescrizioni
del Regolamento, i prodotti generati possono
essere conferiti nelle aree che sono
attualmente individuate come “deposito
MPS”, a condizione che per tali partite
di materiale sia già stata predisposta la
dichiarazione di cui all’allegato 3 del
Regolamento e che pertanto siano escluse
dalla qualifica di rifiuto;
6-
gli operatori che si adeguano ai disposti
del Regolamento, ai sensi dell’art. 6, comma
7, devono darne comunicazione alle Province
territorialmente competenti, trasmettendo
copia della documentazione inerente
l'accertamento di idoneità del sistema di
qualità da parte dell'organismo/verificatore
incaricato, comunque rientrante tra quelli
previsti dall’art. 6, comma 5, del
Regolamento.
Si sottolinea infine che tali indicazioni
sono già state in parte valutate e condivise
nella seduta del 13.09.2011 del “Tavolo
di lavoro permanente per il coordinamento
dell’esercizio delle attività attribuite
alle Province in materia di recupero e
smaltimento di rifiuti”.
Milano, 07.10.2011.
L’Assessore al Territorio e Urbanistica,
Daniele Belotti - Il Direttore Generale,
Bruno Mori (link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
APPALTI:
P.a., pagamenti alti con verifica.
Sopra i dieci mila euro controllo preventivo
con Equitalia. Una circolare della
Ragioneria generale dello stato dà ulteriori
indicazioni sul dpr 602/1973.
La pubblica amministrazione fa un passo
indietro. Prima di effettuare il pagamento a
imprese e privati di somme superiori a 10
mila euro, la pubblica amministrazione deve
effettuare un controllo preventivo con
Equitalia. In base all'art. 48-bis del dpr
602/1973, dovrà sempre essere verificato se
il creditore ha in sospeso con l'Erario il
pagamento di cartelle esattoriali.
E questa verifica deve essere effettuata
anche se il credito deriva da una sentenza o
da un provvedimento esecutivo. In caso di
pendenze nei confronti dell'erario la p.a.
non procederà al pagamento. Le disposizioni
restrittive non si applicano nel caso di
erogazioni di finanziamenti e contributi
pubblici.
È quanto emerge dalla
circolare 23.09.2011 n. 27 +
allegato A della della
Ragioneria generale dello stato, con la quale vengono rese
note ulteriori indicazioni sulla procedura
disciplinata dall'art. 48-bis del dpr n.
602/1973. Sull'argomento i primi chiarimenti
sono stati forniti con le circolari n. 22/rgs
del 29.07.2008 e n. 29/rgs dell'08.10.2009, che mantengono, come sottolineato
dalla recente circolare, piena validità.
Obblighi di pagamento derivanti da sentenza.
Il pagamento da cui il legislatore fa
derivare gli obblighi di verifica previsti
dall'articolo 48-bis è relativo, come
precisato nella precedente circolare n. 22/rgs/2008,
all'adempimento di un obbligo contrattuale.
Tuttavia, è possibile che l'obbligazione del
pagamento non nasca da un contratto, bensì
da un altro atto o fatto idoneo a produrla,
in conformità dei principi dell'ordinamento
giuridico.
A titolo esemplificativo e non
esaustivo, possono scaturire obblighi di
pagamento pur in assenza di un contratto nei
seguenti casi:
-gestione di affari altrui (c.d. negotiorum
gestio ai sensi dell'articolo 2028 c.c.);
-pagamento dell'indebito (articolo 2033
c.c.);
-arricchimento senza causa (articolo 2041
c.c.);
-risarcimento per fatto illecito (articolo
2043 c.c.);
-rovina di edificio (articolo 2053 c.c.);
-responsabilità precontrattuale (articolo
1337 c.c.).
L'obbligo di pagamento posto a carico
dell'amministrazione può derivare anche da
una sentenza passata in giudicato o da un
provvedimento giurisdizionale esecutivo con
cui il giudice ha determinato concretamente
l'esistenza e la misura del diritto di
credito vantato dal beneficiario nei
confronti della p.a. soccombente.
In merito a tali aspetti, la Ragioneria, con
la recente circolare n. 27/rgs/2011,
chiarisce che anche se il credito deriva da
una sentenza o da un provvedimento
esecutivo, l'amministrazione debitrice dovrà
sempre procedere al controllo preventivo con
Equitalia e verificare se il creditore ha in
sospeso con l'Erario il pagamento di
cartelle esattoriali.
Esecuzione di somme assegnate dal giudice.
Un altro caso esaminato nella circolare è
quello in cui l'Amministrazione, avendo
assunto la qualità di terzo pignorato a
seguito di un'ordinanza di assegnazione del
giudice dell'esecuzione, si trova a dover
effettuare il pagamento delle somme dovute
non al creditore originario, ma direttamente
al creditore assegnatario.
Al riguardo, la Ragioneria ritiene che la
procedura di verifica dovrà essere
effettuata nei confronti del creditore
assegnatario e non di quello originario.
Dal punto di vista soggettivo, infatti, il
creditore assegnatario (pignorante) subentra
all'originario beneficiario (pignorato)
quale parte nel rapporto di credito nei
confronti dell'Amministrazione debitrice,
tanto che l'eventuale pagamento effettuato
all'originario creditore, in costanza di
pignoramento, non avrebbe alcuna efficacia
liberatoria.
Finanziamenti e contributi alle imprese.
Tali concessioni sono considerate
prioritarie rispetto alla verifica di
regolarità fiscale. Secondo la circolare n.
27/rgs/2011, nel campo degli incentivi, la
p.a. ha pochi margini di discrezionalità.
Ciò in quanto i requisiti dei soggetti
ammessi agli incentivi sono stabiliti
direttamente dal legislatore e inoltre gli
stessi incentivi sono finalizzati al
raggiungimento degli obiettivi ritenuti
prioritari per l'interesse della
collettività. Pertanto in tal caso
l'interesse pubblico è preminente rispetto
alla procedura di verifica.
Il controllo amministrativo di regolarità
amministrativa. Alcune difficoltà sono state
manifestate in particolare da parte dei
soggetti preposti al controllo di regolarità
amministrativo-contabile, riguardo il
trattamento di eventuali irregolarità
riscontrate in ordine all'effettuazione
della verifica prescritta dall'art. 48-bis e
dal dm 40/2008. In particolare, sono stati
formulati dubbi circa l'opportunità di
procedere, ogni qual volta si presenti una
situazione di irregolarità, alla denuncia o
alla segnalazione del fatto potenzialmente
dannoso per l'erario, in quanto potrebbe
semplicemente trattarsi di un mero
inadempimento procedurale, senza conseguenze
sulla finanza pubblica.
In presenza di irregolarità, devono essere
primariamente promosse tutte quelle
iniziative di natura conoscitiva per
accertare o escludere i presupposti di un
danno all'erario.
In assenza di chiarimenti soddisfacenti da
parte dell'Amministrazione che ha disposto
il pagamento, diventa comunque necessario,
prima di avanzare una segnalazione alla
competente procura regionale della Corte dei
conti, effettuare una verifica del disposto
pagamento.
La richiesta ad Equitalia. Nelle more
dell'implementazione di un sistema
telematico che renda possibile effettuare on-line l'accertamento, la p.a. dovrà formulare
apposita richiesta scritta, utilizzando uno
specifico modello previsto dalla circolare
n. 27/rgs/2011, da inviare a Equitalia.
Sulla base della richiesta, l'ente di
riscossione accerterà se il beneficiario del
pagamento si trova a quel momento in
posizione di inadempienza rispetto
all'obbligo di versamento derivante dalla
notifica di una o più cartelle di pagamento
per un ammontare complessivo pari o
superiore all'importo di 10 mila euro e, nel
solo caso affermativo, se tale posizione di
inadempienza era già esistente, sulla base
dell'obbligo derivante dalle medesime
cartelle, all'epoca in cui è stato
effettuato il pagamento.
L'esito del suddetto accertamento sarà
comunicato da Equitalia direttamente
all'Amministrazione interessata,
indicativamente nel termine di 30 giorni,
attraverso il mezzo indicato da quest'ultima
al momento della richiesta.
Laddove l'esito dell'accertamento palesi un
perdurante stato di inadempimento a carico
del beneficiario, i soggetti tenuti
all'obbligo di denuncia devono provvedere a
trasmettere apposita segnalazione alla
competente procura regionale della
magistratura contabile, in aderenza alle
direttive contenute nella nota del
procuratore generale presso la Corte dei
conti n. p.g. 9434/2007P, del 02.08.2007 (articolo ItaliaOggi Sette
del 10.10.2011 - link a
www.corteconti.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
W. Fumagalli,
Nessun ricorso, nessun risarcimento: come
farsi risarcire dalla Pubblica
Amministrazione - Il nuovo codice
del processo amministrativo permette di
chiedere il risarcimento dei danni provocati
da provvedimenti amministrativi illegittimi
anche se non si chiede il loro annullamento.
Se però non si chiede l’annullamento del
provvedimento, ottenere il risarcimento dei
danni può rivelarsi impossibile. E allora
che cosa bisogna fare? (AL n. 07-08/2011). |
APPALTI SERVIZI: R.
Cavalli,
Decreto ambiti distribuzione gas: il blocco
delle gare
(link a www.dirittosuweb.com). |
APPALTI SERVIZI: D.
Scarpino,
Gestione di impianti sportivi e
responsabilità civile (link a
www.dirittosuweb.com). |
APPALTI:
R. Cavalli,
Commento al DPCM del 30.06.2011 sulle
stazioni uniche appaltanti (link
a www.dirittosuweb.com). |
ENTI LOCALI:
A. Lisi e F. Giannuzzi,
Punizione a colpi di PEC per la Regione
Basilicata (link a
www.filodiritto.com). |
ENTI LOCALI:
G. Rognetta,
L'accesso telematico delle pubbliche
amministrazioni agli indirizzi PEC dei
professionisti (link a
www.filodiritto.com). |
QUESITI &
PARERI |
SICUREZZA LAVORO:
Responsabilità penale di soci di società di
persone: sussiste per inadempimenti in
materia di sicurezza sul lavoro?
Domanda.
I soci di una società di persone possono
essere chiamati a rispondere delle sanzioni
penali che conseguono ad inadempimenti
formali in materia di sicurezza sul lavoro
come previsto dal decreto 81 del 2008
cosiddetto Testo Unico?
Risposta.
In materia penale, come è quella
prevenzionistica relativa alla tutela della
salute e della sicurezza dei lavoratori nei
luoghi di lavoro di cui al d.lgs. n.
81/2008, come modificato dal d.lgs. n.
106/2009, anche quando attivata in via
contravvenzionale con la procedura di
prescrizione obbligatoria, la responsabilità
per le condotte illecite rilevate dal
personale ispettivo è personale di ciascuno
dei soggetti che, in qualità di datore di
lavoro, avrebbero dovuto e potuto agire
diversamente, tenendo la condotta doverosa o
non ponendo in essere il comportamento
antidoveroso, per conto dell'azienda nella
quale le violazioni vengono ad essere
riscontrate e debitamente accertate.
L'articolo 16 del d.lgs. n. 81/2008,
peraltro, disciplina espressamente i
requisiti legali della delega di funzioni in
materia di sicurezza, che è ammessa entro
limiti precisi e tassativi, con adeguata e
tempestiva pubblicità, e deve possedere i
seguenti elementi oggettivi:
a) risultare da atto scritto recante data
certa;
b) il delegato deve possedere tutti i
requisiti di professionalità ed esperienza
richiesti dalla specifica natura delle
funzioni delegate;
c) la delega attribuisca al delegato tutti i
poteri di organizzazione, gestione e
controllo richiesti dalla specifica natura
delle funzioni delegate;
d) la delega attribuisca al delegato
l'autonomia di spesa necessaria allo
svolgimento delle funzioni delegate;
e) la delega sia accettata dal delegato per
iscritto.
In mancanza della delega realizzata e
prodotta come sopra indicato, ciascuno dei
soci della società di persone, quale datore
di lavoro, potrà essere chiamato a
rispondere delle violazioni
prevenzionistiche rilevate dagli organi di
vigilanza, fatta salva la dimostrazione di
una obiettiva insussistenza della
responsabilità personale colpevole che però
potrà essere offerta esclusivamente durante
il procedimento penale dinanzi all'Autorità
giudiziaria e non già nelle attività di
Polizia Giudiziaria quale è la prescrizione
obbligatoria di cui al D.lgs. n. 758/1994.
Le considerazioni sono frutto esclusivo del
pensiero dell'Autore e non hanno carattere
in alcun modo impegnativo per
l'Amministrazione alla quale appartiene (07.10.2011
- tratto da www.ipsoa.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti a contratto, si assume.
Tetto all'8% fino alla definizione degli
indici di virtuosità. La Corte dei conti del
Molise è stata la prima a pronunciarsi sul
correttivo della Brunetta.
Gli enti locali possono assumere dirigenti a
contratto entro il tetto dell'8%, finché non
siano definiti i parametri di virtuosità
previsti dall'articolo 20, comma 3, della
legge 111/2011.
È la Corte dei conti, Sezione regionale di
controllo per il Molise la prima a
pronunciarsi in merito agli effetti
dell'articolo 1 del dlgs 141/2011, il
cosiddetto «correttivo» alla
riforma-Brunetta, col
parere 14.09.2011 n. 81, sostenendo che l'ampliamento
della percentuale di assunzione di dirigenti
«a contratto» al 18% resta congelato, in
attesa delle regole sulla virtuosità degli
enti locali.
L'articolo 1 del dlgs 141/2011 novella
l'articolo 19 del dlgs 165/2001,
nell'intento di chiarire entro quale misura
gli enti locali possono acquisire dirigenti
«esterni» alla dotazione organica,
aggiungendo un comma 6-quater, ai sensi del
quale “per gli enti locali, che risultano
collocati nella classe di virtuosità di cui
all'articolo 20, comma 3, del decreto-legge
06.07.2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15.07.2011,
n. 111, come individuati con il decreto di
cui al comma 2 del medesimo articolo, il
numero complessivo degli incarichi a
contratto nella dotazione organica
dirigenziale, conferibili ai sensi
dell'articolo 110, comma 1, del Testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, non può in ogni caso
superare la percentuale del diciotto per
cento della dotazione organica della
qualifica dirigenziale a tempo
indeterminato".
Si applica quanto previsto dal comma 6-bis».
Subito si è posta la questione se in assenza
dei parametri di virtuosità e, dunque, della
espressa qualificabilità degli enti come
«virtuosi» valesse la percentuale del 18%,
oppure non si potesse radicalmente assumere
qualsiasi dirigente a contratto o, infine,
continuasse a vigere la percentuale dell'8%,
seguendo le indicazioni del comma 6
dell'articolo 19, come interpretato dalle
Sezioni riunite della Corte dei conti,
delibere 12, 13 e 14 del 2011.
La tesi più restrittiva, secondo la quale
effetto del dlgs 141/2011 sarebbe stato il
congelamento della possibilità di assumere
dirigenti a contratto non era convincente. È
evidente l'intento del legislatore di
dettare regole finalizzate a permettere di
assumere dirigenti a contratto, entro limiti
percentuali da definire. L'incertezza non
poteva che riguardare, allora, la
determinazione della percentuale.
Secondo la Sezione Molise nelle more
dell'emanazione del decreto finalizzato a
determinare quali saranno gli enti collocati
nella classe di massima virtuosità «rimane
consentito procedere al conferimento di
incarichi ex art. 110, comma 1, comma Tuel nei
limiti di quanto previsto dalle
deliberazioni delle Sezioni Riunite della
Corte dei conti nn. 12 e 13/2001/QM».
La condivisibile tesi della Sezione permette
di inquadrare meglio, allora, il nuovo comma
6-quater dell'articolo 19. Non si tratta
della fissazione secca di un potere
discrezionale assoluto degli enti locali di
incrementare la percentuale dei dirigenti
esterni dall'8% al 18%. Tale incremento
apparirebbe, se slegato da ragioni
particolari, del tutto irrazionale, posto
che nelle amministrazioni dello Stato la
combinazione dei limiti percentuali entro i
quali è possibile acquisire dirigenti a
tempo determinato, pari al 10% per la
dirigenza di prima fascia e all'8% per i
dirigenti di seconda, dà come risultato in
termini assoluti proprio l'8%. È, insomma,
fuorviante immaginare che per gli enti
locali si potessero sommare la percentuale
del 10 e dell'8%.
Secondo la chiave di lettura suggerita dalla
Sezione Molise, il comma 6-quater deve
essere considerato logicamente connesso al
comma 6 dell'articolo 19, norma che regge il
sistema e che fonda la possibilità di
assumere dirigenti a contratto solo entro la
soglia dell'8% della dotazione organica.
Sicché, il comma 6-quater finisce per essere
una norma che incentiva gli enti a
collocarsi nella fascia di massima
virtuosità, in quanto tra gli altri
«benefici» scatta anche quello di poter
acquisire dirigenti a contratto oltre la
soglia «ordinaria» dell'8%, fino al massimo
del 18%.
Questa logica interpretativa è confermata da
una specificazione espressa del parere della
Sezione Molise, secondo il quale la
possibilità di assumere entro la più
ristretta percentuale dell'8% varrà anche
successivamente all'adozione del decreto
sulla virtuosità degli enti anche «per
gli enti non collocati nella prima classe di
virtuosità»
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2011
- link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Enti locali, incentivi
senza tagli.
I compensi a progettisti e legali interni
fuori dal tetto 2010. La Corte conti a
sezioni unite: solo due eccezioni alla
stretta del dl 78 sulle risorse decentrate.
Gli incentivi per la progettazione (interna)
di opere pubbliche e i compensi per
l'avvocatura comunale e provinciale restano
fuori dalla stretta prevista dalla manovra
correttiva 2010. Si tratta delle uniche
eccezioni all'applicazione dell'art. 9,
comma 2-bis, del dl 78/2010 che ha imposto
agli enti locali di cristallizzare,
dall'01/01/2011 e fino al 31/12/2013, le
risorse destinate annualmente al trattamento
accessorio del personale in modo che non
superino l'importo fatto registrare nel
2010.
Nessun'altra deroga può essere ammessa
perché la ratio della disposizione (limitare
la crescita dei fondi destinati alla
contrattazione integrativa) impone una
lettura non estensiva. Per questo, onde
evitare effetti distorsivi, gli enti
dovranno sterilizzare le spese sostenute nel
2010 per pagare i progettisti e gli avvocati
interni, non includendole nel tetto da
prendere in considerazione. Diversamente,
chi l'anno scorso ha dovuto pagare ingenti
somme per questo tipo di spese ne
risulterebbe eccessivamente penalizzato,
perché il tetto delle risorse complessive
destinabili alla contrattazione integrativa
risulterebbe elevato «in modo improprio».
Lo
hanno chiarito le Sezz. unite della Corte
dei Conti con la
deliberazione
04.10.2011 n. 51 che ha
tolto agli enti ogni speranza di aprire un
varco interpretativo a proprio favore. A
chiamare in causa le sezioni unite è stata
la Corte conti Lombardia.
I giudici lombardi
ancora una volta hanno tentato di
alleggerire il compito di comuni e province
escludendo dal tetto di spese, che dovrà per
tre anni restare al livello del 2010, una
serie di risorse destinate a finanziare
specifici incentivi: oltre a progettisti e
avvocati interni, la Corte conti Lombardia
chiedeva di escludere i compensi per il
recupero dell'Ici, quelli per le indennità
di turno della polizia locale e i proventi
derivanti dai contratti di sponsorizzazione.
La magistratura erariale milanese ha
richiamato a sostegno delle proprie tesi
anche l'orientamento analogo delle sezioni
regionali di Marche e Liguria, oltre a una
circolare della Conferenza delle regioni.
Tutte favorevoli a escludere dal tetto gli
incentivi di cui sopra per svariate ragioni.
Gli incentivi Ici, per esempio, non
andrebbero tenuti in conto poiché
«verrebbero corrisposti con fondi che si
autoalimentano, ossia mediante risorse etero-finanziate rispetto alle risorse
proprie degli enti locali».
I compensi per i
legali dell'ente derivanti dalla condanna
alle spese delle controparti andrebbero
esclusi perché «non si tratterebbe di somme
incidenti sugli equilibri di bilancio degli
enti». E ancora, i proventi dei contratti di
sponsorizzazione dovrebbero restare fuori
dal tetto in quanto risorse, sì destinate al
fondo per la contrattazione integrativa, ma
anche in questo caso «etero-finanziate e
dunque non incidenti sugli equilibri delle
finanze locali». Mentre gli incentivi ai
progettisti, secondo la Corte conti
Lombardia, sarebbero da considerare spese
per investimenti e non invece per personale.
Le sezioni unite, dopo un lungo excursus
storico sulle dinamiche retributive che dal
1993 in poi hanno di fatto incrementato la
spesa delle pubbliche amministrazioni a
livello decentrato aumentando sempre più il
divario tra stipendi contrattuali e stipendi
percepiti, ha ribadito che l'art. 9, comma
2-bis, non ammette sconti. «Si tratta di una
norma volta a rafforzare il limite posto
alla crescita della spesa di personale»,
scrivono i giudici presieduti da Luigi Giampaolino, «che prescinde da ogni
considerazione relativa alla provenienza
delle risorse e per questo applicabile anche
nel caso in cui l'ente disponga di risorse
aggiuntive derivanti da incrementi di
entrata».
Le uniche eccezioni che le sezioni unite
ammettono alla necessità di interpretare in
modo non estensivo la disposizione del dl 78
riguardano come detto gli incentivi ai
progettisti e agli avvocati interni. Si
tratta infatti di risorse «correlate allo
svolgimento di prestazioni professionali
specialistiche offerte da personale
qualificato in servizio presso la p.a.» che,
se acquisite all'esterno, comporterebbero
costi aggiuntivi per i bilanci degli enti.
«Pertanto», chiariscono le sezioni unite,
«in tali ipotesi dette risorse alimentano il
fondo in senso solo figurativo dato che esse
non sono poi destinate a finanziare gli
incentivi spettanti alla generalità del
personale dell'amministrazione pubblica».
I fondi derivanti dal recupero dell'Ici o
dai contratti di sponsorizzazione, invece,
non possono essere esclusi perché «potenzialmente
destinabili alla generalità dei dipendenti»
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2011
- link a www.corteconti.it). |
NEWS |
ENTI LOCALI - VARI: Autovelox
a noleggio trasparenti.
Via libera all'acquisizione di strumenti
autovelox a noleggio da parte dei comuni
purché il contratto con la ditta sia
trasparente e a canone fisso ovvero senza
alcun collegamento premiale al numero delle
infrazioni accertate.
Lo ha ribadito il Ministero dei Trasporti con
parere 04.08.2011 n. 4195.
Nonostante la legge 120/2010 abbia
evidenziato il divieto di attivare contratti
di noleggio autovelox condizionati dal
numero delle multe accertate, sono ancora
tanti i comuni che chiedono chiarimenti.
L'art. 61 della legge 120/2010, entrata in
vigore definitivamente alla vigilia dello
scorso ferragosto, ha stabilito che gli enti
locali possono acquisire misuratori
elettronici di velocità anche con contratti
a noleggio a canone fisso.
In buona sostanza
il comune può concordare con il privato il
ristoro delle spese di accertamento cioè di
un costo documentabile ed unitario. Tra
l'altro questo importo, secondo l'art. 201
del codice della strada, dovrebbe sempre
essere addebitato al trasgressore. Anche un
costo fisso forfettario può andare bene,
conclude il mit, ma sempre senza valutazioni
a percentuale sulle multe accertate
(articolo ItaliaOggi dell'11.10.2011). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il passaggio diretto dribbla il turnover ma
non il Patto.
FUORI DAL BLOCCO - Ma il divieto può
scattare se non si rispettano i saldi e le
norme sul contenimento della spesa come
interpretate dalla Corte dei conti.
Il contenimento delle spese di personale e
le regole sul turn over costringono a
guardare con sempre maggiore attenzione
all'istituto del passaggio diretto di
dipendenti tra pubbliche amministrazioni.
Dal punto di vista legislativo non vi è
dubbio che la mobilità venga sempre più
ricercata prima di procedere a qualsiasi
assunzione dall'esterno. Sia il Dl 98/2011
che il Dl 138/2011 individuano la procedura
come il primo passo da fare, peraltro
obbligatorio sia per la mobilità ex articolo
30, comma 2-bis, che per quella
dell'articolo 34-bis del Dlgs 165/2001 in
uno spirito di condivisione delle risorse
pubbliche senza incrementi di spesa.
Non a caso il legislatore ha previsto che
prima di ogni procedura concorsuale si debba
procedere a rendere pubbliche le
disponibilità di posti, affinché ci si possa
avvalere, prima di ogni altra scelta, dei
trasferimenti in entrata di lavoratori di
altri enti.
Addirittura il Tar Lombardia Milano, sezione
IV, con sentenza 21.09.2011 n. 2250,
nell'affrontare la questione se viene prima
la mobilità o lo scorrimento della
graduatoria ha optato per la prima
indicazione. L'amministrazione, infatti,
quando prevede la copertura di un posto in
organico mediante mobilità volontaria
esercita un potere discrezionale di scelta
delle modalità di copertura delle proprie
esigenze di organico con uno strumento che,
essendo oggetto di preferenza legislativa e
garantendo l'assunzione di personale
specializzato, non richiede specifica
motivazione.
L'attenzione si sposta a questo punto sul
considerare o meno la mobilità quale
assunzione. Dal punto di vista giuridico non
ci sono dubbi. La procedura non comporta la
costituzione di un rapporto di lavoro, ma
soltanto la cessione del contratto di lavoro
già in essere con l'originaria
amministrazione di appartenenza. La
fattispecie integra una modificazione
soggettiva del rapporto di lavoro, con il
consenso di tutte tre le parti e, quindi,
appunto, una cessione del contratto. Parola
di Consiglio di Stato, così come si ricava
dalla recente sentenza n. 5085/2011.
Rimane, però, sempre incertezza sul rapporto
dell'istituto con le spese di personale e le
possibilità di assunzione, soprattutto dopo
la delibera n. 46/2011 delle Sezioni riunite
della Corte dei conti che fa rientrare nelle
regole del turn over «le assunzioni di
personale a qualsiasi titolo e con
qualsivoglia tipologia contrattuale». Anche
la mobilità, quindi?
La risposta dovrebbe
essere negativa. Infatti, in questo
contesto, trova piena applicazione
l'articolo 1 comma 47 della legge 311/2004
(Finanziaria 2005) laddove è previsto che in
un rigido regime di turn over la mobilità è
comunque consentita tra Pa che hanno limiti
alle assunzioni. Allo stato attuale tutti
gli enti locali hanno limiti: gli enti non
soggetti a Patto possono assumere nel limite
delle cessazioni dell'anno precedente;
quelli soggetti nel limite del 20% della
spesa delle cessazioni dell'esercizio
precedente. La mobilità non può, quindi,
essere considerata né tra le cessazioni né
tra le assunzioni quando avvenga tra le
autonomie territoriali.
Vi sono però altre disposizioni che possono
impattare sull'istituto. Infatti, anche i
passaggi di dipendenti tra amministrazioni
possono essere vietati qualora non si
rispetti il Patto di stabilità e non si
osservino le norme sul contenimento della
spesa di personale (comma 557 e comma 562,
legge 296/2006). In questo caso si è,
infatti, in presenza di rigide sanzioni
specifiche per il singolo ente.
Alcune sezioni regionali della Corte dei
conti hanno esteso il divieto anche al caso
in cui l'ente abbia un rapporto tra spese di
personale e spese correnti superiore al 40
per cento. Per ultimi l'hanno ribadito i
giudici contabili della Liguria con la
delibera n. 61/2011, allargando il campo
d'azione non solo alla mobilità, ma anche
all'utilizzo di personale comandato da altri
enti (articolo Il Sole 24 Ore
del 10.10.2011 - link a
www.corteconti.it). |
CONDOMINIO:
Riscaldamento, distacco a
ostacoli.
Nuovi limiti introdotti dalle norme sul
risparmio energetico. Si complica il
passaggio dal sistema centralizzato a quello
autonomo nei condomini.
Abitazioni troppo calde o troppo fredde: non
si riesce mai a trovare la via di mezzo. E
proprio con l'avvicinarsi della stagione
invernale si fanno più urgenti le
problematiche legate al riscaldamento. In
molti sono invogliati (anche a causa dei
costi dei carburanti) a valutare la
possibilità di staccarsi dal riscaldamento
centralizzato.
Una strada però in salita. Se, infatti, le
sentenze della Cassazione, anche recenti,
sono favorevoli a questo tipo di scelta, il
quadro è stato complicato dalle nuove norme
in materia di risparmio energetico che
sembrano ostacolare la decisione. Intanto,
sempre in materia di riscaldamento della
casa, è in arrivo per i condomini l'obbligo
di installazione delle valvole termostatiche
sui termosifoni per il controllo della
temperatura ambientale.
Le sentenze della Cassazione. La Cassazione
si è più volte dichiarata favorevole alla
scelta del distacco, anche nelle sentenze
più recenti. Come in quella n. 11857 del 27
maggio scorso, in cui la Suprema corte ha
ribadito che il distacco è legittimo anche
senza l'autorizzazione dell'assemblea.
Unica
condizione da rispettare è che non si creino
squilibri termici nell'edificio in grado di
pregiudicare l'erogazione del servizio e
comportare spese aggiuntive per gli altri
condomini. La Corte ha anche precisato che
per squilibrio termico non si può
considerare solo la differente temperatura
che può venirsi a creare nell'appartamento
distaccato rispetto agli altri.
È necessaria
in ogni caso la certificazione della
condizione termica del nuovo impianto.
Inoltre, la relazione del termotecnico può
attestare che, per compensare gli effetti
creati dal distacco, il condomino che non
utilizza più il centralizzato è tenuto a
pagare comunque una quota fissa di consumi.
In aggiunta, in base al secondo comma
dell'articolo 1118 del codice civile, chi
rinuncia al diritto sulle cose comuni, deve
comunque contribuire alle spese per la loro
conservazione, ossia in questo caso alle
spese di manutenzione ordinaria e
straordinaria dell'impianto centralizzato,
inclusa la sua sostituzione.
Le nuove norme in materia di risparmio
energetico. Le sentenze della Corte
riguardano però casi antecedenti le nuove
norme in materia di risparmio energetico.
Come, per esempio, il dpr 59/2009, che vieta
la trasformazione di impianti centralizzati
in impianti autonomi negli immobili con più
di quattro unità abitative o con potenza
superiore a 100 kW.
La giurisprudenza,
quindi, finora è stata favorevole a chi
decide per il distacco ma, in futuro,
l'orientamento potrebbe cambiare alla luce
di queste novità normative, portando ad
accogliere, per esempio, il ricorso di un
condominio che potrebbe lamentare
l'impossibilità di raggiungere un buon
livello di efficienza e risparmio
energetico.
Occhio alla canna fumaria. Se si opta per la
scelta di distaccarsi dal centralizzato,
occorre però sapere che per poter procedere
all'installazione della caldaia autonoma è
necessario uno sbocco per la canna fumaria.
Una realizzazione che può essere costosa, ma
che non richiede il lasciapassare da parte
dell'assemblea condominiale. Infatti, l'uso
delle parti comuni per il passaggio della
canna è lecito se non impedisce il loro
utilizzo agli altri condomini e se non
danneggia il decoro dell'edificio.
Le valvole termostatiche
diventano obbligatorie.
Un aiuto al controllo della temperatura
all'interno degli appartamenti viene anche
dalle valvole termostatiche, ossia dei
dispositivi che, installati sui termosifoni,
permettono di regolare il flusso di acqua
calda, contabilizzando i consumi. Un sistema
che consente di evitare gli sprechi,
stabilizzando la temperatura nei diversi
locali a seconda delle necessità.
Nel caso di edifici con impianto di
riscaldamento centralizzato, è necessario
che il condominio realizzi
contemporaneamente un sistema di
contabilizzazione individuale del calore
(ogni condomino paga quello che consuma come
con un impianto autonomo, al netto dei costi
dei servizi comuni) per far sì che i
risparmi ottenuti siano riconosciuti e
attribuiti ai singoli.
In Lombardia è stato recentemente istituito
un decreto-legge regionale (n. 3 del
21.02.2011) che estende l'obbligo dei
sistemi per la termoregolazione degli
ambienti e la contabilizzazione autonoma del
calore a tutti gli impianti di riscaldamento
al servizio di più unità immobiliari, anche
se già esistenti, a partire dal primo agosto
2012 e per i tre anni successivi a seconda
dell'età della caldaia.
Tutti i condomini e tutti gli appartamenti
dovranno quindi dotarsi di sistemi per la
contabilizzazione del calore e la
regolazione della temperatura. La normativa
è al momento in vigore in Lombardia e in
Piemonte, ma nei prossimi mesi sarà estesa
anche alle altre regioni (articolo ItaliaOggi Sette
del 10.10.2011). |
ENTI LOCALI - VARI:
Fabbricati rurali, tempo scaduto. Ora
parte il recupero dei tributi. Decorso il
termine per la variazione della categoria
degli immobili. La proroga non è arrivata.
Tempo scaduto per la presentazione della
richiesta di variazione della categoria dei
fabbricati rurali. Decorso il 30 settembre
scorso e in assenza di una proroga, per
l'amministrazione finanziaria e per gli enti
locali si apre la stagione delle verifiche e
del recupero dei tributi anche pregressi
(dal 2006), poiché detta variazione funge
anche da minisanatoria.
L'annunciata (e poi smentita e poi
riannunciata) proroga del termine prescritto
dall'art. 7, del decreto n. 70/2011
(cosiddetto «decreto sviluppo») non è
arrivata e molti proprietari e titolari di
diritti reali delle costruzioni, sebbene
rispettose dei requisiti richiesti dai commi
3 (abitativi) e 3-bis (strumentali)
dell'art. 9, dl n. 557719893, rischiano il
recupero coattivo dell'Irpef e dell'Ici per
il quinquennio appena trascorso, in quanto
il mancato accatastamento alle categorie
specifiche «A/6» (abitativi) e «D/10»
(strumentali) comporta inevitabilmente il
disconoscimento della ruralità.
Sul punto appare quasi inutile ricordare i
ritardi nell'emanazione del decreto di
attuazione che, ancorché datato 14
settembre, è stato pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 220 del 21.09.2011,
mentre la circolare esplicativa dell'Agenzia
del territorio, assolutamente non esaustiva,
è stata emanata e messa a disposizione sul
sito in data 22.09.2011; definire
tempestiva la messa a disposizione di tali
documenti a solo otto giorni dalla scadenza,
pare fin troppo azzardato, anche perché
l'autocertificazione da presentare risulta
complessivamente inadeguata e non esaustiva
delle situazioni presenti sul territorio
nazionale.
Peraltro, è opportuno ricordare che il comma
2, dell'articolo 3, della legge n. 212/2000
(Statuto dei diritti del contribuente), fin
troppe volte disatteso dalla stessa
amministrazione finanziaria, dispone che «_
in ogni caso, le disposizioni tributarie non
possono prevedere adempimenti a carico dei
contribuenti la cui scadenza sia fissata
anteriormente al sessantesimo giorno dalla
data della loro entrata in vigore o
dell'adozione dei provvedimenti di
attuazione in esse espressamente previsti_».
Inoltre, si deve prendere atto che non tutte
le situazioni sono risultate di semplice
soluzione basti pensare, per esempio, al
caso del garage dell'abitazione, rispettosa
dei requisiti di ruralità, di cui al comma
3, del citato art. 9, che deve essere
censita nella categoria «A/6»: tale
pertinenza, ai sensi dell'art. 817 c.c., è
di servizio alla costruzione censita in
categoria «A/6», ma la stessa non può essere
inserita in tale categoria per espresso
diniego degli uffici periferici del
Territorio, con la conseguenza che l'unica
categoria attribuibile, in assenza di
chiarimenti, è quella assegnata agli
immobili strumentali ovvero alla categoria
«D/10».
La circolare n. 6/T/2011 dell'Agenzia del
territorio, cui dobbiamo riconoscere la
celerità di emanazione a ridosso della
pubblicazione del provvedimento attuativo,
non ha sedato ulteriori problematiche, come
quelle del pensionato, ex lavoratore
agricolo, cui non si possono
(inevitabilmente) rendere applicabili tutte
le condizioni indicate dalle lettere da a) a
e), del comma 3, dell'art. 9 (per esempio,
il rispetto dei metri quadrati dei terreni
asserviti), in presenza di utilizzo del
fabbricato a destinazione abitativa ma,
soprattutto, che cosa succede per i
fabbricati legittimamente non ancora censiti
nel catasto fabbricati (sul tema, si rinvia
alla datata circolare n. 96/T/1998), per i
quali non si intravede altra soluzione che
procedere a un primo accampionamento, ma non
come variazione ma con vero e proprio
accatastamento.
Sul punto, in effetti, in un passo della
circolare n. 6/T/2011 (§3) il Territorio
afferma che «_ la domanda di variazione per
il riconoscimento delle menzionate categorie
può essere presentata soltanto per le unità
immobiliari già iscritte al catasto urbano_»;
di conseguenza appare chiaro che il
proprietario era di fronte a un bivio, con
tempi di risposta estremamente ristretti e
con la necessità, alternativa, di procedere
in tutta fretta a presentare la procedura
Docfa con la richiesta di accatastamento,
ancorché accompagnata dalle
autocertificazioni allegate alla circolare
n. 7/T/2007 per la conferma del possesso dei
requisiti di ruralità o di rimanere inerti,
nella consapevolezza che il fabbricato,
ancora censito in catasto terreni, potrebbe
essere disconosciuto come rurale, giacché
non in possesso della categoria specifica
richiesta, con recupero pregresso dei
tributi.
Pare evidente che, come richiesto a gran
voce dalle associazioni di categoria e dai
professionisti tecnici, l'allungamento dei
tempi (si ipotizzava il 30 giugno dell'anno
prossimo) avrebbe permesso di analizzare,
anche a cura del Territorio, numerosi casi
particolari, emanando ulteriori documenti di
prassi necessari a dare contezza e certezza
per la corretta applicazione delle
disposizioni vigenti.
Infine, cosa di non minore importanza,
niente è stato disposto per i contenziosi
tuttora aperti, soprattutto quelli che
avevano a oggetto il disconoscimento della
ruralità ai fini Ici, in assenza della
specifica categoria, non solo riferibili ai
periodi d'imposta inclusi nella «pseudo»
sanatoria, ma anche quelli inerenti periodi
d'imposta anteriori al quinquennio indicato
dal decreto sviluppo.
Sul punto, si aprono numerosi scenari in
quanto, se rimane quasi certa la possibilità
di un abbandono del contenzioso da parte
dell'ente in presenza di un accertamento
ricadente nel quinquennio, stante
l'acquisizione «pregressa» della
qualifica di rurale, non è facile
comprendere la fine dei contenziosi per i
quali, per esempio, la ruralità era presente
nel periodo d'imposta accertato ma è stata
persa, per effetto dell'assenza delle
condizioni, anche per un solo periodo
d'imposta diverso da quello accertato o,
addirittura, se il ricorso pendente riguarda
annualità anteriori a quelle incluse nella
sanatoria (ante 2005) (articolo ItaliaOggi Sette
del 10.10.2011). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Può ricorrere all’avvalimento
anche la società che non abbia il capitale
sociale minimo richiesto dal bando di gara.
Nella controversia in commento era in
discussione la tesi secondo cui l’istituto
dell’avvalimento trova un limite laddove ai
fini della partecipazione a una gara sia
necessario il possesso di un requisito
soggettivo personalissimo come quello del
capitale sociale minimo, dato che esso è
predisposto per garantire l’affidabilità
dell’impresa partecipante.
Tale impostazione
non è stata considerata condivisibile dai
giudici del Consiglio di Stato che innanzi
tutto, evidenziano che l’istituto dell’avvalimento
–istituto di derivazione comunitaria-
disciplinato dall’ordinamento italiano
dall’art. 49 del d.lgv. n. 163 del 2006, ha
portata generale. Esso è finalizzato a
consentire alle imprese singole, consorziate
o riunite, che intendono partecipare ad una
gara di poter soddisfare i requisiti di
carattere economico, finanziario, tecnico,
organizzativo, ovvero di attestazione della
certificazione SOA, avvalendosi dei
requisiti di un altro soggetto o
dell’attestazione SOA di altro soggetto ed è
applicabile, ai sensi del successivo
articolo 50, ai sistemi legali vigenti di
attestazione o di qualificazione nei servizi
e forniture.
Ciò posto, deve ritenersi che
ben sia possibile far ricorso all’istituto
dell’avvalimento, ove il bando di gara
richieda quale requisito di partecipazione
un capitale sociale minimo di importo
superiore a quello posseduto dalla società
che intende partecipare alla gara. Trattasi,
infatti, di requisito economico–finanziario che ai sensi dell’art. 49 non
incontra alcun limite e prevale su qualunque
disposizione contraria, compresa la
disposizione, al tempo vigente, che
richiedeva il requisito del capitale sociale
di 10 milioni di euro per l’iscrizione
all’albo dei soggetti privati abilitati alle
attività di liquidazione, accertamento e
riscossione dei tributi (art. 32, comma 7,
del d.l. n. 185 del 2008, convertito nella
l. n. 2 del 2009).
Infatti, l’interesse
sotteso alla norma, cioè quello della
solvibilità del soggetto affidatario del
servizio di riscossione viene assicurato
attraverso l’impegno dell’impresa ausiliaria
di mettere a disposizione per tutta la
durata dell’appalto le risorse necessarie di
cui è carente il concorrente (cfr. per caso
identico, Cons. Stato, V, n. 1624 del 2009).
D’altra parte l’impresa ausiliaria non è
semplicemente un soggetto terzo rispetto
alla gara, dovendosi essa impegnare, non
soltanto verso l’impresa concorrente ausiliata, ma anche verso l’amministrazione
procedente a mettere a disposizione del
concorrente le risorse di cui questo sia
carente; in tale ipotesi, quindi, l’impresa
ausiliaria diventa titolare passivo di una
obbligazione accessoria dipendente rispetto
a quella principale del concorrente e tale
obbligazione si perfeziona con
l’aggiudicazione a favore del concorrente
ausiliato, di cui segue le sorti (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 13.05.2010, n. 2956) (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it
- Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
08.10.2011 n.
5496 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Compete
al Tribunale superiore delle acque pubbliche
(TSAP) e non agli organi ordinari della
giustizia amministrativa (TAR) la cognizione
delle controversie aventi per oggetto la
domanda di annullamento di provvedimenti
adottati da un comune e da una provincia per
la salvaguardia del vincolo di
inedificabilità della fascia di rispetto
dell'argine trasversale di un fiume.
Osserva, al riguardo, il Collegio come
l’odierno giudizio verta sull’impugnazione
di un diniego di condono, adottato dal
Comune di Rho sull’imprescindibile
presupposto che: <<l’autorimessa è
collocata sul confine del torrente Lura e,
pertanto, in contrasto con le prescrizioni
indicate nell’art. 96, comma f), del R.D.
25.07.1904 n. 523 e s.m.i. che vietano in
modo assoluto le costruzioni a distanza dai
corsi d’acqua minore di quella stabilita
dalle discipline vigenti nelle diverse
località e, in mancanza di tali discipline,
a metri dieci>>.
In tali evenienze, come correttamente
osservato dalla difesa resistente, le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione
hanno, anche recentemente, ribadito che: "Compete
al Tribunale superiore delle acque pubbliche
e non agli organi ordinari della giustizia
amministrativa la cognizione delle
controversie aventi per oggetto la domanda
di annullamento di provvedimenti adottati da
un comune e da una provincia per la
salvaguardia del vincolo di inedificabilità
della fascia di rispetto dell'argine
trasversale di un fiume" (così,
Cassazione civile, sez. un., 15.06.2009, n.
13898; id. 12.05.2009, n. 10845; 20.11.2008,
n. 27528).
Nella specie, non può essere revocato in
dubbio che il provvedimento impugnato è
stato motivato in ragione dell’ubicazione
dell’autorimessa, realizzata al confine del
muro di sostegno del torrente Lura e,
dunque, all’interno della fascia di 4 metri
dall’alveo del torrente, su cui insiste il
vincolo di inedificabilità assoluta, ai
sensi dell’art. 96, lett. f) cit., come
integrato dall’art. 82 del cit. reg.
edilizio comunale.
Né può assumere rilievo, onde scalfire il
profilo di interferenza, almeno
astrattamente ipotizzabile, tra siffatto
abuso edilizio e il regime delle acque
pubbliche, la presenza -nel tratto di
torrente qui considerato- di una tombinatura,
trattandosi di opera a carattere non
definitivo, comunque inidonea ad elidere le
ragioni di fondo del vincolo di
inedificabilità di cui al citato art. 96.
Si tratta, infatti, di una disciplina delle
acque pubbliche che ne impone
inderogabilmente la tutela, senza che
residuino margini per attribuire rilievo
alla conformazione del corpo superficiario
(e, quindi, al fatto che esso si presenti
con argini o sponde, con tombinatura o
senza), atteso che, per il rispetto della
predetta fascia, è vietata qualsiasi
costruzione e, persino, qualunque deposito
di terre o di altre materie, a distanza di
metri dieci dal corso d’acqua (cfr. in tal
senso, Cass. I, 22.04.2005, n. 8536, nonché,
Cass. Sezioni Unite nn. 12271/2004;
19813/2008; analogamente Cons. Stato, IV
23.07.2009 n. 4663).
Sussiste, pertanto, l’eccepito profilo di
inammissibilità del ricorso, con conseguente
difetto di giurisdizione del giudice adito,
trattandosi di questioni rientranti nella
giurisdizione del Tribunale Superiore delle
Acque Pubbliche (T.S.A.P.), come prevista
dall’art. 143 del R.D. n. 1775/1933
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.10.2011 n. 2378 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’esclusione
dal regime del permesso di costruire
sussiste soltanto per i manufatti di
assoluta ed evidente precarietà, desumibile
dall’uso realmente precario e temporaneo,
per fini specifici e cronologicamente
delimitati, sicché tale precarietà va
esclusa quando si tratta di opere oggetto di
duratura utilizzazione.
È sufficiente notare, più in generale, come
l’esclusione dal regime del permesso di
costruire sussista soltanto per i manufatti
di assoluta ed evidente precarietà,
desumibile dall’uso realmente precario e
temporaneo, per fini specifici e
cronologicamente delimitati, sicché tale
precarietà va esclusa quando si tratta di
opere oggetto di duratura utilizzazione
(cfr., a proposito della definizione
dell'opera come precaria o stabile in
dipendenza, non tanto, dell'elemento
strutturale dei materiali utilizzati, quanto
di quello funzionale, legato al fattore
tempo e, dunque, alla durevolezza della
destinazione impressa, in quanto non volta a
soddisfare esigenze contingenti e
circoscritte: TAR Puglia Lecce, sez. III,
26.11.2009, n. 2853; analogamente, id., sez.
III, 08.03.2010, n. 688; nonché, TAR
Lombardia Brescia, sez. I, 30.03.2009, n.
720)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.10.2011 n. 2377 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine
di demolizione del manufatto abusivo è
legittimamente adottato nei confronti del
proprietario dell'immobile indipendentemente
dall'essere egli stato anche autore
dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di
far valere, sul piano civile, la
responsabilità, contrattuale o
extracontrattuale, del proprio dante causa.
Sulla non riferibilità all’esponente della
realizzazione dell’opera indicata sub n. 4
dell’ordinanza di demolizione, è sufficiente
notare come, in disparte la totale carenza
di dimostrazione dell’assunto di parte circa
la propria estraneità alla realizzazione
dell’abuso, nondimeno, l'assenza di
responsabilità del proprietario, in
relazione ad un abuso edilizio, non incide
sulla legittimità dell'ordinanza di
demolizione, ma rileva nella fase successiva
all'adozione della stessa, precludendo, nel
caso di inottemperanza, l'acquisizione del
bene, così come previsto dall'art. 31, comma
3, d.P.R. n. 380 del 2001, che ricollega
tale sanzione alla sola inottemperanza del
responsabile (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I,
18.01.2011, n. 381; Cassazione penale, sez.
III, 13.07.2009, n. 39322, per cui:<<L'ordine
di demolizione del manufatto abusivo è
legittimamente adottato nei confronti del
proprietario dell'immobile indipendentemente
dall'essere egli stato anche autore
dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di
far valere, sul piano civile, la
responsabilità, contrattuale o
extracontrattuale, del proprio dante causa>>)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.10.2011 n. 2377 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La giunta ed il consiglio
comunale non possono effettuare valutazioni
che contrastino con quelle già formalizzate
con il piano regolatore. Infatti, se un’area
è stata da questo destinata
all’edificazione, nel corso del procedimento
di approvazione del piano attuativo non è
giuridicamente possibile che la medesima
area non vada considerata in concreto
edificabile ‘per ragioni ambientali e
paesaggistiche’, e cioè sulla base di
valutazioni diametralmente opposte a quelle
già poste a base dello strumento primario
che ha previsto l’edificabilità sul piano
urbanistico. Ove emergano le relative
ragioni, può essere attivato il procedimento
per la modifica del piano regolatore, ma
–sul piano urbanistico- non può essere
respinto il progetto di lottizzazione
conforme allo strumento primario.
La
valutazione dei temi della viabilità, e
quindi della sufficienza dei collegamenti
esterni all’area oggetto di lottizzazione,
non è un elemento da sviluppare in occasione
dell’approvazione del piano di
lottizzazione, che ha natura attuativa, ma
deve essere contenuto, a monte, nello
strumento urbanistico generale il quale,
sulla base di una previsione complessiva dei
temi della gestione del territorio, è il
mezzo giuridico funzionalmente idoneo a dare
ingresso alle tematiche della circolazione
nell’ambito del territorio comunale.
Ritiene la
Sezione che la propria precedente decisione
n. 4368 del 16.09.2008 abbia già
sufficientemente individuato i limiti
decisionali che regolamentano l’approvazione
dei piani di lottizzazione, quando ha
affermato che “la giunta ed il consiglio
comunale non possono effettuare valutazioni
che contrastino con quelle già formalizzate
con il piano regolatore. Infatti, se un’area
è stata da questo destinata
all’edificazione, nel corso del procedimento
di approvazione del piano attuativo non è
giuridicamente possibile che la medesima
area non vada considerata in concreto
edificabile ‘per ragioni ambientali e
paesaggistiche’, e cioè sulla base di
valutazioni diametralmente opposte a quelle
già poste a base dello strumento primario
che ha previsto l’edificabilità sul piano
urbanistico. Ove emergano le relative
ragioni, può essere attivato il procedimento
per la modifica del piano regolatore, ma
–sul piano urbanistico- non può essere
respinto il progetto di lottizzazione
conforme allo strumento primario”.
Nel rispetto delle diverse finalità della
pianificazione urbanistica, la valutazione
della congruità del piano di lottizzazione
deve quindi porsi in collegamento attuativo
e nel rispetto funzionale delle previsioni
dello strumento urbanistico di valenza
generale. Tali ragioni hanno quindi spinto
la Sezione ad affermare che il compito
spettante alla giunta ed al consiglio
comunale siano limitati all’accertamento
della conformità del progetto alle
previsioni dello strumento urbanistico
primario, imponendo peraltro, giusta il
canone ordinario di correttezza dell’azione
amministrativa, che le relative
determinazioni in merito all’eventuale non
conformità del progetto al piano regolatore
si fondino su una puntuale motivazione, tale
da permettere l’emersione di interessi
pubblici effettivamente sussistenti e la
conseguente tutela dell’interessato in sede
di giustizia amministrativa.
Se queste affermazioni, in merito al metro
di giudizio, non paiono contestabili, né
sono state aggredite dalle parti
contendenti, una diversa valutazione va
fatta in relazione alla base del giudizio,
ossia agli elementi che possono essere
correttamente valutati al fine della
declaratoria di non conformità rispetto allo
strumento pianificatorio generale ed in
particolare in relazione alla supposta
insufficienza della viabilità.
In questo senso, nessun aiuto può provenire
dalla decisione n. 4368 del 2008, evocata a
vario titolo da tutte le parti, atteso che
nella detta sentenza non sono stati valutati
gli aspetti della viabilità, in quanto
introdotti successivamente al provvedimento
allora gravato e quindi integranti una
motivazione postuma dello stesso. Le
affermazioni ivi contenute hanno quindi
natura di obiter dictum, sebbene
incidentalmente, non si possa non notare
come la Sezione abbia suffragato “la
sussistenza del potere del consiglio
comunale di valutare la sufficienza della
viabilità nell’area oggetto del progetto, in
rapporto all’area più vasta in cui la sua
realizzazione si va ad inserire”, ossia
limitando il sindacato alla viabilità
interna al piano da realizzare.
In senso più generale, non si può non
osservare come il tema della pianificazione
viaria sia tradizionalmente oggetto di
previsioni a livello di piano regolatore
generale. L’art. 7 della legge urbanistica
(legge 17.08.1942, n. 1150, indicando i
contenuti del piano generale, espressamente
prevede, al punto 1 del comma 1, che questo
indichi “la rete delle principali vie di
comunicazione stradali, ferroviarie e
navigabili e dei relativi impianti”. E
previsioni di tal fatta si riscontrano,
peraltro con terminologia normativa più
corrente, in tutte le discipline regionali
che trattano il tema dell’assetto e del
governo del territorio (ad esempio,
nell’ambito della regione Veneto, la L.R. n.
11 del 2004, separando gli aspetti
strutturali del piano regolatore da quelli
operativi, prevede che siano fissati “gli
obiettivi e le condizioni di sostenibilità
degli interventi e delle trasformazioni
ammissibili”, individuando “le
infrastrutture e le attrezzature di maggiore
rilevanza” – art. 13 comma 1, lett. j).
Emerge quindi uno stretto collegamento tra
la pianificazione generale comunale e
l’individuazione della rete viaria
necessaria all’attuazione delle scelte di
piano. E tale collegamento opera in senso
discendente, in modo che la predisposizione
infrastrutturale si pone a monte delle
previsioni operative attuative.
Così ricostruito il quadro dei rapporti tra
i contenuti di piano, appare evidente come
la valutazione dei temi della viabilità, e
quindi della sufficienza dei collegamenti
esterni all’area oggetto di lottizzazione,
non sia un elemento da sviluppare in
occasione dell’approvazione del piano di
lottizzazione, che ha natura attuativa, ma
debba essere contenuto, a monte, nello
strumento urbanistico generale il quale,
sulla base di una previsione complessiva dei
temi della gestione del territorio, è il
mezzo giuridico funzionalmente idoneo a dare
ingresso alle tematiche della circolazione
nell’ambito del territorio comunale (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 05.10.2011 n. 5485 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Stop
antimafia senza sconti. Decide il prefetto.
E il Tar non entra nel merito. Per Palazzo
Spada l'inderdittiva è una misura cautelare
di polizia.
Stop all'appalto
pubblico per l'azienda se uno dei soci
frequenta un capozona della criminalità
organizzata. E ciò anche quando il «colletto
bianco» è incensurato e non risulta affatto
indagato. L'interdittiva anti-mafia,
infatti, è una misura cautelare di polizia e
il giudice amministrativo cui si rivolge
l'azienda che si è vista revocare
l'affidamento non può entrare nel merito,
come farebbe invece il collega del settore
penale: il sindacato risulta invece limitato
a verificare il significato che il prefetto
attribuisce agli elementi di fatto
individuati dalle forze dell'ordine e l'iter
seguito per pervenire allo revoca
dell'appalto.
È quanto emerge dalla
sentenza 05.10.2011 n. 5478, emessa
dalla III Sez. del Consiglio di Stato.
Operazione trasparenza.
Lo stop imposto dal rappresentante del
governo all'appalto «in odore» di
mafia costituisce una misura preventiva che
è diversa e ha una funzione distinta dalle
misure di prevenzione antimafia di natura
giurisdizionale.
L'interdittiva antimafia serve ad anticipare
la soglia di autotutela amministrativa per
evitare possibili ingerenze criminali nella
attività dell'impresa: ciò che preme
all'amministrazione, innanzitutto, è
accertare l'affidabilità della impresa
affidataria dei lavori.
Non contano, in questo caso, i rilievi
probatori tipici del diritto penale.
Insomma: l'alt del prefetto costituisce
l'esercizio di un'ampia discrezionalità e
tanto basta alla revoca dell'appalto.
L'ufficio territoriale del governo effettua
la sua valutazione sulla scorta di un mero
quadro indiziario: assumono dunque rilievo
gli elementi raccolti dalle forze
dell'ordine ed essi sono sufficienti quando
non è «manifestamente infondato» che
i comportamenti e le scelte
dell'imprenditore possono rappresentare un
veicolo di infiltrazione delle
organizzazioni criminali negli appalti delle
pubbliche amministrazioni. Dopodiché per
l'imprenditore risultato vicino ai clan non
c'è niente da fare: l'interdittiva antimafia
non può essere annullata se il provvedimento
non mostra elementi che possono evidenziare
un deficit di motivazione, di illogicità e
di travisamento, dal momento che il giudice
di merito non ha sindacato di merito in
materia.
Rapporti opachi.
Il ricorso dell'azienda calabrese, nel caso
risolto dal Consiglio di stato, è in parte
rigettato e in parte inammissibile. Sono
davvero inquietanti i rapporti di uno dei
soci della compagine con alcuni boss della
'ndrangheta: le forze dell'ordine
individuano rapporti professionali e anche
frequentazioni private e familiari, dunque
un quadro di relazioni che va oltre lo
stretto necessario in un contesto delicato
come il comparto dei lavori pubblici nelle
aree del Mezzogiorno inquinate dalla
criminalità organizzata.
E la giurisprudenza amministrativa è ferma
nel ritenere i contatti rilevati dalle forze
dell'ordine tra il vincitore dell'appalto e
pregiudicati sospettati di essere «capibastone»
delle consorterie mafiose risultano un
adeguato presupposto per far scattare l'interdittiva
antimafia, a patto che gli incontri non
siano brevi, occasionali o addirittura
casuali
(articolo ItaliaOggi del
12.10.2011). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo di inedificabilità gravante sulla
fascia di rispetto autostradale ha carattere
assoluto e prescinde dalla caratteristiche
dell’opera realizzata, in quanto il divieto
di costruzione sancito dall’art. 9 della l.
n. 729/1961 e dal successivo d.m. n.
1404/1968 non può essere inteso
restrittivamente al solo scopo di prevenire
l’esistenza di ostacoli materiali
suscettibili di costituire, per la loro
prossimità alla sede autostradale,
pregiudizio alla sicurezza del traffico e
alla incolumità delle persone, ma appare
correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto
utilizzabile, all’occorrenza, dal
concessionario, per l’esecuzione dei lavori,
per l’impianto dei cantieri, per il deposito
di materiali, per la realizzazione di opere
accessorie, senza limiti connessi alla
presenza di costruzioni.
Cosicché le distanze previste vanno
osservate anche con riferimento ad opere che
non superino il livello della sede stradale
o che costituiscano mere sopraelevazioni o
che, pur rientrando nella fascia, siano
arretrate rispetto alle opere preesistenti.
Come affermato da recente giurisprudenza,
che il Collegio condivide, “il vincolo di
inedificabilità gravante sulla fascia di
rispetto autostradale ha carattere assoluto
e prescinde dalla caratteristiche dell’opera
realizzata, in quanto il divieto di
costruzione sancito dall’art. 9 della l. n.
729/1961 e dal successivo d.m. n. 1404/1968
non può essere inteso restrittivamente al
solo scopo di prevenire l’esistenza di
ostacoli materiali suscettibili di
costituire, per la loro prossimità alla sede
autostradale, pregiudizio alla sicurezza del
traffico e alla incolumità delle persone, ma
appare correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto
utilizzabile, all’occorrenza, dal
concessionario, per l’esecuzione dei lavori,
per l’impianto dei cantieri, per il deposito
di materiali, per la realizzazione di opere
accessorie, senza limiti connessi alla
presenza di costruzioni.
Cosicché le distanze previste vanno
osservate anche con riferimento ad opere che
non superino il livello della sede stradale
(Cass. civ., n. 6118/1995) o che
costituiscano mere sopraelevazioni (Cass.
civ., n. 193/1987) o che, pur rientrando
nella fascia, siano arretrate rispetto alle
opere preesistenti” (TAR Campania,
Napoli, VIII, 14.03.2011, n. 1461; altresì,
ex multis, Cassazione civile, II,
03.11.2010, n. 22422; Consiglio di Stato, IV,
14.04.2010, n. 2076)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 05.10.2011 n. 2353 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla compatibilità, o meno,
dell'attività di frantumazione inerti in
zona D5 del vigente P.R.G..
L’art. 37 delle N.T.A. stabilisce che nella
zona D5, quale è quella in cui opera la
ricorrente, è ammesso il deposito dei
prodotti finiti o semilavorati, nel rispetto
delle norme contro ogni forma di
inquinamento. Nella stessa zona sono ammesse
alcune delle destinazioni di cui all’art. 8
delle N.T.A., ossia 2d, 2e, 5c, 8b e 10;
tutte le altre sono vietate.
La frantumazione degli inerti effettuata
dalla ricorrente si configura quale attività
di trattamento di rifiuti, che non rientra
in nessuna delle predette categorie di cui
all’art. 8 delle N.T.A. e comunque
richiederebbe una speciale autorizzazione,
nel caso di specie mancante (cfr. Cassazione
penale, III, 12.01.2011, n. 5346; Consiglio
Stato, V, 14.04.1997, n. 351; TAR Lombardia,
Milano, IV, 05.12.2008, n. 5719)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 05.10.2011 n. 2349 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Persi
i punti. La patente è da rifare. Consiglio
di stato: non conta se la comunicazione è
una. Cumulativo il taglio.
Perde i punti della
patente senza saperlo e ora deve rifare
l'esame. Farà bene dunque a leggere di volta
in volta i verbali l'automobilista multato,
se non vuole ritrovarsi all'improvviso a
quota zero e dover così rifare l'esame.
Sulla patente, infatti, il taglio dei punti
può essere «cumulativo».
È quanto emerge dalla
sentenza 29.09.2011 n. 5410 della IV
Sez. del Consiglio di Stato che ha
rovesciato il verdetto del Tar, secondo cui
un'unica comunicazione di più decurtazioni
di punti collegate a violazioni diverse e
lontane nel tempo determina un sostanziale
aggiramento delle norme del Codice della
strada.
Secondo il Tar il fatto che due o più
infrazioni al Cds, fra loro distinte e
lontane nel tempo, siano notificate al
trasgressore con un'unica comunicazione
della decurtazione dei punti sulla patente
determina «un sostanziale aggiramento
delle norme del Codice della strada». E
ciò perché, sostiene il giudice di primo
grado, esistono anche i corsi di recupero: a
ogni infrazione con taglio dei punti deve
seguire, nei tempi dettati dalla legge, una
comunicazione al contravventore che sia
specifica e autonoma, in modo da consentire
al trasgressore di riparare alla violazione
commessa frequentando le lezioni che
permettono di ricostituire il patrimonio
perduto. È questo, afferma il Tar, lo
spirito della patente a punti: un sistema di
afflizione, accessoria e progressiva, che
vuole stimolare il fair-play sulle
strade.
La sentenza del Tribunale amministrativo,
che pure sembrerebbe motivata in modo
ragionevole, è tuttavia annullata su ricorso
del ministero dei Trasporti: l'automobilista
indisciplinato deve rassegnarsi a dover
sostenere una nuova prova di idoneità
tecnica. Perché il taglio dei punti è
disposto dall'Anagrafe nazionale abilitati
alla guida e produce i suoi effetti in modo
diretto e immediato nella sfera giuridica
dell'interessato come qualsiasi
provvedimento sanzionatorio.
La successiva comunicazione di cui
all'articolo 126-bis Cds non è condizione di
validità della decurtazione. Tanto meno
l'omesso o intempestivo avviso riguarda in
alcun modo il provvedimento di revisione
della licenza di guida, che consegue
esclusivamente alla perdita totale dei punti
della patente. Il terzo comma dell'articolo
126-bis Cds, intanto, parla chiaro: «Ogni
variazione di punteggio è comunicata agli
interessati dall'anagrafe nazionale degli
abilitati alla guida». Ma attenzione, la
mancata adozione del provvedimento nei
termini previsti determina un solo effetto:
lo spostamento del termine per la
proposizione della eventuale impugnazione.
L'omissione costituisce una mera
irregolarità che non pregiudica in alcun
modo gli interessi del privato. Insomma,
quando rileva un vizio del provvedimento di
decurtazione dei punti della patente,
costituito dalla mancata tempestiva
comunicazione ex articolo 126-bis, comma 3,
Cds, l'automobilista deve proporre subito
l'opposizione prevista dall'articolo 22 e
seguenti della legge 689/1981
(articolo ItaliaOggi del
12.10.2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della formazione del
silenzio-assenso (per la realizzazione
impianti radioelettrici e di
telecomunicazione) non è sufficiente la sola
presentazione della domanda e il decorso del
tempo indicato dalla norma che lo prevede,
ma è necessario altresì che essa sia
corredata dalla indispensabile
documentazione prevista dalla normativa, non
implicando il meccanismo del
silenzio-assenso alcuna deroga al
potere-dovere dell'Amministrazione pubblica
di curare gli interessi pubblici nel
rispetto dei principi fondamentali sanciti
dall'art. 97, Cost. e presupponendo quindi
che l'Amministrazione sia posta nella
condizione di verificare la sussistenza di
tutti i presupposti legali per il rilascio
dell'autorizzazione.
---------------
Qualora le strutture di
telecomunicazioni vengano allocate in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico è
necessaria la relativa autorizzazione.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, in
una fattispecie analoga a quella in esame,
ha ritenuto che “Il silenzio-assenso di
cui all'art. 87 d.lgs. n. 259 del 2003 non è
applicabile (come, in verità, "in radice",
l'intera procedura ex art. 87 cit.) al caso
di manufatti già realizzati, nel caso fin
dal 1990, e non dunque di futura
edificazione, come è desumibile dallo stesso
comma 10 dell'art. 87, il quale, sebbene
fondi la conclusione dell'assorbimento della
concessione edilizia nell'ambito
dell'autorizzazione disciplinata da tale
norma, rende del pari evidente che la
fattispecie autorizzativa (anche) silenziosa
è riferibile esclusivamente ad opere che
"devono essere realizzate" (entro il termine
perentorio di dodici mesi dalla formazione
del silenzio-assenso) e quindi, appunto, non
già edificate” (Cons. St., sez. VI,
17.12.2008, n. 6276).
In particolare, è stato chiarito che “anche
per i suoi più volte chiariti fini
acceleratori della realizzazione degli
impianti radioelettrici e di
telecomunicazione, la norma riguarda,
proprio alla luce della sua ratio, future
realizzazioni impiantistiche” (Cons.
St., n. 6276 del 2008 cit.)
Nel caso in esame, è indiscusso che
l’antenna era già preesistente, essendo
stata installata nel 1989, e quindi, in
applicazione del principio sopra riportato,
non può ritenersi che il mancato diniego nel
termine di novanta giorni possa aver
comportato l’accoglimento dell’istanza.
È da evidenziare poi che il silenzio non può
ritenersi formato neanche applicando al caso
in esame la disciplina prevista dall’art. 20
l. 241/1990.
In primo luogo, il comma 4 dell’articolo in
esame, prevede espressamente che “Le
disposizioni del presente articolo non si
applicano agli atti e procedimenti
riguardanti il patrimonio culturale e
paesaggistico”.
In secondo luogo, la giurisprudenza
prevalente ritiene che, ai fini della
formazione del silenzio assenso, non è
sufficiente la sola presentazione della
domanda e il decorso del tempo indicato
dalla norma che lo prevede, ma è necessario
altresì che essa sia corredata dalla
indispensabile documentazione prevista dalla
normativa, non implicando il meccanismo del
silenzio-assenso alcuna deroga al
potere-dovere dell'Amministrazione pubblica
di curare gli interessi pubblici nel
rispetto dei principi fondamentali sanciti
dall'art. 97, Cost. e presupponendo quindi
che l'Amministrazione sia posta nella
condizione di verificare la sussistenza di
tutti i presupposti legali per il rilascio
dell'autorizzazione (Cons. St., sez. V,
01.04.2011, n. 2019; Cons. St., sez. V,
29.12.2009, n. 8831; Cons. St., sez. V,
19.06.2009, n. 4053).
Nel caso in esame, l’amministrazione
comunale ha rilevato la mancanza di una
serie di documenti necessari ai fini della
valutazione dell’istanza e comunque, come
verrà specificato nel prosieguo, si ritiene
che l’autorizzazione in questione
necessitava di una preventiva autorizzazione
paesaggistica; da qui la conseguenza che la
documentazione inviata dalla ricorrente al
Comune non poteva ritenersi completa.
---------------
La ricorrente ritiene che le strutture di
telecomunicazioni non sono soggette alle
prescrizioni urbanistico-edilizie e quindi
neanche alla preventiva autorizzazione
paesaggistica, in quanto deve ritenersi
prevalente l’interesse alla diffusione del
servizio radio rispetto alla tutela del
vincolo paesaggistico.
È da rilevare in proposito che la stessa
disciplina del d.lgs. 259/2003, con l’art.
86, comma 4, nel prevedere espressamente che
“restano ferme le disposizioni a tutela
dei beni ambientali e culturali contenute
nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490”,
fa salve le disposizioni a tutela dei beni
culturali con la logica conseguenza che
qualora ,come nel caso in esame, l’impianto
viene allocato in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico, è necessario richiedere una
preventiva autorizzazione paesaggistica.
D’altronde, non si può ritenere, come invece
dedotto dalla ricorrente, che il Comune non
ha alcuna competenza in ordine alla
localizzazione delle strutture di
telecomunicazioni.
La giurisprudenza ha affrontato la questione
del riparto di attribuzioni tra Stato ed
enti locali per la disciplina delle
installazioni produttive di inquinamento
elettromagnetico e per la regolamentazione
dei relativi impianti sotto il profilo
urbanistico sulla scia della sentenza della
Corte Costituzionale n. 303/2003, che ha
dichiarato l’incostituzionalità del decreto
legislativo 04.09.2002, n. 198 per la parte
in cui (art. 3, comma 2) sanciva la
compatibilità “con qualsiasi destinazione
urbanistica” e la realizzabilità “in
ogni parte del territorio comunale”
delle infrastrutture in questione, anche in
deroga agli strumenti urbanistici e ad ogni
altra disposizione di legge o di
regolamento, ledendo in tal modo la potestà
pianificatoria della Regione riconosciuta
dall’art. 117, comma 3, della Costituzione,
il quale cita espressamente, tra le altre,
le materie del governo del territorio, della
tutela della salute e dell’ordinamento della
comunicazione.
La Corte costituzionale, in particolare, ha
ritenuto che è rimessa alle Regioni e agli
enti territoriali minori la localizzazione
degli impianti, come questione attinente
alla disciplina dell’uso del territorio,
purché la pianificazione adottata non sia
tale da impedire o da ostacolare
ingiustificatamente l’insediamento degli
impianti stessi (Corte cost., 01.10.2003, n.
303).
La giurisprudenza ha quindi chiarito che “la
disciplina degli impianti di
telecomunicazione e radiotelevisivi
coinvolge profili sia di tutela
dell’ambiente che di governo del territorio,
in quanto impone standards di protezione
dalle onde elettromagnetiche uniformi su
tutto il territorio nazionale a garanzia del
diritto alla salute, ma anche modalità di
localizzazione degli impianti stessi, tali
da consentire il rispetto sia dei parametri
urbanistici che di corrette regole di
ottimale diffusione delle reti di
comunicazione, secondo un ben preciso
riparto di competenze” (Tar Lazio, sez.
II-bis, 16.03.2009, n. 2690).
Pertanto, in base ai principi individuati
dalla giurisprudenza citata, “non si può
oggi seriamente sostenere che gli artt. 86
ed 87 del D.Lgs. 01.08.2003, n. 259, lascino
al Comune esclusivamente un mero
coordinamento formale della procedura
autorizzatoria, privandolo di ogni
competenza propria, solo perché riservano la
verifica iniziale del rispetto dei limiti di
esposizione ai campi elettrici ed
elettromagnetici fissati dallo Stato
all’ARPA, ente tecnico istituzionalmente
preposto ad effettuare verifiche istruttorie
del tipo in esame. La normativa specifica in
materia di antenne e l’ordinaria normativa
edilizia soccorrono a dirimere ogni dubbio
al riguardo. In particolare, l’art. 86,
comma 3, del citato D.Lgs. n. 259/2003
assimila le stazioni radio base alle opere
di urbanizzazione primaria. Ad esse si
applica, pertanto, la normativa vigente in
materia (DPR n. 380 del 2001). Il comma 4
prevede che restano ferme anche le
disposizioni in materia di tutela ambientale
(DLgs. n. 490 del 1999) e di servitù
militari.” (Tar Lazio, n. 2690/2009
cit.) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 29.09.2011 n. 1691 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quando manca una normativa
specifica gli impianti eolici possono essere
localizzati in tutte le zone agricole.
Se è vero che i Comuni possono prevedere,
nell’esercizio della propria discrezionalità
in materia di governo del territorio, aree
specificamente destinate ad impianti eolici,
anche tenendo conto delle diverse
disposizioni vigenti in tema di sostegno del
settore agricolo, agroalimentare locale e di
tutela della biodiversità, del patrimonio
culturale e paesaggio rurale, occorre, però
ritenere che, in assenza di alcuna espressa
previsione conformativa, detti impianti
possono essere localizzati senza
distinzione, almeno per quanto riguarda la
valutazione di compatibilità urbanistica, in
tutte le zone agricole (TAR Calabria, n.
32/2011 cit. e TAR Umbria, 15.07.2007, n.
518) (TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 27.09.2011 n. 1430 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Si è in presenza di un atto
“meramente confermativo” (detto anche
“conferma impropria”) quando
l'amministrazione, di fronte ad un'istanza
di riesame o ad una nuova istruttoria, si
limiti a dichiarare l'esistenza di un suo
precedente provvedimento, senza compiere
alcun specifico approfondimento e senza una
nuova motivazione.
Si è invece al cospetto di un atto
“confermativo” (conferma in senso proprio)
quando l'amministrazione, dopo aver
riconsiderato i fatti e i motivi
prospettati, si esprime nuovamente senza
limitarsi ad una constatazione di fatto
dell'esistenza di un precedente
provvedimento ma dando luogo ad un
sostanziale procedimento di riesame, che
porta alla riconsiderazione della situazione
di fatto e di diritto alla base della
decisione.
Una nuova statuizione assunta in esito ad
una nuova istruttoria assume valore di atto
"confermativo" e non già di atto "meramente
confermativo" secondo quanto assunto da
fonte giurisprudenziale ormai consolidata,
per cui si è in presenza di un atto “meramente
confermativo” (detto anche “conferma
impropria”) quando l'amministrazione, di
fronte ad un'istanza di riesame o ad una
nuova istruttoria, si limiti a dichiarare
l'esistenza di un suo precedente
provvedimento, senza compiere alcun
specifico approfondimento e senza una nuova
motivazione. Su tale fondamento, l'atto
meramente confermativo non può riaprire i
termini per impugnare il precedente,
semplicemente confermato, non rappresentando
il secondo atto un'autonoma determinazione
dell'amministrazione, sia pure identica nel
contenuto alla precedente, ma solo la
manifestazione della decisione
dell'amministrazione di non ritornare sulle
scelte già effettuate.
Al contrario, si è invece al cospetto di un
atto “confermativo” (conferma in
senso proprio) quando l'amministrazione,
dopo aver riconsiderato i fatti e i motivi
prospettati, si esprime nuovamente senza
limitarsi ad una constatazione di fatto
dell'esistenza di un precedente
provvedimento ma dando luogo ad un
sostanziale procedimento di riesame, che
porta alla riconsiderazione della situazione
di fatto e di diritto alla base della
decisione (da ult.: TAR Sicilia, Pa, Sez. II,
03.03.2011, n. 391; Cons. Stato, Sez. VI,
11.05.2007, n. 2315) (TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 27.09.2011 n. 1430 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
L'amministratore non può rifiutarsi di
consegnare i conti.
Se il condomino chiede all'amministratore di
visionare o estrarre copia dei documenti
contabili, non è tenuto a specificare le sue
ragioni.
La richiesta, infatti, secondo la sentenza
21.09.2011 n. 19210 della Corte di Cassazione, può essere avanzata sempre e
non soltanto in sede di rendiconto annuale e
di approvazione del bilancio da parte
dell'assemblea.
L'unico punto di attenzione è che
l'esercizio di tale facoltà non ostacoli
l'attività di amministrazione e non si
presenti come contraria ai principi di
correttezza risolvendosi in un peso
economico per il condominio (in tal caso i
costi dell'operazione gravano solo su chi ha
fatto la richiesta).
La Corte ha peraltro chiarito che il rifiuto
di estrarre copia dei documenti contabili,
laddove non sia dimostrata l'impossibilità
di esaudire la richiesta perché pervenuta a
poche ore dall'inizio della seduta, dà luogo
all'annullamento della delibera
eventualmente presa dall'assemblea (articolo ItaliaOggi Sette
del 10.10.2011). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ammessi i controlli a sorpresa.
PREROGATIVE - L'azienda ha però il diritto
di verificare e contestare anche
successivamente la veridicità e idoneità
delle ispezioni.
L'ordinanza del Sindaco contro
l'inquinamento acustico non richiede la
preventiva comunicazione dell'avvio del
procedimento, perché la Pubblica
amministrazione incaricata dei controlli ha
il «diritto alla sorpresa», per evitare che
la comunicazione consenta al controllato di
«non farsi cogliere sul fatto».
Così ha
stabilito il TAR Umbria, Sez. I,
sentenza 26.08.2011 n. 271.
Il caso riguardava una società di mangimi
per animali, la cui lavorazione produceva
forti rumori, che danneggiavano la salute
degli abitanti di un edificio residenziale,
situato di fronte allo stabilimento. Il
sindaco, per risolvere il problema, aveva
emanato un'ordinanza ai sensi dell'articolo
50, comma 5 del Testo unico degli Enti
locali, e aveva ordinato alla società di
adeguare le emissioni acustiche ai limiti
normativi. La società aveva impugnato
l'ordinanza, sostenendo, tra l'altro, che
non vi era stata la preventiva comunicazione
del l'avvio del procedimento e delle
misurazioni programmate dal l'Arpa.
Il Tar
ha però respinto il ricorso basando le sue
motivazioni su due punti: e l'organo pubblico
incaricato dei controlli ha il «diritto alla
sorpresa» nello svolgimento delle attività
istituzionali, per evitare che il preavviso
consenta al controllato di «non farsi
cogliere sul fatto»; il controllato ha però
il diritto di verificare e contestare, anche
successivamente, la veridicità e l'idoneità
degli accertamenti compiuti.
La sentenza è giustificata. Il «diritto alla
sorpresa» della pubblica amministrazione
controllante è consentito dall'articolo 7
della legge 241/1990, che stabilisce che non
è necessario l'avvio del procedimento
allorché «sussistano ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di
celerità del procedimento».
Si potrebbe obiettare che il contraddittorio
deve essere osservato «nel momento» in cui
il controllo è effettuato, e non in momenti
successivi. Ma l'obiezione non sarebbe
persuasiva. Infatti, vi è qui una situazione
vincolata, perché se vi è l'avvio del
procedimento, il controllato può sfuggire al
controllo; se non vi è l'avvio del
procedimento, il controllo si svolge senza
contraddittorio.
I giudici hanno perciò esattamente stabilito
che il contraddittorio è necessario, ma esso
può avvenire anche in momenti successivi (articolo Il Sole 24 Ore
del 10.10.2011 - link a
www.ecostampa.it). |
APPALTI: La
verifica di anomalia non ha per oggetto la
ricerca di specifiche e singole inesattezze
dell'offerta economica, ma mira ad accertare
se l'offerta, nel suo complesso, sia
attendibile o inattendibile, e dunque se dia
o meno serio affidamento circa la corretta
esecuzione dell'appalto. Pertanto, il
procedimento di verifica è avulso da ogni
formalismo ed è improntato alla massima
collaborazione tra stazione appaltante e
offerente; il contraddittorio deve essere
effettivo; non vi sono preclusioni alla
presentazione di giustificazioni, ancorate
al momento della scadenza del termine di
presentazione delle offerte; mentre
l'offerta è immodificabile, modificabili
sono le giustificazioni, e sono ammesse
quelle sopravvenute e compensazioni tra
sottostime e sovrastime, purché l'offerta
risulti nel suo complesso affidabile al
momento dell'aggiudicazione, a garanzia di
una seria esecuzione del contratto.
---------------
Non è escluso che si possa procedere in sede
di verifica di anomalia ad un limitato
rimaneggiamento dei suoi elementi, purché la
proposta contrattuale non venga modificata o
alterata.
Non può essere fissata, ai fini della
valutazione di anomalia delle offerte
presentate nelle gare di appalto, una quota
rigida di utile al di sotto della quale
l'offerta debba considerarsi per definizione
incongrua, dovendosi invece avere riguardo
alla serietà della proposta contrattuale e
risultando in sé ingiustificabile solo un
utile pari a zero, atteso che anche un utile
apparentemente modesto può comportare un
guadagno importante, quando il contratto
abbia un importo elevato.
La verifica d’anomalia è disciplinata
dall’art. 88 del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163, per il quale “la
richiesta di giustificazioni è formulata per
iscritto e può indicare le componenti
dell'offerta ritenute anormalmente basse,
ovvero, alternativamente o congiuntamente,
invitare l'offerente a dare tutte le
giustificazioni che ritenga utili.
All'offerente è assegnato un termine non
inferiore a dieci giorni per presentare, per
iscritto, le giustificazioni richieste.
La stazione appaltante, se del caso mediante
una commissione costituita secondo i criteri
fissati dal regolamento di cui all'articolo
5, esamina gli elementi costitutivi
dell'offerta tenendo conto delle
giustificazioni fornite, e può chiedere per
iscritto ulteriori chiarimenti, se resi
necessari o utili a seguito di tale esame,
assegnando un termine non inferiore a cinque
giorni lavorativi.
Prima di escludere l'offerta, ritenuta
eccessivamente bassa, la stazione appaltante
convoca l'offerente con un anticipo non
inferiore a cinque giorni lavorativi e lo
invita a indicare ogni elemento che ritenga
utile.
Se l'offerente non si presenta alla data di
convocazione stabilita, la stazione
appaltante può prescindere dalla sua
audizione.
La stazione appaltante esclude l'offerta
che, in base all'esame degli elementi
forniti, risulta, nel suo complesso,
inaffidabile.
La stazione appaltante sottopone a verifica
la prima migliore offerta, se la stessa
appaia anormalmente bassa, e, se la esclude,
procede nella stessa maniera
progressivamente nei confronti delle
successive migliori offerte, fino ad
individuare la migliore offerta non anomala.”.
L’art. 88 prevede una scansione di natura
dilatoria, i cui termini non possono essere
inferiori a disposizione ivi previsti.
Ne consegue che nulla vieta –nel rispetto
del canone di ragionevolezza, comunque
conformato all’esigenza che le procedure di
aggiudicazione si concludano celermente ed
in tempi certi- che la stazione appaltante
assegni termini superiori.
Per la pacifica giurisprudenza, la verifica
di anomalia non ha per oggetto la ricerca di
specifiche e singole inesattezze
dell'offerta economica, ma mira ad accertare
se l'offerta, nel suo complesso, sia
attendibile o inattendibile, e dunque se dia
o meno serio affidamento circa la corretta
esecuzione dell'appalto. Pertanto, il
procedimento di verifica è avulso da ogni
formalismo ed è improntato alla massima
collaborazione tra stazione appaltante e
offerente; il contraddittorio deve essere
effettivo; non vi sono preclusioni alla
presentazione di giustificazioni, ancorate
al momento della scadenza del termine di
presentazione delle offerte; mentre
l'offerta è immodificabile, modificabili
sono le giustificazioni, e sono ammesse
quelle sopravvenute e compensazioni tra
sottostime e sovrastime, purché l'offerta
risulti nel suo complesso affidabile al
momento dell'aggiudicazione, a garanzia di
una seria esecuzione del contratto
(Consiglio Stato, sez. VI, 21.05.2009, n.
3146).
---------------
Per la pacifica
giurisprudenza non è escluso che si
possa procedere in sede di verifica di
anomalia ad un limitato rimaneggiamento dei
suoi elementi, purché la proposta
contrattuale non venga modificata o alterata
(Consiglio Stato, sez. VI, 07.03.2008, n.
1007; sez. VI, 26.04.2005, n. 1889; sez. V,
11.11.2004, n. 7346)
Ad avviso delle appellanti, l’incidenza del
“rimaneggiamento” (55 voci di costo,
che nell’offerta complessiva assumono un
valore pari al 59,8% del prezzo
dell’appalto) sarebbe tale da suggerire
l’utilizzo del termine stravolgimento: esso
non sarebbe consentito dalla legge.
In contrario senso, rileva invece il
Collegio che l’art. 87, comma 1, del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, nella
versione antecedente alla modifica
introdotta dall’articolo 4-quater, comma 1,
lettera c), punto 1), del D.L. 01.07.2009,
n. 78 dispone che, “Quando un'offerta
appaia anormalmente bassa, la stazione
appaltante richiede all'offerente le
giustificazioni, eventualmente necessarie in
aggiunta a quelle già presentate a corredo
dell'offerta, ritenute pertinenti in merito
agli elementi costitutivi dell'offerta
medesima”.
L’utilizzo dell’inciso “in aggiunta”
esclude la fondatezza delle dette censure e
consente di rilevare che, purché l’utile di
impresa sia indicato e risulti permanere
all’esito della verifica d’anomalia, e
purché non si registrino indebite “sostituzioni
di voci”, il rimaneggiamento
dell’offerta appare non soltanto consentito,
ma addirittura fisiologico.
L’entità del rimaneggiamento deve ovviamente
essere rapportato al numero delle “voci”
ed all’importo complessivo dell’appalto: nel
caso di specie la pluralità di voci in cui
si articolava l’offerta, la complessità
delle opere, e l’elevatissimo importo dei
lavori (circa 360 milioni di Euro) ben
consentono di ritenere che non si verta in
una ipotesi di inammissibile stravolgimento
dell’offerta ma, appunto, di un limitato –e
per questo consentito ed ammissibile-
rimaneggiamento che non ne ha alterato la
sostanza.
Anche tale profilo di censura
conclusivamente va respinto.
Va anche respinta (ancorché non sia stata
formulata dall’appellante BPT in forma di
motivo autonomo) l’affermazione contenuta
nelle conclusioni dell’elaborato peritale di
parte (a firma dell’Ing. ...)
dell’08.03.2010, e richiamata nelle censure,
secondo cui la percentuale di utile
riscontrato dalla stazione appaltante non
sarebbe stata “accettabile”.
Al contrario, armonicamente con le
conclusioni della giurisprudenza (Consiglio
Stato, sez. VI, 16.01.2009, n. 215) non può
essere fissata, ai fini della valutazione di
anomalia delle offerte presentate nelle gare
di appalto, una quota rigida di utile al di
sotto della quale l'offerta debba
considerarsi per definizione incongrua,
dovendosi invece avere riguardo alla serietà
della proposta contrattuale e risultando in
sé ingiustificabile solo un utile pari a
zero, atteso che anche un utile
apparentemente modesto può comportare un
guadagno importante, quando il contratto
abbia un importo elevato (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.08.2011 n. 4801 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Immobili abusivi. Acquisizione
gratuita e sequestro penale: una convivenza
possibile.
Ancora sul rapporto tra acquisizione
gratuita al patrimonio di immobile abusivo
non demolito e sequestro penale. Per i
giudici amministrativi pugliesi i due
provvedimenti, che paiono escludersi a
vicenda, in realtà trovano nell'ordinamento
strumenti chiari di coordinamento. La legge
prevede che la realizzazione di un immobile
abusivo costituisce un fatto che interessa
sia il diritto amministrativo che il diritto
penale.
Il diritto amministrativo (D.P.R. n. 380 del
2001) prevede l'emanazione di un ordine di
demolizione da parte dell'autorità comunale,
che è un tipico provvedimento sanzionatorio
conseguente al compimento di attività in
contrasto con le norme urbanistiche di
tutela del suolo. In quanto sanzionatori
tali procedimenti sono diretti nei confronti
dei responsabili degli abusi (v. art. D.P.R.
n. 380 del 2001); l'art. 31, D.P.R. n. 380
del 2001 impone inoltre, a differenza di ciò
che avveniva con la precedente normativa, la
notifica del provvedimento sanzionatorio
oltre che al responsabile dell'abuso anche
al proprietario, a carico del quale sussiste
una presunzione di responsabilità per gli
abusi edilizi accertati (TAR Veneto, Sez. II,
Sent. 17.06.2011, n. 1059).
Dal punto di vista degli effetti l'ordine
amministrativo di demolizione rientra tra le
sanzioni di tipo ripristinatorio (o reale),
che colpiscono l'oggetto dell'illecito,
riportando la situazione allo stato quo
ante.
In caso di inottemperanza decorso il termine
di 90 giorni dal ricevimento dell'ordinanza
di demolizione il bene è acquisito al
patrimonio indisponibile del Comune.
Il diritto penale prevede invece che la
realizzazione di una costruzione abusiva
costituisce reato punito oggi dall'art. 44,
D.P.R. n. 380 del 2001.
L'art. 31, D.P.R. n. 380 del 2001 al comma 9
prevede poi che per le opere abusive il
giudice, con la sentenza di condanna per il
reato di cui all'art. 44, ordina la
demolizione delle opere stesse se ancora non
sia stata altrimenti eseguita.
Spesso capita, inoltre, che la denuncia
penale sia accompagnata dal sequestro
probatorio ai sensi dell'art. 253 Codice di
Procedura Penale costituendo l'immobile il
corpo del reato.
Misura analoga è il sequestro preventivo di
cui al primo comma dell'art. 321 c.p.p. che
può avere ad oggetto qualsiasi bene a
chiunque appartenente e, quindi, anche a
persona estranea al reato purché esso sia,
anche indirettamente, collegato al reato e,
ove lasciato in libera disponibilità, idoneo
a costituire pericolo di aggravamento o di
protrazione delle conseguenze del reato
ovvero di agevolazione della commissione di
ulteriori fatti penalmente rilevanti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, Sent.
08.10.2009, n. 39078).
La sentenza in commento ci permette di
affrontare i problemi inerenti ai rapporti
tra il sequestro ed il potere dovere
dell'amministrazione comunale di ordinare la
demolizione e di acquisire il bene al
patrimonio indisponibile in caso di mancata
demolizione.
Sebbene, in linea generale la eventuale
manomissione dell'immobile soggetto a
sequestro configuri il reato di cui all'art.
349 c.p., essendo fatto divieto a
chicchessia di alterare o distruggere il "corpo
del reato", la giurisprudenza afferma
che la circostanza che l'immobile abusivo
sia sottoposto a sequestro (probatorio), non
osta all'adozione dell'ordine di
demolizione, dal momento che è possibile
motivatamente domandare all'autorità
giudiziaria il dissequestro dell'immobile
proprio al fine di ottemperare al predetto
ordine (TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
12.04.2005, n. 3780; TAR Campania, Napoli,
Sez. IV, 13.01.2011 n. 84; TAR Sardegna,
Sez. I, 09.11.2007, n. 2040).
Analoga considerazione viene fatta dalla
sentenza in commento per la mancata
demolizione dell'opera entro 90 giorni dal
ricevimento dell'ordinanza di demolizione.
Infatti, dice la sentenza "la
sottoposizione a sequestro giudiziale di un
bene immobile imprime al bene medesimo un
vincolo di indisponibilità che si risolve
nella temporanea sua immodificabilità e o
incommerciabilità. Il destinatario del
provvedimento deve senz'altro rendersi parte
diligente al fine di dare corretta
esecuzione all'ordine di demolizione emanato
dalla P.a. competente senza poter addurre a
sua esimente la sussistenza di un
provvedimento di sequestro al quale egli
stesso ha dato causa.
Ma il conflitto di interessi nascente dalla
contemporanea emanazione di un'ordinanza che
ingiunge la demolizione di un'opera abusiva
deve essere risolto dalla competente
autorità giudiziaria penale.
Spetta, in definitiva, a quest'ultima
decidere il mantenimento in vita del
sequestro a fini di tutela di esigenze di
carattere penalistico (ad es. fini
probatori, o di prevenzione penale o,
ancora, di natura conservativa a garanzia
delle obbligazioni civilistiche nascenti da
reato) ovvero il dissequestro del bene
qualora si ritenga di accordare prevalenza
al ripristino dello stato dei luoghi".
Pertanto, solo l'istanza di dissequestro
negata può rilevare come scriminante nei
riguardi dell'autore dell'abuso edilizio che
non ottemperi all'ordine del Comune, per il
noto principio "ad impossibilia nemo
tenetur" (TAR Sardegna, Cagliari, Sez.
I, 09.11.2007, n. 2040).
Da ultimo occorre evidenziare che, nel caso
in cui l'efficacia del sequestro venga meno
dopo la scadenza del termine di 90 giorni
per la demolizione e questa non sia stata
impedita dal giudice, la restituzione essere
effettuata a favore di chi "ne abbia il
diritto" che in tal caso è il Comune.
Infatti l'acquisizione da parte del Comune
dell'immobile abusivo e dell'area di sedime
avviene ipso lure, a seguito
dell'emissione dell'ordinanza sindacale di
demolizione e dello spirare del novantesimo
giorno dalla notifica della stessa
all'intimato, ove questi non vi abbia
prestato ottemperanza richiedendo al giudice
il dissequestro del bene (Corte di
Cassazione penale, Sez. III, 08.01.2009 (Ud.
19.11.2008), Sent. n. 143) (commento tratto
da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 16.08.2011
n. 1530 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Va
esclusa la possibilità generalizzata di
modifica, in sede di giustificazioni, delle
voci di costo, cambiandole ad libitum, essendo solo
consentito di procedere ad una modifica
delle giustificazioni delle singole voci di
costo (rispetto alle giustificazioni già
fornite), lasciando le voci di costo
invariate, oppure ad un aggiustamento di
singole voci di costo, che trovi il suo
fondamento o in sopravvenienze di fatto o
normative che comportino una riduzione dei
costi, o in originari e comprovati errori di
calcolo, o in altre ragioni plausibili.
L’assunto fatto proprio dal Giudice di prime
cure, che le voci di costo non sono
modificabili senza alcuna motivazione, va
quindi inteso nel senso che esse non sono
modificabili al solo scopo di assicurarsi
che il prezzo complessivo offerto resti
immutato e si superino le contestazioni
sollevate dalla stazione appaltante su
alcune voci di costo.
Il procedimento di verifica di anomalia può
essere avulso da ogni formalismo inutile e
può essere improntato alla massima
collaborazione tra stazione appaltante e
offerente, senza preclusioni alla modifica
di giustificazioni di singole voci di costo
fornite prima della scadenza del termine di
presentazione delle offerte, purché
l'offerta risulti nel suo complesso
affidabile al momento dell'aggiudicazione, e
a tale momento dia garanzia di una seria
esecuzione del contratto.
La giurisprudenza esclude la esistenza della
possibilità generalizzata di modifica, in
sede di giustificazioni, delle voci di
costo, cambiandole ad libitum (Cons.
St., sez. VI, 21.05.2009 n. 3146; Cons. St.,
sez. VI, 19.05.2000 n. 2908), essendo solo
consentito di procedere ad una modifica
delle giustificazioni delle singole voci di
costo (rispetto alle giustificazioni già
fornite), lasciando le voci di costo
invariate, oppure ad un aggiustamento di
singole voci di costo, che trovi il suo
fondamento o in sopravvenienze di fatto o
normative che comportino una riduzione dei
costi, o in originari e comprovati errori di
calcolo, o in altre ragioni plausibili.
L’assunto fatto proprio dal Giudice di prime
cure, che le voci di costo non sono
modificabili senza alcuna motivazione, va
quindi inteso nel senso che esse non sono
modificabili al solo scopo di assicurarsi
che il prezzo complessivo offerto resti
immutato e si superino le contestazioni
sollevate dalla stazione appaltante su
alcune voci di costo (Consiglio Stato, sez.
VI, 15.06.2010, n. 3759).
Nel caso che occupa l’A.T.I. appellante non
ha posto in essere gli aggiustamenti (dello
stesso tipo di quelli sopra indicati) che
possono ritenersi consentiti, ma ha
modificato, come da quadro sinottico
depositato nel giudizio di primo grado dalla
... s.p.a., i prezzi unitari proprio allo
scopo di assicurarsi che il prezzo
complessivo rimanesse immutato, con
violazione del principio di par condicio tra
concorrenti e privazione di ogni rilievo dei
prezzi unitari (Consiglio Stato, Sez. IV,
11.04.2006, n. 2021).
In conclusione, il procedimento di verifica
di anomalia può essere avulso da ogni
formalismo inutile e può essere improntato
alla massima collaborazione tra stazione
appaltante e offerente, senza preclusioni
alla modifica di giustificazioni di singole
voci di costo fornite prima della scadenza
del termine di presentazione delle offerte,
purché l'offerta risulti nel suo complesso
affidabile al momento dell'aggiudicazione, e
a tale momento dia garanzia di una seria
esecuzione del contratto (Consiglio Stato,
sez. VI, 21.05.2009, n. 3146).
Ciò non può, tuttavia, ritenersi che sia
avvenuto nel caso che occupa, in cui tutti i
prezzi unitari sono stati modificati ed è
stata effettuata una tardiva trasmigrazione
dei costi da una voce all'altra, il che ha
dimostrato che l’offerta non era nel
complesso affidabile
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.06.2011 n. 3864 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 10.10.2011 |
ã |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
Regolamento recante disciplina
dei procedimenti relativi alla prevenzione
incendi.
Il 22 settembre scorso è stato pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale n. 221 il "Regolamento
recante disciplina dei procedimenti relativi
alla prevenzione incendi, a norma
dell'articolo 49 comma 4-quater,
decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito
con modificazioni, dalla legge 30.07.2010,
n. 122", adottato con D.P.R. 01.08.2011
n. 151, la cui entrata in vigore è prevista
per il 07.10.2011.
Il regolamento ha inteso raccordare la
disciplina vigente in materia di prevenzione
incendi con l'introduzione della
Segnalazione Certificata di Inizio Attività
(SCIA), in modo da garantire certezza
giuridica al quadro normativo e coniugare
l'esigenza di semplificazione con quella di
tutela della pubblica incolumità, quale
funzione di preminente interesse pubblico.
L'adozione del nuovo regolamento ha
consentito, attraverso una profonda
rivisitazione delle procedure di prevenzione
incendi, di perseguire anche gli obiettivi
in materia di snellimento e semplificazione
dei procedimenti amministrativi, da tempo
intrapresi, in armonia sia con il decreto
legislativo n. 139/2006, che con le recenti
disposizioni sugli sportelli unici per le
attività produttive.
La nuova disciplina coniuga semplificazione
e riduzione degli oneri burocratici, nonché
riduzione e certezza dei tempi con una
elevata tutela della pubblica incolumità.
La Direzione Centrale per la Prevenzione e
la Sicurezza Tecnica ha emanato, con
lettera-circolare
06.10.2011 n. 13061, i primi
indirizzi applicativi sul Nuovo regolamento
di prevenzione incendi - d.P.R. 01.08.2011,
n. 151: "Regolamento recante disciplina
dei procedimenti relativi alla prevenzione
incendi".
Il documento consente di dare immediata
operatività al regolamento che, come noto,
entra in vigore il 7 ottobre e fornisce, per
uniformità di indirizzo, alcune prime
indicazioni applicative.
Alla lettera circolare è stata allegata
anche la modulistica necessaria all'avvio
delle istanze e alle segnalazioni che viene
elencata di seguito:
1-
richiesta,
ai sensi dell’art. 3 del DPR 01/08/2011 n.
151, di voler disporre la VALUTAZIONE DEL
PROGETTO ALLEGATO;
2-
richiesta,
ai sensi dell’art. 8 del DPR 01/08/2011 n.
151, del NULLA-OSTA DI FATTIBILITA';
3-
SEGNALAZIONE
CERTIFICATA DI INIZIO ATTIVITA' AI FINI
DELLA SICUREZZA ANTINCENDIO (ai sensi
dell’art. 4 del D.P.R. 01/08/2011 n. 151);
4-
ASSEVERAZIONE AI FINI DELLA SICUREZZA
ANTINCENDIO;
5-
richiesta di
voler disporre la VERIFICA IN CORSO D’OPERA,
ai sensi dell’art. 9 del DPR 01/08/2011 n.
151;
6-
richiesta,
ai sensi dell’art. 5 del DPR 01/08/2011 n.
151, del rinnovo periodico di conformità
antincendio;
7-
ASSEVERAZIONE ATTESTANTE LA FUNZIONALITÀ E
L’EFFICIENZA DEGLI IMPIANTI DI PROTEZIONE
ATTIVA ANTINCENDI (con esclusione delle
attrezzature mobili di estinzione);
8-
richiesta,
ai sensi dell’art. 7 del DPR 01/08/2011 n.
151, ai fini dell’ottenimento di DEROGA
all’osservanza della vigente normativa
antincendio. |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
LAVORI PUBBLICI:
G.U. 06.10.2011 n. 233 "Disposizioni
sull’uso e l’installazione dei dispositivi
di ritenuta stradale" (Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 28.06.2011).
---------------
Sicurezza
stradale, barriere a prova d'urto con
l'Europa.
Potranno essere ancora
utilizzate in via provvisoria le barriere di
sicurezza stradale sprovviste di marcatura
europea a condizione che siano state immesse
sul mercato entro il 31 dicembre ovvero
installate entro lo stesso termine, nel caso
in cui il fabbricante o produttore coincida
con la stazione appaltante.
Lo ha stabilito il decreto 28.06.2011 del Ministro dei
Trasporti, pubblicato sulla
G.U. n. 233 del 06/10/2011.
Come disposto dall'art. 2 del decreto,
dall'01.01.2011 i dispositivi di ritenuta
stradale devono essere muniti di marcatura
CE in conformità alla normativa armonizzata
UNI EN 1317-5:2007+A1:2008 e successivi
aggiornamenti. La marcatura viene apposta a
seguito dell'emissione del certificato e
della dichiarazione Ce di conformità.
In via provvisoria e comunque entro 12 mesi
dall'entrata in vigore del dm potranno
ancora essere usati i seguenti dispositivi
di ritenuta stradale privi della marcatura
ovvero le barriere omologate fino al
31.12.2010 (ai sensi del dm del 21.06.2004) e le barriere sottoposte con esito
positivo alle prove d'urto prescritte dalla
norme UNI EN 1317, i cui rapporti di prova
siano stati verificati (ai sensi del dm del
21.06.2004 e del relativo allegato tecnico)
da parte della stazione appaltante.
Per entrambe le tipologie, il fabbricante o
produttore deve esibire alla stazione
appaltante, o su richiesta dell'organo di
controllo, apposita documentazione
comprovante che i dispositivi sono stati
immessi sul mercato prima del 31.12.2010.
Per gli appalti di opere stradali dei quali
è stata avviata la procedura di gara,
potranno essere utilizzati le due predette
tipologie di barriere, purché siano state
immesse sul mercato entro il 31.12.2010.
Oltre a ciò, l'allegato 1 del dm riporta i
contenuti minimi del manuale per l'uso e
l'installazione, che descrive le
prescrizioni, indicazioni e informazioni
fornite dal fabbricante, produttore o suo
mandatario ai fini dell'installazione, della
manutenzione, dei controlli e delle
riparazioni.
Il decreto dispone che entro dodici mesi
dall'entrata in vigore la direzione generale
per la sicurezza stradale dovrà provvedere
ad emanare l'aggiornamento delle istruzioni
tecniche per l'uso e l'installazione delle
barriere di sicurezza stradale. Nel
frattempo resteranno in vigore le vecchie
istruzioni che non sono in palese contrasto
con il nuovo provvedimento
(articolo ItaliaOggi dell'08.10.2011). |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
Titoli edificatori - SCIA -
Installazione di recinzione in pali e rete
metallica - Non necessaria.
Domanda:
Per realizzare una recinzione con paletti in
ferro e rete in plastica con relativo
cancello di ingresso al fondo, è sufficiente
presentare una SCIA?
Risposta:
Con riguardo alla necessità della
sussistenza di titoli formali per
l'installazione di una recinzione in pali e
rete metallica (senza cordolo in cemento) di
parziale recinzione di un superficie la
giurisprudenza del Giudice amministrativo ha
recentemente affermato che tali opere non
comportano alcuna trasformazione del
territorio, non essendo conseguentemente
necessaria la disponibilità di titoli
edificatori, i quali sono invece da
richiedersi per mutazioni sostanziali della
morfologia del territorio.
La recinzione in legno o in rete metallica
di un terreno non richiede alcuna
concessione o autorizzazione edilizia, in
quanto costituisce non già trasformazione
urbanistica (non comporta, infatti,
trasformazione morfologica del territorio),
ma estrinsecazione lecita dello jus
excludendi alios, caratteristica
qualificante del diritto di proprietà: a
tale nozione si adatta perfettamente la
recinzione che sia costituita da paletti
infissi al suolo (senza cordolo di
calcestruzzo, cemento o altro materiale
incorporato al suolo) e collegati da una
rete metallica, con conseguente
illegittimità, dunque, dell'ordine di
demolizione. Sul punto si è recentemente
espresso il TAR Veneto evidenziando che un
principio pacificamente affermato dalla
giurisprudenza è sempre stato quello che la
recinzione in legno o in rete metallica di
un terreno non richiede alcuna concessione o
autorizzazione edilizia (sentenza
07.03.2006, n. 533).
Ancora più di recente sempre il TAR del
Veneto, con la sentenza n. 1547 del 2010, ha
confermato che l'apposizione di una
recinzione in rete e paletti infissi al
suolo sia un attività edilizia libera, non
soggetta a concessione edilizia (e oggi non
soggetta a permesso di costruire) in quanto
esplicazione delle facoltà insite nel
diritto di proprietà.
Si aggiunga in generale che, come osserva il
Giudice amministrativo, la valutazione in
ordine alla necessità della concessione
edilizia (ora: permesso di costruire), per
la realizzazione di opere di recinzione,
deve essere effettuata sulla scorta dei
seguenti due parametri: natura e dimensioni
delle opere e loro destinazione e funzione;
in base a tale criterio, dunque, non è
necessario il permesso per costruire per
modeste recinzioni di fondi rustici senza
opere murarie, e cioè per la mera recinzione
con rete metallica sorretta da paletti di
ferro o di legno senza muretto di sostegno,
in quanto entro tali limiti la recinzione
rientra solo tra le manifestazioni del
diritto di proprietà, che comprende la
delimitazione e l'assetto delle singole
proprietà (23.09.2011 - tratto da
www.immobili24.ilsole24ore.com). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
A. P. Oliveri,
L’audizione dell’AVCP, i bandi tipo ed il
costo del lavoro. Quali giustificazioni
negli appalti pubblici sul costo del
personale dopo il decreto Sviluppo?
(link a www.leggioggi.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Viola,
La doppia tutela in ambito edilizio dopo il
nuovo Codice del processo amministrativo
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
S. Fantini,
Profili pubblicistici dei diritti
edificatori (link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
M. Benedetto,
Incarichi dirigenziali: regole per
conferimento e revoca (link a
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
EE.LL. censimento 2011: le risorse destinate
ai dipendenti (CGIL-FP di Bergamo,
nota
06.10.2011):
-
file in formato .PDF oppure (per la
compilazione) -
file in formato .DOC |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: C'è
un tetto sui buoni pasto: non superabile
quota 5,29.
Il buono pasto non
concorre a costituire reddito da lavoro
dipendente fino alla soglia prevista
dall'articolo 51 del Tuir, oggi fissata a
5,29 euro. La quota eccedente tale soglia,
pertanto, costituisce reddito imponibile e
soggetta alle ritenute fiscali e
previdenziali.
Ne consegue che un ente
locale non può incrementare il valore del
singolo buono pasto per i propri dipendenti
oltre la soglia di 5,29 euro in quanto, in
tali casi, vige il divieto, imposto
dall'articolo 1, comma 9 della manovra
correttiva 2010, di incrementare fino al
2013, il trattamento economico (anche quello
accessorio) dei dipendenti pubblici,
rispetto a quello goduto nel 2010.
Lo ha sancito la sezione regionale di
controllo della Corte dei Conti Toscana, nel
testo del
parere
21.07.2011 n. 187 con il quale
ha fatto chiarezza sui riflessi contenuti
nel divieto imposto alle Pa di aumentare il
trattamento economico ai dipendenti, con
riguardo al valore del buono pasto.
Rispondendo a un'apposita richiesta
proveniente dalla Provincia di Prato, in
merito alla possibilità di incrementare il
valore del buono pasto ai propri dipendenti
portandolo da 5,29 a 7,50 euro, il collegio
toscano ha rilevato che la natura giuridica
del buono pasto è quella di essere
un'agevolazione di carattere assistenziale,
non costituendo un elemento integrativo
della retribuzione.
Ma solo entro certi limiti, che il
legislatore ha infatti posto all'articolo
51, comma 2 del Tuir. In pratica, il buono
pasto ha valore di ristoro solo se il suo
valore non supera la soglia di 5,29 euro.
L'importo che eccede tale limite concorre
alla formazione del reddito imponibile e
quindi del trattamento economico complessivo
(è questo, ad esempio, il caso del personale
appartenente al comparto ministeri che
beneficia di un buono pasto pari a 7 euro),
perdendo la sua natura puramente
assistenziale.
Da ciò consegue, rileva la Corte toscana,
che il divieto di aumentare ai dipendenti,
per il triennio 2011-2013 «il trattamento
ordinariamente spettante per l'anno 2010»,
così come prescritto dal citato articolo 9,
comma 1 del dl n. 78/2010, sia violato se
l'amministrazione locale intende
incrementare il valore del buono pasto oltre
la soglia di 5,29 euro.
In più, la Corte ha rilevato che il buono
pasto va sempre incluso nel computo della
spesa di personale ai fini del rispetto dei
commi 557 e 562 della lf 2007, che gli enti
locali sono tenuti a perseguire
(articolo ItaliaOggi dell'08.10.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: La
dichiarazione sostitutiva per i contributi a
enti privati.
La pubblica amministrazione che intende
erogare un contributo ad enti privati, potrà
accertare la sussistenza delle condizioni
previste dall'art. 6, comma 2, del dl n.
78/2010, ove si prevede che la titolarità
degli organi collegiali di chi riceve
contributi a carico delle finanze pubbliche
è onorifica, attraverso una dichiarazione
sostitutiva di atto notorio.
Inoltre, stante
l'ampiezza e la genericità della
disposizione richiamata, per organi
collegiali devono intendersi anche gli
organi di controllo.
Lo ha messo nero su bianco la sezione
regionale di controllo della Corte dei Conti
Campania, con il
parere 12.07.2011 n. 336 che ha
fatto luce sulla portata delle disposizioni
recate dall'articolo 6, comma 2, della
manovra correttiva del 2010.
In tale norma, si prevede che dal
31.05.2010, la partecipazione agli organi
collegiali, anche di amministrazione degli
enti che ricevono contributi a carico delle
pubbliche finanze, è onorifica. Se previsti
i gettoni di presenza, la norma rileva che
questi non potranno superare l'importo di 30
euro a seduta. In caso di violazione, si
determina la responsabilità erariale e la
nullità degli atti adottati.
La Provincia di Napoli richiedeva
l'intervento della Corte, per conoscere
quale fosse il mezzo più adatto per
accertare l'adeguamento degli enti privati a
quanto disposto dalla norma richiamata,
prima di erogare, a favore degli stessi,
contributi o utilità a carico delle casse
dell'ente provinciale. La Corte campana ha
rilevato che è necessario che la p.a.
proceda preliminarmente alla verifica delle
condizioni imposte dalla legge, prima di
procedere alla corresponsione di contributi
a carico dei propri bilanci.
Il mezzo idoneo altro non è che la
dichiarazione sostitutiva di atto notorio
(ex artt. 38 e 47 del dpr n. 445/2000). In
tale documento il legale rappresentante
dell'ente dovrà attestare che la
partecipazione agli organi collegiali
dell'ente e la titolarità di detti organi,
siano effettivamente onorifiche, con
espresso richiamo alla consapevolezza delle
sanzioni previste in caso di dichiarazione
non veritiera o di falsità negli atti.
Inoltre, ha concluso la Corte, in relazione
alla locuzione «organi collegiali»
contenuta nella disposizione in esame,
l'ampiezza e la genericità di questa portano
a non ravvisare distinzioni relativamente
alla natura o alla composizione degli organi
destinatari della norma. Ne consegue che in
essa vanno ricompresi anche gli organi di
controllo senza alcuna eccezione
(articolo ItaliaOggi dell'08.10.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il Sindaco del Comune di Mantova ha posto
alla Sezione un quesito del seguente tenore:
<<se le nuove
disposizioni sugli incarichi dirigenziali a
tempo determinato introdotte dal D.Lgs.
27/10/2009 n. 150 debbano considerarsi
estese anche agli Enti Locali, stante la
previsione dell’art. 1 del D.Lgs. che vieta
l’introduzione di deroghe al TUEL se non
mediante espressa modificazione delle sue
disposizioni>>.
Inoltre, per il caso in cui si propendesse
per una risposta in senso affermativo al
quesito che precede, ha domandato <<se
l’Ente possa determinare un ragionevole
tetto percentuale per il conferimento di
incarichi dirigenziali a tempo determinato,
svincolandosi dalle percentuali previste per
la dirigenza statale ed, in particolare, se
possa dare quattro incarichi a tempo
determinato ex art. 110 TUEL, attingendo,
per tre di essi, a personale interno>>.
---------------
1° quesito: <<se
le nuove disposizioni sugli incarichi
dirigenziali a tempo determinato introdotte
dal D.Lgs. 27/10/2009 n. 150 debbano
considerarsi estese anche agli Enti Locali,
stante la previsione dell’art. 1 del D.Lgs.
che vieta l’introduzione di deroghe al TUEL
se non mediante espressa modificazione delle
sue disposizioni>>.
Preliminarmente le Sezioni Riunite hanno
dovuto affrontare la questione se l’ente
locale, nel conferire incarichi dirigenziali
a tempo determinato per posti in dotazione
organica, debba rispettare le percentuali di
cui all’art. 19, comma 6 dell’art. 19 del
d.lgs. 165/2001 o se sia ancora vigente ed
applicabile l’art. 110, comma 1 del TUEL che
non prevede alcun limite.
In proposito, hanno statuito che <<la
questione verte sulla compatibilità tra le
disposizioni dettate dal d.lgs. 150/2009 in
tema di conferimento degli incarichi
dirigenziali a termine conferiti a soggetti
esterni all’amministrazione e la disciplina
dettata in materia per gli enti locali nel
d.lgs. 267/2000 (Testo unico
sull’ordinamento degli enti locali).
Il d.lgs. 27.10.2009 n. 150, in vigore dal
15.11.2009, ha introdotto, negli artt.
37–45, significative modifiche di alcune
disposizioni del titolo II, capo II, sezione
I, del d.lgs. 165/2001 in materia di
dirigenza pubblica.
Nelle ipotesi in esame rileva in particolare
l’art. 40 che, nel modificare l’art. 19,
commi 6 e seguenti, del d.lgs. n. 165/2001,
ha riformulato le disposizioni in materia di
conferimento degli incarichi dirigenziali a
termine a soggetti esterni
all’amministrazione.
Tale disposizione ha, in particolare:
- confermato i limiti percentuali della
dotazione organica entro cui conferire tali
incarichi dirigenziali (“entro il limite del
10 per cento della dotazione organica dei
dirigenti appartenenti alla prima fascia dei
ruoli di cui all'articolo 23 e dell'8 per
cento della dotazione organica di quelli
appartenenti alla seconda fascia");
- consentito il ricorso agli incarichi
esterni nelle sole ipotesi in cui non si
rinvengono, all’interno delle
amministrazioni, persone dotate della
qualificazione professionale richiesta;
introdotto la necessità di motivare in modo
esplicito le ragioni per le quali si intende
attingere a professionalità esterne;
- precisato il meccanismo di computo dei
limiti percentuali della dotazione organica
(il quoziente derivante dall'applicazione di
tale percentuale, è arrotondato all'unità
inferiore, se il primo decimale è inferiore
a cinque, o all'unità superiore, se esso e'
uguale o superiore a cinque).
Tali disposizioni sono state espressamente
ritenute applicabili alle amministrazioni di
cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs.
165/2001, tra cui anche gli enti locali
(comma 6-ter del citato art. 19 del d.lgs.
165/2001, introdotto dall’art. 40 del d.lgs.
150/2009)>> (Sez. Riun. in sede di
contr. n. 12 e n. 13 dell’08.03.2011).
2° quesito: se
<<l’Ente possa determinare un ragionevole
tetto percentuale per il conferimento di
incarichi dirigenziali a tempo determinato,
svincolandosi dalle percentuali previste per
la dirigenza statale ed, in particolare, se
possa dare quattro incarichi a tempo
determinato ex art. 110 TUEL, attingendo,
per tre di essi, a personale interno>>.
Avendo risolto il primo problema nel senso
che il nuovo comma 6 dell’art. 19 TUPI si
applica anche agli enti locali, si pone
l’ulteriore problema se le percentuali
previste dalla norma (10 per cento della
dotazione organica per i dirigenti di prima
fascia e 8 per cento della dotazione
organica per i dirigenti di seconda fascia)
siano applicabili o se sia possibile sommare
le stesse, attesa l’assenza di tale
distinzione per la dirigenza degli Enti
Locali.
In proposito, le Sezioni Riunite hanno
statuito che <<l’espressa estensione
della predetta disciplina anche agli enti
locali, pone problemi di compatibilità con
la specifica disciplina dettata in materia
di incarichi dirigenziali esterni contenuta
nell’art. 110 del TUEL>>.
In particolare, <<il tenore letterale
dell’art. 110, comma 1 –la cui disciplina
(che demanda allo statuto dell’ente la
possibilità di coprire, con contratti a
tempo determinato, i posti dei responsabili
dei servizi o degli uffici, sia di qualifica
dirigenziali che di alta specializzazione)
non appare completamente sovrapponile a
quella contenuta nell’art. 19, comma 6 del
d.lgs. 165/2001– esclude, in primo luogo, la
configurazione, nel caso all’esame, di una
ipotesi di abrogazione tacita di tale
disposizione ad opera della norma
intervenuta successivamente.
La questione sottoposta alle Sezioni riunite
concerne pertanto, più propriamente, la
diretta applicabilità agli enti
territoriali, limitatamente al conferimento
degli incarichi dirigenziali a contratto
previsti nell’art. 110, comma 1, del TUEL,
delle disposizioni contenute nell’art. 19,
commi 6 e 6-bis, del d.lgs. 165/2001,
malgrado il richiamo, contenuto nell’art. 27
del d.lgs. 165/2001 e nell’art. 111 del TUEL,
alla autonomia statutaria e organizzativa
riconosciuta agli enti locali.
Soccorre al riguardo il principio, sotteso a
più di una disposizione dello stesso d.lgs.
150/2009, in base al quale si considerano
direttamente applicabili le norme che
contengono i principi di carattere generale,
escludendo, per contro, la immediata
applicabilità delle norme che introducono
modalità operative o misure di dettaglio.
E che le disposizioni dettate dall’art. 19,
comma 6 e 6-bis, del d.lgs. 165/2001 debbano
essere considerate espressione di principi
di carattere generale discende, in primo
luogo, dalla interpretazione data dalla
Corte Costituzionale nella recente sentenza
n. 324/2010. La Consulta, eliminando ogni
incertezza, ha, infatti dichiarato infondate
le questioni di legittimità costituzionale
sollevate dalle Regioni Piemonte, Toscana e
Marche, in ordine all’art. 40, comma 1,
lett. f), del d.lgs. 150/2009, confermando
l’applicazione immediata e diretta delle
citate norme sia nell’ordinamento delle
Regioni sia in quello degli enti locali, cui
spetta pertanto un corrispondente obbligo di
adeguamento.
La sentenza della Corte Costituzionale
afferma, in particolare, che l’art. 19,
comma 6, del d.lgs. 165/2001 non riguarda né
procedure concorsuali pubblicistiche per
l’accesso al pubblico impiego né la scelta
delle modalità di costituzione di quel
rapporto, con la conseguenza che non può
rilevarsi alcuna violazione degli artt. 117
e 119 della Costituzione giacché la norma
impugnata non attiene a materie di
competenza concorrente (coordinamento della
finanza pubblica) né di competenza residuale
regionale (organizzazione delle Regioni e
degli uffici regionali, organizzazione degli
enti locali).
Secondo la Consulta, atteso che il
conferimento di incarichi dirigenziali a
soggetti esterni si realizza mediante la
stipulazione di un contratto di lavoro di
diritto privato, il legislatore statale ha
correttamente esercitato la propria potestà
legislativa adottando una normativa
riconducibile alla materia dell’ordinamento
civile sia per la fase costitutiva di tale
contratto, sia per quella del rapporto che
sorge per effetto della conclusione di quel
negozio giuridico. Trattandosi pertanto di
materia che l’art. 117, secondo comma,
lettera l), della Costituzione attribuisce
alla competenza esclusiva dello Stato,
l’immediata e diretta applicazione anche
agli ordinamenti locali e regionali della
disciplina contenuta nell’art. 19 del d.lgs.
165/2001, al pari degli istituti previsti
nelle disposizioni indicate nell’art. 74,
comma 1, del d.lgs. 150/2009, non determina
una violazione della Costituzione.
Quanto all’ambito applicativo, la
disposizione introdotta con l’art. 19, commi
6 e 6-bis, del d.lgs. 165/2001, è stata
valutata dalla Corte Costituzionale, nel suo
complesso, con riferimento in particolare ai
requisiti soggettivi che debbono essere
posseduti dal contraente privato (adeguata
motivazione del possesso di particolare e
comprovata qualificazione professionale,
valutata anche sulla base di precedenti
esperienze lavorative, non rinvenibile nei
ruoli dell’Amministrazione), alla durata
massima del rapporto (non superiore a cinque
anni) e ad alcuni aspetti del regime
economico e giuridico (l’indennità che –ad
integrazione del trattamento economico– può
essere attribuita al privato e le
conseguenze del conferimento dell’incarico
su un eventuale preesistente rapporto di
impiego). Resta invece sullo sfondo, anche
nell’ambito della decisione della Consulta,
la disposizione concernente i limiti
percentuali della dotazione organica
nell’ambito dei quali è concesso agli enti
locali conferire incarichi dirigenziali a
soggetti esterni. Trattandosi, in ogni caso,
di presupposti di fatto attinenti la
costituzione del rapporto di lavoro, appare
coerente con l’interpretazione accolta dalla
Corte Costituzionale ritenere che siano
immediatamente vincolanti per gli enti
territoriali.
La disciplina dettata dall’art. 19, comma 6,
d.lgs. n. 165 del 2001 va infatti
considerata nel suo complesso proprio alla
luce dei principi indicati dal legislatore
nella legge delega n. 15/2009 volti, in
particolare, a ridefinire la disciplina
relativa al conferimento degli incarichi a
soggetti estranei alla pubblica
amministrazione e ai dirigenti non
appartenenti ai ruoli, prevedendo comunque
la riduzione, rispetto a quanto previsto
dalla normativa vigente, della quota della
dotazione organica entro la quale sia
consentito affidare detti incarichi. Tale
interpretazione risulta, inoltre, in linea
con la più recente giurisprudenza, anche
costituzionale, che, nell’obiettivo di
rafforzare il principio di distinzione tra
funzioni di indirizzo e di controllo
(spettanti agli organi di governo) e le
funzioni di gestione amministrativa
(spettanti alla dirigenza), ha espresso un
orientamento restrittivo nei confronti della
c.d. “dirigenza fiduciaria”, privilegiando,
per l’accesso alla dirigenza, il ricorso a
procedure selettive pubbliche e, per il
conferimento dei relativi incarichi, la
dirigenza di ruolo.
Quanto alle concrete percentuali
applicabili, queste Sezioni Riunite,
condividono l’orientamento seguito dalle
Sezioni regionali di controllo per la Puglia
e per il Veneto. Considerato quindi che la
contrattazione collettiva di comparto non
prevede la distinzione tra dirigenza di
prima e di seconda fascia, appare
ragionevole applicare la percentuale dell’8%
in considerazione del fatto che la
percentuale più elevata è prevista per la
dirigenza statale di prima fascia, ovvero
addetta ad uffici di livello dirigenziale
generale, che non trova previsione
equipollente nell’amministrazione locale. Va
conseguentemente esteso agli enti locali
anche il meccanismo di computo dei limiti
percentuali della dotazione organica (art.
19, comma 6-bis, del d.lgs. 165/2001) che,
superando le precedenti incertezze, ha
definitivamente precisato le modalità
applicative in base alle quali il quoziente
derivante dall'applicazione di tale
percentuale, deve essere arrotondato
all'unità inferiore, se il primo decimale è
inferiore a cinque, o all'unità superiore,
se esso è uguale o superiore a cinque>>
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 30.03.2011 n. 161). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA: Norme
antincendio su misura. Pratiche snellite e
proporzionali all'attività dell'azienda. In
vigore il dpr 151/2011. E una circolare del
Mininterno illustra le novità più rilevanti.
Antincendio su misura.
Da ieri è entrata in vigore la nuova
normativa (dpr 151/2011) che punta alla
semplificazione degli adempimenti per le
aziende. Le attività d'impresa sono
collocate in tre categorie, da quelle a
minore rischio incendi a quelle più
complesse e più soggette a tale rischio.
E gli adempimenti sono proporzionali a tale
classificazione: per le attività della prima
classe, cioè le meno complesse, basterà ad
esempio presentare la Segnalazione
certificata di inizio attività (Scia)
corredata dell'asseverazione di un tecnico e
si potrà partire. E non servirà più il
parere preventivo dei vigili del fuoco.
A chiarire le novità in vigore dal 7 ottobre
è la
lettera-circolare
06.10.2011 n. 13061 del Ministero
dell'interno, Dipartimento dei vigili del
fuoco, del soccorso pubblico e della difesa
civile, Direzione centrale per la
prevenzione e la sicurezza tecnica.
La circolare fornisce, per uniformità di
indirizzo, le prime indicazioni applicative
in attesa della emanazione dei decreti
attuativi previsti dal dpr 151. Obiettivo
del regolamento, precisa la circolare, il
bilanciamento degli interessi di tutela
della sicurezza delle persone con le
esigenze di semplificazione e riduzione
degli oneri a carico delle imprese che
potranno rivolgersi al Suap (Sportello unico
attività produttive) o direttamente ai
comandi provinciali.
Articolata in sette distinti paragrafi, la
nota esamina innanzitutto quelle che sono le
novità sostanziali introdotte dal
sopraindicato dpr 151/2011, che adotta come
«metro» per modulare gli adempimenti
amministrativi il principio di
proporzionalità. Questi infatti, come detto,
sono diversificati in rapporto alle 3
categorie, A, B e C, nelle quali il
regolamento inquadra, in base alla gravità
del rischio, le attività d'impresa
sottoposte ai controlli di prevenzione
incendi di competenza dei vigili del fuoco.
Nella categoria A sono ricomprese attività
di limitata complessità e che hanno una
regola tecnica di riferimento; nella B sono
individuate le stesse attività della A,
quanto a tipologia, ma caratterizzate da un
livello di complessità più alto e prive di
una regolamentazione tecnica specifica di
riferimento.
Nella categoria C, infine, rientrano
attività con livello di complessità ancora
più elevato, indipendentemente
dall'esistenza o meno di una regola tecnica
di riferimento. Per le attività inserite
nella classe A, non sarà più previsto il
preventivo parere di conformità dei comandi
dei vigili. In sostanza, prima dell'inizio
dell'attività, il titolare presenterà una
Scia che sarà corredata dall'asseverazione
del tecnico il quale attesterà la conformità
dell'opera alla regola tecnica prevista per
quella determinata fattispecie e, ove
previsto, al progetto approvato dal relativo
comando provinciale. Inoltre, alla medesima
Scia dovranno essere allegate le
certificazioni e le dichiarazioni atte a
comprovare che i prodotti, i dispositivi e
gli impianti sono stati realizzati,
installati o posti in opera in conformità
alla normativa in materia di sicurezza
antincendio.
Rilevante il fatto che per le attività
inserite nelle categoria A e B, i controlli
avverranno entro 60 giorni dal ricevimento
della Scia, mediante metodo a campione o in
base a programmi settoriali. Sarà la
Direzione centrale, in accordo con quelle
regionali, a fornire all'inizio di ogni anno
le tipologie di attività ed il numero di
controlli che dovranno essere effettuati dai
comandi provinciali. Entro il prossimo
dicembre almeno il due per cento delle
attività, individuate a sorteggio,
riceveranno la visita del Comando che
rilascerà, a richiesta degli interessati, il
verbale della visita tecnica.
Per le attività di categoria C, invece, il
controllo sarà effettuato entro 60 giorni.
Solo in caso di esito positivo sarà
rilasciato il certificato di prevenzione
incendi che, comunque precisa la circolare,
non è più un provvedimento finale di un
procedimento amministrativo, ma costituisce
soltanto il risultato del controllo
effettuato e non ha scadenza temporale
(articolo ItaliaOggi dell'08.10.2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Nuovo regolamento di prevenzione
incendi - d.P.R. 01.08.2011 n. 151
(Ministero dell'Interno,
nota 05.10.2011 n. 4865 di prot.). |
PUBBLICO IMPIEGO: P.a.,
il taglio non tocca le pensioni. Sulla parte
di stipendio ridotta si pagano comunque i
contributi. Una circolare Inpdap illustra
gli effetti previdenziali delle disposizioni
previste dal dl 78/2010.
Il taglio degli stipendi
pubblici non tocca le pensioni. Infatti,
sulla quota ridotta delle retribuzioni (in
misura del 5-10%), operati agli impiegati
statali con stipendi sopra i 90 mila euro
per il triennio 2011/2013, devono comunque
essere pagati i contributi previdenziali.
A precisarlo è l'Inpdap, nella
nota operativa
05.10.2011 n. 22, illustrando i
riflessi contributivi sulle misure di
contenimento della spesa in materia di
impiego pubblico introdotte dalla manovra
estiva dello scorso anno.
L'istituto precisa, inoltre, che lo stop
triennale degli adeguamenti retributivi e
delle progressioni di carriera, invece,
determina automaticamente un ridotto
versamento contributivo e, quindi, una
minore copertura pensionistica.
Stop agli aumenti
retributivi.
Le misure analizzate dall'Inpdap sono tre, e
tutte previste dall'articolo 9, commi 2 e 21, del dl n. 78/2010, convertito dalla legge
n. 122/2010. La prima di queste prevede, per
gli anni 2011, 2012 e 2013, il blocco senza
successivi recuperi dei meccanismi di
adeguamento retributivo al personale (ex
all'articolo 3 del dlgs n. 165/2001).
In sostanza, come peraltro chiarito dal
ministero della pubblica amministrazione
(circolare n. 12/2011), questa misura
prevede nei confronti del predetto
personale, per il triennio 2011/2013,
l'interruzione di tutti gli automatismi
stipendiali, la cui naturale data di
maturazione slitta di tre anni (a
ripartire).
Per ciò che riguarda i riflessi
previdenziali, spiega l'Inpdap, l'imponibile
contributivo non subisce variazioni a
seguito dei mancati aumenti retributivi;
pertanto, le amministrazioni datori di
lavoro sono tenute a versare i contributi,
per la quota a proprio carico e per quelle a
carico dei lavoratori, in misura
corrispondente alle retribuzioni
effettivamente erogate.
Stop alle progressioni di
carriera.
La seconda misura è il blocco delle
progressioni di carriera, comunque
denominate, per gli stessi anni (2011/2013)
e per lo stesso personale individuato
dall'articolo 3 del T.u. sul pubblico
impiego (dlgs n. 165/2001), le quali
(progressioni) hanno effetto, per il
predetto triennio, esclusivamente ai fini
giuridici.
L'Inpdap precisa che, per le progressioni
interessate al blocco, in pratica, il
lavoratore acquista la posizione/qualifica
superiore mediante promozione, ma senza la
relativa remunerazione che otterrà soltanto
a partire dall'anno 2014 in poi. Anche in
questo caso, per quanto concerne i riflessi
previdenziali, l'imponibile contributivo non
subisce variazioni a seguito dei mancati
aumenti retributivi; pertanto, le
amministrazioni datori di lavoro sono tenute
a versare i contributi, per la quota a
proprio carico e per quelle a carico dei
lavoratori, in misura corrispondente alle
retribuzioni di fatto corrisposte.
Riduzione stipendi.
Diverso è il discorso sulla riduzione
straordinaria degli stipendi pubblici.
L'articolo 9, comma 2, del dl n. 78/2010
prevede che, dall'01.01.2011 e fino al
31.12.2013, i trattamenti economici dei
dipendenti superiori a 90 mila euro lordi
sono ridotti del 5% per la parte eccedente
tale importo e fino a 150 mila euro, nonché
del 10% per la parte eccedente i 150 mila
euro. La stessa norma inoltre precisa che «la
riduzione_ non opera ai fini previdenziali».
In questo caso, spiega l'Inpdap, la
previsione normativa è esplicita nel
garantire la tutela previdenziale, per cui
la riduzione retributiva non determina la
corrispondente riduzione della base
imponibile ai fini contributivi e
previdenziali.
Pertanto, le amministrazioni devono
calcolare i contributi sull'intera
retribuzione, senza cioè tener conto della
riduzione del 5-10%, e denunciarli e
versarli sia per la quota a proprio carico
che per la quota a carico dei lavoratori
(articolo ItaliaOggi dell'08.10.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Il
fisco fa luce sugli accatastamenti rurali.
Con la
circolare
22.09.2011 n. 6/T, l'Agenzia del Territorio
precisa le nuove regole per l'accatastamento
dei fabbricati rurali.
L'argomento ci appare interessante in quanto
sono molti i Comuni che presentano casi di
accertamento ai fini Ici di immobili che
presentano o meno tali caratteristiche di
ruralità.
Ciò riveste carattere di particolare novità,
in quanto per la prima volta, a seguito
delle modifiche introdotte con l'art. 7,
commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, del decreto
legge 13.05.2011, convertito con
modificazioni in legge 12.07.2011, il
fisco precisa le procedure, a carico dei
proprietari, per l'accatastamento dei
fabbricati rurali nelle categorie catastali
A/6 e D/10 .
Innanzi tutto appare utile ricordare come la
materia sia già disciplinata dall'art. 9 del
dl 30.12.1993 n. 557 (poi convertito
nella legge 26.02.1994 n. 133).
La nuova norma in realtà reperisce la
«stretta» operata dalla giurisprudenza sui
benefici fiscali connessi alla ruralità
degli immobili che sono, ad avviso della
Cassazione, da destinarsi esclusivamente ai
fabbricati censiti come A/6 e D/10, a
seconda dell'uso (rispettivamente abitativo
o strumentali di detti immobili).
Con successivo decreto ministeriale del 14.09.2011, sono state stabilite le
modalità applicative e la documentazione
necessaria per la presentazione della
certificazione per il riconoscimento della
ruralità dei fabbricati.
Per ciò che concerne gli immobili già
censiti in catasto, i proprietari devono
attestare mediante autocertificazione il
possesso dei suddetti requisiti; ciò sarà
oggetto, ovviamente del controllo ai fini
Ici per quanto riguarda gli enti locali
comunali che avranno modo di verificare tali
requisiti.
Crediamo sia da segnalare la novità,
prevista dal dm 14.09.2011, della
istituzione nella categoria A/6, della
classe «R», che è attribuita,
indipendentemente dalle caratteristiche
intrinseche dell'unità presa in
considerazione, a tutte le unità immobiliari
ad uso abitativo, ancorché strumentali
all'attività agricola, purché siano
verificati i relativi requisiti di ruralità.
Si ricorda, tuttavia, che, ai sensi
dell'art. 9, comma 3, lettera e) del decreto
legge n. 557 del 1993, è precluso il
riconoscimento della ruralità ai fabbricati
che hanno le caratteristiche delle unità
immobiliari appartenenti alle categorie A/1
e A/8.
Analoga preclusione avviene per gli immobili
aventi le caratteristiche «di lusso».
La presentazione della documentazione deve
(o doveva) avvenire mediante presentazione
all'Ufficio provinciale dell'Agenzia del
territorio territorialmente competente (di
seguito «Ufficio»), entro la data del 30.09.2011.
Dato lo strettissimo termine concesso (e
scaduto da poco) si ritiene che
presumibilmente l'Agenzia del territorio
concederà una proroga a tale termine.
Di particolare rilievo appare che nella
prevista autocertificazione, il richiedente
dichiari, tra l'altro, che l'immobile
possiede, in via continuativa, a decorrere
dal quinto anno antecedente a quello di
presentazione della domanda, i requisiti di
ruralità di cui all'articolo 9 del decreto
legge n. 557 del 1993.
Ciò appare importante anche per i profili di
accertamento ai fini Ici e delle altre
imposte dirette: infatti, il periodo
quinquennale adesso cennato copre
integralmente gli anni potenzialmente
accertabili.
La Circolare inoltre evidenzia che, qualora
il fabbricato sia entrato nel possesso del
soggetto dichiarante da meno di cinque anni,
il modello di autocertificazione prevede la
possibilità di integrare la documentazione
con una ulteriore autocertificazione, resa
dai precedenti titolari dei diritti reali o
dai loro eredi, con cui può essere
dichiarata la sussistenza dei requisiti di
ruralità anche per il periodo anteriore,
necessario a completare il quinquennio
previsto dalla legge.
Regole particolari sono riservate alle
procedure «dogfa» ancora in essere alla data
del decreto.
Vediamo adesso le due conseguenze che ci
possono essere per la richiesta di
accatastamento dei fabbricati rurali. In
caso di esito positivo, l'Ufficio convalida
l'autocertificazione attribuendo la
categoria A/6, classe «R», per le unità
immobiliari a destinazione abitativa, e la
categoria D/10, per le unità aventi
destinazione diversa da quella abitativa
strumentali all'attività agricola,
mantenendo la rendita in precedenza
attribuita.
L'esito negativo dei controlli, invece,
comporta il mantenimento del classamento
originario; il mancato riconoscimento
dell'attribuzione della categoria catastale
richiesta è adottato con provvedimento
motivato ed è registrato negli atti
catastali mediante specifica annotazione,
riferita ad ogni unità immobiliare
interessata.
Concludendo, per quanto riguarda infine i
controlli effettuati dai comuni, allo scopo
di agevolare le attività di verifica, il
decreto stabilisce che l'Agenzia del
territorio rende disponibili ai comuni, sul
relativo portale, le domande di variazione
presentate dai contribuenti (articolo ItaliaOggi del 07.10.2011). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Impianti fotovoltaici senza
l'Ici.
Il mantenimento dell'attività agricola salva
dall'imposta. Due studi del Notariato sulla
disciplina fiscale e giuridica della
produzione di rinnovabili.
Gli impianti fotovoltaici non scontano l'Ici
per la continuazione, ancorché parziale,
della produzione agricola e acquisizione
della categoria «D/10» o per la possibile
funzione pubblica svolta, che permette
l'attribuzione della categoria «E/3» al
medesimo impianto.
Queste alcune indicazioni
fornite con due documenti:
1-
Alcune questioni civilistiche connesse
alla realizzazione di un impianto
fotovoltaico: prime note -
studio 14.07.2011 n.
221-2011/C;
2-
Profili fiscali degli atti relativi
agli impianti fotovoltaici -
studio 15.07.2011 n.
35-2011/T,
approvati in
luglio 2011 dalla Commissione studi
tributari del Consiglio nazionale del
notariato.
Profili civilistici. Il primo documento
(studio n. 221-2011/C) si sofferma
sull'inquadramento dell'impianto
fotovoltaico, con riferimento alla natura
mobile o immobile del bene, stante
l'applicazione di normative completamente
diverse, anche sotto il profilo fiscale. Il
documento ricorda che l'art. 812 c.c.
dispone che «sono beni immobili il suolo,
le sorgenti e i corsi d'acqua, gli alberi,
gli edifici e le altre costruzioni, anche
unite al suolo a scopo transitorio e in
genere tutto ciò che naturalmente o
artificialmente è incorporato al suolo».
Di conseguenza, resta fondamentale stabilire
quando si configuri l'unione o
l'incorporazione, ancorché transitoria, del
bene al suolo, presupposto necessario per
reputare immobili, dal punto di vista
strettamente giuridico, i beni che non lo
sono dal punto di vista naturalistico. Sul
tema, l'Agenzia del Territorio (circ.
3/T/2008) ritiene, in linea con la Suprema
Corte (Cassazione, sentenza n. 16824/2006),
di natura immobiliare la centrale elettrica,
con conseguente inquadramento del bene nella
categoria «D/1» e attribuzione di rendita,
mentre l'Agenzia delle Entrate (circ. n.
38/E/2008 e 46/E/2007) ritiene immobile è
solo ciò che non è possibile separare dal
terreno, senza alterare la funzionalità
dello stesso.
Non è di aiuto la disciplina
urbanistica (art. 12, dlgs 387/2003), ma è
evidente che la realizzazione di un impianto
di notevole potenza (superiore almeno ai 20
kw) configura un intervento di
trasformazione del territorio con la
necessità di ottenere il permesso a
costruire, mentre per la realizzazione di
impianti di potenza più contenuta è
richiesta la DIA (o SCIA); su tale assunto,
solo se l'impianto è di grosse dimensioni e
saldamente impiantato al suolo, lo stesso si
può inquadrare come immobile
Profili tributari. La questione della natura
mobiliare e/o immobiliare dell'impianto è di
estrema importanza, sia per i riflessi che
la stessa ha sulle fonti di finanziamento
(leasing, in primis) che sui profili
inerenti la regolarità catastale, che
possono incidere anche sulla natura
contrattuale. Il documento (studio n.
35-2011/T) evidenzia la possibilità di
ricorrere a diverse tipologie contrattuali,
per acquisire l'area su cui installare
l'impianto fotovoltaico, che comportano una
disciplina diversa dal punto di vista
tributario, sia per quanto concerne
l'imposizione indiretta che diretta.
Per
quanto concerne l'impianto realizzato sopra
gli edifici, un caso del tutto particolare è
quello relativo al lastrico solare, con
particolare riferimento alla possibile
attribuzione della categoria «F», ma la
commissione ritiene che gli stessi
mantengano la natura dell'edificio di
riferimento. Con riferimento all'emersione
di plusvalenze, viene evidenziato che la
cessione del diritto di superficie deve
essere assimilata alla cessione di beni
immobili, ai sensi dell'art. 9, dpr n.
917/1986, con l'applicazione della
disciplina (tassazione) indicata dall'art.
67 del medesimo testo unico, non potendo la
cessione risultare assimilabile alla
cessione dell'usufrutto o all'assunzione di
obbligazioni di permettere.
Per quanto
concerne le procedure di ammortamento, si
ribadisce la necessità di procedere alla
corretta qualificazione dell'impianto
(mobile e/o immobile), con la necessità di
procedere allo scorporo della quota che si
riferisce al terreno, pur consapevoli
dell'assenza di un coefficiente specifico,
ma tenendo conto di quanto già indicato
dalla prassi ministeriale (9% se bene
mobile, 4% se bene immobile) sul tema.
Risulta estremamente interessante, inoltre,
il paragrafo relativo alla tassazione Ici
con particolare riferimento a quanto sancito
da una recente giurisprudenza di merito (C.T.P.
di Bologna, sentenza 12/01/2009 n. 11) che
ha sostenuto la tesi della cosiddetta
«funzione pubblica» (utilità) degli impianti
fotovoltaici, con il possibile
accatastamento nella categoria «E/3» e
conseguente esenzione, ai sensi dell'art. 7, dlgs
n. 504/1992 (articolo ItaliaOggi del 06.10.2011). |
SICUREZZA LAVORO - VARI:
Formazione addetti alla prevenzione
incendi, lotta antincendio e gestione delle
emergenze (D.Lgs. 81/2008). Corsi di
aggiornamento
(Ministero dell'Interno,
nota 23.02.2011). |
ARAN |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
MODIFICA MANSIONI/ Qual
è il trattamento economico da riconoscere al
dipendente cui sono state conferite mansioni
superiori?
(parere
06.06.2011 n. RAL-126 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
MODIFICA MANSIONI/ E'
consentito conferire, anche più volte,
mansioni superiori al medesimo dipendente?
(parere
06.06.2011 n. RAL-125 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
MANSIONI SUPERIORI/ È
legittimo conferire le mansioni superiori ad
un dipendente della categoria C (ex 6^
qualifica - posizione economica C3) per la
sostituzione di un dipendente appartenente
alla categoria D (ex 8^ qualifica -
posizione economica D5) in part-time
verticale nei mesi di assenza di
quest'ultimo?
(parere
06.06.2011 n. RAL-124 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
MANSIONI SUPERIORI/
Possono essere conferite le mansioni
superiori relativamente al periodo di
assenza di un lavoratore per la fruizione
delle ferie?
(parere
06.06.2011 n. RAL-123 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
MANSIONI SUPERIORI/
Devono essere previste espressamente delle
risorse ai fini dell'attribuzione delle
mansioni superiori?
(parere
06.06.2011 n. RAL-122 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
MANSIONI SUPERIORI/ Un
dipendente è stato a suo tempo
riclassificato in qualifica inferiore per
inidoneità fisica ai sensi dell’art. 11 del
DPR n. 347/1983, non essendo possibile, per
mancanza di posti, utilizzarlo in altre
mansioni ascrivibili alla sua qualifica di
inquadramento. Lo stesso dipendente, a
seguito di progressione verticale, è stato
ora reinquadrato nella categoria
corrispondente alla qualifica superiore
originariamente posseduta.
La differenza di retribuzione tra le due
qualifiche, computata nel maturato per
anzianità ai sensi dell’art. 27, comma 2,
del DPR n. 347/1983 si conserva o viene
riassorbita?
(parere
06.06.2011 n. RAL-121 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
MANSIONI SUPERIORI/ In
caso di applicazione dell’art. 21, comma 4,
del CCNL del 06.07.1995 (e successive
modifiche) e di conseguente utilizzazione
del dipendente in mansioni proprie di
profilo professionale ascritto a categoria
inferiore, come deve applicarsi la
previsione dell’art. 4, comma 4, della L. n.
68/1999? Si può attribuire un assegno
personale?
E’ possibile applicare tale beneficio ai
casi verificatisi prima della stipulazione
del CCNL del 14.09.2000?
(parere
06.06.2011 n. RAL-120 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
MANSIONI SUPERIORI/ E’
possibile riclassificare in categoria
inferiore un dipendente su sua espressa
richiesta o, comunque, con il suo consenso?
(parere
06.06.2011 n. RAL-119 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
MANSIONI SUPERIORI/
Esistono 'differenze' tra il personale
dell'area di vigilanza classificato nella
posizione economica D1 in relazione al
diverso sistema di selezione utilizzato
dall'ente (da un lato selezione interna per
progressione verticale ai sensi dell'art. 4
del CCNL del 31.03.1999 e, dall’altro
riclassificazione ai sensi dell'art. 29 del
CCNL del 14.09.2000)?
(parere
06.06.2011 n. RAL-118 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
MANSIONI SUPERIORI/ E’
possibile utilizzare un messo comunale per
il ritiro e la consegna della
corrispondenza?
Quand’è che le mansioni possono essere
considerate equivalenti ai fini
dell’applicazione dell’art. 3, comma 2, del
CCNL del 31.03.1999?
(parere
06.06.2011 n. RAL-117 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
MANSIONI SUPERIORI/
Quali criteri devono essere seguiti per la
richiesta corretta di mansioni equivalenti?
(parere
06.06.2011 n. RAL-116 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
MANSIONI SUPERIORI/ Come
deve essere attuato il criterio della
'equivalenza delle mansioni'? in particolare
per la categoria A?
(parere
06.06.2011 n. RAL-115 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
MANSIONI SUPERIORI/ E’
possibile attribuire ad un lavoratore di
posizione tabellare D1 mansioni di un
profilo di livello superiore corrispondenti
ad una posizione economica D3?
Che valore ha il principio della equivalenza
delle mansioni nella categoria D?
(parere
06.06.2011 n. RAL-114 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
MANSIONI SUPERIORI/ Come
deve essere correttamente interpretato il
principio della ‘equivalenza delle
mansioni’?
Possono essere indicati utili riferimenti
giurisprudenziali in materia?
L'affidamento di mansioni equivalenti può
comportare la eventuale erogazione di una
indennità correlata alle nuove attività?
(parere
06.06.2011 n. RAL-113 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Può il personale comandato presso altri
enti partecipare alle progressioni
orizzontali nell’ente di appartenenza?
(parere
05.06.2011 n. RAL-282 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Sono possibili progressioni orizzontali
per tutto il personale?
(parere
05.06.2011 n. RAL-281 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
E’ possibile escludere dalle selezioni
per la progressione economica orizzontale il
personale che abbia effettuato lunghi
periodi di assenza?
Il direttore generale dell’ente può
sostituirsi, nella valutazione, al
“funzionario responsabile”?
A chi è possibile presentare eventuali
ricorsi e entro quale termine?
(parere
05.06.2011 n. RAL-280 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
E’ possibile applicare la disciplina
delle progressioni orizzontali al personale
assunto a tempo determinato?
(parere
05.06.2011 n. RAL-279 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Per alcune Amministrazioni risulta
indispensabile conoscere l’importo della
progressione orizzontale. Sulla busta paga è
da ritenersi corretto lo scorporo della
retribuzione tabellare (di cui alla tabella
B allegata al ccnl) in due distinte voci:
stipendio tabellare e progressione
orizzontale?
(parere
05.06.2011 n. RAL-278 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Quali sono gli effetti della
sentenza con la quale il TAR ha annullato un
provvedimento di destituzione dall’impiego?
In particolare, il periodo intercorso tra la
destituzione e la riammissione in servizio è
utile ai fini della maturazione delle ferie
e ai fini della progressione economica
all’interno della categoria?
(parere
05.06.2011 n. RAL-277 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
E’ possibile ipotizzare nello stesso anno
più passaggi per effetto di progressione
economica orizzontale ai sensi dell'art. 5
del CCNL del 31.03.1999?
(parere
05.06.2011 n. RAL-276 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
E' possibile una valutazione "a
posteriori" ai fini della progressione
orizzontale?
(parere
05.06.2011 n. RAL-275 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
La valutazione del personale, ai fini
della progressione economica, ha cadenza
annuale?
(parere
05.06.2011 n. RAL-274 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Il ccnl del 22.1.2004 prevede la
costituzione – con decorrenza dal 31.12.2003
– di due nuove “categorie”, B7 e D6 (accesso
B3 e D3). A queste nuove categorie compete
l’assegno personale per differenza di I.I.S.?
(parere
05.06.2011 n. RAL-273 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
A seguito dell’attribuzione della
progressione economica ai sensi dell’art. 5
del CCNL del 31.03.1999, il dipendente ha
diritto alla riliquidazione, per l’anno di
riferimento della valutazione, delle voci
del trattamento economico variabile (come
l’indennità di turno, reperibilità,
straordinario, ecc.) che fanno riferimento,
ai fini della loro quantificazione, alla
nozione di retribuzione che ricomprende
anche le progressioni economiche orizzontali
(art. 52, comma 2, lett. b e lett. c)?
(parere
05.06.2011 n. RAL-272 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Il personale che arriva alla posizione B3
per progressione orizzontale mantiene il
diritto alla indennità di L. 125.000?
(parere
05.06.2011 n. RAL-271 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Presso un ente non si sono effettuate
progressioni economiche orizzontali negli
anni 2008 e 2009.
E’ legittimo, nel 2010, destinare una parte
del fondo di produttività relativa agli anni
2008 e 2009, all’attuazione delle
progressioni economiche orizzontali, con
decorrenza retroattiva dall’01.01.2008,
sulla base della valutazione del personale
riferita ai suddetti anni 2008-2009, secondo
i criteri già a suo tempo definiti in sede
di contrattazione integrativa?
(parere
05.06.2011 n. RAL-270 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Le nuove posizioni di sviluppo
economico (A5, B7, C5 e D6) possono essere
riconosciute e pagate anche con decorrenza
01.01.2003, come indicato nella tabella C
allegata al ccnl?
(parere
05.06.2011 n. RAL-269 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Le nuove posizioni di sviluppo economico
introdotte in ciascuna categoria dall’art.
35 del CCNL del 22.01.2004 (A5, B7, C5, e
D6) possono essere attribuite e remunerate
con decorrenza 01.01.2003?
(parere
05.06.2011 n. RAL-268 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Il contratto decentrato stipulato
nell’anno 2000, può consentire la
progressione economica orizzontale anche per
il 1999?
(parere
05.06.2011 n. RAL-267 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Un ente ha effettuato n. 2 progressioni
orizzontali con decorrenza 01.01.1999 e
01.01.2000, determinandone il costo a carico
delle risorse decentrate in ragione degli
incrementi previsti dal CCNL 01.04.1999
allora vigente (es. costo di una
progressione da C1 a C3 pari a € 70,11
mensili oltre 13^). In seguito
all’applicazione dei CCNL del 05.10.2001 e
del 22.01.2004 il costo di progressione
orizzontale del dipendente in C3 è stato
rivalutato rispettivamente di € 6.71 e di €
3.98 mensili oltre 13^.
Si formulano i seguenti quesiti:
1. l’importo da portare oggi in deduzione
delle risorse decentrate è quello iniziale
di € 70.11, considerato che l’art. 29 del
CCNL 22.01.2004 e la dichiarazione congiunta
n. 14 sembrano stabilire che gli incrementi
rispetto alla posizione iniziale (€ 6.71 e €
3.98) sono a carico del bilancio?
2. Il fondo di cui all’art. 17, comma 2,
lett. b), CCNL 01.01.1999 è composto dal
costo iniziale di progressione orizzontale
(€ 70.11), con risorse prelevate dal fondo,
e dai successivi adeguamenti (€ 6.71 ed €
3.98) con risorse prelevate dal bilancio
dell’ente?
3. Quando il dipendente cessa dal servizio
libera a favore del fondo il solo costo
iniziale (€ 70.11) o anche le successive
rivalutazioni (€ 6.71 ed € 3.98)?
(parere
05.06.2011 n. RAL-266 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
In caso di assunzione a seguito di
trasferimento da altro ente, l’importo della
progressione orizzontale eventualmente in
godimento da parte del lavoratore
interessato come viene finanziata?
A carico del bilancio o a carico delle
risorse decentrate stabili?
(parere
05.06.2011 n. RAL-265 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Il maggior incremento stipendiale
attribuito al dipendente in posizione C3,
pari a € 3,98 mensili (47,76 annui per 12
mensilità oppure 51,74 per 13 mensilità),
dovrà essere finanziato con oneri a carico
del bilancio dell’Ente o dovrà essere
finanziato con le risorse decentrate
decurtando di fatto gli altri istituti tra i
quali la produttività collettiva?
(parere
05.06.2011 n. RAL-264 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Gli incrementi contrattuali che il CCNL
del 05.10.2001, riconosce al personale
collocato nelle posizioni di sviluppo
economico del sistema di classificazione
devono essere finanziati a carico delle
risorse disponibili ai sensi dell’art. 15
del CCNL dell’01.04.1999?
(parere
05.06.2011 n. RAL-263 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Con quali modalità deve essere erogato
l’importo corrispondente al valore della
posizione economica di sviluppo acquisita
per effetto di progressione economica?
(parere
05.06.2011 n. RAL-262 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Quali sono gli adempimenti necessari per
realizzare una corretta progressione
economica orizzontale del personale nel
periodo di permanenza nella stessa
categoria?
(parere
05.06.2011 n. RAL-261 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROGRESSIONI ECONOMICHE/
Qual'è l’esatta distinzione fra il
lavoratore che a seguito di progressione
economica orizzontale è collocato nella
posizione economica C2 rispetto a quello
collocato in C1?
(parere
05.06.2011 n. RAL-260 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROFILI PROFESSIONALI/
Qual è l’esatto trattamento economico da
applicare al dipendente assunto per concorso
pubblico?
Si può riconoscere il salario di anzianità
acquisito in un pregresso rapporto?
(parere
05.06.2011 n. RAL-112 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROFILI PROFESSIONALI/
E’ possibile riconoscere la retribuzione
individuale di anzianità maturata nell’Ente
di provenienza al dipendente assunto tramite
concorso?
(parere
05.06.2011 n. RAL-111 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROFILI PROFESSIONALI/ È
possibile per il dipendente imporre la
variazione del proprio profilo
professionale?
(parere
05.06.2011 n. RAL-110 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROFILI PROFESSIONALI/
E’ possibile stabilire un rapporto di
'gerarchia' tra i profili collocati nelle
posizioni tabellari B3 e D3 rispetto ai
profili collocati, rispettivamente, nelle
posizioni tabellari B1 e D1?
(parere
05.06.2011 n. RAL-109 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROFILI PROFESSIONALI/
E' consentito prevedere un profilo di
"Responsabile del servizio ragioneria"?
(parere
05.06.2011 n. RAL-108 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROFILI PROFESSIONALI/ A quale soggetto
istituzionale spetta il compito di definire
le declaratorie dei profili professionali?
(parere
05.06.2011 n. RAL-106 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
PROFILI PROFESSIONALI/
Quali sono gli adempimenti per
l'individuazione e la descrizione dei nuovi
profili professionali?
(parere
05.06.2011 n. RAL-105 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
ACCESSO E INQUADRAMENTO/
Per l’accesso dall’esterno alla categoria
D è possibile prevedere titoli di studio
diversi da quelli contenuti nell’allegato A
del CCNL 31/03/1999?
In particolare è possibile prevedere,
relativamente alla categoria D, p.ec. D1,
il titolo di studio della laurea (L) e,
relativamente alla categoria D, p.ec. D3,
il titolo di studio della laurea
specialistica (L.S)?
(parere
05.06.2011 n. RAL-104 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
ACCESSO E INQUADRAMENTO/
E’ vero che a partire dall’01.01.2002 le
posizioni di ingresso nelle diverse
categorie si sono ridotte da 6 a 4, a
seguito del venire meno delle posizioni B3 e
D3?
(parere
05.06.2011 n. RAL-103 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
ACCESSO E INQUADRAMENTO/
In caso di mobilità volontaria ex art. 30
del D.Lgs. n. 165/2001, è possibile che il
nuovo datore di lavoro attribuisca al
dipendente, attualmente in possesso di un
profilo professionale avente il tabellare
iniziale in D3, un profilo professionale
avente il tabellare iniziale in D1?
Precisiamo che il lavoratore si è dichiarato
d’accordo e che gli sarebbe comunque
garantito il trattamento economico in
godimento
(parere
05.06.2011 n. RAL-102 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
ACCESSO E INQUADRAMENTO/
Inquadramento del personale proveniente
da amministrazione pubblica di altro
comparto di contrattazione o da azienda
privata: esiste una disciplina di
riferimento che stabilisca le corrispondenze
tra le posizioni dei diversi sistemi di
classificazione?
(parere
05.06.2011 n. RAL-101 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
ACCESSO E INQUADRAMENTO/
Quale trattamento economico deve essere
corrisposto ai vincitori di concorso
pubblico? Possono essere confermati compensi
acquisiti in altre amministrazioni (RIA,
assegni ad personam, progressione
orizzontale, ecc.)?
(parere
05.06.2011 n. RAL-100 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
ACCESSO E INQUADRAMENTO/
Come deve essere determinato il
trattamento di un vincitore di concorso; per
la categoria D è possibile attribuire un
tabellare pari a D4?
(parere
05.06.2011 n. RAL-99 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/
ACCESSO E INQUADRAMENTO/
E' ancora possibile la trasformazione dei
posti apicali della ex sesta qualifica
funzionale di cui agli artt. 5 e 21 del DPR
n. 268/1987?
(parere
05.06.2011 n. RAL-98 - link a www.aranagenzia.it). |
NEWS |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Commissioni mutevoli.
Impattano le modifiche dei gruppi consiliari.
Il criterio di
proporzionalità indicato dall'articolo 38
del Testo unico.
QUESITO
Il criterio della proporzionalità, recato
dall'art. 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000,
deve essere riferito alla rappresentanza del
gruppo, ovvero deve riguardare anche la
suddivisione interna al gruppo stesso?
In caso di dissenso all'interno del gruppo,
il capogruppo ha la facoltà di sostituire i
componenti delle commissioni già designati
con altri componenti del gruppo, ovvero di
modificare le assegnazioni alle commissioni
già disposte, o di nominare un consigliere
in una commissione diversa da quella
richiesta dall'interessato?
RISPOSTA
In base alla riconosciuta autonomia
funzionale e organizzativa dei consigli
comunali, di cui all'art. 38, commi 2 e 3
del dlgs n. 267/2000, la materia riguardante
la costituzione ed il funzionamento dei
gruppi e delle commissioni consiliari è
regolata primariamente dalle apposite norme
statutarie e regolamentari di ogni ente
locale, per cui è alla stregua delle stesse
che vanno valutate e risolte le afferenti
questioni.
L'art. 38, comma 6, del Tuel cit., configura
le commissioni come organismi strumentali
dei consigli -«il consiglio si avvale di
commissioni»- e in quanto tali composte
esclusivamente con i membri del consiglio -«nel proprio seno»- con l'osservanza del
criterio proporzionale, in modo da
riprodurre nelle stesse, specularmente, le
forze politiche presenti nel consiglio
comunale.
Il criterio della proporzionalità indicato
dall'art. 38, comma 6, del Tuel n. 267 cit.
non può che intendersi riferito ai gruppi
consiliari, in quanto il parametro che
identifica le forze politiche presenti nel
consiglio è dato dai risultati elettorali
conseguiti dalle varie liste che hanno
partecipato alla competizione elettorale.
Poiché il gruppo è formato, di norma, dai
consiglieri eletti nella medesima lista, ne
deriva che il criterio della proporzionalità
con cui devono essere composte le
commissioni deve intendersi riferito ai
gruppi.
Qualora gli assetti politici, in linea di
principio non cristallizzati nel tempo,
dovessero mutare nell'arco della
consiliatura per effetto di dissociazioni
dall'originario gruppo di appartenenza
determinando, nel rispetto delle previsioni
regolamentari, la costituzione di nuovi
gruppi consiliari ovvero l'adesione a
diversi gruppi esistenti, occorrerà
procedere ad una revisione della
composizione delle commissioni, al fine di
ripristinare la conformità delle stesse al
criterio.
In merito al secondo quesito, in assenza di
puntuali disposizioni regolamentari che
pongano limiti o vincoli alla
discrezionalità nella designazione, si può
ritenere che il presidente del gruppo
disponga di ampi spazi di discrezionalità
comprensivi della potestà di variazione
delle designazioni già effettuate.
Peraltro, in assenza di una disciplina
locale espressa, non può rinvenirsi una
soluzione univoca ai quesiti prospettati, in
particolare in ordine alla possibilità, per
i singoli consiglieri, di esprimere
preferenze sull'espletamento dell'incarico
di rappresentante del gruppo in una delle
commissioni, o alla rilevanza da attribuire
alle eventuali diverse posizioni presenti
all'interno del gruppo nell'individuazione
dei consiglieri da inserire nelle
commissioni.
In tal senso le ipotesi di conflittualità
interna, allorché impediscano la formazione
di un'univoca volontà all'interno del gruppo
e, soprattutto, rendano difficoltoso il
regolare funzionamento dell'organo
assembleare, possono trovare soluzione in
norme che assicurino il regolare
funzionamento dei gruppi secondo metodi di
organizzazione democratica, adottate
dall'ente nell'ambito della propria
autonomia.
A titolo esemplificativo, merita menzione il
regolamento della Camera dei deputati, che,
all'art. 15-bis, relativo al gruppo misto,
ha individuato una compiuta disciplina per
la formazione della volontà all'interno del
gruppo stesso
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2011). |
APPALTI SERVIZI: Antitrust,
no al conto terzi nell'affidamento in house.
Illegittimo l'affidamento in house, a una
società strumentale interamente partecipata
da una regione, di attività di supporto al
responsabile del procedimento, di alta
sorveglianza e di Pcm (project construction
management) che non abbiano carattere
istituzionale e che soprattutto siano a
beneficio di un altro soggetto pubblico
(un'altra Regione).
È quanto ha affermato
l'Autorità garante della concorrenza e del
mercato nel parere
06.09.2011 n. 47798 di prot., emesso ai sensi
dell'articolo 22 della legge 287/1990 e
concernente la convenzione stipulata fra la
Regione Calabria, quattro Asl calabresi, la
Regione Lombardia e la Ilspa concernente la
realizzazione di quattro presidi
ospedalieri, Vibo Valentia, Piana di Gioia
Tauro, Sibaritide e Catanzaro).
In
particolare l'Antitrust ritiene in
violazione dell'articolo 13 della legge
248/2006 l'affidamento in via diretta alla Ilspa dell'attività di supporto al Rup e di
Pcm e alta sorveglianza per la fase
realizzativa degli interventi, considerato
che la Ilspa, fa parte del sistema regionale
della Lombardia ed è una società strumentale
della Regione lombarda (che ne detiene la
totalità del capitale).
In relazione alla
natura della società affidataria
l'Antitrust, nel parere trasmesso al
Presidente della Regione Calabria, evidenzia
come tale società avrebbe potuto svolgere in
house soltanto attività di valorizzazione e
sviluppo della dotazione infrastrutturale
della regione lombarda e soltanto a favore
della regione Lombardia.
Viceversa,
l'Autorità per la concorrenza e il mercato
pone in luce come la convenzione si
concretizzi «in un affidamento diretto alla Ilspa di attività che lungi dal consistere
nella produzione di beni e servizi
strumentali all'attività istituzionale della
regione Lombardia, vanno a beneficio di un
altro soggetto pubblico», cioè il
commissario delegato all'emergenza socio-economico-sanitaria
nella Regione Calabria, in violazione
dell'articolo 13 della legge 248/2006 che fa
divieto alla società strumentale di rendere
prestazioni a favore di altri soggetti
pubblici o privato
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Nuove unioni, fuoco di
fila.
Discutibili regolamentazione ad hoc e
bilanci. Nota di lettura dell'Anci sull'articolo 16 della
manovra di Ferragosto.
È molto discutibile la scelta di prevedere
una regolamentazione particolare per le
unioni che saranno costituite tra i comuni
aventi popolazione inferiore a 1.000
abitanti, così come si determina un «vuoto
normativo» a seguito del superamento dello
strumento bilancio preventivo in questi
enti.
Sono queste le principali critiche
che, sul terreno strettamente tecnico, sono
contenute nella
prima nota di lettura Anci delle
previsioni dettate dall'articolo 16 del dl
n. 138/2011, la c.d. manovra di ferragosto,
in materia di gestione associata.
Questa
nota è accompagnata da una tabella in cui
sono riassunti i termini entro cui il
governo deve adottare le misure
amministrative previste dal legislatore, le
regioni devono effettuare le proprie scelte
e i comuni dare corso ai vincoli dettati dal
legislatore. Ovviamente a queste critiche si
devono aggiungere le durissime proteste che
l'associazione dei comuni ha mosso alla
scelta di imporre come vincolante la
gestione associata di tutte le funzioni e i
servizi tra i piccoli comuni, nonché i dubbi
di legittimità costituzionale che solleva
tale scelta.
Le nuove regole prevedono che le unioni
costituite tra i comuni aventi popolazione
inferiore a 1.000 abitanti abbiano delle
significative differenziazioni rispetto a
quelle ordinarie, che ricordiamo essere
dalla stessa disposizione indicate come lo
strumento, insieme alle convenzioni,
attraverso cui i comuni con popolazione
inferiore a 5 mila abitanti devono dare
corso alla gestione associata delle funzioni
fondamentali.
Per la nota viene giudicata
come «farraginosa e discutibile la
differenziazione tra tali unioni (prive di
giunta – vedi comma 9) e quelle costituite
solo da comuni con popolazione superiore a
1.000 abitanti». Da evidenziare che la
considerazione che è un errore il ritenere
che queste unioni non debbano avere le
giunte, che invece scompaiono nei comuni
fino a 1.000 abitanti. Le principali
differenze sono quelle che vanno nella
direzione del potenziamento del ruolo della
unione rispetto a quello dei comuni, scelta
che si manifesta soprattutto assegnando alla
prima e non ai singoli municipi il potere di
approvazione dello statuto.
Una ulteriore considerazione fortemente
critica viene mossa alla scelta di privare
sostanzialmente i municipi fino a 1.000
abitanti del loro bilancio preventivo:
questi centri potranno solamente concorrere
alla redazione del documento contabile della
unione, approvando preventivamente un
documento di indirizzo che deve tenere conto
delle indicazioni suggerite ancor prima
dalla unione. Le modalità operative saranno
dettate con uno specifico decreto del
Ministero dell'Interno. Nel giudizio dell'Anci,
«si palesa anche un evidente vuoto normativo
per la mancanza di coordinamento del regime
di finanza locale dell'Unione tra i comuni
con popolazione inferiore a 1.000 abitanti,
indeterminata, rispetto alla vigente
disciplina dei trasferimenti erariali e del
federalismo fiscale municipale».
Il documento non fornisce chiarimenti su
alcuni aspetti poco chiari contenuti nella
disposizione e che meritano uno specifico
approfondimento, in quanto costituiscono un
fattore di essenziale rilievo per le scelte
che i comuni dovranno adottare. In primo
luogo, non viene detto se nei comuni con
popolazione superiore a 1.000 abitanti che
aderiscono alla unione e decidono di
assegnare ad essa la gestione di tutte le
proprie funzioni e servizi, le giunte
rimarranno in carica oppure saranno
travolte, come avviene nei comuni con
popolazione inferiore a 1.000 abitanti dal
momento in cui nasce la unione.
Non viene
inoltre chiarito se in questi piccolissimi
comuni, se si decide di dare corso alla
unica convenzione in luogo della
costituzione della unione, le giunte
rimangano in vita. Ed inoltre, si deve
ancora chiarire se la soglia demografica
minima di 5 mila abitanti prevista per le
unioni costituite tra i comuni aventi
popolazione inferiore a 1.000 abitanti si
debba o meno applicare anche nel caso in cui
questi enti stipulino una convenzione.
La prima scadenza prevista dal dl n.
138/2011 è fissata, ci dice il crono
programma degli adempimenti redatto dall'Anci,
per il 17 novembre, cioè due mesi dalla
entrata in vigore della legge di
conversione, e riguarda la possibilità
offerta alle regioni di scegliere soglie
minime di abitanti diverse rispetto a quelle
previste dal provvedimento per le gestioni
associate dei comuni fino a 1.000 abitanti e
di quelli fino a 5 mila abitanti.
Si deve inoltre ricordare che entro il
31.12.2011 i comuni fino a 5 mila abitanti
devono realizzare la gestione associata di
almeno due funzioni fondamentali e che
quelli fino a 1.000 abitanti possono
avanzare la proposta di unione di cui fare
parte entro il termine perentorio del 17.03.2012, cioè entro sei mesi dalla
entrata in vigore della legge di conversione
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento di demolizione dell'abuso
edilizio realizzato nella fascia di rispetto
di 10 mt. del corso d'acqua demaniale va
impugnato innanzi al Tribunale superiore
delle acque pubbliche e non dinanzi al Tar.
La giurisdizione del Tribunale superiore
delle acque pubbliche, prevista dall'art.
143, comma 1, lett. a), del R.D. n.
1775/1933, ha per oggetto i ricorsi avverso
provvedimenti amministrativi che siano
caratterizzati dall'incidenza diretta sulla
materia delle acque pubbliche: cosicché
rientra nella sua giurisdizione la
controversia «relativa al diniego di
rilascio di concessione in sanatoria,
opposto dall'autorità comunale in ragione
dell'edificazione dell'immobile da condonare
in violazione della fascia di rispetto di
dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi
dell'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n.
523; detto provvedimento, infatti, ancorché
emanato da un'autorità diversa da quelle
specificamente preposte alla tutela delle
acque, incide direttamente sul regolare
regime delle acque pubbliche, la cui tutela
ha carattere inderogabile in quanto
informata alla ragione pubblicistica di
assicurare la possibilità di sfruttamento
delle acque demaniali e il libero deflusso
delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti,
canali e scolatoi pubblici»
Sull'annullamento del provvedimento del
24.05.2011 prot. n. 4647, avente ad oggetto
“Ordinanza n. 2 del 24.05.2011”, con
la quale il Comune di San Pietro in Gu -
Area Tecnica e Tecnico Manutentiva, Servizi
per il Territorio, Ambiente e Lavori
Pubblici, in persona del Responsabile del
Procedimento, ha rigettato la richiesta di
concessione edilizia in sanatoria ed
ordinato la demolizione ed il ripristino
dello stato dei luoghi.
...
Come già affermato da questa stessa Sezione
in alcune recenti sentenze (cfr. Tar Veneto,
II, 03.01.2011, n. 3; Tar Veneto, II,
01.02.2011, n. 184) e ribadito anche dal
Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, VI,
09.05.2011, n. 2745), il provvedimento di
demolizione de quo è -per l'iter
procedimentale da cui è scaturito-
chiaramente posto a tutela della fascia d'inedificabilità
latistante un corso d'acqua demaniale: esso
andava pertanto impugnato innanzi al
Tribunale superiore delle acque pubbliche.
Invero, la giurisdizione di quest’ultimo
Tribunale, prevista dall'art. 143, comma 1,
lett. a), del R.D. n. 1775/1933, ha per
oggetto i ricorsi avverso provvedimenti
amministrativi che siano caratterizzati
dall'incidenza diretta sulla materia delle
acque pubbliche: cosicché rientra nella sua
giurisdizione la controversia
-intuitivamente affine a quella in esame- «relativa
al diniego di rilascio di concessione in
sanatoria, opposto dall'autorità comunale in
ragione dell'edificazione dell'immobile da
condonare in violazione della fascia di
rispetto di dieci metri dal piede
dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett.
f), r.d. 25.07.1904 n. 523; detto
provvedimento, infatti, ancorché emanato da
un'autorità diversa da quelle specificamente
preposte alla tutela delle acque, incide
direttamente sul regolare regime delle acque
pubbliche, la cui tutela ha carattere
inderogabile in quanto informata alla
ragione pubblicistica di assicurare la
possibilità di sfruttamento delle acque
demaniali e il libero deflusso delle acque
scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e
scolatoi pubblici» (Cass., S.U.,
12.05.2009, n. 10845).
Va, pertanto, dichiarato il difetto di
giurisdizione del giudice adito, indicando
nel Tribunale superiore delle acque
pubbliche quello che ne è fornito, anche ai
sensi e per gli effetti di cui all'art. 11
c.p.a.
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 06.10.2011 n. 1488 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vietato l’uso della canna fumaria
che non supera il colmo
Il Consiglio di Stato ha dichiarato
legittimo il provvedimento con il quale il
Comune ha inibito al proprietario di un
edificio residenziale l’uso della relativa
canna fumaria, che non supera il colmo
dell’edificio sul quale insiste.
Il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza 05.10.2011 n.
5474, confermando la precedente
sentenza del TAR, ha dichiarato legittimo il
provvedimento con il quale il Comune ha
inibito al proprietario di un edificio
residenziale l’uso della relativa canna
fumaria, motivato con riferimento al fatto
che è risultato provato che la medesima
canna non supera il colmo dell’edificio sul
quale insiste.
Nel merito viene fatto riferimento alla
mancata applicazione all’articolo 64 del
Regolamento di Igiene del Comune di Roma,
approvato con deliberazione n. 7395 del
12/11/1932 (e successive modifiche e
integrazioni), secondo il quale «Nella
città e nei centri abitati i fumaioli
dovranno essere elevati al di sopra del
fabbricato e, ove questo sia più basso di
quelli contigui, prolungati sino ad una
altezza sufficiente per evitare danno o
incomodo ai vicini»; risultando evidente
che la ratio di tale norma sia quella
di evitare che le canne fumarie provochino
immissioni nocive o comunque disturbo a
terzi e pertanto, laddove, come nel caso in
esame, per la peculiare configurazione
architettonica a scaloni, lo stabile abbia
due o più piani di copertura di diverso
livello, le canne fumarie debbono innalzarsi
oltre l’ultimo piano al fine di evitare
immissioni nocive a terzi.
Appare opportuno ricordare che le ultime
innovazioni legislative in materia di
disciplina edilizia, attribuendo precise (ed
esclusive) responsabilità ai progettisti,
richiamano –di fatto– la loro specifica
competenza nell’attuazione delle norme
tecniche in edilizia, che dovrebbero
risultare chiare ed univoche. La sentenza in
esame richiama, quale norma di riferimento,
un datato regolamento comunale di igiene (la
cui redazione, a sua volta, ha dovuto
rispettare le ancora vigenti Istruzioni
ministeriali 20.06.1896 in materia di
regolamenti locali sull’igiene del suolo e
dell’abitato); norma di immediata
applicazione anche se dovrebbe risultare
coordinata con le norme sulle installazione
dell’impianti tecnici negli edifici dettate
dal DM 37/2008 (che, sottraendo la materia
dal DPR 380/2001 TU edilizia, ha fatto
rivivere la disciplina dettata dalla legge
46/1990), le quali contemplano anche i
sistemi di evacuazione fumi e dichiarano
realizzati a regola d’arte gli impianti che
rispettino le norme e le regole dettate
dagli Enti di normazione (Uni, Cei, ecc.).
E’ appena il caso di ricordare che le «regole
tecniche», di applicazione obbligatoria,
derivano dalla attribuzione –tramite
provvedimento amministrativo- di tale
requisito alle «norme» (di
applicazione volontaria) emanate dagli Enti
di normazione; procedimento che, per quanto
riguarda gli impianti tecnici negli edifici,
è attuato quasi esclusivamente con
riferimento agli impianti di distribuzione
ed utilizzazione del gas (commento tratto da
www.legislazionetecnica.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sul divieto di commistione fra
requisiti di partecipazione e requisiti di
valutazione delle offerte.
Il bando di gara è un atto scindibile nelle
sue diverse clausole, con la conseguenza che
l'illegittimità di una di esse non si
estende automaticamente alle altre non
dipendenti.
Costituisce principio generale regolatore
delle gare pubbliche quello che vieta la
commistione fra i criteri soggettivi di
prequalificazione e quelli oggettivi
afferenti alla valutazione dell'offerta ai
fini dell'aggiudicazione. Detto canone
operativo, che affonda le sue radici
nell'esigenza di aprire il mercato premiando
le offerte più competitive ove presentate da
imprese comunque affidabili, unitamente al
canone di par condicio che osta ad
asimmetrie pregiudiziali di tipo meramente
soggettivo, trova in definitiva il suo
sostanziale supporto logico nel bisogno di
tenere separati i requisiti richiesti per la
partecipazione alla gara da quelli che
invece attengono all'offerta e
all'aggiudicazione.
Il bando di gara è un atto scindibile nelle
sue diverse clausole, con la conseguenza che
l'illegittimità di una di esse non si
estende automaticamente alle altre non
dipendenti e addirittura all'intero
provvedimento, comportando il rinnovo
dell'intera procedura. Tuttavia, a
conclusioni diverse deve giungersi quante
volte la clausola illegittima rivesta una
tale importanza (sotto il profilo
quali-quantitativo) nell'economia generale
della gara, da doversi ritenere che essa
rappresenti uno dei contenuti essenziali
delle determinazioni manifestate attraverso
l'indizione della procedura. In siffatte
ipotesi, non è possibile procedere al
giudizio di frazionamento della complessiva
disciplina di gara, attraverso la pura e
semplice avulsione della clausola
illegittima (e dei suoi effetti), né è
possibile valutare la disciplina di gara nel
suo complesso semplicemente come se la
clausola in parola non esset
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.10.2011 n. 5434 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
E' legittima l'ordinanza
contingibile ed urgente, ex art. 50, comma
5, del d.lgs. 267/2000, tendente a far
innalzare l'esistente canna fumaria, del
vicino di casa, avente due bocche di
emissione situate a una distanza di circa
tre metri e a quota inferiore rispetto al
filo superiore di due finestre
dall’abitazione dell'esponente, la quale
crea evidenti e constatati in loco problemi
igienico-sanitari.
Osserva il Collegio che il Sindaco di Sezze
ha emesso l’ordinanza contingibile e urgente
ai sensi dell’art. 50, comma 5, del d.lgs.
267/2000 (che attribuisce tale potere al
Sindaco per il caso di emergenze sanitarie o
di igiene pubblica a carattere
esclusivamente locale) a seguito della
segnalazione del responsabile del servizio
Igiene e Sanità in data 18.01.2001, il quale
rappresenta che a seguito di sopralluogo in
data 29.12.2000 è stato rilevata la presenza
di una canna fumaria da cui si dipartono due
bocche di emissione situate a una distanza
di circa tre metri e a quota inferiore
rispetto al filo superiore di due finestre
dall’abitazione dei vicini signori ... e
....
Al fine di eliminare gli inconvenienti
igienico-sanitari lamentati dagli esponenti,
il funzionario invita il Sindaco a emanare
apposito provvedimento ordinatorio
finalizzato all’innalzamento delle bocche di
emissione delle canne “nei confronti del
proprietario della canna fumaria, indicato
dagli esponenti nella persona della sig.ra
...”.
L’art. 6.15 del DPR 1392/1970 (Regolamento
per l'esecuzione della L. 13.07.1966, n.
615, vigente all’epoca dell’adozione
dell’impugnato provvedimento. recante
provvedimenti contro l'inquinamento
atmosferico, limitatamente al settore degli
impianti termici) stabilisce che “Le
bocche dei camini devono risultare più alte
di almeno un metro rispetto al colmo dei
tetti, ai parapetti ed a qualunque altro
ostacolo o struttura distante meno di 10
metri”.
L’inosservanza della norma nel caso concreto
è evidente e pertanto, anche alla luce della
succitata nota a firma del Responsabile del
Servizio Igiene e Sanità, l’ordinanza
contingibile e urgente del Sindaco di Sezze
appare immune dalle dedotte censure (TAR
Lazio-Latina,
sentenza 04.10.2011 n. 769 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 86, comma 3, del D.Lgs. n.
259 del 2003, nel ricondurre gli impianti di
telefonia mobile (qualificati come opere
aventi carattere di pubblica utilità) alle
opere di urbanizzazione, ha inteso
svincolare l’installazione di tali impianti
sul territorio comunale dalla destinazione
urbanistica di zona, con conseguente
illegittimità del provvedimento comunale che
sulla base della disciplina di zona che
prevede l’approvazione di uno strumento
urbanistico attuativo, nega al gestore di
impianti di telefonia mobile la richiesta
autorizzazione proprio in ragione della
mancata pianificazione dell’area mediante
detto strumento.
Il Collegio osserva che il ricorso merita
accoglimento, risultando fondato il terzo
motivo, rilevante eccesso di potere per
carenza di motivazione e di adeguata
istruttoria, nonché omessa applicazione
degli artt. 86 e 87 del D.Lgs. n. 259 del
2003.
In particolare, il diniego comunale risulta
motivato non già esponendo oggettive e
documentate valutazioni circa la non
correttezza dell’insediamento urbanistico e
territoriale dell’impianto, ma sulla base di
una presunta e non meglio individuata
incompatibilità tra l’impianto progettato e
la disciplina urbanistica della zona in cui
esso avrebbe dovuto essere installato, in
quanto zona “…di espansione di iniziativa
privata da attuarsi attraverso un piano
urbanistico preventivo…”.
Il Collegio deve osservare che l’art. 86,
comma 3, del D.Lgs. n. 259 del 2003, nel
ricondurre gli impianti di telefonia mobile
(qualificati come opere aventi carattere di
pubblica utilità) alle opere di
urbanizzazione, ha inteso svincolare
l’installazione di tali impianti sul
territorio comunale dalla destinazione
urbanistica di zona, con conseguente
illegittimità del provvedimento comunale che
–come è avvenuto nel caso di specie– sulla
base della disciplina di zona che prevede
l’approvazione di uno strumento urbanistico
attuativo, nega al gestore di impianti di
telefonia mobile la richiesta autorizzazione
proprio in ragione della mancata
pianificazione dell’area mediante detto
strumento (v. in termini: TAR Veneto, sez.
II, 22/05/2006 n. 1428; TAR Calabria –CZ-
sez. II, 06/03/2008 n. 269) (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 04.10.2011 n. 691 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
La posizione legittimante
l'accesso agli atti amministrativi non può
identificarsi con il generico e indistinto
interesse di ogni cittadino al buon
andamento dell’attività amministrativa, per
dovere essere invece la concreta pretesa
sussumibile in una fattispecie normativa
all’esito di una valutazione prognostica e
secondo un rapporto di chiara percepibilità.
Pertanto, se è vero che la situazione di
stabile collegamento con la zona in cui
viene realizzata una data opera è
sufficiente a radicare in capo al
proprietario, secondo il criterio della
vicinitas, una posizione differenziata
rispetto all’interesse generico di ogni
cittadino a conoscere l’attività dei
pubblici poteri, la conseguente
legittimazione a prendere visione dei
relativi atti amministrativi è
necessariamente circoscritta agli aspetti di
ordine edilizio, urbanistico e ambientale, i
soli che sono assistiti nell’ordinamento da
tutela in capo a chi adduca la semplice
prossimità all’area interessata
dall’intervento.
Ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b),
della legge n. 241 del 1990, nella materia
dell’accesso sono «interessati» “…i
soggetti privati, compresi quelli portatori
di interessi pubblici o diffusi, che abbiano
un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l’accesso”.
Come la giurisprudenza ha più volte avuto
modo di rilevare (v., tra le altre, TAR
Lombardia, Milano, Sez. III, 03.03.2010 n.
530; TAR Lazio, Sez. I, 09.09.2010 n.
32202), la posizione legittimante non può
identificarsi con il generico e indistinto
interesse di ogni cittadino al buon
andamento dell’attività amministrativa, per
dovere essere invece la concreta pretesa
sussumibile in una fattispecie normativa
all’esito di una valutazione prognostica e
secondo un rapporto di chiara percepibilità.
Pertanto, se è vero che la situazione di
stabile collegamento con la zona in cui
viene realizzata una data opera è
sufficiente a radicare in capo al
proprietario, secondo il criterio della
vicinitas, una posizione differenziata
rispetto all’interesse generico di ogni
cittadino a conoscere l’attività dei
pubblici poteri, la conseguente
legittimazione a prendere visione dei
relativi atti amministrativi è
necessariamente circoscritta agli aspetti di
ordine edilizio, urbanistico e ambientale, i
soli che sono assistiti nell’ordinamento da
tutela in capo a chi adduca la semplice
prossimità all’area interessata
dall’intervento.
In ragione di ciò, le ricorrenti non hanno
titolo all’accesso agli atti che attengono
alla selezione pubblica per la scelta
dell’area destinata alla localizzazione
dell’impianto fotovoltaico, per risolversi
una simile indagine nella mera verifica
della legittimità dell’attività della
pubblica Amministrazione, non funzionale
alla salvaguardia di un interesse giuridico
protetto (a norma dell’art. 24, comma 3,
della legge n. 241 del 1990 “non sono
ammissibili istanze di accesso preordinate
ad un controllo generalizzato dell’operato
delle pubbliche amministrazioni”).
Neppure può essere invocata la speciale
normativa dell’accesso in materia
ambientale, attesa la non immediata
riconducibilità ai profili di rilievo
paesaggistico/ambientale degli atti della
selezione oggetto della richiesta di accesso
rimasta inevasa (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 04.10.2011 n. 328 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Esula dalla competenza dei
geometri la progettazione di costruzioni
civili con strutture in cemento armato,
trattandosi di attività che, qualunque ne
sia l'importanza, è riservata solo agli
ingegneri ed architetti iscritti nei
relativi albi professionali.
Solo le opere in cemento armato relative a
piccole costruzioni accessorie rientrano
nella competenza dei geometri, risultando
ininfluente che il calcolo del cemento
armato sia stato affidato ad un ingegnere o
ad un architetto.
In buona sostanza, la competenza dei
geometri è limitata alla progettazione,
direzione e vigilanza di modeste costruzioni
civili, con esclusione di quelle che
comportino l'adozione -anche parziale- di
strutture in cemento armato; solo in via di
eccezione si estende anche a queste
strutture, a norma della lett. l) del
medesimo articolo 16, R.D. n. 274/1929 cit.,
purché si tratti di piccole costruzioni
accessorie nell'ambito di edifici rurali o
destinati alle industrie agricole, che non
richiedano particolari operazioni di calcolo
e che per la loro destinazione non
comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è
comunque esclusa nel campo delle costruzioni
civili ove si adottino strutture in cemento
armato, la cui progettazione e direzione,
qualunque ne sia l'importanza è pertanto
riservata solo agli ingegneri ed architetti
iscritti nei relativi albi professionali;
sotto tale angolazione deve escludersi che
le innovazioni introdotte nei programmi
scolastici degli istituti tecnici possano
ritenersi avere ampliato, mediante
l'inclusione tra le materie di studio di
alcuni argomenti attinenti alle strutture in
cemento armato, le competenze professionali
dei medesimi.
---------------
In ordine alle prestazioni ulteriori
(comprese in astratto nella competenza dei
geometri, affidate loro insieme con quella
della progettazione di costruzioni civili in
cemento armato), si estende -o meno- la
nullità del contratto, secondo che siano
strumentalmente connesse con l'edificazione
e implichino la soluzione di problemi
tecnici di particolare difficoltà, come la
redazione di un piano di lottizzazione,
oppure siano autonome e distinte dalla
realizzazione delle strutture in cemento
armato, come l'individuazione dei confini di
proprietà, la costituzione di servitù, lo
svolgimento di pratiche amministrative.
Conseguentemente:
a) è legittimo il provvedimento di
annullamento, in via di autotutela, di una
concessione edilizia per la demolizione di
un fabbricato (e la sua ricostruzione, con
nuova destinazione d'uso residenziale e
commerciale), per l'incompetenza del
geometra progettista, sia sotto il profilo
dell'entità della costruzione, atteso che la
competenza dei geometri è limitata alla
progettazione di modeste costruzioni civili,
sia sotto il profilo della necessità del
rispetto delle prescrizioni antisismiche;
b) il contratto con il quale viene affidata
a un geometra la progettazione di una
costruzione civile in cemento armato è
nullo, indipendentemente dalle dimensioni
eventualmente ridotte dell'opera o dalla
circostanza che il compito, su richiesta
dell'incaricato, è poi svolto da un
ingegnere o architetto;
c) è affetto da nullità il contratto di
prestazione d'opera che affidi a un geometra
calcoli in cemento armato e ciò anche ove il
compito, limitatamente a quelle strutture,
venga poi svolto da un professionista
abilitato, che ne sia stato officiato
dall'originario incaricato; è irrilevante, a
tali fini, che l'incarico sia distinto per
le parti in conglomerato e non sia stato
(sub)delegato dal geometra, ma conferito
direttamente dal committente stesso a un
ingegnere o architetto, in quanto non è
consentito neppure al committente scindere
dalla progettazione generale quella relativa
alle opere in cemento armato poiché non è
possibile enucleare e distinguere
un'autonoma attività, per la parte di tali
lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad
un architetto (il che appare senz'altro
esatto, poiché chi non è abilitato a
delineare l'ossatura, neppure può essere
ritenuto in grado di dare forma al corpo che
deve esserne sorretto);
d) solo le prestazioni accessorie, autonome
e distinte dalla realizzazione delle
strutture in conglomerato, come
l'individuazione dei confini di proprietà,
la costituzione di servitù, lo svolgimento
di pratiche amministrative, possono farsi
rientrare nella competenza dei geometri;
e) è nullo, ex art. 2231 c.c., il contratto
d'opera stipulato da un geometra, ed avente
ad oggetto la trasformazione di un
fabbricato artigianale fatiscente in un
complesso residenziale.
Il collegio non intende discostarsi dal
consolidato quadro ermeneutico tracciato
dalla più recente giurisprudenza civile,
amministrativa e penale, cui si rinvia a
mente dell'art. 74 c.p.a. (Cass. civ., II,
07.09.2009 n. 19292; id., 08.04.2009 n.
8543; 25.05.2007 n. 12193; Cons. St., V,
26.04.2011 n. 2537; id.,. IV, 05.09.2007 n.
4652; Cass. pen., III, 26.09.2000, secondo
cui anche in tali ipotesi sussiste il reato
di esercizio abusivo della professione di
ingegnere o architetto).
A norma dell'art. 16, lett. m), R.D.
11.02.1929 n. 274, e come si desume anche
dalle leggi 05.11.1971 n. 1086 e 02.02.1974
n. 64, che hanno rispettivamente
disciplinato le opere in conglomerato
cementizio e le costruzioni in zone
sismiche, nonché dalla legge 02.03.1949 n.
144 (recante la tariffa professionale),
esula dalla competenza dei geometri la
progettazione di costruzioni civili con
strutture in cemento armato, trattandosi di
attività che, qualunque ne sia l'importanza,
è riservata solo agli ingegneri ed
architetti iscritti nei relativi albi
professionali.
Solo le opere in cemento armato relative a
piccole costruzioni accessorie rientrano
nella competenza dei geometri, risultando
ininfluente che il calcolo del cemento
armato sia stato affidato ad un ingegnere o
ad un architetto.
In buona sostanza, la competenza dei
geometri è limitata alla progettazione,
direzione e vigilanza di modeste costruzioni
civili, con esclusione di quelle che
comportino l'adozione -anche parziale- di
strutture in cemento armato; solo in via di
eccezione si estende anche a queste
strutture, a norma della lett. l) del
medesimo articolo 16, R.D. n. 274/1929 cit.,
purché si tratti di piccole costruzioni
accessorie nell'ambito di edifici rurali o
destinati alle industrie agricole, che non
richiedano particolari operazioni di calcolo
e che per la loro destinazione non
comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è
comunque esclusa nel campo delle costruzioni
civili ove si adottino strutture in cemento
armato, la cui progettazione e direzione,
qualunque ne sia l'importanza è pertanto
riservata solo agli ingegneri ed architetti
iscritti nei relativi albi professionali;
sotto tale angolazione deve escludersi che
le innovazioni introdotte nei programmi
scolastici degli istituti tecnici possano
ritenersi avere ampliato, mediante
l'inclusione tra le materie di studio di
alcuni argomenti attinenti alle strutture in
cemento armato, le competenze professionali
dei medesimi.
I limiti posti dall'art. 16, lett. m) cit.
alla competenza professionale dei geometri:
a) rispondono ad una scelta inequivoca del
legislatore, dettata da evidenti ragioni di
pubblico interesse, che lascia
all'interprete ristretti margini di
discrezionalità, attinenti alla valutazione
dei requisiti della modestia della
costruzione, della non necessità di
complesse operazioni di calcolo e
dell'assenza di implicazioni per la pubblica
incolumità;
b) indicano, di contro, un preciso
requisito, ovverosia la natura di annesso
agricolo dei manufatti, per le opere
eccezionalmente progettabili dai predetti
tecnici anche nei casi di impiego di cemento
armato.
È pertanto esclusa la possibilità di
un'interpretazione estensiva o "evolutiva"
di tale disposizione, che, in quanto norma
eccezionale, non si presta ad applicazione
analogica, non potendosi pervenire ad una
diversa conclusione neppure in virtù delle
norme -art. 2, L. 05.11.1971 n. 1086 e art.
17, L. 02.02.1974 n. 64- che disciplinano le
costruzioni in cemento armato e quelle in
zone sismiche, in quanto le stesse
richiamano i limiti delle competenze
professionali stabiliti per i geometri dalla
vigente normativa professionale.
È stata inoltre esclusa l'illegittimità, e
quindi la disapplicabilità, delle
disposizioni dettate dall'art. 16 R.D.
274/1929, avente natura regolamentare, il
quale non contrasta con norme costituzionali
o ordinarie, essendo aderente ai criteri
della disposizione legislativa cui ha dato
attuazione (l'art. 7 L. 24.06.1923 n. 1395)
e comportando una razionale delimitazione
delle attività professionali consentite ai
geometri, in rapporto alla loro
preparazione.
---------------
In ordine alle prestazioni ulteriori
(comprese in astratto nella competenza dei
geometri, affidate loro insieme con quella
della progettazione di costruzioni civili in
cemento armato), si estende -o meno- la
nullità del contratto, secondo che siano
strumentalmente connesse con l'edificazione
e implichino la soluzione di problemi
tecnici di particolare difficoltà, come la
redazione di un piano di lottizzazione,
oppure siano autonome e distinte dalla
realizzazione delle strutture in cemento
armato, come l'individuazione dei confini di
proprietà, la costituzione di servitù, lo
svolgimento di pratiche amministrative.
Dai su esposti principi si sono tratti i
seguenti corollari applicativi:
a) è legittimo il provvedimento di
annullamento, in via di autotutela, di una
concessione edilizia per la demolizione di
un fabbricato (e la sua ricostruzione, con
nuova destinazione d'uso residenziale e
commerciale), per l'incompetenza del
geometra progettista, sia sotto il profilo
dell'entità della costruzione, atteso che la
competenza dei geometri è limitata alla
progettazione di modeste costruzioni civili,
sia sotto il profilo della necessità del
rispetto delle prescrizioni antisismiche;
b) il contratto con il quale viene affidata
a un geometra la progettazione di una
costruzione civile in cemento armato è
nullo, indipendentemente dalle dimensioni
eventualmente ridotte dell'opera o dalla
circostanza che il compito, su richiesta
dell'incaricato, è poi svolto da un
ingegnere o architetto;
c) è affetto da nullità il contratto di
prestazione d'opera che affidi a un geometra
calcoli in cemento armato e ciò anche ove il
compito, limitatamente a quelle strutture,
venga poi svolto da un professionista
abilitato, che ne sia stato officiato
dall'originario incaricato; è irrilevante, a
tali fini, che l'incarico sia distinto per
le parti in conglomerato e non sia stato
(sub)delegato dal geometra, ma conferito
direttamente dal committente stesso a un
ingegnere o architetto, in quanto non è
consentito neppure al committente scindere
dalla progettazione generale quella relativa
alle opere in cemento armato poiché non è
possibile enucleare e distinguere
un'autonoma attività, per la parte di tali
lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad
un architetto (il che appare senz'altro
esatto, poiché chi non è abilitato a
delineare l'ossatura, neppure può essere
ritenuto in grado di dare forma al corpo che
deve esserne sorretto);
d) solo le prestazioni accessorie, autonome
e distinte dalla realizzazione delle
strutture in conglomerato, come
l'individuazione dei confini di proprietà,
la costituzione di servitù, lo svolgimento
di pratiche amministrative, possono farsi
rientrare nella competenza dei geometri;
e) è nullo, ex art. 2231 c.c., il contratto
d'opera stipulato da un geometra, ed avente
ad oggetto la trasformazione di un
fabbricato artigianale fatiscente in un
complesso residenziale.
Da quanto esposto discende che ai fini
dell’autorizzazione amministrativa nessun
valore legale -o di presupposto legale–
avrebbe potuto assumere il progetto di
costruzione redatto e sottoscritto da
tecnico con qualifica di geometra,
considerato che la realizzazione è prevista
in conglomerato cementizio (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis,
sentenza 03.10.2011 n. 7670 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull'indicazione nelle gare di
appalto dei costi relativi alla sicurezza.
Gli oneri della sicurezza, sia nel comparto
dei lavori che in quelli dei servizi e delle
forniture vanno distinti tra oneri non
soggetti a ribasso finalizzati
all'eliminazione dei rischi da interferenze
(adeguatamente quantificati dalla stazione
appaltante nel DUVRI) ed oneri inclusi
nell'offerta, ed aperti quindi al confronto
concorrenziale, concernenti i costi
specifici connessi con l'attività delle
imprese, da indicarsi a cura delle stesse
nelle offerte rispettive, con conseguente
onere per la stazione appaltante di
valutarne la congruità (anche al di fuori
del procedimento di verifica delle offerte
anomale) rispetto all'entità ed alle
caratteristiche del lavoro, servizio o
fornitura.
Tutto ciò si evince dalle disposizioni
dell'art. 86, c. 3-bis e dell'art. 87, c. 4,
del D.Lgs. n. 163/2006, che impongono la
specifica stima ed indicazione dei (e dunque
di tutti i) costi relativi alla sicurezza,
tanto nella fase della "predisposizione
delle gare di appalto" (espressione che
deve intendersi riferita alla "predisposizione"
della documentazione di gara: bando, inviti
e richieste di offerta), quanto nella fase
della formulazione dell'offerta economica.
Pertanto, nella predisposizione della gara
(e cioè dei bandi e della documentazione
integrativa degli stessi), i costi relativi
alla sicurezza derivanti dalla valutazione
delle interferenze devono essere
specificamente indicati (ex art. 86, c.
3-bis., cit.) separatamente dall'importo
dell'appalto posto a base d'asta, con
preclusione di qualsivoglia facoltà di
ribasso dei costi stessi (art. 86, c. 3-ter,
del D.Lgs. n. 163/2006), in virtù della
preclusione legale di indisponibilità di
detti oneri da parte dei concorrenti,
trattandosi di costi necessari, finalizzati
con tutta evidenza alla massima tutela del
bene costituzionalmente rilevante
dell'integrità dei lavoratori (Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 03.10.2011 n. 5421 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sull'illegittimità
dell'esclusione da una gara di un
concorrente che abbia presentato la sola
prima pagina del certificato di iscrizione
alla Camera di Commercio prescritto a pena
di esclusione dal disciplinare di gara.
Ai sensi dell'art. 46 del D.Lgs. 163/2006,
la stazione appaltante non può sopperire con
il c.d. "potere di soccorso" alla
totale mancanza di un atto prescritto dalla
lex specialis di gara: difatti, i
criteri esposti ai fini dell'integrazione
riguardano semplici chiarimenti di un atto
incompleto, mentre l'omessa allegazione di
un documento o di una dichiarazione previsti
a pena di esclusione non può considerarsi
alla stregua di un'irregolarità sanabile e,
quindi, non ne è permessa la
regolarizzazione postuma, non trattandosi di
rimediare a vizi puramente formali, tanto
più quando non sussistano equivoci o
incertezze generati dall'ambiguità di
clausole della legge di gara.
Al contrario, il potere di richiedere
chiarimenti ed integrazioni alla ditta
partecipante si applica nelle ipotesi in cui
sussistono dubbi circa l'esistenza dei
requisiti richiesti dal bando ed in ordine
ai quali vi sia, tuttavia, un principio di
prova circa il loro possesso da parte del
concorrente, trattandosi di ipotesi
ontologicamente distinta da quella della
documentazione del tutto mancante: in tali
casi, sussistendo un indizio del possesso
dei requisiti richiesti, l'amministrazione
non può pronunciare l'esclusione dalla
procedura ma è tenuta a richiedere al
partecipante di integrare o chiarire il
contenuto di un documento già presente,
costituendo siffatta attività acquisitiva un
ordinario modus procedendi, ispirato
all'esigenza di far prevalere la sostanza
sulla forma.
Pertanto, nel caso di specie, è illegittimo
il provvedimento di esclusione da una gara
adottato da una stazione appaltante nei
confronti di un concorrente che abbia
presentato la sola prima pagina del
certificato di iscrizione alla Camera di
Commercio (documento prescritto a pena di
esclusione dal disciplinare di gara), in
quanto l'allegazione della prima pagina del
certificato camerale costituisce un valido
principio di prova in ordine al possesso di
tale certificazione (TAR Campania-Napoli,
Sez. VIII,
sentenza 30.09.2011 n. 4585 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ESPROPRIAZIONE: Esproprio. Variante
al Prg non basta.
Cittadino batte amministrazione. Bocciata la
delibera del Comune, che paga pure le spese
di giudizio ai privati. Stop al
provvedimento che destina la strada privata,
precedentemente al servizio di un fondo,
alla viabilità pubblica dopo la decisione di
costruire nuove case in zona. L'atto
approvato dall'ente locale infatti non
indica il titolo in base al quale si può
procedere all'esproprio. Mentre sarebbe
servito il piano di lottizzazione.
È quanto
emerge dalla
sentenza
29.09.2011 n. 5416 della IV Sez. del
Consiglio di stato.
L'amministrazione è sconfitta su tutti i
fronti. I privati proprietari del terreno
dove passa la strada oggetto del
procedimento ablativo hanno interesse a
ricorrere contro la delibera del Comune,
nonostante un mezzo passo indietro
dell'ente. In linea di principio la scelta
di programmazione non può essere ostacolata
dai cittadini perché gli amministratori
hanno tutto il diritto di dare al territorio
l'assetto più confacente all'interesse
pubblico per lo sviluppo delle aree: l'ente
è quindi libero di dare il via a una nuova
zona di espansione edificatoria e ai
relativi collegamenti con il preesistente
tessuto urbanistico.
Il fatto è che nella
decisione l'esproprio non risulta
giustificato: non si spiega quale concreto
interesse generale legittimi l'ablazione, se
ad esempio l'uso della strada privata si
protragga da tempo immemorabile da parte di
persone appartenenti alla comunità locale.
Insomma: senza darne adeguatamente conto
alla cittadinanza, il Comune non può
assumere decisioni che investono posizioni
di diritto già consolidate, come quella del
proprietario di viabilità a servizio
dell'azienda agricola da destinare invece al
transito di tutti.
Non mostra, il Comune, l'analisi
eventualmente effettuata dei rapporti e dei
limiti del nuovo dimensionamento urbanistico
del territorio. Né indica lo stato di
attuazione delle prescrizioni del piano
regolatore vigente. Diversamente da quanto
impone la normativa regionale, l'ente non
mette in relazione le nuove costruzioni
all'andamento demografico sul territorio,
che è poi la ragione per la quale la strada
privata dovrebbe essere asservita alla
viabilità.
Infine, di fronte alla nuova
zonizzazione, la sede programmatoria
urbanistica generale risulta inadeguata a
individuare i collegamenti stradali resi
necessari dalle nuove costruzioni:
l'operazione compete di solito agli
strumenti attuativi e, infatti, nella specie
è la stessa variante a indicare ad hoc
il piano di lottizzazione
(articolo ItaliaOggi del 07.10.2011). |
EDILIZIA PRIVATA: La
previsione di cui al comma 2 dell'art. 12
della legge n. 47 del 1985 (secondo cui
"quando la demolizione non può avvenire
senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, il sindaco applica una sanzione
pari al doppio del costo di produzione,
stabilito in base alla legge 27.07.1978 n.
392, della parte dell'opera realizzata in
difformità dalla concessione, se ad uso
residenziale, e pari al doppio del valore
venale, determinato a cura dell'ufficio
tecnico erariale, per le opere adibite ad
usi diversi da quello residenziale") non può
considerarsi limitata ai soli casi in cui
sia stata riscontrata una parziale
difformità rispetto ad un previo e già
rilasciato titolo abilitativo a costruire,
in quanto la norma deve trovare applicazione
anche quando la costruzione sia avvenuta in
assenza di concessione edilizia, essendo
costituito il presupposto per l'applicazione
della disciplina sanzionatoria pecuniaria in
questione, in luogo di quella reale, dalla
salvaguardia della staticità della parte non
abusiva del manufatto e non anche dalla
circostanza che l'abuso sia caratterizzato
da una parziale difformità rispetto ad un
previo rilascio concessorio.
Il pagamento delle sanzioni pecuniarie, se
esclude che le opere edilizie abusive
possano essere legittimamente demolite, non
ne rimuove, però, il carattere
antigiuridico, né tampoco legittima il
compimento di ulteriori lavori in difformità
o in assenza della concessione edilizia.
Osserva il Collegio, alla stregua della più
attenta giurisprudenza formatasi in materia
di applicabilità dell'art. 12 della legge n.
47 del 1985, che la previsione di cui al
comma secondo di detta norma non può
considerarsi limitata ai soli casi in cui
sia stata riscontrata una parziale
difformità rispetto ad un previo e già
rilasciato titolo abilitativo a costruire,
in quanto la norma deve trovare applicazione
anche quando la costruzione sia avvenuta in
assenza di concessione edilizia, essendo
costituito il presupposto per l'applicazione
della disciplina sanzionatoria pecuniaria in
questione, in luogo di quella reale, dalla
salvaguardia della staticità della parte non
abusiva del manufatto e non anche dalla
circostanza che l'abuso sia caratterizzato
da una parziale difformità rispetto ad un
previo rilascio concessorio (cfr. TAR
Calabria, CZ, sez. II, n. 2343
dell'08.10.2002 e C.d.S., sez. V, n. 2339
dell'11.05.2007).
Osserva, altresì, il Collegio, aderendo a
tesi già emersa da tempo, sia in sede
giurisprudenziale (cfr. C.d.S., sez. V, n.
1510 del 30.10.1995), sia in dottrina, che
il pagamento delle sanzioni pecuniarie, se
esclude che le opere edilizie abusive
possano essere legittimamente demolite, non
ne rimuove, però, il carattere
antigiuridico, né tampoco legittima il
compimento di ulteriori lavori in difformità
o in assenza della concessione edilizia.
In ciò, infatti, consiste la differenza tra
le previsioni contenute negli articoli 12 e
13 della legge n. 47 del 1985, che è stata
successivamente resa esplicita dal secondo
comma dell’art. 38 del d.P.R. n. 380 del
2001, soltanto però con riferimento
all’ipotesi di annullamento del permesso di
costruire, per differenziarla dalla diversa
e distinta ipotesi di cui all’art. 34 dello
stesso T.U. edilizia (accertamento di
conformità)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.09.2011 n. 5412 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO DELL’ENERGIA – Art. 12
d.lgs. n. 387/2003 – Termine di conclusione
del procedimento – Natura perentoria –
Inutile decorso – Ricorso avverso il
silenzio ex art. 117 c.p.a..
Dal testo dell'art. 12 D.Lgs. 387/2003 si
evince il termine di conclusione del
procedimento decorrente dalla data di
presentazione della relativa domanda ha
natura perentoria, con la conseguenza che al
suo inutile decorso l’interessato può
proporre il ricorso avverso il silenzio di
cui all’art. 117 c.p.a. (TAR Sicilia,
Palermo, Sez II, 19.03.2010, n. 3253 e
25.09.2009 n. 1539; TAR Sicilia, Catania,
Sez. I, 14.10.2008, n. 1819), tenuto anche
conto di quanto affermato nelle sentenze
della Corte Costituzionale n. 124 e n. 168
del 2010, con le quali la Corte ha affermato
che le Regioni, nel disciplinare gli
impianti per la produzione di energia da
fonti rinnovabili, "sono tenute al
rispetto dei principi fondamentali dettati
dal legislatore statale" e, in
particolare, il principio fissato dall'art.
12, comma 4, del D.L.vo n. 387/2003, il
quale stabilisce "il termine massimo per
il rilascio dell'autorizzazione alla
costruzione ed all'esercizio degli impianti"
(tratto da www.ambientediritto.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 29.09.2011 n. 2373 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
I presupposti necessari per
l'emanazione di provvedimenti contingibili
ed urgenti sono, da un lato, l'impossibilità
di differire l'intervento ad altro momento
in relazione alla ragionevole previsione di
danno incombente (da cui il carattere
dell'urgenza), dall'altro, l'inattuabilità
degli ordinari mezzi offerti dalla normativa
(da cui la contingibilità).
Con specifico riferimento, poi, ai
provvedimenti in materia di sanità ed
igiene, si è poi precisato che l'esercizio,
da parte del Sindaco, del potere di emanare
ordinanze è condizionato all'esistenza
dell’attualità od imminenza di un fatto
eccezionale, quale causa da rimuovere con
urgenza; del preventivo accertamento, da
parte degli organi competenti, della
situazione di pericolo e di danno e della
mancanza di strumenti alternativi previsti
dall'ordinamento, visto il carattere extra
ordinem del potere sindacale.
Secondo giurisprudenza consolidata (Cons.
Stato, sez. IV, 24.03.2006, n. 1537 e
22.06.2004, n. 4402), i presupposti
necessari per l'emanazione di provvedimenti
contingibili ed urgenti sono, da un lato,
l'impossibilità di differire l'intervento ad
altro momento in relazione alla ragionevole
previsione di danno incombente (da cui il
carattere dell'urgenza), dall'altro,
l'inattuabilità degli ordinari mezzi offerti
dalla normativa (da cui la contingibilità).
Con specifico riferimento, poi, ai
provvedimenti in materia di sanità ed
igiene, si è poi precisato che l'esercizio,
da parte del Sindaco, del potere di emanare
ordinanze è condizionato all'esistenza
dell’attualità od imminenza di un fatto
eccezionale, quale causa da rimuovere con
urgenza; del preventivo accertamento, da
parte degli organi competenti, della
situazione di pericolo e di danno e della
mancanza di strumenti alternativi previsti
dall'ordinamento, visto il carattere
extra ordinem del potere sindacale (TAR
Toscana Firenze sez. II 18.06.2009 n. 1070;
TAR Campania, Napoli, Sez. V, 14.10.2005, n.
16477).
Orbene, nel caso di specie, difettano tutti
i presupposti richiesti.
In primo luogo, è insussistente qualsiasi
profilo di tutela della “pubblica
incolumità”, posto che il provvedimento
è limitato alle possibili immissioni della
canna fumaria diretta “verso la finestra
della famiglia Montalto” ed incide,
quindi, esclusivamente nei rapporti tra i
privati. In secondo luogo non è
configurabile il requisito della
contingibilità, tenuto conto che l'ordinanza
gravata non reca alcuna motivazione in
ordine all’impossibilità, per il Comune -nei
limiti della propria competenza- di
utilizzare gli ordinari strumenti di
accertamento e contestazione, nel rispetto
delle regole procedimentali di
partecipazione. Infine, le ordinanze
impugnate non indicano nemmeno le concrete
situazioni di pericolo e di danno
limitandosi ad affermare che la canna
fumaria “… produce sostanze”, senza
specificarne la natura, l’effettiva
sussistenza e il grado di pericolosità (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 29.09.2011 n.
2371 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La clausola del bando con cui
l’Amministrazione si riserva la facoltà di
non aggiudicare la gara a proprio
insindacabile giudizio è da ritenere
illegittima, occorrendo, per costante
giurisprudenza, il rispetto dei principi di
correttezza e buona fede, nonché l’obbligo
di motivare tale scelta.
La clausola del bando con cui
l’Amministrazione si è riservata la facoltà
di non aggiudicare la gara a proprio
insindacabile giudizio è da ritenere
illegittima, occorrendo, per costante
giurisprudenza, il rispetto dei principi di
correttezza e buona fede, nonché l’obbligo
di motivare tale scelta (Tar Lazio, Roma, II,
n. 8975/2010; Tar Sardegna, I, n. 2167/2010;
in particolare, si segnala Tar Campania,
VIII, n. 555/2010, secondo cui “La
partecipazione alla gara evidenzia e
qualifica la posizione del concorrente che
vi è ammesso, cosicché non può
ragionevolmente escludersi una qualsiasi
tutela a fronte degli eventuali ripensamenti
dell'Amministrazione: l'interesse
all'aggiudicazione (che costituisce
l'obiettivo finale di ciascun concorrente)
ha un suo corollario nell'interesse allo
svolgimento e alla definizione della
procedura, secondo le regole fissate dalla
lex specialis. In tale caso, la
discrezionalità dell'Amministrazione,
seppure notevolmente ampia, non è dunque
senza limiti né è del tutto sottratta al
sindacato di legittimità”) (TAR Friuli
Venezia Giulia,
sentenza 29.09.2011 n. 382 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla legittimità dell'esercizio
del diritto di riscatto da parte di un
comune nei confronti di una società titolare
del servizio di gestione degli impianti di
illuminazione pubblica, nel caso in cui la
concessione originaria sia già scaduta.
L'art. 24 del r.d. 15.10.1925 n. 2578,
secondo cui il potere di riscatto deve
essere esercitato con il preavviso di un
anno, si applica per le concessioni di
servizi già affidati ai privati che vengono
a risolversi prima della naturale scadenza
contrattuale.
Pertanto, nel caso di specie, è legittimo
l'esercizio del diritto di riscatto da parte
del comune nei confronti della società
titolare del servizio di gestione degli
impianti di illuminazione pubblica, senza il
preavviso di un anno, in quanto l'originaria
concessione trentennale era scaduta al
momento dell'esercizio del riscatto e non
poteva considerarsi tacitamente prorogata in
base ad una apposita clausola della
convenzione, poiché prima della scadenza era
entrato in vigore l'art. 6 della l.
24.12.1993 n. 537, che ha introdotto il
divieto di rinnovo tacito dei contratti
delle pubbliche amministrazioni per la
fornitura di beni e servizi, con la
previsione -inserita in sede di successive
modifiche- della nullità dei contratti
stipulati in violazione del predetto
divieto.
Peraltro, l'esercizio del diritto di
riscatto non è subordinato al previo
raggiungimento di un accordo tra le parti
sullo stato di consistenza o sulla
quantificazione dell'indennizzo, in quanto,
la mancata definizione consensuale della
questione patrimoniale implica la rimessione
della controversia economica ad un apposito
collegio arbitrale (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 28.09.2011 n. 5403 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
L'osservanza delle forme di
pubblicità prescritte per i bandi di gara è
necessaria per consentire agli operatori del
settore di conoscere l'avvenuta indizione
delle procedure e decidere, di conseguenza,
se parteciparvi o meno.
L'osservanza delle forme di pubblicità
prescritte per i bandi di gara è necessaria
per consentire agli operatori del settore di
conoscere l'avvenuta indizione delle
procedure e decidere, di conseguenza, se
parteciparvi o meno, disponendo di un
congruo lasso di tempo per ponderare ed
eventualmente predisporre la loro offerta.
La tutela della concorrenza che il principio
di pubblicità persegue si declina, dunque,
nell'interesse del potenziale concorrente
alla conoscibilità della gara e alla
concreta possibilità di prendervi parte (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 28.09.2011 n. 4518 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
Distribuzione gas, 18 mesi per le gare.
Parere del Consiglio di stato sul dm.
Affidamento del servizio di distribuzione
del gas naturale: ci saranno fino a diciotto
mesi per fare le gare, la stazione
appaltante potrà essere il Comune più
popoloso o la Provincia e la gara verterà
anche sul valore di rimborso al gestore
uscente.
Il Consiglio di Stato, con il
parere
28.09.2011 n. 3598 sullo
schema di regolamento che detta i criteri di
gara e di valutazione dell'offerta per
l'affidamento del servizio della
distribuzione del gas naturale, attuativo
dell'art. 46-bis, comma 1, della legge n.
222 del 2007, ha sbloccato uno dei
provvedimenti centrali per la
liberalizzazione del pubblico servizio di
attività di distribuzione del gas. A questo
regolamento ne seguiranno altri due: quello
sulla definizione territoriale degli ambiti
minimi e quello sulla tutela
dell'occupazione del personale.
Il provvedimento individua il soggetto che
dovrà gestire la gara e i relativi poteri
sostitutivi, stabilisce quali siano gli
obblighi informativi dei gestori, il valore
di rimborso ai titolari degli affidamenti e
concessioni cessanti, il valore del rimborso
al gestore uscente a regime, la proprietà
degli impianti, gli oneri da riconoscere
all'ente locale concedente e ai proprietari
di impianti, i contenuti del bando di gara e
del disciplinare di gara e tutte le altre
norme sullo svolgimento della gara
(requisiti di partecipazione, commissioni di
gara, criteri di aggiudicazione).
Su questo
schema, particolarmente articolato e
complesso, il Consiglio di Stato aveva reso
un parere interlocutorio (adunanza del 05.05.2011) con il quale era stata disposta
una ulteriore istruttoria e venivano
richiesti elementi al Dicastero proponente
(MISE) che successivamente (04.08.2011)
ha dettagliatamente risposto ad una serie di
eccezioni che venivano fatte.
Con il parere la sezione consultiva dà il
via libera allo schema chiedendo al
Ministero, dopo avere preso atto della
correttezza dei chiarimenti, ritenuti
condivisibili, di precisare ancora alcuni
elementi. In particolare il Consiglio di
Stato invita l'amministrazione a considerare
l'opportunità di prevedere l'indicazione
diretta, nel regolamento, del Comune più
popoloso o della Provincia a fungere da
stazione appaltante nel caso in cui in un
ambito territoriale non vi sia un comune
capoluogo di provincia. La ragione di questa
richiesta risiede nel fatto che l'intervento
sostitutivo regionale potrebbe essere
limitato ai casi in cui o lo stesso comune
più popoloso o la maggioranza dei comuni
dell'ambito non ritengano possibile che tale
ente svolga convenientemente le funzioni di
stazione appaltante.
Il parere chiede inoltre di ridurre il
termine di 18 mesi decorsi i quali, in
assenza di emanazione del bando, scatta il
potere sostitutivo. Viene poi chiesto al
Mise di lasciare alla stazione appaltante la
valutazione sulla rilevanza delle sanzioni
applicate dall'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici valutare se l'esclusione
di un concorrente ai fini dell'esclusione di
un concorrente dalla gara (articolo ItaliaOggi del 06.10.2011). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Inizio attività, smaltimento
rifiuti svincolato dai 90 giorni.
Il T.U. Ambiente, nel
prevedere che la Provincia verifichi la
sussistenza dei presupposti e dei requisiti
richiesti per l'attività di smaltimento
rifiuti, consente che il potere di controllo
sia esercitabile anche in caso di
accertamento successivo alla decorrenza dei
termini di inizio dell'attività qualora si
verifichino irregolarità o il mancato
rispetto della norma tecnica a presupposto
della quale viene svolta l'attività.
La segnalata decisione affronta la delicata
questione circa il rilascio di
un’autorizzazione per l’inizio e
prosecuzione dell’attività di gestione dei
rifiuti, con particolare riguardo al potere
di controllo della P.A. esercitabile anche
dopo l’inizio della stessa.
Nello specifico, la ricorrente ha impugnato
il provvedimento con il quale la competente
Provincia aveva disposto il divieto di
prosecuzione dell’attività di smaltimento,
nonché quello emesso dall’Albo nazionale
delle imprese che svolgono la gestione dei
rifiuti con cui era stata disposta
l’archiviazione della domanda di iscrizione
al registro.
Ha eccepito, oltre al resto, la violazione
dell’art. 216, D.Lgs. n. 152/2006, oltreché
l’illegittimità derivata del provvedimento
dell’Albo in conseguenza dei vizi dell’atto
provinciale.
Con ricorso per motivi aggiunti, la medesima
ditta ha contestato che l’amministrazione
resistente aveva altresì integrato la
motivazione dei provvedimenti impugnati
mediante le proprie difese.
Il ricorso principale e quello aggiuntivo
sono stati rigettati in quanto infondati.
Il Collegio di Milano, infatti, ha
evidenziato come l’art. 216, T.U. Ambiente
prevede una procedura semplificata, mediante
denunzia d'inizio d'attività, di
autorizzazione allo smaltimento dei rifiuti.
Nel dettaglio, mentre il comma 1 della
menzionata disposizione sancisce che
l'attività può essere intrapresa decorsi
novanta giorni dalla comunicazione d'inizio
di attività alla Provincia territorialmente
competente, il comma 3 prevede che, entro
quel termine, la Provincia deve verificare
d'ufficio la sussistenza dei presupposti e
dei requisiti per l'esercizio dell'attività
e il comma 4 che, accertato il mancato
rispetto delle norme tecniche e delle
condizioni di cui al comma 1, la Provincia
dispone il divieto d'inizio o di
prosecuzione dell'attività.
Orbene, richiamata la normativa di
riferimento, il TAR lombardo ha sottolineato
come la comunicazione di inizio attività,
benché in termini generali sortisce effetto
già per il decorso del termine di 90 giorni
in assenza di specifici divieti o richieste
di integrazioni documentali da parte della
Provincia, soggiace alle disposizioni
richiamate dall’art. 214 T.U. Ambiente,
ovvero alle statuizioni sulla veridicità
delle comunicazioni rese e dei relativi atti
che la compongono.
Inoltre, rinviando all’art. 216, comma 3,
secondo cui la Provincia verifica la
sussistenza dei presupposti e dei requisiti
richiesti, il giudicante ha ritenuto che
siffatto potere di controllo sia
esercitabile anche in caso di accertamento
successivo alla decorrenza dei termini di
inizio attività, qualora si verifichino
irregolarità o il mancato rispetto della
norma tecnica a presupposto della quale
viene svolta l’attività.
Di conseguenza, a opinione dell’adito
Tribunale, nella vicenda nessuna
consumazione del potere di controllo
provinciale si era verificata per il fatto
che il diniego di autorizzazione era stato
emanato oltre un anno dopo la presentazione
della domanda.
Parimenti infondato è stato ritenuto
l’ulteriore motivo secondo cui la procedura
semplificata avrebbe consentito alla
ricorrente di svolgere l’attività di
recupero dei rifiuti in via accessoria e
strumentale senza, così, il possesso dei
requisiti chiesti in via ordinaria dall’art.
216 cit..
Al riguardo, il G.A. non ha mancato di
precisare come l’art. 216 stabilisce al
comma 1 che l’autorizzazione semplificata
opera "a condizione che siano rispettate le
norme tecniche e le prescrizioni specifiche
di cui all'articolo 214, commi 1, 2 e 3";
sicché, la previsione della comunicazione di
inizio di attività non poteva costituire una
forma di liberalizzazione dell’attività.
Inoltre, poiché condizione indispensabile
per l’utilizzo della procedura semplificata
è costituita dal rispetto del D.M.
05.02.1998 per quanto riguarda i rifiuti non
pericolosi, il Collegio ha ritenuto
improbabile che la mera accessorietà
dell’attività di recupero dei rifiuti
rispetto all’attività principale di
smaltimento potesse giustificare il mancato
rispetto della normativa ambientale.
Sebbene, infatti, tra gli scopi del T.U.
Ambiente figuri anche quello di favorire il
recupero dei rifiuti rispetto alle
tradizionali attività di smaltimento, la
legge non ha voluto, con gli artt. 214 e
ss., D.Lgs. n. 152/2006, ritenere che il
recupero sia attività irrilevante dal punto
di vista ambientale, quanto piuttosto
sottoporla a un regime amministrativo
ambientale semplificato e di favore, a
condizione però che siano rigidamente
osservati i limiti stabiliti dal D.M.
05.02.1998 per quanto riguarda i rifiuti non
pericolosi.
Solo il rispetto di fatto di queste
condizioni, dunque, avrebbe legittimato la
piena efficacia della D.I.A. e la
conseguente iscrizione all’Albo dei Gestori
Ambientali della ricorrente.
Non differente sorte è spettata al gravame
aggiuntivo.
Il G.A. milanese, in primo luogo, ha
osservato come nella vicenda non v’è stata
alcuna integrazione postuma della
motivazione del provvedimento impugnato,
atteso che la Provincia ha operato una mera
specificazione dei profili di violazione del
D.M. 05.02.1998.
Tanto, sulla scorta del notorio indirizzo
giurisprudenziale per cui, in caso di atti
vincolati, nella motivazione è sufficiente
indicare i fatti e le norme giuridiche che
attribuiscono all’amministrazione il potere
di provvedere (c.d. “giustificazione”:
cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 22.06.2006, n.
3962).
Conseguentemente, il TAR lombardo ha
concluso ritenendo che i fatti e la fonte
normativa a base del potere
dell’amministrazione provinciale erano stati
specificati nel provvedimento, mentre la
successiva attività difensiva si era
limitata a specificare il profilo della
violazione perpetrata dal ricorrente, senza
che ciò avesse aggiunto nulla al contenuto
del provvedimento (commento tratto da
www.ipsoa.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 28.09.2011
n. 2311 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La dimostrazione
dell'affidabilità dei concorrenti per mezzo
dell'esperienza pregressa non può
trasformarsi in una rendita di posizione per
i soggetti economici che abbiano avuto
rapporti continuativi con le stazioni
appaltanti.
Nel giudizio sull'esperienza la stazione
appaltante, se non si è data regole più
stringenti nella lex specialis, può
certamente effettuare una ponderazione delle
diverse attività praticate dai concorrenti,
trascurando quelle marginali e focalizzando
la propria attenzione su quelle che
rivestono maggiore importanza.
Allo stesso modo può considerare irrilevante
il mancato svolgimento di alcune attività se
nel complesso risultino espletate quelle che
costituiscono la parte più impegnativa
dell'appalto da aggiudicare.
Nell'interpretazione di clausole di questo
tipo deve sempre essere favorita la massima
partecipazione, che a sua volta è una
condizione per assicurare l'effettiva
competizione nel mercato, e
corrispettivamente deve essere dato il
minimo rilievo alle formalità non
necessarie.
La dimostrazione dell'affidabilità dei
concorrenti per mezzo dell'esperienza
pregressa non può infatti trasformarsi in
una rendita di posizione per i soggetti
economici che abbiano avuto rapporti
continuativi con le stazioni appaltanti o
che, specialmente nei settori dove la
concorrenza è minore, abbiano avuto la
possibilità di occupare per più tempo le
poche nicchie di mercato disponibili (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 28.09.2011 n. 1328 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Aria -
Emissioni e disturbo olfattivo -
Disposizioni specifiche e valori limite in
materia di odori - Assenza - Reato di cui
all'art. 674 c. p. - Configurabilità -
Criterio della "stretta tollerabilità" -
Individuazione del parametro di legalità
dell'emissione - Fattispecie: bruciatura del
rivestimento in plastica di fili di rame -
Art. 844 c.c..
Si configura il reato di cui all'art. 674 c.
p., anche nel caso di "molestie olfattive"
promananti da impianto munito di
autorizzazione per le emissioni in
atmosfera. L'evento del reato consiste nella
molestia, che, nel caso sia provocata dalle
emissioni di gas, fumi o vapori, prescinde
dal superamento di eventuali limiti previsti
dalla legge, essendo sufficiente il
superamento del limite della normale
tollerabilità ex art. 844 c.c. (Cass. Sez.
1, n. 16693 del 27/3/2008, Polizzi).
Inoltre nel caso di emissioni idonee a
creare molestie alle persone rappresentate
da odori, se manca la possibilità di
accertare obiettivamente, con adeguati
strumenti, l'intensità delle emissioni, il
giudizio sull'esistenza e sulla non
tollerabilità delle emissioni stesse ben può
basarsi sulle dichiarazioni di testi, specie
se a diretta conoscenza dei fatti, quando
tali dichiarazioni non si risolvano
nell'espressione di valutazioni meramente
soggettive o in giudizi di natura tecnica ma
consistano nel riferimento a quanto
oggettivamente percepito dagli stessi
dichiaranti (Cass., Sez. 3, n. 19206 del
27/03/2008, Crupi). Fattispecie:
alimentazione di un falò, che bruciando il
rivestimento in plastica di 15 Kg di rame
produceva un fumo acre che si incanalava
nella valle e raggiungeva le abitazioni fino
a circa seicento metri di distanza,
provocando emissioni di fumo atte ad
offendere e molestare persone (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.09.2011 n. 34896 -
link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aria. Emissioni e molestie
olfattive.
Il reato di cui all'art. 674 c. p. è
configurabile anche nel caso di "molestie
olfattive" promananti da impianto munito
di autorizzazione per le emissioni in
atmosfera. L'evento del reato, infatti,
consiste nella molestia, che, nel caso sia
provocata dalle emissioni di gas, fumi o
vapori, prescinde dal superamento di
eventuali limiti previsti dalla legge,
essendo sufficiente il superamento del
limite della normale tollerabilità ex art.
844 c.c..
Inoltre, nel caso di emissioni idonee a
creare molestie alle persone rappresentate
da odori, se manca la possibilità di
accertare obiettivamente, con adeguati
strumenti, l'intensità delle emissioni, il
giudizio sull'esistenza e sulla non
tollerabilità delle emissioni stesse ben può
basarsi sulle dichiarazioni di testi, specie
se a diretta conoscenza dei fatti, quando
tali dichiarazioni non si risolvano
nell'espressione di valutazioni meramente
soggettive o in giudizi di natura tecnica ma
consistano nel riferimento a quanto
oggettivamente percepito dagli stessi
dichiaranti (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza
27.09.2011 n. 34896 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autodemolizione manufatto abusivo
ed estinzione reato.
La demolizione delle opere abusive non
comporta l'estinzione del reato commesso con
la loro costruzione. Nei reati urbanistici è
lo stesso territorio che costituisce il bene
oggetto della relativa tutela, e tale bene è
esposto a pregiudizio da ogni condotta che
produca alterazioni in danno del benessere
complessivo della collettività e delle sue
attività ed il cui parametro di legalità è
dato dalla disciplina degli strumenti
urbanistici e dalla normativa vigente (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.09.2011 n.
34769 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Unitarietà di valutazione
dell'intervento.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi non
può essere eluso attraverso la suddivisione
dell'attività edificatoria finale nelle
singole opere che concorrono a realizzarlo,
astrattamente suscettibili di forme di
controllo preventivo più limitate per la
loro più modesta incisività sull'assetto
territoriale. L'opera dove essere
considerata unitariamente nel suo complesso,
senza che sia consentito scindere e
considerare separatamente i suoi singoli
componenti.
Va altresì ribadito che i lavori edilizi che
riguardano manufatti abusivi che non siano
sanati ne condonati non sono assoggettabili
al regime nella DIA (anche se astrattamente
riconducibili, nella loro oggettività a tale
regime), in quanto gli interventi ulteriori
ripetono le caratteristiche di illegittimità
dell'opera principale alla quale ineriscono.
Anche i delitti previsti dal comma 1-bis
dell'art. 181 D.Lv. 42/2004 sono reati dì
pericolo e, pertanto, per la configurabilità
di tali illeciti, non è necessaria un
effettivo pregiudizio per l'ambiente,
potendo escludersi dal novero delle condotte
penalmente rilevanti soltanto quelle che si
prospettano inidonee, pure in astratto, a
compromettere i valori del paesaggio e
l'aspetto esteriore degli edifici.
Il principio di offensività deve essere
inteso, al riguardo, in termini non di
concreto apprezzamento di un danno
ambientale, bensì dell'attitudine della
condotta a porre in pericolo il bene
protetto (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza
26.09.2011 n. 34764 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Sottoprodotti.
Nell'art. 184-bis attualmente vigente il
legislatore italiano ha recepito la nozione
comunitaria di cui all'art. 5 della
direttiva quadro sui rifiuti 2008/98/CE
(ricalcata sui principi enucleati dalla
Corte di giustizia e sugli orientamenti
espressi dalla Commissione europea nella
Comunicazione interpretativa sui rifiuti e i
sottoprodotti del febbraio 2007), che mostra
un'evidente favore del legislatore
comunitario per la soluzione di recupero dei
rifiuti, come si desume dalla previsione
contenuta nell'art. 4 della direttiva
recante la gerarchia dei rifiuti, che vede
al primo posto la prevenzione e preparazione
per il riutilizzo.
Fermo restando il principio della
interpretazione estensiva della nozione di
rifiuto, la direttiva quadro ha tracciato il
confine tra ciò che deve considerarsi
rifiuto e ciò che ha assunto valore di
autentico prodotto. Inoltre la disciplina
comunitaria tra i requisiti indicati nella
nozione di sottoprodotto, ha incluso i
trattamenti che rientrano nella "normale
pratica industriale", con l'effetto
pratico di ampliamento della categoria
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.09.2011 n. 34753 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di bosco.
Il bosco risulta essere una nozione di tipo
naturalistico e comprende ogni terreno
coperto da vegetazione forestale arborea,
associata o meno a quella arbustiva, da
castagneti, sughereti o da macchia
mediterranea ed indipendentemente dal fatto
che la zona venga riportata come tale dalla
Carta tecnica regionale, atteso che ai fini
della sottoposizione a vincolo paesaggistico
la nozione non può essere intesa in senso
riduttivo, dovendo comprendere anche le aree
limitrofe (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza
26.09.2011 n. 34752 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzioni abusive - Ordine di
demolizione - Adozione all'atto della
presentazione della domanda di sanatoria -
Improcedibilità.
L'ordine di demolizione adottato in data
successiva alla presentazione della
richiesta di accertamento di conformità o di
condono, in assenza di preventiva
determinazione su quest'ultima, è
illegittimo in quanto l'amministrazione ha
l'obbligo di pronunciare su di essa prima di
procedere all'irrogazione delle sanzioni
definitive, mentre la presentazione della
domanda di concessione in sanatoria o di
condono successivamente all'emanazione del
provvedimento sanzionatorio determina
l'improcedibilità del ricorso ma non incide
sulla legittimità del provvedimento,
considerato che l'illegittimità è situazione
patologica originaria dell'atto, relativa al
suo momento genetico, mentre la proposizione
dell'istanza è vicenda successiva (TAR
Campania-Salerno, sez. II, 07.05.2009, n.
1827) (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 26.09.2011 n. 1411 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Calcestruzzo e altri
materiali da lavaggio mezzi meccanici.
Il calcestruzzo e gli altri materiali da
costruzione, residuati all'interno dei mezzi
meccanici utilizzati nel ciclo produttivo ed
eliminati con il mezzo della lavatura e
dell'immissione di acqua, di per sé stessa
detergente, rientrano nella nozione di
rifiuti allo stato liquido (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.09.2011 n.
34608 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine
di demolizione di opere abusive è un atto
dovuto in presenza di opere realizzate senza
titolo abilitativo, e pertanto abusive, e
non necessita di particolare motivazione
sull’interesse pubblico in confronto al
sacrificio imposto al privato o sulla
eventuale sanabilità delle opere. Infatti,
ai sensi del comma 2 dell'art. 31 del d.P.R.
380 del 2001, il dirigente o il responsabile
del competente ufficio comunale, accertata
l'esecuzione di interventi in assenza del
permesso di costruire, in totale difformità
dal medesimo, ovvero con variazioni
essenziali, ingiunge al proprietario e al
responsabile dell'abuso la rimozione o la
demolizione delle opere abusive.
Il presupposto per l’adozione dell'ordine di
demolizione di opere edilizie abusive è
soltanto la constatata esecuzione dell'opera
in totale difformità dalla concessione od in
assenza della medesima, con la conseguenza
che tale provvedimento, ove ricorrono i
predetti requisiti, è atto dovuto ed è
sufficientemente motivato con la
affermazione della accertata abusività
dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse
pubblico alla sua rimozione.
In sostanza, l'ordinanza di demolizione non
deve essere sorretta da alcuna specifica
motivazione in ordine alla sussistenza
dell'interesse pubblico a disporre la
sanzione, poiché l'abuso, anche se risalente
nel tempo, non può giustificare alcun
legittimo affidamento del contravventore a
veder conservata una situazione di fatto che
il semplice trascorrere del tempo non può
legittimare.
Il presupposto per l'adozione dell'ordine di
demolizione di opere edilizie abusive è
soltanto la constatata esecuzione dell'opera
in totale difformità, dalla concessione o in
assenza della medesima, con la conseguenza
che tale provvedimento -ove ricorrano i
predetti requisiti- è atto dovuto ed è
sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera.
L'ordinanza di demolizione, quindi, in
quanto atto vincolato, non richiede in alcun
caso una specifica motivazione su puntuali
ragioni di interesse pubblico o sulla
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati.
---------------
L’atto con il quale il Comune accerta
l'inottemperanza all'ordine di demolizione
di un'opera edilizia abusiva, limitandosi a
rappresentare l'attuale stato dei luoghi
rispetto all'ingiunzione precedentemente
spedita, costituisce un atto procedimentale
avente contenuto di accertamento ed
esplicante una funzione meramente
preparatoria e strumentale in vista delle
successive determinazioni dell'Ente, sicché,
di per se stesso, è manifestamente inidoneo
a ledere situazioni giuridiche.
Il provvedimento per il quale l’art. 31 del
d.P.R. 380/2001 consente la trascrizione non
è l’ordine di demolizione, contemplato al
comma 2 del citato art. 31, ma solo la
successiva determinazione, adottata dal
competente organo comunale, di procedere
alla acquisizione del bene alla mano
pubblica, una volta accertata
l’inottemperanza all’ordine di demolizione.
In particolare, ai sensi del citato art. 31,
comma 4, del d.P.R. 380/2001 il titolo per
l’immissione in possesso del bene e per la
trascrizione nei RR.II. è costituito
dall’accertamento di inottemperanza della
ingiunzione a demolire; e per tale deve
intendersi non il mero verbale di
constatazione di inadempienza, atteso il suo
carattere endoprocedimentale, ma un atto
formale di accertamento compiuto dagli
organi dell’ente dotati della relativa
potestà provvedimentale, che il Comune ha
correttamente adottato.
L’ordine di demolizione di opere abusive è
un atto dovuto in presenza di opere
realizzate senza titolo abilitativo e
pertanto abusive (secondo giurisprudenza
costante: fra le più recenti TAR Campania
Napoli, sez. II, n. 2042 del 20.04.2009; TAR
Campania Napoli, sez. VI, 14.07.2008, n.
8761; TAR Campania Napoli, sez. VII,
05.06.2008, n. 5244; Consiglio Stato, sez.
IV, 06.06.2008, n. 2705) e non necessita di
particolare motivazione sull’interesse
pubblico in confronto al sacrificio imposto
al privato o sulla eventuale sanabilità
delle opere.
Infatti, ai sensi del comma 2 dell'art. 31
del d.P.R. 380 del 2001, il dirigente o il
responsabile del competente ufficio
comunale, accertata l'esecuzione di
interventi in assenza del permesso di
costruire, in totale difformità dal
medesimo, ovvero con variazioni essenziali,
ingiunge al proprietario e al responsabile
dell'abuso la rimozione o la demolizione
delle opere abusive.
Per
giurisprudenza pacifica di questo Tribunale
in materia urbanistica, il presupposto per
l’adozione dell'ordine di demolizione di
opere edilizie abusive è soltanto la
constatata esecuzione dell'opera in totale
difformità dalla concessione od in assenza
della medesima, con la conseguenza che tale
provvedimento, ove ricorrono i predetti
requisiti, è atto dovuto ed è
sufficientemente motivato con la
affermazione della accertata abusività
dell'opera, essendo “in re ipsa”
l'interesse pubblico alla sua rimozione.
In sostanza, l'ordinanza di demolizione non
deve essere sorretta da alcuna specifica
motivazione in ordine alla sussistenza
dell'interesse pubblico a disporre la
sanzione, poiché l'abuso, anche se risalente
nel tempo, non può giustificare alcun
legittimo affidamento del contravventore a
veder conservata una situazione di fatto che
il semplice trascorrere del tempo non può
legittimare.
Il presupposto per l'adozione dell'ordine di
demolizione di opere edilizie abusive è
soltanto la constatata esecuzione dell'opera
in totale difformità, dalla concessione o in
assenza della medesima, con la conseguenza
che tale provvedimento -ove ricorrano i
predetti requisiti- è atto dovuto ed è
sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera.
L'ordinanza di demolizione, quindi, in
quanto atto vincolato, non richiede in alcun
caso una specifica motivazione su puntuali
ragioni di interesse pubblico o sulla
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati.
---------------
Come chiarito dalla giurisprudenza
amministrativa (cfr. ex multis, TAR
Campania, II Sezione, 18.05.2005, n. 6525;
Idem, 21.11.2006, n. 10110; TAR Sicilia
Palermo, sez. II, 24.12.2002, n. 4652),
l’atto con il quale il Comune accerta
l'inottemperanza all'ordine di demolizione
di un'opera edilizia abusiva, limitandosi a
rappresentare l'attuale stato dei luoghi
rispetto all'ingiunzione precedentemente
spedita, costituisce un atto procedimentale
avente contenuto di accertamento ed
esplicante una funzione meramente
preparatoria e strumentale in vista delle
successive determinazioni dell'Ente, sicché,
di per se stesso, è manifestamente inidoneo
a ledere situazioni giuridiche.
Secondo il tradizionale orientamento di
questa Sezione (cfr, TAR Campania Napoli,
sez. II n. 5905/2008; idem, n. 1959/2009),
il provvedimento per il quale l’art. 31 del
d.P.R. 380/2001 consente la trascrizione non
è l’ordine di demolizione, contemplato al
comma 2 del citato art. 31, ma solo la
successiva determinazione, adottata dal
competente organo comunale, di procedere
alla acquisizione del bene alla mano
pubblica, una volta accertata
l’inottemperanza all’ordine di demolizione.
In particolare, ai sensi del citato art. 31,
comma 4, del d.P.R. 380/2001 il titolo per
l’immissione in possesso del bene e per la
trascrizione nei RR.II. è costituito
dall’accertamento di inottemperanza della
ingiunzione a demolire; e per tale deve
intendersi non il mero verbale di
constatazione di inadempienza, atteso il suo
carattere endoprocedimentale, ma un atto
formale di accertamento compiuto dagli
organi dell’ente dotati della relativa
potestà provvedimentale, che il Comune ha
correttamente adottato (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 23.09.2011 n. 4479 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi - Condono -
Silenzio-assenso - Termine legale necessario
- Presupposti - Allegazione della
documentazione necessaria - Fedeltà della
stessa - Pagamento integrale dell'oblazione
- Non violazione dei vincoli di cui all'art.
33 della L. n. 47 del 1985.
E' noto che il termine legale per la
formazione del silenzio-assenso in materia
di condono degli abusi edilizi presuppone
che la domanda sia stata corredata dalla
prescritta documentazione, non sia infedele,
sia stata interamente pagata l'oblazione e,
altresì e soprattutto, l'opera non sia in
contrasto con i vincoli di inedificabilità
di cui all'art. 33, l. 28.02.1985, n. 47
(Consiglio Stato, sez. IV, 22.07.2010, n.
4823).
Ma, appunto, l’intero versamento
dell’oblazione autoliquidata e la
completezza della documentazione, sono
necessarie ai fini della formazione del
silenzio assenso.
Essi non possono costituire presupposto di
un diniego in una situazione di fatto che
vede il procedimento protrarsi dal 1995 e
con un contenzioso favorevole al ricorrente.
Gli adempimenti alla base dell’illegittimo
diniego avrebbero dovuto essere richiesti al
fine del rilascio del provvedimento e non
possono essere ragione di diniego dello
stesso (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 23.09.2011 n. 947 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sul potere di autocertificazioni
riconosciuto al privato nelle gare di
appalto.
Il potere di autocertificazione riconosciuto
al privato nei casi previsti dalla legge non
è svincolato da ogni controllo sulla
veridicità della stessa autocertificazione
da parte della P.A., la quale è tenuta a
verificare la complessiva affidabilità dei
concorrenti nell'aggiudicazione delle gare
di appalto, anche mediante riscontro diretto
dei dati del casellario giudiziario,
essendo, a tal fine, il certificato
richiesto da soggetti diversi
dall'interessato equiparato a quello
richiesto dall'interessato stesso (Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 22.09.2011 n. 19364 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi edilizi interni che
provochino una diversa utilizzazione
dell'area interessata, come nel caso
dell'aumento (da una a due) delle unità
abitative, determinano una variazione
quantitativa e qualitativa del carico
urbanistico.
Interventi edilizi interni che provochino
una diversa utilizzazione dell'area
interessata, come nel caso dell'aumento (da
una a due) delle unità abitative,
determinano una variazione quantitativa e
qualitativa del carico urbanistico (cfr.
Cons. St. Sez. V 23.05.1997 n. 529 e Sez. IV
29.04.2004 n. 2611; TAR Trentino Alto Adige
Trento, 12.05.2006 n. 160)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 22.09.2011 n. 1320 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
disposizione di cui all'art. 52, comma
3-bis, L.R. 12/2005 della Lombardia vuole
evitare che -attraverso la liberalizzazione
dei cambi di destinazione d'uso stabilita
dall'art. 51 della LR 12/2005- siano
realizzate innovazioni di grande impatto sul
tessuto urbano senza un preventivo esame da
parte dell'amministrazione.
Anche in presenza non di un luogo
espressamente destinato all’esercizio del
culto islamico, ma solo di un luogo di
raduno di immigrati di religione islamica
con finalità meramente culturali e non
cultuali comunque trova applicazione
(configurandosi alternativamente l’ipotesi
del “centro sociale”, inteso come luogo di
aggregazione di una cospicua entità di
soggetti aventi interessi comuni) la
suddetta norma regionale che richiede il
rilascio di specifico titolo edilizio, nella
specie non richiesto.
La L.R.
11.03.2005 n. 12, al comma 3-bis dell’art.
52 (recante la rubrica ”Mutamenti di
destinazione d'uso con e senza opere
edilizie”) espressamente dispone che: “I
mutamenti di destinazione d’uso di immobili,
anche non comportanti la realizzazione di
opere edilizie, finalizzati alla creazione
di luoghi di culto e luoghi destinati a
centri sociali, sono assoggettati a permesso
di costruire”.
La Sezione (cfr. la sentenza 14.09.2010 n.
3522 ) ha già avuto modo di rilevare che
tale disposizione vuole evitare che
-attraverso la liberalizzazione dei cambi di
destinazione d'uso stabilita dall'art. 51
della LR 12/2005- siano realizzate
innovazioni di grande impatto sul tessuto
urbano senza un preventivo esame da parte
dell'amministrazione.
Va rilevato che quand’anche dovesse
accedersi alla tesi di parte ricorrente,
-secondo cui nella fattispecie non si
sarebbe in presenza di un luogo
espressamente destinato all’esercizio del
culto islamico, ma solo di un luogo di
raduno di immigrati di religione islamica
con finalità meramente culturali e non
cultuali- ciò non di meno comunque trova
applicazione (configurandosi
alternativamente l’ipotesi del “centro
sociale”, inteso come luogo di
aggregazione di una cospicua entità di
soggetti aventi interessi comuni) la
suddetta norma regionale che richiede il
rilascio di specifico titolo edilizio, nella
specie non richiesto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 22.09.2011 n. 1320 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Valutazione della destinazione
urbanistica da imprimere al territorio -
Scelte discrezionali degli Enti locali
interessati - Insindacabilità - Eccezioni -
Palese illogicità ed irrazionalità delle
scelte fatte.
In materia urbanistica e in particolare con
riguardo alla valutazione della destinazione
urbanistica da imprimere al territorio
comunale, attraverso i previsti strumenti
urbanistici normativi, sussiste per pacifica
giurisprudenza un elevato grado di
discrezionalità da parte degli Enti locali
interessati, salvo il controllo di
legittimità da parte del giudice
amministrativo nei soli casi di palese
illogicità ed irrazionalità delle scelte
operate (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 22.09.2011 n. 656 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Documenti condominiali, visura sì
ma con ordine.
La Suprema Corte ha ribadito ancora una
volta il principio per cui
ciascun comproprietario ha la facoltà di
richiedere e ottenere dall'amministratore
del condominio l'esibizione dei documenti
contabili in qualsiasi tempo, senza l'onere
di specificare le ragioni della richiesta,
purché l'esercizio di tale facoltà non
risulti di ostacolo all'attività di
amministrazione, non sia contraria ai
principi di correttezza e non si risolva in
un onere economico per il condominio.
Affinché tale diritto sia esercitabile ed
effettivo incombe sull'amministratore
l'onere di predisporre un'organizzazione
minima e di rendere informati tutti i
condomini di tale organizzazione.
L’orientamento della giurisprudenza, ormai
abbastanza risalente nel tempo, secondo il
quale la documentazione condominiale doveva
essere posta a disposizione dei condomini
dall’amministratore soltanto in sede di
assemblea per l’approvazione del rendiconto
e, comunque, tale omissione poteva rilevare
soltanto come inadempimento
dell’amministratore medesimo senza influire
in alcun modo sulla validità della delibera
condominiale di approvazione è radicalmente
mutato a partire dalla sentenza della
Cassazione n. 8460/1998, cui si sono
succedute numerose pronunce, sia di
legittimità che di merito, fino alla
recentissima sentenza 21.09.2011 n. 19210
della Corte di Cassazione, Sez. civile.
Il revirement della giurisprudenza
degli ermellini è stato determinato da
un’attenta riflessione sul rapporto tra
amministratore e assemblea e
dall’applicazione a esso delle norme sul
mandato.
Il rapporto tra l'amministratore e i
condomini, infatti, è sussumibile nello
schema del mandato con rappresentanza, anche
se si connota per alcuni aspetti peculiari
determinati normativamente quali
l'obbligatorietà della nomina, il contenuto
e gli effetti, tanto che si parla di mandato
ex lege.
Dalla disciplina predisposta dal legislatore
per amministrare le cose comuni si desume il
rapporto particolare intercorrente tra
l'amministratore (mandatario) e i singoli
condomini (mandanti), così che potranno
applicarsi a esso soltanto le norme sul
mandato compatibili.
Alla luce di tanto si deve valutare se il
potere dei condomini di vigilare e di
controllare in ogni tempo la gestione
dell'amministratore, potere che spetta al
mandante nei confronti del mandatario ex
art. 1713 c.c., è conciliabile con il
rapporto di amministrazione delineato dalla
legge.
La risposta è sicuramente positiva
soprattutto avuto riguardo alla circostanza
che l'amministratore, per ragioni del suo
ufficio, detiene i registri e i documenti
contabili afferenti alla gestione e
riguardanti gli stessi condomini e,
pertanto, non vi è alcuna ragione
giustificatrice alla limitazione di tali
poteri, sempre che la vigilanza ed il
controllo non si risolvano in un intralcio
all'amministrazione, non siano contrari al
principio della correttezza, che deve stare
alla base dei rapporti interpersonali (art.
1175 cod. civ.), e non creino aggravi di
costi del condominio. Non è neppure
necessario che i condomini specifichino la
ragione per cui vogliono prendere visione o
estrarre copia dei documenti, rimanendo
onere dell’amministratore dimostrare la
contrarietà alla correttezza o l’intralcio
alla gestione condominiale di tali
richieste.
Le motivazioni alla base del rifiuto
dell’amministratore devono essere analizzate
con particolare rigore in quanto il diniego
di visionare tali documenti non si concreta
in un semplice inadempimento
dell’amministratore ma può avere effettive
conseguenze sulle decisioni assembleari:
infatti non avendo il condomino una
conoscenza completa dei documenti, non potrà
esprimere a pieno il suo parere e non potrà
influenzare l’orientamento degli altri
condomini. Pertanto, la violazione di tale
diritto determina l’annullabilità della
delibera approvata, in quanto risulta
viziato il procedimento di formazione della
volontà assembleare (Cass. 15159/2001, Cass.
13350/2003, Cass. 1544/2004, Cass.
12650/2008).
Spetterà, quindi, all’amministratore
rifiutare soltanto quelle richieste che
palesemente e ictu oculi contrastano
con la corretta e funzionale gestione
condominiale o con il principio di
correttezza, gravando su di lui –e quindi
sul condominio– la prova di siffatti
caratteri della richiesta e non essendo
all’uopo sufficienti meri e/o generici
richiami all’intralcio all’attività di
amministrazione, soprattutto quando la
richiesta è finalizzata all’esame di
documenti inerenti agli argomenti inseriti
nell’ordine del giorno dell’adunanza e,
pertanto, è rivolta ad assicurare una
partecipazione consapevole all’assemblea.
Né legittima il rifiuto dell’amministratore
il mero riferimento a orari e modalità
contrari ai principi di correttezza e buona
fede: è compito dell’amministratore,
infatti, predisporre un’organizzazione che
permetta di conciliare la propria attività,
soprattutto nel caso in cui gestisca un
numero elevato di condòmini, con il rispetto
dei diritti dei singoli condomini, nonché di
portare a conoscenza di tutti tale suo
modello organizzativo: rimanendo, comunque,
a suo carico l’onere di dimostrare
l’impossibilità di dar seguito alla
richiesta a causa della non compatibilità di
essa con le modalità già previamente
indicate e comunicate (commento tratto da
www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzioni - Precarietà -
Caratteristica non desumibile né dalla
facile e rapida amovibilità dell'opera, né
dal tipo più o meno fisso del suo ancoraggio
al suolo - Necessità che l'opera sia
destinata a soddisfare necessità
contingenti.
Nel provvedimento impugnato si specifica che
l’intervento consiste in una “struttura
di mq. 150 circa alta mt. 3,20 circa di
alluminio anodizzato, coperta con teli di
plastica in p.v.c. e tamponata con vetri
scorrevoli su binario, asportabili”.
La descrizione dell’intervento conduce,
innanzi tutto, ad escludere che l’opera sia
destinata alla sola difesa dalle intemperie.
Si tratta, infatti, di una struttura chiusa
sui lati, che dà luogo ad un nuovo volume
edilizio entro il perimetro di uno spazio in
origine aperto.
Il volume realizzato, peraltro, non è
trascurabile, in quanto la superficie
coperta è di circa 150 mq., per un’altezza
di m. 3,20.
In proposito va rilevato che l’art. 1 della
legge 28.01.1977 n. 10, vigente all’epoca
dell’adozione del provvedimento impugnato,
imponeva al soggetto attuatore di munirsi di
concessione edilizia per ogni attività
comportante la trasformazione del territorio
attraverso l’esecuzione di ogni intervento
sul territorio, preordinato alla perdurante
modificazione dello stato dei luoghi con
materiale posto sul suolo, pur in assenza di
opere in muratura.
Quanto all’affermato carattere precario
dell’intervento, non v’è che da richiamare
il consolidato indirizzo giurisprudenziale
secondo cui la precarietà di una costruzione
non va desunta dalla facile e rapida
amovibilità dell’opera, ovvero dal tipo più
o meno fisso del suo ancoraggio al suolo,
quanto dal fatto che la costruzione appaia
destinata a soddisfare una necessità
contingente (ex plurimis, TAR
Campania, Napoli, sez. VII, 11.02.2011 n.
896, TAR Marche, sez. I, 20.04.2010 n. 182,
Cons. St., sez. V, 04.02.1998, n. 131).
Nel caso di specie appare da escludere il
carattere contingente delle esigenze che
l’intervento è destinato a soddisfare,
chiaramente correlate alla fruizione di uno
spazio chiuso, che, come si è rilevato,
risulta di dimensioni considerevoli (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 20.09.2011 n. 7462 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per espresso dato normativo (art.
9 della legge 24/07/1961 n. 729), le fasce
di rispetto autostradali sono soggette a
vincolo di inedificabilità assoluta non
suscettibile a deroghe o sanatorie.
Sul punto conforta altresì l’orientamento
giudice di seconde cure. Il Consiglio di
Stato ha chiarito come le opere realizzate
all'interno della fascia di rispetto
autostradale prevista al di fuori del
perimetro del centro abitato (fascia di
sessanta metri) sono ubicate in aree
assolutamente inedificabili e, pertanto, se
costruite dopo l'imposizione del vincolo,
rientrano nella previsione di cui
all'articolo 33, comma 1, lettera d), della
legge 28.02.1985, n. 47 e non sono
suscettibili di sanatoria.
Le distanze previste dalla norma suddetta
vanno rispettate anche con riferimento ad
opere che non superino il livello della sede
stradale o che costituiscano mere
sopralevazioni o che, pur rientrando nella
fascia, siano arretrate rispetto alle opere
preesistenti.
In altri termini, in presenza di una norma
introduttiva di un vincolo di
inedificabilità assoluto, non può operare,
all’interno del procedimento volto
all’eventuale rilascio di una concessione
edilizia in sanatoria, l’istituto del
silenzio significativo per l’acquisizione
del parere da parte dell’autorità preposta
alla tutela dello specifico vincolo.
Né come già sopra evidenziato, possono
venire il rilievo le caratteristiche
concrete delle opere abusive realizzate
nell’ambito della fascia medesima.
Analoga questione è stata già affrontata da
questa sezione con la condivisibile sentenza
n. 1070/2009 dalla quale il Collegio non
trae oggi motivo di discostarsi.
Ed invero il dettato letterale dell’art. 23,
comma nono, della L.R. n. 37/1985 prevede la
concedibilità del titolo edilizio in
sanatoria per le costruzioni realizzate
all’interno delle fasce di rispetto “stradali”,
come definite dal D.M. 01/04/1968 e “semprechè
a giudizio degli enti preposti alla tutela
della viabilità le costruzioni stesse non
costituiscano minaccia alla sicurezza del
traffico”.
Si osserva a tal fine che per espresso dato
normativo (art. 9 della legge 24/07/1961 n.
729), le fasce di rispetto autostradali sono
soggette a vincolo di inedificabilità
assoluta non suscettibile a deroghe o
sanatorie.
Sul punto conforta altresì l’orientamento
giudice di seconde cure. Il Consiglio di
Stato ha chiarito come le opere realizzate
all'interno della fascia di rispetto
autostradale prevista al di fuori del
perimetro del centro abitato (fascia di
sessanta metri) sono ubicate in aree
assolutamente inedificabili e, pertanto, se
costruite dopo l'imposizione del vincolo,
rientrano nella previsione di cui
all'articolo 33, comma 1, lettera d), della
legge 28.02.1985, n. 47 e non sono
suscettibili di sanatoria.
A tale riguardo giova premettere che, ai
sensi dell'articolo 41-septies, commi 1 e 2,
della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150
(articolo aggiunto dall'articolo 19 della l.
06.08.1967, n. 765) "Fuori del perimetro
dei centri abitati debbono osservarsi
nell'edificazione distanze minime a
protezione del nastro stradale, misurate a
partire dal ciglio della strada. Dette
distanze vengono stabilite con decreto del
Ministro per i Lavori pubblici di concerto
con i Ministri per i trasporti e per
l'Interno, entro sei mesi dall'entrata in
vigore della presente legge, in rapporto
alla natura delle strade ed alla
classificazione delle strade stesse, escluse
le strade vicinali e di bonifica".
Tale vincolo di inedificabilità è
configurato come assoluto nel caso di
autostrade per le aree situate al di fuori
del centro abitato, perché -ai sensi del
D.M. 01.04.1968- è esclusa ogni possibilità
di deroga alla distanza minima, fissata in
sessanta metri (la fascia di rispetto è,
invece, ridotta a venticinque metri
all'interno del perimetro del centro abitato
ed è derogabile a mente dell'articolo 9,
comma 1, della legge 24.07.1961, n. 729).
[...]
Va, inoltre, osservato che il carattere
assoluto del vincolo sussiste a prescindere
dalla concrete caratteristiche dell'opera
realizzata. Infatti il divieto di costruire
ad una certa distanza dalla sede
autostradale, posto dall'articolo 9 della
legge 24.07.1961, n. 729 e dal successivo
d.m. 01.04.1968, non può essere inteso
restrittivamente e cioè come previsto al
solo scopo di prevenire l'esistenza di
ostacoli materiali emergenti dal suolo e
suscettibili di costituire, per la loro
prossimità alla sede autostradale,
pregiudizio alla sicurezza del traffico ed
alla incolumità delle persone, ma appare
correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto
utilizzabile, all'occorrenza, dal
concessionario, per l'esecuzione dei lavori,
per l'impianto dei cantieri, per il deposito
di materiali, per la realizzazione di opere
accessorie, senza vincoli limitativi
connessi con la presenza di costruzioni.
Pertanto le distanze previste dalla norma
suddetta vanno rispettate anche con
riferimento ad opere che non superino il
livello della sede stradale (in termini,
Cass. civ., 01.06.1995, n. 6118) o che
costituiscano mere sopralevazioni (v. Cass.
civ., 14.01.1987, n. 193), o che, pur
rientrando nella fascia, siano arretrate
rispetto alle opere preesistenti (Cons.
Stato, sez. IV, 18.10.2002 n. 5716; Cons.
Stato, sez. IV, 25.09.2002 n. 4927; Cons.
Stato, sez. V, 08.09.1994 n. 968).
In altri termini, in presenza di una norma
introduttiva di un vincolo di
inedificabilità assoluto, non può operare,
all’interno del procedimento volto
all’eventuale rilascio di una concessione
edilizia in sanatoria, l’istituto del
silenzio significativo per l’acquisizione
del parere da parte dell’autorità preposta
alla tutela dello specifico vincolo.
Né come già sopra evidenziato, possono
venire il rilievo le caratteristiche
concrete delle opere abusive realizzate
nell’ambito della fascia medesima (cfr. TAR
Lombardia Brescia, sez. I, 30.04.2010, n.
1628; TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II,
20.05.2009, n. 768; Consiglio Stato, sez. IV,
14.04.2010, n. 2076) (TAR Sicilia-Palermo,
Sez. II,
sentenza 20.09.2011 n. 1663 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Le attività di disinfezione,
disinfestazione e derattizzazione non
possono essere considerate quali compiti
sanitari in senso proprio ed appaiono
piuttosto da assimilare ad attività che, pur
avendo una sicura rilevanza per la salute,
rientrano nella competenza di enti diversi
dalle aziende sanitarie locali.
Per antica tradizione i comuni sono dotati
di una competenza generale in materia di
igiene e sanità pubblica sicché, in mancanza
di dati normativi univoci che attribuiscano
alle aziende sanitarie locali l'esercizio
delle attività di disinfezione,
disinfestazione e derattizzazione, le
attività in parola che, si ribadisce, non
possono essere considerate quali compiti
sanitari in senso proprio (come ad es. la
somministrazione di terapie e di medicinali,
interventi chirurgici o ricoveri
ospedalieri), essendo invece assimilabili ad
attività quali il corretto smaltimento dei
rifiuti, il mantenimento di idonee
condizioni igieniche o ambientali, e devono
quindi considerarsi come rientranti nella
competenza di enti diversi dalle aziende.
---------------
L'attività di derattizzazione è propriamente
attività preventiva, generale e periodica
che prescinde dalla esistenza di malattie
infettive essendo tesa a ridurre
ordinariamente il numero dei ratti al di
sotto di una certa soglia indipendentemente
dalla insorgenza di malattie infettive.
Sicché, l’attività di derattizzazione non è
riconducibile al concetto di
disinfestazione.
Va premesso, al fine di collocare nella
giusta prospettiva il presente contenzioso,
che le attività di disinfezione,
disinfestazione e derattizzazione non
possono essere considerate quali compiti
sanitari in senso proprio ed appaiono
piuttosto da assimilare ad attività che, pur
avendo una sicura rilevanza per la salute,
rientrano nella competenza di enti diversi
dalle aziende sanitarie locali.
Infatti, come rilevato nella nota n.
10652/DS del 15.06.2007 che ha richiamato
una pertinente sentenza del giudice
amministrativo (Tar Campania, Napoli, Sez.
I, 07.10.2004 n. 13593), per antica
tradizione i comuni sono dotati di una
competenza generale in materia di igiene e
sanità pubblica sicché, in mancanza di dati
normativi univoci che attribuiscano alle
aziende sanitarie locali l'esercizio delle
attività di disinfezione, disinfestazione e
derattizzazione, le attività in parola che,
si ribadisce, non possono essere considerate
quali compiti sanitari in senso proprio
(come ad es. la somministrazione di terapie
e di medicinali, interventi chirurgici o
ricoveri ospedalieri), essendo invece
assimilabili ad attività quali il corretto
smaltimento dei rifiuti, il mantenimento di
idonee condizioni igieniche o ambientali, e
devono quindi considerarsi come rientranti
nella competenza di enti diversi dalle
aziende.
La competenza dei comuni circa l'esercizio
delle attività in questione si evince dagli
artt. 3 e 33 del R.D. n. 1265 del 1934, ed
in particolare dall'art. 259 di tale R.D.,
che testualmente recita: "I comuni
provvedono ai servizi di profilassi,
assistenza e disinfezione per le malattie
contagiose. Tali servizi possono essere
assicurati mediante consorzi fra comuni
secondo le norme contenute nel testo unico
della legge comunale e provinciale".
Tale norma è confermata dagli artt. 27 e 32
del D.P.R. n. 616 del 1977. L'art. 27 indica
in particolare, tra le materie concernenti
l'assistenza sanitaria ed ospedaliera, la
prevenzione e la cura delle malattie (lett.
A) e l'igiene degli insediamenti urbani e
della collettività (lett. D); l'art. 32
attribuisce ai comuni, singoli ed associati,
tutte le funzioni amministrative di cui
all'art. 27 che non siano espressamente
riservate allo Stato, alle Regioni ed alle
Province.
La esistenza di una competenza residuale
generale in relazione alle esigenze del
territorio riservata ai comuni si deduce
anche dall’art. 13 del d.lgs. n. 267 del
2000 “Spettano al comune tutte le
funzioni amministrative che riguardano la
popolazione ed il territorio comunale,
precipuamente nei settori organici dei
servizi alla persona e alla comunità…”.
---------------
L'attività di
derattizzazione è propriamente attività
preventiva, generale e periodica che
prescinde dalla esistenza di malattie
infettive essendo tesa a ridurre
ordinariamente il numero dei ratti al di
sotto di una certa soglia indipendentemente
dalla insorgenza di malattie infettive.
D’altro canto, la profilassi diretta di una
malattia infettiva è l’insieme delle misure
di prevenzione che mirano a impedire la
diffusione dei germi attraverso l’isolamento
del malato e l’uccisione dei germi.
In tale attività rientra la disinfestazione
cioè la distruzione dei macroparassiti in
presenza di una malattia infettiva.
Ma la derattizzazione prescinde dalla
esistenza di una malattia infettiva o
comunque da una situazione di pericolo per
la salute pubblica trattandosi, come prima
osservato, di una attività ordinaria,
preventiva e generale, indipendente dalla
insorgenza di una vera e propria patologia
mentre nel caso che la infestazione
rappresenti un fattore di rischio sanitario
e gli interventi di disinfestazione siano
per tali motivi connessi alla prevenzione
delle malattie diffusive e infettive essi
devono essere effettuati dalla aziende
sanitarie.
Infine in ordine alla attività di vigilanza
igienica sulla attività di disinfestazione,
disinfestazione e derattizzazione, prevista
dal DPCM 29.11.2001, è agevole evidenziare
che il riferimento alla vigilanza implica la
necessità che siffatte attività vengano
effettuate da soggetti diversi dalle
aziende; diversamente il riferimento alla
vigilanza non avrebbe ragion d’essere posto
che vi sarebbe coincidenza tra il soggetto
vigilante e soggetto vigilato
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 19.09.2011 n. 5267 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
L'avente causa del lottizzante
assume tutti gli oneri a carico di
quest'ultimo in sede di convenzione di
lottizzazione, compresi quelli di
urbanizzazione ancora dovuti.
In sintesi, la natura “reale”
dell'obbligazione riguarda i soggetti che
stipulano la convenzione, quelli che
richiedono la concessione, quelli che
realizzano l'edificazione e poi i loro
aventi causa.
---------------
Posto che il lottizzante ha dieci anni di
tempo per l'esecuzione delle opere previste
in convenzione, soltanto dalla scadenza
della convenzione medesima è possibile
verificare se le opere siano state o meno
eseguite ed il Comune abbia titolo per
richiedere la cessione delle aree.
In sostanza, l'obbligazione del privato
diventa esigibile proprio al termine della
scadenza della convenzione e da tale momento
inizia a decorrere pure l'ordinario termine
di prescrizione.
Seguendo lo stesso percorso argomentativo,
decorsi dieci anni (ordinario termine
prescrizionale ex art. 2946 c.c.), da tale
termine iniziale (quello di scadenza della
convenzione), il diritto dovrebbe
dichiararsi prescritto.
Va premesso che l'obbligo di “facere”,
previsto nella convenzione a carico della
parte lottizzante, consistente nella
realizzazione delle opere e nella
conseguente cessione delle aree, ai sensi
dell’art. 8, comma 5, n. 2 e comma 7, della
legge 06.08.1967 n. 765, ha natura di
prestazione patrimoniale imposta e di
obbligazione “ambulatoria” o “propter
rem” dal lato passivo, gravante, quindi,
sugli aventi causa degli originari
lottizzanti (ex plurimis: Cass.
civile Sez. III, 17.06.1996, n. 5541; Cass.
Sez. 1° 20.12.1994 n. 10947; Cass. Civ.,
Sez. II, 26.11.1988 n. 6382; Consiglio di
Stato, Sez. V 13.08.2003 n. 1157), per cui,
di norma e salva diversa pattuizione
negoziale, l'avente causa del lottizzante
assume tutti gli oneri a carico di
quest'ultimo in sede di convenzione di
lottizzazione, compresi quelli di
urbanizzazione ancora dovuti (ex plurimis
Consiglio di Stato, Sez. V, 17.11.1997 n.
1471).
In sintesi, la natura “reale”
dell'obbligazione riguarda i soggetti che
stipulano la convenzione, quelli che
richiedono la concessione, quelli che
realizzano l'edificazione e poi i loro
aventi causa (conf.: Cass. Civ. Sez. II,
27.08.2002 n. 12571).
---------------
Con la terza
censura, parte ricorrente deduce la
prescrizione del credito vantato dal Comune
di Badolato.
La convenzione de qua non precisa il
termine entro il quale la parte lottizzante
avrebbe dovuto assolvere l'obbligo di
cessione delle aree, ma deve pure
considerarsi che tale obbligo avrebbe potuto
essere fatto valere dal Comune, a termini
dell'art. 2935 c.c., soltanto a decorrere
dalla scadenza del termine decennale di
validità della convenzione, che segna il
termine finale di eseguibilità “spontanea”
delle opere in essa previste.
In altri termini, posto che il privato ha
dieci anni di tempo per l'esecuzione delle
opere previste in convenzione, soltanto
dalla scadenza della convenzione medesima è
possibile verificare se le opere siano state
o meno eseguite ed il Comune abbia titolo
per richiedere la cessione delle aree (TAR
Brescia, n. 1126/2001 e n. 65/2003; TAR
Campania, Napoli, sez. II, n. 2773/2007).
In sostanza, l'obbligazione del privato
diventa esigibile proprio al termine della
scadenza della convenzione e da tale momento
inizia a decorrere pure l'ordinario termine
di prescrizione.
Seguendo lo stesso percorso argomentativo,
decorsi dieci anni (ordinario termine
prescrizionale ex art. 2946 c.c.), da tale
termine iniziale (quello di scadenza della
convenzione), il diritto dovrebbe
dichiararsi prescritto
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 19.09.2011 n. 1226 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire -
Annullamento o revoca - Perdita di una
posizione di vantaggio acquisita -
Pregiudizio al proprietario dell'immobile -
Necessità dell'avvio del procedimento - Non
rilevanza dell'illegittimità dell'opere da
eseguire.
Risulta innanzitutto fondato il primo motivo
in quanto effettivamente l'annullamento o la
revoca del permesso di costruire,
determinando la perdita di una posizione di
vantaggio acquisita, reca un pregiudizio al
proprietario dell'immobile e pertanto
quest'ultimo deve essere posto, attraverso
la comunicazione dell'avvio del procedimento
di cui all’art. 7 L. 07.08.1990 n. 241,
nella condizione di poter partecipare al
previo contraddittorio; né può validamente
supplire alla mancata comunicazione la
conoscenza che il proprietario in ipotesi
possa aver avuto della ravvisata
illegittimità delle opere da eseguire,
perché tanto non implica affatto, sotto il
profilo consequenziale, anche l'annullamento
della concessione edilizia già rilasciata.
Anche gli altri motivi appaiono fondati in
quanto:
a)- l'amministrazione non ha in alcun modo
motivato in ordine alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale
nonché prevalente sull'affidamento
ingenerato nel ricorrente mediante il
rilascio del permesso di costruire;
b)- l'amministrazione col provvedimento
impugnato si è sostanzialmente intromessa in
una lite tra condomini arrogandosi
prerogative in ordine all'accertamento delle
facoltà connesse al diritto di proprietà di
ciascuna di esse e del regime d'uso del
solaio che non le competevano e che
avrebbero dovuto trovare soluzione nella
competente sede giurisdizionale civile,
anche perché ogni provvedimento
amministrativo è rilasciato con la clausola
"fatti salvi i diritti dei terzi" e,
quindi, non pregiudica la possibilità per
eventuali privati controinteressati di far
valere le proprie ragioni nelle sedi
competenti (Consiglio di Stato, sez. V
07.09.2009, n. 5223; Consiglio di Stato,
sez. V, 07.09.2007, n. 4703; TAR Trentino
Alto Adige, sez. Trento, 14.05.2008, n. 111;
TAR Piemonte, sez. I, 13.06.2005, n. 2039
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 16.09.2011 n. 1559 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere edilizie abusive - Ordine
di demolizione - Atto dovuto - Presupposto -
Accertata abusività dell'opera - Mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento -
Applicabilità dell'art. 21-octies della L.
n. 241 del 1990 - Impossibilità di emanare
un atto con un contenuto diverso da quello
presente nell'atto adottato - Legittimità
del procedimento.
L’omessa comunicazione d’avvio del
procedimento non determina l’illegittimità
dell’ordine di demolizione.
Secondo l’indirizzo consolidato della
giurisprudenza anche di questa Sezione,
considerata la natura di atto dovuto
dell'ordine di demolizione di opere edilizie
abusive -il cui presupposto è rappresentato
solamente dalla constatata esecuzione di
opere edilizie in assenza o in difformità
dal titolo abilitativo- il procedimento non
è inficiato dall'omissione della
comunicazione di avvio del procedimento ex
art. 7, L. n. 241 del 1990, poiché nella
fattispecie trova applicazione l'art.
21-octies della stessa legge che statuisce
la non annullabilità del provvedimento
adottato in violazione delle norme sul
procedimento qualora, come nel caso di
specie, sia palese che il suo contenuto non
avrebbe potuto essere diverso da quello
concretamente adottato.
Il provvedimento gravato costituisce atto
dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato
dalla ponderazione discrezionale
dell’opposto interesse privato al
mantenimento dell’opera abusiva, in quanto
la repressione dell'abuso corrisponde ipso
facto all'interesse pubblico al ripristino
dello stato dei luoghi illecitamente
alterato.
Pertanto, l’ordinanza è da ritenersi
sorretta da adeguata e autosufficiente
motivazione, già solo rinvenibile nella
compiuta descrizione delle strutture abusive
e nella constatazione della loro esecuzione
in assenza del necessario titolo abilitativo
edilizio (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 14.09.2011 n. 1626 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illeciti edilizi, pensilina o
tettoia pari sono. Senza autorizzazione
sempre reato.
La sostanziale identità
delle nozioni di tettoia e pensilina,
ricavabile dalle medesime finalità di
arredo, riparo o protezione anche dagli
agenti atmosferici, determina la necessità
del permesso di costruire nei casi in cui
sia da escludere la natura precaria o
pertinenziale dell'intervento.
Interessante decisione della Suprema Corte
su un tema in edilizia abbastanza
approfondito relativo alla natura precaria o
meno di una costruzione ai fini della
necessità del permesso di costruire.
La sentenza in esame, peraltro, si segnala
per la novità della questione in quanto la
necessità di previo rilascio del permesso di
costruire per la realizzazione di una
pensilina è questione assolutamente inedita
nella giurisprudenza della Corte,
meritevole, pertanto, di particolare
menzione.
I giudici di Piazza Cavour, sul punto, dopo
aver operato un’interessante ricostruzione
della disciplina, giungono ad affermare che
anche per la pensilina, al pari della
tettoia, occorre il preventivo rilascio del
titolo abilitativo rappresentato dal
permesso di costruire, salvo che non sia
possibile qualificare l’intervento come
davvero “pertinenziale”.
Il fatto.
La vicenda processuale da cui la Suprema
Corte ha preso le mosse per occuparsi della
questione di diritto segue ad una sentenza
di condanna, confermata anche in appello,
per violazione dell’art. 44, comma 1, lett.
c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in
relazione alla costruzione, in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico, di una
pensilina con struttura in ferro e copertura
in plexiglas avente superficie di mq. 18
circa ed altezza di metri 3.
I giudici di merito avevano accertato, in
fatto, che la pensilina era stata realizzata
in area sottoposta a vincolo paesaggistico,
con conseguente configurabilità del reato
contemplato dalla lett. c) dell’art. 44 del
d.P.R. n. 380/2001.
Date tali premesse, gli stessi giudici hanno
escluso che le opere realizzate fossero
collocabili tra gli interventi cosiddetti
minori in quanto modificative
dell'originario stato dei luoghi e
costituenti trasformazione urbanistica del
territorio di natura permanente e tale da
richiedere, quale titolo abilitativo, il
permesso di costruire.
Il ricorso.
Resisteva alla condanna l’imputata che,
oltre a far valere la presunta estinzione
per prescrizione del reato ipotizzato,
deduceva in particolare l'erronea
applicazione della norma penale in
questione, rilevando che l'opera oggetto di
contestazione non era suscettibile di
sanzione penale in quanto soggetta a d.i.a.
(denuncia di inizio attività) semplice, al
pari degli altri interventi eseguiti, per i
quali era stata rilasciata sanatoria,
efficace anche con riferimento alla
pensilina realizzata, cosicché i giudici
dell’appello avrebbero errato nell'applicare
la disposizione richiamata e la
giurisprudenza di legittimità.
La decisione della
Cassazione.
La Corte non ha ritenuto fondati i motivi di
ricorso ed ha, conseguentemente, rigettato
il ricorso dell’imputata confermando
l’impianto motivazionale della sentenza di
merito.
Nel disattendere i motivi propositi dalla
difesa, gli Ermellini procedono anzitutto
all’inquadramento giuridico dell’intervento
edilizio costituito dalla realizzazione
della pensilina.
Prima di analizzare il percorso
motivazionale della decisione di
legittimità, è sufficiente qui ricordare che
è definibile come pensilina una “tettoia
sporgente da un muro o sorretta da pilastri,
per proteggere dalle intemperie persone che
attendono” (v. Il Sabatini Coletti,
dizionario della lingua italiana on-line) e
che, normalmente, i regolamenti edilizi
normalmente la definiscono come “una
struttura composta di elementi verticali in
legno, in ferro o altro metallo e da una
copertura in tela, vetro o metallo (con
l’esclusione dell’utilizzo dell’alluminio
anodizzato), con la funzione di proteggere
il percorso dal marciapiede pubblico
all'ingresso del fabbricato” (v., ad
es., l’art. 2.15.3 del Regolamento
urbanistico del Comune di Pisa, che,
nell’inquadrarla tra i cosiddetti “manufatti
e accessori leggeri”, specifica che la
stessa deve avere un'altezza al colmo non
superiore a 3,00 ml. ed una larghezza non
superiore a 2,00 ml., aggiungendo che i lati
devono essere privi di qualsiasi elemento di
chiusura, anche trasparente o mediante
inferriate o simili ed esclude la
realizzazione di pensiline a protezione di
accessi di singole unità immobiliari:
http://www.comune.pisa.it/regedi/Reg/1Def/ART2_15.htm).
Passando, nello specifico, ad analizzare il
ragionamento della Cassazione, i giudici
ricordano come sono in genere soggetti a
permesso di costruire, sulla base di quanto
disposto dal T.U. Edilizia (artt. 3 e 10),
tutti gli interventi che, indipendentemente
dalla realizzazione di volumi, incidono sul
tessuto urbanistico del territorio,
determinando la trasformazione in via
permanente del suolo in edificato per
adattarlo ad un impiego diverso da quello
che gli è proprio in relazione alla sua
condizione naturale ed alla sua
qualificazione giuridica.
Orbene, si afferma in sentenza come in tale
tipologia di interventi “è certamente
collocabile la realizzazione di una
pensilina …. che era certamente
qualificabile come intervento di nuova
costruzione ai sensi del T.U. edilizia e per
la quale non è neppure ipotizzata
l'eventuale natura pertinenziale”.
Detta qualificazione, in particolare, era
certamente ricavabile dalle dimensioni e
dalle caratteristiche costruttive indicate
nell'imputazione, indipendentemente dalla
corretta individuazione della nozione di "pensilina".
E’ innegabile, infatti, che particolarmente
approfondito è stato nella giurisprudenza di
legittimità il concetto di "tettoia".
Qualche decisione, peraltro, si è spinta ad
analizzare le differenze tra “tettoia”
e "pergolato", osservando che la
diversità strutturale delle due opere è
rilevabile dal fatto che, mentre il
pergolato costituisce una struttura aperta
sia nei lati esterni che nella parte
superiore ed è destinato a creare ombra, la
tettoia può essere utilizzata anche come
riparo ed aumenta l'abitabilità
dell'immobile (Cass. pen., Sez. III,
19.05.2008, n. 19973, imp. L., in Ced Cass.
240049).
Mai, però, i giudici di Piazza Cavour si
erano occupati ex professo della
qualificazione giuridica, agli effetti
urbanistici, della pensilina, salvo ad
affermare incidentalmente, in una
fattispecie relativa a chiosco prefabbricato
in ferro e pensilina prefabbricata in ferro
presso un impianto di distribuzione di
carburanti, che l'autorizzazione prefettizia
per detto impianto non escludesse la
necessità del titolo abilitativo edilizio
per la costruzione dei manufatti accessori a
detto impianto, essendo le due
autorizzazioni richieste a tutela di
distinti interessi: l'uno relativo alla
disciplina del deposito e della
distribuzione dei carburanti, l'altro
concernente la tutela dell'assetto
urbanistico (Cass. pen., Sez. III,
20.02.1973, n. 1446, imp. T., in Ced Cass.
123229); in un altro caso, poi, la stessa
Cassazione aveva poi precisato che le opere
edilizie abusive, realizzate in zona
sottoposta a vincolo paesistico, si
considerano eseguite in totale difformità
dalla concessione e, se costituenti
pertinenze, non sono suscettibili di
autorizzazione in luogo della concessione
(Cass. pen., Sez. III, 31.01.1994, n. 2733,
imp. P., in Ced Cass. 197066; nella specie
la Corte aveva ritenuto la motivazione
dell'ordinanza di riesame corretta nel
confermare il sequestro preventivo emesso
dal G.I.P. in relazione alla violazione del
vincolo di inedificabilità, essendo stata la
pensilina eseguita in zona in cui, secondo
la previsione del Piano Urbanistico
Territoriale, erano consentiti
esclusivamente piccoli interventi di
restauro conservativo su edilizia
esistente).
Facendo coerente applicazione della
giurisprudenza di legittimità formatasi in
tema di tettoie, quindi, i giudici
puntualizzano come essendo detti manufatti
lessicalmente assimilabili (in quanto la
pensilina condivide con la tettoia comuni
finalità di arredo o di riparo e protezione
e dalla quale non può distinguersi neppure
per la conformazione, stante le diversità di
materiali con i quali possono essere
realizzate entrambe le strutture e le
modalità di ancoraggio al suolo o in aggetto
rispetto ad altro edificio), giungono ad
affermare il condivisibile principio secondo
cui la sostanziale identità delle nozioni di
tettoia e pensilina ricavabile dalle
medesime finalità di arredo, riparo o
protezione anche dagli agenti atmosferici,
determina la necessità del permesso di
costruire nei casi in cui sia da escludere
la natura precaria o pertinenziale
dell'intervento (commento tratto da
www.ipsoa.it -
Corte di
Cassazione, Sez. feriale,
sentenza 07.09.2011 n. 33267
- link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sottotetto - Destinazione d'uso -
Variazione della destinazione d'uso di
sottotetto - Ingiunzione di riduzione in
pristino - Difformità parziale alla
concessione edilizia - Riscontrata presenza
degli impianti elettrici e termoidraulici -
Indizio rivelatore dell'avvenuto mutamento
della destinazione d'uso - Esclusione -
elementi compatibili con la possibile e
legittima destinazione della soffitta a
ripostiglio, guardaroba o simili.
Il ricorso è fondato per le ragioni che
seguono.
Invero, in base al citato art. 24, comma 6,
del regolamento edilizio comunale, nel
sottotetto destinato a soffitta sono
consentiti ripostigli, guardaroba o simili,
come pertinenze dell’abitazione, senza che
ciò comporti il mutamento della destinazione
in abitazione “permanente”.
Trattandosi nella fattispecie di ufficio, la
destinazione autorizzata era quella di
archivio ad esso pertinenziale, essendo
ovviamente esclusa la possibilità di
un’estensione dell’ufficio ubicato al
livello sottostante.
Ora, il provvedimento repressivo impugnato è
dotato di un apparato motivazionale completo
e sufficiente, posto che riporta i risultati
del sopralluogo eseguito (il cui rapporto
tecnico contiene una completa descrizione
delle opere eseguite in difformità dal
titolo ed è corredato da riproduzioni
fotografiche che confermano le riportate
conclusioni), le norme urbanistiche vigenti,
gli esiti del contraddittorio procedimentale
instaurato con la parte, lo specifico
oggetto della contestazione e la
qualificazione giuridica dell’abuso.
Ciò posto, il Collegio osserva che la
semplice finitura con intonaco e
tinteggiatura a civile, la pavimentazione in
legno, la presenza di un controsoffitto e
dell’impianto elettrico non integrano ex
se il contestato abuso, in quanto detti
elementi sono compatibili con la possibile e
legittima destinazione del sottotetto ad
archivio o deposito e non raggiungono,
perciò, la soglia di rilevanza dell’avvenuto
mutamento di destinazione d’uso.
La presenza, poi, di scaffali, tavoli con
soprastanti plastici, scrivanie con sedie
disposte in maniera non funzionale,
scatoloni in cartone e materiale vario
appare coerente con l’uso effettivo dei
locali come archivio-deposito.
Inoltre, dalle fotografie scattate durante
il sopralluogo e prodotte in giudizio
dall’Amministrazione emerge che
effettivamente i locali del sottotetto sono
adibiti ad archivio-deposito e che appaiono
assenti frazionamenti murari con la
creazione di vani separati o arredi ed
allestimenti idonei ad una fruizione
permanente di tali locali come estensione
dell’ufficio sottostante.
Dunque, poiché l'art. 24 del Regolamento
edilizio comunale consente la fruizione
pertinenziale dei locali accessori nei
sottotetti di altezza inferiore a 2,20 ml.,
a tale stregua non pare integrare alcun
autonomo abuso l’esistenza nei citati locali
di impianti che ne consentano il suddetto
utilizzo.
Il Collegio, infine, osserva che, se il
Comune vuole evitare espedienti attraverso i
quali possa realizzarsi un dissimulato ed
abusivo mutamento della destinazione d’uso
dei sottotetti, deve formulare norme
urbanistiche chiare e tassative: ad esempio,
deve prescrivere che nei sottotetti non
abitabili non sono consentite opere civili
come intonacatura, piastrellatura, parquet,
impianti elettrici, idraulici, telefonici o
citofonici, impianti satellitari, impianti
di riscaldamento, etc..
Se, infatti, è consentita dalla normativa
urbanistica comunale la destinazione dei
sottotetti, con altezza inferiore a mt 2,20,
a soffitta, ripostiglio, guardaroba, o
simili, come pertinenze dell’abitazione
(nella specie, dell’ufficio), e se
addirittura le relative concessioni edilizie
autorizzano il collegamento del sottotetto
all’abitazione (nella specie, all’ufficio)
sottostante con scala interna, appare
incoerente poi sanzionare la presenza di
impianti e finiture che, di per sé, non
integrano il mutamento di destinazione d’uso
di tali ambienti, essendo funzionali a
quegli usi di migliore abitabilità ma non
residenziali, che lo stesso comune ha
autorizzato con le incongrue e perplesse
norme edilizie sopra riportate (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 07.09.2011 n. 226 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Informative
prefettizie.
Il TAR Calabria-Reggio Calabria, Sez. I,
nella
sentenza 21.06.2011 n. 518, ha
affermato che: "Diversamente
dall'informativa prefettizia tipica, che ha
carattere interdittivo di ulteriori rapporti
negoziali con le amministrazioni appaltanti,
la c.d. informativa atipica non ha carattere
di per sé interdittivo, ma consente
l'attivazione degli ordinari strumenti di
discrezionalità nel valutare l'avvio o il
prosieguo dei rapporti contrattuali, alla
luce dell'idoneità morale del partecipante
alla gara di assumere la posizione di
contraente con la Pubblica amministrazione".
Primariamente, i giudici amministrativi
reggini evidenziano la diversità
dell'informativa atipica, per quanto
concerne gli effetti: mentre l'informativa
tipica ha carattere interdittivo, nel senso
che impedisce di diritto l'instaurazione di
rapporti negoziali con l'impresa, attraverso
il divieto di stipula del contratto,
l'informativa atipica non presenta tale
carattere, ma consente solo (e non è poco!)
l'esercizio dei poteri discrezionali di
intervento sui provvedimenti amministrativi
posti in essere, sulla base, appunto, delle
informazioni assunte.
Con l'informativa atipica non scatta alcun
obbligo legale interdittivo, ma solo
l'obbligo di valutare attentamente le
notizie acquisite, al fine di decidere se il
soggetto interessato presenta l'idoneità
morale necessaria per iniziare o proseguire
le prestazioni contrattuali. Proprio per
tale sua caratteristica di non costituire un
"legale impedimento", l'informativa
atipica non necessita di un grado di
comprovazione probatoria analogo a quello
richiesto per dimostrare l'appartenenza di
un soggetto ad associazioni di tipo
camorristico o mafioso. Infatti, osserva il
Tar, si fonda su elementi, anche indiziari,
(che la stazione appaltante non ha né il
potere né l'onere di verificarne la portata
o i presupposti) ottenuti con l'ausilio di
particolari indagini, che possono risalire
anche ad eventi verificatisi a distanza di
tempo.
E' stato osservato, in giurisprudenza, che
l'informativa atipica consente alla stazione
appaltante di adottare un provvedimento di
diniego di stipula del contratto o di
prosecuzione del rapporto contrattuale in
corso, che potrà essere sufficientemente
motivato anche per relationem,
essendole riservato "un margine assai
ristretto di valutazione discrezionale,
mentre il dovere di ampia motivazione
sussiste solo nel caso della scelta della
prosecuzione del rapporto per inderogabili
ed indeclinabili necessità della
prestazione, non altrimenti assicurabile"
(Tar Campania, sez. Napoli I, n.
16618/2010).
Fra l'altro, non deve essere dimenticato che
il potere di indagine e di sindacato del
giudice amministrativo è abbastanza
limitato: "Le informative atipiche , in
quanto atti meramente partecipativi di
circostanze di fatto, non determinano un
divieto legale a contrarre e non comportano,
necessariamente ed inevitabilmente,
l'adozione di provvedimenti pregiudizievoli
per il privato, l'assunzione dei quali è
rimessa alla discrezionalità della stazione
appaltante; in questi casi, il sindacato del
giudice amministrativo non può entrare nel
merito restando circoscritto a verificare
sotto il profilo della logicità il
significato attribuito agli elementi di
fatto e l'iter procedimentale seguito per
pervenire a determinate conclusioni"
(Tar Campania, sez. Salerno I, n.
11842/2010).
Proprio in ragioni di tali caratteristiche,
la giurisprudenza si è, poi, interrogata
anche sulla "compatibilità comunitaria"
dell'istituto, pervenendo ad una positiva
risposta, fondata sulla considerazione che
le cause di esclusione dagli appalti,
previste dal diritto comunitario, e
puntualmente recepite dall'ordinamento
interno non sono esaustive e tassative,
potendo i Legislatori nazionali prevederne
ulteriori, a salvaguardia di interessi
pubblici generali, diversi da quello della
tutela della concorrenza, e fondate su
ragioni di ordine e sicurezza pubblica.
Alla luce delle considerazioni sin qui
espresse, il Tar Reggio Calabria ritiene
infondato il ricorso per tre precise
ragioni. In primo luogo, si fa osservare che
l'impresa ricorrente non ha impugnato né
censurato il contenuto dell'informativa
atipica, che il Comune ha assunto a
necessario ed esclusivo presupposto
motivazionale del provvedimento di revoca.
In secondo luogo, si rileva che il
ricorrente non ha evocato in giudizio la
Prefettura di Reggio Calabria, che tale
provvedimento ha emanato.
Inoltre, appare decisamente carente
l'apparato motivazionale del ricorso, in
quanto il medesimo si limita a contestare la
circostanza della carenza di requisiti di
ordine generale, senza avvedersi che, in
realtà, l'Amministrazione si è uniformata al
contenuto dell'informativa, rispetto alla
quale non sono dedotte censure, rimanendo
incontestati due puntuali ed inequivoci
fatti: a) la sottoposizione del ricorrente
ad indagini per i gravi reati contestatigli,
aventi immediata e diretta incidenza
sull'affidamento di appalti e, quindi, sulla
capacità a contrarre con la Pubblica
amministrazione; b) la rilevanza di tali
circostanze in ordine all'efficacia propria
delle informative antimafia atipiche
(tratto dalla newsletter di
www.centrostudimarangoni.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Concessioni
di servizi.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, nella
sentenza
06.06.2011 n.
3377 ha affermato che: "Le
concessioni di servizi, nel quadro del
diritto comunitario, si distinguono dagli
appalti, non per il titolo provvedimentale
dell'attività, né per il fatto che ci si
trovi di fronte ad una vicenda di
trasferimento di pubblici poteri o di
ampliamento della sfera giuridica del
privato, né per la loro natura autoritativa
o provvedimentale rispetto alla natura
contrattuale dell'appalto, ma per l'assenza
di un corrispettivo, a carico
dell'amministrazione, e per la conseguente
traslazione dell'alea inerente la
prestazione a carico del soggetto privato".
Il Consiglio di Stato, nella sentenza in
esame, principia la sua analisi dalla
nozione codicistica di concessione di
servizi, ponendo in evidenza che anche le
direttive comunitarie n. 17 e n. 18 del 2004
definiscono la concessione di servizi come "un
contratto che presenta le stesse
caratteristiche di un appalto pubblico di
servizi, ad eccezione del fatto che il
corrispettivo della fornitura di servizi
consiste unicamente nel diritto di gestire i
servizi o in tale diritto accompagnato da un
prezzo". Dunque, il prezzo, nella
concessione di servizi è solo un elemento
secondario ed eventuale, in quanto il tratto
caratteristico è rappresentato dal diritto
di gestire il servizio, da cui si traggono
le primarie fonti di remunerazione.
In altri termini, nella concessione, il
prezzo assume importanza per la sua assenza,
nel senso che la mancanza, assoluta o
tendenziale, di un prezzo, cioè di un
corrispettivo, che dall'amministrazione
viene erogato in favore dell'operatore
economico contraddistingue la natura del
rapporto. Inoltre, la concessione si
distingue dall'appalto, allorquando
l'operatore privato si assume i rischi della
gestione del servizio, rifacendosi
sostanzialmente sull'utente, mediante la
riscossione di un qualsiasi tipo di canone,
tariffa o diritto. Non esplica grande rilevo
il titolo provvedimentale dell'attività, né
il fatto che ci si trovi di fronte ad una
vicenda di trasferimento di pubblici poteri
o di ampliamento della sfera giuridica del
privato, né la natura autoritativa o
provvedimentale della concessione rispetto
alla natura contrattuale dell'appalto.
Ciò che è fondamentale, ai fini della
sussistenza di una concessione di servizi, è
il fenomeno di traslazione dell'alea
inerente una certa attività in capo al
soggetto privato. Pertanto, ad avviso dei
giudici amministrativi di appello, si avrà
concessione quando l'operatore si assume in
concreto i rischi economici della gestione
del servizio, rifacendosi essenzialmente
sull'utenza, mentre si avrà appalto quando
l'onere del servizio stesso venga a gravare
sostanzialmente sull'amministrazione.
Tale assunto, è stato più volte confermato
dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia CE, la quale ha ribadito che si è
in presenza di una concessione di servizi,
allorquando le modalità di remunerazione
pattuite consistono nel diritto del
prestatore di sfruttare la propria
prestazione ed implicano che quest'ultimo
assuma il rischio legato alla gestione dei
servizi in questione (Corte Giustizia CE,
Sez. III, 15.10.2009, C – 196/08).
Viceversa, in caso di assenza di
trasferimento al prestatore del rischio
legato alla prestazione, si è in presenza di
un appalto di servizi (Corte Giustizia CE,
Sez. III, 10.09.2009, C – 206/08).
Sulla base di tali argomentazioni, il CdS
ritiene che non vi è alcun dubbio che la
gara per l'affidamento del servizio di
tesoreria rientri nello schema della
concessione di servizi. Infatti, l'assenza
tendenziale del corrispettivo non implica
che il concessionario non può trarre alcuna
utilità economicamente apprezzabile dallo
svolgimento del servizio, ma solo che il
prezzo deve risultare assente quale primario
elemento di connotazione (tratto dalla
newsletter di www.centrostudimarangoni.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Requisiti
di ordine fiscale.
Il TAR Puglia-Lecce, Sez. III, nella
sentenza 20.05.2011 n. 883, ha
affermato che: "Alla luce della nuova
normativa, introdotta dal Codice dei
contratti pubblici (D.Lgs n. 163/2006),
emerge che la violazione fiscale provoca
l'esclusione dalla gara allorquando sia
"definitivamente accertata", vale a dire sia
divenuta incontestabile per decisione
giurisdizionale o per intervenuta
inoppugnabilità. Solo allora, infatti,
l'inadempimento tributario è indicativo del
mancato rispetto degli obblighi relativi al
pagamento di imposte e tasse".
Il requisito della "regolarità fiscale"
è stato interessato da un'importante
modificazione, introdotta dal recente
decreto legge n. 79/2011 ("decreto sviluppo)
e confermata anche in sede di conversione in
legge. Precisamente, il decreto sviluppo ha
introdotto le seguenti modificazioni:
1) le violazioni in materia fiscale, ai fini
dell'esclusione, devono essere gravi. E'
stato aggiunto, quindi, l'aggettivo "grave"
al testo della disposizione normativa;
2) il 2° comma del novellato articolo 38
stabilisce che si intendono gravi le
violazioni che comportano un omesso
pagamento di imposte e tasse per un importo
superiore all'importo di cui all'articolo
48-bis, commi 1 e 2-bis, del d.P.R.
29.09.1973, n. 602. Attualmente, l'importo è
pari ad € 10.000,00.
Nella recentissima
sentenza del Tar Sardegna, sez. I, n. 519
del 26.05.2011, è stato già richiamato ed
applicato il decreto sviluppo in tema di
violazioni fiscali. Precisamente, il
tribunale amministrativo ha evidenziato che
la ratio della disposizione in esame
è chiara e risponde all'esigenza di
garantire l'amministrazione relativamente
alla solvibilità e solidità finanziaria del
soggetto con il quale contrarre e che tale
norma è direttamente attuativa dell'articolo
45 della direttiva 2004/18, la quale è
palesemente diretta ad appurare la
sussistenza dei presupposti di generale
solvibilità dell'eventuale futuro contraente
della Pubblica amministrazione.
Secondo il Tar, dalla lettura delle due
disposizioni normative (europea e nazionale)
e della giurisprudenza correlata, si desume
il principio che il giudizio, in ordine
rispetto degli obblighi relativi al
pagamento delle imposte, debba strutturarsi
con un concreto accertamento della globale
regolarità, sul piano tributario,
dell'impresa partecipante alla gara e non,
piuttosto, sul mero riscontro della
sussistenza di singole e isolate omissioni.
Per sostenere la bontà di tale assunto, il
Tar segnala che: "significativo, in
materia, è l'orientamento del legislatore
"correttivo" (de jure condendo), che
recepisce proprio l'esigenza e
l'orientamento di restringere le ipotesi di
esclusione per la lettera "g" alle sole
ipotesi "gravi" (cfr. art. 4, punto 1.5 del
D.L. n. 70 del 13.05.2011 "Semestre Europeo,
prime disposizioni urgenti per l'economia).
In definitiva anche la valutazione dei
requisiti di cui all'art. 38, lett. "g"
(anteriormente alla modifica, poi
intervenuta) deve essere comunque svolta
alla stregua del canone della
"ragionevolezza", tenendo presenti le
finalità a cui la norma è preordinata.
Laddove si riscontrino delle situazioni di
non grave consistenza, ovvero delle
situazioni da cui emerga l'intento non
elusivo delle regole (in tal senso deve
essere interpretata la volontà di effettuare
il pagamento dei tributi a fronte della
concessa rateizzazione), spetta alla
stazione appaltante un giudizio sulla
meritevolezza del soggetto aspirante
contraente. Ed il giudizio non può essere
limitato al mero riscontro della sussistenza
di pendenze tributarie contenute nei
certificati". In merito a tale recentissima
modificazione, occorre ricordare che, anche
prima, si assisteva ad un dibattito, avente
ad oggetto proprio la necessità che la
stazione appaltante ponga in essere
un'indagine volta ad accertare e valutare
l'entità della violazione fiscale.
Infatti, accanto ad una giurisprudenza
maggioritaria, che sosteneva, a fronte del
tenore letterale della norma,
l'insussistenza di tale potere (Il
legislatore ha imposto, all'art. 38, lett.
g), del d.lgs. n. 163/2006, quale requisito
di partecipazione alle pubbliche gare
d'appalto, l'assenza di qualsivoglia
pendenza fiscale; tanto a prescindere
dall'entità del debito e da ogni valutazione
di gravità dell'inadempienza, ciò a
differenza del parallelo requisito
dell'assenza di pregiudizi penali per i
quali la legge utilizza il termine gravi
reati" (Tar Piemonte, sez. I, n.
3129/2010; CdS, sez. V, n. 6325/2009), si
era sviluppato un diverso indirizzo.
Precisamente, si affermava che "La
presenza di violazioni, definitivamente
accertate, rispetto agli obblighi relativi
al pagamento delle imposte e tasse secondo
la legislazione italiana, non integra una
fattispecie di esclusione automatica
dell'impresa concorrente che le ha commesse,
a prescindere dalla loro valutazione in
concreto" (Tar Lombardia, sez. Brescia
II, n. 2305/2010). Il contrasto, quindi, è
stato risolto nel segno dell'attribuzione
alla stazione appaltante di un potere
valutativo, attraverso l'aggiunta "gravi",
eliminando ogni ipotesi di esclusione
automatica
(tratto dalla newsletter di
www.centrostudimarangoni.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi sell'art. 31, comma 1, lett. d), della
legge 05.08.1978, n. 457, il concetto di
ristrutturazione edilizia comprende anche la
demolizione seguita dalla fedele
ricostruzione del manufatto, purché tale
ricostruzione assicuri la piena conformità
di sagoma, di volume e di superficie tra il
vecchio ed il nuovo manufatto e venga,
comunque, effettuata in un tempo
ragionevolmente prossimo a quello della
demolizione.
Per effetto, poi, della normativa introdotta
dall'art. 1 del D.Lgs. 27.12.2002, n. 301,
il vincolo della fedele ricostruzione è
venuto meno, così estendendosi ulteriormente
il concetto della ristrutturazione edilizia,
che, per quanto riguarda gli interventi di
ricostruzione e demolizione ad essa
riconducibili, resta distinta
dall'intervento di nuova costruzione per la
necessità che la ricostruzione corrisponda,
quanto meno nel volume e nella sagoma, al
fabbricato demolito.
Ciò che contraddistingue la ristrutturazione
dalla nuova edificazione è la già avvenuta
trasformazione del territorio, attraverso
una edificazione di cui si conservi la
struttura fisica (sia pure con la
sovrapposizione di un "insieme sistematico
di opere, che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente"), ovvero la cui
stessa struttura fisica venga del tutto
sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con
ricostruzione, se non "fedele" -termine
espunto dall'attuale disciplina-, comunque,
rispettosa della volumetria e della sagoma
della costruzione preesistente.
L’intervento edilizio che si caratterizza
per il sostanziale mantenimento delle
caratteristiche d’ingombro del fabbricato,
con l’unica differenza di sagoma dovuta alla
trasformazione della copertura (che da “a
doppia falda inclinata” passa a “piana”) che
avviene mediante l’abbassamento della quota
del colmo, con conseguente riduzione della
volumetria che passa da mc. 123,41 della
originaria legnaia a mc. 94,80, è da
ascriversi nella fattispecie della
ristrutturazione edilizia.
Sotto un profilo d’ordine generale va
osservato quanto segue (cfr. Cons. St., Sez.
IV, 09.07.2010 n. 4462).
L'art. 31, comma 1, lett. d), della legge
05.08.1978, n. 457 definiva lavori di
ristrutturazione edilizia "quelli rivolti
a trasformare gli organismi edilizi mediante
un insieme sistematico di opere che possono
portare ad un organismo edilizio in tutto o
in parte diverso dal precedente. Tali
interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio, la eliminazione, la modifica
e l'inserimento di nuovi impianti".
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha
ripetutamente chiarito che, ai sensi della
norma avanti citata, il concetto di
ristrutturazione edilizia comprende anche la
demolizione seguita dalla fedele
ricostruzione del manufatto, purché tale
ricostruzione assicuri la piena conformità
di sagoma, di volume e di superficie tra il
vecchio ed il nuovo manufatto e venga,
comunque, effettuata in un tempo
ragionevolmente prossimo a quello della
demolizione (si veda, fra le tante, Cons.
St., Sez. sez. V, 03.04.2000, n. 1906 ).
È poi intervenuto, a definire siffatto
intervento edilizio, l'art. 3 del D.P.R.
06.06.2001, n. 380, che, nel testo
originario, menzionava il criterio della "fedele
ricostruzione" come indice tipico della
tipologia di ristrutturazione edilizia
consistente nella demolizione e
ricostruzione.
Per effetto, poi, della normativa introdotta
dall'art. 1 del D.Lgs. 27.12.2002, n. 301,
il vincolo della fedele ricostruzione è
venuto meno, così estendendosi ulteriormente
il concetto della ristrutturazione edilizia,
che, per quanto riguarda gli interventi di
ricostruzione e demolizione ad essa
riconducibili, resta distinta
dall'intervento di nuova costruzione per la
necessità che la ricostruzione corrisponda,
quanto meno nel volume e nella sagoma, al
fabbricato demolito (Cons. St., Sez. IV,
28.07.2005 n. 4011; Cons. St., Sez. V,
30.08.2006 n. 5061).
In particolare, la giurisprudenza (cfr.
Cons. St., Sez. VI, 16.12.2008 n. 6214; Sez.
IV, 16.06.2008 n. 2981; Sez. V, 04.03.2008
n. 918; Sez. IV, 26.02.2008 n. 681) ha
sottolineato che ciò che contraddistingue la
ristrutturazione dalla nuova edificazione è
la già avvenuta trasformazione del
territorio, attraverso una edificazione di
cui si conservi la struttura fisica (sia
pure con la sovrapposizione di un "insieme
sistematico di opere, che possono portare ad
un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente"), ovvero la cui
stessa struttura fisica venga del tutto
sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con
ricostruzione, se non "fedele"
-termine espunto dall'attuale disciplina-,
comunque, rispettosa della volumetria e
della sagoma della costruzione preesistente.
Infine, va precisato il differente regime
cui sono soggetti gli interventi di
ristrutturazione edilizia rispetto alle
nuove costruzioni: ove la ristrutturazione
mantenga inalterati i parametri urbanistici
ed edilizi preesistenti, l’intervento non è
subordinato al rispetto dei vincoli posti
dagli strumenti urbanistici sopravvenuti,
giacché la legittimazione urbanistica del
manufatto da demolire si trasferisce su
quello ricostruito (cfr. TAR Milano, Sez.
2°, 07.09.2010 n. 5122, Cons. St, Sez. V,
14.11.1996 n. 1359; Cons. St., Sez. V,
28.03.1998 n. 369; Cass. civ., sez. II,
12.06.2001 n. 7909; Tar Calabria, Reggio
Calabria, 24.01.2001 n. 36; Puglia, Bari,
sez. III, 22.07.2004 n. 3210).
L’intervento qui in contestazione si
caratterizza per il sostanziale mantenimento
delle caratteristiche d’ingombro del
fabbricato, con l’unica differenza di sagoma
dovuta alla trasformazione della copertura
(che da “a doppia falda inclinata”
passa a “piana”) che avviene mediante
l’abbassamento della quota del colmo, con
conseguente riduzione della volumetria che
passa da mc. 123,41 della originaria legnaia
a mc. 94,80.
In tale contesto, pare al Collegio di poter
affermare che la riduzione suddetta non
escluda ma anzi confermi l’ascrizione della
fattispecie all’ipotesi normativa della
ristrutturazione (in tal senso si veda,
operando a contrario quanto rilevato da
Cons. St., Sez. VI, 15.06.2010 n. 3744, ove
si è affermato che la nozione di
ristrutturazione presuppone, come condizioni
essenziali per distinguerla dall'intervento
di nuova costruzione, che la ricostruzione
non comporti alterazione in aumento di
volumetria o di altezza). Qui invece c’è
riduzione sia di volumetria che di altezza
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 09.02.2011 n. 239 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 06.10.2011 |
ã |
UTILITA' |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Lombardia, indicazioni pratiche per i
controlli sui tagli dei boschi da parte
delle GEV.
Le Guardie Ecologiche Volontarie (GEV) sono
competenti, in base all’art. 61 della l.r.
31/2008, ad effettuare la vigilanza e
l’accertamento delle violazioni relative ai
danni alle superfici forestali.
Il r.r. 5/2007 “Norme Forestali Regionali”
obbliga gli enti forestali a svolgere
annualmente controlli su almeno il 2% dei
circa 23 mila permessi di taglio concessi
annualmente in Lombardia. A tal fine, la
collaborazione fra uffici boschi di parchi,
comunità montane e province e GEV è
fondamentale.
Purtroppo, spesso molte guardie ecologiche
non dispongono delle necessarie informazioni
pratiche per effettuare i controlli nel
settore forestale
La presente pubblicazione mira proprio a
fornire alcuni consigli pratici sui
controlli dei tagli colturali del bosco e a
costituire, in ogni gruppo di GEV, un nucleo
di alcune guardie preparate sul settore
forestale (link a
www.sistemiverdi.regione.lombardia.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
LAVORI PUBBLICI:
C. Rapicavoli,
L’ammissibilità del ricorso al leasing
immobiliare per la realizzazione di opere
pubbliche da parte degli enti locali - Corte
dei Conti - Sezioni riunite di controllo n.
49/2011 del 16.09.2011 (link a
www.ambientediritto.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI:
Più
flessibilità sulle entrate a cassa vincolata.
Una sentenza della Corte dei Conti.
Il recente
parere
03.08.2011 n. 91 della sezione di
controllo della Corte dei conti dell'Abruzzo
affronta il tema del limite massimo di
utilizzo per cassa delle entrate aventi
specifica destinazione. Le somme vincolate
sono risorse (derivanti da indebitamento o
da trasferimenti finalizzati di altri enti
pubblici) alle quali, per evitare lo
sviamento dalle loro finalità, la legge
imprime, oltre a un vincolo di bilancio,
anche un vincolo di cassa.
L'articolo 195 del Tuel prevede, in via
eccezionale, un loro uso per fronteggiare
carenze di liquidità secondo regole
speculari a quelle dell'anticipazione di
tesoreria. In generale, perciò, il limite
dell'articolo 222 del Tuel (3/12 delle
entrate accertate nel penultimo esercizio) è
unico e abbraccia sia l'anticipazione sia le
vincolate.
Richiamando le circolari del ministero
dell'Interno 15 e 18 del 1997 sulla
tesoreria unica, un Comune in crisi di
liquidità e prossimo al limite massimo di
utilizzo dell'anticipazione di tesoreria, ha
chiesto alla Corte se sia lecito utilizzare,
per pagamenti correnti, le somme vincolate
giacenti presso il tesorerie, anche oltre i
3/12, ma nel limite dei trasferimenti
erariali vantati dall'ente e non riscossi.
Si precisa che il saldo delle vincolate
consiste, secondo un meccanismo di pura
tesoreria, nella differenza fra l'importo di
reversali e mandati vincolati e giacenza
effettiva di cassa, indipendentemente
dall'imputazione dei fondi in tesoreria
unica. La Corte abruzzese, precisando che il
tema è quello del limite d'utilizzo per
cassa delle entrate vincolate (e non di
quello dell'anticipazione di tesoreria),
dopo la ricostruzione dell'istituto, afferma
che, nel caso vi sia una giacenza vincolata
tale da non permettere, a causa dei
meccanismi della tesoreria unica, l'accesso
ai trasferimenti erariali, è possibile
attingere alle somme vincolate oltre il
limite dei 3/12, per un importo pari ai
trasferimenti non riscossi.
La Corte così conferma il contenuto delle
circolari 15 e 18 del 1997 che,
diversamente, potrebbe sembrare in contrasto
con il tenore letterale dell'articolo 195
del Tuel.
Nonostante le aperture della Corte,
tuttavia, va raccomandata comunque prudenza
nell'utilizzo per cassa delle somme
vincolate. La loro gestione è fondamentale
negli enti in crisi di liquidità, poiché il
superamento dei 3/12 può provocare
l'insolvenza. In caso di necessità di
pagamento della spesa vincolata, infatti,
non sarebbe possibile neanche il ricorso
alla già consumata anticipazione di
tesoreria.
L'esame del conto delle vincolate
correttamente tenuto, inoltre, consente un
check up immediato e affidabile della salute
delle finanze pubbliche. Dall'incapacità di
reintegro dei vincoli, infatti, si può
dedurre l'inattendibilità del rendiconto
dovuta all'inesigibilità di residui attivi
di parte corrente che vanno a inficiare la
veridicità del risultato di amministrazione.
Un'analisi di questo tipo è in grado di
prevenire crisi di liquidità, poiché può
evidenziare l'incoerenza fra i dati di
competenza e di cassa, alla stregua di
quanto ricavabile da un costante ricorso
all'anticipazione del tesoriere
(articolo Il Sole 24
Ore del 03.10.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
VARI: Multe, ricorsi subito.
Ridotto a trenta giorni il termine. Circolare
Viminale sulle violazioni del codice stradale.
Per tutte le infrazioni stradali accertate
dal 6 ottobre il trasgressore avrà a
disposizione solo 30 giorni per proporre
ricorso al giudice di pace mentre resta
invariato il termine per avanzare
alternativamente lagnanze alla prefettura.
Lo ha chiarito il Ministero dell'Interno con
la
nota 30.09.2011 n.
300/A/7799/11/101/3/3/9.
Il decreto legislativo 01.09.2011, n.
150, in vigore dal 6 ottobre, ha effettuato
una semplificazione dei procedimenti civili
di cognizione regolati dalla legislazione
speciale riducendo ai tre modelli principali
tutte le singole fattispecie.
Per quanto riguarda il ricorso contro le
multe al giudice di pace non sono tante le
modifiche. A parte il dimezzamento dei
termini per proporre censure che scendono a
30 giorni. Per il resto eccetto il richiamo
al rito del lavoro, «ove non diversamente
stabilito», una delle novità favorevoli alla
linea difensiva è riscontrabile nel nono
comma del nuovo art. 7 del dlgs. Se
l'opponente o il suo difensore non si
presentano all'udienza senza giustificati
motivi il giudice convaliderà la multa
«salvo che la illegittimità del
provvedimento risulti dalla documentazione
allegata dall'opponente, ovvero l'autorità
che ha emesso il provvedimento impugnato
abbia omesso il deposito dei documenti». In
buona sostanza si apre la possibilità di
ottenere vittoria anche solo sulla base
della negligenza della pubblica
amministrazione che non ha depositato gli
atti oppure, come di consueto, se la vicenda
è palesemente a favore del trasgressore.
Novità anche sul fronte della sospensione
dell'efficacia del provvedimento impugnato
dove la novella evidenzia l'intenzione del
legislatore per una maggior severità nella
concessione del beneficio. Con la nota in
commento il ministero si riserva di
evidenziare meglio questi dettagli operativi
della riforma puntando immediatamente
l'attenzione alla riduzione dei termini per
proporre ricorso al giudice di pace.
Specifica infatti la circolare del 30
settembre che per tutte le violazioni
accertate da giovedì prossimo, 6 ottobre,
«le modalità di proposizione del ricorso al
giudice di pace, ex art. 204-bis cds,
dovranno essere notificate alla luce della
novella normativa, indicando il termine di
30 giorni, anziché gli attuali 60 giorni».
Restano salve solo le multe accertate prima
del 6 ottobre e non ancora notificate per le
quali continuerà a valere il vecchio termine
(articolo ItaliaOggi del 04.10.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Istruzioni per bolli e
diritti, ma il Suap parte al ralenti.
Circolare sui pagamenti e sullo sportello
unico attività produttive.
Arrivano le modalità tecniche per i
pagamenti di bolli e diritti relativi ai
procedimenti presentati al Suap, ma lo
sportello unico parte, comunque, al
rallentatore. Insomma, l'01.10.2011
che doveva rappresentare la data della
grande svolta della informatizzazione della
pubblica amministrazione, perché i
procedimenti relativi alle attività
economiche dovevano svolgersi esclusivamente
online, è passato senza particolari
trambusti. Anche perché è intervenuta, nel
frattempo, la
nota 28.09.2011
n. 1431 di prot., a firma congiunta degli uffici
legislativi del ministero dello sviluppo
economico e della presidenza del consiglio
dei ministri, con la quale sono fornite a
tutti gli enti interessati e all'Anci in
primis, le indicazioni operative.
Il rinvio,
del resto, era scontato, anche perché la
legge 12.07.2011 n. 106, di conversione
del dl 70 aveva già anticipato che «Con
decreto del ministro dello sviluppo
economico e del ministro per la
semplificazione normativa, sentito il
ministro per la pubblica amministrazione e
l'innovazione, sono individuate le eventuali
misure che risultino indispensabili per
attuare, sul territorio nazionale, lo
sportello unico e per garantire, nelle more
della sua attuazione, la continuità della
funzione amministrativa, anche attraverso
parziali e limitate deroghe alla relativa
disciplina.»
Per il resto, la circolare
anticipa quelli che saranno i contenuti del
decreto attualmente all'esame della
Conferenza unificata, anche se –è la stessa
circolare a puntualizzarlo– la sua entrata
in vigore non potrà che essere successiva
all'abrogazione del dpr 447/1998 che fino al
30 settembre aveva disciplinato alcune
tipologie di procedimento per i Suap già
operativi. Lo Sportello unico disciplinato
dal dpr 160/2010 che in attuazione delle
disposizioni emanate dal Parlamento a favore
dell'«impresa in un giorno» prevede essere
l'unico interlocutore al quale il prestatore
è tenuto a rivolgersi, stenta, quindi, a
decollare, anche se la suddetta circolare
del 28 settembre scioglie alcune delle più
complesse problematiche relative ai
procedimenti telematici. Tra le diverse
questioni, infatti, che il decreto sarà
chiamato a risolvere, sono i pagamenti.
È
stato previsto che il soggetto interessato
provvede, qualora il Suap non disponga
dell'autorizzazione che consente il
pagamento dell'imposta di bollo in modo
virtuale, a inserire nella domanda i numeri
identificativi delle marche da bollo
utilizzate, nonché ad annullare le stesse,
conservandone gli originali. Il decreto,
inoltre, intende valorizzare l'esperienza
del portale www.impresainungiorno.gov.it che
già oggi contiene tutte le informazioni
relative allo sportello unico, compreso
l'elenco dei Suap che sono stati fino ad ora
accreditati.
È prevista, infatti,
l'individuazione di un metodo condiviso con
le amministrazioni competenti, al fine di
validare la modulistica di riferimento per
ogni procedimento. Tale modulistica sarà
utilizzata, si precisa, da tutti i soggetti
interessati, qualora lo Suap dovesse
risultarne sprovvisto
(articolo ItaliaOggi del 04.10.2011). |
ARAN |
PUBBLICO IMPIEGO:
ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/
Nel caso si intenda procedere
alla risoluzione di un contratto di
formazione e lavoro prima della sua
scadenza, qual è il termine di preavviso?
Come deve calcolarsi la relativa indennità
sostitutiva?
(parere
06.06.2011 n. RAL-412 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/
Il dipendente assente per
malattia ha un vero e proprio diritto
soggettivo all’ulteriore periodo di assenza
previsto dall’art. 21, comma 2, del CCNL del
06.07.1995?
In caso negativo, quand’è che
l’amministrazione può legittimamente
rifiutarglielo?
(parere
06.06.2011 n. RAL-411 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/
Se dall’accertamento medico
effettuato ai sensi dell’art. 21 del CCNL
del 06.07.1995 risulta che il dipendente può
permanentemente svolgere solo in modo
parziale le mansioni del proprio profilo è
corretto mantenerlo in servizio?
(parere
06.06.2011 n. RAL-410 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/
Al fine della risoluzione del
rapporto di lavoro conseguente
all’applicazione dell’art. 21, commi 4 e
4-bis, del CCNL del 06.07.1995 e successive
modifiche, è necessario attendere in ogni
caso il superamento del periodo di comporto?
(parere
06.06.2011 n. RAL-409 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/
Che significato deve essere
attribuito all’espressione “l’Ente può
procedere alla risoluzione del rapporto,
corrispondendo al dipendente l’indennità
sostitutiva del preavviso” contenuta
nell’art. 12 del CCNL del 05/10/2001?
(parere
06.06.2011 n. RAL-408 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/
Si può risolvere il rapporto di
lavoro di un dipendente dichiarato inidoneo
alle proprie mansioni, in mancanza di altri
posti vacanti di altri profili?
(parere
06.06.2011 n. RAL-407 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/
Il dipendente dimissionario che
fruisce di una pensione di anzianità, può
presentare domanda per la ricostituzione del
rapporto di lavoro (ai sensi dell’art. 26
del CCNL del 14.09.2000) dopo il
raggiungimento dei 65 anni?
(parere
06.06.2011 n. RAL-406 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/
E’ possibile avere qualche
chiarimento sulla disciplina applicabile
alle dimissioni presentate dalla lavoratrice
durante il periodo in cui è previsto il
divieto di licenziamento ai sensi dell’art.
54 del D.Lgs. 151/2001?
(parere
06.06.2011 n. RAL-405 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/
Un dipendente che abbia
rassegnato le dimissioni con effetto
dall’01.01.2001 può anticipare la
risoluzione del rapporto all’01.09.2000?
(parere
06.06.2011 n. RAL-404 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/
In caso di pagamento
dell’indennità sostituiva del preavviso, da
quando si verifica l’effetto risolutivo del
rapporto?
(parere
06.06.2011 n. RAL-403 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/
E’ possibile revocare le
dimissioni ?
In caso positivo, per il periodo
intercorrente tra la cessazione del rapporto
e la ripresa del servizio qual è il
trattamento economico da corrispondere al
dipendente?
(parere
06.06.2011 n. RAL-402 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
NORME DISCIPLINARI/ Un
dipendente, sospeso dal servizio perché
rinviato a giudizio, sta prestando la
propria attività di lavoro dipendente a
favore di terzi.
È dovuto l'assegno alimentare, e con quali
modalità, devono essere ripetute le somme
corrisposte a tale titolo nel caso in cui il
dipendente sia sottoposto a condanna passata
in giudicato?
(parere
05.06.2011 n. RAL-667 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
NORME DISCIPLINARI/ E’
possibile per il datore di lavoro pubblico
applicare la sanzione della sospensione dal
servizio e dalla retribuzione anche nel caso
in cui il dipendente sia in malattia nel
momento in cui gli deve essere eseguita la
sanzione stessa, senza dovere attendere la
cessazione dello stato morboso?
(parere
05.06.2011 n. RAL-666 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
NORME DISCIPLINARI/ La
cessazione del rapporto di lavoro per
dimissioni volontarie estingue il
procedimento disciplinare?
(parere
05.06.2011 n. RAL-665 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
NORME DISCIPLINARI/
Quali sono gli effetti della sentenza con la
quale il TAR ha annullato un provvedimento
di destituzione dall’impiego?
In particolare, il periodo intercorso tra la
destituzione e la riammissione in servizio è
utile ai fini della maturazione delle ferie
e ai fini della progressione economica
all’interno della categoria?
(parere
05.06.2011 n. RAL-664 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Nella
espressione 'compensi Istat' sono da
ricomprendere anche quelli relativi ai
censimenti?
Tali compensi possono essere corrisposti
anche ai titolari delle posizioni
organizzative?
(parere
05.06.2011 n. RAL-639 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Quali
sono gli adempimenti per l’attribuzione al
personale incaricato di posizione
organizzativa di prestazioni straordinarie
elettorali e compensi ISTAT?
Gli enti possono farsi carico delle relative
risorse?
(parere
05.06.2011 n. RAL-638 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Quali
sono i criteri guida per la disciplina dei
compensi ai professionisti?
Le relative risorse devono intendersi al
netto o al lordo degli oneri riflessi?
(parere
05.06.2011 n. RAL-637 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Il
compenso spettante al segretario di una
commissione può essere corrisposto anche al
responsabile di posizione organizzativa?
(parere
05.06.2011 n. RAL-636 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ E’
possibile avere chiarimenti
sull’applicazione dell’art. 8 del CCNL del
05.10.2001 che consente di integrare la
retribuzione di risultato del personale
dell’area delle posizioni organizzative?
In particolare, quali sono, se ci sono, i
momenti di confronto con le OO.SS.? Da
quando è efficace il citato art. 8?
(parere
05.06.2011 n. RAL-635 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ I
compensi per recupero evasione ICI possono
essere corrisposti al personale incaricato
delle posizioni organizzative anche con
decorrenza dal gennaio 2000?
(parere
05.06.2011 n. RAL-634 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Sono
compatibili con la retribuzione di posizione
i compensi per "recupero evasione fiscale"?
(parere
05.06.2011 n. RAL-633 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ La
disciplina per il pagamento dei compensi per
straordinario elettorale, di cui all'art. 39
del CCNL del 14.09.2000, ha decorrenza
retroattiva?
(parere
05.06.2011 n. RAL-632 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Il
Comandante della Polizia Municipale,
titolare di posizione organizzativa, che
coordina un progetto intercomunale, può
partecipare alla distribuzione delle risorse
specificamente destinate al progetto?
(parere
05.06.2011 n. RAL-631 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/
L'indennità di vigilanza per gli incaricati
delle posizioni organizzative di cui
all'art. 35 del CCNL del 14.09.2000 ha
effetto retroattivo?
(parere
05.06.2011 n. RAL-630 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Quali
compensi possono essere corrisposti al
responsabile dell’area della vigilanza
(incaricato di posizione organizzativa)
oltre alla retribuzione di posizione?
(parere
05.06.2011 n. RAL-629 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ E’
possibile che un ente stabilisca di
remunerare le attività svolte dai
responsabili di posizione organizzativa
nell’ambito di un progetto finalizzato
attraverso l’istituzione di un apposito
compenso denominato “indennità di pronta
disponibilità”?
(parere
05.06.2011 n. RAL-628 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Quali
sono i compensi aggiuntivi spettanti al
personale incaricato di posizione
organizzativa, oltre alla retribuzione di
posizione e alla retribuzione di risultato?
(parere
05.06.2011 n. RAL-627 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ L’art.
B10 del CCNL del 22.01.2004 prevede che
l’importo della retribuzione di posizione
per le alte professionalità varia da un
minimo di € 5.160,66 ad un massimo di €
16.000,00; si chiede di sapere se ai
funzionari che già godevano di detta
indennità nella misura massima di £.
25.000.000 (oggi € 12.911,42), sia
automaticamente attribuibile l’indennità di
€ 16.000,00, con la medesima decorrenza
contrattuale dei benefici economici
(01.01.2002)
(parere
05.06.2011 n. RAL-626 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/
Responsabile di posizione organizzativa in
distacco sindacale: quali effetti produce,
sul suo trattamento economico, la
rideterminazione dei valori delle
retribuzioni di posizione di cui all’art. 10
del CCNL sul sistema di classificazione del
31.03.1999?
(parere
05.06.2011 n. RAL-625 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ La
retribuzione di posizione deve essere
corrisposta per tredici mensilità?
Il valore annuo della retribuzione di
posizione ricomprende anche la 13^ mensilità
e quindi deve essere diviso, e corrisposto,
per 13 mesi, secondo la chiara previsione
dell'art. 11 del CCNL del 31.03.1999
(parere
05.06.2011 n. RAL-624 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ La
retribuzione di posizione è utile per la
determinazione del trattamento di pensione e
dell’indennità di buonuscita?
In relazione al quesito formulato, possiamo
segnalare che l'INPDAP, con la recente
circolare n. 51 del 28.11.2000, ha
specificato che la retribuzione di posizione
di cui all'art. 10 e 11 del CCNL
dell'01.04.1999, è utile ai fini del
trattamento di pensione (quota A) mentre non
è interamente utile per la determinazione
della indennità premio di fine servizio
(buonuscita) se non nella misura di L.
1.500.000, che corrisponde alla precedente
indennità del personale di ottava qualifica
(parere
05.06.2011 n. RAL-623 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Il valore
minimo della retribuzione di risultato (10%)
deve essere comunque riconosciuto al
responsabile della posizione organizzativa?
(parere
05.06.2011 n. RAL-622 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ L’art.
10, comma 1, del CCNL del 31.03.1999 prevede
che il trattamento economico accessorio del
personale incaricato di una delle posizioni
di cui agli artt. 8 e ss. sia costituito
unicamente dalla retribuzione di posizione e
dalla retribuzione di risultato disciplinate
nello stesso art. 10. Come devono essere
remunerate le prestazioni di lavoro
straordinario?
(parere
05.06.2011 n. RAL-620 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Il
dipendente incaricato di una delle posizioni
di cui agli artt. 8 e ss. del CCNL del
31.03.1999 perde la possibilità di
effettuare passaggi all’interno della
categoria per effetto di progressione
economica?
(parere
05.06.2011 n. RAL-619 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/
All’incaricato di posizione organizzativa
deve essere mantenuta la quota di LED
attribuita o deve essere riassorbita nella
retribuzione di posizione?
(parere
05.06.2011 n. RAL-618 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Qual è il
personale cui va corrisposta l’indennità di
direzione e staff di cui all’art. 37, comma
4, CCNL 06/07/1995 di £. 1.500.000?
(parere
05.06.2011 n. RAL-617 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Se un
ente adotta un orario di lavoro articolato
su 38 ore settimanali su sei giorni per tre
settimane e 30 ore settimanali su cinque
giorni per la quarta settimana, è possibile
che anche il responsabile di posizione
organizzativa fruisca, nella quarta
settimana e con libera scelta del giorno,
del previsto “riposo compensativo”?
(parere
05.06.2011 n. RAL-616 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/
L’orientamento dell’ARAN a riconoscere il
riposo compensativo al personale incaricato
di posizione organizzativa nel caso di
attività prestata in giorno di riposo
settimanale può essere intesa anche al caso
di prestazione lavorativa di sabato?
(parere
05.06.2011 n. RAL-615 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Le
prestazioni lavorative rese da personale
incaricato di una delle posizioni
organizzative di cui agli artt. 8 e ss. del
CCNL del 31.03.1999 in giornata domenicale o
festiva infrasettimanale danno diritto a
compensi aggiuntivi e/o al recupero della
giornata di riposo?
(parere
05.06.2011 n. RAL-614 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Il
dipendente incaricato di una posizione
organizzativa può gestire il proprio orario
di lavoro in modo flessibile, come i
dirigenti, o è tenuto a rispettare le regole
stabilite per tutti i dipendenti? In
particolare, per posticipare il suo orario
d’entrata deve farsi autorizzare?
(parere
05.06.2011 n. RAL-613 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ E’
possibile estendere la disciplina in materia
di orario di lavoro dei dirigenti al
personale incaricato di posizione
organizzativa?
(parere
05.06.2011 n. RAL-612 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Il
dipendente in aspettativa per dottorato di
ricerca con rinuncia alla borsa di studio ha
diritto, ai sensi dell'art. 52, comma 57,
della L. n. 448/2001, alla conservazione
della retribuzione di posizione e di
risultato in godimento?
Anche in caso di scadenza dell'incarico di
posizione organizzativa durante il periodo
di aspettativa o in caso di successive
modifiche organizzative?
Se sì, è possibile frazionare in più periodi
l'aspettativa in modo da garantire, almeno
in parte, l'effettivo espletamento dei
compiti ai quali è collegata la retribuzione
di posizione e di risultato?
(parere
05.06.2011 n. RAL-611 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ La
retribuzione di risultato prevista dall’art.
10 del CCNL del 31.03.1999 spetta anche per
i periodi di congedo parentale?
In caso affermativo, deve essere liquidata
sulla base della retribuzione di posizione
teoricamente spettante o sulla base di
quella effettivamente corrisposta?
(parere
05.06.2011 n. RAL-610 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ La
dipendente in congedo di maternità ha
diritto alla retribuzione di posizione di
cui all’art. 10 del CCNL del 31.03.1999 per
tutta la durata del congedo anche se
l’incarico di posizione organizzativa scade
all’interno di tale periodo?
(parere
05.06.2011 n. RAL-609 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Alla
dipendente incaricata di posizione
organizzativa deve essere corrisposta la
retribuzione di posizione durante i periodo
di astensione facoltativa e di assenza per
malattia del figlio?
(parere
05.06.2011 n. RAL-608 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Al
personale incaricato di posizione
organizzativa si può applicare la disciplina
dei permessi brevi di cui all’art. 20 CCNL
06/07/1995? Si può disciplinare la presenza
in servizio oltre le 36 ore settimanali?
(parere
05.06.2011 n. RAL-607 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ La
retribuzione di posizione prevista dall’art.
10, comma 1, del CCNL del 31.03.1999 spetta
anche in caso di assenza prolungata?
(parere
05.06.2011 n. RAL-606 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Nei
comuni privi di qualifiche dirigenziali che
rapporto c'è tra le posizioni di
responsabilità di uffici e servizi e le
posizioni organizzative?
Esiste un obbligo alla corresponsione della
retribuzione di posizione e di risultato?
(parere
05.06.2011 n. RAL-606 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Qual è il
trattamento economico da riconoscere al
responsabile di posizione organizzativa che
sostituisca nelle funzioni (con incarico ad
interim) una collega assente per congedo di
maternità (anche lei responsabile di
posizione organizzativa)?
(parere
05.06.2011 n. RAL-605 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Come
bisogna comportarsi per la sostituzione
dell'incaricato di posizione organizzativa?
(parere
05.06.2011 n. RAL-604 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Gli
incarichi delle posizioni organizzative
possono essere affidate, nei comuni di cui
all’art. 11 del ccnl del 31.03.1999, al
personale della categoria C anche nel caso
in cui l’ente abbia uno o più posti della
categoria D?
(parere
05.06.2011 n. RAL-603 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Il
regolamento di un comune privo di dirigenza
prevede la istituzione dei Settori, come
strutture apicali; lo stesso regolamento
consente che le funzioni dirigenziali ex
art. 107 del TUEL possono essere attribuite
solo ad alcuni capi-settore, i settori con
responsabile privo di funzioni dirigenziali
è inserito funzionalmente in altro settore
al cui responsabile sono attribuite le
funzioni gestionali dirigenziali.
Secondo l’art. 15 del CCNL 22.01.2004 la
posizione organizzativa deve essere
riconosciuta a tutti i capi-settore, con
relativa attribuzione della retribuzione e
del risultato?
(parere
05.06.2011 n. RAL-602 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Ente
privo di posizioni di qualifica dirigenziale
che abbia applicato la disciplina dell’area
della posizioni organizzative ai
responsabili dei servizi ai sensi dell’art.
11, comma 1, del CCNL del 31.03.1999: in
caso di assenza per malattia di lunga
durata, è possibile revocare l’incarico di
posizione organizzativa al responsabile di
servizio?
(parere
05.06.2011 n. RAL-601 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ E’
possibile attribuire funzioni di
rappresentanza dell’ente o incarichi di
posizione organizzativa a soggetti con
incarico di collaborazione?
(parere
05.06.2011 n. RAL-600 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ E’
possibile attribuire incarichi di posizione
organizzativa, con i corrispondenti
trattamenti economici, con effetto
retroattivo?
(parere
05.06.2011 n. RAL-300 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Il
dipendente può rifiutare l’incarico di
posizione organizzativa che l’ente abbia
deciso di conferirgli?
(parere
05.06.2011 n. RAL-299 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Qual’è,
all’interno dell’ente, il soggetto
competente per il conferimento degli
incarichi di posizione organizzativa?
(parere
05.06.2011 n. RAL-298 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ In un
comune privo di figure dirigenziali è stato
istituito un apposito “fondo” (distinto
dalle risorse dell’art. 15 del CCNL del
01.04.1999) per corrispondere la
retribuzione di posizione e di risultato dei
responsabili dei servizi nominati dal
Sindaco. Si formulano i seguenti quesiti:
1) le risorse corrispondenti allo 0,20% del
monte salari dell’anno 2001, destinate a
remunerare gli incarichi delle alte
professionalità (art. 32, comma 7, e art.
10, comma 5, del CCNL del 22.01.2004) devono
essere inserite tra le risorse decentrate
stabili (art. 31, comma 2 del CCNL
22.01.2004) oppure tra quelle del “fondo”
della retribuzione di posizione e di
risultato delle P.O.?
2) l’incremento delle predette risorse
decorre dell’anno in cui viene istituita la
posizione di alta professionalità o si
devono calcolare comunque a partire
dall’anno 2003?
3) Se non si intende istituire una posizione
di alta professionalità, si deve comunque
integrare il “fondo” dello 0,20% del monte
salari 2001?
(parere
05.06.2011 n. RAL-297 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ E’
possibile, in un Comune privo di dirigenza,
utilizzare le risorse destinate al fondo di
produttività per il finanziamento della
retribuzione di posizione e risultato dei
responsabili di servizio?
(parere
05.06.2011 n. RAL-296 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Alcune
precisazioni circa il finanziamento, la
quantificazione e la corresponsione
dell’indennità di risultato solo negli enti
con dirigenza
(parere
05.06.2011 n. RAL-295 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Le
risorse necessarie per il pagamento della
retribuzione di posizione e di risultato ai
responsabili degli uffici e dei servizi, nei
Comuni destinatari dell’art. 11 del CCNL del
31.03.1999, sono interamente a carico del
bilancio dell’ente?
(parere
05.06.2011 n. RAL-294 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Quali
sono gli strumenti e le procedure da
attivare per la definizione dell’area delle
posizioni organizzative?
(parere
05.06.2011 n. RAL-293 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ L’ente è
obbligato ad applicare la disciplina degli
artt. 8 e seguenti del CCNL del 31.03.1999
sulle posizioni organizzative?
Possono essere stabiliti valori diversi da
quelli contrattuali per la retribuzione di
posizione?
(parere
05.06.2011 n. RAL-292 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Il
riproporzionamento dell’indennità di
posizione e di risultato per le posizioni
organizzative a tempo parziale ha valenza
retroattiva?
(parere
05.06.2011 n. RAL-291 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ In un
ente con dirigenza è possibile il
conferimento di un incarico di P.O. ad un
dipendente con rapporto di lavoro a tempo
parziale?
(parere
05.06.2011 n. RAL-290 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Il
responsabile di una posizione organizzativa
può delegare ad altri dipendenti le relative
funzioni?
(parere
05.06.2011 n. RAL-289 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Ad un
dipendente inquadrato in categoria D, con
incarico di P.O. ai sensi della lett. a),
dell’art. 8 del CCNL 31.03.1999, può essere
attribuito anche un incarico di alta
professionalità, ai sensi dell’art. 10,
comma 2, lett. a), del CCNL del 22.01.2004,
elevando la retribuzione di posizione a
16.000 euro?
(parere
05.06.2011 n. RAL-288 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ Il
principio relativo alla adozione degli atti
di diritto comune per la valorizzazione
delle alte professionalità, di competenza
dei dirigenti, trova applicazione anche con
riferimento agli adempimenti per la
applicazione della disciplina delle PO di
cui alla lettera a) dell’art. 8, del CCNL
31.03.1999?
(parere
05.06.2011 n. RAL-287 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ La
disciplina delle posizioni organizzative non
attinenti alla direzione di struttura, di
cui all’art. 8, comma 1, lett. b) e c.), del
ccnl del 31.03.1999, continua ad applicarsi
anche dopo l’introduzione delle alte
professionalità di cui all’art. 10 del ccnl
del 22.01.2004?
(parere
05.06.2011 n. RAL-286 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI
ORGANIZZATIVE/ L’art. 8,
comma 1, del CCNL del 31.03.1999 prevede che
gli enti istituiscono posizioni di lavoro
caratterizzate da 'assunzione diretta di
elevata responsabilità di prodotto e di
risultato'.
Come deve intendersi tale espressione?
(parere
05.06.2011 n. RAL-285 - link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
FORMAZIONE/ L’art. 23
del CCNL dell’01/04/1999 obbliga gli enti a
destinare alla formazione “una quota pari
almeno all’1% della spesa complessiva del
personale”?
(parere
05.06.2011 n. RAL-128 - link a www.aranagenzia.it). |
NEWS |
VARI: Multicorsia.
Massima visibilità per i limiti.
Anche sulle strade a due
o più corsie per ogni senso di marcia serve
la massima trasparenza sul limite di
velocità che deve essere obbligatoriamente
ripetuto a sinistra o sopra alla
carreggiata. Non vale la stessa regola per
il segnale di preavviso di controllo
autovelox in atto che secondo il codice
basta sia facilmente avvistabile.
Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti
con il parere
20.09.2011 n. 4720.
Dal mese di agosto 2007 tutti i dispositivi
per il controllo elettronico della velocità
devono essere segnalati con pannelli
tradizionali o luminosi, ai sensi dell'art.
3 del dl 117/2007. Per quanto riguarda i
segnali tradizionali, sul pannello
rettangolare di dimensioni e colori propri
del tipo di strada sul quale saranno
installati dovrà essere indicata la frase «controllo
elettronico della velocità» oppure «rilevamento
elettronico della velocità». Questa
annotazione dovrà comparire anche sui
segnali a messaggio variabile installati
sulle strade o sui veicoli di servizio.
La normativa vigente non opera distinzione
tra postazioni presidiate e postazioni non
presidiate conseguentemente non è previsto
che la segnalazione si riferisca alle
modalità di funzionamento delle
apparecchiature. Nessuna disposizione
richiede che i sistemi automatici per il
controllo della velocità debbano essere
preventivamente segnalati diversamente dalle
postazioni mobili presidiate dalla polizia.
Con il dm 15.08.2007 sono poi state fissate
nel dettaglio le caratteristiche e le
modalità di impiego dei segnali e dei
dispositivi. Un utente stradale ha richiesto
chiarimenti nel caso di circolazione su una
strada a due o più corsie per ogni senso di
marcia. In particolare come deve essere
organizzata la segnaletica indicante il
limite di velocità e il preavviso di
controllo in atto.
A parere dell'organo centrale di via Caraci
il regolamento stradale impone la
ripetizione dei segnali prescrittivi tra i
quali è ricompreso il limite di velocità sul
lato sinistro o al di sopra della
carreggiata. Per i segnali di indicazione,
prosegue la nota centrale, «tra i quali
sono ricompresi quelli relativi al preavviso
di controllo della velocità, l'art. 124/3°
del regolamento impone invece che siano
facilmente avvistabili e riconoscibili,
senza ulteriori precisazioni»
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Parere aran. E-learning, la p.a.
non dà permessi.
Non spettano le 150 ore
di permesso retribuito per studio ai
lavoratori pubblici che frequentano corsi
organizzati dalle università telematiche.
Infatti, in questi casi, posto che il
lavoratore non è tenuto a rispettare un
orario di frequenza del corso in orari
prestabiliti, si può ritenere che ciò possa
avvenire anche al di fuori dell'orario di
lavoro, con il conseguente venire meno di
ogni necessità di fruizione dei citati
permessi.
È quanto precisa l'Aran nel testo del parere 25.09.2011 n.
166, rispondendo a un quesito
relativo alla corretta fruizione dei
permessi retribuiti per diritto allo studio
ex art. 13 Ccnl 16/05/2001 (meglio noti come
150 ore).
L'Agenzia, infatti, precisa che i permessi
in oggetto possono essere fruiti solo per
lezioni e corsi di studio il cui svolgimento
sia previsto in concomitanza con l'orario di
lavoro. In tale ambito, pertanto,
l'attestato di partecipazione o di frequenza
assume un rilievo prioritario, in quanto
certifica sia la circostanza dell'effettiva
presenza alle lezioni sia quella che le
medesime lezioni si svolgono all'interno
dell'orario di lavoro (ciò che giustifica la
fruizione dei permessi).
In presenza di un lavoratore che deve
seguire dei corsi organizzati da università
telematiche, proprio la circostanza che lo
stesso non è tenuto a rispettare un orario
di frequenza del corso in orari
prestabiliti, induce l'Aran a ritenere che
ciò possa avvenire anche al di fuori
dell'orario di lavoro, con il conseguente
venir meno della fruizione dei citati
permessi. Infatti, non essendo obbligato a
partecipare necessariamente alle lezioni in
orari rigidi, come avviene nelle università
ordinarie, il lavoratore potrebbe sempre
scegliere orari di collegamento compatibili
con l'orario di lavoro nell'ente.
Tuttavia, apre uno spiraglio l'Agenzia, i
permessi potrebbero essere concessi solo nel
caso in cui il dipendente fosse in grado di
presentare, in particolare, un certificato
dell'Università che attesti «che lo
stesso ha seguito personalmente,
effettivamente e direttamente le lezioni
trasmesse in via telematica e che le
giornate e gli orari coincidono con le
ordinarie prestazioni lavorative»
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2011). |
ENTI LOCALI:
Società
on-line entro il 6 ottobre. Ogni ente deve
pubblicare sul sito i dati delle realtà di
cui detiene quote.
Trasparenza. L'obbligo riguarda le
partecipazioni dirette e indirette, anche di
minoranza, e i risultati di bilancio.
Partirà il prossimo 6 ottobre il calendario
degli adempimenti delle manovre correttive,
con il termine per la pubblicazione online
dei dati delle società a partecipazione
pubblica (articolo 8 del decreto legge n.
98/2011, convertito dalla legge n.
111/2011).
Il nuovo obbligo di trasparenza richiede a
tutte le amministrazioni di pubblicare sul
sito istituzionale, e aggiornare
periodicamente, l'elenco delle società di
cui detengono, direttamente o
indirettamente, quote di partecipazione
anche minoritaria. Di ogni società vanno
indicati i seguenti elementi: la quota del
capitale sociale posseduta dall'ente
pubblico e se ha raggiunto, con riferimento
al triennio antecedente la data di
pubblicazione, il "pareggio di bilancio".
Un'espressione, quest'ultima, tipica della
contabilità pubblica ed estranea al mondo
della contabilità privata, dove va
necessariamente ricondotta al risultato
economico positivo. Dovrà inoltre essere
diffusa sul sito una rappresentazione
grafica che evidenzi i collegamenti tra
l'ente e le società o tra le controllate.
Anche se non è richiesto, andrebbe data
l'informativa delle società che sono in
corso di dismissione perché non strategiche.
Va rilevato poi che il riferimento alle
"società" taglia fuori dall'obbligo di
trasparenza i consorzi, le associazioni e le
fondazioni.
Qualche ente ha già provveduto a inserire
nel sito, all'interno della sezione
«Trasparenza, valutazione e merito», le
ulteriori informazioni societarie su
denominazione, quote di partecipazione e
risultato 2008, 2009 e 2010; in diversi casi
i Comuni si sono limitati a indicare
l'esistenza o meno del pareggio di bilancio,
senza dare il valore effettivo del risultato
economico.
Il nuovo adempimento va ad aggiungersi a
quello relativo alla pubblicazione nel sito
e nell'albo degli incarichi di
amministratore delle società e dei relativi
compensi (articolo 1, comma 735, legge
296/2006), sottoposto a un vincolo di
aggiornamento semestrale. In quest'ultimo
caso la sanzione per l'inadempimento,
irrogata dal prefetto nella cui
circoscrizione ha sede la società, è pari a
10mila euro. A partire dall'01.01.2011
va ricordato che l'obbligo in parola, come
tutti quelli di pubblicazione di atti e
provvedimenti aventi effetto di pubblicità
legale, è assolto con la pubblicazione sul
solo sito informatico (articolo 32, legge
69/2009).
Sempre in campo di pubblicazione online sono
arrivate di recente (Dpcm 26.04.2011,
pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del
1° agosto) le modalità di pubblicazione nei
siti informatici delle gare e dei bilanci.
Il decreto attuativo dell'articolo 32, comma
2, della legge 69/2009 prevede che siano
pubblicati sul sito e raggiungibili da
apposita etichetta: i bandi di gara, i bandi
di gara scaduti e i bilanci. Gli atti da
pubblicare sono costituiti da documenti
amministrativi informatici o da copie
informatiche di documenti analogici.
I bilanci, che devono essere direttamente
raggiungibili dalla home page, sono
riportati utilizzando i modelli stabili per
la pubblicazione sui quotidiani (Dpr
90/1989); essi devono essere consultabili in
ordine cronologico e senza alcuna
limitazione temporale. Dall'01.01.2013,
infine, le pubblicazioni dei bilanci
effettuate in forma cartacea non avranno
effetto di pubblicità legale, per cui la
pubblicazione dovrà avvenire solo sul sito (articolo Il Sole 24 Ore del
03.10.2011). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Spending review sulla gestione del personale.
Le misure straordinarie di carattere
finanziario contenute nelle ultime manovre
dovranno spingere le pubbliche
amministrazioni a effettuare una revisione
strutturale della spesa, uscendo fuori
dall'angolo dei tagli lineari, al fine di
realizzare un ridisegno delle
amministrazioni in tutta la loro estensione
e articolazione.
Le amministrazioni dovranno intanto
applicare le disposizioni di
razionalizzazione contenute nel Dl 98/2011 e
nel Dl 138/2011, diverse per comparto e per
livello di governo. Se le amministrazioni
centrali dello Stato saranno tenute nei
prossimi mesi a razionalizzare i propri
uffici periferici, a rivedere in riduzione
gli organici, accorpare gli enti
previdenziali, eccetera, oltre a
sperimentare la spending review, per gli
enti locali si prevedono maggiori limiti in
materia di assunzioni, l'inclusione delle
spese di personale delle partecipate nei
vincoli di riferimento, la razionalizzazione
delle partecipate, la realizzazione di
unioni per i comuni sotto i mille abitanti,
nonché la gestione associata delle funzioni
fondamentali per i comuni da mille a 5mila
abitanti. Cui si aggiungeranno per gli enti
locali gli effetti dei tagli ai
trasferimenti e gli obiettivi del patto di
stabilità.
Il quadro è tale quindi da richiedere piani
di razionalizzazione strutturali e nuovi
modelli di gestione. Per questo occorre
pensare ad alcune soluzioni organizzative e
logistiche che già da tempo le
amministrazioni avrebbero potuto adottare e
che invece o sono rimaste sulla carta oppure
hanno trovato un'applicazione distorta e
inefficiente.
L'esempio classico e oggi più evidente è
dato dalla gestione del personale, una
funzione interna resa sempre più complessa
dall'evolversi del quadro normativo e che
assorbe molte energie e personale
all'interno delle singole amministrazioni.
Il paradosso è dato dal fatto che non solo
ogni amministrazione ha un proprio ufficio
per il personale, ma spesso ogni settore,
dipartimento o direzione ha a sua volta una
propria struttura dedicata. Un'area questa
che potrebbe essere certamente
esternalizzata e gestita in forma associata,
migliorando così l'efficienza ma anche la
qualità dei servizi.
Nell'ambito della
gestione del personale è possibile ad
esempio ricorrere alle agenzie per il
lavoro, che sono portatrici di un know how
di rilievo nel settore della gestione delle
risorse umane; questo consentirebbe alle
amministrazioni interessate di liberare
seriamente il settore pubblico da una serie
di incombenze amministrative. Già l'articolo
74 del Dl 112/2008 aveva individuato i
criteri di riorganizzazione e riduzione
degli organici con particolare riferimento
alla concentrazione dell'esercizio delle
funzioni istituzionali, attraverso il
riordino delle competenze degli uffici e
all'unificazione delle strutture che
svolgono funzioni logistiche e strumentali.
Ma alla fine tutte le amministrazioni,
paradossalmente, hanno proceduto al semplice
taglio lineare.
Tanti altri esempi si possono fare, spesso
supportati da una esplicita previsione
normativa: dall'ufficio relazione con il
pubblico all'ufficio disciplinare,
dall'organismo di valutazione alla gestione
del sito internet, nonché alla gestione dei
bilanci e degli appalti.
Ma pur in presenza di una esplicita
previsione normativa, le amministrazioni
hanno sempre preferito gestire attraverso un
proprio ufficio o settore oppure realizzarci
persino delle società in house. Un'altra
area da aggredire è quella della
razionalizzazione degli immobili di
proprietà e in locazione. Il blocco delle
assunzioni per anni, i processi di
semplificazione e digitalizzazione, le
esternalizzazioni hanno ridotto
sensibilmente il fabbisogno immobiliare
delle Pa, ma resistenze interne e incapacità
di mettere a valore gli immobili portano a
una spesa elevata e crescente.
La migliore razionalizzazione inoltre è
quella che avviene dal basso, che è più
prossima, in quanto è in grado di scegliere
tra spesa buona e spesa cattiva, di tagliare
ma di effettuare investimenti. I piani di
razionalizzazione previsti dall'articolo 16
del Dl 98/2011 costituiscono un'occasione
per avviare dei piani di razionalizzazione
"industriali" e far nascere delle relazioni
sindacali alte nel settore pubblico. Per
questo sarà necessario eliminare i vincoli
finanziari sulla formazione, soprattutto se
finalizzata ad accompagnare i piani di
razionalizzazione o il programma di
revisione della spesa previsti dalla recente
normativa (articolo Il Sole 24 Ore del
03.10.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cessioni di cubature, più tutele
con la trascrivibilità nei registri. Con la
manovra-bis si possono formalizzare i
contratti che trasferiscono i diritti edificatori.
È possibile trascrivere le cessioni di
cubature e quindi formalizzare i contratti
concedendo le tutele tipiche della
trascrizione alle parti. L'articolo 5, comma
3, del decreto sviluppo ha previsto infatti
che sono trascrivibili nei registri
immobiliari «i contratti che trasferiscono i
diritti edificatori comunque denominati
nelle normative regionali e nei conseguenti
strumenti di pianificazione territoriale,
nonché nelle convenzioni urbanistiche a essi
relative».
La cessione della cubatura o del diritto a
edificare è uno strumento da tempo ammesso
dal nostro ordinamento. O meglio trattasi di
convenzioni in uso nella prassi che in
assenza di divieti espliciti
dell'ordinamento erano da considerare
lecite. L'intervento del decreto sviluppo
non sancisce la possibilità di attivare lo
strumento ma regolamenta invece la
trascrizione nei registri immobiliari dei
contratti che hanno a oggetto il volume
edificatorio.
L'obiettivo della norma è quello di offrire
certezza alle parti dei contenuti
contrattuali tra loro stipulati e aventi a
oggetto la cubatura e il risultato è
ottenuto aggiungendo all'articolo 2643 del
codice civile il numero 2-bis) la locuzione
secondo cui sono soggetti a trascrizione
anche i contratti che trasferiscono i
diritti edificatori e anche dei contratti
che «costituiscono o modificano» tali
«diritti edificatori» (tale ultimo inciso è
stato inserito nella legge di conversione
del decreto legge sviluppo).
Così facendo si superano le incertezze del
passato quando per dare rilevanza (o meglio
per poter trascrivere) a tali contratti si
accompagnava la cessione della cubatura a
una servitù così da rendere possibile la
trascrizione dell'atto. In sostanza
considerato che la cessione della cubatura
comporta che il diritto a edificare si
«sposta» da un immobile all'altro dopo aver
pattuito ciò si costituiva una servitù che
comportava la costituzione di un vincolo di
in edificabilità sull'immobile da cui era
trasferito il diritto .
Ora ciò non è più necessario.
Nella pratica una esemplificazione di tali
fattispecie è la seguente:
Mario Rossi è proprietario di un terreno su
cui non è più possibile edificare.
Nel contempo Giovanni Bianchi è proprietario
di un terreno che ha invece ancora una
capacità edificatoria di X metri cubi.
In forza della cessione Rossi potrà
utilizzare la capacità edificatoria
originariamente correlata al terreno di
Bianchi sul proprio terreno.
Con la trascrizione dell'atto l'operazione
diviene così trasparente anche per i terzi
che possono essere edotti delle reali
caratteristiche degli immobili dopo
l'intervenuta cessione.
Prima dell'intervento del legislatore la
giurisprudenza si era già interessata della
fattispecie cercando di offrire una
qualificazione.
La Corte di Cassazione, Sez. I civ., 14.12.1988 n. 6807, ha sostenuto che la
«cessione di cubatura» è quell'atto con cui
«il proprietario del fondo, cui inerisce una
determinata cubatura, distacca in tutto o in
parte la facoltà inerente al suo diritto
dominicale di costruire nei limiti della
cubatura concessagli dal piano regolatore e,
formando un diritto a se stante, lo
trasferisce definitivamente all'acquirente,
a beneficio del fondo di costui» (si veda).
In pratica si ritiene che l'edificabilità di
un'area (espressa in volumetria) costituisce
un valore economico che qualora si stacchi
dal terreno a cui inerisce forma oggetto
autonomo di contrattazione anche
ricollegandosi al fatto che l'art. 810 del
codice civile prevede che sono «beni le cose
che possono formare oggetto di diritti».
Non si può però dimenticare che tale tesi
non è stata l'unica sostenuta nei tempi
della giurisprudenza e anche sostenuta dalla
dottrina. Ora sembrerebbe che quella sopra
riportata proprio in forza della
trascrivibilità sia però quella che
maggiormente si addice al nuovo scenario
legislativo.
Pertanto ad oggi parrebbe che:
- il diritto di costruire sul proprio fondo
costituisce una caratteristica del fondo e
come sopra ricordato può civilisticamente
essere considerato un bene;
- il diritto è disponibile per il
proprietario che può esercitare la sua
facoltà o utilizzandola (costruendo) o
trasferendola a terzi con il risultato di
ampliare il diritto dell'acquirente e di
ridurre invece quello del cedente.
La qualificazione civilistica comporta
conseguenze fiscali non di poco conto. Anche
se non recente è bene da subito ricordare
che la risoluzione protocollo 250948 del 17.08.1976 la prassi amministrativa ha
sostenuto che «si debba convenire con quanto
più volte affermato dalla Corte di
cassazione... nel senso che il caso di
specie dà luogo alla produzione di effetti
analoghi a quelli derivanti da un atto
costitutivo di diritti reali immobiliari».
Si è in pratica abbracciato l'orientamento
della corte di cassazione secondo cui nella
cessione di cubatura si giunge ad
acquistare/cedere un diritto assimilabile a
quelli reali immobiliari di godimento.
---------------
Il regime Iva da
applicare è quello tipico dei terreni.
La cessione di cubatura sconta l'Imposta sul
valore aggiunto chiaramente sussistendo i
requisiti necessari per l'applicazione
dell'imposta. Anche con riguardo a tale
punto è decisivo l'orientamento della Corte
di cassazione che porta a parificare la
cubatura a un diritto reale (atipico) sul
terreno. Pertanto il regime Iva applicabile
è assimilabile a quello proprio dei terreni.
A sostegno di ciò la Suprema corte ha
sostenuto in tema di registro e Iva che è
sufficiente che nella convenzione in esame
si riscontrino effetti assimilabili a quelli
propri dei trasferimenti immobiliari per
giungere a ritenere tassabile la situazione.
In particolare il riferimento è effettuato
all'art. 20 del dpr 131/1986 Tur. In
sostanza si ritiene che l'operazione dia
luogo a un trasferimento ma oltretutto che
non si possa contestare il contenuto
patrimoniale dell'atto. Occorre dar valenza
al principio generale secondo cui l'imposta
di registro è applicata «secondo la
intrinseca natura e gli effetti giuridici
degli atti presentati alla registrazione,
anche se non vi corrisponda il titolo o la
forma apparente». La Corte di cassazione
arriva infatti ad affermare che ai fini
dell'imposizione (indiretta) il legislatore
ha ritenuto sufficiente che nella pattuizione tra le parti si riscontrino
effetti assimilabili a quelli propri di un
trasferimento immobiliare.
Tale orientamento
è stato poi confermato dalla Corte di
cassazione, con la sentenza n. 5363 del 02.11.1998 in cui si è affermato che «ai
fini dell'imposta di registro è soggetto
all'imposta proporzionale e non all'imposta
fissa, l'atto con cui il proprietario di un
lotto edificabile costituisce su di esso un
vincolo di inedificabilità... (la cessione
di cubatura), pur non essendo un atto
costitutivo di una servitù, non dà luogo
infatti a un mero vincolo amministrativo, in
quanto il trasferimento della potenzialità
edificatoria di un lotto all'altro comporta
una diminuzione del valore del primo lotto e
un correlativo incremento del valore
dell'altro».
---------------
Trattamento fiscale indiretto individuabile dall'ambito soggettivo.
Alternatività Iva o registro anche per la
cubatura. L'esatto trattamento ai fini delle
imposte indirette è direttamente
individuabile dalla natura soggettiva delle
parti della convenzione. Partendo
dall'assimilazione della cessione del
diritto a edificare a quello previsto per
l'immobile a cui si riferisce si deve
individuare il trattamento Iva o registro
avendo riguardo all'ambito soggettivo.
Da ciò è possibile riepilogare il
trattamento della cessione di cubatura ai
fini dell'imposte indirette in questo modo:
●
l'operazione è da assoggettare a Iva essendo
assimilata alla cessione dei terreni
edificabili;
●
la cessione è (alternativamente) da
assoggettare ad imposta di registro
scontando l'imposta nella misura prevista di
cui all'art. 1 della Tariffa A del dpr
131/1986.
Tale indicazioni derivano dal fatto che
proprio in forza dell'oggetto della
convenzione (il diritto a edificare) è
evidente come le regole applicabili siano
quelle proprie dei terreni edificabili.
Pertanto l'alternativa Iva o registro
dipenderà dalla natura del soggetto cedente
o meglio ancora dal fatto che l'operazione
sia posta in essere nell'ambito della sfera
privata o invece della sfera commerciale di
un soggetto.
Con riguardo ai riflessi Iva si segnala
anche la nota n. 42 del 16.04.1999 della
direzione delle regionale delle entrate
delle Marche che ha esaminato la questione
della assoggettabilità a Iva di una cessione
del diritto di usufruire della superficie
utile lorda (diritto di cubatura) relativa
al «relitto stradale» facente parte
dei beni comunali, giungendo a negare
l'assoggettamento ad imposta ma in realtà
confermando quanto sopra indicato. Infatti
tale conclusione nella nota della direzione
regionale non discende dall'analisi della
presenza del requisito oggettivo bensì dalla
carenza (sempre nel caso di specie) del
requisito soggettivo–imprenditoriale.
In sostanza la Direzione regionale della
Marche ha escluso l'assoggettamento a Iva in
quanto nell'ipotesi ha ritenuto non potersi
ravvisare un'attività commerciale in capo al
comune che era intenzionato a porre in
essere l'operazione (articolo ItaliaOggi Sette del
03.10.2011). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rottami metallici, trattamento secondo
standard ad hoc.
A partire dal 9 ottobre in vigore le regole Ue.
Dal 09.10.2011 nuove regole per
riabilitare allo status di veri e propri
«beni» rottami di ferro, acciaio e
alluminio. Ad aprire il nuovo capitolo sulla
produzione delle cosiddette «materie prime
secondarie» è l'entrata in vigore del
regolamento comunitario n. 333/2011 («I
criteri che determinano quando alcuni tipi
di metalli cessano di essere considerati
rifiuti»), regolamento pubblicato sulla Guue
dell'08.04.2011 (n.
L 94) e, dalla data di entrata in vigore,
dotato di immediata applicazione in tutti
gli stati Ue.
La disciplina comunitaria
detta sia le condizioni che le strutture
deputate al trattamento dei rottami dovranno
soddisfare, sia gli standard tecnici
relativi ai diversi rottami trattati.
Regole generali. Le imprese di trattamento
dei rifiuti dovranno innanzitutto dotarsi di
un sistema di gestione della qualità ad hoc,
sistema che dimostri il rispetto degli
specifici standard tecnici di trattamento
dei rottami metallici e che sia così
articolato: controllo preventivo dei
rifiuti; monitoraggio del trattamento e
della qualità dei rottami; revisione e
miglioramento del sistema di qualità;
formazione del personale addetto al
trattamento; verifica dell'adozione di
analogo sistema di gestione di qualità da
parte dei propri fornitori di rottami.
Il
produttore (quale soggetto che cede a un
altro soggetto rottami che per la prima
volta hanno cessato di essere considerati
rifiuti) o, in caso di soggetto esterno
all'area Ue, l'importatore di rottami (quale
soggetto che introduce nell'Ue rottami
metallici riabilitati allo status di «beni»)
dovrà redigere una «dichiarazione di
conformità» recante l'identificazione dei
rottami trattati, il rispetto dei requisiti
tecnici di processo, l'applicazione del
sistema di gestione della qualità.
La
dichiarazione dovrà altresì essere
comunicata al successivo detentore dei
rottami riabilitati, conservata per un anno
e messa a disposizione delle autorità di
controllo.
Standard tecnici.
Le specifiche tecniche da osservare
imporranno sostanzialmente il trattamento
limitato ai soli rifiuti costituiti (con un
certo margine di tolleranza) da ferro,
acciaio e alluminio recuperabili, l'assenza
di sostanze pericolose, la separazione a
monte tra i metalli e l'esclusione di
eventuali elementi diversi, il rispetto
delle particolari prescrizioni su
trattamento di veicoli fuori uso e
clorofluorocarburi, la purezza delle materie
prime secondarie ottenute, il rispetto delle
specifiche tecniche di settore per il
riutilizzo diretto nella produzione di
sostanze o oggetti metallici in acciaierie e
fonderie (articolo ItaliaOggi Sette del
03.10.2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
Iva al 21%, effetti soft
sull'edilizia. Gran parte delle operazioni
del settore è assoggettata all'aliquota
agevolata o a quella minima.
L'aumento al 21% dell'aliquota Iva
ordinaria, scattato il 17 settembre scorso
per effetto della legge n. 148/2011, ha un
impatto contenuto sul mondo dell'edilizia.
Gran parte delle operazioni del settore
(cessioni e costruzioni di immobili),
infatti è assoggettata all'aliquota
agevolata del 10%, oppure a quella minima
del 4% qualora si tratti della «prima casa».
Anche gli interventi di recupero del
patrimonio edilizio, come pure le cessioni
degli edifici sottoposti a tali interventi
effettuate dalle imprese che li hanno
eseguiti, non sono interessati dall'aumento,
perché scontano l'aliquota del 10%.
Dal punto di vista oggettivo, l'aliquota
ordinaria (si veda la tabella) riguarda
quasi esclusivamente le operazioni sui
fabbricati non abitativi (anche in questo
caso, con molte eccezioni) e sulle aree
edificabili; l'edilizia abitativa sconta
infatti l'aliquota ordinaria solo sulle
operazioni relative a immobili «di lusso».
In tutti i casi in cui si applica l'aliquota
ordinaria, la nuova aliquota del 21% è
applicabile alle operazioni che si
considerano «effettuate» a decorrere dal 17.09.2011. Pertanto, in base alle
disposizioni sul momento di effettuazione
dell'operazione contenute nell'art. 6 del
dpr 633/1972, la nuova aliquota si applica
essenzialmente nelle seguenti situazioni:
a) cessioni di beni mobili (es. materie
prime) consegnati o spediti dal 17.09.2011, salvo che per l'eventuale importo
fatturato o pagato precedentemente;
b) cessioni di beni mobili consegnati o
spediti prima del 17.09.2011, qualora
l'effetto traslativo della proprietà si
realizzi da tale data (es. contratto
estimatorio, vendite sottoposte a
condizione), salvo che per l'importo pagato
o fatturato precedentemente;
c) cessioni di beni mobili in esecuzione di
contratti di somministrazione il cui
corrispettivo sia pagato dal 17.09.2011, anche se la consegna dei beni è
anteriore;
d) cessioni di beni immobili stipulate dal
17.09.2011 (non è rilevante la
stipula del contratto preliminare), salvo
che per l'importo pagato o fatturato
precedentemente;
e) cessioni di beni immobili stipulate prima
del 17.09.2011, ma sottoposte a
condizione non ancora realizzata a tale
data, salvo che per l'importo fatturato o
pagato precedentemente;
f) prestazioni di servizi il cui
corrispettivo sia pagato dal 17.09.2011,
salvo che per l'eventuale importo fatturato
precedentemente (articolo ItaliaOggi Sette del
03.10.2011). |
GIURISPRUDENZA |
VARI: Doppia infrazione,
doppia sanzione. Cassazione, cumulo non riconosciuto.
L'automobilista che passa due volte col
rosso nello stesso tratto stradale paga due
multe. Non sussiste continuazione o cumulo
giuridico tra sanzioni in caso di concorso
materiale. Cioè in caso di violazioni
commesse con più azioni od omissioni.
Lo ha
stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione che, con la
sentenza
03.10.2011 n. 20222, ha
accolto il ricorso della Prefettura di
Trieste presentato contro la decisione del
giudice di pace che aveva accordato a
un'automobilista, passata due volte col
semaforo rosso, la continuazione. La donna
non era stata condannata a pagare due multe
ma una maggiorata. Contro questa decisione,
la Prefettura ha presentato ricorso in
Cassazione e lo ha vinto.
Ad avviso della
seconda sezione civile «in tema di sanzioni
amministrative, la norma di cui all'art. 8
della legge n. 689 del 1981, nel prevedere
l'applicabilità dell'istituto del cosiddetto
cumulo giuridico tra sanzioni nella sola
ipotesi di concorso formale (omogeneo o
eterogeneo) tra le violazioni contestate -per le sole ipotesi, cioè, di violazioni
plurime, ma commesse con un'unica azione od
omissione- non è legittimamente invocabile
con riferimento alla diversa ipotesi di
concorso materiale -di concorso, cioè, tra
violazioni commesse con più azioni od
omissioni».
A questo caso non è neppure
applicabile in via analogica la norma
dettata dall'articolo 81 del codice penale,
in tema di continuazione fra reati, sia
perché il citato art. 8 della legge 689/1981
prevede espressamente tale possibilità
soltanto per le violazioni in materia di
previdenza ed assistenza (con conseguente
evidenza dell'intento del legislatore di non
estendere la disciplina del cumulo giuridico
agli altri illeciti amministrativi), sia perché la differenza morfologica tra
illecito penale ed illecito amministrativo
non consente che, attraverso un procedimento
di integrazione analogica, le norme di
favore previste in materia penale vengano
tout court estese alla materia degli
illeciti amministrativi.
Ora la causa
tornerà al giudice di pace di Trieste
(articolo ItaliaOggi del 04.10.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
ko delle Entrate valido senza notifica. Per
i 175 dirigenti nullità immediata.
Centosettantacinque incarichi dirigenziali
da annullare. Sono questi per l'Agenzia
delle entrate gli effetti immediati della
sentenza 30.09.2011 n. 7636
del TAR Lazio-Roma, Sez. II, qualora dovesse
essere notificata. Ma, a ben vedere,
l'annullamento del bando per la selezione
dei 175 dirigenti potrebbe conseguire
direttamente dall'adozione della sentenza
stessa, senza dover attendere i successivi
passaggi della procedura giurisdizionale.
Molto dipenderà dalle scelte operative che
adotterà l'Agenzia. Un fatto è certo: le
decisioni del Tar Lazio incidono in maniera
pesantissima sulla prassi più che decennale
di coprire posti della dotazione organica
dei dirigenti con incarichi ai funzionari,
vere e proprie «promozioni sul campo»,
legittime solo a condizione che si
rispettino le condizioni oggettive e
soggettive discendenti dai principi
enunciati dall'articolo 19 del dlgs
165/2001.
La tentazione di lasciare fermi gli effetti
degli incarichi conferiti sarà molto forte,
anche perché organizzativamente gli effetti
della sentenza del 30 settembre, aggiunta a
quella sempre del Tar Lazio del 1° agosto,
privano l'Agenzia di centinaia di soggetti
da poter preporre ai vertici delle proprie
strutture. I giudici amministrativi nelle
loro decisioni hanno imputato all'Agenzia
stessa la responsabilità organizzativa,
derivante dalla manifesta intenzione di
lasciare scoperti quasi il 70% dei posti da
dirigenti, proprio per cooptare i funzionari
interni.
La soluzione ideale sarebbe indire un
concorso interamente pubblico in tempi
brevissimi, facendolo precedere da una
procedura di mobilità anche
intercompartimentale, che consentirebbe in
linea teorica di acquisire in tempi brevi
dirigenti di ruolo e fare fronte alle
emergenze. E la situazione è considerata un
vero e proprio terremoto, tanto che le sigle
sindacali rappresentanti dei lavoratori
hanno presentato una nota unitaria in cui
chiedono un incontro urgente con l'Agenzia
delle entrate.
«La sentenza del Tar apre un capitolo
inquietante», commenta Vincenzo
Patricelli, della segreteria generale della
Flp, federazione lavoratori pubblici e
funzioni pubbliche. «Non siamo mai stati
teneri con L'Agenzia né sulle modalità di
conferimento degli incarichi dirigenziali né
sulla valutazione di alcuni titoli per il
concorso a 175 posti. Ma ricorrere per
cassare tutto il concorso e proporre come
alternativa lo scorrimento di graduatorie di
concorsi dirigenziali vecchi di 10-15 anni e
persino 20 anni fa, anziché battere sugli
aspetti del concorso che erano certamente da
cambiare, significa non solo bloccare gli
incaricati dirigenziali ma negare qualunque
possibilità di carriera a una generazione di
funzionari giovani e preparati che non sono
incaricati. Una scelta conservatrice che non
è condivisibile in alcun modo. Se poi la
conseguenza dovesse essere la reggenza senza
remunerazione alcuna, vogliamo vedere chi
andrà a dirigere gli uffici»
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorso con riserva, da rifare.
Illegittimo sanare gli incarichi
dirigenziali dei funzionari. Il Tar del
Lazio boccia la procedura dell'Agenzia delle
entrate per la copertura di 175 posti.
Illegittimo il concorso per assumere
dirigenti amministrativi con riserva di
posti agli interni, bandito nel 2010
dall'Agenzia delle entrate, allo scopo di
«sanare» incarichi di funzioni dirigenziali
conferiti da anni ai funzionari.
È durissimo
il doppio colpo che il TAR Lazio-Roma,
Sez. II, inferisce all'Agenzia, prima con
la
sentenza
01.08.2011 n. 6884 e, poi,
con la
sentenza 30.09.2011 n. 7636,
che colpiscono al cuore la discutibile
prassi, comune a molte altre
amministrazioni, di attribuire incarichi
dirigenziali a funzionari privi della
qualifica di dirigente, costruendo un
surrettizio spoil system, in barba alle
varie disposizioni normative che pretendono
il concorso per soli esami per accedere alla
qualifica dirigenziale.
Con la decisione
dello scorso 1° agosto, il Tar Lazio aveva
rilevato l'illegittimità dell'articolo 24
del regolamento di organizzazione, che
consentiva l'attribuzione di incarichi
dirigenziali ai funzionari come ordinario
sistema di copertura dei posti della
dotazione organica dirigenziale,
contravvenendo ai principi generali
enunciati dall'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001. Quest'ultima norma, infatti,
consente di reclutare dirigenti al di fuori
della dotazione organica solo in casi
eccezionali e per rimediare alla conclamata
assenza di professionalità tra i dirigenti
in ruolo.
L'Agenzia ha largheggiato senza troppo
contenersi nella possibilità di affidare
incarichi a contratto ai propri funzionari,
tanto che negli anni dei 1.143 posti della
dotazione dirigenziale, solo 376 sono
coperti da dipendenti aventi la qualifica
dirigenziale. La gran parte dei restanti
posti è stata coperta con incarichi
«straordinari», prorogati, però,
costantemente ogni anno. Tanto è vero che
con provvedimento 29/10/2010 n. 146687
(pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, IV
serie speciale n. 88 del 05/11/2011),
l'Agenzia aveva bandito una selezione
concorsuale, finalizzata ad acquisire 175
dirigenti di ruolo e rimpolpare, così, la
più che scarna schiera di dirigenti a tempo
indeterminato dotati della necessaria
qualifica.
Applicando disinvoltamente alcune
disposizioni, come l'articolo 1, comma 530,
della legge 196/2006, che consente
all'Agenzia di utilizzare modalità selettive
speciali per assumere i propri dipendenti,
il provvedimento impugnato e stigmatizzato
come illegittimo dal Tar Lazio con la
sentenza del 30 settembre, aveva riservato
il 50% dei posti messi a concorso a
dipendenti interni. In particolare, proprio
ad alcuni tra i tantissimi funzionari che
negli anni erano stati cooptati negli
incarichi dirigenziali, al dichiarato scopo
di sanare la loro posizione ed in
considerazione dell'egregio lavoro svolto,
nonostante la mancanza della qualifica
dirigenziale.
Il Tar Lazio ha accolto il
ricorso, annullando il provvedimento
principalmente sotto il profilo della
violazione dei principi generali che
regolano l'accesso alla dirigenza, posti dal
combinato disposto degli articoli 97, comma
3, della Costituzione e 28 del dlgs
165/2001, che impongono esclusivamente il
concorso pubblico per soli esami. Un
concorso avente finalità di «sanatoria» come
quello bandito dall'Agenzia finisce per
contravvenire alle norme sulle
«stabilizzazioni» dei precari, che avevano
escluso espressamente proprio gli incarichi
dirigenziali e, prevedendo la riserva di
posti, non può essere configurato come
pienamente «pubblico», cioè aperto a tutti,
allo scopo di selezionare le migliori
professionalità.
Nel merito, poi, la
sentenza oltre a richiamare integralmente le
ragioni addotte con la precedente decisione
del primo agosto 2011, critica fortemente la
stessa idea, alla base del concorso «a
sanatoria», che l'Agenzia fosse tenuta o
potesse discrezionalmente agire allo scopo
di riconoscere ai funzionari incaricati da
dirigenti la qualifica dirigenziale. I
giudici amministrativi romani sono
trancianti: nella sostanza, la reiterazione
continua degli incarichi dirigenziali ai
funzionari si è tramutata nell'attribuzione
di mansioni superiori illegittima, per
violazione dell'articolo 52, comma 5, del dlgs
165/2001.
Ma vi è di più: secondo i giudici, l'Agenzia
avrebbe potuto fare fronte alla carenza di
figure dirigenziali attribuendo
correttamente gli incarichi di «reggenza»
ai propri funzionari: la sentenza fa notare
che lo svolgimento della funzione di
reggenza fa parte dei «contenuti
professionali di base propri della terza
area funzionale», come definiti dalla
contrattazione nazionale collettiva del
comparto delle Agenzie fiscali. Insomma,
l'Agenzia avrebbe dovuto ricorrere agli
incarichi di reggenza e non abusare degli
incarichi dirigenziali, anche perché così
avrebbe potuto risparmiare la maggiore spesa
connessa all'attribuzione del trattamento
economico dirigenziale, non spettante nel
caso di reggenza.
Per l'Agenzia adesso la situazione è
delicatissima. L'annullamento del bando
travolge anche la legittimità dei
provvedimenti di assegnazione degli
incarichi dirigenziali, col rischio di
coinvolgere in aggiunta gli atti adottati
dai dirigenti, che possono rimanere salvi
solo in applicazione del principio
dell'affidamento dei terzi sulla legittimità
dell'azione amministrativa. In ogni caso,
l'esecuzione della sentenza impone
l'annullamento degli incarichi dirigenziali
assegnati ai funzionari
(articolo ItaliaOggi del 04.10.2011
- tratto da www.corteconti.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’interesse all’annullamento del
provvedimento deve sussistere anche al
momento della decisione.
Qualora l’interesse
all’annullamento fatto valere dal
ricorrente, in relazione al provvedimento
adottato da una pubblica amministrazione,
non presenti più il carattere
dell’attualità, il ricorso introduttivo del
giudizio diventa improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse.
Così ha stabilito il TAR Campania-Napoli,
Sez. IV, nella
sentenza 30.09.2011 n. 4598.
Questo perché l’interesse al ricorso, in
quanto condizione dell’azione, deve
sussistere sia al momento della proposizione
del gravame, che al momento della decisione,
con conseguente attribuzione al giudice
amministrativo del potere di verificare la
persistenza della predetta condizione in
relazione a ciascuno di tali momenti (cfr.
sul punto Cons. Stato, sez. V, 14.11.2006,
n. 6689).
Nel caso di specie, l’interesse
all’annullamento del provvedimento impugnato
con il ricorso introduttivo era,
inesorabilmente, venuto meno, alla luce
della rinnovata attività procedimentale
posta in essere dall'amministrazione e del
conseguente nuovo provvedimento adottato al
riguardo.
Il Collegio, in particolare, richiama
l’indirizzo già espresso in altra sede dai
giudici di Palazzo Spada (Cons. Stato, sez.
IV, sent. 3255/2008) secondo cui si
configura la sopravvenuta carenza di
interesse al gravame laddove il
provvedimento sopravvenuto abbia fornito al
rapporto giuridico controverso una
disciplina totalmente nuova (e quindi un
nuovo assetto di interessi), in modo da
rendere priva di ogni utilità la pronuncia
sul ricorso (commento tratto da
www.diritto.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Truffa aggravata per il dirigente
che "protegge" il dipendente assenteista.
Rischia la condanna per
truffa aggravata il dirigente che a fronte
della falsa attestazioni della presenza in
ufficio da parte di alcuni dipendenti, non
solo non si adoperi per sanzionarli ma
addirittura ostenti nei loro confronti un
atteggiamento di favore tale da
incoraggiarne la condotta fraudolenta.
Scoraggiandone nello stesso tempo la
denuncia da parte dei colleghi, per paura di
mettersi contro il capo.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez.
II penale, con la
sentenza 29.09.2011 n. 35344,
rigettando il ricorso del direttore delle
relazioni esterne del comune di Milano, già
condannato dalla Corte di appello meneghina.
Nel ricorso alla Suprema corte il dirigente
si era difeso sostenendo che la presenza del
meccanismo del tesserino magnetico per
entrare a lavoro lo rassicurava circa la
corretta attestazione delle presenze dei
dipendenti. E che comunque un simile
controllo non rientrava nelle sue mansioni,
spettando semmai al capo del personale.
Di altro avviso la Cassazione, secondo cui
la responsabilità del dirigente non
dipendeva da un comportamento omissivo ma
piuttosto, come chiarito dalla sentenza di
Appello, in un comportamento sostanzialmente
commissivo dato dalla esibizione di un
rapporto preferenziale con i dipendenti che
li aveva messi in una «posizione
privilegiata» che li rendeva «capaci
di ottenere il silenzio di tutti gli altri
dipendenti pena delazioni del capo».
Scrive infatti la Cassazione: «Concorre
nel reato con condotta commissiva -anziché
mediante omissione ai sensi dell'art. 40, 2
comma c.p.- il dirigente di un ufficio
pubblico che non soltanto non impedisce che
alcuni dipendenti pongano in essere
reiterate violazioni nell'osservanza
dell'orario di lavoro, aggirando in modo
fraudolento il sistema computerizzato di
controllo delle presenze, ma favorisca
intenzionalmente tale comportamento creando
segni esteriori di un atteggiamento di
personale favore nei confronti dei correi,
in modo tale da creare intorno ad essi
un'aurea di intangibilità, disincentivare
gli altri dipendenti dal presentare esposti
o segnalazioni al riguardo e così
affievolire, in ultima analisi, il
cosiddetto 'controllo sociale».
«Pertanto tale condotta -scrivono i
supremi giudici- ha in sé valenza
agevolatrice nella commissione del reato,
anche solo per il sostegno morale e
l'incoraggiamento che i dipendenti infedeli
ricevono da una simile situazione di favore
senza che occorra quindi accertare, sul
piano del rapporto di causalità, se il
dirigente dell'ufficio avesse il potere di
impedire la consumazione del reato o se
avesse a tal fine contemporaneamente assunto
iniziative di portata generale (come il
controllo computerizzato delle presenze)
iniziative comunque rivelatesi inefficaci»
(tratto da e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
il ritardato pagamento degli oneri di una
concessione edilizia non si può invocare la
preventiva escussione del fideiussore.
Con l’appello in esame, il ricorrente aveva
chiesto la riforma di una sentenza del Tar
che aveva respinto un ricorso proposto
contro un comune, dal quale era stato
sanzionato per il ritardato pagamento degli
oneri relativi al rilascio di una
concessione edilizia.
I giudici del Consiglio di Stato hanno
respinto la tesi difensiva del ricorrente
ricordando che su questo punto è ormai
consolidato l'orientamento della quinta
sezione: con decisioni C.S. n. 1250/2005, n.
6345/2005, n. 4025/2007 è stato, infatti,
precisato che in assenza di inadempimenti
imputabili all'Amministrazione idonei a
configurare a suo carico una responsabilità
"da contatto" oppure di natura
precontrattuale, non può farsi riferimento
all'art. 1227 c.c. essendo tale disposizione
riferibile solo alle obbligazioni di
carattere risarcitorio e non a quelle (anche
di contenuto pecuniario) di natura
sanzionatoria, come nel caso in esame.
“Quest'ultima conclusione deve essere
confermata. Invero, pur in presenza di un
contratto di garanzia cosiddetta autonoma,
con il quale il garante si obbliga ad
eseguire la prestazione oggetto della
garanzia "a semplice richiesta" del
creditore garantito, senza opporre eccezioni
attinenti alla validità, all'efficacia ed
alla vicenda del rapporto principale, anche
in questa ipotesi il meccanismo
dell'adempimento del garante "a prima
richiesta" scatta a seguito
dell'inadempimento dell'obbligazione
principale, ancorché resti vietato al
garante di chiedere la preventiva escussione
del debitore principale (Cass. 18.11.1992 n.
12341, 03.11.1993 n. 10850, 17.05.2001 n.
6757).
D'altronde, neppure con riguardo al regime
ordinario delle obbligazioni tra privati
sarebbe pertinente il richiamo all'art. 1227
cod. civ. Infatti, l'onere di diligenza che
questa norma fa gravare sul creditore non si
estende alla sollecitudine nell'agire a
tutela del proprio credito onde evitare
maggiori danni, i quali viceversa sono da
imputare esclusivamente alla condotta del
debitore, tenuto al tempestivo adempimento
della sua obbligazione (V. Corte cost. n.
308 del 14.07.1999).
Inoltre, non è dato ravvisare nel sistema di
cui agli artt. 1936 ss. cod. civ. alcun
principio di preventiva doverosa escussione
del fideiussore alla scadenza del termine
fissato per l'adempimento dell'obbligazione
garantita, che peraltro colliderebbe con le
finalità dell'istituto, inteso a rafforzare
la garanzia del credito in funzione di un
interesse proprio e specifico del creditore.
In altri termini, ed in materia di
obbligazioni "portable" quali quelle
pecuniarie, e con termine di adempimento che
esonera dalla costituzione in mora del
debitore, il creditore è soltanto facultato
ad attivare la solidale responsabilità del
fideiussore, senza che possa invece
ritenersi tenuto ad escutere il coobbligato
piuttosto che attendere il pagamento,
ancorché tardivo, salva l'esistenza di
apposita clausola in tal senso (che dovrebbe
essere accettata dall'Amministrazione),
nella specie non prevista”
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.09.2011 n. 5395 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Decorrenza del termine di
impugnazione del permesso di costruire.
Il Consiglio di Stato (Sez. IV), con
sentenza del 23.09.2011 n. 5346,
ha precisato che il
termine decadenziale per l’impugnazione di
un permesso di costruire, decorre dalla
piena conoscenza dell’esistenza e
dell’entità delle violazioni urbanistiche o
del contenuto specifico del progetto
edilizio.
La sentenza in commento è stata pronunciata
in riforma della decisone del TRGA di
Trento, il quale aveva dichiarato
irricevibile, in quanto tardivo, un ricorso
(notificato il 24/12/2003) avverso una
concessione edilizia (rilasciata il
14/07/2003) per la realizzazione di un
intervento di ricostruzione di un edificio.
In particolare, i giudici della IV sezione
hanno ricostruito l’orientamento della
giurisprudenza amministrativa in merito alla
individuazione del momento conoscitivo da
cui far decorrere il termine decadenziale
per l’impugnativa sottolineando come “…in
virtù di un ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, qui pienamente condiviso,
ai fini della tempestiva impugnazione del
titolo ad aedificandum rilasciato a terzi
l’effettiva, piena conoscenza dell’atto in
parola deve essere ancorata all’ultimazione
dei lavori oppure al momento in cui la
costruzione realizzata rivela in modo certo
ed univoco le essenziali caratteristiche
dell’opera per una eventuale non conformità
urbanistico-edilizia della stessa (cfr. Cons
Stato, Sez. IV, 28.01.2011 n. 678;), lì dove
non si può più avere dubbi in ordine alla
reale portata dell’intervento edilizio
assentito (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
03.03.2004, n. 1023).
Sempre sulla questione della individuazione
del momento conoscitivo cui far decorrere il
termine decadenziale per l’impugnativa, la
giurisprudenza ha avuto modo di stabilire
che:
- non vale, in assenza di altri elementi
probatori, ai fini della decorrenza del
termine per l’impugnativa, a dimostrare la
piena conoscenza del provvedimento edilizio,
la presenza del cartello di cantiere recante
l’indicazione della concessione edilizia e
la descrizione dell’intervento e neppure la
data di inizio lavori (Cons. Stato, Sez. IV,
28.01.2011 n. 678);
- in capo alla parte che eccepisce la
tardività dell’impugnativa sussiste un
rigoroso onere di dimostrazione della
circostanza relativa all’anticipata
conoscenza (cfr. Con. Stato, Sez. V,
05.02.2007 n. 452)”.
In conclusione, secondo i giudici del
Consiglio di Stato, la presenza del cartello
di cantiere recante l’indicazione della
concessione edilizia, la descrizione
dell’intervento, e la data di inizio lavori
non sono elementi idonei di per sé, ad
evidenziare la tardività del gravame
(commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: La
pubblicazione e l'uso della PEC sono
obblighi per la PA.
L'interessante sentenza costituisce una
delle prime pronunce giurisprudenziali in
attuazione del Codice dell'Amministrazione
digitale.
L'argomento è quello della cogenza delle
disposizioni che impongono l'uso della
telematica nei rapporti con cittadini e
imprese e, nello specifico l'obbligatorietà
delle disposizioni in tema di PEC. Nella
pronuncia entrano in gioco l'art. 3 e 54 del
D.Lgs. 82/2005 nonché le norme introdotte
con il decreto sulla ottimizzazione della
produttività del lavoro pubblico - d.lgs.
150/2009 ed infine, quanto disposto in
ordine alle modalità di pubblicazione dalle
"Linee guida per i siti web della P.A. -
Anno 2010".
Appare opportuno, pur anticipando l'esito
della decisione con la quale si condanna una
Regione per non aver pubblicato sul proprio
sito web l'indirizzo o gli indirizzi di
posta elettronica certificata a cui i
cittadini possono rivolgersi, riportare la
parte motiva della suddetta sentenza in
quanto riepilogativa delle norme vigenti in
materia di posta elettronica certificata.
La quaestio: "occorre accertare se la
mancata pubblicazione da parte della Regione
dell’indirizzo di posta elettronica
certificata sulla pagina iniziale del
proprio sito istituzionale e la non
effettiva attivazione della casella di posta
elettronica certificata per le comunicazioni
con gli utenti integri uno dei presupposti
previsti dall’art. 1 del d.lgs. n. 198/2009
e, segnatamente, quello della “mancata
adozione di atti amministrativi generali
obbligatori e non aventi contenuto normativo”.
Per poter verificare se sussista in capo
alla Regione un obbligo rimasto inadempiuto
giova una breve ricostruzione del quadro
normativo di riferimento al precipuo fine di
verificare se le norme vigenti impongono
l’immediata applicazione o frappongano
dilazioni all’operatività delle disposizioni
in materia di comunicazione tramite posta
elettronica certificata. Una prima
imposizione alle Regioni di comunicare in
via digitale è rinvenibile nell’art. 2 del
d.lgs. 07.03.2005, n. 82, recante codice
dell’amministrazione digitale, che reca: “lo
Stato, le regioni e le autonomie locali
assicurano la disponibilità, la gestione,
l'accesso, la trasmissione, la conservazione
e la fruibilità dell'informazione in
modalità digitale e si organizzano ed
agiscono a tale fine utilizzando con le
modalità più appropriate le tecnologie
dell'informazione e della comunicazione".
Il successivo art. 3 del citato D.Lgs.
82/2005 pone in diretta correlazione
l’obbligo della pubblica amministrazione di
comunicare in via digitale con il
riconoscimento agli utenti del diritto di “richiedere
ed ottenere l'uso delle tecnologie
telematiche nelle comunicazioni con le
pubbliche amministrazioni”.
Tra le modalità di comunicazione tra privato
e pubblica amministrazione contemplate dal
codice dell’amministrazione digitale, l’art.
6 prevede l’utilizzo da parte della pubblica
amministrazione della posta elettronica
certificata per la trasmissione telematica
di documenti che necessitano di una ricevuta
di invio e di una ricevuta di consegna.
L’attuazione degli adempimenti relativi alla
posta elettronica certificata è individuato
dall’art. 11, comma 5, del D.Lgs. 27.10.2009
n. 150 (recante attuazione della legge
04.03.2009, n. 15, in materia di
ottimizzazione della produttività del lavoro
pubblico e di efficienza e trasparenza delle
pubbliche amministrazioni) come strumento
per rendere effettivi i principi di
trasparenza nella pubblica amministrazione.
Lo stesso decreto legislativo n. 150/2009,
all’art. 11, comma 1, che per effetto di
quanto disposto dal successivo art. 16 trova
immediata applicazione anche negli
ordinamenti delle regioni, impone la
pubblicazione sui siti istituzionali delle
amministrazioni pubbliche, delle
informazioni concernenti ogni aspetto
dell'organizzazione e quindi anche degli
indirizzi di posta elettronica certificata
fruibili dagli interessati. Come precisato
dall’art. 54, comma 2-ter, del codice
dell’amministrazione digitale, le
amministrazioni sono tenute a pubblicare nei
propri siti un indirizzo istituzionale di
posta elettronica certificata “a cui il
cittadino possa rivolgersi per qualsiasi
richiesta” e “di assicurare, altresì
un servizio che renda noti al pubblico i
tempi di risposta”.
Al riguardo, un ulteriore vincolo, che
questa volta incide sulle modalità di
pubblicizzazione delle caselle di posta
elettronica certificata, è dettato dalla “Linee
guida per i siti web della P.A - Anno 2010”
dettate dal Ministero per la pubblica
amministrazione e l’innovazione in
attuazione della direttiva n. 8/2009 del
Dipartimento della funzione pubblica, dove
le regioni sono espressamente indicate tra
le amministrazioni tenute all’osservanza
delle indicazioni impartite (art. 1, comma
3, delle citate linee guida).
Tali linee guida impongono che l’elenco
delle caselle di posta elettronica
certificata debba essere: a) “costantemente
disponibile all’interno della testata”;
b) collocato in posizione privilegiata in
modo da essere visibile nella home page
del sito. L’immediata applicabilità per le
Regioni delle disposizioni sopra illustrate
e la conseguente cogenza dell’obbligo per le
amministrazioni di pubblicare sulla propria
home page l’elenco completo delle
caselle di posta elettronica certificata e
di rendere effettiva la possibilità per
l’utente di comunicare tramite posta
elettronica certificata è confermata anche
da alcune disposizioni del decreto
legislativo correttivo al codice
dell’amministrazione digitale (D.Lgs.
30.12.2010, n. 235) ed in particolare:
a) dall’abrogazione nel corpo dell’art. 3
del codice dell’amministrazione digitale
della disposizione (comma 1-bis) che, con
riferimento alle amministrazioni regionali e
locali, subordinava l’attuazione del
principio relativo al diritto dell’utente di
“richiedere ed ottenere l’uso delle
tecnologie telematiche” alla sussistenza
delle risorse tecnologiche ed organizzative
disponibili e al rispetto della loro
autonomia normativa;
b) dall’assenza di una specifica
disposizione transitoria che dilazioni
l’entrata a regime delle disposizioni in
materia di comunicazione tra cittadini e
pubblica amministrazione tramite posta
elettronica certificata, come invece
previsto all’art. 57 del D.Lgs. 30.12.2010
n. 235, rubricato “disposizioni
transitorie e finali”, per altre
disposizioni del codice, quali ad esempio
quelle in materia di pagamenti telematici di
comunicazioni tra imprese e amministrazioni
pubbliche, che sono subordinate
all’adozione, entro termini prestabiliti, di
successivi decreti ministeriali.
Il quadro normativo sopra tratteggiato
delinea quindi in modo chiaro il
comportamento esigibile dalla Regione:
l’obbligo di soddisfare la richiesta di ogni
interessato a comunicare in via informatica
tramite posta elettronica certificata e
quindi, a monte, l’obbligo di adottare gli
atti di carattere tecnico ed organizzativo
finalizzati alla pubblicazione sulla pagina
iniziale del sito degli indirizzi di posta
elettronica certificata e a consentire
l’effettiva, concreta ed immediata
possibilità di interagire con l’ente
attraverso tale modalità di comunicazione
elettronica (…omissis), poiché la mancata
individuazione di almeno un indirizzo
istituzionale di posta elettronica
certificata sul sito web (…omissis) nonché
la mancata attuazione del diritto degli
utenti di comunicare elettronicamente
tramite l’utilizzo della stessa determina un
disservizio, costringendo gli interessati a
recarsi personalmente presso gli uffici e ad
utilizzare lo strumento cartaceo per
ricevere ed inoltrare comunicazioni e/o
documenti.
Va peraltro precisato che il disservizio
lamentato estende i suoi riflessi negativi
anche sulle modalità di esercizio del
diritto del privato di partecipare al
procedimento amministrativo poiché l’art. 4,
comma 1, del codice dell’amministrazione
digitale consente, infatti, di esercitare
tali diritti procedimentali anche attraverso
strumenti di comunicazione telematici.
Né è possibile sottovalutare le
ripercussioni di tale disservizio sulla
disciplina delle notificazioni, così come
previsto dall’art. 4 del d.lgs. n. 82/2005,
il quale consente che “ogni atto e
documento può essere trasmesso alle
pubbliche amministrazioni con l'uso delle
tecnologie dell'informazione e della
comunicazione se formato ed inviato nel
rispetto della vigente normativa”, che
attribuisce al documento trasmesso lo stesso
valore giuridico della trasmissione del
documento in originale, posto che a norma
dell’art. 45 dello stesso decreto
legislativo il documento trasmesso con
qualsiasi mezzo informatico idoneo ad
accertarne la fonte di provenienza, soddisfa
il requisito della forma scritta e la sua
trasmissione non deve essere seguita da
quella del documento originale e che “il
documento informatico trasmesso per via
telematica si intende spedito dal mittente
se inviato al proprio gestore, e si intende
consegnato al destinatario se reso
disponibile all'indirizzo elettronico da
questi dichiarato, nella casella di posta
elettronica del destinatario messa a
disposizione dal gestore”.
Alla stregua delle considerazioni svolte, in
accoglimento delle censure con cui è dedotta
la violazione degli articoli 3, 6 e 54 del
codice dell’amministrazione digitale, la
Regione (..), è tenuta a consentire agli
utenti di interloquire tramite posta
elettronica certificata e a rendere visibile
nella home page del sito l’elenco
degli indirizzi di posta elettronica
certificata, come imposto dalle “Linee
guida per i siti web della P.A- Anno 2010-”
dettate dal Ministero per la pubblica
amministrazione e l’innovazione.”
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR
Basilicata,
sentenza 23.09.2011 n. 478 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Sopraelevazione, solo il
regolamento pattizio (e provato) può
fermarla.
La Corte di Cassazione
ha ribadito il principio in virtù del quale
il diritto di sopraelevare nuovi piani o
nuove fabbriche riconosciuto al proprietario
dell'ultimo piano dell'edificio in
condominio o del lastrico solare può essere
limitato soltanto da un regolamento
condominiale di natura contrattuale. Per cui
assume fondamentale importanza la
dimostrazione, in corso di giudizio, di tale
natura che non può essere desunta soltanto
dal fatto che il regolamento sia richiamato
e accettato o allegato all'atto di
compravendita.
La vicenda all’attenzione della Corte di
Cassazione con la pronuncia in esame trae
origine dall’azione giudiziaria intrapresa
da parte di un condominio per l’abbattimento
un manufatto costruito ad opera di un
condomino sul lastrico solare di sua
proprietà pur in presenza di un regolamento
condominiale che vietava espressamente ogni
tipo di sopraelevazione sulla copertura del
fabbricato.
Sia la Corte territoriale che i Giudici di
appello avevano accolto l’istanza del
condominio di ripristino dello status quo
ante sul presupposto dell’accettazione di
tale regolamento da parte del condomino in
virtù del richiamo contenuto nell’atto di
acquisto dell’appartamento.
Contro la statuizione di secondo grado, il
condomino proponeva ricorso in cassazione
assumendo che soltanto un regolamento
contrattuale avrebbe potuto limitare il
diritto di sopraelevare riconosciuto dalla
legge e, nel caso in concreto, non era stata
fornita la prova della sua natura negoziale.
Orbene, l’art. 1127 c.c. riconosce il
diritto di costruire nuovi piani o nuove
fabbriche al proprietario dell'ultimo piano
dell'edificio e al proprietario esclusivo
del lastrico solare, salvo che ciò comporti
compromissioni delle condizioni statiche o
dell’aspetto architettonico dell’edificio o
limiti notevolmente l’aria e la luce ai
piani sottostanti e salvo che risulti
altrimenti da un titolo e cioè da un negozio
giuridico pattizio.
E’ questa l’unica deroga normativa, accanto
alle due pattizie costituite dal diritto di
superficie e dalla proprietà superficiaria,
al principio dell'automatico acquisto della
proprietà della costruzione e di tutto ciò
che venga comunque stabilmente unito al
suolo da parte del proprietario di questi:
tale eccezione trova la sua giustificazione
nel c.d. “regime dualistico”
caratterizzante gli edifici in condominio e
consistente nella contemporanea presenza di
unità immobiliari di proprietà esclusiva e
di cose, impianti e servizi di proprietà di
tutti i partecipanti.
In esso, infatti, sul suolo, che è di
proprietà comune e pro indiviso tra tutti i
condomini ai sensi dell’art. 1117 c.c.,
salvo che risulti diversamente dai titoli di
proprietà, vengono realizzate le porzioni
immobiliari di proprietà esclusiva, una
sopra l’altra, e, quindi, la costituzione di
una proprietà superficiaria in favore del
proprietario di quella realizzata al di
sopra delle preesistenti.
Ciò comporta che il diritto di superficie
viene necessariamente a spostarsi verso
l'alto, fino all’ultimo piano o al lastrico
solare, con la conseguente accessione
all’ultimo piano o al lastrico solare di
quanto realizzato al di sopra.
Pertanto soltanto il proprietario
dell'ultimo piano -e non anche il
proprietario di uno dei piani sottostanti- è
proprietario anche delle costruzioni
realizzate sopra l'ultimo piano.
Di conseguenza nel caso in cui l'ultimo
piano sia composto da più unità immobiliari
appartenenti a soggetti diversi, ciascuno di
questi ha facoltà di sopraelevare
relativamente alla proiezione verticale
della sola porzione che gli appartiene;
viceversa nel caso in cui la proprietà
dell'ultimo piano appartenga in comune
pro-indiviso a più soggetti, è necessario il
consenso unanime di tutti i comproprietari
all’edificazione (Cass. S.U. 30.07.2007 n.
16794).
A fronte di tale diritto, però, l'art. 1127
cod. civ. pone a carico del condomino che
realizza la sopraelevazione l'obbligo di
corrispondere agli altri condomini una
indennità, la cui misura è stabilita nel
quarto comma del medesimo articolo, per
compensare la riduzione del valore delle
quote di pertinenza degli altri condomini
sulla comproprietà del suolo comune
conseguente alla sopraelevazione realizzata
da uno di essi e dall'acquisto, da parte di
quest'ultimo, della relativa proprietà.
In giurisprudenza si era creata una
difformità sul concetto di “nuovo piano o
nuova fabbrica”, ormai superata con
l’intervento delle Sezioni Unite della
Suprema Corte che ha ribadito il concetto
che “qualsiasi costruzione oltre l'ultimo
piano dell'edificio realizza, in ogni caso,
un nuovo piano od una nuova fabbrica
indipendentemente dal rapporto con la
precedente altezza dell'edificio stesso”.
Questo diritto riconosciuto dalla legge non
può essere limitato o escluso da un
regolamento di condominio adottato
dall’assemblea: infatti, in applicazione dei
principi generali del diritto, l’art. 1138
c.c., quarto comma, statuisce che le norme
del regolamento non possono in alcun modo
menomare i diritti di ciascun condomino.
Questi possono essere limitati o finanche
esclusi soltanto da un titolo, intendendosi
per tale l’insieme di tutti gli atti di
acquisto di ogni singola unità immobiliare
da cui risulti una tale clausola o un
contratto, stipulato anche successivamente,
fra tutti i condomini o, infine, un
regolamento condominiale di natura
contrattuale e cioè un regolamento approvato
e sottoscritto da tutti i condomini: ciò
avviene sia quando esso è stato predisposto
dall’unico originario proprietario e
allegato e accettato da ogni acquirente
delle singole unità immobiliari o cui vi
hanno aderito, anche fuori dalla sede
assembleare, tutti i singoli condomini.
Tali regolamenti, da considerarsi veri e
propri contratti, possono essere trascritti
presso l’Agenzia del Territorio e, in tal
modo, diventano opponibili nei confronti di
tutti e anche dei successivi acquirenti
degli immobili pur in assenza di un richiamo
espresso nei rogiti notarili.
Ma, quand’anche non trascritti nei pubblici
registri immobiliari, essi sono opponibili
nei confronti dei successivi acquirenti se
richiamati nei singoli atti d’acquisto della
proprietà.
Ed è questo il thema decidendum della
sentenza in esame: accertare se la clausola
limitativa del diritto di sopraelevare
contenuta nel regolamento di condominio
richiamato e accettato, genericamente,
nell’atto di acquisto dell’unità immobiliare
è contenuta in un regolamento di condominio
di natura assembleare o contrattuale.
Per quanto sopra detto, soltanto nel secondo
caso è idonea a escludere il diritto di cui
all’art. 1127 c.c..
Ebbene la Corte d’appello nella sentenza
impugnata, pur in assenza della prova della
natura del regolamento richiamato nell’atto
di compravendita, ha fondato la propria
decisione sull’apodittica affermazione della
sua natura contrattuale, presumibilmente
confondendo il concetto della conclusione
del contratto con quello della sua
opponibilità. In realtà il contratto
plurilaterale si forma solo con l'incontro
delle volontà di tutte e ciascuna delle
parti interessate che, riguardando diritti
reali immobiliari, devono necessariamente
assumere la forma scritta e non può
desumersi dal solo fatto che esso sia
allegato ad un singolo atto di acquisto
(Corte di Cassazione civile, sentenza
21.09.2011 n. 19209 - tratto da
www.ipsoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Per
quanto riguarda i ricorsi avverso i
provvedimenti adottati dal Sindaco quale
Ufficiale di Governo, la giurisprudenza è
concorde nel ritenere valida la notifica
effettuata presso la casa comunale, anziché
presso l'Ufficio dell'Avvocatura dello Stato
competente.
--------------
In materia di tutela dell'ambiente esterno e
dell'ambiente abitativo dall'inquinamento
acustico, nelle more del procedimento
finalizzato alla classificazione del
territorio comunale ai sensi dell'art. 6,
comma 1, lett. a), della L. n. 447 del 1995,
sono operativi i limiti cd. "assoluti" di
rumorosità, ma non anche quelli cd.
"differenziali".
---------------
L’art. 9 della legge 447/1995 rappresenta,
per così dire, l’ordinario rimedio in
materia di inquinamento acustico, non
prevedendo la citata legge altri strumenti a
disposizione delle Amministrazioni comunali
con la conseguenza che l’emanazione di
questo tipo di ordinanza non dev’essere
preceduta dalla prova che siano stati
utilizzati altri mezzi giuridici predisposti
dall’ordinamento in via ordinaria.
---------------
Appare sufficiente anche la segnalazione di
un solo cittadino, così come l’accertamento
effettuato presso una sola persona, per
consentire al Comune di intervenire per
reprimere le violazioni alla disciplina
sull’inquinamento acustico, utilizzando a
tal scopo lo specifico –ed unico peraltro–
strumento messo a disposizione dalla
legislazione speciale in materia (legge
447/1995), vale a dire l’ordinanza di cui
all’art. 9 della medesima legge 447/1995.
A tal proposito giova in primo luogo
rammentare che l’art. 15 della legge
regionale lombarda 13/2001 ha cura di
precisare che per tale attività le
Amministrazioni effettuano precise richieste
all’ARPA (il che è avvenuto nel caso di
specie), <<privilegiando le segnalazioni,
gli esposti, le lamentele presentate dai
cittadini residenti in ambiti abitativi o
esterni prossimi alla sorgente di
inquinamento acustico>> (comma 2°).
Del resto, la più recente giurisprudenza ha
ammesso la legittimità di un’ordinanza ex
art. 9 citato anche se adottata a seguito di
un esposto di una sola famiglia.
---------------
Il potere di ordinanza comunale in materia
costituisce espressione della potestà
regolatoria volta a conformare l’attività
privata al rispetto dei limiti di emissione
acustica nell’ambito del territorio
comunale; tale potere conformativo può
manifestarsi, come del resto è avvenuto
nella presente fattispecie, anche attraverso
l’obbligo per il responsabile delle
immissioni rumorose di ridurre o rimodulare
l’orario della propria attività fonte delle
suddette immissioni.
---------------
Essendo l’ordinanza in parola strumento
ordinario di tutela della salute dei
cittadini, anche singoli, come sopra
indicato, nessun’altra motivazione è
richiesta al fine di dimostrare l’interesse
pubblico all’emissione dell’ordinanza in
parola.
Neppure per le ordinanze extra ordinem è
richiesto che le misure imposte a tutela
della salute siano temporanee in quanto la
giurisprudenza ha chiarito che l'intervento
non deve avere necessariamente il carattere
della provvisorietà, atteso che suo
connotato essenziale è l'adeguatezza della
misura a far fronte alla situazione
determinata dall'evento straordinario. Il
che chiaramente sta a indicare che
nell'adozione di provvedimenti contingibili
e urgenti non esiste, in astratto, un metro
di valutazione fisso da seguire, ma la
soluzione va individuata di volta in volta,
secondo la natura del rischio da
fronteggiare. Sono, infatti, le esigenze
obiettive che si riscontrano nel caso
concreto che determinano la «misura»
dell'intervento, anche se la soluzione deve
corrispondere alle finalità del momento,
senza che possa assumere, cioè, i caratteri
della continuità e della stabilità.
Il Collegio
osserva che, per quanto riguarda i ricorsi
avverso i provvedimenti adottati dal Sindaco
quale Ufficiale di Governo, la
giurisprudenza è concorde nel ritenere
valida la notifica effettuata presso la casa
comunale, anziché presso l'Ufficio
dell'Avvocatura dello Stato competente
(Cons. Stato, sez. IV, 28.03.1994, n.
291; Tar Liguria, sez. II, 05.11.2002 n. 1077; Tar Campania Napoli, sez.
I, 30.05.2000, n. 1717).
---------------
La
giurisprudenza (Tar Friuli Venezia
Giulia, Trieste, Sezione 1, sentenza 08.04.2011, n. 183) afferma comunemente che
in materia di tutela dell'ambiente esterno e
dell'ambiente abitativo dall'inquinamento
acustico, nelle more del procedimento
finalizzato alla classificazione del
territorio comunale ai sensi dell'art. 6,
comma 1, lett. a), della L. n. 447 del 1995,
sono operativi i limiti cd. "assoluti" di
rumorosità, ma non anche quelli cd.
"differenziali".
A sostegno di quanto
suesposto, occorre far riferimento all'art.
8, comma 1, del D.P.C.M. del 14.11.1997 che testualmente afferma che "In attesa
che i comuni provvedano agli adempimenti
previsti dall'art. 6, comma 1, lett. a)
della legge 26.10.1995 n. 447, si
applicano i limiti di cui all'art. 6, comma
1, del decreto del Presidente del Consiglio
dei Ministri 01.03.1991".
Ne consegue che anche in mancanza di
disposizioni regolamentari il Comune ben
poteva imporre il rispetto dei limiti
assoluti al rumore con un’ordinanza
contingibile ed urgente.
---------------
La
giurisprudenza di questa Sezione ha da tempo
riconosciuto che l’art. 9 della legge
447/1995 rappresenti per così dire
l’ordinario rimedio in materia di
inquinamento acustico, non prevedendo la
citata legge altri strumenti a disposizione
delle Amministrazioni comunali (TAR
Lombardia, Milano, sez. IV, 27.12.2007, n.
6819; TAR Lombardia, Milano, IV, 02.04.2008, n. 715) con la conseguenza che
l’emanazione di questo tipo di ordinanza non dev’essere preceduta dalla prova che siano
stati utilizzati altri mezzi giuridici
predisposti dall’ordinamento in via
ordinaria.
---------------
La giurisprudenza (TAR Lombardia,
Milano, IV, 02.04.2008, n. 715) ha
riconosciuto che appare sufficiente anche la
segnalazione di un solo cittadino, così come
l’accertamento effettuato presso una sola
persona, per consentire al Comune di
intervenire per reprimere le violazioni alla
disciplina sull’inquinamento acustico,
utilizzando a tal scopo lo specifico –ed
unico peraltro– strumento messo a
disposizione dalla legislazione speciale in
materia (legge 447/1995), vale a dire
l’ordinanza di cui all’art. 9 della medesima
legge 447/1995.
A tal proposito giova in
primo luogo rammentare che l’art. 15 della
legge regionale 13/2001, dopo aver
attribuito ai comuni e alle province
l’attività di vigilanza e controllo in
materia di inquinamento acustico (comma 1°),
ha cura di precisare che per tale attività
le Amministrazioni effettuano precise
richieste all’ARPA (il che è avvenuto nel
caso di specie), <<privilegiando le
segnalazioni, gli esposti, le lamentele
presentate dai cittadini residenti in ambiti
abitativi o esterni prossimi alla sorgente
di inquinamento acustico>> (comma 2°).
Del resto, la più recente giurisprudenza ha
ammesso la legittimità di un’ordinanza ex
art. 9 citato anche se adottata a seguito di
un esposto di una sola famiglia (TAR Puglia,
Lecce, sez. I, 08.06.2006, n. 3340 e sez. I,
24.01.2006, n. 488).
---------------
Il potere di ordinanza comunale in
materia costituisce espressione della
potestà regolatoria volta a conformare
l’attività privata al rispetto dei limiti di
emissione acustica nell’ambito del
territorio comunale; tale potere
conformativo può manifestarsi, come del
resto è avvenuto nella presente fattispecie,
anche attraverso l’obbligo per il
responsabile delle immissioni rumorose di
ridurre o rimodulare l’orario della propria
attività fonte delle suddette immissioni
(TAR Lombardia, Milano, IV, 02.04.2008,
n. 715).
Ne consegue che è legittima l’ordinanza che
conformi l’attività nei risultati, lasciando
le modalità di attuazione alla libera scelta
del titolare dell’impresa, e disponga, nel
frattempo, la riduzione dell’orario.
---------------
Essendo l’ordinanza in parola strumento
ordinario di tutela della salute dei
cittadini, anche singoli, come sopra
indicato, nessun’altra motivazione è
richiesta al fine di dimostrare l’interesse
pubblico all’emissione dell’ordinanza in
parola (in questo senso Tar Lazio, sez. II, 22.02.1995 n. 242; Tar Toscana, sez.
II, 14.02.2000, n. 168; Tar
Sicilia, Palermo, sez. II, 01.07.1993, n.
564; Tar Sicilia, Catania, sez. II, 09.06.1992, n. 596; Tar Puglia, Bari,
sez. I, 26.09.2003 n. 3591).
In secondo luogo neppure per le ordinanze
extra ordinem è richiesto
che le misure imposte a tutela della salute
siano temporanee in quanto la giurisprudenza
ha chiarito che l'intervento non deve avere
necessariamente il carattere della
provvisorietà, atteso che suo connotato
essenziale è l'adeguatezza della misura a
far fronte alla situazione determinata
dall'evento straordinario. Il che
chiaramente sta a indicare che nell'adozione
di provvedimenti contingibili e urgenti non
esiste, in astratto, un metro di valutazione
fisso da seguire, ma la soluzione va
individuata di volta in volta, secondo la
natura del rischio da fronteggiare.
Sono,
infatti, le esigenze obiettive che si
riscontrano nel caso concreto che
determinano la «misura» dell'intervento,
anche se la soluzione deve corrispondere
alle finalità del momento, senza che possa
assumere, cioè, i caratteri della continuità
e della stabilità (Cons. Stato, sez. V, n.
580 del 09.02.2001) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 21.09.2011 n. 2253 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario la controversia avente ad
oggetto il procedimento di mobilità
volontaria esterna tra pubbliche
Amministrazioni.
La giurisprudenza ha affermato che rientra
nella giurisdizione del giudice ordinario la
controversia avente ad oggetto il
procedimento di mobilità volontaria esterna
tra pubbliche Amministrazioni, trattandosi
di atto di gestione del rapporto di lavoro;
tale mobilità, infatti, infatti, determina
una semplice cessione del contratto di
lavoro del dipendente tra l'Amministrazione
di provenienza e quella di destinazione con
continuità del suo contenuto (art. 30, comma
1, del d.lgs. n. 165 del 2001) e non la
costituzione di un nuovo rapporto di
pubblico impiego o una nuova assunzione.
Tutte le vicende che interessano la fase di
gestione del rapporto di lavoro e le
modifiche soggettive ed oggettive che
dovessero intervenire in costanza di esso
(ivi compresa la mobilità volontaria)
devono, perciò, essere conosciute dal
giudice ordinario in funzione di giudice del
lavoro, residuando la giurisdizione del
giudice amministrativo sulle controversie in
materia di procedure concorsuali finalizzate
all'assunzione dei dipendenti, ossia
relative alla fase antecedente alla
costituzione del rapporto di impiego (TAR
Puglia Lecce, sez. II, 16.08.2011, n. 1509).
Il ricorrente, benché affermi di voler
tutelare il proprio diritto all’assunzione
derivante dallo scorrimento della
graduatoria, può infatti contestare il
contenuto e le modalità di svolgimento della
selezione per mobilità volontaria solo nella
diversa qualità di dipendente pubblico
abilitato a parteciparvi, situazione che è
ammessa pacificamente dalle parti, facendo
valere il proprio interesse alla cessione
del suo contratto di lavoro.
Il difetto di giurisdizione investe anche la
domanda volta all’accertamento del diritto
del ricorrente ad essere assunto dal Comune
di Sedriano in quanto il ricorrente fa
valere in via principale il suo diritto
all’assunzione al di fuori dell’ambito di
una procedura concorsuale (Cass. SS.UU.
13.06.2011 n. 12895) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
21.09.2011
n. 2250 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nella valutazione dei concorrenti,
vietato superare i criteri del bando.
Per la valutazione delle offerte in gara, la
commissione giudicatrice è tenuta a
osservare i soli criteri individuati nel
bando, non potendo procedere, in caso di
loro inutilizzabilità, a un ulteriore esame
discrezionale qualitativo dei parametri
attribuendo o modificando i punteggi
all'esito di valutazioni comparative tra le
varie offerte.
Con la
sentenza
15.09.2011 n. 5157,
la VI Sez. del Consiglio di Stato ha
dunque evidenziato come nel l'ambito di un
appalto pubblico non è comunque consentito
alla Commissione di gara –nominata
dall'ente (ex articolo 84, comma 1, Dlgs
163/2006) e che ha scelto di seguire il
criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa– di procedere discrezionalmente
a una fase di analisi comparativa non
prevista nella lex specialis. E questo anche
nel caso –non escludibile nel campo
dell'Information technology– di uguaglianza
delle offerte perché riferite allo stesso
prodotto informatico.
Il fatto scaturisce dall'impugnazione del
provvedimento di aggiudicazione di una gara
indetta per la realizzazione di un sistema
DataWareHouse, in cui le uniche due imprese
concorrenti avevano basato la propria
offerta su identica piattaforma software.
La Commissione giudicatrice ha ritenuto di
poter individuare la migliore offerta
soltanto attraverso un esame delle soluzioni
di dettaglio nonché delle modalità di
organizzazione dei dati e della mappatura
nei software di processi, affermando,
comunque, che dalla comparazione non vi
sarebbe stata «modifica successiva dei
punteggi, ma solo espressione posticipata di
giudizi». Come osservato dalla Sezione,
questo ulteriore procedimento di valutazione
non era espressamente previsto nel bando di
gara e ha, di fatto, comportato l'esercizio
da parte della commissione, di un potere
discrezionale non consentito,in violazione
di quanto previsto dalla lex specialis,
oltre che delle regole generali indicate
dall'articolo 83, del Dlgs n. 163/2006).
Peraltro, in questi casi proprio la norma in
questione del Codice dei contratti pubblici
consente, per la predisposizione del bando
di gara, non solo di poter individuare i
criteri di valutazione (comma 1), ma di
precisarne, per ciascuno, la relativa
ponderazione (comma 2), e qualora questo
procedimento risulti inapplicabile, di poter
indicare un ordine decrescente di importanza
di tali parametri (comma 3); nonché di
specificare, all'occorrenza, sub-criteri,
sub-pesi o sub-punteggi (comma 4). Consente
inoltre di tenere conto che le metodologie
da utilizzare per attuare la ponderazione o
per attribuire il punteggio a ciascuna
offerta, devono essere conformi a quanto
stabilito dal regolamento attuativo e tali
da consentire di individuare un unico
parametro numerico finale (comma 5).
I criteri di scelta che la Commissione
avrebbe dovuto adottare, vista l'identicità
del prodotto indicato nelle offerte,
avrebbero dovuto pertanto riguardare la
valutazione di fattori qualitativi delle
stesse. Invece si è verificata una fase
irrituale di valutazione discrezionalmente
gestita dalla Commissione. Nel l'ipotesi poi
di stallo vero e proprio, a fronte
dell'impossibilità di poter effettuare una
concreta attribuzione di punteggi, l'unico
rimedio sarebbe stato la reiterazione della
gara con individuazione più precisa e
puntuale dei criteri da seguire (articolo Il Sole 24 Ore del
03.10.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanza minima, decide lo
Stato.
I comuni non possono diminuire i limiti tra
gli edifici. Il Tar Lombardia chiarisce i
rapporti tra normativa nazionale e locale in
tema di costruzioni.
I regolamenti comunali non possono diminuire
la distanza minima tra edifici richiesta
dalla disciplina di livello nazionale. I
dieci metri previsti dalla normativa
edilizia statale come limite minimo da
rispettare per le nuove costruzioni da
erigere a fronte delle pareti finestrate non
possono quindi essere derogati dagli enti
locali.
Lo ha stabilito di recente il TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV, con la
sentenza
07.06.2011 n. 1419, nella quale i giudici
amministrativi hanno chiarito i rapporti tra
normativa statale e locale in materia di
distanze tra le costruzioni.
La sentenza del Tar
Lombardia.
Nel caso in questione alcuni privati avevano
impugnato la concessione edilizia rilasciata
da un comune lombardo ai rispettivi vicini
di casa per la costruzione di un'autorimessa
ritenuta troppo vicina al proprio
fabbricato.
Il provvedimento di
autorizzazione comunale era infatti stato
adottato sulla base di quanto previsto dal
regolamento edilizio locale, che ammetteva
l'erezione di nuovi manufatti con
l'osservanza della distanza minima di soli
cinque metri tra una costruzione e l'altra.
I ricorrenti avevano quindi chiesto
l'annullamento della concessione edilizia,
segnalando la violazione dell'art. 9 del
decreto ministeriale n. 1444/1968, che prevede
il rispetto di una distanza minima di 10
metri tra nuovo e vecchio edificio.
La
quarta sezione del Tribunale amministrativo
regionale lombardo, richiamando un proprio
recentissimo precedente (sentenza n.
1282/2011), ha quindi avuto modo di chiarire
che la misura minima tra le costruzioni
prevista dall'art. 9 del dm n. 1444/1968 ha
valore cogente e non derogabile nei
confronti delle pubbliche amministrazioni,
nemmeno in sede di formazione e revisione
dei propri strumenti urbanistici, con la
conseguenza che eventuali norme locali in
contrasto con la disciplina regolamentare
nazionale devono ritenersi illegittime e,
come tali, vanno disapplicate, potendo i
comuni disporre soltanto la fissazione di
distanze minime in misura superiore a quella
prevista nella citata disposizione.
Il Tar
ha quindi fornito anche una lettura
estensiva dell'espressione «pareti
finestrate» di cui all'art. 9, comma 2, del
predetto decreto ministeriale, chiarendo che
con tale termine devono intendersi non
soltanto le pareti munite di vedute ma, più
in generale, tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso
l'esterno, quali porte, balconi e finestre
di ogni tipo.
Le distanze minime tra gli
edifici.
Il tema delle distanze minime da rispettare
nella costruzione di nuovi edifici
appassiona spesso gli operatori del diritto
e i tecnici, affollando di conseguenza le
aule dei tribunali civili e amministrativi
di cause, c.d. di vicinato, nelle quali si
litiga appunto per fare accertare il diritto
a che il vicino costruisca a una distanza
maggiore dal proprio confine.
Nel codice civile è contenuto un articolo,
il numero 873, che prescrive una distanza
minima di tre metri fra le costruzioni, a
meno che le stesse non siano unite o
aderenti (fattispecie che presuppone la
mancanza nelle pareti di luci o vedute: si
veda il relativo approfondimento). La norma
in questione, proprio per la sua
collocazione, riguarda però i rapporti tra i
privati e rileva ai fini del risarcimento
del danno da riconoscere in favore del
soggetto vittima del comportamento
illegittimo del vicino.
A livello edilizio e urbanistico, invece, la
norma di riferimento per le distanze tra
edifici è l'art. 9 del dm 02.04.1968, n.
1444, emanato in esecuzione dell'art.
41-quinquies della legge urbanistica n.
1150/1942, come modificato dalla successiva
legge n. 765/1967, che come detto prescrive la
distanza minima inderogabile di 10 metri tra
pareti finestrate o pareti di edifici
antistanti.
La disposizione in questione
impone infatti determinati limiti edilizi ai
comuni nella formazione o nella revisione
degli strumenti urbanistici, ma non è
immediatamente operante nei rapporti tra i
privati. Pertanto, come evidenziato dalla
Corte di cassazione (sezione seconda,
sentenza n. 3771/2001), l'eventuale
previsione nei regolamenti urbanistici
locali di distanze inferiori a quelle
prescritte dal predetto art. 9 è da
considerarsi illegittima e deve essere
disapplicata.
Tuttavia la previsione del dm
n. 1444/1968 non può considerarsi
immediatamente applicabile nei rapporti tra
i privati, almeno fino a che non la misura
della distanza minima tra edifici non sia
stata inserita negli stessi strumenti
urbanistici adottati o modificati a livello
locale.
---------------
Almeno tre metri tra
finestre e fabbricati.
Le distanze tra le luci e le vedute (con
tali termini si intendono, in buona
sostanza, i balconi e le finestre di
qualsiasi dimensione e forma) e i
fabbricati, secondo quanto previsto
dall'art. 907 c.c., non possono essere
inferiori ai tre metri (e, quindi, non può
essere mai ammessa la costruzione in
aderenza, che equivarrebbe alla chiusura
della luce o della veduta). Secondo il
disposto dell'art. 900 c.c., infatti, le
luci «danno passaggio alla luce e all'aria,
ma non permettono di affacciarsi sul fondo
del vicino», mentre le vedute o prospetti
«permettono di affacciarsi e di guardare di
fronte, obliquamente o lateralmente».
Da evidenziare come, secondo la
giurisprudenza ormai consolidata di
legittimità (Cassazione, sezione seconda,
sentenza n. 12097/1995 e sentenza n.
10500/1994), la nozione di costruzione
comprende non solo i manufatti in calce e
mattoni, ma qualsiasi opera che,
indipendentemente dalla forma e dal
materiale con cui è stata eretta, sia di
ostacolo alla libera visuale del
proprietario dell'immobile confinante. La
norma in questione attribuisce al privato un
vero e proprio diritto soggettivo, con la
conseguenza che anche la pubblica
amministrazione non può legittimamente
autorizzare la costruzione di opere che non
rispettino tali distanze minime.
Il presupposto logico-giuridico
dell'applicazione della disciplina della
distanza delle costruzioni dalle vedute è
ovviamente quello dell'anteriorità
dell'acquisto del diritto alla veduta sul
fondo vicino rispetto all'esercizio, da
parte del proprietario di quest'ultimo, del
proprio ius aedificandi, ovvero del proprio
diritto di elevare delle costruzioni sul
proprio terreno. Perché si possa parlare di
veduta la situazione di fatto dell'immobile
dal quale si pretende di esercitare tale
diritto deve consentire le c.d. inspectio e
prospectio sul fondo vicino, ovvero una
piena e comoda visione del paesaggio
circostante.
In particolare la inspectio si
concreta nella possibilità di guardare nel
fondo del vicino senza l'uso di mezzi
artificiali, mentre la prospectio consiste
nello sporgere il capo e nel vedere nelle
diverse direzioni in modo agevole e non
pericoloso (si veda Cassazione, sentenza n.
15371/2000). In altre parole, l'apertura sul
fondo del vicino costituisce veduta quando
la stessa consenta di affacciarsi e di
guardare secondo una valutazione rapportata
a criteri di comodità, sicurezza e
normalità.
È appena il caso di osservare che
è del tutto irrilevante l'amenità del
paesaggio che è possibile osservare dalla
veduta: che si tratti di un pittoresco
paesaggio marino, piuttosto che di un povero
orto di campagna o di una ciminiera
industriale, il diritto del proprietario
della veduta è appunto quello di avere
libero e senza ostacoli il relativo spazio
visivo (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.10.2011). |
AGGIORNAMENTO AL 03.10.2011 |
ã |
UTILITA' |
ENTI LOCALI:
Piccoli comuni, le scadenze
fissate dalla legge.
Entro il 17.11.2011 le Regioni possono
legiferare sulle dimensioni degli ambiti,
entro il 31.12.2011 i Comuni tra 1.000 e
5.000 abitanti devono gestire in forma
associata almeno due funzioni.
La “manovra-bis”, legge n. 148 del
2011, contiene numerose e incisive
disposizioni che impattano direttamente sui
piccoli Comuni e sulle Unioni di Comuni da
essi costituite.
In particolare è evidenziata, innanzitutto,
la scadenza del 17 novembre p.v., ovvero dei
due mesi previsti (entrata in vigore della
legge) dal comma 6 dell’art. 16, affinché
ciascuna Regione possa esercitare la facoltà
di individuare limiti demografici diversi da
quanto stabilito dalla nuova normativa per
le Unioni costituita da Comuni con
popolazione fino a 1.000 abitanti, obbligati
all’esercizio associato di tutte le funzioni
amministrative e dei servizi pubblici.
Tali Unioni, infatti, dovranno essere
istituite in modo che la complessiva
popolazione residente nei rispettivi
territori sia di norma superiore a 5.000
abitanti, ovvero a 3.000 abitanti qualora i
Comuni che intendano comporre la stessa
Unione appartengano o siano appartenuti a
Comunità montane.
Altra scadenza rilevante è quella del
31.12.2011.
L’art. 16, al comma 24, ha parzialmente
modificato quanto già determinato dal DL
78/2010, aumentando a 10.000 abitanti il
limite demografico minimo per la
costituzione delle Unioni di Comuni e delle
convenzioni formate da Comuni con una
popolazione compresa tra 1.000 e 5.000
abitanti, per l’esercizio delle funzioni
fondamentali.
Tale innovazione comporta, inoltre,
l’obbligo dell’esercizio associato di tutte
le funzioni fondamentali entro il
31.12.2012, mentre resta invariata la
tempistica per l’esercizio di almeno due
funzioni fondamentali da definire appunto
entro il 31 dicembre dell’anno in corso.
Anche in questo caso, la Regione ha due mesi
di tempo (quindi entro il 17 novembre p.v.)
dall’entrata in vigore della legge n. 148
per esercitare la facoltà di stabilire un
limite demografico diverso.
Infine, sempre per fornire agli Enti
interessati ogni utile assistenza di
carattere interpretativo, a breve sarà
aperta sul sito ANCI una finestra dedicata a
tali tematiche con prime risposte e commenti
in merito alle (FAQ) domande che più
frequentemente sono state formulate fino ad
oggi (commento tratto da
www.anci.lombardia.it).
---------------
ALLEGATO:
l'utile tabella crono-normativa elaborata da ANCI.
|
EDILIZIA PRIVATA:
149 domande e risposte sul Nuovo Conto
Energia. Tutti i dubbi sciolti dal GSE!
Cosa è un impianto fotovoltaico?
Quali impianti possono accedere al Quarto
Conto Energia?
Cosa si intende per“piccoli impianti” e
“grandi impianti”?
Quali sono le procedure per accedere agli
incentivi?
In quali casi è possibile ottenere un
incremento della tariffa incentivante?
Come avvengono i rimborsi?
E’ possibile utilizzare una casella di Posta
Elettronica Certificata (PEC) per ricevere
comunicazioni da parte del GSE?
La risposta a tutte queste e altre domande
(in totale ben 149) fornita dal GSE (Gestore
dei Servizi Elettrici), per sciogliere tutti
i dubbi scaturiti dagli operatori del
settore e da tutti gli interessati ad
accedere agli incentivi.
Vengono fornite risposte a quesiti sulle
istruzioni operative per accedere agli
incentivi, sulla cumulabilità degli
incentivi, sulla compilazione delle schede
tecniche, sui grandi impianti, sull’utilizzo
del portale informatico.
Ricordiamo che la nuova versione 8 di
Solarius-PV (il software ACCA per la
progettazione di impianti fotovoltaici) è
già aggiornata al Quarto Conto Energia (29.09.2011
- link a www.acca.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia n. 39 del 29.09.2011, supplemento,
"Avviso di rettifica Legge regionale
04.08.2011, n. 12 «Nuova organizzazione
degli enti gestori delle aree regionali
protette e modifiche alle leggi regionali
30.11.1983, n. 86 (Piano generale delle aree
regionali protette. Norme per l’istituzione
e la gestione delle riserve, dei parchi e
dei monumenti naturali, nonché delle aree di
particolare rilevanza naturale e ambientale)
e 16.07.2007, n. 16 (Testo unico delle leggi
regionali in materia di istituzione dei
parchi)», pubblicata sul BURL n. 31
Supplemento del 05.08.2011" (avviso
di rettifica). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
R. Bertuzzi,
L'attuale operatività dei rifiuti: SISTRI
gli obblighi, adempimenti a carico di coloro
che producono, trattano, trasportano
rifiuti (Legge 14.09.2011 n. 148 – G.U.
16.09.2011) (link a
www.lexambiente.it). |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
Prevenzione incendi. Autorimessa privata con
10 posti auto, sussiste l'obbligo del CPI?
Domanda.
Il condominio dove abito manca di agibilità
poiché privo del CPI relativo
all'autorimessa privata con 10 posti auto.
Per ovviare all'obbligatorietà del CPI, c'e'
la possibilità, dato l'impianto planimetrico
simmetrico e la presenza di un doppio
accesso carrabile, di dividere il piano
seminterrato in 2 autorimesse di 5
autoveicoli ciascuna.
A questo punto rientriamo nel caso delle
autorimesse private fino a 9 autoveicoli,
senza obbligatorietà del CPI, ma il
professionista e comunque l'amministratore
del condominio devono comunque rispettare e
garantire autonomamente i criteri di
prevenzione incendi.
In tal caso va presentato comunque su
modello PIN1 il parere di conformità sui
singoli progetti al Comando Vigili del
Fuoco? Oppure rientra nel caso della deroga
con modello PIN2?
Risposta.
Nel caso in specie, se l'autorimessa ha una
capacità di parcamento inferiore a 9
autoveicoli, il titolare dell'autorimessa
stessa non ha l'obbligo della richiesta del
rilascio del CPI, in quanto non rientra tra
le attività soggette il cui elenco si trova
in allegato al D.M. 16.02.1982.
Il titolare dell'autorimessa dovrà comunque
rispettare il D.M. 01.02.1986, in
particolare il punto 2. Autorimesse aventi
capacità di parcamento non superiore a nove
veicoli. Non dovrà quindi essere presentato
né il modello PIN1, né il modello PIN2 in
quanto non si tratta di una deroga
all'osservanza della vigente normativa
antincendio (28.09.2011 - tratto da
www.ipsoa.it). |
CORTE DEI
CONTI |
INCARICHI PROFESSIONALI: Consulenze
e pr, tagli senza sconti. Stretta su
incarichi specialistici e pubblicità
istituzionale. Le sezioni unite della Corte
dei conti chiariscono l'interpretazione
delle norme del dl 78/2010.
Il taglio delle spese
per consulenze, incarichi, pubbliche
relazioni e pubblicità non conosce
eccezioni. Nemmeno quando si tratta di
consulenze «altamente specialistiche», che
esulano dalle competenze delle
professionalità interne alle
amministrazioni, o di pubblicità
istituzionale, indispensabile per informare
i cittadini sulle modalità di fruizione dei
servizi pubblici. Entrambe non sfuggono,
contrariamente a quanto affermato dalla
Corte conti Lombardia, all'austerity
prevista dalla manovra correttiva 2010 (dl
78) che ha imposto una riduzione dell'80%
dei costi registrati nel 2009.
A chiarirlo sono le Sezioni unite di
controllo della
Corte Conti con la
delibera 21.09.2011 n. 50 resa
nota ieri.
I supremi giudici contabili sono stati
chiamati in causa dalla sezione dell'Emilia
Romagna a cui si era rivolto il Consiglio
delle autonomie locali della regione per
sciogliere una serie di dubbi
interpretativi. Sulla corretta lettura da
dare alle norme del dl 78 (art. 6, commi 7 e
8) i giudici emiliani hanno alzato le mani
rimettendo i quesiti alle sezioni unite. Le
quali tra la tesi più morbida suffragata
dalla Corte conti Lombardia (che propende
per escludere dal taglio le consulenze
specialistiche e le spese per le finalità
istituzionali previste dalla legge n.
150/2000) e quella più restrittiva fatta
propria dalla sezione dell'Emilia Romagna
hanno scelto quest'ultima. Sconfessando
apertamente i giudici lombardi la cui
interpretazione, hanno scritto, «non
appare coerente con la disciplina dettata in
materia che prevede tra i presupposti per il
ricorso a collaborazioni il preliminare
accertamento dell'impossibilità oggettiva di
utilizzare le risorse umane disponibili».
Quanto alle spese di pubblicità, le sezioni
unite hanno condiviso i timori della Corte
conti Lombardia in ordine ai possibili
effetti negativi sull'efficacia dei servizi,
ma hanno ritenuto di dover escludere dalla
stretta solo le forme di pubblicità previste
dalla legge come obbligatorie (per esempio
la pubblicità legale ndr). «L'ulteriore
esclusione», hanno scritto i giudici, «di
quelle relative alla c.d. pubblicità
istituzionale porterebbe inevitabilmente a
privare il precetto delle finalità di
risparmio previste» in considerazione
dell'ampiezza delle attività di formazione e
comunicazione di cui alla legge n. 150/2000.
Inoltre, hanno concluso le sezioni unite, un
altro argomento a favore di
un'interpretazione ampia della stretta, va
rinvenuto nella previsione di specifiche
deroghe (convegni organizzati dalle
università e dagli enti di ricerca, feste
nazionali e, solo per il 2012, mostre). «La
loro presenza, ove si accedesse a
un'interpretazione restrittiva, si
rivelerebbe in alcuni casi non utile,
potendo rientrare tra le forme di pubblicità
istituzionale»
(articolo ItaliaOggi
del 29.09.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sul
personale limiti senza esclusioni.
È arrivata la prima
interpretazione, estensiva, sul corretto
calcolo del rapporto tra spese di personale
e spese correnti per gli enti locali dopo
che il Dl 98/2011 ha richiesto l'inserimento
dei valori delle società partecipate. Una
percentuale al di sopra del 40% impedisce
qualsiasi tipologia di assunzione.
La Corte dei Conti della Lombardia con il
parere 20.09.2011 n.
479 ha avuto affrontato il nodo
della tipologia di società coinvolte nel
calcolo circoscrivendo il perimetro del
consolidamento. Sono oggetto della norma
tutte le società controllate da enti locali
che siano titolari di affidamenti diretti di
servizi pubblici locali a rilevanza
economica, oppure che svolgano servizi
pubblici locali privi di rilevanza economica
(a prescindere dall'affidamento diretto),
oppure che svolgano attività strumentali
(anch'esse a prescindere dall'affidamento
diretto).
Il problema posto dal Comune di Osio Sotto
mirava anche a puntualizzare un aspetto
incerto, ovvero se l'obbligo di calcolo
complessivo è da intendersi riferito alle
sole spese del personale sostenute dalla
partecipata per i centri di costo relativi
ai servizi gestiti in house o anche agli
altri servizi gestiti dalla stessa in forma
autonoma. Non è infatti raro che le società,
una volta costituite, forniscano attività
anche per il libero mercato.
La conclusione è quella a maggior tutela dei
conti della finanza pubblica. L'attività di
una società interamente partecipata sia essa
affidataria diretta di servizi pubblici
locali a rilevanza economica, o svolga
servizi pubblici locali privi di tale
rilevanza o attività strumentali - è
imputata nel suo complesso all'ente locale
socio totalitario anche in relazione ai
centri di costo (e relativi servizi) "autonomi".
Si attendono ora istruzioni sulle modalità
di trasformazione dei dati contabili delle
società nei dati finanziari degli enti
(articolo Il Sole 24
Ore del 29.09.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
LAVORI PUBBLICI: Il
leasing rischioso va trattato come il
debito.
ESAME OBBLIGATORIO - Stop alle operazioni se
non sono precedute da un test di convenienza
sulle diverse componenti dei contratti.
Gli effetti finanziari
del leasing in costruendo sono assimilabili
all'indebitamento, con i conseguenti divieti
per gli enti che non hanno rispettato il
Patto di stabilità o superano i limiti
(progressivamente in diminuzione) nel
rapporto fra spese per interessi ed entrate
correnti, quando i rischi riguardanti
l'opera e la sua gestione ricadono
sull'amministrazione.
Lo chiariscono le sezioni riunite di
controllo della Corte dei Conti, che nella
delibera 16.09.2011 n.
49 diffusa ieri fissano una
griglia rigida per l'attivazione di
operazioni sempre più praticate dagli enti
locali per la realizzazione di opere
pubbliche e immobili. A rendere attraente il
leasing è la possibilità di aprire una
strada alternativa alla costruzione, in
grado di evitare i vincoli del Patto di
stabilità. Senza regole univoche per la
contabilizzazione delle spese e per
l'analisi sull'equilibrio dei conti, però,
il rischio è di andare incontro a una quota
crescente di operazioni finanziarie che
sfuggono al controllo.
Nasce da qui l'allerta dei magistrati
contabili, che imbrigliano il leasing in
costruendo fissando una serie di
pre-condizioni indispensabili alla sua
realizzazione. In pratica, con questo
strumento, l'ente ottiene dalla società di
leasing il godimento di un bene per un
determinato numero di anni, dietro pagamento
di un canone periodico; al termine del
periodo, l'ente può riscattare il bene
(l'importo del riscatto è predeterminato nel
contratto iniziale di leasing). A seconda
delle modalità attuative, ricadono sull'ente
o sul privato il rischio di costruzione
(riguardante il fatto che l'opera sia
effettivamente realizzata nei tempi), e
quelli di gestione (il rischio di domanda,
sul fatto che l'opera trovi un utilizzatore,
o quello di disponibilità, sul fatto che
venga concessa all'ente).
Sulla base di questa classificazione,
ripresa dai criteri Eurostat, la Corte fissa
una regola generale: per evitare di dover
assimilare il leasing all'indebitamento, i
rischi devono «pienamente sussistere in
modo sostanziale e non solo formale a carico
del privato». La distribuzione dei
rischi dipende dalle caratteristiche del
singolo contratto (per esempio dalla
presenza del riscatto finale, che secondo la
Corte è «particolarmente conveniente o
addirittura necessario» nel leasing in
costruendo). Ma la delibera fa anche di più,
e sulla scorta di quanto accade per gli
altri contratti finanziari (ad esempio gli
swap) prevede una dettagliata analisi di
convenienza economica dell'operazione come
condizione preventiva indispensabile per la
sua realizzazione.
Per «scongiurare eventuali elusioni dei
vincoli di finanza pubblica», la Corte
chiede di valutare tutte le componenti
dell'operazione proprio in base ai criteri
Eurostat; un'indicazione ancora più
stringente dopo che la manovra estiva ha
introdotto sanzioni economiche ai funzionari
e agli amministratori che mettono in piedi
operazioni elusive del Patto
(articolo Il Sole 24
Ore del 29.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Leasing
immobiliare, occhio al debito.
Quando stipulano un
contratto di leasing immobiliare (in base al
quale un soggetto concede in godimento alla
p.a. un bene immobile dietro pagamento di un
canone periodico per un certo numero di
anni) gli enti locali devono rispettare i
limiti all'indebitamento. Perché il «leasing
in costruendo» è un contratto che ha
«un'importante componente di finanziamento»
e perciò va coordinato con i vincoli del
patto di stabilità.
A precisarlo sono state le Sezioni unite
di controllo della Corte dei Conti con la
delibera 16.09.2011 n.
49, resa nota solo ieri.
A rivolgersi alle sezioni unite è stata la
Corte conti delle Marche a sua volta
interpellata dal comune di Sassocorvaro
(Pu). I supremi giudici amministrativi hanno
sgombrato il campo da dubbi, non cedendo
alla tentazione di interpretare in modo soft
le norme di legge. Una tentazione in cui
invece è caduto il comune marchigiano
ingannato dal fatto che l'art. 3, comma 17
della legge n. 350/2003 non contempla i
contratti di leasing tra le operazioni
finanziarie che per gli enti locali
costituiscono indebitamento ai sensi
dell'art. 119 della Costituzione.
Con il leasing immobiliare, hanno chiarito
invece le sezioni unite, «l'ente vincola
in modo continuativo una parte delle risorse
disponibili per pagare i canoni di
locazione. Si tratta di un vincolo che,
indipendentemente dalle modalità di
contabilizzazione, è assimilabile al debito».
E un'interpretazione formale, basata sul
semplice tenore letterale della norma, «si
porrebbe in contrasto con la ratio
della stessa, non assoggettando al limite di
indebitamento operazioni che sostanzialmente
ne hanno la natura»
(articolo ItaliaOggi
del 29.09.2011). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Verso
la proroga in Catasto. Un altro mese per
mettere in regola i fabbricati. Il ministero
dell'economia studia la riapertura dei
termini sugli immobili rurali.
Una boccata d'ossigeno per la presentazione
della domanda di variazione catastale per i
fabbricati rurali. Al ministero
dell'economia si starebbe studiando
un'eventuale proroga, che potrebbe essere di
un mese, per la presentazione della domanda
il cui termine è scaduto ieri. Dunque più
che una vera e propria proroga accordata sul
filo di lana si tratterebbe di riapertura
dei termini.
Il termine, scaduto ieri (30/09/2011), è
stato fissato dal comma 2-bis, dell'art. 7,
decreto legge n. 70/2011 (decreto sviluppo)
e si è reso necessario per presentare
all'Agenzia del Territorio la domanda di
variazione della categoria catastale per
l'attribuzione della categoria «A/6» alle
abitazioni rurali o della categoria «D/10»
per i fabbricati rurali strumentali, con le
modalità indicate dal recente decreto del
14.09.2011 del Ministro dell'Economia e
delle Finanze, pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 220 del 21 settembre 2011.
La domanda di variazione della categoria,
finalizzata all'acquisizione della qualifica
rurale della costruzione, deve essere
presentata al competente ufficio provinciale
dell'Agenzia del Territorio, insieme a una o
più autocertificazioni (dichiarazione
sostitutiva) con firma autenticata, su
modelli conformi agli allegati A, B e C del
decreto, insieme con ogni altro documento
utile. Sul sito dell'Agenzia è inoltre
disponibile una specifica applicazione web,
che consente la compilazione e l'invio della
domanda con il contestuale ottenimento
dell'identificativo numerico, con la
possibilità di trasmettere all'Ufficio
provinciale dell'Agenzia la documentazione
prevista entro i 15 giorni successivi. In
commissione finanze della camera, il 28
settembre scorso il sottosegretario
all'economia, Bruno Cesario, aveva escluso
una proroga lunga fino al 30.06.2012
dell'adempimento (ItaliaOggi, 29/09/2011).
La variazione si rende necessaria, come
detto, al fine di ottenere una
qualificazione specifica delle costruzioni
rurali, rispettose delle condizioni di cui
al comma 3 (abitativi) e 3-bis
(strumentali), dell'art. 9, dl n. 557/1993 e
vale come mini-sanatoria per il pregresso,
stante il fatto che la dichiarazione
sostitutiva impone l'attestazione del
possesso di detti requisiti per il
quinquennio precedente; il Territorio ha
tempo fino al prossimo 20 novembre per
verificare, ai sensi del comma 2-ter,
dell'art. 7, del decreto sviluppo, la
sussistenza dei requisiti e convalidare
l'assegnazione nelle categorie prescritte
dei fabbricati, che potranno beneficiare
dell'esenzione dall'imposizione diretta e
dall'Ici, anche per i periodi pregressi.
Nel caso di mancato riconoscimento
dell'attribuzione della categoria richiesta
(circolare 6/T/2011), il Territorio emana un
provvedimento motivato (e annotato negli
atti catastali) da notificarsi agli
interessati, impugnabile dai proprietari
dinanzi alle commissioni tributarie, nel
rispetto delle modalità e dei termini
prescritti dal dlgs n. 546/1992
(articolo ItaliaOggi dell'01.10.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO: LA
GUIDA COMPLETA ALLA MANOVRA/ Pubblico
impiego: dal TFR ai tagli.
Dalla mobilità al trattenimento al lavoro.
Le riduzioni dei posti nelle amministrazioni
centrali. I piani di riorganizzazione delle
Pa. Le regole sulle visite fiscali in caso
di malattia. ...
(articolo
Il Sole 24 Ore del 30.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Occhio ai costi se il dipendente
cambia il part-time in tempo pieno.
Un ente locale può accogliere la richiesta,
presentata da un dipendente, di trasformare
il proprio rapporto di lavoro da tempo
parziale a tempo pieno (contratto di lavoro
con il quale lo stesso era stato
originariamente assunto) tenuto conto che
l'incremento di spesa che ne deriverebbe si
porrebbe in contrasto con i vincoli posti
dalla normativa applicabile agli enti di
minori dimensioni ex art. 1, comma 562, della
legge n. 296/2006, nonché con il parametro
tra spesa di personale e spese correnti,
stabilito dall'art. 14, comma 9, del dl
78/2010, convertito nella legge n. 122/2010?
La disciplina del rapporto di lavoro a tempo
parziale è contenuta nell'art. 4 del Ccnl
del 14/09/2000, e in particolare, nei commi
14 e 15, che regolano rispettivamente il
caso del dipendente già assunto a tempo
pieno e che successivamente abbia chiesto la
trasformazione del rapporto a tempo parziale
e il caso del dipendente assunto
direttamente a tempo parziale.
Nel caso di
specie, trova quindi applicazione il comma
14, secondo cui il dipendente ha diritto di
tornare a tempo pieno alla scadenza di un
biennio dalla trasformazione, anche in
soprannumero, oppure prima della scadenza
del biennio, a condizione che vi sia la
disponibilità del posto in organico. La
clausola contrattuale, che riproduce il
testo dell'art. 6, comma 4, del dl
28/03/1997, n. 79 convertito in legge
28/05/1997, n. 140, riconosce, quindi, un
vero e proprio diritto soggettivo il cui
soddisfacimento non può essere autoritativamente differito.
Come sostenuto dalla Corte dei conti,
sezione regionale di controllo per il
Veneto, nella deliberazione n. 002/2009/Par,
«ammettere la comprimibilità di tale diritto
significherebbe ammettere la comprimibilità
di tutti i diritti sorti in base a
disposizioni vincolanti, di fonte legale o
contrattuale, che incidono sulla spesa di
personale».
L'ente locale, sempre secondo le indicazioni
della stessa Corte, dovrebbe tenere conto,
sin dal momento della stesura del bilancio
di previsione, della possibilità che venga
esercitato «il diritto del personale in
part-time alla ricostituzione del tempo
pieno alla scadenza del biennio e,
conseguentemente, adottare le necessarie
iniziative di contenimento di altre
componenti della spesa di personale al fine
di rispettare i vincoli derivanti dalla
legislazione finanziaria».
L'ente locale dovrà, pertanto, adottare
quelle misure, di sua esclusiva pertinenza,
che consentano di rispettare, nel contempo,
gli obblighi di matrice contrattuale e le
misure di contenimento della spesa pubblica
stabilite dalle manovre finanziarie
(articolo ItaliaOggi del 30.09.2011). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Turnover.
Un ente locale, soggetto alle norme del
patto di stabilità e con un'incidenza delle
spese di personale rispetto alla spesa
corrente pari al 27,98%, può conteggiare
anche le cessazioni verificatesi negli anni
pregressi ai fini del calcolo del turnover
del settore di polizia municipale per le
assunzioni da effettuarsi ai sensi dell'art.
1, comma 118, della legge n. 220/2010?
L'art. 1, comma 118, della recente legge 13.12.2010, n. 220 (legge di stabilità
2011), aggiungendo un periodo al comma 7
dell'art. 76 del dl 25.06.2008, n. 112,
convertito con modificazioni dalla legge 06.08.2008, n. 133, e successivamente
modificato dal richiamato dl 78/2010, ha
previsto la possibilità, per gli enti nei
quali l'incidenza delle spese di personale è
pari o inferiore al 35% delle spese
correnti, di effettuare le assunzioni per
turnover che consentano l'esercizio delle
funzioni fondamentali previste dall'art. 21,
comma 3, lett. b), della legge 05.05.2009, n. 42, in deroga al 20% e comunque nel
rispetto degli obiettivi del patto di
stabilità interno e dei limiti di
contenimento complessivi delle spese di
personale.
Dalla formulazione della norma
soprarichiamata, non appare possibile
utilizzare nel calcolo del turnover i posti
che si sono resi vacanti negli anni
pregressi, dovendosi fare esclusivo
riferimento alle cessazioni verificatesi
nell'anno precedente, come espressamente
indicato dal comma 7, dell'art. 76 della
legge n. 133/2008
(articolo ItaliaOggi del 30.09.2011). |
EDILIZIA PRIVATA: Prevenzione incendi
avanti.
Al via il processo di snellimento delle
procedure. Dal 7 ottobre in vigore le nuove
regole della riforma. Ecco cosa cambia.
Al via la nuova riforma della prevenzione
incendi. Con il nuovo regolamento di
prevenzione incendi introdotto dal dpr 01.08.2011, n. 151 (pubblicato sulla G.U.
221 del 22.09.2011) e le cui regole
entreranno in vigore il prossimo 7 ottobre,
infatti, ha inizio un processo di
snellimento del sistema autorizzativo in
capo al Corpo nazionale dei Vigili del
fuoco.
Per la prima volta, infatti, in una
materia così complessa viene concretamente
incoraggiata un'impostazione fondata sul
principio di proporzionalità in base al
quale gli adempimenti amministrativi vengono
diversificati in relazione al livello di
rischio connesso con l'attività. Questo
naturalmente, mantenendo inalterato il
livello di sicurezza che oggi la prevenzione
incendi ha raggiunto in Italia.
Va, infatti,
ricordato che l'Italia ha un numero di
vittime per incendi (per milione di
abitanti) che è il più basso al mondo, così
come è il più basso al mondo il costo (in
termini percentuali rispetto al pil) dei
danni dovuti all'incendio. Cambiano così
dopo 30 anni le attività soggette ai
controlli di prevenzione incendi (di cui al
dm 16/02/1982) che da 97 si riducono a 80, e
vanno in pensione gli allegati A e B del dpr
689/1959.
Le attività soggette vengono ripartite in
tre categorie (A, B, C), individuate a
seconda della gravità del rischio, della
dimensione o del grado di complessità
dell'attività stessa e i procedimenti
vengono differenziati, divenendo più
semplici per le attività meno complesse (A e
B). In questo modo, per le attività
rientranti nella categoria A, soggette a
norme tecniche verticali, sparisce il parere
di conformità e il progetto deve essere
presentato contestualmente alla Scia
(Segnalazione certificata di inizio
attività).
Per le attività in B e C invece, viene
mantenuto il parere di conformità, ma
l'inizio attività sarà assoggettato alle
procedure previste a lavori ultimati per la
Scia (Segnalazione certificata di inizio
attività). Una semplificazione avverrà anche
per i controlli in campo, che nel caso di
attività di tipo A e B diverranno a
campione, mentre per le attività di
categoria C saranno a tappeto.
Quali quindi i criteri che hanno ispirato il
Corpo nazionale nell'emanazione di questa
nuova riforma? Innanzitutto l'eliminazione,
la riduzione o semplificazione delle
procedure ridondanti o sproporzionate in
relazione alla dimensione, all'attività
esercitata dall'impresa o alle esigenze di
tutela degli interessi pubblici coinvolti;
l'informatizzazione e poi l'estensione
dell'autocertificazione e delle attestazioni
dei tecnici abilitati e delle agenzie per le
imprese.
Anche i professionisti quindi, con la
riforma, assumono un ruolo di maggiore
coinvolgimento nel sistema della prevenzione
e della sicurezza. Proprio per questo, con
il decreto dello scorso 5 agosto (pubblicato
su G.U. 206 del 05.09.2011) è stato
aggiornato il provvedimento precedente (dm
25.03.1985) di individuazione delle
procedure e dei requisiti necessari ai fini
dell'iscrizione negli elenchi del ministero
dell'interno per il rilascio delle
certificazioni in materia di prevenzione
incendi
(articolo ItaliaOggi del 30.09.2011). |
APPALTI: Un codice delle leggi antimafia.
Banca dati, recesso dal contratto,
informazioni per 12 mesi. In Gazzetta
Ufficiale il decreto 159/2011 che attua il
Piano straordinario. Via dal 13 ottobre.
Istituzione della banca dati unica della
documentazione antimafia, pubblicità per il
procedimento in cui si applicano misure di
prevenzione, ampliamento delle fattispecie
da cui il prefetto desume il tentativo di
infiltrazione mafiosa, obbligo di recesso
dal contratto in caso di verifica antimafia
interdittiva, raddoppio della validità
dell'informazione antimafia che passa da 6 a
12 mesi.
Sono questi alcuni dei principali contenuti
del corposo Codice delle leggi antimafia,
delle misure di prevenzione e delle nuove
disposizioni in materia di documentazione
antimafia (il decreto legislativo
06.09.2011, n. 159, pubblicato sul
supplemento ordinario n. 214 alla Gazzetta
Ufficiale n. 226 del 28.09.2011) che entrerà
in vigore il 13 ottobre.
Il decreto legislativo attua le deleghe
previste dagli articoli 1 e 2 della legge
13.08.2010, n. 136 (il c.d. Piano
straordinario contro le mafie che ha dato
vita anche alla normativa sulla
tracciabilità dei flussi finanziari) e sarà
seguito, anche su sollecitazione delle
commissioni parlamentari che hanno esaminato
il testo a luglio, da una nuova iniziativa
governativa legislativa che coprirà l'intero
spettro della disciplina sostanziale e
processuale in materia di criminalità
organizzata (intercettazioni «giudiziarie»,
collaboratori e testimoni di giustizia,
regime carcerario previsto dall'art. 41-bis,
colloqui investigativi speciali, attività di
cooperazione giudiziaria).
Venendo al Codice, per quel che riguarda le
misure di prevenzione, si prevedono alcune
importanti novità. In primo luogo la facoltà
di richiedere che il procedimento per
l'applicazione delle misure di prevenzione
sia celebrato in udienza pubblica. Viene poi
stabilito un limite di durata anche per il
procedimento di secondo grado, prevedendo la
perdita di efficacia del sequestro ove non
venga disposta la confisca nel termine di un
anno e sei mesi dalla immissione in possesso
da parte dell'amministratore giudiziario (in
caso di impugnazione della decisione, entro
un anno e sei mesi dal deposito del
ricorso), con possibilità di proroga dei
termini per non più di due volte in caso di
indagini particolarmente complesse.
Viene introdotta la revocazione della
decisione definitiva sulla confisca di
prevenzione, volta a consentire agli enti
assegnatari dei beni confiscati di gestirli
senza timore di doverli restituire. A
seguito del definitivo decreto di confisca,
la revoca sarà possibile solo in casi
eccezionali (difetto originario dei
presupposti, falsità delle prove); in tal
caso, salvo che per i beni di particolare
pregio storico-artistico, verrà restituita
solo una somma di denaro equivalente al
valore del bene. Viene poi dettata la
disciplina dei rapporti tra la confisca di
prevenzione e il sequestro penale e quella
dei rapporti dei terzi con la procedura di
prevenzione, a garanzia della buona fede dei
terzi. In materia di certificazione
antimafia, il codice semplifica ed
omogeneizza una normativa resa
particolarmente complessa dalla
stratificazione delle norme nel tempo.
In particolare, per quel che riguarda la
documentazione antimafia, essa non è
richiesta per contratti di importo inferiore
a 150 mila euro, così come prevede il dpr
252 del 1998; la comunicazione antimafia
sarà utilizzabile per sei mesi dalla data
del rilascio, anche per altri procedimenti;
l'informazione antimafia sarà utilizzabile
per un periodo di dodici mesi dalla data del
rilascio, qualora non siano intervenuti
mutamenti nell'assetto societario e
gestionale dell'impresa oggetto
dell'informazione.
Infine il codice istituisce la banca dati
nazionale unica della documentazione
antimafia, presso il ministero dell'interno,
consultabile dalle stazioni appaltanti,
dalle camere di commercio e dagli ordini
professionali, che semplificherà l'attuale
sistema delle procedure di rilascio della
documentazione, con l'effetto di un
monitoraggio costante delle imprese.
Il codice disciplina anche i poteri di
accesso e di accertamento che fanno capo ai
prefetti, stabilendo che possano essere
esercitati nei cantieri delle imprese
interessate all'esecuzione di lavori
pubblici. Per tali accessi il prefetto si
dovrà avvalere dei gruppi interforze che
effettueranno le indagini nei confronti di
tutti i soggetti che intervengono a
qualunque titolo nel ciclo di realizzazione
dell'opera, anche con noli e forniture di
beni e prestazioni di servizi, ivi compresi
quelli di natura intellettuale, qualunque
sia l'importo dei relativi contratti o dei
subcontratti
(articolo ItaliaOggi del 30.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Più
Antimafia negli appalti. Una banca dati
unica nazionale per combattere le
infiltrazioni.
AI RAGGI X -
Potenziato il ruolo dei prefetti nella
redazione di dossier sugli aspiranti partner
contrattuali della Pa.
Una banca dati unica nazionale per
combattere le infiltrazioni mafiose negli
appalti con la pubblica amministrazione. È
questa l'arma in più che il decreto
legislativo 159/2011 (pubblicato sul
Supplemento ordinario alla «Gazzetta
Ufficiale» 266 del 28 settembre) mette in
campo in materia di misure di prevenzione
personali e patrimoniali, di fatto una delle
poche novelle nella riduzione a testo unico
della normativa antimafia sul versante
amministrativo (per il diritto penale
servirà invece un'altra legge delega, si
veda «Il Sole 24 Ore» di ieri).
La banca dati, che dovrà essere calibrata da
un serie di regolamenti ministeriali
scadenziati per i prossimi sei mesi,
consentirà un monitoraggio in tempo reale
contando tra l'altro sul potenziamento del
ruolo, anche informale, dei prefetti nella
redazione di dossier sugli aspiranti partner
contrattuali della Pa. L'accesso alle
informazioni centralizzate sarà consentito
alle stazioni appaltanti (a questo proposito
viene riconosciuto normativamente il ruolo
della Stazione unica), alle Camere di
commercio e agli Ordini professionali, con
garanzie di tracciamento di chi interrogherà
il terminale.
La profilazione riguarderà i candidati a
contrattare con la pubblica amministrazione,
ma pure chi intende ricevere contributi o
erogazioni pubbliche, anche comunitarie:
rispetto al passato si amplia la platea dei
soggetti radiografabili, includendo i
general contractor. Tra i soggetti
sottoposti alla verifica antimafia è stato
ora inserito il riferimento ai
raggruppamenti temporanei di imprese, la
documentazione antimafia dei quali deve
riferirsi anche alle imprese con sede
all'estero, oltre al direttore tecnico e ai
rappresentanti legali delle associazioni.
L'informazione antimafia coinvolgerà inoltre
i familiari conviventi dei soggetti che la
legge sottopone alla verifica.
Resta invece immutata, nel testo unico, la
soglia di esenzione della comunicazione
antimafia, fissata in 150mila euro del
valore economico del l'operazione da
appaltare o dell'erogazione da ricevere
(erano 300 milioni di lire nel Dpr
252/1998).
Il nuovo codice antimafia sdoppia i termini
di validità della comunicazione antimafia
rispetto alla informazione: mentre la prima
continuerà a valere per sei mesi dalla data
del rilascio (e scatterà automaticamente
dopo la consultazione della banca dati
nazionale), la comunicazione –che può
riguardare anche l'attestazione di tentativi
di infiltrazione mafiosa nelle imprese–
avrà efficacia per 12 mesi.
La competenza
per la comunicazione antimafia resta in
carico al prefetto della provincia in cui
l'impresa richiedente ha sede, che diventa
il prefetto dove ha sede il cantiere nei
casi in cui l'azienda è basata all'estero.
Non cambia, invece, la disciplina
dell'autocertificazione per contratti e
subcontratti relativi a lavori, servizi o
forniture dichiarati urgenti e i
provvedimenti di rinnovo di contratti, o per
attività private, sottoposte a regime autorizzatorio o alla disciplina del
silenzio-assenso.
Confermati infine i poteri di accesso ai
cantieri del prefetto, già introdotti dal
Dpr 150/2010.
---------------
Radiografia allargata
01 | LA COMUNICAZIONE
La comunicazione antimafia è rilasciata dal
prefetto della provincia in cui i soggetti
richiedenti hanno sede (se sono Pa o enti
pubblici o general contractor), oppure, se
richiesta da persone fisiche, imprese,
associazioni o consorzi, è competenza del
prefetto della provincia in cui gli stessi
risiedono o hanno sede.
02 | LA BANCA DATI
Prima di rilasciare il via libera antimafia,
il prefetto deve consultare la neo-istituita
banca dati nazionale. Se l'interrogazione è
negativa, la comunicazione antimafia
liberatoria è immediata, e dà atto della
consultazione al data-base centralizzato.
Nel caso invece emergano divieti o cause di
decadenza, prima di rilasciare una
comunicazione interdittiva il prefetto
verifica l'aggiornamento e l'adeguatezza dei
dati.
03 | AUTOCERTIFICAZIONE
I contratti e subcontratti relativi a
lavori, servizi o forniture dichiarati
urgenti, e i provvedimenti di rinnovo
conseguenti a provvedimenti già disposti,
sono stipulati, autorizzati o adottati
mediante l'acquisizione di relativa
dichiarazione, con la quale l'interessato
attesta che nei suoi confronti non
sussistono cause di divieto, di decadenza o
di sospensione.
04 | LA SOGLIA ESENTE
La "radiografia" antimafia non riguarda i
provvedimenti della Pa, gli atti, i
contratti e le erogazioni da ente pubblico
il cui valore complessivo non superi i
150mila euro, soglia già prevista dal
decreto legge 252 del 1998.
05 | PLATEA AMPIA
La platea dei soggetti interessati dai
controlli preventivi anti-infiltrazioni
mafiose esce allargata dal nuovo testo
unico, estendenosi ai familiari conviventi,
ai direttori tecnici di cantiere e ai
revisori contabili.
A livello di composizione societaria, la
profilazione interesserà i raggruppamenti
temporanei di imprese anche per le imprese
con sede all'estero.
---------------
L'indagine
sull'impresa si allarga a direttori di
cantiere e familiari.
L'indagine amministrativa sulle potenziali
infiltrazioni mafiose nelle imprese che
trattano e lavorano con la Pa si allarga
alla direzione di cantiere e ai revisori
contabili, oltre ai familiari. L'esperienza
degli ultimi anni ha portato alla luce,
soprattutto attraverso le inchieste della
magistratura, un'evoluzione delle modalità
di "eterodirezione" dell'attività d'impresa
da parte della criminalità organizzata, che
non si limita più a controllare direttamente
il consiglio di amministrazione o le quote
sociali ma, sempre più spesso, introduce
suoi propri "referenti" negli organi di
controllo dell'attività d'impresa. Pertanto
le cautele antimafia, una novità del testo
unico, sono state estese anche al direttore
tecnico e ai componenti del collegio di
revisione contabile (oltre ai già previsti
organi di governance della società).
La documentazione antimafia delle imprese
individuali riguarda il titolare e il
direttore tecnico, mentre nelle
associazioni, imprese, società, consorzi e
raggruppamenti temporanei di imprese, oltre
al direttore tecnico, riguarda il legale
rappresentante delle associazioni, il legale
rappresentante e gli eventuali altri
componenti l'organo di amministrazione delle
società di capitali, anche consortili, e
inoltre ognuno dei consorziati che nei
consorzi e nelle società consortili detiene
una partecipazione superiore al 10% oppure
una partecipazione inferiore al 10% e che
abbia stipulato un patto parasociale "oltre
soglia".
Documentazione antimafia necessaria anche
per i soci o i consorziati per conto dei
quali le società consortili o i consorzi
operino in modo esclusivo nei confronti
della pubblica amministrazione.
L'adempimento di "radiografia"
anti–infiltrazioni mafiose, per le società
di capitali, impegna anche il socio di
maggioranza in caso di società con un numero
di soci pari o inferiore a quattro, o il
socio in caso di società con socio unico.
Nei consorzi, documentazione antimafia
necessaria per chi ne ha la rappresentanza,
così come per gli imprenditori o società
consorziate; tutti i componenti per le
società semplice e in nome collettivo; gli
accomandatari per le società in accomandita;
per le società estere, chi le rappresenta
stabilmente in Italia; per i raggruppamenti
temporanei di imprese, le imprese del
raggruppamento anche se con sede all'estero:
per le società personali, i soci persone
fisiche delle società personali o di
capitali che ne siano socie
(articolo
Il Sole 24 Ore del 30.09.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Antimafia,
strategia preventiva. Confische veloci e
blindate - Sotto esame anche i revisori
contabili.
RINVIO TECNICO - Una nuova legge delega per
il riordino del diritto sostanziale con
entrata in vigore entro 24 mesi.
Il nuovo codice delle misure di prevenzione
mafiosa, che abroga le leggi speciali
emanate sul tema dal 1956 in avanti e
riordina in un unico corpo normativo il
contrasto patrimoniale al "416-bis",
diventa legge dello Stato. Il Decreto
legislativo 159 del 06.09.2011 è stato
pubblicato sul Supplemento ordinario n. 214
della Gazzetta Ufficiale n. 226 di ieri, ed
entrerà in vigore tra due settimane, con
esclusione per i procedimenti già in corso.
La pubblicazione di ieri esaurisce la prima
parte della legge delega 136/2010 sul Codice
unico antimafia –scaduta a inizio settembre–
relativa al Libro II, inerente le misure
patrimoniali contro organizzazioni mafiose e
soggetti affiliati. Ci sarà invece una nuova
delega per riordinare, entro 24 mesi, il
diritto sostanziale e processuale, così come
avevano chiesto ad agosto la Commissione
giustizia della Camera e il Comitato per la
legislazione.
Il Libro I, composto da 10 articoli sulla «Criminalità
organizzata di tipo mafioso» a partire
dalla norma base del 416-bis, è stato quindi
congelato, perché tra l'altro non era
prevista l'abrogazione delle disposizioni
confluite nel codice, nonostante la delega
lo prevedesse. Da questo fatto puramente
tecnico sarebbero potute derivare serie
incertezze in sede interpretativa.
La riorganizzazione delle misure di
prevenzione offrirà comunque una migliore
agibilità all'autorità giudiziaria e a
quella amministrativa per l'aggressione dei
patrimoni di origine mafiosa e per il
controllo di personaggi in odore di
criminalità organizzata.
Il Libro II è diviso in cinque titoli, dalle
misure di prevenzione personali a quelle di
prevenzione patrimoniali,
dall'amministrazione, gestione e
destinazione dei beni sequestrati e
confiscati, fino alla tutela dei terzi e i
rapporti con le procedure concorsuali.
Tra le novità, la facoltà di richiedere che
il procedimento per l'applicazione delle
misure di prevenzione sia celebrato in
udienza pubblica e in tempi stretti: il
sequestro perde efficacia se non arriva la
confisca entro 18 mesi dalla immissione in
possesso dell'amministratore giudiziario.
Limitata, inoltre, la possibilità di revoca
della confisca, che spesso blocca l'attività
di reimpiego degli immobili da parte dei
Comuni, che viene agganciata ai requisiti "stretti"
della procedura penale, cioè al difetto
originario dei presupposti per
l'applicazione della misura.
Nuove regole anche per i rapporti dei terzi
con il procedimento di prevenzione, vale a
dire i diritti pendenti al momento
dell'esecuzione del sequestro su un bene. Al
terzo comproprietario è concesso, se in
buona fede, diritto di prelazione per
l'acquisto della quota confiscata al valore
di mercato. Per quanto concerne i contratti
preliminari di vendita, viene confermata la
regola generale del diritto per il
promissario acquirente di far valere il
proprio credito nella procedura di verifica
e pagamento dei crediti.
Stretta infine sui controlli per i soggetti
che contrattano con la pubblica
amministrazione, o che intendono ricevere
contributi od erogazioni pubbliche, anche
comunitarie, soggetti verso i quali si
intensificano gli accertamenti antimafia. La
criminalità organizzata, secondo la
relazione, non si limita più a controllare
direttamente il consiglio di amministrazione
o le quote sociali ma, sempre più spesso
introduce referenti all'interno degli organi
di controllo dell'attività d'impresa. Per
questo le cautele antimafia vengono estese
anche al direttore tecnico e ai componenti
del collegio di revisione contabile, oltre
ai già previsti organi di governance
della società.
---------------
L'intervento
01 | PREVENZIONE MAFIA
Il Codice che è stato pubblicato ieri sulla
Gazzetta Ufficiale riguarda le misure di
prevenzione personali e patrimoniali oltre
all'amministrazione e la destinazione dei
beni confiscati
02 | NUOVA DELEGA
La risistemazione in un unico codice del
diritto penale sostanziale è stata invece
rimessa, per motivi tecnici, a una nuova
legge delega
03 | LEGGI ABROGATE
Il Codice abrogherà, dalla sua entrata in
vigore, tutte le leggi in materia degli
ultimi 55 anni.
Tra le altre: la legge 27.12.1956, n. 1423;
la legge 31.05.1965, n. 575; il Dl
04.02.2010, n. 4, convertito in legge
31.03.2010, n. 50; gli articoli da 18 a 24
della legge 22.05.1975, n. 152; l'articolo
16 della legge 13.09.1982, n. 646; gli
articoli da 2 a 11, 13 e 15 della legge
03.08.1988, n. 327
(articolo Il Sole 24
Ore del 29.09.2011). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dal
1° ottobre i nuovi canali telematici. La
visita fiscale si chiede on-line.
Al via i nuovi servizi online dell'Inps. Dal
1° ottobre, infatti, è prevista
l'attivazione sul sito internet
dell'istituto delle procedure per richiedere
le visite mediche di controllo (le
cosiddette visite fiscali), l'erogazione di
assegni familiari in agricoltura e
l'autorizzazione ai versamenti volontari
all'Ipost, al fondo di previdenza per il
personale dipendente delle aziende private
del gas e al fondo speciale per il personale
dipendente dalle ferrovie dello stato. Lo
ricorda l'Inps in un comunicato diffuso
ieri.
Nuovi servizi online.
I nuovi servizi rientrano nel programma di
telematizzazione che dovrebbe concludersi
entro la metà del prossimo anno, quando
tutte le domande di prestazioni e servizi
saranno disponibili online. Dal 1° ottobre,
è la volta delle seguenti domande:
● visite mediche di controllo da parte dei
datori di lavoro per cui inizia il periodo
transitorio che terminerà il 30 novembre;
● assegni familiari per i coltivatori
diretti, mezzadri e coloni per i quali
inizia il periodo transitorio che terminerà
il 30 novembre;
● autorizzazione ai versamenti volontari per
il fondo di previdenza per il personale
dipendente delle aziende private del gas, il
fondo speciale per il personale dipendente
dalla Ferrovie dello stato e l'Istituto
postelegrafonici (Ipost), per cui inizia il
periodo transitorio, che terminerà il 31
dicembre.
Modalità operative. Terminato il periodo
transitorio, le domande non possono più
essere presentate in modalità cartacea, ma
solo attraverso uno dei seguenti canali:
► web: avvalendosi dei servizi telematici
accessibili direttamente dal cittadino
tramite Pin dal portale dell'Inps
(www.inps.it);
► telefono: contattando il contact center
integrato al numero verde 803164;
► patronati e tutti gli intermediari
dell'Inps usufruendo dei servizi telematici
dagli stessi offerti.
Domestici e Gestione
separata Inps.
Vale la pena ricordare, inoltre, che sempre
dal 1° ottobre, dopo un periodo transitorio
in scadenza domani (30 settembre), anche
l'iscrizione alla gestione separata Inps e
le denunce dei rapporti di lavoro dei
domestici (come colf, badanti ecc.) dovranno
avvenire necessariamente in via telematica,
tramite il sito internet dell'istituto di
previdenza, da parte di soggetti in possesso
di Pin
(articolo ItaliaOggi
del 29.09.2011). |
ENTI LOCALI: Le
irregolarità nelle verifiche fiscali non
vanno segnalate subito alla Corte.
Le irregolarità che
dovessero sorgere nel procedimento di
verifica dell'insussistenza di cartelle
pendenti a carico di chi percepisce un
pagamento da parte della p.a. (ex art. 48
bis dpr n. 602/73), prima di essere
inoltrate alla procura della Corte dei
conti, devono essere segnalate alla stessa
amministrazione procedente per i necessari
chiarimenti.
Infatti, l'eventuale irregolarità potrebbe
alla fine concretizzarsi in un mero
inadempimento procedurale che, anche se
rilevante dal punto di vista disciplinare, è
comunque privo di conseguenze negative per
le casse erariali.
Lo si rileva dalla
circolare 23.09.2011 n. 27 +
allegato A della
Ragioneria Generale dello Stato
che fa
luce sul trattamento delle irregolarità che
dovessero sorgere nella verifica del
corretto iter procedurale previsto dalla
norma sopra citata. Secondo la Rgs, in casi
di irregolarità è necessario, prima di
procedere alla segnalazione alla procura
della Corte dei conti, che si avvii un
percorso con l'amministrazione interessata,
che sia finalizzato ad acclarare o ad
escludere i presupposti per l'avvio di un
danno erariale.
La Rgs infatti cita, a tal fine, quanto
riportato da una nota del procuratore
generale della Corte dell'agosto 2007,
secondo cui è escluso il dovere di denuncia
«per fatti aventi solo una potenzialità
lesiva» ma dove si sottolinea il fatto
che «alle amministrazioni è sempre richiesta
una vigile attenzione, così da apportare le
correzioni che evitino il danno».
Pertanto, quando il soggetto deputato al
controllo di regolarità
amministrativo-contabile dovesse rilevare
l'omissione della verifica ex art. 48-bis
del dpr n. 602/1973, deve inoltrare
all'amministrazione (entro un termine che
viene fissato, di regola, in dieci giorni)
un accertamento «ora per allora» per
scoprire se le conseguenze dell'omissione
abbiano o meno compromesso, per l'agente
della riscossione, la possibilità di
recuperare quanto dovuto dal beneficiario
per cartelle di pagamento scadute e inevase.
A tal fine, la stessa circolare mette a
disposizione un modello base con cui
l'amministrazione potrà «colloquiare»
con Equitalia. Solo nel caso in cui
l'inadempienza era già esistente e perduri
ancora, i soggetti tenuti all'obbligo di
denuncia dovranno trasmettere il carteggio
alla magistratura contabile. Allo stesso
modo, dovranno essere segnalate alla Corte
le amministrazioni che non procedano alla
predetta verifica con Equitalia, a causa
della sua condotta palesemente omissiva
(articolo ItaliaOggi
del 29.09.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
VARI: Telecamere.
Sosta, ok a multe seriali.
La polizia municipale
può procedere a rilievi fotografici con
qualsiasi strumento che consenta di
immortalare le auto in sosta vietata. E in
questo caso non è neppure necessario che
venga lasciato un avviso sul parabrezza del
trasgressore ma la multa arriverà
direttamente al domicilio dell'interessato.
Lo ha confermato il Ministero dei trasporti
con il parere 20.09.2011 n. 4719.
Lo scenario delle multe automatiche negli
ultimi anni si è allargato all'impiego di
telecamere che vengono fornite in dotazione
ai vigili urbani specificamente preposti al
controllo del parcheggio selvaggio. In
pratica per scoraggiare l'uso negligente
delle strade del centro abitato alcuni
comandi hanno munito gli agenti di
telecamere che aiutano l'operatore nel
rilevare le infrazioni. L'agente che vede la
colonna dei veicoli in divieto di sosta può
così evitare di fermarsi per iniziare la
tradizionale operazione di verbalizzazione.
Gli basterà riprendere le singole vetture in
divieto magari annotandosi anche le targhe
per redigere in ufficio i relativi verbali.
Per comprendere meglio la legittimità di
questa pratica seriale un utente ha
richiesto chiarimenti al Ministero dei
trasporti che ha confermato l'operato del
comando di polizia municipale. In caso di
accertamento di una violazione di divieto di
sosta innanzitutto la contestazione
immediata è ordinariamente impossibile a
causa della mancanza del conducente sul
luogo dell'infrazione. Il controllo della
sosta e della fermata dei veicoli, prosegue
il parere, non implica peraltro la necessità
di lasciare alcun avviso sul parabrezza del
trasgressore, trattandosi in questo caso di
una semplice informazione di cortesia.
Parimenti «non sussiste alcun obbligo di
documentare fotograficamente la violazione
commessa. Tuttavia, ai sensi dell'art. 13,
comma 1, della legge 689/1981, è facoltà
degli organi accertatori procedere a rilievi
segnaletici, descrittivi e fotografici e ad
ogni altra operazione tecnica.
Conseguentemente non è richiesta
l'omologazione del dispositivo fotografico».
In buona sostanza la polizia stradale può
avvalersi di qualsiasi strumentazione
tecnica ausiliaria come telecamere e
macchine fotografiche per potenziare la
propria attività di accertamento. In questo
caso non servono particolari strumenti
omologati perché l'attività dell'accertatore
è solo potenziata ma non superata dalla
tecnologia
(articolo ItaliaOggi
del 29.09.2011). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Il
“pergolato”, rilevante ai fini edilizi, può
essere inteso come un manufatto avente
natura ornamentale, realizzato in struttura
leggera di legno o altro materiale di minimo
peso, facilmente amovibile in quanto privo
di fondamenta, che funge da sostegno per
piante rampicanti, attraverso le quali
realizzare riparo e/o ombreggiatura di
superfici di modeste dimensioni.
Questo Consiglio di Stato, proprio sulla
base degli elementi ora riportati, ha avuto
modo di escludere che una struttura
costituita da pilastri e travi in legno di
importanti dimensioni, tali da rendere la
struttura solida e robusta e da farne
presumere una permanenza prolungata nel
tempo, possa essere ricondotta alla nozione
di “pergolato”.
Al contrario, è stata ritenuta rientrare
nella nozione di “pergolato” una struttura
precaria, facilmente rimovibile, costituita
da una intelaiatura in legno non infissa al
pavimento né alla parete dell’immobile (cui
è solo addossata), non chiusa in alcun lato,
compreso quello di copertura.
L’assenza di una definizione normativa di “pergolato”
non esclude la valutazione
dell’amministrazione in ordine alla
riconducibilità di un manufatto a tale
tipologia, né il successivo sindacato del
giudice sulla legittimità della stessa,
sotto il profilo del vizio di eccesso di
potere per illogicità, irragionevolezza,
insufficienza e/o contraddittorietà della
motivazione.
Orbene, il “pergolato”, rilevante ai
fini edilizi, può essere inteso come un
manufatto avente natura ornamentale,
realizzato in struttura leggera di legno o
altro materiale di minimo peso, facilmente
amovibile in quanto privo di fondamenta, che
funge da sostegno per piante rampicanti,
attraverso le quali realizzare riparo e/o
ombreggiatura di superfici di modeste
dimensioni.
Questo Consiglio di Stato (sez. IV,
02.10.2008 n. 4793), proprio sulla base
degli elementi ora riportati, ha avuto modo
di escludere che una struttura costituita da
pilastri e travi in legno di importanti
dimensioni, tali da rendere la struttura
solida e robusta e da farne presumere una
permanenza prolungata nel tempo, possa
essere ricondotta alla nozione di “pergolato”.
Al contrario, è stata ritenuta (Cons. Stato,
sez. V, 07.11.2005 n. 6193) rientrare nella
nozione di “pergolato” una struttura
precaria, facilmente rimovibile, costituita
da una intelaiatura in legno non infissa al
pavimento né alla parete dell’immobile (cui
è solo addossata), non chiusa in alcun lato,
compreso quello di copertura
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.09.2011 n. 5409 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO: Ponteggi insicuri, datore punito.
La Cassazione sulla continuità della 626.
La 626 sarà stata pure abrogata, ma
sopravvive nella successiva riforma che ha
riordinato la normativa in tema di sicurezza
sul lavoro: c'è continuità normativa fra i
due testi di legge. Risultato? Restano
invariate le sanzioni penali a carico del
datore che permette agli operai di lavorare
su ponteggi senza protezione e senza che
indossino elmetti e scarpe anti-infortuni.
Lo precisa la sentenza 27.09.2011 n. 34903 della
III sezione
penale della Corte di Cassazione.
Zero rischi. Il decreto legislativo 81/2008,
che ha abrogato la legge 626/94, prevede una
serie di obblighi precisi in tema di tutela
delle condizioni lavorative: sui ponteggi e
lavori in quota, in particolare, l'articolo
122 prescrive espressamente che durante
l'esecuzione debbano «essere adottate,
seguendo lo sviluppo dei lavori stessi,
adeguate impalcature o ponteggi o idonee
opere provvisionali o comunque precauzioni
atte ad eliminare i pericoli di caduta di
persone e di cose».
Si segnala, osserva il
collegio, che nel titolo I, capo III,
sezione I del decreto 81/2008 (articoli 15 e
seguenti) viene contemplata, come norma
generale, la tutela della salute e della
sicurezza dei lavoratori nei luoghi di
lavoro con particolare riguardo alla
necessità di valutare tutti i rischi per la
salute e sicurezza e programmare la
prevenzione e l'eliminazione dei rischi (ove
ciò non sia possibile, la loro riduzione al
minimo in relazione alle conoscenze
acquisite in base al progresso tecnico).
Il
titolo IV, poi, si occupa in particolare
della sicurezza nei cantieri e il capo II
(articoli 105 e seguenti), nella sezione IV,
prevede una articolata disciplina sui lavori
edilizi (in genere ed in dettaglio), nonché
sui ponteggi ed lavori in quota. Altro che
cancellazione dei reati, la 626 è stata
trasfusa nel nuovo testo e resta in qualche
modo viva e vegeta, almeno nello spirito.
Il piatto piange. Insomma: è inutile per il
piccolo imprenditore condannato accampare
«capziose» pretese di abolitio criminis.
Non evita la condanna, insomma, il datore
degli operai che sono stati sorpresi dagli
ispettori del lavoro mentre erano intenti ad
effettuare lavori di intonacatura su
ponteggi sforniti di apposite protezioni e
senza indossare elmetti e scarpe
antinfortunistiche. Non resta che pagare
1.000 euro alla cassa delle ammende
(articolo ItaliaOggi del 30.09.2011). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla gestione degli impianti
sportivi: distinzione tra l'affidamento
degli impianti aventi rilevanza economica da
quelli che, viceversa, ne sono privi
(fattispecie inerente la l.r. Lombardia n.
27/2006).
In attuazione dell'art. 90 della l. 289/2002
(l. finanziaria 2003) che disciplina la
gestione degli impianti sportivi l'art. 1
della l. R. Lombardia n. 27/2006, distingue
l'affidamento degli impianti aventi
rilevanza economica da quelli che,
viceversa, ne sono privi. Solo in relazione
ai primi, stante la necessità di garantire
"una gestione di tipo imprenditoriale", il
legislatore regionale ha previsto la forma
dell'affidamento mediante procedura ad
evidenza pubblica. Al contrario, con
riferimento agli impianti sportivi senza
rilevanza economica, ha ammesso la
possibilità di un loro affidamento in via
diretta. Dispone, infatti, la richiamata l.r. all'art. 5, c. 2, che "gli enti locali
possono procedere all'affidamento diretto
dell'incarico di gestione di impianti
sportivi senza rilevanza economica ad
associazioni, fondazioni, aziende speciali,
anche consortili, e società a capitale
interamente pubblico, da loro costituite",
aggiungendo al c. 3, che "per gli impianti
sportivi senza rilevanza economica, le cui
caratteristiche e dimensioni consentono lo
svolgimento di attività esclusivamente
amatoriali e ricreative e richiedono una
gestione facile e con costi esigui, è
ammesso l'affidamento diretto dell'incarico
di gestione agli utilizzatori degli impianti
stessi".
Pertanto, nel caso di specie, poiché
l'impianto risulta privo di una sostanziale
rilevanza economica, in quanto per le sue
caratteristiche intrinseche è produttivo di
introiti del tutto esigui ed insufficienti a
coprire i costi di gestione, senza l'apporto
significativo di specifici contributi
comunali, correttamente il Comune ha
affidato la gestione dello stesso in via
diretta alla Polisportiva comunale da lui
appositamente costituita, ai sensi dell'art.
5, c. 2, della citata l.r. Lombardia n.
27/2006 (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.09.2011 n. 5379 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Nell'ambito di una gara
telematica in cui risulta già prescritta
l'utilizzazione della firma digitale, è
ultroneo richiedere che anche le autentiche
notarili debbano avvenire mediante
sottoscrizione digitale.
Il potere-dovere della stazione appaltante
di chiedere un'integrazione documentale per
carenze meramente formali nella
documentazione.
Nell'ambito di una gara telematica in cui
risulta già prescritta l'utilizzazione della
firma digitale, è ultroneo richiedere che
anche le autentiche notarili debbano
avvenire mediante sottoscrizione digitale,
senza consentire ai concorrenti di esibire
una copia per immagine su supporto
informatico di un atto pubblico notarile
fidefacente, in contrasto con quanto
stabilito dall'articolo 1, c. 1, del d.lgs.
n. 82/2005. Pertanto, la stazione
appaltante, ove avesse avuto perplessità
alla luce della documentazione fornita dal
concorrente, avrebbe potuto chiedere, ex
art. 46 del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei
contratti pubblici), la regolarizzazione
dell'atto in questione, tenendo conto,
peraltro, di quanto stabilito dagli artt. 1,
co. 1, lett. i-ter, e 22, c. 2, del d.lgs.
n. 82/2005, il quale ultimo stabilisce che "le
copie per immagine su supporto informatico
di documenti originali formati in origine su
supporto analogico hanno la stessa efficacia
probatoria degli originali da cui sono
estratte, se la loro conformità è attestata
da un notaio".
Nell'ambito delle procedure ad evidenza
pubblica, ove la formalità richiesta non sia
funzionale a garantire un apprezzabile
interesse pubblico, gli oneri meramente
formali affievoliscono e rilevano le
dichiarazioni implicite desumibili
univocamente dalla documentazione prodotta a
corredo dell'offerta, con la possibilità per
l'ente (in presenza di dubbi o incertezze)
di richiedere ulteriori precisazioni, perché
il precetto del "buon andamento"
(art. 97 cost.) include anche il principio
di cooperazione fra amministrazione ed
amministrati. Infatti, il potere-dovere
della Stazione appaltante di chiedere
un'integrazione documentale (già previsto in
generale dall'art. 6 della l. n. 241 del
1990), trova ormai riscontro nell'art. 46
del codice degli appalti pubblici, il quale
codifica uno strumento inteso a far valere,
entro certi limiti, la sostanza sulla forma,
nell'esibizione della documentazione ai fini
della procedura selettiva, onde non
sacrificare l'esigenza della più ampia
partecipazione per carenze meramente formali
nella documentazione (TAR Lazio-Roma, Sez.
I-ter,
sentenza 23.09.2011 n. 7527 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Irregolarità contributive, per l'esclusione
dalla gara serve la gravità.
E' illegittimo l'operato della
stazione appaltante che, dopo aver acquisito
i dati del DURC, ha escluso una ditta da una
gara di appalto per difetto del requisito
della regolarità contributiva, nel caso in
cui l'esclusione non sia stata preceduta da
una adeguata valutazione in ordine alla
gravità dell'irregolarità contributiva in
capo alla impresa e al carattere definitivo
o meno della stessa.
La segnalata decisione
affronta la vexata quaestio circa la
valutazione, attraverso il DURC, da parte
della stazione appaltante del requisito
della regolarità contributiva di una ditta
ai fini dell’eventuale esclusione della
stessa da una gara di appalto.
Nello specifico, la ricorrente aveva
partecipato alla procedura di gara indetta
per la fornitura di alcuni servizi
strumentali al trasporto pubblico locale;
con successiva nota, il direttore generale
della stazione appaltante comunicava
all’interessata l'esclusione dalla gara in
quanto dall'acquisizione del DURC, in sede
di verifica della dichiarazione sostitutiva,
emergeva un'irregolarità accertata
dall'INPS, sanata successivamente alla data
di presentazione delle offerte, nonché il
mancato versamento di premi assicurativi
presso l'INAIL.
Indi, con successiva determinazione, il
direttore generale disponeva l'esclusione
della ricorrente dalla gara; avverso
quest’ultimo provvedimento è insorta la
ditta la quale, oltre al resto, ha eccepito
la violazione, sotto diversi profili,
dell'art. 38, comma 1, lettera i), D.Lgs. n.
163/2006, in quanto i rilevati inadempimenti
agli obblighi contributivi sarebbero stati
insussistenti per l'avvenuto pagamento
mediante compensazione e, comunque, perché
non si trattava di violazioni gravi e
definitivamente accertate.
Richiamava, sul punto, l'orientamento
giurisprudenziale che impone alla stazione
appaltante un’autonoma valutazione della
gravità della violazione, pur risultante dal
DURC.
Inoltre, contestava la congruità della
motivazione addotta dalla stazione
appaltante, secondo la quale poiché il
modulo allegato al bando richiedeva
«l'indicazione specifica delle violazioni in
materia previdenziale e assistenziale ... la
valutazione di gravità discende dall'aver
taciuto tale circostanza ...»; siffatta
richiesta, a dire della ricorrente, tuttavia
non era indicata né dal bando di gara, né
dai modelli di dichiarazione sostitutiva
predisposti.
Il TAR di Cagliari ha ritenuto fondate le
censure esposte.
In particolare, ha premesso che la propria
delibazione doveva necessariamente limitarsi
alle ragioni poste dalla stazione appaltante
alla base del provvedimento di esclusione,
come esplicitate nella comunicazione a firma
del direttore generale e alla relazione
allegata alla stessa; in altri termini, alle
irregolarità accertate presso l'INPS, nonché
al mancato versamento di premi assicurativi
presso l'INAIL.
Orbene, il giudicante ha precisato come,
dall'esame della documentazione versata, era
emerso che le contestate irregolarità
contributiva e assicurativa erano apparse
prive dei caratteri della gravità e della
definitività, come imposto dall'art. 38,
comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 163/2006 al
fine di integrare la causa di esclusione.
Quanto alla non gravità delle violazioni, ha
proseguito il Tribunale, si doveva tener
conto del pagamento in compensazione
effettuato dalla ricorrente, con riguardo
sia al debito nei confronti dell'INPS, sia
al debito nei confronti dell'INAIL. Inoltre,
in ordine al profilo della non definitività
degli accertamenti aventi per oggetto le
violazioni contestate, il G.A. non ha potuto
non tener conto del ricorso avverso la
cartella di pagamento concernente il credito
INPS e l'avviso bonario INAIL.
Siffatte circostanze, a suo avviso,
avrebbero dovuto presupporre l'adesione alla
tesi secondo cui l’indicazione di
inadempienze contenuta nel documento unico
di regolarità contributiva (DURC) non
integrava di per sé la causa di esclusione
di cui alla lettera i) dell'art. 38 cit.;
invero, la stazione appaltante avrebbe
dovuto verificare se le violazioni
certificate mediante il Documento unico
erano da ritenere gravi e frutto di
accertamenti definitivi (cfr. in questo
senso, tra le altre, TAR Calabria-Reggio
Calabria, Sez. I, 23.03.2010, n. 291).
Tale prospettazione, del resto, trova
un’implicita conferma nell'art. 38, comma 2,
cit., come modificato dall'art. 4, comma 2,
lettera b), D.L. 13.05.2011, n. 70,
convertito nella L. 12.07.2011, n. 106,
il quale, stabilendo che «Ai fini del comma
1, lettera i), si intendono gravi le
violazioni ostative al rilascio del
documento unico di regolarità contributiva
di cui all'art. 2, comma 2, D.L. 25.09.2002, n. 210, convertito, con
modificazioni, dalla L. 22.11.2002, n.
266», ha definitivamente imposto la
coincidenza tra le ipotesi che impediscono
il rilascio del DURC (fissate dal decreto
del Ministro del Lavoro, del 24.10.2007) e la causa di esclusione di cui
trattasi.
Con ciò, peraltro, escludendo che tale
regola di diritto fosse ricavabile sulla
base della precedente disciplina,
applicabile alla fattispecie in esame
ratione temporis.
Infine, non è stata neppure condivisa dal
Collegio sardo la motivazione prospettata
dalla stazione appaltante, circa l'esistenza
di una previsione di gara che imponesse la
dichiarazione analitica della situazione
contributiva dei concorrenti, atteso che dal
bando e dal disciplinare di gara è risultato
che la dichiarazione sostitutiva doveva
riguardare genericamente il possesso dei
requisiti generali di cui all'art. 38 del
D.Lgs. n. 163/2006: in considerazione di
tanto, l’adito TAR ha accolto il ricorso
(commento tratto da www.ipsoa.it -
TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 23.09.2011 n. 945
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: Le
p.a. hanno l'obbligo di pubblicare un
indirizzo Pec sul proprio sito.
Ogni pubblica
amministrazione ha l'obbligo di mettere a
disposizione dei cittadini, sul proprio sito
internet istituzionale, un indirizzo di
posta elettronica certificata, così come
prevede l'articolo 11 del dlgs n. 150/2009,
quale strumento per rendere effettivi i
principi di trasparenza nella stessa p.a.
La mancata attuazione del diritto di
comunicare telematicamente tramite Pec,
determina pertanto un disservizio, in quanto
costringe gli interessarsi a recarsi
personalmente presso gli uffici ovvero ad
utilizzare lo strumento cartaceo per
ricevere ed inoltrare comunicazioni.
È quanto ha messo nero su bianco il
Tribunale amministrativo regionale per la
Basilicata, nel testo della
sentenza 23.09.2011 n.
478, con la quale ha intimato alla
regione Basilicata di voler provvedere entro
sessanta giorni e utilizzando le risorse
umane e strumentali in suo possesso, a porre
in essere gli adempimenti necessari affinché
sul proprio sito istituzionale sia attivata
una valida casella di posta elettronica
certificata. Con l'aggiunta di provvedere al
pagamento di 5.000 euro a favore
dell'Associazione «Agorà digitale»,
promotrice del ricorso.
Il casus belli nasce da un ricorso
promosso dalla predetta associazione
(assieme ai radicali), nel quale ci si
doleva che il sito internet della regione
Basilicata non fosse attrezzato con una
casella di posta elettronica certificata,
così come prevedono sia il codice
dell'amministrazione digitale (il dlgs n.
82/2005) che il dlgs n. 150 del 2009. Il
collegio ha rilevato che al citato dlgs n.
82/2005 pone in diretta correlazione
l'obbligo della p.a. di comunicare in via
digitale con il riconoscimento agli utenti
del diritto di «richiedere ed ottenere
l'uso delle tecnologie telematiche nelle
comunicazioni con la p.a.».
Tra le modalità di comunicazione si prevede
espressamente l'utilizzo, da parte della
p.a., della posta elettronica certificata,
strumento utile alla trasmissione telematica
di documenti che necessitano di una ricevuta
di invio e di consegna. Il collegio ha
sgomberato, altresì, ogni possibile dubbio
circa l'applicabilità di tale obbligo anche
alle regioni, rilevando come gli artt. 11 e
16 del dlgs n. 150/2009 trovano immediata
applicazione anche negli ordinamenti
regionali, imponendo la pubblicazione sui
siti istituzionali delle amministrazioni,
informazioni concernenti ogni aspetto
dell'organizzazione e, quindi, anche degli
indirizzi di Pec fruibili dagli utenti.
Mancando tale strumento, ha sottolineato il
collegio, si nega il diritto agli utenti di
comunicare elettronicamente con la regione,
creando così un disservizio, in quanto si
costringe gli interessati a recarsi
personalmente presso gli uffici, ovvero ad
utilizzare lo strumento cartaceo per
ricevere ed inoltrare comunicazioni.
Ne consegue che la regione è tenuta a
consentire agli utenti di poter interloquire
tramite Pec e a rendere visibile nella
home page del sito, l'elenco degli
indirizzi Pec, così come altresì previsto
dalle linee guida per i siti web della p.a.,
messe a punto dal ministro Renato Brunetta
(articolo ItaliaOggi
del 29.09.2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
Chiusura piano pilotis.
L'innalzamento dell'altezza dal suolo ed il
tamponamento con conseguente chiusura del “piano
pilotis” di un preesistente edificio
richiedono, per la loro esecuzione, il
preventivo rilascio del permesso di
costruire, configurando un intervento di
ristrutturazione edilizia che determina la
realizzazione di nuovi volumi, nuove unità
immobiliari e la modifica della sagoma e
delle superfici (Corte di Cassazione, Sez.
feriale,
sentenza 21.09.2011 n. 34397 -
link a www.lexambiente.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'incarico
dirigenziale a un esterno è l'extrema ratio.
L'amministrazione deve prima sondare la
disponibilità di professionalità al suo
interno.
Per poter legittimamente affidare
all'esterno un incarico dirigenziale,
l'Amministrazione deve, con procedure
imparziali e trasparenti, prima scrutinare
le professionalità interne disponibili e,
solo all'esito di tale ricognizione,
procedere all'emanazione di un bando di
ricerca di professionalità esterne cui
conferire l'incarico dirigenziale de quo.
La
sentenza 21.09.2011 n.
7481 della Sez. I-ter del TAR Lazio-Roma ha annullato nove
procedure di nomina di altrettanti dirigenti
apicali esterni effettuate dalla Regione
Lazio, pretermettendo i dirigenti di ruolo.
Avverso tali provvedimenti erano insorte la
Direr e la Cida, i sindacati maggiormente
rappresentativi della dirigenza pubblica
regionale.
La peculiarità della sentenza sta
nella circostanza che la stessa afferma la
diretta applicabilità dei principi generali
dell'ordinamento (ed, in particolare, di
quelli di cui all'art. 97 della
Costituzione: trasparenza, imparzialità,
buon andamento) al procedimento con il quale
l'Amministrazione decide di rivolgersi
all'esterno per conferire un incarico
dirigenziale, piuttosto che utilizzare
risorse interne.
Ulteriore motivo di
interesse della sentenza sta nella
circostanza che tale procedimento è ritenuto
espressione del potere di organizzazione
degli uffici che postula una motivata scelta
amministrativa, di tipo autoritativo,
soggetta al sindacato del G.A. che può
vagliarne la legittimità sotto il profilo
della violazione di legge, dell'incompetenza
e dell'eccesso di potere.
È chiaro, poi, che
avere, correttamente, riportato la fase
iniziale del procedimento di conferimento di
incarichi dirigenziali, a soggetti esterni
alla p.a., nell'alveo dei procedimenti
amministrativi, ha reso possibile (e
necessario) valutare la motivazione dei
relativi provvedimenti anche in relazione
all'obbligo di rispettare i principi
generali dell'esercizio del potere
amministrativo, dovendosi ritenere
illegittima nel nostro ordinamento, per
l'assenza del carattere politico degli
incarichi conferendi, ogni forma di
attribuzione di incarico su base solamente
fiduciaria.
La sentenza n. 7481 chiarisce
una volta per tutte quali vincoli guidano in
modo inviolabile le amministrazioni, quando
si determinino a conferire incarichi
dirigenziali a soggetti esterni:
a) una concreta motivazione, che espliciti
l'assenza effettiva di professionalità
interne, alla luce di una seria ed adeguata
ricognizione del ruolo;
b) una procedura trasparente, con adeguata
pubblicità, per consentire in primo luogo ai
dirigenti di ruolo di candidarsi alla
copertura degli incarichi da affidare, al
fine di valorizzare le professionalità
esistenti, garantendo l'autonomia della
dirigenza;
c) una altrettanto seria valutazione del
possesso di una professionalità
assolutamente specifica in capo al soggetto
esterno chiamato a svolgere l'incarico
dirigenziale, come prevede l'articolo 19,
comma 6, del dlgs n. 165/2001;
d) l'esigenza di garantire il contenimento
della spesa, attraverso il prioritario
impiego delle risorse interne.
È in quest'ottica che la sentenza n.
7481/2011 si rivela innovativa in quanto
traccia il solco per riportare la prassi dei
conferimenti di incarico dirigenziale a
personale esterno in una logica
meritocratica e rigorosamente eccezionale,
con l'applicazione di strumenti (principi
generali dell'ordinamento e obbligo di
adeguata motivazione) che, in vero,
sembravano quasi «superati», non solo nel
concreto operato delle Pubbliche
amministrazioni (che spesso li considerano
addirittura tamquam non esset), ma,
talvolta, anche nelle stesse argomentazioni
degli organi di giustizia aditi.
La sentenza ha suscitato un scalpore anche
perché il presidente della Regione Lazio
Renata Polverini l'ha definita, in
un'affollata conferenza stampa che ha avuto
un grande risalto sui media, «una
decisione politica». Eppure, come già
rilevato negli interventi di alcuni esperti
della materia, la decisione del Tar del
Lazio ha un percorso argomentativo
ineccepibile, limitandosi ad affermare
principi di rango costituzionale e cogliendo
l'illegittimità degli atti impugnati proprio
nella violazione di tali principi.
La reazione della governatrice del Lazio
sembra piuttosto dimostrare che la politica
consideri la materia del conferimento degli
incarichi dirigenziali nella p.a. attività
di carattere meramente fiduciario e, come
tale, scevra da qualsiasi sindacato
giurisdizionale. Il Tar del Lazio, invece,
ha correttamente rilevato che la scelta di
rivolgersi all'esterno è attività
amministrativa in senso stretto e che,
conseguentemente, il relativo procedimento
deve soggiacere ai principi di cui all'art.
97 della Costituzione e alle norme della
legge n. 241/1990.
D'altronde l'impossibilità di ridurre il
conferimento di incarichi dirigenziali ad
una scelta esclusivamente fiduciaria deriva
dalla insuperabile considerazione che il
dirigente pubblico, a differenza di quello
privato, gestisce gli interessi e i soldi
della collettività e, pertanto, deve essere
selezionato su base rigorosamente
meritocratica
(articolo ItaliaOggi del 30.09.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI FORNITURE:
Sulla legittimità in una gara per
l'appalto di forniture della richiesta di
accesso da parte del concorrente agli atti
relativi all'acquisto dei medesimi prodotti
effettuato dalla P.A. in economia.
In una gara per l'appalto di forniture, è
legittima la richiesta di accesso da parte
del concorrente agli atti relativi
all'acquisto dei medesimi prodotti,
effettuato dalla P.A. in economia.
L'interesse alla documentazione deriva
dall'essere soggetto interessato a fornire
il materiale all'azienda e, quindi, a
verificare le eventuali irregolarità della
procedura per proporre un eventuale ricorso
giurisdizionale.
Nessun rilievo ha la circostanza che si
verta in materia di atti di diritto privato,
e ciò in virtù di un consolidato principio,
secondo cui l'accesso riguarda ogni
tipologia di atto della p.a., compresi
quelli regolati dalle norme privatistiche.
Nel caso di specie, il concorrente, in
qualità di azienda operante nel settore cui
si riferisce la fornitura necessaria per la
stazione appaltante, vanta un interesse a
partecipare alle procedure in economia che,
secondo il disposto dell'art. 125, c. 11,
del d.lgs. n. 163/2006, deve essere svolta
nel rispetto dei principi di trasparenza,
rotazione, parità di trattamento, previa
consultazione di almeno cinque operatori
economici, qualora sussistano in tale numero
soggetti idonei.
Rientrando, pertanto, la predetta società
tra i soggetti idonei, la stessa vanta un
interesse a verificare che i criteri di cui
alla citata norma siano stati osservati;
quanto detto basta per fondare un diritto
all'accesso agli atti relativi alle
forniture in economia. Sarà poi sufficiente
presentare una nuova richiesta, per maturare
il diritto ad ottenere la anche la
documentazione relativa alle successive
forniture in economia (TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV,
sentenza 21.09.2011 n. 2264 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Anche per gli esclusi accesso
agli atti relativi al servizio appaltato.
Sussiste il diritto di una ditta che ha
partecipato a una gara finalizzata
all'aggiudicazione di un appalto di
fornitura di prodotti, dalla quale e' stata
esclusa e che ha impugnato gli atti della
medesima gara ottenendone la sospensione in
sede cautelare, di accedere agli atti
relativi agli acquisti di identici prodotti,
effettuati dalla P.A. in economia ex art.
125, comma 11, D.Lgs. n. 163/2006,
successivamente alla suddetta sospensione
cautelare.
La ricorrente, partecipante a una gara per
la fornitura e relativo servizio di gestione
di alcuni dispositivi farmaceutici, con
precedente gravame aveva impugnato il
provvedimento di aggiudicazione in favore di
altra ditta, contestualmente chiedendone
l’annullamento, previa sospensione, dello
stesso.
Il menzionato provvedimento di
aggiudicazione, in virtù della sussistenza
di tutti i presupposti ex lege
imposti, veniva sospeso dall’adito TAR.
A seguito di tale pronunciamento, l’azienda
ospedaliera aveva deciso che, nelle more
della decisione di merito, avrebbe
provveduto a fornirsi dei dispositivi
monouso con procedure in economia.
Di conseguenza, la ricorrente chiedeva di
accedere a tutta la documentazione relativa
agli acquisti fatti in economia per
verificare l’eventuale irregolarità della
procedura e promuovere un nuovo ricorso;
accesso, tuttavia, che veniva negato sulla
scorta della considerazione per cui per la
procedura in economia si sarebbe applicato
il principio di rotazione e la
documentazione non era di interesse della
ricorrente in quanto non inerente al ricorso
presentato avverso l’aggiudicazione.
Avverso quest’ultimo provvedimento è insorta
la ditta, la quale ha eccepito la violazione
degli artt. 22 e ss., L. n. 241/1990, del
principio di trasparenza dell’azione della
Pubblica Amministrazione, nonché l’eccesso
di potere per difetto di istruttoria e
motivazione e illogicità manifesta; in
particolare ha evidenziato come la richiesta
di accedere alla documentazione relativa
agli acquisti in economia era legittima
anche solo sulla base della qualità di
azienda operante nel settore, avendo una
legittima aspirazione a essere interpellata.
Peraltro, l’azienda sanitaria aveva
equivocato il tenore della richiesta poiché
era stata intesa come esplorativa dei
rapporti commerciali con la ditta
aggiudicataria della gara sospesa, mentre
invero riguardava gli acquisti effettuati
con qualsiasi soggetto.
Difatti, la ricorrente ha sottolineato come
l’interesse alla documentazione era derivato
dall’essere soggetto interessato a fornire
il materiale all’azienda e, così, diretto a
verificare le eventuali irregolarità della
procedura per proporre un ricorso
giurisdizionale; di converso, a suo avviso,
nessun rilievo aveva la circostanza che si
trattasse di atti di diritto privato, stante
il consolidato principio per cui l’accesso
può riguardare ogni tipologia di atto della
P.A., compresi gli atti di diritto privato.
Costituitasi in giudizio, l’Azienda
Ospedaliera eccepiva, in via preliminare, la
litispendenza esistente rispetto ad analoga
istanza presentata dalla ricorrente con atto
motivi aggiunti nel giudizio avverso
l’aggiudicazione della gara per la fornitura
dei dispositivi monouso.
Il Collegio di Milano in primis ha rigettato
la predetta eccezione in rito in quanto
ritenuta non fondata.
Sul punto ha evidenziato come dall’esame del
ricorso per motivi aggiunti presentato
nell’ambito del gravame principale avverso
il provvedimento di aggiudicazione della
gara, non era stata rilevata l’esistenza di
una richiesta di annullamento dell’impugnato
provvedimento di diniego dell’accesso.
Nel merito, ha poi accolto il ricorso.
Ha sottolineato, difatti, come la società
ricorrente, quale azienda operante nel
settore cui si riferiva la fornitura di
quella resistente, vantava un interesse a
partecipare alle procedure in economia che,
ai sensi dell’art. 125, comma 11, D.Lgs. n.
163/2006, doveva essere svolta nel rispetto
dei principi di trasparenza, rotazione,
parità di trattamento, previa consultazione
di almeno cinque operatori economici.
Sicché, rientrando la società tra i soggetti
idonei, è apparso evidente al TAR come la
ditta aveva un interesse a verificare che i
criteri di cui al citato comma 11 dell’art.
125 cit. erano stati osservati: tanto, a
opinione del giudicante, era sufficiente per
fondare un diritto all’accesso agli atti
relativi alle forniture in economia.
Di converso, ha ritenuto non pertinenti gli
argomenti della stazione appaltante riferiti
a precedenti giurisprudenziali tesi a
dimostrare la mancanza di un interesse della
ricorrente a ottenere l’accesso; ha
precisato sul punto come il fatto che l’ente
pubblico non dovesse motivare in modo
puntuale la ragione per cui non aveva
ritenuto di estendere al precedente
affidatario l’invito a partecipare a
procedure negoziate, non giustificava
l’impugnato diniego di accesso agli atti.
Alla stregua di quanto illustrato, il G.A.
lombardo ha accolto il gravame,
contestualmente riconoscendo il diritto
della ditta ad accedere ai documenti
antecedenti la fornitura in economia,
facendo comunque salvo il diritto della
medesima presentare una nuova istanza di
accesso per quelli adottati successivamente
alla predetta fornitura (commento tratto da
www.ipsoa.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 21.09.2011 n. 2264 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI:
Sulla legittimità della delibera
di una giunta comunale di modificazione
della vocazione di un impianto sportivo
comunale.
E' legittima la delibera di una giunta
comunale con cui modificando il regolamento
per la gestione e l'uso degli impianti
sportivi comunali ha ampliato la vocazione
della struttura sportiva, essendo una scelta
che rientra nell'ambito degli indirizzi
politici appartenenti all'Amministrazione
comunale, la quale scelta non appare, nel
caso di specie, connotata da profili di
irrazionalità o sproporzionalità, ed anzi
risulta confortata da un ampio
coinvolgimento positivo delle associazioni
interessate e della minoranza consiliare
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 21.09.2011 n. 1405 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La notificazione al comune,
anziché all'istituzione (organismo
strumentale dell'ente locale) è idonea a
costituire regolarmente il rapporto
processuale.
L'Istituzione, ai sensi dell'art. 114, c. 2,
d.lgs. n. 267 del 2000, è un "organismo
strumentale dell'ente locale", dotato
certo di autonomia gestionale, ma pur
tuttavia "parte dell'apparato
amministrativo che fa capo al comune",
pertanto non occorre una specifica
evocazione in giudizio, essendo la
notificazione all'ente locale (che,
peraltro, nel caso di specie, ha accettato
il contraddittorio) idonea a costituire
regolarmente il rapporto processuale (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 21.09.2011 n. 1405 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Impianti pubblicitari senza
silenzio-assenso.
L’istituto del silenzio
assenso non è applicabile all'istallazione
di impianti pubblicitari, ove il potere
conferito agli enti proprietari della strada
di disciplinare l’installazione degli
impianti risponde alla necessità di
garantire la sicurezza della circolazione
stradale e quindi l’incolumità di persone e
cose.
L’istituto del silenzio assenso, in
virtù del quale l’autorizzazione
amministrativa richiesta e non emessa nei
termini di legge si ritiene accordata, pur
essendo previsto dall’art. 20 della legge n.
241 del 1990 in termini generali, non è di
portata illimitata, ma contiene deroghe per
gli atti e i procedimenti indicati nel
quarto comma dello stesso articolo, tra i
quali sono specificamente elencati quelli
che attengono alla pubblica sicurezza e
all’incolumità pubblica.
Ne consegue che, per il combinato disposto
della predetta norma e dell’art. 23 codice
della strada, l’istituto in parola non è
applicabile a questa fattispecie, ove il
potere conferito agli enti proprietari della
strada di disciplinare l’installazione di
impianti pubblicitari risponde alla
necessità di garantire la sicurezza della
circolazione stradale e quindi l’incolumità
di persone e cose.
I cartelli pubblicitari lungo le strade non
possono essere impiantati in difetto di
autorizzazione, per ragioni attinenti alla
sicurezza della circolazione (Cass. n. 4045
del 2011; Cass. n. 4869 del 2007) (commento
tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione
civile, sentenza 19.09.2011 n. 19103). |
APPALTI:
Per legittimare l'adozione
dell'informativa prefettizia è sufficiente
che emergano elementi indiziari che
considerati nell'insieme rendano attendibile
l'ipotesi del tentativo di ingerenza da
parte delle organizzazioni criminali.
L'ampiezza dei poteri di accertamento
giustificata dalla finalità preventiva
sottesa al provvedimento interdittivo,
comporta che il Prefetto possa ravvisare
l'emergenza di tentativi di infiltrazione
mafiosa in fatti in sé e per sé privi
dell'assoluta certezza.
- L'informativa sulla sussistenza dei
tentativi di infiltrazione mafiosa che, ai
sensi dell'art. 4 d.lgs. 08.08.1994 n. 490 e
dell'art. 10 d.P.R. 03.06.1998 n. 252,
preclude la stipulazione di contratti con le
pubbliche amministrazioni, non presuppone
l'accertamento di responsabilità penali in
capo ai titolari dell'impresa sospettata,
essendo sufficiente che dalle informazioni,
acquisiste tramite gli organi di polizia, si
evinca un quadro indiziario sintomatico del
pericolo di collegamento tra l'impresa e la
criminalità organizzata. A legittimare
l'adozione dell'informativa prefettizia è
pertanto sufficiente che, ad esito della
istruttoria, emergano elementi indiziari
che, complessivamente considerati, rendano
attendibile l'ipotesi del tentativo di
ingerenza da parte delle organizzazioni
criminali.
Il parametro valutativo di tali elementi
indiziari non è dunque quello della
certezza, ma quello della qualificata
probabilità di infiltrazione mafiosa e nel
rendere le informazioni richieste dal comune
ai sensi dell'art. 10, c. 7, lett. c),
d.P.R. 03.06.1998 n. 252, il Prefetto non
deve basarsi su specifici elementi, ma deve
effettuare la propria valutazione sulla
scorta di uno specifico quadro indiziario,
ove assumono rilievo preponderante i fattori
induttivi della non manifesta infondatezza
che i comportamenti e le scelte
dell'imprenditore possano rappresentare un
veicolo di infiltrazione delle
organizzazioni criminali negli appalti delle
pubbliche amministrazioni.
- L'ampiezza dei poteri di accertamento
giustificata dalla finalità preventiva
sottesa al provvedimento interdittivo,
comporta che il Prefetto possa ravvisare
l'emergenza di tentativi di infiltrazione
mafiosa in fatti in sé e per sé privi
dell'assoluta certezza, che tuttavia, nel
loro coacervo, siano tali da fondare un
giudizio di possibilità che l'attività
d'impresa possa, anche in maniera indiretta,
agevolare le attività criminali o esserne in
qualche modo condizionata per la presenza,
nei centri decisionali, o comunque per la
colleganza, di soggetti legati ad
organizzazioni malavitose. In sostanza non
si postula quale condizione per
l'applicabilità delle disposizioni in
parola, che ci si trovi al cospetto di una
impresa criminale posseduta o gestita o
controllata da soggetti dediti ad attività
criminali, ma che vi sia la possibilità che
essa possa, anche in via indiretta, favorire
la criminalità.
Pertanto, la circostanza che, nel caso di
specie, vi sia un collegamento economico
legato a partecipazione societarie tra
soggetti incensurati e soggetti facenti
parte o comunque nell'orbita di sodalizi
criminali, con le connesse frequentazioni e
relazioni interpersonali, è indicatore
tipico di rischio di infiltrazioni mafiose
nell'impresa, rilevanti ai fini della
adozione della interdittiva antimafia,
potendosi desumere, secondo dati di comune
esperienza, non una attuale ingerenza delle
organizzazioni mafiose negli affari della
impresa, ma una effettiva possibilità o
meglio un rischio che tale ingerenza
sussista (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 19.09.2011 n. 5262 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla validità di eventuali
comunicazioni a mezzo fax, da parte della
stazione appaltante, al numero indicato dai
concorrenti in sede di gara.
La comunicazione a mezzo fax ad un numero
indicato espressamente da un concorrente in
sede di gara al fine di ricevere la
documentazione riguardante la procedura
d'appalto, è strumento pienamente idoneo a
garantire l'effettività della comunicazione
stessa.
Inoltre, non è necessaria di un'esplicita
previsione del bando di gara in tal senso,
essendo ormai principio pacifico che
trattasi di uno strumento di comunicazione
ammissibile in via ordinaria (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 16.09.2011 n. 5213 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sono
legittimati a richiedere il permesso di
costruire non solo il proprietario, ma anche
i soggetti che si trovano, rispetto al bene
immobile da edificare, in una relazione
qualificata, come i titolari di un diritto
reale, ovvero i titolari di un diritto
personale, quali, ad esempio, il conduttore.
E' bensì vero che sono legittimati a
richiedere il permesso di costruire non solo
il proprietario, ma anche i soggetti che si
trovano, rispetto al bene immobile da
edificare, in una relazione qualificata,
come i titolari di un diritto reale, ovvero
i titolari di un diritto personale, quali,
ad esempio, il conduttore (cfr C.d.S., VI,
15.07.2010, n. 4557)
(TAR Veneto, Sez. I, sentenza II,
sentenza 15.09.2011 n. 1434 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
3 della legge n. 47 del 1985 delinea, del
resto, un sistema autosufficiente di
sanzioni amministrative pecuniarie (abrogato
e riassorbito, a decorrere dal 30.06.2002,
dal T.U. di cui al DPR 380/2001) per i casi
di ritardo del versamento del contributo di
concessione edilizia, che si distinguono a
seconda dell’entità del ritardo.
Non a caso la Corte dei Conti ha chiarito
che in ipotesi di ritardata riscossione dei
contributi in questione non è configurabile
un danno per mancata esazione di interessi e
rivalutazione monetaria sui contributi
stessi, proprio perché la conseguenza del
ritardo è sanzionata (omnicomprensivamente)
dalle specifiche sanzioni amministrative
pecuniarie di cui al citato art. 3 l.
47/1985.
In questo modo, vengono a trovare
applicazione, peraltro, principi non
dissimili a quelli vigenti in materia di
sanzioni amministrative per violazioni
tributarie (si veda, in particolare l’art.
2, comma 3, del d.lgs. 472/1997, secondo cui
la sanzione irrogata a titolo di sanzione
amministrativa non produce comunque
interessi).
Non può dimenticarsi, anzitutto, che il
legislatore ha in effetti puntualmente
disciplinato le conseguenze per il mancato o
tardivo pagamento degli oneri concessori, di
cui agli artt. 5 e 6 della legge n. 10 del
1977, prevedendo, a seconda del ritardo
accumulato:
a) la corresponsione degli interessi legali
di mora se il versamento avviene nei
successivi trenta giorni;
b) la corresponsione di un penale pari al
doppio degli interessi legali qualora il
versamento avvenga negli ulteriori trenta
giorni;
c) l’aumento, infine, di un terzo del
contributo dovuto, quando il ritardo si
protragga oltre il termine di cui alla
precedente lettera b).
Orbene, va dato anzitutto rilievo al fatto
che la legge non prevede esplicitamente, nel
caso della richiamata lettera c),
l’applicazione di alcuna ulteriore penalità
o l’addebito di interessi, ancorché
corrispettivi e nella sola misura legale, in
favore dell’Amministrazione.
Risulta, peraltro, che quest’ultima alla
scadenza dei termini di pagamento è rimasta
inerte, senza attivarsi per la riscossione
né avvalersi delle polizze fideiussorie
depositate a garanzia dell’adempimento.
La società ricorrente richiama, poi, un
orientamento giurisprudenziale di primo
grado, ad avviso del quale la maggiorazione
del contributo concessorio, prevista
dall’art. 3 della legge 28.02.1985 n. 47,
non ha carattere sanzionatorio ma è una
penale convenzionale ex art. 1382 c.c., con
la conseguenza che essa rappresenta una
liquidazione anticipata e forfettaria del
danno derivante dal ritardo nel pagamento
degli oneri concessori ed assorbe perciò sia
gli interessi sia l’eventuale danno
ulteriore (ma ciò solo fino al giorno della
maturazione della maggiorazione, atteso che
l’eventuale prolungamento del ritardo
comporta che, a partire da quel giorno,
maturano gli interessi sull’intero credito:
cfr. TAR Umbria 24.10.2002, n. 752).
In realtà, non pare necessario scomodare
l’istituto della clausola penale, di cui al
citato art. 1382 c.c., con la quale si
conviene che, in caso di inadempimento o di
ritardo nell’adempimento, uno dei contraenti
è tenuto ad una determinata prestazione.
Detta clausola, come è noto, ha l’effetto di
limitare il risarcimento del danno derivante
dall’inadempimento (art. 1218 c.c.) alla
prestazione promessa, se non è stata
convenuta la risarcibilità del danno
ulteriore, e svolge dunque la funzione di
liquidazione preventiva del danno,
essenzialmente facendo risparmiare al
contraente-creditore, che chieda il
risarcimento alla controparte, debitore
inadempiente, la prova dell’ammontare del
danno stesso.
Non solo, la clausola esonera addirittura
dalla prova sull’esistenza del danno, poiché
il comma 2 dello stesso art. 1382 afferma
che essa opera indipendentemente da detta
prova. La clausola dunque opera a favore del
contraente creditore, che può pretendere la
determinata prestazione anche se
dall’inadempimento sia derivato un danno di
valore inferiore o addirittura se non sia
derivato alcun danno; ma, se non sia stata
convenuta la risarcibilità del danno
ulteriore, può risolversi in favore della
parte inadempiente giacché il danno
effettivo può essere superiore alla
prestazione convenuta (analoghe funzioni
caratterizzano la caparra confirmatoria,
prevista nell’art. 1385 c.c., la quale però
esercita maggiormente il ruolo di stimolo
all’adempimento, atteso che il contraente
non inadempiente, anziché ritenere la
caparra ricevuta o pretendere il doppio
della caparra data, può pretendere
l’esecuzione o la risoluzione del contratto,
ed in tal caso il risarcimento del danno è
regolato dalle norme generali, ossia dagli
artt. 1223 ss. c.c.).
In verità, nella fattispecie, non sembra
dover trovare applicazione l’istituto della
penale civilistica su base convenzionale,
assistendosi, invece, all’applicazione di
penali di tipo pubblicistico, i cui
contenuti prestazionali, nel rispetto dei
principi di matrice costituzionale, sono
fissati dalla legge stessa e pertanto, a
tutela del soggetto inciso, sono assorbenti
e non ammettono deroghe in senso aggiuntivo,
anche se relativamente alla mera
corresponsione di interessi corrispettivi
connessi alla liquidità ed esigibilità del
credito.
L’art. 3 della legge n. 47 del 1985 delinea,
del resto, un sistema autosufficiente di
sanzioni amministrative pecuniarie (abrogato
e riassorbito, a decorrere dal 30.06.2002,
dal T.U. di cui al DPR 380/2001) per i casi
di ritardo del versamento del contributo di
concessione edilizia, che si distinguono a
seconda dell’entità del ritardo (cfr. Cass.
civ., I, 06.11.2006, n. 23633).
Non a caso la Corte dei Conti ha chiarito
che in ipotesi di ritardata riscossione dei
contributi in questione non è configurabile
un danno per mancata esazione di interessi e
rivalutazione monetaria sui contributi
stessi, proprio perché la conseguenza del
ritardo è sanzionata (omnicomprensivamente)
dalle specifiche sanzioni amministrative
pecuniarie di cui al citato art. 3 l.
47/1985 (Corte conti, Sez. giur. Calabria,
14.05.1993, n. 20).
In questo modo, vengono a trovare
applicazione, peraltro, principi non
dissimili a quelli vigenti in materia di
sanzioni amministrative per violazioni
tributarie (si veda, in particolare l’art.
2, comma 3, del d.lgs. 472/1997, secondo cui
la sanzione irrogata a titolo di sanzione
amministrativa non produce comunque
interessi)
(C.G.A.R.S.,
sentenza 15.09.2011 n. 557 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In materia di gare d'appalto, in
presenza di criteri o sub-criteri di
valutazione generici ed imprecisi sussiste
l'obbligo da parte della commissione
giudicatrice di motivare i singoli punteggi
assegnati ai concorrenti.
In materia di gare d'appalto, la necessità
di motivazione da parte della commissione si
affievolisce solo in presenza di criteri o
sub-criteri di valutazione sufficientemente
analitici e precisi. Qualora, questi ultimi
risultino essere generici, la commissione
dovrà motivare esaurientemente i singoli
punteggi. Maggiore è la discrezionalità
della commissione nel giudizio tecnico, più
pressante è l'obbligo di esternare con
precisione l'iter logico percorso.
La motivazione rappresenta lo strumento
tecnico che consente il controllo sul
rispetto dei principi costituzionali della
parità di trattamento e par condicio dei
concorrenti, nonché giurisdizionali, quali
la ragionevolezza e la logicità delle
scelte. Una motivazione non sufficiente o
solo fittizia è da equiparare ad una
non-motivazione.
I criteri motivazionali devono essere
conosciuti dagli offerenti anteriormente
alla presentazione dell'offerta, non essendo
più possibile, in seguito alla recente
abrogazione del c. 4, u.p. dell'art. 83
codice appalti, che la commissione
giudicatrice, prima dell'apertura delle
buste contenenti le offerte, possa fissare i
parametri cui si atterrà per attribuire a
ciascun criterio e sub criterio il punteggio
prestabilito dal bando (T.R.G.A. Trentino
Alto Adige-Bolzano,
sentenza 15.09.2011 n. 317 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittimo il diniego del titolo edilizio
adducendo la motivazione che "quanto si
vuole realizzare deturpa il prospetto del
fabbricato". Non risulta sufficiente neppure
la ragione della non compatibilità estetica
dell’intervento atteso che tale valutazione,
pur risultando ampiamente discrezionale, non
risulta supportata da riferimenti normativi
o regolamentari.
Il diniego del titolo edilizio, comportando
una contrazione dello ius aedificandi,
necessita di una circostanziata motivazione,
esplicativa delle reali ragioni impeditive,
da individuarsi nel contrasto del progetto
presentato con specifiche norme
urbanistiche, esplicitamente indicate, e
deve quindi indicare compiutamente e in modo
intelligibile le ragioni per le quali
sussiste la ritenuta difformità urbanistica.
E’ impugnata la nota del 20.10.2006 con la
quale il Dirigente del Settore urbanistica
ed Assetto del Territorio ha comunicato al
ricorrente il rigetto dell’istanza di
sanatoria delle opere consistenti nella
messa in opera sul balcone aggettante
interno, di alcuni grigliati in legno
verticale e nella copertura della struttura
a frangisole con un pannello di legno
orizzontale.
...
In primo luogo deve rilevarsi che il citato
provvedimento risulta così motivato “si
rileva che dalla documentazione fotografica
è evincibile la precarietà almeno del
grigliato verticale, costituito da pannelli
in listelli di legno con motivo romboidale e
con ampie aperture di affaccio, mentre
appare più consistente la chiusura superiore
dei travetti in c.a. preesistenti, incassati
nella tompagnatura stessa e peraltro
compromettendo la già precaria
aeroilluminazione dei vani utili
prospicienti il terrazzo a livello ed in
considerazione che quanto realizzato deturpa
il prospetto posteriore del fabbricato”.
Risulta evidente il difetto motivazionale di
cui è affetto il provvedimento impugnato non
risultando lo stesso specificare le norme
urbanistiche e/o regolamentari vietate.
Secondo pacifica giurisprudenza “il
diniego del titolo edilizio, comportando una
contrazione dello ius aedificandi, necessita
di una circostanziata motivazione,
esplicativa delle reali ragioni impeditive,
da individuarsi nel contrasto del progetto
presentato con specifiche norme
urbanistiche, esplicitamente indicate, e
deve quindi indicare compiutamente e in modo
intelligibile le ragioni per le quali
sussiste la ritenuta difformità urbanistica”
(TAR Campania Napoli, sez. VIII, 09.06.2011,
n. 3040 TAR Basilicata Potenza, sez. I,
09.04.2010, n. 180)
Non risulta sufficiente neppure la ragione
della non compatibilità estetica
dell’intervento atteso che tale valutazione,
pur risultando ampiamente discrezionale, non
risulta supportata da riferimenti normativi
o regolamentari.
A ciò aggiungasi che il gravato diniego non
tiene conto della precarietà e scarsa
rilevanza urbanistica delle opere oggetto
dell’istanza.
Difatti, la nozione di costruzione, ai fini
della necessità della concessione edilizia,
si configura in presenza di opere che
attuino una trasformazione del tessuto
urbanistico ed edilizio con trasformazioni
preordinate a soddisfare esigenze non
precarie del costruttore –circostanza non
sussistente nella fattispecie- (cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 06.06.2008).
Tali considerazioni conducono alla
illegittimità del provvedimento di diniego
impugnato sotto gli assorbenti profili
rilevati
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 14.09.2011 n. 1623 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Un
ipotetico diniego di approvazione del piano
attuativo deve essere congruamente istruito
e motivato con valutazione comparata degli
interessi coinvolti; tale valutazione è
sottoposta al sindacato del giudice
amministrativo, cui spetta, ovviamente su
impulso di parte, verificare se le ragioni
poste a base del diniego possono, in
concreto, supportare le determinazioni
assunte: ambito di scrutinio, questo,
costantemente ritenuto estraneo al merito
dell’azione amministrativa.
E’ sufficiente ribadire come un ipotetico
diniego di approvazione del piano attuativo
deve essere congruamente istruito e motivato
con valutazione comparata degli interessi
coinvolti; tale valutazione è sottoposta al
sindacato del giudice amministrativo, cui
spetta, ovviamente su impulso di parte,
verificare se le ragioni poste a base del
diniego possono, in concreto, supportare le
determinazioni assunte: ambito di scrutinio,
questo, costantemente ritenuto estraneo al
merito dell’azione amministrativa (in
termini, tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV,
04.05.2010, n. 2545)
(TAR Umbria,
sentenza 13.09.2011 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Una
volta intervenuta la pronuncia sulla prima
istanza di sanatoria, l’Amministrazione è
tenuta a provvedere su eventuali ulteriori
istanze soltanto laddove l’interessato
prospetti una soluzione atta (anche
attraverso le opportune modifiche
progettuali ed i conseguenti interventi di
parziale ripristino) a rendere l’opera
abusiva pienamente conforme alle
prescrizioni vigenti; al contrario, la
presentazione di un’istanza che si dimostri
insufficiente alla luce dei parametri
urbanistico-edilizi la cui violazione era
stata rappresentata con il primo diniego,
non comporterà l’obbligo di provvedere.
Parte ricorrente lamenta l’illegittimità
della mancata attivazione del procedimento
amministrativo per l’accertamento di
conformità di cui all’art. 17 della l.r. n.
21 del 2004, evidenziando che si trattava di
una differente (dal punto di vista
contenutistico) istanza di sanatoria
rispetto alla precedente disattesa, non
rilevando l’identità dell’abuso.
Il Comune obietta l’inesistenza di un
obbligo di esaminare reiterate istanze di
sanatoria, in quanto ciò si tradurrebbe in
una sospensione sine die del
procedimento sanzionatorio.
Il Collegio è consapevole della
divaricazione di posizioni giurisprudenziali
registratesi in ordine agli effetti
dell’istanza di sanatoria (melius, di
accertamento di conformità); una parte della
giurisprudenza ritiene, sia con riferimento
all’art. 13 della legge 28.02.1985, n. 47,
sia con riguardo all’art. 36 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, che il silenzio non ha
valore di silenzio-inadempimento, ma di
silenzio-rigetto, e dunque si caratterizza
come silenzio provvedimentale con contenuto
di rigetto (TAR Basilicata, 14.01.2011, n.
28; TAR Piemonte, Sez. II, 20.05.2011, n.
494; TAR Campania, Sez. VI, 05.05.2005, n.
5484; TAR Campania, Sez. VI, 09.03.2006, n.
2834; Cons. Stato, Sez. IV, 13.01.2010, n.
100), con la conseguenza che, essendovi un
provvedimento tacito, l’Amministrazione è
esonerata dal fornire una risposta
sull’istanza. Un’altra parte della
giurisprudenza ritiene invece che il
silenzio serbato dall’Amministrazione in
relazione alla richiesta di concessione
edilizia in sanatoria ha natura di
silenzio-rifiuto, così che l’Amministrazione
ha l’obbligo di concludere il procedimento
con provvedimento espresso e motivato (TAR
Lazio, Latina, 16.03.2010, n. 292; TAR
Sicilia, Catania, Sez. I, 29.05.2003, n.
903).
In tale quadro di incertezza ermeneutica
occorre tenere poi conto della disciplina
regionale; a tale proposito, l’art. 17 della
l.r. 03.11.2004, n. 21, al terzo comma,
dispone che «alla richiesta di permesso
in sanatoria si applicano le procedure
previste dall’art. 17 della L.R. n. 1/2004,
con esclusione della possibilità di
applicare l’intervento sostitutivo della
Provincia …», e dunque il procedimento
per il rilascio del permesso di costruire.
Tale procedimento non contempla il
silenzio-rigetto, ma un provvedimento
espresso adottato dal dirigente della
competente struttura comunale o dal
responsabile dello sportello unico; l’ultimo
comma dell’art. 17 stabilisce poi che,
decorso inutilmente il termine per
l’adozione del provvedimento finale, sulla
domanda di permesso di costruire si intende
formato il silenzio-rifiuto.
Sembra dunque sostenibile, già sul piano
dell’ermeneusi letterale della norma, con un
sufficiente margine di sicurezza, che
nell’ambito dell’ordinamento regionale umbro
non operi il silenzio-rigetto.
Quanto poi alla reiterazione dell’istanza di
sanatoria, questo Tribunale Amministrativo
ha ritenuto che, una volta intervenuta la
pronuncia sulla prima istanza di sanatoria,
l’Amministrazione è tenuta a provvedere su
eventuali ulteriori istanze soltanto laddove
l’interessato prospetti una soluzione atta
(anche attraverso le opportune modifiche
progettuali ed i conseguenti interventi di
parziale ripristino) a rendere l’opera
abusiva pienamente conforme alle
prescrizioni vigenti; al contrario, la
presentazione di un’istanza che si dimostri
insufficiente alla luce dei parametri
urbanistico-edilizi la cui violazione era
stata rappresentata con il primo diniego,
non comporterà l’obbligo di provvedere (cfr.
TAR Umbria, 08.07.2002, n. 505, ed anche
20.01.2010, n. 14)
(TAR Umbria,
sentenza 13.09.2011 n. 296 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Non
è guida senza patente usare una licenza
diversa.
Costa caro circolare in
moto con una patente non idonea a questo
impiego. Ma per i trasgressori che vengono
pizzicati dalla polizia non si tratta
comunque di guida senza patente ma solo di
una violazione amministrativa sanzionata
dall'art. 125 del codice della strada.
Lo ha evidenziato la Corte di cassazione,
sez. IV pen., con la sentenza 14.07.2011
n. 27732.
Un motociclista munito solo di patente di
categoria A1 è stato fermato dalla polizia
stradale alla guida di una moto di grossa
cilindrata e sanzionato per guida senza
patente. Contro questa severa determinazione
l'interessato ha proposto censure in
Cassazione e il collegio ha ribaltato
l'esito della vicenda. La guida di un
motoveicolo con patente non idonea è stata
censurata dalla Consulta con la sentenza n.
3/1997 che ha creato un vuoto normativo
colmato solo con il dl 151/2003.
In buona sostanza dopo l'entrata in vigore
della riforma della patente a punti la guida
di un motociclo con patente non idonea
ricade nell'ipotesi sanzionatoria
amministrativa prevista dall'art. 125 del
codice stradale. Ovvero 159 euro di multa e
sospensione della licenza di guida da uno a
sei mesi
(articolo ItaliaOggi
del 29.09.2011). |
EDILIZIA PRIVATA: La
dichiarazione d’inizio attività non ha
natura provvedimentale, trattandosi di un
atto privato, e non è, pertanto, ad essa
pertinente un’azione di annullamento,
potendo la stessa semplicemente costituire
presupposto per l’attivazione dei poteri
inbitori della amministrazione,
eventualmente stimolati da altri soggetti
privati che si ritengano lesi dall’opera
denunciata; né può attribuirsi carattere
provvedimentale, onde ammettere che essa
possa formare oggetto di ricorso
giurisdizionale, alla mera inerzia mantenuta
dall’amministrazione a seguito del
ricevimento della D.I.A., che rileva quale
puro fatto.
Preliminare esame richiede la questione,
molto dibattuta e che ha dato luogo a
contrasti giurisprudenziali (noti alla
ricorrente che vi accenna in memoria, con
richiami alla giurisprudenza), della
impugnabilità della D.I.A..
Il Collegio condivide al riguardo
l’indirizzo, ormai prevalente, secondo il
quale (v., recentemente, Cons. Stato, Sez IV,
13.05.2010, n. 2139 e id, Sez. VI,
15.04.2010, n. 2139, cui si rinvia, a mente
dell’art. 88, comma 2, lett. d, c.p.a.) la
dichiarazione d’inizio attività non ha
natura provvedimentale, trattandosi di un
atto privato, e non è, pertanto, ad essa
pertinente un’azione di annullamento,
potendo la stessa semplicemente costituire
presupposto per l’attivazione dei poteri
inbitori della amministrazione,
eventualmente stimolati da altri soggetti
privati che si ritengano lesi dall’opera
denunciata; né può attribuirsi carattere
provvedimentale, onde ammettere che essa
possa formare oggetto di ricorso
giurisdizionale, alla mera inerzia mantenuta
dall’amministrazione a seguito del
ricevimento della D.I.A., che rileva quale
puro fatto (cfr. Cons. Stato, Sez IV,
19.09.2008, n. 4513)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 08.04.2011 n. 656 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo della zona di rispetto cimiteriale
non è un vincolo di P.R.G., ma, in quanto
posto dall’art. 338 del R.D. 27.07.1934 n.
1265, è operativo ope legis, con la
conseguenza che esso si impone anche contro
eventuali previsioni contrarie di P.R.G. o
regolamenti locali e, per altro verso, la
sua eventuale indicazione grafica negli
strumenti urbanistici non ha carattere
costitutivo ma semplicemente ricognitivo:
sicché la sua mancata indicazione nel P.R.G.
non significa che il vincolo non esista,
bensì che la sua estensione è esattamente
quella, di 200 metri, stabilita dall’art.
338 del R.D. n. 1265/1934.
Il vincolo in questione costituisce,
inoltre, un vincolo assoluto di
inedificabilità e vale, pertanto, per
qualsiasi manufatto edilizio.
Il vincolo della zona di rispetto
cimiteriale non è un vincolo di P.R.G., ma,
in quanto posto dall’art. 338 del R.D.
27.07.1934 n. 1265, è operativo ope legis,
con la conseguenza che esso si impone anche
contro eventuali previsioni contrarie di
P.R.G. o regolamenti locali (cfr., TAR
Toscana, sez. I, 14.10.2003 n. 5314) e, per
altro verso, la sua eventuale indicazione
grafica negli strumenti urbanistici non ha
carattere costitutivo ma semplicemente
ricognitivo: sicché la sua mancata
indicazione nel P.R.G. non significa che il
vincolo non esista, bensì che la sua
estensione è esattamente quella, di 200
metri, stabilita dall’art. 338 del R.D. n.
1265/1934.
Il vincolo in questione costituisce,
inoltre, un vincolo assoluto di
inedificabilità (cfr. Cons. di Stato, sez.
II, 28.08.1996 n. 3031) e vale, pertanto,
per qualsiasi manufatto edilizio.
Ne consegue che le opere di cui trattasi
erano e sono, ex art. 33 della legge n.
47/1985, insuscettibili di condono edilizio
per contrasto, appunto, con un vincolo di
inedificabilità assoluta
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 08.04.2011 n. 633 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Quanto
al potere di ordinare la rimozione dei
rifiuti abbandonati, non può che convenirsi
con l’indirizzo interpretativo secondo cui,
alla luce dell’insuperabile dato testuale
dell’art. 192, co. 3, D.Lgs. n. 152/2006, la
relativa competenza appartiene al Sindaco e
non ai dirigenti, e questo anche in
considerazione della specialità della norma
e della sua posteriorità rispetto all’art.
107 D.Lgs. n. 267/2000.
Com’è noto, l’art. 192 del D.Lgs. n.
152/2006 pone un divieto di abbandono e
deposito incontrollato di rifiuti sul suolo
e nel suolo, la cui violazione è difesa da
quello che in dottrina viene definito un
peculiare sistema sanzionatorio binario,
repressivo e propositivo: da un lato, le
sanzioni penali ed amministrative
disciplinate dagli artt. 255 e 256 del
medesimo D.Lgs. n. 152/2006, dall’altro il
potere sindacale di ordinare la rimozione
dei rifiuti e di provvedere al ripristino
dello stato dei luoghi, ai sensi del terzo
comma del medesimo art. 192. Diversamente,
nei casi di contaminazione, effettiva o
potenziale, di un sito, da intendersi quale
superamento dei valori di concentrazione
soglia di contaminazione delle sostanze
inquinanti rilevate nelle matrici
ambientali, trovano applicazione le
procedure di messa in sicurezza e bonifica
di cui all’art. 242 del D.Lgs. n. 152/2006,
l’attivazione delle quali è garantita dai
poteri di ordinanza e di esecuzione in danno
disciplinati dai successivi artt. 244 e 250.
Nella specie, il provvedimento adottato dal
Comune di S. Casciano Val di Pesa presenta
una commistione di contenuti, nella misura
in cui l’amministrazione non soltanto
invoca, per legittimare il proprio
intervento, sia l’art. 192, sia gli artt.
242 e 244 del D.Lgs. n. 152/2006, ma
impartisce –nel medesimo contesto–
disposizioni riconducibili ora all’una, ora
alle altre delle richiamate previsioni di
legge. In particolare, se il punto n. 1 del
dispositivo contiene un ordine di provvedere
alla messa in sicurezza e alla bonifica
dell’area interessata dalla discarica, sul
presupposto implicito dell’esistenza di una
situazione di contaminazione, il punto n. 2
contiene quell’ordine di rimozione,
smaltimento dei rifiuti e ripristino
dell’area che, lo si è visto, appartiene
tipicamente al novero dei poteri sindacali
in materia di abbandono incontrollato dei
rifiuti: ma, in disparte ogni questione
circa l’ammissibilità o meno di un siffatto
concorso di rimedi, i poteri esercitati
esulano comunque dalle attribuzioni
dell’autorità procedente.
Quanto al potere di ordinare la rimozione
dei rifiuti abbandonati, non può che
convenirsi con l’indirizzo interpretativo
secondo cui, alla luce dell’insuperabile
dato testuale dell’art. 192, co. 3, D.Lgs.
n. 152/2006, la relativa competenza
appartiene al Sindaco e non ai dirigenti, e
questo anche in considerazione della
specialità della norma e della sua
posteriorità rispetto all’art. 107 D.Lgs. n.
267/2000 (cfr. Cons. Stato, sez. V,
12.06.2009, n. 3765).
Quanto, invece, ai poteri di ordinanza che
l’art. 244 D.Lgs. n. 152/2006 appresta onde
imporre ai soggetti responsabili
dell’inquinamento di un sito di provvedere
alla messa in sicurezza d’emergenza ed alla
bonifica, stando alla norma statale essi
ricadono nella competenza della Provincia, e
non induce a diverse conclusioni l’esame
della legislazione regionale, posto che la
legge regionale toscana n. 30/2006 ha
delegato ai Comuni le sole funzioni inerenti
le procedure amministrative attinenti alla
procedure ex art. 242. E neppure vale
sostenere, come fa la difesa del Comune,
che, con l’ordinanza impugnata, si sarebbe
inteso mettere lo Scherma in condizione di
eseguire gli interventi richiesti dall’art.
242, non potendosi dubitare della valenza
coercitiva del provvedimento e della sua
perfetta sovrapponibilità con la diffida “a
provvedere ai sensi del presente titolo”
di competenza provinciale, come è del resto
confermato dalla circostanza che lo stesso
provvedimento comunale enuclea
dettagliatamente gli adempimenti imposti
all’interessato per l’ipotesi di superamento
delle CSC e delle CSR, sul modello della
previsione normativa applicata
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 07.04.2011 n. 626 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICI: L’approvazione
del progetto esecutivo di opera pubblica è
di competenza della Giunta Comunale e non
del dirigente.
Non appare condivisibile l’assunto di parte
ricorrente circa la natura meramente
gestoria dell’atto di approvazione del
progetto esecutivo di un’opera pubblica, con
la sua ascrizione alla competenza
dirigenziale, mentre il Collegio ritiene di
condividere il prevalente orientamento
giurisprudenziale che attribuisce
l’approvazione del progetto esecutivo di
opera pubblica alla competenza di Giunta
(Cons. Stato, sez, IV, 11.09.2001, n. 4744;
TAR Lecce, sez. I, 31.03.2003, n. 1415; TAR
Venezia, sez. I, 07.07.2004, n. 2266; TAR
Toscana, sez. I, n. 1038 del 2008)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 06.04.2011 n. 594 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
termine massimo di 10 anni di validità del
piano di lottizzazione, stabilito dall’art.
16, comma 5, della legge 17.08.1942 n. 1150
per i piani particolareggiati ma valevole
anche per i piani di lottizzazione, non è
suscettibile di deroga neppure sull’accordo
delle parti e decorre dalla data di
completamento del complesso procedimento di
formazione del piano attuativo.
La convenzione non può incidere sulla
validità massima, prevista in legge, del
piano di lottizzazione.
---------------
Il piano di lottizzazione perde efficacia
alla scadenza del termine massimo di 10 anni
o nel minor termine previsto per la sua
attuazione, così come avviene per il piano
particolareggiato, essendo indifferente, a
tali fini, che si tratti di uno strumento
attuativo di iniziativa privata o di
iniziativa pubblica.
Anche per i piani di lottizzazione vale sia
la norma sulla durata decennale che la norma
sulla decadenza o inefficacia del piano per
la parte inattuata (entrambe dettate per i
piani particolareggiati rispettivamente
dagli artt. 16, comma 5, e 17, comma 1, L.
17.08.1942 n. 1150) e che il termine di 10
anni per l'esecuzione delle opere di
urbanizzazione poste a carico del
lottizzante deve considerarsi come termine
massimo da inserire in convenzione.
---------------
La domanda di proroga del piano di
lottizzazione, anche se giustificata da
oggettive difficoltà nell’attuazione del PdL
non dipendenti dalla volontà della società
lottizzante, non può essere accolta da parte
del Comune qualora proposta dopo la scadenza
del termine di efficacia del piano di
lottizzazione. Infatti, la proroga di un
piano di lottizzazione non può intervenire
se l'atto da prorogare è già scaduto.
Anche qualora la richiesta di proroga
intervenga durante la vigenza del piano,
tuttavia da ciò non consegue il diritto del
lottizzante ad ottenere la proroga, ma
semplicemente egli ha una posizione
giuridica di interesse legittimo al corretto
esercizio da parte del Comune del potere
discrezionale di esame e pronuncia sulla
richiesta; richiesta che però può fondarsi
solo su oggettive ragioni impeditive
dell’attuazione del piano nel termine
previsto, in alcun modo dipendenti dalla
volontà del lottizzante.
---------------
Qualora non risulta realizzato alcun
fabbricato di edilizia residenziale nei
lotti previsti nel piano di lottizzazione e
poiché non è più possibile rilasciare alcuna
concessione edilizia in quanto il P.d.L. ha
perso efficacia, consegue che la garanzia
prestata (fidejussione) ha oramai perso la
propria causa giustificativa. Pertanto il
Comune deve restituire la polizza
fideiussoria stipulata.
---------------
La mancata attuazione della convenzione,
anche per fatto imputabile al lottizzante,
comporta, come effetto sanzionatorio, la
scadenza del piano di lottizzazione e la sua
sopravvenuta inefficacia, ma non può
comportare ex se anche la perdita della
proprietà delle aree oggetto della cessione
giacché, come detto, ciò realizzerebbe un
trasferimento senza giusta causa della
proprietà di tali beni.
Il termine massimo di 10 anni di validità
del piano di lottizzazione, stabilito
dall’art. 16, comma 5, della legge
17.08.1942 n. 1150 per i piani
particolareggiati ma valevole anche per i
piani di lottizzazione, non è suscettibile
di deroga neppure sull’accordo delle parti e
decorre dalla data di completamento del
complesso procedimento di formazione del
piano attuativo (Cons. Stato, sez. IV,
11.03.2003, n. 1315; TAR Sardegna,
18.08.2003, n. 1033).
La convenzione è infatti un atto accessorio
al piano di lottizzazione, per la
regolazione dei rapporti tra lottizzante e
comune con riferimento agli adempimenti
derivanti dalla lottizzazione dell’area, che
non può incidere sulla validità massima,
prevista in legge, del piano di
lottizzazione.
---------------
Per giurisprudenza pacifica, il piano di
lottizzazione perde efficacia alla scadenza
del termine massimo di 10 anni o nel minor
termine previsto per la sua attuazione, così
come avviene per il piano particolareggiato,
essendo indifferente, a tali fini, che si
tratti di uno strumento attuativo di
iniziativa privata o di iniziativa pubblica
(Cfr. Cons. Stato, IV Sez.: 25.07.2001 n.
4074, e 1315/2003 e 286/1999 cit.; TAR
Calabria, Catanzaro, 16.03.2004 n. 621; TAR
Lazio, sez. 2^, 11.02.2004, n. 1286; TAR
Abruzzo, L’Aquila, 27.12.1999, n. 764).
Negli stessi termini si è pronunciato il TAR
Sardegna con la sentenza 18.08.2003, n.
1033, nella quale ha affermato che anche per
i piani di lottizzazione vale sia la norma
sulla durata decennale che la norma sulla
decadenza o inefficacia del piano per la
parte inattuata (entrambe dettate per i
piani particolareggiati rispettivamente
dagli artt. 16, comma 5, e 17, comma 1, L.
17.08.1942 n. 1150) e che il termine di 10
anni per l'esecuzione delle opere di
urbanizzazione poste a carico del
lottizzante deve considerarsi come termine
massimo da inserire in convenzione.
---------------
La domanda di
proroga del piano di lottizzazione, anche
ove fosse stata giustificata da oggettive
difficoltà nell’attuazione del PdL non
dipendenti dalla volontà della società
lottizzante, non avrebbe potuto essere
accolta da parte del Comune perché proposta
dopo la scadenza del termine di efficacia
del piano di lottizzazione.
Infatti la proroga di un piano di
lottizzazione non può intervenire se l'atto
da prorogare è già scaduto (C.G.A.
25.01.1990, n. 2; TAR Calabria, Catanzaro,
04.03.2002, n. 491; TAR Umbria, Perugia,
21.12.1996, n. 554; TAR Lombardia Brescia,
08.10.1991, n. 690; TAR Sicilia, Palermo,
sez. I, 19.12 1994, n. 989).
Per completezza si può aggiungere che, anche
qualora la richiesta di proroga fosse
intervenuta durante la vigenza del piano,
tuttavia da ciò non sarebbe conseguito il
diritto del lottizzante ad ottenere la
proroga, ma semplicemente egli avrebbe avuto
una posizione giuridica di interesse
legittimo al corretto esercizio da parte del
Comune del potere discrezionale di esame e
pronuncia sulla richiesta; richiesta che
però poteva fondarsi solo su oggettive
ragioni impeditive dell’attuazione del piano
nel termine previsto, in alcun modo
dipendenti dalla volontà del lottizzante.
---------------
Ai sensi dell’art. 28, comma 5, della legge
n. 1150 del 1942, il lottizzante è tenuto a
prestare “congrue garanzie per
l’adempimento degli obblighi derivanti dalla
convenzione”. Gli obblighi assunti con
la stipulazione della convenzione di
lottizzazione attengono in modo particolare
alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione previste dal piano di
lottizzazione.
Detta obbligazione attiene sia all’aspetto
quantitativo, ossia alle realizzazione di
tutte le opere di urbanizzazione, ma anche
all’aspetto qualitativo, ossia alla
esecuzione a regola d’arte delle opere
medesime.
L’incameramento della fideiussione consente
al Comune di poter realizzare le opere
nell’eventualità che le stesse non siano
state realizzate dal lottizzante o
presentino dei difetti per non essere state
realizzate a regola d’arte, al fine di
evitare che gli insediamenti eventualmente
sorti non siano serviti dalle necessarie
urbanizzazioni. Il Comune, infatti, è tenuto
a rilasciare le concessioni edilizie con il
contestuale inizio della realizzazione delle
opere di urbanizzazione.
Il citato articolo 28 dispone, infatti, al
7° comma che: “Il rilascio delle licenze
edilizie nell’ambito dei singoli lotti è
subordinato all’impegno della contemporanea
esecuzione delle opere di urbanizzazione
primaria relative ai lotti stessi”. La
polizza fideiussoria viene prestata proprio
per garantire detto impegno.
Poiché nel caso in esame non risulta
realizzato alcun fabbricato di edilizia
residenziale nei lotti previsti nel piano e
poiché non è più possibile rilasciare alcuna
concessione edilizia in quanto il P.d.L. ha
perso efficacia, ne consegue che la garanzia
prestata ha oramai perso la propria causa
giustificativa. Pertanto il Comune dovrà
restituire la polizza fideiussoria stipulata
nel 1990.
---------------
La cessione delle aree per standards
previste in convenzione è strettamente
legata, in una relazione di corrispettività,
al rilascio delle concessioni edilizie
necessarie alla realizzazione delle
edificazioni previste dal piano di
lottizzzione.
La mancata attuazione della convenzione,
anche per fatto imputabile al lottizzante,
comporta, come effetto sanzionatorio, la
scadenza del piano di lottizzazione e la sua
sopravvenuta inefficacia, ma non può
comportare ex se anche la perdita della
proprietà delle aree oggetto della cessione
giacché, come detto, ciò realizzerebbe un
trasferimento senza giusta causa della
proprietà di tali beni (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 31.03.2011 n. 294 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'entità
del contributo dovuto per oneri concessori
va individuato nel momento in cui viene
rilasciata la concessione edilizia, poiché
il costo da considerare ai fini della
commisurazione dei relativi oneri non può
essere che quello del momento in cui sorge
l'obbligazione, che è appunto quello del
rilascio della concessione e a tale data
occorre avere riguardo per determinare
l'entità del contributo con applicazione
della normativa vigente al momento del
rilascio della concessione medesima.
E ciò vale anche per una concessione
edilizia in sanatoria in quanto la stessa è
una normale concessione edilizia, che però
viene rilasciata dopo l'inizio dei lavori e
con effetto sanante dell'attività già
compiuta e riguardante opere nuove ed
autonome già abusivamente realizzate.
Il chiaro disposto dell'art. 35 della L. n.
47/1985 individua nel momento di
presentazione dell'istanza di concessione in
sanatoria il riferimento temporale per
calcolare la misura dell'oblazione e
nell'avvenuto pagamento della stessa un
requisito di procedibilità della istanza
medesima.
A diversa conclusione deve pervenirsi con
riguardo alla determinazione degli oneri
concessori. Invero, qui -diversamente dalle
somme da corrispondersi a titolo di
oblazione- il momento di calcolo degli oneri
concessori va individuato, non già nella
data di presentazione della domanda di
condono, ma in quella di rilascio del
provvedimento concessorio, tenuto conto che,
ai sensi dell'art. 3 della legge n. 10/1977,
la concessione (e non la semplice domanda)
comporta "la corresponsione di un
contributo commisurato all'incidenza delle
spese di urbanizzazione, nonché al costo di
costruzione".
In tal senso è l'elaborazione
giurisprudenziale (CdS, V, 06.12.1999, n.
2056; id. 22.09.1999, n. 1113), secondo cui
l'entità del contributo dovuto per oneri
concessori va individuato nel momento in cui
viene rilasciata la concessione edilizia,
poiché il costo da considerare ai fini della
commisurazione dei relativi oneri non può
essere che quello del momento in cui sorge
l'obbligazione, che è appunto quello del
rilascio della concessione e a tale data
occorre avere riguardo per determinare
l'entità del contributo con applicazione
della normativa vigente al momento del
rilascio della concessione medesima (cfr.,
ex multis, Cons. di Stato V
25.10.1993, n. 1071, Cons. di Stato V
26.10.1987, n. 661, Cons. di Stato V
12.05.1987 n. 278, Cons. di Stato V
04.08.1986, n. 401; TAR Lazio, II-bis,
04.01.2005 n. 54).
Ciò si spiega in quanto la concessione in
sanatoria è una normale concessione
edilizia, che però viene rilasciata dopo
l'inizio dei lavori e con effetto sanante
dell'attività già compiuta e riguardante
opere nuove ed autonome già abusivamente
realizzate
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 31.03.2011 n. 286 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione di un’istanza di accertamento
di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001
in epoca successiva all’adozione
dell’ordinanza di demolizione ha automatico
effetto caducante sull’ordinanza di
demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di
sanatoria produce, quindi, l’effetto di
rendere improcedibile l’impugnazione contro
l’atto sanzionatorio per sopravvenuta
carenza di interesse, posto che il riesame
dell’abusività dell’opera, provocato
dall’istanza, sia pure al fine di
verificarne l’eventuale sanabilità, comporta
la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento, esplicito o implicito (di
accoglimento o di rigetto), che vale
comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
Successivamente all’ordine di demolizione
impugnato, parte ricorrente ha presentato
una istanza di accertamento di conformità ex
art. 36 D.P.R. n. 380/2001 per le opere
abusive in questione.
Il Collegio aderisce all’orientamento
giurisprudenziale secondo cui la
presentazione di un’istanza di accertamento
di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001
in epoca successiva all’adozione
dell’ordinanza di demolizione ha automatico
effetto caducante sull’ordinanza di
demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di
sanatoria produce, quindi, l’effetto di
rendere improcedibile l’impugnazione contro
l’atto sanzionatorio per sopravvenuta
carenza di interesse, posto che il riesame
dell’abusività dell’opera, provocato
dall’istanza, sia pure al fine di
verificarne l’eventuale sanabilità, comporta
la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento, esplicito o implicito (di
accoglimento o di rigetto), che vale
comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
Nel senso dell’improcedibilità si è già
peraltro più volte espressa la
giurisprudenza anche di questo Tribunale con
riferimento sia alle istanze di sanatoria
sia alle richieste di accertamento di
conformità ex art. 36 TU 06.06.2001 n. 380
presentate dopo l’ordinanza di demolizione
(TAR Calabria-Catanzaro, sez. II,
07.11.2008, n. 1482; TAR Campania-Napoli,
sez. VI, 22.10.2008, n. 17688; TAR
Campania-Napoli, sez. III, 18.09.2008, n.
10346; TAR Campania-Napoli, sez. VI,
16.09.2008, n. 10220; TAR Campania-Napoli,
sez. VI, 18.03.2008, n. 1399; TAR
Lombardia–Milano, Sez. II, 30.01.2008 n.
255/2008; TAR Lombardia–Milano, Sez. II,
27.02.2008 n. 545/2008; Consiglio Stato,
sez. V, 26.06.2007, n. 3659; Cons. Stato,
31.05.2006 n. 7884)
(TAR Camania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.03.2011 n. 1746 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vano scala non può essere considerato volume
tecnico, ai fini della non computabilità nel
calcolo della volumetria massima consentita.
Non costituisce volume tecnico (come tale
non computabile nella volumetria
dell'edificio) un vano scala finalizzato non
all'installazione ed all'accesso a impianti
tecnologici necessari alle esigenze
abitative, ma a consentire l'accesso da un
appartamento ad una terrazza praticabile.
Osserva il
Collegio che l’intervento, per la parte
riguardante il manufatto afferente al vano
scala, non poteva che essere considerato
come unitario, in quanto comportante una
modifica complessiva dell’assetto di quella
porzione di edificio, senza che si potesse
in sede di pronuncia sull’accertamento di
conformità identificare delle opere del
tutto autonome e distinte, al fine di
trattarle in modo separato ai fini
dell’esito finale dell’istanza di sanatoria.
L’intervento in questione ha comportato un
aumento di volumetria non consentito dalla
Variante di PRG, né quanto realizzato può
definirsi come volume tecnico, in quanto, da
un lato, parte ricorrente non ha dimostrato
che il manufatto si limitasse allo stretto
necessario ai fini del contenimento del vano
scala ed, in ogni caso, come affermato dalla
giurisprudenza amministrativa, il vano scala
non può essere considerato volume tecnico,
ai fini della non computabilità nel calcolo
della volumetria massima consentita
(Consiglio Stato, sez. IV, 04.05.2010, n.
2565).
In particolare, sul punto si è pronunciato
questo stesso TAR osservando che non
costituisce volume tecnico (come tale non
computabile nella volumetria dell'edificio)
un vano scala finalizzato non
all'installazione ed all'accesso a impianti
tecnologici necessari alle esigenze
abitative, ma a consentire l'accesso da un
appartamento ad una terrazza praticabile
(TAR Campania Napoli Sez. III, 25/05/2010,
n. 8748; vedi anche Cons. Stato Sez. V,
26/07/1984, n. 578)
(TAR Camania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.03.2011 n. 1746 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Può
considerarsi un semplice pergolato, non
comportante aumento di volumetria o
superficie utile, solo quel manufatto
realizzato in struttura leggera di legno che
funge da sostegno per piante rampicanti o
per teli, il quale realizza in tal modo una
ombreggiatura di superfici di modeste
dimensioni, destinate ad uno del tutto
momentaneo; al contrario deve essere
qualificata intervento di nuova costruzione,
ai sensi dell'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001,
la realizzazione di un pergolato costituito
da pilastri e travi in legno di importanti
dimensioni, che rendono la struttura solida
e robusta e che fanno desumere una
permanenza prolungata nel tempo del
manufatto stesso.
Affinché un’opera possa qualificarsi come
mero arredo di uno spazio esterno, che non
comporta realizzazione di superfici utili o
volume e non necessiti alcuna concessione
edilizia, è necessario difatti che l’opera
consista in una struttura precaria,
facilmente rimovibile, non costituente
trasformazione urbanistica del territorio
(Consiglio di Stato, Sez. V, 07.11.2005, n.
6193, nel caso di specie si trattava di un
pergolato costituito da una intelaiatura in
legno non infissa né al pavimento né alla
parete dell’immobile).
Secondo
giurisprudenza cui questo Collegio ritiene
di aderire, può considerarsi un semplice
pergolato, non comportante aumento di
volumetria o superficie utile, solo quel
manufatto realizzato in struttura leggera di
legno che funge da sostegno per piante
rampicanti o per teli, il quale realizza in
tal modo una ombreggiatura di superfici di
modeste dimensioni, destinate ad uno del
tutto momentaneo (TAR Puglia Bari, sez. III,
06.02.2009, n. 222); al contrario deve
essere qualificata intervento di nuova
costruzione, ai sensi dell'art. 3 del D.P.R.
n. 380/2001, la realizzazione di un
pergolato costituito da pilastri e travi in
legno di importanti dimensioni, che rendono
la struttura solida e robusta e che fanno
desumere una permanenza prolungata nel tempo
del manufatto stesso (Consiglio Stato, sez.
IV, 02.10.2008, n. 4793).
Affinché un’opera possa qualificarsi come
mero arredo di uno spazio esterno, che non
comporta realizzazione di superfici utili o
volume e non necessiti alcuna concessione
edilizia, è necessario difatti che l’opera
consista in una struttura precaria,
facilmente rimovibile, non costituente
trasformazione urbanistica del territorio
(Consiglio di Stato, Sez. V, 07.11.2005, n.
6193, nel caso di specie si trattava di un
pergolato costituito da una intelaiatura in
legno non infissa né al pavimento né alla
parete dell’immobile)
(TAR Camania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.03.2011 n. 1746 -
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EDILIZIA PRIVATA: L’accertamento
di conformità risulta essere uno strumento
per sanare quanto già realizzato in assenza
di permesso di costruire e non può prendere
in considerazione eventuali future
modifiche.
L'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 subordina
il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria al presupposto della c.d. "doppia
conformità": l'opera abusiva, per poter
essere sanata, deve, cioè, essere conforme,
come già accennato, non solo allo strumento
urbanistico esistente al momento della
domanda di sanatoria, ma anche a quello
vigente al momento della realizzazione
dell'opera.
Laddove, come accade nel caso di specie, in
sede di istanza di sanatoria si preveda la
realizzazione di ulteriori interventi per
rendere l'opera conforme alle norme vigenti,
è palese l'insussistenza del requisito della
conformità al momento della richiesta di
rilascio del titolo in sanatoria.
Per tale ragione sarebbe illegittimo un
provvedimento di sanatoria che, al fine di
rendere l'esistente conforme alle
prescrizioni urbanistiche vigenti, contempli
l'esecuzione di ulteriori lavori.
L'art. 36, D.P.R. n. 380/2001, difatti, non
consente spazi interpretativi, nel senso che
la concessione in sanatoria è ammessa
soltanto entro i limiti delineati dal
legislatore, senza alcuna estensione
discrezionale da parte della P.A..
Il Collegio osserva che l’accertamento di
conformità risulta essere uno strumento per
sanare quanto già realizzato in assenza di
permesso di costruire e non può prendere in
considerazione eventuali future modifiche.
L'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 subordina
il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria al presupposto della c.d. "doppia
conformità": l'opera abusiva, per poter
essere sanata, deve, cioè, essere conforme,
come già accennato, non solo allo strumento
urbanistico esistente al momento della
domanda di sanatoria, ma anche a quello
vigente al momento della realizzazione
dell'opera.
Laddove, come accade nel caso di specie, in
sede di istanza di sanatoria si preveda la
realizzazione di ulteriori interventi per
rendere l'opera conforme alle norme vigenti,
è palese l'insussistenza del requisito della
conformità al momento della richiesta di
rilascio del titolo in sanatoria (TAR
Lombardia Milano Sez. II, 22.11.2010, n.
7311).
Per tale ragione sarebbe illegittimo un
provvedimento di sanatoria che, al fine di
rendere l'esistente conforme alle
prescrizioni urbanistiche vigenti, contempli
l'esecuzione di ulteriori lavori.
L'art. 36, D.P.R. n. 380/2001, difatti, non
consente spazi interpretativi, nel senso che
la concessione in sanatoria è ammessa
soltanto entro i limiti delineati dal
legislatore, senza alcuna estensione
discrezionale da parte della P.A. (C.G.A.
Regione Sicilia, 15.10.2009, n. 941).
I titoli abilitativi in sanatoria sono
provvedimenti tipici, che eliminano
l'antigiuridicità dell'abuso, estinguendo il
potere repressivo dell'amministrazione, con
la conseguenza che il loro ambito di
applicazione non può che essere
specificamente disciplinato dalla normativa,
non risultando consentito l'esercizio, da
parte della P.A., di un potere di sanatoria
che vada oltre i limiti imposti dal
legislatore (Cfr. Cons. Stato, sez. VI,
26.04.2006, n. 2306)
(TAR Camania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.03.2011 n. 1746 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
provvedimenti che irrogano sanzioni previste
dalla legge in materia edilizia, in quanto
atti vincolati, non necessitano di alcuna
specifica motivazione in ordine
all’interesse pubblico a disporre il
ripristino della situazione conforme a
legge.
Secondo costante giurisprudenza, i
provvedimenti che irrogano sanzioni previste
dalla legge in materia edilizia, in quanto
atti vincolati, non necessitano di alcuna
specifica motivazione in ordine
all’interesse pubblico a disporre il
ripristino della situazione conforme a legge
(è controversa in giurisprudenza la sola
ipotesi in cui tra l’illecito e la sanzione
demolitoria sia decorso un notevole lasso di
tempo TAR Veneto, Sez. II - sentenza
13.03.2008 n. 605; TAR Veneto, Sez. II -
sentenza 26.02.2008, n. 454; TAR
Lombardia-Milano, Sez. II - sentenza
08.11.2007 n. 6200), né il Comune ha
discrezionalità nello stabilire le sanzioni
derivanti dall’inosservanza della normativa
urbanistica e di tutela ambientale
(TAR Camania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.03.2011 n. 1746 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Presupposto per l’adozione
dell’ordine di demolizione di opere abusive
è soltanto la constatata esecuzione di un
intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la
conseguenza che, essendo tale ordine un atto
dovuto, esso è sufficientemente motivato con
l’accertamento dell’abuso, e non necessita
di una particolare motivazione in ordine
all’interesse pubblico alla rimozione
dell’abuso stesso, -che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell’assetto
urbanistico violato- ed alla possibilità di
adottare provvedimenti alternativi.
Nella motivazione dell’ordine di demolizione
è necessaria e sufficiente l’analitica
descrizione delle opere abusivamente
realizzate, in modo da consentire al
destinatario della sanzione di rimuoverle
spontaneamente, mentre non è necessaria la
descrizione precisa della superficie
occupata e dell’area di sedime destinata ad
essere gratuitamente acquisita al patrimonio
comunale in caso di inottemperanza
all’ordine di demolizione, perché tali
elementi afferiscono all’eventuale
successiva fase di acquisizione al
patrimonio comunale.
Ed invero presupposto per l’adozione
dell’ordine di demolizione di opere abusive
è soltanto la constatata esecuzione di un
intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la
conseguenza che, essendo tale ordine un atto
dovuto, esso è sufficientemente motivato con
l’accertamento dell’abuso, e non necessita
di una particolare motivazione in ordine
all’interesse pubblico alla rimozione
dell’abuso stesso, -che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell’assetto
urbanistico violato- ed alla possibilità di
adottare provvedimenti alternativi (ex
multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV,
28.12.2009, n. 9638; Sez. VI, 09.11.2009, n.
7077; Sez. VII, 04.12.2008, n. 20987).
Secondo una consolidata giurisprudenza
infatti (ex multis, TAR Toscana
Firenze, Sez. III, 06.02.2008, n. 117; TAR
Campania Napoli, Sez. III, 17.12.2007, n.
16311), nella motivazione dell’ordine di
demolizione è necessaria e sufficiente
l’analitica descrizione delle opere
abusivamente realizzate, in modo da
consentire al destinatario della sanzione di
rimuoverle spontaneamente, mentre non è
necessaria la descrizione precisa della
superficie occupata e dell’area di sedime
destinata ad essere gratuitamente acquisita
al patrimonio comunale in caso di
inottemperanza all’ordine di demolizione,
perché tali elementi afferiscono
all’eventuale successiva fase di
acquisizione al patrimonio comunale
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.03.2011 n. 1710 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Non è necessario il permesso di
costruire per la realizzazione di modeste
recinzioni di fondi rustici senza opere
murarie, e cioè per la mera recinzione con
rete metallica sorretta da paletti di ferro
o di legno e senza muretto di sostegno, in
quanto entro tali limiti la recinzione
rientra solo tra le manifestazioni del
diritto di proprietà, che comprende lo ius
excludendi alios o comunque la delimitazione
delle singole proprietà; occorre invece il
permesso di costruire, ai sensi dell’art. 6,
comma 1, lettera e), del D.P.R. n. 380/2001,
quando la recinzione determina
un’irreversibile trasformazione dello stato
dei luoghi, come nel caso di una recinzione
costituita da un muretto di sostegno in
calcestruzzo con sovrastante rete metallica.
Gli interventi consistenti
nell’installazione di tettoie o di altre
strutture che siano comunque apposte a parti
di preesistenti edifici come strutture
accessorie di protezione o di riparo di
spazi liberi (cioè non compresi entro
coperture volumetriche previste in un
progetto assentito), possono ritenersi
sottratti al regime della concessione
edilizia (oggi permesso di costruire)
soltanto ove la loro conformazione e le loro
ridotte dimensioni rendano evidente e
riconoscibile la loro finalità di arredo o
di riparo e protezione (anche da agenti
atmosferici) dell’immobile cui accedono.
Invece tali strutture non possono ritenersi
installabili senza permesso di costruire
allorquando abbiano dimensioni tali da
arrecare una visibile alterazione del
prospetto dell’edificio.
Secondo la prevalente giurisprudenza, non è
necessario il permesso di costruire per la
realizzazione di modeste recinzioni di fondi
rustici senza opere murarie, e cioè per la
mera recinzione con rete metallica sorretta
da paletti di ferro o di legno e senza
muretto di sostegno, in quanto entro tali
limiti la recinzione rientra solo tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, che
comprende lo ius excludendi alios o
comunque la delimitazione delle singole
proprietà (ex multis, TAR Veneto,
Sez. II, 07.03.2006, n. 533); occorre invece
il permesso di costruire, ai sensi dell’art.
6, comma 1, lettera e), del D.P.R. n.
380/2001, quando la recinzione determina
un’irreversibile trasformazione dello stato
dei luoghi, come nel caso di una recinzione
costituita da un muretto di sostegno in
calcestruzzo con sovrastante rete metallica
(ex multis, TAR Campania-Napoli, Sez.
III, 18.09.2008, n. 10345; Sez. VII,
04.07.2007, n. 6458; TAR Basilicata Potenza,
19.09.2003, n. 897).
Inoltre secondo la prevalente giurisprudenza
(ex multis, TAR Campania-Napoli, Sez.
IV, 18.02.2003, n. 897; 20.10.2003, n.
12962), gli interventi consistenti
nell’installazione di tettoie o di altre
strutture che siano comunque apposte a parti
di preesistenti edifici come strutture
accessorie di protezione o di riparo di
spazi liberi (cioè non compresi entro
coperture volumetriche previste in un
progetto assentito), possono ritenersi
sottratti al regime della concessione
edilizia (oggi permesso di costruire)
soltanto ove la loro conformazione e le loro
ridotte dimensioni rendano evidente e
riconoscibile la loro finalità di arredo o
di riparo e protezione (anche da agenti
atmosferici) dell’immobile cui accedono.
Invece tali strutture non possono ritenersi
installabili senza permesso di costruire
allorquando abbiano dimensioni, come
nell’iporesi di specie, tali da arrecare una
visibile alterazione del prospetto
dell’edificio (ex
multis,
Cons. Stato, Sez. V, 13.03.2001, n. 1442;
TAR Lazio Roma, Sez. II, 15.02.2002, n.
1055)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.03.2011 n. 1710 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
certificato di destinazione urbanistica ha
carattere meramente dichiarativo e non
costitutivo degli effetti giuridici che
dallo stesso risultano, visto che la
situazione giuridica attestata nel predetto
certificato è la conseguenza di altri
precedenti provvedimenti che hanno
provveduto a determinarla. Ciò impedisce
all'amministrazione, una volta avvedutasi
che la certificazione contiene
un’attestazione non veritiera, di rilasciare
un permesso di costruire basato su un
erroneo presupposto.
Va premesso che il certificato di
destinazione urbanistica ha carattere
meramente dichiarativo e non costitutivo
degli effetti giuridici che dallo stesso
risultano, visto che la situazione giuridica
attestata nel predetto certificato è la
conseguenza di altri precedenti
provvedimenti che hanno provveduto a
determinarla (TAR Campania, Napoli, Sezione
II, 20.09.2010 n. 17479; TAR Lombardia,
Milano, Sezione IV, 06.10.2010 n. 6863; TAR
Toscana, Sezione I, 28.01.2008, n. 55).
Ciò impedisce all'amministrazione, una volta
avvedutasi che la certificazione contiene
un’attestazione non veritiera, di rilasciare
un permesso di costruire basato su un
erroneo presupposto
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 21.03.2011 n. 1604 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La ristrutturazione edilizia
postula necessariamente la preesistenza di
un fabbricato da ristrutturare -ossia di un
organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e
copertura- onde la ricostruzione su ruderi o
su un edificio già da tempo demolito, anche
se soltanto in parte, costituisce una nuova
opera e, come tale, è soggetta alle comuni
regole edilizie e paesistico-ambientali
vigenti al momento della riedificazione.
Inoltre, la mancata preesistenza
dell’edificio costituisce anche elemento di
discrimine tra intervento di risanamento
conservativo e nuova costruzione.
Secondo costante e consolidato orientamento
giurisprudenziale, la ristrutturazione
edilizia postula necessariamente la
preesistenza di un fabbricato da
ristrutturare -ossia di un organismo
edilizio dotato di mura perimetrali,
strutture orizzontali e copertura- onde la
ricostruzione su ruderi o su un edificio già
da tempo demolito, anche se soltanto in
parte, costituisce una nuova opera e, come
tale, è soggetta alle comuni regole edilizie
e paesistico-ambientali vigenti al momento
della riedificazione (Consiglio di Stato
Sezione IV, 13.10.2010, n. 7476; Consiglio
di Stato, Sezione IV, 15.09.2006, n. 5375;
Consiglio di Stato, Sezione V, 15.04.2004,
n. 2142; 29.10.2001, n. 5642; 01.12.1999 n.
2021; 10.03.1997, n. 240; ed ancora TAR
Campania Napoli, sez. II, 11.09.2009, n.
4949).
Inoltre, la mancata preesistenza
dell’edificio costituisce anche elemento di
discrimine tra intervento di risanamento
conservativo e nuova costruzione (TAR
Sardegna, Sezione II, 17.06.2008 n. 1213)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 21.03.2011 n. 1593 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Al fine di determinare la
tempestività dell’impugnazione da parte di
terzi della concessione edilizia, il termine
decorre dalla piena conoscenza ovvero dalla
consapevolezza del contenuto specifico del
progetto edilizio.
Tale conoscenza va intesa come un fatto, la
cui prova rigorosa incombe alla parte che
eccepisce la tardività dell’impugnativa; a
tal fine non è sufficiente il mero inizio
dei lavori, ma occorre la ultimazione di
questi, affinché gli interessati siano in
grado di avere cognizione dell’esistenza e
dell’entità delle violazioni
urbanistico-edilizie eventualmente derivanti
dalla concessione.
Ne deriva che la piena conoscenza del
contenuto della concessione edilizia da
parte dei terzi, ai fini dell’impugnazione,
non può farsi risalire al semplice inizio
dei lavori ovvero al successivo stato di
avanzamento dei lavori stessi, occorrendo
invece la piena consapevolezza, in forma
attuale, certa e diretta, della sua
effettiva portata e della sua incidenza
lesiva nella sfera di interessi della parte
ricorrente.
Sul punto il Collegio richiama il
consolidato orientamento giurisprudenziale
secondo il quale, al fine di determinare la
tempestività dell’impugnazione da parte di
terzi della concessione edilizia, il termine
decorre dalla piena conoscenza ovvero dalla
consapevolezza del contenuto specifico del
progetto edilizio (C. Stato, V, 19.06.2006,
n. 3578).
Tale conoscenza va intesa come un fatto, la
cui prova rigorosa incombe alla parte che
eccepisce la tardività dell’impugnativa; a
tal fine non è sufficiente il mero inizio
dei lavori (cfr. Cons. St., sez. V,
11.04.1995, n. 587), ma occorre la
ultimazione di questi, affinché gli
interessati siano in grado di avere
cognizione dell’esistenza e dell’entità
delle violazioni urbanistico-edilizie
eventualmente derivanti dalla concessione
(cfr. Cons. St., sez. V, 13.02.1996, n. 194
e 02.04.1991, n. 375).
Ne deriva che la piena conoscenza del
contenuto della concessione edilizia da
parte dei terzi, ai fini dell’impugnazione,
non può farsi risalire al semplice inizio
dei lavori ovvero al successivo stato di
avanzamento dei lavori stessi, occorrendo
invece la piena consapevolezza, in forma
attuale, certa e diretta, della sua
effettiva portata e della sua incidenza
lesiva nella sfera di interessi della parte
ricorrente (cfr. ex multis: Cons.
Giust. Amm.va Regione Siciliana 22.04.2005,
n. 252)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 21.03.2011 n. 1582 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel
concetto di volume tecnico devono
comprendersi esclusivamente le porzioni di
fabbricato destinate ad ospitare impianti,
legati da un rapporto di strumentalità
necessaria con l’utilizzazione dello stesso.
I sottotetti quando sono di altezza tale da
poter essere suscettibili d'abitazione o di
assolvere a funzioni complementari, quale
quella ad esempio di deposito di materiali,
devono essere computati ad ogni effetto sia
ai fini della cubatura autorizzabile sia ai
fini del calcolo dell'altezza e delle
distanze ragguagliate all'altezza, non
potendo essere annoverati tra i volumi
tecnici.
Ritiene il
Collegio che le opere realizzate non possono
rientrare nel concetto di volume tecnico,
che comprende esclusivamente le porzioni di
fabbricato destinate ad ospitare impianti,
legati da un rapporto di strumentalità
necessaria con l’utilizzazione dello stesso.
L’intervento edilizio, impropriamente
definito tetto termico, si sostanzia in
effetti in un piano di copertura reso
suscettibile di uso abitativo, tenuto conto
della rilevante superficie ed altezza media
nonché dell’apertura di balconi (cfr.
Consiglio di Stato, V Sezione, 21.10.1992 n.
1025 e 13.05.1997 n. 483; TAR Campania, II
Sezione, 03.02.2006 n. 1506 e 29.06.2007 n.
6382; IV Sezione, 20.06.2002, n. 3632).
Invero, ai fini della qualificazione di una
costruzione rilevano le caratteristiche
obiettive della stessa, prescindendosi
dall’intento dichiarato dal privato di voler
destinare l’opera ad utilizzazioni più
ristrette di quelle alle quali il manufatto
potenzialmente si presta (cfr. Consiglio di
Stato, V Sezione, 23.11.1996 n.1406).
In definitiva, contrariamente a quanto
sostenuto dal ricorrente, l’illegittimità
del permesso di costruire risulta confermata
anche alla stregua delle disposizioni del
Regolamento edilizio vigente nel Comune, che
esclude dal calcolo del volume solo i “sottotetti
non praticabili e non abitabili”, atteso
che nel caso di specie la costruzione è
obiettivamente suscettibile di uso abitativo
(cfr., in termini, per analoghe fattispecie
concernenti il medesimo Comune, TAR
Campania, II Sezione, 29.04.2005 n. 5262 e
18.05.2007 n. 5394).
In materia, si è evidenziato (per tutte: TAR
Campania Napoli, sez. IV, 17.06.2002, n.
3597; TAR Puglia Lecce, sez. III,
15.01.2005, n. 143 Tar Puglia-Bari sent.
2843/2004), con un orientamento del tutto
condivisibile, che i sottotetti quando sono
di altezza tale da poter essere suscettibili
d'abitazione o di assolvere a funzioni
complementari, quale quella ad esempio di
deposito di materiali, devono essere
computati ad ogni effetto sia ai fini della
cubatura autorizzabile sia ai fini del
calcolo dell'altezza e delle distanze
ragguagliate all'altezza, non potendo essere
annoverati tra i volumi tecnici
(TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 21.03.2011 n. 1582 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'Amministrazione comunale, cui è
rimessa sul piano istruttorio la delibazione
di conformità urbanistica di ogni progetto
edilizio, deve verificare, tra l’altro, che
esista un idoneo titolo per eseguire le
opere, che assurge a presupposto di
legittimità sia degli interventi che
implicano il rilascio del permesso di
costruire sia di quelli soggetti al regime
semplificato della d.i.a..
Non è seriamente contestabile che nel
procedimento di rilascio dei titoli edilizi
l'amministrazione abbia il potere ed il
dovere di verificare l'esistenza, in capo al
richiedente, di un idoneo titolo di
godimento sull'immobile, interessato dal
progetto di trasformazione urbanistica,
trattandosi di un’attività istruttoria che
non è diretta, in via principale, a
risolvere i conflitti di interesse tra le
parti private in ordine all'assetto
proprietario degli immobili interessati, ma
che risulta finalizzata, più semplicemente,
ad accertare il requisito della
legittimazione del richiedente.
In caso di opere che vadano ad incidere sul
diritto di altri comproprietari, è legittimo
esigere il consenso degli stessi (che può
essere manifestato anche per fatti
concludenti) e che, a maggior ragione,
qualora vi sia un conclamato dissidio fra i
comproprietari in ordine all'intervento
progettato, la scelta dell'amministrazione
di assentire comunque le opere (in base al
mero riscontro della conformità agli
strumenti urbanistici) evidenzia un grave
difetto istruttorio e motivazionale, perché
non dà conto dell’effettiva corrispondenza
tra l’istanza edificatoria e la titolarità
del prescritto diritto di godimento.
Va anzitutto osservato che il primo comma
dell’evocato art. 11 del T.U. sull’edilizia
(e già prima l’art. 4 della legge n. 10 del
1977) dispone –ed analoga previsione è
contenuta nel primo comma dell’art. 23 per
gli interventi soggetti a d.i.a.– che “Il
permesso di costruire è rilasciato al
proprietario dell'immobile o a chi abbia
titolo per richiederlo”.
Tanto premesso, il Collegio ritiene che,
sulla base della normativa richiamata,
l'Amministrazione comunale, cui è rimessa
sul piano istruttorio la delibazione di
conformità urbanistica di ogni progetto
edilizio, deve verificare, tra l’altro, che
esista un idoneo titolo per eseguire le
opere, che assurge a presupposto di
legittimità sia degli interventi che
implicano il rilascio del permesso di
costruire sia di quelli soggetti al regime
semplificato della d.i.a. (cfr. TAR
Campania, Sezione II, 22.09.2006, n. 8243).
Vero è che la giurisprudenza amministrativa
esclude l’esistenza di un obbligo del Comune
di effettuare complessi accertamenti diretti
a ricostruire tutte le vicende riguardanti
l'immobile e, soprattutto in passato, era
prevalentemente orientata nel senso che il
parametro valutativo dell'attività
amministrativa in materia edilizia fosse
solo quello dell'accertamento della
conformità dell'opera alla disciplina
pubblicistica che ne regola la
realizzazione, salvi i diritti dei terzi,
senza che la mancata considerazione di tali
diritti potesse in qualche modo incidere
sulla legittimità dell'atto.
Tuttavia, più recentemente (cfr. per tutte
Consiglio di Stato, Sezione V, 15.03.2001,
n. 1507 e 21.10.2003, n. 6529; TAR Campania,
Sezione II, 29.03.2007 n. 2902), ha avuto
occasione di precisare che la necessaria
distinzione tra gli aspetti civilistici e
quelli pubblicistici dell'attività
edificatoria non impedisce di rilevare la
presenza di significativi punti di contatto
tra i due diversi profili.
In proposito ha, pertanto, chiarito che non
è seriamente contestabile che nel
procedimento di rilascio dei titoli edilizi
l'amministrazione abbia il potere ed il
dovere di verificare l'esistenza, in capo al
richiedente, di un idoneo titolo di
godimento sull'immobile, interessato dal
progetto di trasformazione urbanistica,
trattandosi di un’attività istruttoria che
non è diretta, in via principale, a
risolvere i conflitti di interesse tra le
parti private in ordine all'assetto
proprietario degli immobili interessati, ma
che risulta finalizzata, più semplicemente,
ad accertare il requisito della
legittimazione del richiedente.
Ha, pertanto, concluso nel senso che, in
caso di opere che vadano ad incidere sul
diritto di altri comproprietari, è legittimo
esigere il consenso degli stessi (che può
essere manifestato anche per fatti
concludenti) e che, a maggior ragione,
qualora vi sia un conclamato dissidio fra i
comproprietari in ordine all'intervento
progettato, la scelta dell'amministrazione
di assentire comunque le opere (in base al
mero riscontro della conformità agli
strumenti urbanistici) evidenzia un grave
difetto istruttorio e motivazionale, perché
non dà conto dell’effettiva corrispondenza
tra l’istanza edificatoria e la titolarità
del prescritto diritto di godimento (cfr.
TAR Campania Napoli sez. II sentenza
2681/2010)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 21.03.2011 n. 1581 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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