e-mail
info.ptpl@tiscali.it

APPALTI
CONVEGNI
FORUM
G.U.R.I. - G.U.U.E. - B.U.R.L.
LINK
NEWS PUBBLICATE:
1-aggiornam. pregressi
2-Corte dei Conti
3-
dite la vostra ...
4-dottrina e contributi
5-funzione pubblica
6-giurisprudenza
7-modulistica
8-news
9-normativa
10-note, circolari e comunicati
11-quesiti & pareri
12-utilità
- - -
DOSSIER
:
13-
ABUSI EDILIZI
14-
AFFIDAMENTO IN HOUSE
15-AGIBILITA'
16-APPALTI
17-ARIA
18-ASL + ARPA
19-ATTI AMMINISTRATIVI
20-AVCP
21-BOSCO
22-BOX
23-CARTELLI STRADALI
24-CERIFICAZIONE ENERGETICA e F.E.R.
25
-COMPETENZE GESTIONALI
26
-COMPETENZE PROFESSIONALI - PROGETTUALI
27-CONDOMINIO
28-CONSIGLIERI COMUNALI
29-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
30-DECADENZA P.d.C.
31-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
32-DIA e SCIA
33-DIAP
34-DISTANZE CONFINI
35-DISTANZE CORSI D'ACQUA
36-DISTANZE FERROVIA

37-DISTANZE PARETI FINESTRATE
38-DURC
39-EDIFICIO UNIFAMILIARE
40-ESPROPRIAZIONE
41-IMPUGNAZIONE ATTI: LEGITTIMAZIONE
42-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
43-INCENTIVO PROGETTAZIONE
44-INDUSTRIA INSALUBRE
45-L.R. 12/2005
46-L.R. 23/1997
47-LEGGE CASA LOMBARDIA
48-LOTTO INTERCLUSO
49-MOBBING
50-OPERE PRECARIE
51-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
52-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
53-PRESCRIZIONI P.d.C.
54-PROROGA P.d.C.
55-PUBBLICO IMPIEGO
56-RIFIUTI E BONIFICHE
57-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
58-RUDERI
59-
RUMORE
60-SAGOMA EDIFICIO
61-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE
62-SCOMPUTO OO.UU.
63-SEGRETARI COMUNALI
64-SIC-ZPS - VAS - VIA
65-SICUREZZA SUL LAVORO
66
-
SINDACATI & ARAN
67-SOTTOTETTI
68-SUAP
69-
TELEFONIA MOBILE
70-VINCOLO CIMITERIALE
71-VINCOLO PAESAGGISTICO ED ESAME IMPATTO PAESISTICO
72-VINCOLO STRADALE
73-VOLUMI TECNICI

NORMATIVA:
dt.finanze.it
entilocali.leggiditalia.it

leggiditaliaprofessionale.it

simone.it

SITI REGIONALI
STAMPA
 
C.A.P.
Codice Avviamento Postale

link 1 - link 2
CONIUGATORE VERBI
COSTO DI COSTRUZIONE
(ag
g. indice istat):

link 1-BG - link 2-MI
link 3-CR
DIZIONARI
indici ISTAT:
link 1 - link 2-BG
link 3-MI

interessi legali:
link 1
MAPPE CITTA':
link 1 - link 2 - link 3
link 4 - link 5
METEO
1 - PAGINE bianche
2 - PAGINE gialle
PREZZI:
osservatorio prezzi e tariffe

prodotti petroliferi
link 1
- link 2
PUBBLICO IMPIEGO:
1 - il portale pubblico per il lavoro
2
- mobilità
 

AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di OTTOBRE 2011

Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).  -      segnala un errore nei links                                                                                

aggiornamento al 27.10.2011

aggiornamento al 24.10.2011

aggiornamento al 20.10.2011

aggiornamento al 17.10.2011

aggiornamento al 13.10.2011

aggiornamento al 10.10.2011

aggiornamento al 06.10.2011

aggiornamento al 03.10.2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 27.10.2011

ã

LOMBARDIA: ANCORA SULLA QUESTIONE DELLA SCIA E DEL SILENZIO-ASSENSO SULL'ISTANZA DI PERMESSO DI COSTRUIRE.

     L'ANCI Lombardia ha diffuso, lo scorso 21.10.2011, la bozza del Pdl “Norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico-edilizia” (testo 19.10.2011) ove, in pratica, si tratta del cosiddetto PIANO CASA-BIS con altre modifiche legislative di non poco conto.
     Il Pdl non è stato ancora approvato dalla Giunta Regione e, pertanto, è suscettibile di eventuali modifiche e/o integrazioni prima di essere posto al vaglio delle competenti commissioni regionali e, poi, del Consiglio regionale.
     Più volte abbiamo scritto su questo Portale [e, precisamente il 06.06.2011, il 13.07.2011 ed il 17.10.2011 (nella rubrica UTILITA')] esplicitando le motivazioni per cui
in Lombardia -ad oggi- non si può applicare in materia edilizia l'istituto della Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) e non si può applicare l'istituto del silenzio-assenso alle istanze di permesso di costruire.
     Orbene, la Regione Lombardia col nuovo PIANO CASA-BIS di cui sopra si accinge a recepire l'istituto del silenzio-assenso sulle istanze di permesso di costruire laddove l'art. 14, comma 1, del Pdl così recita:
"Art. 14 (Procedimento per il rilascio del permesso di costruire).
1. Ai fini del rilascio del permesso di costruire si applica la disciplina di cui all’articolo 20 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) (testo A).
".
     E l'art. 20 del DPR n. 380/2011 (come sostituito dall'articolo 5, comma 2, lettera a), legge n. 106/2011) così recita al comma 8:
"
8. Decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui ai commi 9 e 10.".
     Ciò premesso,
la bontà delle nostre argomentazioni sulla NON applicabilità -ad oggi- dell'istituto del silenzio-assenso trova conferma e tutti coloro che ancora oggi sostengono il contrario si devono ricredere senza appello.
     Sulla questione, invece, della cosiddetta Scia possiamo constatare come il Pdl lombardo NULLA dica in merito, ovverosia NULLA abbia recepito di quanto disposto dal
noto D.L. n. 70/2011 convertito con modificazioni dalla legge 12.07.2011 n. 106.
     Conseguentemente, e per l'ennesima volta, non ci resta che rimarcare come  l'odierno legislatore nazionale, col decreto-legge de quo, abbia scritto, nero su bianco, che
"... Le disposizioni di cui all’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 si interpretano nel senso che le stesse si applicano alle denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, con esclusione dei casi in cui le denunce stesse, in base alla normativa statale o regionale, siano alternative o sostitutive del permesso di costruire.". E se è vero, come è vero, che in Lombardia la DIA è alternativa al permesso di costruire senza alcuna limitazione (a parte i nuovi fabbricati in zona agricola ed i mutamenti di destinazione d’uso di cui all’art. 52, comma 3-bis, della L.R. n. 12/2005, assoggettati unicamente al permesso di costruire) e cioè, in altri termini, non esistono interventi edilizi che sono obbligatoriamente soggetti alla DIA, ne deriva una conclusione evidente, chiara, incontrovertibile: in Lombardia NON si può applicare l'istituto della Scia!!
27.10.2011 - LA SEGRETERIA PTPL

ENTI LOCALI - VARI: Bozza provvisoria del decreto crescita.
In quattro parti, ecco il testo base del provvedimento del governo su infrastrutture e sviluppo:
1^ parte - 2^ parte - 3
^ parte - 4^ parte (link a www.lastampa.it).

SINDACATI

ENTI LOCALI: Manovra-bis: la disciplina dei servizi pubblici locali - Le società di proprietà pubblica e i loro dipendenti (CGIL-FP di Bergamo, nota 24.10.2011).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALI Niente tagli al portavoce. Corte conti Liguria sulla stretta del dl 78/2010.
L'incarico di portavoce del sindaco, che si colloca all'interno delle disposizioni previste dalla legge n.150/2000, rappresenta la realizzazione di una finalità dell'amministrazione, che è quella di assicurare la comunicazione politica-istituzionale secondo gli indirizzi stabiliti dal vertice dell'amministrazione pubblica. Per tale motivo all'indennità prevista per tale funzione non si applicano i tagli disposti dall'articolo 6, comma 7, del dl n. 78/2010.

È quanto ha messo nero su bianco la Corte dei conti Liguria, nel testo del parere 19.10.2011 n. 70, rispondendo a un quesito posto dal comune di Santa Margherita Ligure, per sapere se tra i tagli alla spesa annua per studi e consulenze, dovesse rientrare anche l'indennità prevista per la funzione di portavoce del sindaco.
Il collegio della Corte ligure ha rilevato che l'incarico di portavoce non configura una mera consulenza, ma rappresenta la realizzazione di una finalità dell'ente, ovvero quella di assicurare la comunicazione politica-istituzionale secondo gli indirizzi stabiliti dal vertice della p.a.
La legge n. 150/2000, infatti, ha immesso nell'ordinamento il concetto di comunicazione pubblica, riconoscendo alla stessa il carattere di risorsa prioritaria e strutturale, legittimandone e prevedendone la diffusione in ogni momento e settore della pubblica amministrazione. Il portavoce è legato da un totale rapporto fiduciario al soggetto/organo che egli rappresenta, collaborando in prima persona nei rapporti di carattere politico-istituzionale con gli organi d'informazione e per il suo incarico non viene previsto un contratto, ma solo un'indennità stabilita dall'organo di vertice.
È una figura innovativa, ha proseguito il collegio, «che coniuga un'elevata competenza professionale con un rapporto di fiducia e di appartenenza con il capo dell'amministrazione, di cui deve essere capace di comunicare scelte, orientamenti e strategie».
Tali caratteristiche, pertanto, rendono evidente che la spesa relativa all'indennità per il portavoce, esula in realtà dalla disciplina degli incarichi di studio e di consulenza di cui all'art. 6, comma 7, del dl n. 78/2010. Se così non fosse, infatti, si vanificherebbero gli effetti voluti dalla legge n. 150/2000, che ha individuato nel portavoce «una figura precisa di raccordo con il vertice dell'amministrazione per assicurare la comunicazione politica-istituzionale» (articolo ItaliaOggi del 25.10.2011 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOIn comune dirigenti con la laurea. Il titolo di studio è essenziale. Anche per i contratti a termine. La Corte conti stoppa il tentativo del sindaco di Milano di nominare manager senza requisiti.
Negli enti locali, la mancanza del diploma di laurea impedisce lo svolgimento della funzione di dirigente a tempo determinato, anche se in presenza dei requisiti di comprovata esperienza professionale. Infatti, come prevede l'articolo 19, comma 6, del dlgs n. 165/2001, il possesso del diploma di laurea è presupposto inderogabile per il conferimento di un incarico dirigenziale negli enti locali, in quanto si tratta di un requisito di base e necessariamente propedeutico per l'accesso alla qualifica dirigenziale.
È quanto ha messo nero su bianco la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia, nel testo del recente parere 11.10.2011 n. 504, rispondendo in tal senso a una richiesta pervenuta dal sindaco di Milano, Giuliano Pisapia.
L'istanza formulata dal primo cittadino milanese, infatti, tendeva a conoscere se a soggetti esterni all'organigramma del comune, in possesso di particolari e comprovate qualifiche professionali, con maturata esperienza in funzioni dirigenziali per almeno un quinquennio, si potesse conferire incarichi dirigenziali con rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato, pur in mancanza del possesso del diploma di laurea.
A sostegno della possibilità di poter instaurare tali rapporti, Pisapia ha rilevato che dalla lettura del citato articolo 19, comma 6, sembrerebbe che i requisiti culturali, professionali e di comprovata esperienza siano tra loro alternativi. In poche parole, secondo il titolare di palazzo Marino, soggetti privi di laurea, ma in possesso di particolari specializzazioni professionali, culturali o scientifiche, potrebbero essere incardinati nei ruoli della dirigenza comunale.
Una fattispecie che ricorda da vicino la sentenza della Corte dei conti Toscana (si veda ItaliaOggi del 22 ottobre scorso), che ha condannato gli amministratori di un comune per aver conferito la funzione di direttore generale a un soggetto privo di laurea, in quanto la mancanza del titolo ha reso la prestazione lavorativa per l'ente assolutamente inadeguata. Il collegio della magistratura contabile non è stato dello stesso avviso della prospettazione di Pisapia. Infatti, come disciplinato dal più volte citato articolo 19, comma 6, del dlgs n. 165, il requisito del possesso del diploma di laurea è necessario per il conferimento di un incarico dirigenziale negli enti locali, così come nelle altre amministrazioni che rientrano nell'alveo delle pubbliche amministrazioni, in quanto «si tratta di un requisito di base e necessariamente propedeutico per l'accesso alla qualifica dirigenziale».
È pur vero, ha rilevato la Corte, che l'art. 110 del Tuel e la disciplina introdotta dall'art. 19, comma 6, del dlgs n. 165 del 2001, consentono l'accesso di soggetti particolarmente qualificati alla dirigenza a tempo, prevedendo che i soggetti che possono rientrare in questa categoria debbono possedere alcuni requisiti di specifica preparazione ed esperienza professionale, ma occorre evidenziare che «le previsioni normative in esame non sono sostitutive del requisito di base del possesso della laurea ma sono aggiuntive, nel senso che purché in possesso del diploma di laurea i soggetti che siano dotati di uno dei requisiti delineati nell'art. 19, c. 6, possono ottenere un incarico dirigenziale temporaneo».
Un orientamento che la stessa sezione del controllo (cfr. parere n. 20/2006), aveva già espresso, nel senso della necessaria compresenza di entrambi i presupposti, diploma di laurea ed esperienza lavorativa, affinché si possa dar corso al conferimento degli incarichi dirigenziali (articolo ItaliaOggi del 25.10.2011 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: quando scatta il danno erariale?
Molto interessante la sentenza 23.05.2011 n. 2028 della Sez. siciliana della Corte dei Conti.
Oltre che sui diversi profili processuali, i giudici si sono soffermati su una fattispecie di danno erariale relativa ad un’ipotesi di mobbing da cui è scaturita una perdita per l’erario per essere stata l’amministrazione costretta a risarcire il danno subito dal mobbizzato.
Quando il mobbing è causa di danno erariale.
In sostanza, il mobbing è causa di danno erariale nel caso in cui il dipendente “maltrattato” ottenga dalla sua amministrazione il risarcimento del danno per le vessazioni subite dai superiori ovvero nel caso in cui sia la stessa amministrazione a versare una somma in via transattiva tacitando le ulteriori pretese risarcitorie. Il giudice contabile -pur discostandosi in parte dalla originaria domanda risarcitoria- ha aderito alla tesi di fondo e ha accertato che le somme versate al lavoratore dalla sua amministrazione (un Comune siciliano) devono essere rifuse alla stessa dal dirigente che ha tenuto la condotta mobbizzante.
È questa un’ipotesi di danno indiretto, di danno cioè prodotto all’amministrazione per effetto di somme che la stessa è stata obbligata a versare per colpa di un suo dipendente a terzi, circostanza che fa sorgere in capo alla stessa il diritto di rivalsa, il cui esercizio è affidato alla procura contabile in veste di sostituto processuale. Fondamento del diritto di rivalsa è l’art. 28 della Costituzione, nel quale è espressamente previsto che “I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.
Tale disposizione sul piano civilistico introduce una responsabilità solidale, diretta e paritaria del dipendente e dello Stato. Ne deriva che il terzo leso può rivolgersi ad entrambi per esercitare la pretesa risarcitoria: ma è evidente che l’azione sarà rivolta più agevolmente nei confronti dello Stato per ottenere un sicuro soddisfacimento, considerata la certa solvibilità della PA. La scelta del legislatore costituente deve individuarsi evidentemente nella necessità di dare massima copertura risarcitoria ai terzi danneggiati, in considerazione del fatto che il pubblico dipendente verso l’esterno si presenta –ed è percepito- come parte dell’amministrazione (recte, come l’amministrazione stessa) in cui presta servizio.
Gli atti a cui fa riferimento l’art. 28 della Carta fondamentale sono gli atti d’ufficio, intesi in termini di omissioni e attività che il funzionario o il dipendente compie nell’esercizio dei poteri che gli spettano in quanto titolare dell’ufficio. In questa accezione sono compresi anche gli atti compiuti “in occasione dell’ufficio”, in relazione ai quali presupposto necessario è l’esistenza di un rapporto di servizio fra l’agente che ne è l’autore e l’ente di cui questi fa parte.
Ne consegue che l’obbligo di risarcimento della pubblica amministrazione sorge solo se intercorre un rapporto di servizio tra questa e l’agente, che è presupposto necessario per quella “estensione” della responsabilità agli enti pubblici di cui all’art. 28 della Costituzione, e se l’illecito sia stato commesso nell’esercizio delle incombenze inerenti al posto ricoperto.
Come detto, secondo una dottrina autorevole, in difetto di ogni specificazione normativa, tra questi vi sarebbe concorrenza alternativa e, quindi, paritarietà, di tal che il danneggiato può rivolgersi (alternativamente o congiuntamente, ma non cumulativamente) –sempre che ne ricorrano le condizioni (e sempre che l’agente sia in colpa perseguibile)– tanto verso l’agente che verso l’amministrazione, salvo a quest’ultima il diritto di pretendere a sua volta dall’agente il ristoro per il sacrificio patrimoniale subito per soddisfare l’obbligo di risarcimento da lui provocato.
Il principio della solidarietà passiva previsto dalla Carta costituzionale è poi stato ripreso dagli artt. 22 e seguenti del Dpr 10.01.1957 n. 3, della cui vigenza non si dubita neppure dopo la c.d. privatizzazione del pubblico impiego, in considerazione del richiamo espresso effettuato dall’art. 55, comma 2, del Dlgs 30.03.2001 n. 165, come modificato di recente dal comma 1 dell’art. 68 del Dlgs 27.10.2009 n. 150, secondo cui resta “ferma la disciplina in materia di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile”. Il citato art. 22, inserito nella rubrica “responsabilità verso terzi”, prevede la personale responsabilità dell’impiegato che cagioni ad altro un danno ingiusto, che deve intendersi il danno derivante da ogni violazione dei diritti di terzi commessa con dolo o colpa grave.
È fin troppo evidente la sostanziale differenza sussistente tra i criteri di imputazione della responsabilità del dipendente e quelli di imputazione della pubblica amministrazione: il primo risponde solo se si ravvisa almeno la colpa grave, la seconda anche in caso di colpa ai sensi dell’art. 2043 c.c. L’innalzamento della soglia della punibilità per il lavoratore pubblico risponde alla logica di alleggerire in generale la responsabilità dei funzionari e dei dipendenti pubblici.
In tale evenienza, peraltro, l’indagine del giudice contabile per accertare i fatti causativi della deminutio patrimonii non si riduce nell’adesione alle risultanze del giudicato civile –ove vi sia stato- ma si basa sempre su una rilettura della fattispecie al fine di formare un suo libero convincimento. A parte la differenza sul piano dell’elemento psicologico, possono rilevarsi anche forti difformità sulla quantificazione del danno risarcibile, da cui deriva che non sempre la rivalsa fa incassare alla PA quanto ha versato ai terzi danneggiati.
Nell’azione susseguente di rivalsa per danno indiretto, il giudice contabile -hanno stigmatizzato, proprio, i giudici siciliani- dovrà, al fine di addivenire ad una sentenza di condanna nei confronti degli amministratori che hanno agito, individuare la colpa grave dell’agente pubblico e, successivamente, al fine di assicurare una corretta quantificazione della condanna, dovrà valutare l’eventuale vantaggio comunque conseguito dall’amministrazione o dalla comunità di riferimento, con il comportamento, pur per altri versi dannoso, da lui tenuto, potendo, inoltre, ricorrere anche all’applicazione del potere riduttivo.
Non deve essere sottaciuto che il giudice contabile “ove giunga a pronunce diverse da quelle prese del giudice ordinario, deve adeguatamente e puntualmente motivarle, anche in specifico riferimento alla diversa ricostruzione, interpretazione o valutazione dei fatti di causa comuni e del relativo materiale probatorio” (Corte conti, sez. III appello, n. 623/2005).
Ne deriva che i due giudici possono giungere a una diversa conclusione.
Il caso di specie è, appunto, espressione della richiamata disciplina, poiché la Corte arriva alla conclusione di ritenere responsabile del danno il superiore del dipendente vittima di mobbing per una somma pari a un terzo di quella versata allo stesso dall’amministrazione.
I fatti da cui ha tratto origine il danno erariale.
Era accaduto che la vittima del mobbing, un impiegato della polizia municipale di un paese della Sicilia -qualifica D1, vigile urbano più anziano ed alto in grado al momento in servizio– si era visto trasferire più volte e, da ultimo, negare il posto di comandante dei vigili urbani al momento della vacanza del posto per le dimissioni volontarie del titolare ovvero la reggenza dello stesso che era assegnata ad interim al segretario generale.
Costui si era rivolto al giudice del lavoro per essere reintegrato nel suo posto che gli era stato sottratto e successivamente per ottenere il riconoscimento del suo diritto al risarcimento dei danni per condotta, a suo dire mobbizzante, tenuta nei suoi confronti dall’amministrazione comunale. Il ricorso, in cui venivano descritti episodi di mortificazione, di emarginazione ed isolamento tenuti nei suoi confronti, era accolto e l’amministrazione comunale era condannata al risarcimento dei danni.
Numerose erano state le vessazioni:
- la mancata attribuzione delle funzioni indicate nella sentenza del giudice del lavoro;
- la collocazione del dipendente in locali distaccati rispetto ai colleghi;
- i diversi episodi di mortificazione posti in essere dei confronti dello stesso, descritti nella sentenza di condanna per mobbing;
- mancata inclusione nei turni e nello svolgimento di mansioni che assicurino la percezione di diverse indennità.
La Corte d’appello di Catania aveva riformato la sentenza del primo giudice, confermando tra l’altro l’impossibilità, già riconosciuta dal giudice di primo grado, di rimuovere il vice comandante dei vigili urbani dalle sue funzioni, e riconoscendo come unico limite a tale divieto, l’incompatibilità ambientale, innegabilmente emersa dai fatti di causa e, pertanto, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto legittimo il trasferimento del dipendente leso.
Il Comune, in ogni caso, aveva deciso di non impugnare la sentenza di condanna per mobbing e di addivenire, quindi, ad una transazione con la parte vincitrice al solo fine di dilazionare il pagamento, successivamente avvenuto con l’approvazione di un debito fuori bilancio.
La decisione del giudice contabile
La Corte dei conti ha individuato un unico responsabile, assolvendo il sindaco e il direttore generale. Come detto, il responsabile è stato identificato nel diretto superiore della parte lesa, sulla scorta di una serie di prove schiaccianti che hanno permesso di accertare la chiara volontà di questi di volere vessare il suo subalterno con l’intento anche di eludere il giudicato del giudice del lavoro che aveva disposto la sua reintegrazione.
Altamente probante (e oltremodo imbarazzante) era stato l’episodio della riunione appositamente convocata dal comandante stesso in un bar di un’area di servizio al fine di informare, in un luogo ben lontano dalla sede di lavoro, gli altri vigili urbani in servizio presso il Comune dell’imminente rientro del vice comandante mobbizzato presso il settore Polizia municipale. In quell’occasione costui aveva informato i colleghi del fatto che questi non avrebbe però preso servizio presso il Comando, ma presso i locali del Palazzo di città; li aveva invitati poi a non prendere ordini da questi, sebbene loro superiore, e di rivolgersi sempre a lui.
La scelta di collocarlo presso uffici diversi da quelli del Comando rispondeva a un intento altamente persecutorio: il mobbizzato, pur rientrato nel settore di Polizia municipale, era stato, di fatto, isolato presso locali diversi da quelli del Comando; non gli era stata fornita una stanza né l’attrezzatura idonea per lavorare ed i locali a lui destinati ospitavano, al momento del suo arrivo, una mostra di decoupage che era durata per tutta l’estate. Dopo oltre un biennio, non era stato ancora dotato di una divisa e dell’arma; non aveva, rispetto alle unità di personale a lui sottoposte, alcun potere, ingerendo il dirigente superiore anche sulla gestione delle stesse unità.
L’atteggiamento persecutorio e discriminatorio si era rivelato in sede di valutazioni del personale. Al dipendente, infatti, il suo superiore, nella qualità di dirigente del servizio, aveva dato punteggi di valutazione quasi pari allo zero ciò, a suo dire, in ragione di alcune ripetute assenze dal posto di lavoro. Era emerso che -sulla base di testimonianze- il dirigente aveva “‘ritoccato’ le valutazioni assegnate in modo tale da determinare un esiguo valore totale assegnato […].
Il disegno discriminatorio posto in essere dal mobber si era spinto sino all’idea di isolare il mobbizzato dai suoi colleghi. Rappresentativo era stato l’episodio dato dalla trasferta ad Avola per rendere testimonianza innanzi al Tribunale di alcuni vigili urbani. In quella occasione al solo mobbizzato era stato riservato inspiegabilmente un mezzo di trasporto diverso dagli altri. Così mentre tutti i colleghi viaggiavano insieme su di un’auto, questi viaggiava isolato su di un’auto diversa.
Pur se quelli richiamati erano singoli episodi, la Corte è giunta al convincimento di ritenerli tutti collegati in quanto parte di un disegno vessatorio e discriminatorio ordito dal superiore al solo fine di distruggere psicologicamente e annichilire il suo subalterno. Ciò in linea con i principi della Cassazione (sez. un., 04.05.2004, n. 8438; 29.12.2005, n. 19053), secondo al quale, al fine di valutare una condotta come mobbizzante, non deve guardarsi ai singoli atti posti in essere, che potrebbero rivelarsi anche intrinsecamente legittimi, ma allo specifico intento di chi li ha posti in essere ed alla sua protrazione nel tempo, che distingue detta condotta mobbizzante, anche da singoli atti illegittimi. I principi esposti dalla Suprema corte sono utili ai fini della corretta valutazione dei fatti posti alla base della vicenda in esame.
Alla luce di ciò, secondo la Corte, il complessivo comportamento tenuto dal mobber denota una condotta non orientata ad assicurare una sana gestione della cosa pubblica, bensì di una condotta sprezzante dei più elementari principi di correttezza e efficienza dell’azione amministrativa, palesemente finalisticamente orientata alla realizzazione di interessi personali anziché all’attuazione del pubblico interesse e, come tale, quindi, gravemente colposa.
La Corte ha fatto, peraltro, ricorso all’esercizio del potere riduttivo richiamando a giustificazione il clima altamente conflittuale, chiaramente manifestatosi sin dall’inizio dell’intera vicenda, che avrebbe inasprito i rapporti fra i protagonisti della vicenda (tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

ENTI LOCALIPersonale, l'irrigidimento della Corte conti danneggia gli enti. L'analisi/ a rischio l'autonomia delle amministrazioni locali.
L'irrigidimento delle modalità di calcolo della spesa di personale, portato avanti negli ultimi mesi dalla Corte di conti, compromette la funzionalità di importanti servizi erogati ai cittadini ed è relativo ad una norma che lo stesso organo considera in dubbio di legittimità costituzionale, in quanto viola i principi di autonomia organizzativa degli enti locali.
Con la deliberazione 12.05.2011 n. 27 le sezioni riunite della Corte hanno affermato il principio secondo il quale la voce spesa di personale assume una composizione diversa a seconda che si riferisca agli obiettivi del patto di stabilità ovvero al fine del contenimento della spesa.
In particolare nel meccanismo di raffronto spesa corrente/spesa di personale, dovrebbe essere utilizzata una nozione di spesa che tenga conto di tutte le componenti, sia incluse che escluse dall'applicazione del comma 557 della Finanziaria 2007, così come novellato dal dl n. 78/2010, in quanto non si tratta di un mero obbligo di riduzione della spesa, ma di un limite strutturale alle assunzioni. Il principio è stato anticipato con il questionario al bilancio di previsione 2011, allegato alle linee guida, che deve essere presentato dal collegio dei revisori. Al punto 7.4 del questionario la spesa del personale, da rapportare alla spesa corrente, non tiene conto delle esclusioni, che comunque sono indicate nello stesso prospetto, generando, negli stessi revisori, dubbi di compilazione.
In un ambito così influente per l'attività degli enti si segnala la totale assenza di una previsione normativa che indichi con certezza e in modo definitivo le componenti dell'aggregato spesa di personale, con particolare riferimento alle voci da includere e quelle da escludere. In mancanza, si ritiene che la normativa in tema di personale degli enti locali ha come obiettivo la riduzione progressiva della relativa spesa e pertanto le azioni da intraprendere e i limiti da rispettare, vanno considerati insieme nella loro finalità, anche se agiscono con procedure e modalità differenti: la serie storica, per la riduzione, e il rapporto nello stesso periodo tra due diversi aggregati di bilancio, nel caso della percentuale. Lo stesso comma 557, anche nella versione novellata, indica le misure organizzative necessarie ad assicurare il raggiungimento dell'obiettivo di contenimento iniziando con una riduzione dell'incidenza percentuale spesa di personale/spesa corrente.
È la stessa Corte dei conti che nella propria deliberazione riconosce che il rapporto in esame converge al generale intento di riduzione della spesa di personale. Per tale motivo il riferimento all'intervento 01 della spesa corrente non è appropriato, ma è necessario tener conto della qualità della spesa. Per la Corte la lettura delle disposizioni sembrerebbe escludere, ai fini del calcolo della percentuale, un'esatta coincidenza tra l'aggregato spese di personale per la verifica dell'obbligo di riduzione, ex comma 557, e l'aggregato da utilizzare ai fini del calcolo della percentuale sulla spesa corrente e pertanto appare utile, e maggiormente coerente, prendere in considerazione la spesa di personale nel suo complesso.
Le conclusioni della deliberazione non sono per nulla condivisibili, anche in considerazione del fatto che non si ben comprende a chi appare utile e a cosa è maggiormente coerente una tale nozione della spesa di personale. Circa il significato dell'espressione spese di personale, che non ha subito alcuna modifica testuale con il dl n. 78/2010, la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti nella deliberazione n. 16/2009 ha affermato che nel quadro delle disposizioni in materia e della ratio che sta alla base, non sembra corretto definire la categoria della spesa per il personale in termini formali e nominalistici, riconducendo, pertanto, ad essa qualsiasi somma pagata al dipendente.
È necessario, continua la Corte, far riferimento sia alla natura della singola spesa sia all'impatto che ha sulla gestione finanziaria dell'ente. Ricomprendere tutte le spese vuol dire conteggiare anche oneri coperti da finanziamenti comunitari o da sponsorizzazioni. Lo stesso dicasi per le spese finanziate con i proventi delle violazioni al codice della strada o i proventi per il recupero dell'evasione tributaria o della progettazione interna che sono, con principio ormai consolidato, esclusi dal calcolo dell'aggregato spesa di personale. Lo stesso dicasi per i rinnovi contrattuali, la cui esclusione è fissata dal comma 557.
Già con la modifica normativa del 2010 la Corte conti Toscana ha ritenuto che l'aggregato spesa di personale debba essere lo stesso anche per il calcolo della percentuale, in quanto la logica ispiratrice è unitaria ed univoca. Pertanto, l'aggregato spesa di personale non può che essere unico sia per la determinazione dell'obiettivo della riduzione che per il calcolo della percentuale sulle spese correnti (articolo ItaliaOggi del 26.10.2011 - tratto da www.corteconti).

NEWS

INCARICHI PROGETTUALIProgettazioni, gare in estinzione. A causa dell'innalzamento della soglia per gli affidamenti. Dopo le modifiche al Codice appalti e l'approvazione del senato allo Statuto di impresa.
Il mercato delle gare dei servizi di ingegneria e architettura rischia di sparire dopo le recenti modifiche normative che cancellano le gare nazionali (fino a 193 mila euro) a vantaggio di affidamenti diretti e trattative private; viceversa viene rafforzato lo spazio operativo delle progettazioni interne alle stazioni appaltanti.

Ed è allarme rosso fra i progettisti. Tutto ciò accade dopo il varo delle modifiche al Codice di luglio e la recente approvazione al Senato del disegno di legge «Statuto di impresa» in attesa dell'approvazione, in terza lettura, della Camera (ma dovrebbe trattarsi di una formalità). Con quest'ultimo provvedimento si porta a 125 mila euro (per le amministrazioni centrali dello Stato) e a 193 mila per tutte le altre stazioni appaltanti, la soglia fino alla quale è ammesso scegliere i progettisti con una gara informale previo invito di cinque soggetti.
Si va, quindi a toccare, l'articolo 91, comma 2 del Codice che rinvia all'articolo 57, comma 6 del Codice per la scelta dei progettisti quando un incarico risulti di importo inferiore a 100 mila euro e, quindi, ammette la scelta con una sorta di gara informale con invito a cinque soggetti scelti a seguito di indagine di mercato, ma in pratica fortemente discrezionale e senza trasparenza successiva. La materia è disciplinata anche dal regolamento del Codice (dpr 207/2010) nel presupposto, però che vi sia anche una fascia di incarichi (da 100 mila a 193 mila) affidabile con ordinaria gara, senza inviti limitati a pochi soggetti.
Invece con la norma approvata in Aula (dopo che in Commissione industria era stata soppressa) si cancellano di fatto le gare nazionali (sotto la soglia dei 193 mila euro di importo stimato) e si rende obbligatorio il ricorso alla procedura negoziata con invito a cinque da 40 mila a 193 mila. Questo recente intervento normativo si somma infatti al precedente ritocco apportato dal decreto-legge 70/2011 che ha portato da 20 mila a 40 mila il tetto fino al quale le stazioni appaltanti potranno sceglie addirittura fiduciariamente, in via diretta, l'affidatario dei servizi.
Dietro ad entrambe le operazioni c'è lo zampino della Lega che ha caldeggiato la modifica di luglio e che, con il disegno di legge «Statuto di impresa», ha portato a compimento un vero e proprio blitz con un emendamento in Aula (del senatore Luciano Cagnin) approvato nella quasi indifferenza generale. Ma non è tutto: di recente anche la Corte dei conti, con la delibera n. 51 del 4 ottobre, ha escluso gli incentivi per la progettazione interna di opere pubbliche (che vanno al Rup, stazione unica appaltante, e ai tecnici comunali) dal tetto di spesa per il personale degli enti locali.
Al riguardo la magistratura contabile sembra essere stata chiara: gli incentivi sono «destinati a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o individuabili e che peraltro potrebbero essere acquisite attraverso il ricorso all'esterno dell'amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi per il bilancio dei singoli enti». Per il Centro studi del Cni, Consiglio nazionale ingegneri, (dati riferiti al 2009) si tratta dell'8,7% del mercato complessivo, per un valore di 1,48 miliardi di corrispettivo sottratto al libero mercato.
Le prospettive sono quindi fosche, tanto che l'Oice, con il presidente Gabriele Giacobazzi, ha sottolineato come la recente norma approvata al Senato «renda discrezionali il 92% degli affidamenti e incentiva fortemente il processo di suddivisione degli incarichi di rilievo comunitario e oltre, con un quasi certo e annunciato azzeramento delle gare comunitarie». Senza parlare dei costi, dal momento che in una trattativa privata, di norma, il prezzo è più alto di almeno il 15-20% (articolo ItaliaOggi del 26.10.2011 - tratto da www.corteconti).

ENTI LOCALIUna tassa pigliatutto per i sindaci. Ingloberà rifiuti, illuminazione, manutenzione e sicurezza. Service tax nel primo decreto correttivo del fisco municipale (ancora in fase di stesura).
Una tassa in più a beneficio dei comuni. La service tax, ossia l'imposta unica che i cittadini dovranno pagare ai sindaci per la fruizione dei cosiddetti servizi indivisibili (illuminazione, manutenzione strade, sicurezza, pulizie), verrà portata in dono dal decreto correttivo del fisco municipale approvato lunedì in tarda serata dal consiglio dei ministri (si veda ItaliaOggi del 18/10/2011).
Il nuovo tributo a beneficio dei sindaci ingloberà anche la tassa rifiuti nelle sue varie articolazioni (Tarsu, Tia1 o Tia2).
In realtà più che di un'approvazione vera e propria si è trattato di un via libera «sulla fiducia» visto che il decreto è stato oggetto di trattativa per tutta la giornata di ieri. E un testo ufficiale non è ancora stato trasmesso alla Commissione bicamerale guidata da Enrico La Loggia che oggi riprenderà i lavori con l'audizione del Comitato dei 12.
Il destino della tassazione sui rifiuti è rimasto in bilico fino all'ultimo. Il Pd e anche il ministro della semplificazione Roberto Calderoli (che a marzo le tentò tutte per cercare di convincere Silvio Berlusconi a introdurre il nuovo tributo, scontrandosi però con il veto del premier) non hanno mai fatto mistero di voler inglobare Tarsu e Tia nella service tax. Ma per farlo hanno dovuto superare i rilievi dell'Unione europea che ha avanzato dubbi sulla possibilità di quantificare la parte variabile della tariffa, quella legata all'effettiva produzione di rifiuti. «Rilievi superabili», ha fatto notare Marco Causi, deputato Pd e vicepresidente della Bicamerale, «perché in Francia c'è una tassa molto simile che ingloba anche il prelievo sui rifiuti».
La service tax si pagherà per tutti quei servizi comunali non tariffabili e non a domanda individuale. L'illuminazione pubblica per esempio, ma anche la pulizia delle strade e la sicurezza. «Il comune definirà il costo totale dei servizi con delibera del consiglio e la cifra verrà divisa tra tutti i cittadini residenti in misura proporzionale al valore e alla grandezza dell'immobile», spiega Causi. «In pratica quello che accade nei condomìni quando c'è da ripartire le spese». Il meccanismo dovrà essere corretto in rapporto al quoziente familiare.
Per i comuni la service tax potrebbe essere una bella boccata d'ossigeno perché consentirebbe di finanziare da sola i costi di una lunga serie di servizi che oggi pesano non poco sui bilanci locali. E in più avrebbe il pregio di gravare sui cittadini residenti, ripristinando quel circolo virtuoso pago-vedo-voto che dovrebbe costituire l'essenza del federalismo fiscale e che invece risulta essere piuttosto impalpabile vista la decisione del governo di continuare a non tassare la prima casa. L'Ici oggi e l'Imu domani non riguardano infatti i cittadini residenti. La service tax per forza di cose sì.
Il decreto approvato dal consiglio dei ministri anticipa di un anno (dal 2014 al 2013) l'entrata in vigore dell'Imposta municipale. E sostituisce la compartecipazione Iva, ritenuta dai sindaci troppo sperequata a livello territoriale, con quella all'Irpef. La cifra totale su cui potranno contare i comuni sarà la stessa (2,9 miliardi di euro) ma cambierà la ripartizione del gettito a livello municipale (articolo ItaliaOggi del 26.10.2011).

APPALTIPmi, semplificato l'accesso alle gare.
Accesso semplificato alle gare d'appalto per le piccole e medie imprese. Le gare saranno assegnate non solo in base al criterio dell'offerta più bassa, ma anche in base a quello dell'offerta più innovativa o con un miglior impatto ambientale.
Saranno queste le proposte di riforma che la Commissione europea presenterà dicembre. Intanto, però, una risoluzione preparata dal deputato Heide Rühle (Verdi) e approvata dal Parlamento Ue anticipa le proposte legislative di riforma dell'esecutivo di Bruxelles.
«In questa crisi profonda, abbiamo bisogno di regole chiare: solo così le autorità pubbliche potranno sostenere innovazione e crescita», ha detto la relatrice durante il dibattito.
Fra le varie proposte approvate dall'Aula per semplificare le procedure di assegnazione di un appalto vi è la creazione di un passaporto elettronico che certifichi rapidamente il rispetto, da parte dell'impresa in gara, delle regole comunitarie in materia.
I deputati, per semplificare ulteriormente l'iter amministrativo, hanno proposto l'autocertificazione sul possesso dei requisiti per partecipare all'appalto. In pratica la richiesta della documentazione originale da parte delle autorità si farà solo per le imprese selezionate per la fase finale della gara.
Le norme semplificate per le pmi partono da un dato di fatto. Le piccole imprese ottengono una percentuale di contratti pubblici minore rispetto al loro peso nell'economia europea: circa il 31-38% rispetto a una partecipazione globale all'economia stimata al 52%. Il motivo principale, secondo il Parlamento, sono le procedure di accesso agli appalti, oggi troppo complicate e costose.
L'aula di Strasburgo per questo ha proposto di suddividere in lotti gli appalti in modo da garantire alle piccole e medie imprese migliori possibilità di partecipazione alle gare. I deputati hanno chiesto inoltre alla Commissione di verificare «se per il subappalto siano necessarie nuove norme, ad esempio l'istituzione di una catena di responsabilità» per evitare che le pmi subappaltatrici siano soggette a condizioni peggiori di quelle applicabili all'impresa principale che si è aggiudicata l'appalto.
Infine, per gli eurodeputati il criterio del «prezzo più basso» non dovrebbe più essere un fattore determinante per l'assegnazione dei contratti, ma dovrebbe essere sostituito da criteri più ampi che includano l'impatto sociale e ambientale della proposta e prendano in considerazione l'intero ciclo di produzione del bene o del servizio in appalto (articolo ItaliaOggi del 26.10.2011).

APPALTI:  Stop alla direttiva sul ritardo dei pagamenti. Per la commissione bilancio della camera costa troppo.
Slitta l'applicazione in Italia della direttiva europea sul ritardo dei pagamenti (direttiva 2011/7/Ue del 16/02/2011).
Ieri, la commissione bilancio della camera ha chiesto che il provvedimento sia tolto dalla legge comunitaria 2011. Il motivo? Applicarla costa troppo alle casse dello stato. Almeno per il momento. Così, se l'aula di Montecitorio dovesse far proprio l'orientamento della commissione, il recepimento della direttiva, che regola i tempi di pagamento di tutte le transazioni commerciali, sarà congelato.
I deputati, nel dire stop hanno votato un parere da inoltrare alla commissione politiche Ue. Nel parere si chiede a chiare lettere di rinviare l'adozione delle norme. Secondo quanto risulta a ItaliaOggi, l'aut aut è giunto direttamente dal ministero dell'economia.
La direttiva stabilisce che, a partire dal 16.03.2013, il periodo di pagamento nelle transazioni commerciali tra imprese non superi in linea generale i 60 giorni, anche se sono ammesse deroghe. Nei contratti con le imprese, invece, la pubblica amministrazione sarà tenuta a pagare entro 30 giorni prorogabili a 60 solo in caso, tra l'altro, di enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria. In caso di ritardo nel saldo delle fatture, l'Ue ha stabilito l'obbligo di pagamento degli interessi di mora.
Lo stop. Tutto parte da Massimo Polledri (Lnp), relatore sulla Comunitaria 2011 presso la commissione bilancio. Il deputato ha chiesto un chiarimento in merito alla commissione. In particolare Polledri si è interrogato sull'opportunità o meno di dar via libera alla direttiva, visto che, simili emendamenti, allegati però al ddl Comunitaria 2010, erano stati bocciati proprio dalla commissione bilancio.
Con la comunitaria 2011, poi, l'impegno al recepimento è stato anche rafforzato, poiché la direttiva sui pagamenti è stata inserita direttamente nel testo iniziale dl ddl. Al quesito proposto da Polledri ha risposto il governo, nella persona del sottosegretario all'economia Bruno Cesario (Responsabili). Il sottosegretario ha riportato una nota della Ragioneria dello stato, che ha messo in guardia sugli effetti finanziari dell'adozione delle nuove regole.
In particolare, secondo il dipartimento guidato da Mario Canzio, il recepimento della direttiva avrebbe potenziali effetti negativi sulla finanza pubblica; per l'esattezza «profili di onerosità». Sulla base di questa nota il relatore Polledri ha proposto alla commissione bilancio di cancellare ogni riferimento all'adozione della direttiva dall'allegato alla Comunitaria 2011. Tutto ciò, va detto, non costerà nulla all'Italia per il momento.
Il recepimento nell'ordinamento italiano della direttiva sui ritardati pagamenti dovrà avvenire entro maggio del 2013. Se Montecitorio dovesse accettare il parere della commissione bilancio, dunque, al momento non scatterebbero procedure di infrazione.
Né messe in mora da parte di Bruxelles. Ma, un effetto è chiaro da subito: lo stop del governo arriva per motivi legati ai tempi di pagamento imposti alla pubblica amministrazione (30 giorni al massimo) e, soprattutto, per la gravosità delle sanzioni che scatterebbero in capo alle p.a. irrispettose di questo limite.
Tutto ciò nonostante esista già il dlgs 231/2002, che prevede tempi di pagamento stringenti; un provvedimento mai rispettato dalle p.a., visto che, secondo gli ultimi dati diffusi dall'Ance, oggi le pubbliche amministrazioni pagherebbero a otto mesi (articolo ItaliaOggi del 26.10.2011).

EDILIZIA PRIVATAArmi spuntate contro la Scia. Pochi rimedi se il Comune non blocca il cantiere.
Non è facile impugnare la Scia del vicino. La proliferazione dei titoli edilizi e della relative procedure di formazione ha complicato l'attivazione dei rimedi giurisdizionali per contestare la costruzione di un nuovo edificio o l'ampliamento di quelli esistenti.
I titoli edilizi possono dividersi in due generali categorie a seconda che siano espressamente rilasciati dal Comune, oppure che si formino in ragione della mancata assunzione dell'ordine comunale di non eseguire l'intervento.
Nel primo gruppo, i titoli "espressi", ricadono così il permesso di costruire ordinario (anche in variante) e in sanatoria (tanto ordinaria, ai sensi cioè dell'articolo 36 del testo unico dell'edilizia, quanto straordinaria, il condono introdotto dalla legge 47/1985), nonché le sanzioni pecuniarie non di natura ripristinatoria (che in sostanza autorizzano il mantenimento degli abusi, per cui è imposto solo il pagamento di una somma di denaro).
Nel secondo, i titoli "taciti", si collocano invece la Dia (denuncia di inizio attività), la Scia (segnalazione certificata di inizio attività, anche edilizia) e la comunicazione di inizio lavori introdotta dal Dl 40/2010, asseverata o meno. Sempre al secondo gruppo vanno ricondotti gli interventi liberi (quelli non soggetti ad alcun titolo edilizio) che il vicino ritiene illegittimi lamentandosi per il mancato intervento repressivo del Comune.
L'impugnativa dei titoli "espressi" non pone particolari problemi: è possibile proporre ricorso al Tar entro 60 giorni dalla loro conoscenza (termine che decorre al più tardi dal momento in cui i lavori raggiungono uno stadio tale da evidenziarne la concreta lesività per il vicino), ma impugnare i titoli "taciti" è più complicato. Per un certo un periodo, la giurisprudenza amministrativa si era divisa tra la tesi secondo cui la Dia/Scia restava un atto privato, come tale non impugnabile, e la tesi che riconosceva la diretta aggredibilità al Tar della Dia/Scia (interpretazione che in sostanza afferma la natura provvedimentale del comportamento inerte mantenuto dal Comune, in questo senso). Su questo secondo punto, lo scorso 29 luglio si era assestato il Consiglio di Stato, con l'adunanza plenaria 15/2011: la situazione si è consolidata con l'articolo 6, comma 1, lettera c), del Dl 138/2011 –la manovra di Ferragosto– convertito nella legge 148 dello scorso 14 settembre.
La nuova disposizione prevede espressamente che «la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili». Gli interessati –prosegue la norma– possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, possono impugnare al Tar il silenzio che il Comune mantenga sulla domanda volta a impedire lo svolgimento dell'attività in contestazione.
È importante rilevare che, in questi casi, l'articolo 31, commi 1, 2 e 3 del Dlgs 104/2010 (codice del processo amministrativo) assegna normalmente al giudice soltanto il potere di ordinare al Comune di provvedere sulla verifica richiesta dal privato. La possibilità di riconoscere direttamente l'illegittimità dell'attività disponendone la cessazione è infatti riconosciuta al Tar solo quando si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione. Condizioni che non sempre ricorrono in edilizia, specie rispetto ai progetti più complessi, e che rendono dunque difficile la tutela rispetto ai lavori oggetto di Dia/Scia (articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATASolo un interesse reale e concreto giustifica il ricorso.
IL CRITERIO - Le sentenze chiedono il requisito della «vicinitas» che però dipende dalle caratteristiche dell'intervento contestato.

Quanto vicino deve essere il vicino? L'impugnazione dei titoli edilizi non è esercitabile da tutti; solo chi lamenti una lesione concreta ed attuale dai lavori può rivolgersi al Tar, nei limiti e con le procedure trattate nell'articolo qui sopra.
Su questo punto la giurisprudenza amministrativa ha elaborato il concetto di vicinitas, intesa come prossimità fra immobili, quale «condizione sufficiente a legittimare l'impugnazione di una concessione edilizia, anche quella in sanatoria, sicché a maggior ragione non può negarsi un interesse processuale ad agendum da parte del proprietario di un immobile confinante» (Consiglio di Stato, sezione IV, 13.07.2011, n. 4268).
Alla vicinitas va però attribuito il senso non di stretta contiguità, bensì di stabile e significativo collegamento, da indagare caso per caso, del ricorrente con la zona oggetto delle opere (Consiglio di Stato, sezione VI, 27.03.2003, n. 1600).
Il tema si pone soprattutto rispetto agli interventi edilizi e infrastrutturali che incidano su vaste aree. In un caso esaminato dal Consiglio di Stato (decisione 1134/2010) si è così ritenuto che la «distanza da 600 a 2.000 metri non sia di ostacolo alla configurazione della ripetuta situazione di vicinitas avuto riguardo alla natura e alla potenzialità dell'impianto autorizzato con gli atti impugnati».
È ancora del tutto pacifico in giurisprudenza che il controllo sulla legittimità dei titoli abilitativi in edilizia prescinda dalla proprietà del fondo leso dall'attività edilizia, essendo sufficiente che il ricorrente si trovi in un rapporto diretto e stabile con l'area oggetto dei lavori (Consiglio di Stato, sezione IV, 10.03.2011, n. 1566).
La vicinitas è comunque condizione necessaria ma non sufficiente a radicare (ferma la legittimazione) l'interesse al ricorso, il quale necessita anche la dimostrazione del pregiudizio concreto alle facoltà dominicali del vicino (Consiglio di Stato, sezione IV, 24.01.2011, n. 485), per cui per proporre una azione in giudizio è necessario che dalla stessa possa derivare all'attore una qualche concreta utilità, sotto il profilo di un vantaggio sperato oppure, come appunto nella specie, di un danno prevenuto.
È stato ad esempio ritenuto che per giustificare la legittimazione fondata sulla vicinitas in caso di edifici adibiti a ufficio o abitazione sia richiesta –almeno in termini presuntivi– la prova di un potenziale pregiudizio che il ricorrente potrebbe subire dai lavori. Altrimenti, sarebbe come introdurre nel nostro ordinamento un'azione popolare sconosciuta nel nostro ordinamento.
L'opposto vale nel caso dell'impugnazione di atti relativi alla realizzazione di impianti industriali: in tal caso, non sarà necessaria la prova rigorosa dell'effettività del danno che si potrebbe subire. Così ha deciso ad esempio il Consiglio di Stato (sezione V, 18.08.2010, n. 5819) in relazione al progetto di costruzione di un termovalorizzatore.
Allo stesso modo, non si potrebbe sostenere che un insediamento composto da un complesso di edifici abitativi, commerciali e direzionali -inserito in un quartiere già densamente urbanizzato- sia di per sé in grado di stravolgere o peggiorare la fisionomia della zona. A maggior ragione se l'intervento edilizio consiste nel recupero con cambio d'uso di edifici produttivi dismessi. O se i ricorrenti non hanno la residenza nel quartiere interessato dai lavori ma in un'altra zona della città.
---------------
Gli esempi
01 | IMPIANTI INDUSTRIALI
La legittimazione ad agire è ampiamente riconosciuta dai giudici. Per contestare, ad esempio, la realizzazione di un termovalorizzatore non serve provare in modo rigoroso l'effettività del danno che si potrebbe subire.
02 | EDIFICI A USO UFFICIO O ABITAZIONE
Per opporsi alla realizzazione di edifici dallo scarso impatto urbanistico –come le abitazioni o gli uffici– la verifica della legittimazione ad agire è più severa. Un intervento di edilizio che si inserisce in un contesto già densamente urbanizzato è difficile da contestare.
Diverso potrebbe essere il caso di strutture commerciali con un impatto particolarmente pesante sulla circolazione e l'afflusso di persone.
03 | I FATTORI CRITICI
Per opporsi alla realizzazione di un intervento diverso dalla costruzione di impianti industriali, occorre documentare in modo rigoroso il proprio interesse: un ricorso intentato da soggetti che risiedono in un altro quartiere, ad esempio, potrebbe essere bocciato in radice; così come un'opposizione fondata sul presupposto di un incremento del traffico veicolare non documentato da uno studio inoppugnabile (articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2011).

SEGRETARI COMUNALIPiù magre le buste dei segretari.
Si applica prima il galleggiamento o la maggiorazione nel calcolo della retribuzione di posizione dei segretari comunali e provinciali?

La questione, che si trascina ormai da un quinquennio, trova il suo epilogo nella legge di stabilità, la quale prevede che la maggiorazione preceda il galleggiamento, abbracciando l'ipotesi meno favorevole ai segretari. D'altronde, non poteva essere diversamente, in un periodo di limiti e vincoli alla spesa pubblica.
Come si ricorderà, la vicenda prende avvio nel 2006 con la contrapposizione che vedeva da un lato l'Aran e la Ragioneria dello Stato, che volevano applicare prima il galleggiamento di cui all'articolo 41, comma 5, del Ccnl 16.05.2001, mentre dall'altro lato si schieravano l'Agenzia per la gestione dell'albo dei segretari e le organizzazioni sindacali, per le quali doveva avere la precedenza la maggiorazione prevista dall'articolo 41, comma 5, del medesimo Ccnl.
Anche il tentativo di ottenere l'interpretazione autentica, promosso dalla stessa Ages, ha ricevuto un rifiuto fermo e netto da parte dell'Aran. Per quest'ultima, la questione era già sufficientemente chiara: la comparazione per la determinazione dell'importo del galleggiamento deve effettuarsi fra la posizione dirigenziale più elevata presente nell'ente e la retribuzione di posizione del segretario, intendendo come tale quella determinata in base alla tipologia e alla dimensione del l'ente, a cui si deve aggiungere l'eventuale maggiorazione di retribuzione riconosciuta dal l'amministrazione per incarichi ulteriori e aggiuntivi.
Seguendo le indicazioni dell'Aran e della Ragioneria dello Stato, le amministrazioni locali hanno calcolato gli stipendi dei segretari applicando prima la maggiorazione e poi il galleggiamento. E contro tale impostazione, alcuni segretari comunali hanno impugnato gli atti conseguenti, trovando piena ragione in sede di contenzioso. Ne sono esempi le sentenze del Tribunale di Pistoia, di La Spezia, di Rimini, dell'Aquila e di Mantova.
Forse proprio questo fiume di pronunce sfavorevoli agli enti e alle casse pubbliche ha spinto il legislatore a disporre un intervento, alquanto bizzarro, di "interpretazione" di una disposizione inserita in un contratto collettivo di lavoro. Come tale, non può definirsi "autentica" in quanto promana da soggetto diverso dall'originario e, quindi, può disporre solo per il futuro. La legge di stabilità, all'articolo 4, comma 26, impone il calcolo del galleggiamento, prendendo a base sia la retribuzione di posizione in godimento del segretario, sia l'eventuale maggiorazione. Sposando, di fatto, la linea dell'Aran e della Ragioneria dello Stato. Dall'01.01.2012, sarà, quindi, vietato calcolare la maggiorazione della retribuzione di posizione in modo difforme da quello indicato nella legge di stabilità e, quindi, andando a quantificare maggiorazione e galleggiamento in maniera disgiunta o, peggio ancora, porre il galleggiamento a base della maggiorazione.
Dovranno cessare dunque dall'anno prossimo le interpretazioni "generose" nei confronti dei segretari, pena ipotesi di danno erariale in quanto i compensi in questione sarebbero elargiti contra legem. Permane l'obbligo, invece, di dare esecuzione a tutte le decisioni, anche in senso contrario, adottate dai giudici entro alla fine dell'anno  (articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMeno co.co.co. nei mini-enti. Il tetto al lavoro flessibile colpisce anche i Comuni fuori dal Patto.
Le assunzioni a tempo determinato, le collaborazioni coordinate e continuative e le altre forme di lavoro flessibile potranno avvenire nel limite del 50% della corrispondente spesa dell'anno 2009; le assunzioni a tempo indeterminato nel limite del 20% della spesa delle cessazioni dell'anno precedente.
A chiudere la questione delle assunzioni negli enti locali ci pensa direttamente il legislatore che con la legge di stabilità supera le interpretazioni che si sono succedute dall'approvazione del Dl n. 78/2010 in poi. Soprattutto la deliberazione n. 46/2011 della Corte dei conti, sezioni riunite secondo cui il limite del turn-over del 20% si applica sia alle assunzioni a tempo indeterminato che a qualsiasi altra tipologia contrattuale di lavoro, ma che contemporaneamente aveva aperto alla possibilità di deroga in casi di massima urgenza e per servizi infungibili ed essenziali.
Effettivamente negli enti locali stava dominando la confusione più assoluta. Infatti, fin dal primo momento della deliberazione, i tentativi per giustificare lo sforamento del 20% per i contratti a tempo determinato erano già diffusissimi e si concretizzavano in deliberazioni di giunta per l'individuazione di tutte le possibilità e casistiche di deroga. Ora, il legislatore, sollecitato probabilmente da tale interpretazione, interviene a suo modo: nel 20% ci sta solo il tempo indeterminato, mentre le assunzioni di lavoro flessibile andranno fatte nel limite del 50% della spesa sostenuta nel 2009.
E così, anche i piccoli enti, cioè le amministrazioni non soggette a patto di stabilità, si ritrovano con un vincolo che fino all'altro giorno non esisteva. Infatti, come sostenuto dalla stessa Corte dei conti, sezioni riunite nella deliberazione n. 3/2011 ai comuni sotto i 5mila abitanti si continuava ad applicare la disposizione del comma 562 della Finanziaria 2007 che prevedeva un'assunzione per una cessazione dell'anno prima. Con la novità legislativa e con l'introduzione della dicitura «e degli enti locali» all'articolo 9, comma 28 del Dl n. 78/2010 l'obbligo di assestarsi per il tempo determinato nel limite del 50% del 2009 sembra valido per tutti. Salvo future analisi diverse.
Paletti quindi estremamente rigidi, ma immediatamente efficaci dal momento dell'entrata in vigore della legge di stabilità. In attesa, si spera, di una pronuncia da parte della Corte costituzionale che confermi quanto già affermato nella sentenza 390/2004 su una situazione praticamente uguale.
La Consulta aveva infatti concluso che la disposizione che fissava un turn-over del 50% rispetto alle vacanze del 2002 non si limitava a fissare un principio di coordinamento della finanza pubblica, ma poneva invece un precetto specifico e puntuale; precetto che, proprio perché specifico e puntuale e per il suo oggetto, si risolve in una indebita invasione, da parte della legge statale, del l'area (organizzazione della propria struttura amministrativa) riservata alle autonomie regionali e degli enti locali, alle quali la legge statale può prescrivere criteri e obiettivi ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi.
E infine una curiosità: cosa accade se l'ente nel 2009 non aveva avuto spese per contratti di lavoro flessibile e si ritrova oggi nel bisogno e in presenza di un'esigenza temporanea ed eccezionale?
Insomma, probabilmente nella fretta di contingentare la spesa pubblica spesso si creano norme di difficile attuazione con il forte rischio di minare lo svolgimento dei servizi locali (articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2011 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOAddio ai rimborsi per trasferte e traslochi.
PROSPETTIVE - Il provvedimento è tanto più oneroso in quanto con la manovra di Ferragosto è più facile ricollocare i pubblici dipendenti.

Le indennità di trasferta per il trasferimento e il rimborso delle spese di viaggio sostenute dai familiari del dipendente pubblico trasferito, nonché i rimborsi delle spese di trasloco riconosciute in questo caso e il contributo riconosciuto nel caso di trasloco nella stessa città da o per o tra alloggi di servizio, sono abrogati. La possibilità di erogazione dell'indennità di prima sistemazione nel caso di trasferimenti per ragioni di servizio viene limitata solamente al caso di effettivo trasferimento della residenza.
Sono queste le disposizioni restrittive previste dalla proposta di legge di stabilità e per il trasferimento dei dipendenti pubblici, salvo quelli dei comparti sicurezza, difesa e soccorso pubblico. Disposizioni che, una volta approvate, produrranno effetti ancora più rilevanti alla luce delle previsioni contenute nel recente Dl n. 138/2011, la «Manovra di ferragosto», in base alle quali i dipendenti pubblici possono essere facilmente trasferiti dai dirigenti per ragioni di servizio in altre sedi nell'ambito della stessa regione, ambito che invece per i dipendenti del ministero dell'Interno si estende all'intero Paese.
Vediamo le norme abrogate, anche se contenute in contratti collettivi. In primo luogo il dipendente e i familiari hanno diritto all'indennità di trasferta per tutto il periodo di viaggio necessario al trasferimento per esigenze di servizio. L'indennità comprende anche gli oneri per una sosta non superiore a 24 ore, nel caso di trasferimento in località posta a distanza superiore a 800 km. Ricordiamo che l'indennità di trasferta per missioni è già stata abolita per tutti i dipendenti pubblici dai commi 213 e 214 della legge n. 266/2005, Finanziaria 2006.
E ancora, nel caso di trasferimento del dipendente pubblico viene erogata un'indennità che copre gli oneri di viaggio suoi e dei familiari, oneri che devono essere calcolati sulla base del costo dei biglietti dei mezzi di trasporto pubblico ovvero di 2,20 centesimi a km in caso di assenza di mezzi pubblici. A questi oneri si aggiungono anche quelli necessari per il trasloco dei mobili, sulla base del costo sostenuto. Spetta inoltre al dipendente il «rimborso delle spese per l'imballaggio, per la presa e resa a domicilio e per il carico e lo scarico» dei suoi bagagli. E infine gli spetta un contributo nel caso di passaggio, su decisione dell'amministrazione, nell'ambito dello stesso comune da un alloggio di servizio a un altro o a un alloggio privato o nel caso opposto. I benefici verranno meno per tutti i dipendenti pubblici al momento della definitiva approvazione della legge di stabilità. Mentre l'indennità di prima sistemazione, prevista in una misura compresa tra poco più di 200 euro e poco più di 60 sulla base della qualifica di inquadramento, viene limitata solamente al caso di effettivo trasferimento della residenza.
Ricordiamo che il legislatore ha di recente previsto, articolo 1, comma 29, Dl n. 138/2011, che le Pa possano per «motivate esigenze tecniche, organizzative e produttive» contenute nel piano delle performance e di razionalizzazione disporre il trasferimento del personale nell'ambito della stessa regione. La relativa disciplina sarà dettata nei contratti collettivi nazionali di lavoro, ma fino ad allora la decisione spetta ai dirigenti in quanto siamo nell'ambito dei "criteri datoriali" e l'unica forma di relazione sindacale è la semplice informazione preventiva (articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., tariffe da avvocati.
La p.a. che, nelle cause di lavoro, si difende da sé (senza avvocato), se vince, potrà chiedere la condanna del lavoratore a pagare le spese processuali calcolate in proporzione sul tariffario degli avvocati. Nei primi gradi di giudizio delle cause di lavoro contro le pubbliche amministrazioni, infatti, queste possono stare in giudizio senza avvocato, ma avvalendosi di propri dipendenti.
Il ddl stabilità stabilisce che, nelle liquidazioni delle spese del giudizio (art. 91 cpc) a favore delle pubbliche amministrazioni (quelle istituzionali definite dall'art. 1, comma 2, del dlgs 165/2001, T.u. del pubblico impiego), se assistite da propri dipendenti, si applica la tariffa vigente per gli avvocati, con la riduzione del 20% degli onorari.
La novità è che viene stabilito espressamente che la p.a. ha diritto al rimborso delle spese processuali calcolate con il tariffario forense. Nella giurisprudenza attuale, invece, alla p.a., che vince la causa senza avvocato, non vengono riconosciuti gli onorari, ma al massimo un rimborso delle spese vive. Nella giurisprudenza si arriva, talvolta, a calcolare le spese vie conteggiando le ore di lavoro per la preparazione delle difese e per la stesura degli atti difensivi, ma certamente non si calcolano diritti e onorari di avvocato. In effetti il ragionamento è che non c'è possibilità di applicazione delle tariffe degli avvocati se in realtà in giudizio non c'è l'avvocato.
La disposizione proposta dal ddl stabilità toglie questo ostacolo e estende espressamente al dipendente (non avvocato) difensore della p.a. in giudizio la disciplina prevista per gli emolumenti degli avvocati, anche se con un abbattimento. Questo significa che il lavoratore soccombente dovrà pagare le spese legali all'amministrazione, anche se questa non si è difesa con un avvocato. Tra l'altro si tratta di manovre disincentivanti che si combinano con l'assoggettamento al contributo unificato delle cause di lavoro. La norma in esame estende anche alle controversie di lavoro una regola già dettata nei processi tributari (art. 15, comma 2-bis, del dl 546/1992). La riscossione avverrà mediante iscrizione al ruolo.
La novità non si applica alle cause pendenti, ma solo alle controversie insorte successivamente alla futura data di entrata in vigore della legge di stabilità. Rimane fermo, invece, il mancato rimborso delle spese processuali per altri contenziosi che ammettono l'ente pubblico alla difesa in proprio. Anche se non si comprende perché l'ente pubblico non ha diritto alle spese processuali nelle cause di opposizione a sanzioni amministrative, mentre ne ha diritto per le cause di lavoro e per i ricorsi tributari.
Il ddl stabilità propone, poi, la modifica dell'art. 52, comma 1-bis, del T.u. pubblico impiego, riducendo il tempo per impugnare le progressioni di carriera. Secondo il ddl tutte le impugnazioni concernenti le progressioni all'interno della stessa area devono essere proposte, a pena di decadenza, entro 120 giorni dalla comunicazione dell'esito della procedura. La disposizione si applicherà per il futuro e, quindi, alle graduatorie pubblicate successivamente alla data di entrata in vigore della legge di stabilità.
Analogo termine di 120 giorni è proposto da una novità del ddl stabilità per la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da provvedimenti dell'amministrazione, nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle p.a. rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario. La domanda deve essere proposta entro il termine di decadenza decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza che ha definito il giudizio di impugnazione dei provvedimenti della p.a. La disposizione avrà effetto solo per il futuro, in quanto il ddl specifica che la tagliola non si applica alle domande già proposte nei giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge stabilità (articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2011 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Per demolire un manufatto è sufficiente la denuncia di inizio attività.
La demolizione di un manufatto non integra la fattispecie di cui all’art. 44, primo comma, lett. b), del Testo Unico Edilizia, perché per un simile intervento non è necessario il permesso a costruire, ma è sufficiente la semplice denuncia di inizio attività, la cui mancanza costituisce illecito amministrativo .
E’ questo il principio di diritto ribadito dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 17.06.2011 n. 24423 in merito ad una questione rilevante, ancora di incerta soluzione dottrinaria, relativa alla individuazione della natura dei titoli abilitativi necessari per la demolizione di opere.
Nel caso di specie si è trattato di un ricorso promosso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze contro un’ordinanza pronunciata dallo stesso Tribunale in funzione di giudice del riesame. In particolare, il provvedimento aveva disposto la revoca del decreto di sequestro preventivo di un immobile sul quale erano stati effettuati interventi di demolizione in assenza del necessario titolo abilitativo.
La decisione dei giudici del Palazzaccio, anche se non in maniera decisiva, risolve ancora una volta la questione escludendo la sussistenza del reato richiamato, che di per sé avrebbe comportato la sanzione dell’arresto fino a due anni e l’ammenda da 30.986 a 103.290 euro, in quanto nel caso specifico per i lavori di cui alle DIA risultava essere stata rilasciata apposita autorizzazione paesaggistica.
Resta tuttavia un margine di incertezza di carattere generale che ad oggi non trova una vera e propria linea di confine tra le ipotesi in cui risulti necessario il permesso a costruire.
Il ricorso in Cassazione, tuttavia, è stato rigettato per una questione di carattere pregiudiziale, in quanto l’ordinanza del Tribunale del riesame, oltre al fumus del reato, aveva escluso la sussistenza delle esigenze cautelari che giustificassero la misura del sequestro preventivo, non essendo in corso l’esecuzione di interventi edilizi né prevedibile la loro prosecuzione. Infatti, secondo i giudici di Piazza Cavour, l’impugnazione della pubblica accusa ha totalmente ignorato tale argomentazione, di per sé sola sufficiente ad escludere la necessità della misura cautelare. Da qui il rigetto del ricorso del P.M. (link a www.altalex.com).

URBANISTICAIl piano di recupero, quale strumento attuativo, è suscettibile di perseguire sia finalità di recupero del patrimonio edilizio esistente in misura via via più complessa dagli interventi di manutenzione ordinaria a quelli di ristrutturazione edilizia [lettere da a) a d) del comma 1 dell'art. 31 della legge n. 457/1978], sia finalità di recupero urbanistico, laddove, come contemplato dall'art. 31, comma 1, lettera e), della legge n. 457 del 1978, esso può prevedere interventi "rivolti a sostituire l'esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale", nonché dalla normativa regionale.
La funzione precipua del piano di recupero è la conservazione del patrimonio edilizio esistente mediante la riqualificazione e la ridefinizione del tessuto urbano ai fini di recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico degradato per conservare e riutilizzare il patrimonio, sicché la connotazione tipica dello strumento in questione che ne individua i limiti oggettivi, è pur sempre caratterizzata dalla conservazione, ricostruzione e riutilizzazione del patrimonio esistente, con la conseguenza che è del tutto marginale che il recupero edilizio, consistendo in interventi sugli elementi costitutivi degli edifici esistenti, possa comportare incrementi volumetrici ossia nuove edificazioni.
Il piano di recupero è, normalmente, un delicato equilibrio volto alla conservazione e al recupero di un ambiente urbano degradato.

Va ricordata la giurisprudenza del Consiglio di Stato sulla natura del piano di recupero. Il piano di recupero, quale strumento attuativo, è suscettibile di perseguire sia finalità di recupero del patrimonio edilizio esistente in misura via via più complessa dagli interventi di manutenzione ordinaria a quelli di ristrutturazione edilizia [lettere da a) a d) del comma 1 dell'art. 31 della legge n. 457/1978], sia finalità di recupero urbanistico, laddove, come contemplato dall'art. 31, comma 1, lettera e), della legge n. 457 del 1978, esso può prevedere interventi "rivolti a sostituire l'esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale", nonché dalla normativa regionale (tra le tante decisioni CdS sez. IV 05.03.2008 n. 922).
Ancora, secondo condivisibile giurisprudenza, la funzione precipua del piano di recupero è la conservazione del patrimonio edilizio esistente mediante la riqualificazione e la ridefinizione del tessuto urbano ai fini di recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico degradato per conservare e riutilizzare il patrimonio, sicché la connotazione tipica dello strumento in questione che ne individua i limiti oggettivi, è pur sempre caratterizzata dalla conservazione, ricostruzione e riutilizzazione del patrimonio esistente, con la conseguenza che è del tutto marginale che il recupero edilizio, consistendo in interventi sugli elementi costitutivi degli edifici esistenti, possa comportare incrementi volumetrici ossia nuove edificazioni (Tar Bari 19.09.2002 n. 4016).
Come sopra chiarito, il piano di recupero è, normalmente, un delicato equilibrio volto alla conservazione e al recupero di un ambiente urbano degradato (TAR Marche, sentenza 16.05.2011 n. 324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAI piani attuativi soggiacciono alla regola secondo cui il termine per l'impugnazione, da parte dei soggetti non direttamente contemplati, quali i confinanti o i vicini, decorre dalla pubblicazione della delibera che li approva.
Sul punto va affermato che i piani attuativi soggiacciono alla regola secondo cui il termine per l'impugnazione, da parte dei soggetti non direttamente contemplati, quali i confinanti o i vicini, decorre dalla pubblicazione della delibera che li approva (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 31.01.2005 n. 254; Sez. V, 14.07.1995 n. 1080; 30.07.1993 n. 812; TAR Lombardia Brescia, Sez. I, 05.11.2010 n. 4559; TAR Emilia Romagna Bologna, Sez. II, 14.06.2005 n. 824) (TAR Marche, sentenza 16.05.2011 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIi completamento dei lavori è considerato indizio idoneo a far presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo termini più brevi nel caso in cui venga fornita la prova di una conoscenza anticipata o che venga dedotta l'inedificabilità dell'area.
In punto di diritto trova applicazione il principio, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui il completamento dei lavori è considerato indizio idoneo a far presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo termini più brevi nel caso in cui venga fornita la prova di una conoscenza anticipata o che venga dedotta l'inedificabilità dell'area (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 10.12.2010 n. 8705; Sez. IV, 27.05.2010 n. 3378; Sez. IV, 18.06.2009 n. 4015; Sez. V, 04.03.2008 n. 885) (TAR Marche, sentenza 16.05.2011 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe convenzioni urbanistiche devono sempre considerarsi rebus sic stantibus e, persino durante la piena efficacia di un piano urbanistico e della relativa convenzione urbanistica, legittimamente l'amministrazione, in presenza di un interesse pubblico sopravvenuto, ha la facoltà di introdurre nuove previsioni, con il solo onere di motivare le esigenze che le determinano.
In presenza di nuove esigenze non sussiste, quindi, preclusione a nuovi interventi, atteso che lo ius variandi relativo alle prescrizioni di piano regolatore generale include anche un ius poenitendi relativo ai vincoli precedentemente assunti, rispetto ai quali il Comune non può ritenersi permanentemente vincolato nemmeno da una preesistente convenzione di lottizzazione.
La vigenza di una convenzione di lottizzazione si riflette, semmai, solamente in termini di obbligo di motivazione nell'esercizio della potestas variandi, in quanto incidente su aspettative qualificate del privato parte della convenzione.
---------------
L'omessa indicazione nel piano particolareggiato del termine di validità non può considerarsi causa d'illegittimità dello stesso, operando, in tal caso, il termine massimo decennale fissato dall'art. 16 l. n. 1150 del 1942.
Parimenti, la mancata indicazione nel piano particolareggiato dei termini per il compimento delle espropriazioni rileva solo per la legittimità di queste ultime ma non per quella del piano, giacché la certezza dei rapporti giuridici è garantita dalla decadenza legale del piano.

La giurisprudenza è costante nell’affermare che le convenzioni urbanistiche devono sempre considerarsi rebus sic stantibu, e, persino durante la piena efficacia di un piano urbanistico e della relativa convenzione urbanistica, legittimamente l'amministrazione, in presenza di un interesse pubblico sopravvenuto, ha la facoltà di introdurre nuove previsioni, con il solo onere di motivare le esigenze che le determinano.
In presenza di nuove esigenze non sussiste, quindi, preclusione a nuovi interventi, atteso che lo ius variandi relativo alle prescrizioni di piano regolatore generale include anche un ius poenitendi relativo ai vincoli precedentemente assunti, rispetto ai quali il Comune non può ritenersi permanentemente vincolato nemmeno da una preesistente convenzione di lottizzazione (fra le tante Cons. Stato, Sez. IV, 29.07.2008, n. 3766; n. 711 del 13.07.1993; 25.07.2001, n. 4073).
La vigenza di una convenzione di lottizzazione si riflette, semmai, solamente in termini di obbligo di motivazione nell'esercizio della potestas variandi, in quanto incidente su aspettative qualificate del privato parte della convenzione (Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2005, n. 719).
---------------
L'omessa indicazione nel piano particolareggiato del termine di validità non può considerarsi causa d'illegittimità dello stesso, operando, in tal caso, il termine massimo decennale fissato dall'art. 16 l. n. 1150 del 1942 (Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2005 , n. 985).
Parimenti, la mancata indicazione nel piano particolareggiato dei termini per il compimento delle espropriazioni rileva solo per la legittimità di queste ultime ma non per quella del piano, giacché la certezza dei rapporti giuridici è garantita dalla decadenza legale del piano (TAR Umbria Perugia, 07.12.2001, n. 650)
(TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 11.05.2011 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa comunicazione di avvio del procedimento, prevista dall'art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241, è necessaria soltanto per i procedimenti iniziati d'ufficio e non già per quelli avviati ad istanza di parte nei quali lo stesso interessato con la sua domanda può inserire tutti gli elementi che ritiene debbano essere presi in considerazione dalla Pubblica Amministrazione ai fini dell'adozione del provvedimento finale.
Ai sensi dell’art. 21-octies della l. n. 241 del 1990 non è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Vero è che l'art. 21-octies cit. pone in capo all'Amministrazione (e non del privato) l'onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell'avvio del procedimento, che il contenuto del provvedimento non poteva essere diverso; tuttavia, onde evitare di gravare la p.a. di una probatio diabolica (quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l'esito del procedimento), risulta preferibile interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione.

Va condiviso, infatti, quell'orientamento giurisprudenziale (ex multis, TAR Campania Napoli, sez. IV, 11.11.2004, n. 16752) secondo cui la comunicazione di avvio del procedimento, prevista dall'art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241, è necessaria soltanto per i procedimenti iniziati d'ufficio e non già per quelli avviati ad istanza di parte nei quali lo stesso interessato con la sua domanda può inserire tutti gli elementi che ritiene debbano essere presi in considerazione dalla Pubblica Amministrazione ai fini dell'adozione del provvedimento finale.
Considerato che nella fattispecie in esame la sanzione applicata, in disparte il carattere vincolato della sua irrogazione, è diretta conseguenza dell’accoglimento della domanda di sanatoria edilizia richiesta dai ricorrenti per l’intervento abusivo realizzato in un'area di valore paesaggistico, il procedimento deve considerarsi avviato ad istanza di parte (con la domanda di sanatoria), con la conseguenza che l'amministrazione non era tenuta a comunicare al ricorrente l'avvio del connesso e necessario procedimento di irrogazione della sanzione ambientale (in termini TAR Lazio-Roma sez. II, 20.04.2002, n. 3370).
Il Collegio evidenzia, peraltro, che ai sensi dell’art. 21-octies della l. n. 241 del 1990 –applicabile alla fattispecie in quanto, come chiarito dalla maggioritaria giurisprudenza, norma avente carattere processuale (cfr., Cons. St., sez. V, 17.09.2008, n. 4414)– non è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (TAR Campania Napoli, sez. V, 04.03.2008, n. 1073; crf. anche Consiglio di Stato n. 5414/2006). La medesima disposizione, inoltre, nella sua seconda parte prevede che il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Nella fattispecie oggetto di giudizio gli elementi addotti da parte ricorrente a sostegno del ricorso non si presentano affatto idonei a revocare in dubbio, come di seguito il Collegio avrà modo di evidenziare, che, ove anche rappresentati all’amministrazione provinciale, avrebbero comportato l’adozione di una diversa determinazione.
Come affermato dalla giurisprudenza del giudice d’appello, condivisa dal Collegio, vero è che l'art. 21-octies cit. pone in capo all'Amministrazione (e non del privato) l'onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell'avvio del procedimento, che il contenuto del provvedimento non poteva essere diverso; tuttavia, "onde evitare di gravare la p.a. di una probatio diabolica (quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l'esito del procedimento), risulta preferibile interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione" (così Cons. St., sez. VI, 29.07.2008, n. 3786) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.05.2011 n. 784 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 15 della legge n. 1497 del 1939 (divenuto poi l'art. 164 del d.lgs. nr. 490 del 1999, ed oggi l'art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004) va interpretato nel senso che l'indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che come tale prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale.
Come chiarito dalla consolidata giurisprudenza in materia, l'art. 15 della legge n. 1497 del 1939 (divenuto poi l'art. 164 del d.lgs. nr. 490 del 1999, ed oggi l'art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004) va interpretato nel senso che l'indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che come tale prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 28.07.2006, n. 4690; Cons. Stato, sez. IV, 15.11.2004, n. 7405; id. 03.11.2003, n. 7047; Cons. Stato, sez. VI, 03.04.2003, n. 1729; Cons. Stato, sez. IV, 12.11.2002, n. 6279; Cons. Stato, sez. VI, 08.11.2000, n. 6007; id. 06.06.2000, n. 3185) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.05.2011 n. 784 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Società pubbliche locali, quali i requisiti del soggetto adibito ai compiti del R.U.P.?
Domanda.
Una S.r.l. a totale e unica partecipazione del Comune -che esercita sulla stessa il "controllo analogo"- deve appaltare un lavoro di 2.500.000 euro per ristrutturare un immobile di proprietà. Vi chiediamo come la Società -che ha solo personale impiegatizio e fungerà da Stazione Appaltante- debba regolarsi in merito all'individuazione del R.U.P. così come previsto dall'art. 9 e 10 del D.P.R. 05-10-2010, n. 207 (Regolamento di Attuazione del Codice dei Lavori Pubblici).
In particolare chiediamo -nel caso che sia tenuta anch'essa ad individuarlo- quale sia il titolo di studio/qualifica richiesto.
Risposta.
Giova ricordare che la questione relativa alla soggezione di Società costituite o partecipate dall'Ente Locale all'obbligo di nominare il Responsabile Unico del Procedimento (di seguito solo R.U.P.) non è nuova nella legislazione statale ma trovava già nella previgente normativa interna in materia di lavori pubblici, vale a dire nel complesso costituito dalla L. 11.02.1994, n. 109 e dal D.P.R. 21.12.1999, n. 554, un'espressa disciplina positiva.
Come noto, la c.d. Legge Merloni assoggettava le Società costituite e/o partecipate dagli Enti Locali ai sensi dell'art. 2, comma 2, lettera b), alle norme sull'evidenza pubblica, ma le esonerava dall'obbligo della nomina del R.U.P., posto che, ai sensi dell'art. 7, comma 1, Legge cit. tale obbligo era previsto solo in capo ai soggetti indicati all'art. 2, comma 2, lettera a), tra i quali non erano comprese le Società costituite o partecipate dagli Enti Locali.
L'art. 7, comma 1, L. 11-02-1994, n. 109 doveva leggersi in combinato disposto con l'art. 7, comma 6, D.P.R. 21.12.1999, n. 554, che vincolava i soggetti non tenuti all'applicazione dell'art. 7 della Legge a garantire lo svolgimento dei compiti previsti per il responsabile del procedimento dalle norme della legge e del regolamento che li riguardano.
La situazione giuridica delle Società costituite o partecipate da Enti Locali di fronte alla nomina del R.U.P. non sembra essere mutata nel nuovo quadro normativo costituito dal D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 e dal D.P.R. 05.10.2010, n. 207.
L'art. 10, comma 9, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 e s.m.i. prevede, infatti, che "Le stazioni appaltanti che non sono pubbliche amministrazioni e enti pubblici, in conformità ai principi della legge 07.08.1990, n. 241, individuano, secondo i propri ordinamenti, uno o più soggetti cui affidare i compiti propri del responsabile del procedimento, limitatamente al rispetto delle norme del presente codice alla cui osservanza sono tenuti".
Le Società costituite o partecipate dall'Ente Locale, ancorché totalitarie, sono soggetti all'applicazione di questa deroga perché sono qualificabili alla stregua di Enti privatistici.
L'attuale disciplina dell'art. 10, comma 9, D.Lgs. cit. deve, peraltro, essere sincronizzata con le novità introdotte dalla L. 11.02.2005, n. 15 nel corpo della L. 07.08.1990, n. 241.
Assume particolare rilevanza il coordinamento della norma in commento con l'art. 1, comma 1-ter, L. 07.08.1990, n. 241 e s.m.i., a mente del quale i soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1, cioè economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza (v. anche art. 2, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163).
In tale prospettiva, la norma settoriale dell'art. 10 deve intendersi, in coerenza alla norma generale sul procedimento, nel senso che gli Enti privatistici, come le Società miste e le stesse Società a partecipazione pubblica totalitaria, non sono strictu sensu obbligate a nominare un soggetto da adibire al ruolo di R.U.P. per i procedimenti amministrativi di rispettiva competenza, come i procedimenti di evidenza pubblica; tali soggetti hanno, tuttavia, un distinto obbligo, quello cioè di affidare a uno o anche più soggetti i compiti che le legge e il regolamento demandano al R.U.P. e che scaturiscono dall'applicazione delle norme del Codice (e del Regolamento di Attuazione) applicabili anche a tali Enti privatistici.
Nel caso di specie, dunque, la Società potrà e dovrà affidare i compiti del R.U.P. a uno o più soggetti, senza però sottostare all'obbligo di nominare un soggetto da adibire al ruolo di R.U.P.
L'art. 10, comma 9, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, peraltro, non offre puntuali indicazioni circa i criteri di scelta del soggetto o dei soggetti da adibire ai compiti di cui all'art. 10, comma 9, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 e, in particolare, circa la qualificazione -professionale e lavorativa- del soggetto o dei soggetti da preporre ai compiti del R.U.P.
La soluzione che meglio si armonizza con la previsione dell'esonero delle Società costituite o partecipate da Enti Locali dall'obbligo di nominare un vero e proprio R.U.P., dovrebbe ritenersi quella che esclude che questi Enti, nell'individuare i soggetti da adibire ai relativi compiti, siano tenuti in modo rigido a rispettare le previsioni del Codice e del Regolamento che identificano requisiti e le qualifiche che il soggetto da nominare a R.U.P. deve possedere.
Diversamente, infatti, cioè opinando che anche Enti privatistici debbono pedissequamente seguire le stesse regole previste dall'art. 10 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 e del D.P.R. 05.10.2010, n. 207 per la scelta del R.U.P. da parte di Pubbliche Amministrazioni e Enti pubblici, verrebbero ad essere frustrate le ragioni sottese alla previsione derogatoria dell'art. 10, comma 9 cit. e svilite le peculiarità, organizzative e ordinamentali, favorevolmente apprezzate dal Legislatore codicistico.
Vero è, invece, che gli Enti privatistici in parola devono garantire che i compiti del R.U.P. siano esercitati in modo efficiente, economico, imparziale, trasparente e proporzionato ai fini pubblici perseguiti, come si desume dal coordinamento dell'art. 10, comma 9, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 e s.m.i. con l'art. 1, L. 07.08.1990, n. 241 e, ancor prima, con l'art. 2, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 medesimo.
Ciò significa, quindi, che, per tornare al quesito sottoposto, le Società pubbliche locali nell'operare la scelta del soggetto o dei soggetti da adibire ai compiti del R.U.P. ad esse applicabili:
- potranno operare con maggiore elasticità sul fronte organizzativo, operando la designazione in modo più confacente al proprio ordinamento interno;
- non potranno derogare alla regola -diretto corollario del principio di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa ad esse applicabile- che impone di affidare i compiti del R.U.P. a un soggetto in grado di assolverli adeguatamente e, quindi, a un soggetto che, ancorché privo della qualificazione di tecnico, possa sopperire efficacemente alle sue lacune curriculari avvalendosi di soggetti adeguatamente qualificati in relazione alla tipologia e alla natura dell'intervento (cfr. art. 10, comma 7, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 e s.m.i.) (24.10.2011 - commento tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comunicazione di eseguita attività (c.e.a.) ex art. 41, comma 2, L.R. n. 12/2005 ed esame impatto paesistico dei progetti (Regione Lombardia, Giunta Regionale, Direzione Generale Sistemi Verdi e Paesaggio, Progetti Integrati Paesaggio, Paesaggio, nota 20.10.2011 n. 21568 di prot.).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGO - VARILicenziamento per giusta causa, la graduazione della sanzione va sempre motivata.
Il licenziamento per giusta causa deve sempre essere corroborato da un ragionamento sulla proporzionalità della sanzione che giustifichi la graduazione della pena. Non è sufficiente, dunque, il mero richiamo da parte del giudice alla sussistenza di una infrazione al codice disciplinare.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 25.10.2011 n. 22129, accogliendo il ricorso di un cassiere di supermercato licenziato per aver accreditato sulla propria fidelity card i punti della spesa accumulati dai clienti del supermercato, e rinviando per la decisione alla Corte di appello di Milano.
Per la Suprema corte, infatti, “giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa”. Simili specificazioni “hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità”.
All'opposto: “Nel caso in esame la Corte territoriale, al fine di giudicare la proporzionalità della sanzione, ha omesso ogni considerazione riguardo alla graduazione della pena, limitandosi ad affermare la sussistenza della fattispecie disciplinare”.
Bocciato, invece, il secondo motivo di ricorso relativo alla mancata predeterminazione delle sanzioni disciplinari. La Corte ha chiarito che “il codice disciplinare aziendale non necessariamente deve contenere una analitica e specifica predeterminazione delle infrazioni e, in relazione allo loro gravità, delle corrispondenti sanzioni secondo il rigore formale proprio del sistema sanzionatorio penale statuale”. Ma “è sufficiente che sia redatto in forma che renda chiare le ipotesi di infrazione, sia pure dandone una nozione schematica e non dettagliata delle varie prevedibili o possibili azioni del singolo” (link a www.diritto24.ilsole24ore.com).

PUBBLICO IMPIEGO: Anche nel caso di condanna definitiva del dipendente è possibile la ricostruzione della posizione giuridica ed economica per il periodo di sospensione cautelare.
Nella controversia in rassegna l'appellante, dipendente presso un Comune, veniva cautelativamente sospeso dal servizio a seguito di arresto, e, sottoposto a procedimento penale, veniva condannato a due anni di reclusione ed all'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.
L’Ente locale ha perciò applicato la sanzione disciplinare della sospensione della qualifica per sei mesi che l’interessato ha contestato presso il Tribunale amministrativo di primo grado; il Tar ha accolto il ricorso condannando l'amministrazione al pagamento del trattamento retributivo corrispondente alla durata della sospensione dal servizio. Il Comune, pertanto, ha impugnato la sentenza di primo grado, sostenendo di non essere tenuto al pagamento degli emolumenti per i periodi di sospensione sino all'esito del procedimento penale.
L'appello, secondo i giudici del Consiglio di Stato, è infondato: ai sensi dell'art. 91, d.P.R n. 3/1957, infatti, l'impiegato sottoposto a procedimento penale può essere sospeso dal servizio quando la natura del reato sia particolarmente grave, mentre deve necessariamente essere sospeso quando sia destinatario di misure restrittive della libertà personale.
La sospensione cautelare disposta a causa del procedimento penale, ove questo si concluda con sentenza di proscioglimento o di assoluzione, è revocata con conseguente diritto dell'imputato a godere di tutti gli assegni non percepiti, escluse le indennità di lavoro straordinario, mentre, nel caso in cui il procedimento penale si concluda con sentenza di proscioglimento o di assoluzione per motivi differenti da quelli di cui al comma 1 del cit. art. 91, la sospensione può essere mantenuta qualora venga iniziato, entro 180 giorni, apposito procedimento disciplinare.
I giudici di Palazzo Spada affermano che non risulta regolata l'ipotesi in cui il dipendente, sospeso ex art. 91, d.P.R.. n. 3/1957, sia destinatario, come in quest’occasione, di una sentenza definitiva di condanna. In tal caso, ritiene il collegio che, in base all'esame sistematico delle citate disposizioni, la misura sospensiva ed i relativi effetti debbano considerarsi sussistenti anche nel caso in cui la pubblica amministrazione non abbia iniziato il procedimento disciplinare (o questo sia stato annullato), allorché il dipendente sia stato destinatario di una sentenza di condanna passata in giudicato. Ciò in quanto la sentenza di condanna del pubblico dipendente, anche se non scontata, determina l'interruzione del rapporto di lavoro per fatto imputabile allo stesso, con conseguente insussistenza dei presupposti idonei a giustificare il ripristino dello status quo ante dell'impiegato a suo tempo sospeso (cfr. C.S., dec. n. 5568/2010).
Pertanto, la ricostruzione della posizione giuridica ed economica per il periodo di sospensione cautelare è possibile, nonostante l'intervenuta condanna definitiva, purché siano preventivamente dedotti i periodi corrispondenti alla condanna penale inflitta, anche se non scontata per l'eventuale sospensione condizionale della pena (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.10.2011 n. 5660 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai fini della legittimazione ad agire deve considerarsi l’effettiva concorrenzialità del settore merceologico e del bacino di utenza tra due attività.
Se da un lato è vero che la giurisprudenza, al fine di verificare la legittimazione ad agire, considera rilevante la distanza tra esercizi, va rilevato che, con il progressivo sviluppo delle strutture di vendita, si è ampliata l'interpretazione giurisprudenziale della vicinitas, nel senso di dare rilievo al collegamento territoriale in relazione al c.d “bacino di utenza”; pertanto, non può ritenersi dirimente, ai fini della legittimazione, l’effettiva distanza lineare tra due attività concorrenti, venendo in rilievo, piuttosto, l’effettiva concorrenzialità del settore merceologico e del bacino di utenza, per cui il criterio topografico della distanza tra due sedi commerciali ha acquisito un contenuto elastico, che va misurato in rapporto ai citati parametri (Consiglio di Stato, Sez. V , sentenza 21.10.2011 n. 5656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIAffidamenti blindati per l'ente. Palazzo Spada: sì a polizza fideiussoria.
Affidamento di servizi blindato per il comune. È legittima la clausola del bando che prevede una polizza fideiussoria per la quale, una volta ottenuta l'aggiudicazione, il concessionario dovrà essere in possesso di una fideiussione bancaria, pari al 10% dell'importo della gara vinta, in modo che l'ente locale abbia una garanzia rafforzata del pagamento da parte del concessionario del canone offerto per ogni stallo.
È quanto emerge dalla sentenza 21.10.2011 n. 5636 della V Sez. del Consiglio di stato.
Stallo escluso. Accolto il ricorso dell'amministrazione nell'ambito di un contenzioso sull'affidamento della gestione dei parcheggi: legittima l'esclusione dalla gara dell'azienda concorrente che, con riferimento alla cauzione prescritta dal bando, allega all'offerta soltanto l'appendice scheda-tecnica, secondo lo schema tipo 1.1. di cui al dm 123/2004, rilasciata dalla compagnia assicurativa.
Il bando di gara parla chiaro: dispone espressamente a pena di esclusione che la polizza fideiussoria debba contenere «l'impegno a rilasciare, in caso di aggiudicazione dell'appalto, una fideiussione bancaria pari al 10% dell'importo di aggiudicazione, oltre Iva se e in quanto dovuta, da svincolarsi dopo due mesi dalla fine del contratto con l'espressa previsione che, se non si ottempererà al pagamento (del canone), il comune potrà procedere alla riscossione della stessa, senza ulteriori adempimenti e con la contestuale risoluzione del contratto».
La clausola voluta dall'amministrazione è pienamente lecita perché le relative prescrizioni puntano a evitare eventuali contestazioni in sede di esecuzione del contratto: nonostante le cauzioni provvisorie e definitive ex articoli 75 e 113 dlgs 163/2006 siano garanzie autonome e/o a prima richiesta, cioè prive di accessorietà con il debito dell'obbligato principale, non si può escludere a priori che il soggetto aggiudicatario (che è il debitore principale) possa agire in via di regresso e/o rivalsa nei confronti del comune garantito (articolo ItaliaOggi del 25.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di ultimazione delle opere ai fini dell’applicabilità della disciplina sul condono edilizio coincide con l’esecuzione del rustico.
Diversamente da quanto sostenuto dai primi giudici, la giurisprudenza sul punto ha avuto modo di precisare che la nozione di ultimazione delle opere, cui occorre far riferimento ai fini dell’applicabilità della disciplina sul condono edilizio, coincide con l’esecuzione del rustico [da intendersi come muratura priva di rifinitura (Cass. pen., sez. III, 02.12.1998, n. 10082) e da non confondere con lo scheletro, le pareti esterne non potendo considerarsi mere rifiniture (C.d.S., sez. IV, 12.03.2009, n. 1474)] e comprende anche il necessario completamento della copertura (Cass. pen. Sez. III, 02.012.2008, n. 8064; 15.02.2005, n. 10896; C.d.S., sez. IV, 07.09.2006, n. 5212; sez. V, 18.11.2004, n. 7547; 20.10.2000, n. 5638) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.10.2011 n. 5625 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Non è prospettabile una questione di giurisdizione sulla domanda di accesso a documenti amministrativi.
Come chiarito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4/1999 e dalla successiva giurisprudenza (di recente, Cons. St. Sez. VI, 19.04.2011, n. 2434; Sez. VI, 12.01.2011, n. 117), la normativa sull’accesso ha il medesimo ambito di applicazione dell’art. 97 della costituzione e riguarda tutti gli atti riferibili all’amministrazione, non rilevando la loro disciplina sostanziale pubblicistica o privatistica e neppure se, nel caso di controversia, vi sia la giurisdizione del giudice ordinario o di quello amministrativo.
Pertanto, non è prospettabile la questione di giurisdizione in ordine alla domanda di accesso a documenti amministrativi, non potendo in tale sede il giudice verificare altresì la giurisdizione sulla controversia avente ad oggetto atti del procedimento cui appartengono quelli richiesti e, per tale via, omettere di pronunciarsi a riguardo.
Non può, in altri termini, la questione del riparto di giurisdizione sul ricorso principale –peraltro concernente il corretto esercizio da parte dell’amministrazione comunale, mediante atti organizzativi, del potere di escludere o fortemente limitare il ricorso alla copertura di posti attraverso la procedura concorsuale, in applicazione dei commi 519 e 558 della legge 27.12.2006, n. 296 (cfr. Cass. SS.UU. ord. 01.07.2010, n. 15648)- influire sulla decisione del ricorso avverso il diniego di accesso, sul quale il giudice amministrativo conosce in sede di giurisdizione esclusiva (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.10.2011 n. 5566 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Può ricorrere contro il bando di gara la ditta che abbia solo comunicato di non poter presentare un’offerta remunerativa in base allo stesso.
---------------
Se è vero che la misura del prezzo a base d'asta non implica una mera scelta di convenienza e opportunità, ma una valutazione alla stregua di cognizioni tecniche (andamento del mercato nel settore di cui trattasi, tecnologie che le ditte devono adoperare nell'espletamento dei servizi oggetto dell'appalto, numero di dipendenti che devono essere impiegati, rapporto qualità-prezzo per ogni servizio) sulla quale è possibile il sindacato del giudice amministrativo, va precisato che tale sindacato è limitato ai casi di complessiva inattendibilità delle operazioni e valutazioni tecniche operate dall'amministrazione, alla illogicità manifesta, alla disparità di trattamento, non potendo il giudizio che il Tribunale compie giungere alla determinazione del prezzo congruo.

Va difatti ricordato che la legittimazione del soggetto che contrasta immediatamente il bando di gara (in relazione alle sue clausole "escludenti"), senza partecipare al procedimento, ha una giustificazione logica evidente, direttamente collegata alla affermazione giurisprudenziale dell'onere di sollecita impugnazione di tale atto lesivo, senza attendere l'esito della selezione.
La certezza del pregiudizio determinato dal bando rende superflua la domanda di partecipazione e l'adozione di un atto esplicito di esclusione.
Come ben ha ricordato l’Adunanza Plenaria nella citata sentenza n. 4/2011 “al di fuori delle ipotesi tassativamente enucleate dalla giurisprudenza, pertanto, deve restare fermo il principio secondo il quale la legittimazione al ricorso, nelle controversie riguardanti l'affidamento dei contratti pubblici, spetti esclusivamente ai soggetti partecipanti alla gara, poiché solo tale qualità si connette all'attribuzione di una posizione sostanziale differenziata e meritevole di tutela. In questa veste, il ricorrente che ha partecipato legittimamente alla gara può far valere tanto un interesse "finale" al conseguimento dell'appalto affidato al controinteressato, quanto, in via alternativa l'interesse strumentale alla caducazione dell'intera gara e alla sua riedizione".
Ciò premesso, va ricordato che la definitiva esclusione o l'accertamento della illegittimità della partecipazione alla gara o la mancata partecipazione impediscono di assegnare al concorrente la titolarità di una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare gli esiti della procedura selettiva.
---------------
Va ricordato, in punto di diritto, che se è vero che la misura del prezzo a base d'asta non implica una mera scelta di convenienza e opportunità, ma una valutazione alla stregua di cognizioni tecniche (andamento del mercato nel settore di cui trattasi, tecnologie che le ditte devono adoperare nell'espletamento dei servizi oggetto dell'appalto, numero di dipendenti che devono essere impiegati, rapporto qualità-prezzo per ogni servizio) sulla quale è possibile il sindacato del giudice amministrativo, va precisato che tale sindacato è limitato ai casi di complessiva inattendibilità delle operazioni e valutazioni tecniche operate dall'amministrazione, alla illogicità manifesta, alla disparità di trattamento, non potendo il giudizio che il Tribunale compie giungere alla determinazione del prezzo congruo (cfr. TAR Sicilia Catania, sez. II, 09.05.2006 , n. 716, Tar Sardegna, Sez. I, 20.5.2010, n. 1232) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 18.10.2011 n. 992 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Funzionario pubblico investito di un ruolo dirigenziale. Per le mansioni apicali sono dovute le differenze retributive.
Nel caso in cui ad un funzionario ministeriale siano attribuite in maniera illegittima funzioni dirigenziali e' dovuta, comunque, la differenza retributiva laddove le prestazioni sono svolte secondo i compiti propri del caso.
E' l'importante sentenza della Corte di Cassazione, che ha riconosciuto che ad un funzionario reggente deve essere pagata la retribuzione da dirigente fino a quando il posto vacante non viene ricoperto.
La Corte d'Appello aveva rigettato la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di una città umbra con la quale il Ministero della Giustizia era stato condannato al pagamento in favore di un funzionario pubblico dell’importante somma di € 290.551,28 a titolo di differenze retributive dovutegli a decorrere dal novembre del 2000 per aver diretto una Casa Circondariale, individuata da quella data come ufficio di livello dirigenziale non generale per effetto del D.M. del 23.10.2001.
Le mansioni superiori nella PA.
Come è stato più volte affermato in giurisprudenza la disciplina legale del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (desunta principalmente dall'art. 97 Cost., secondo la lettura che ne ha dato ripetutamente la Corte Costituzionale, del quale sono attuazione il D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 35 e 52), non consente inquadramenti automatici del personale, in base al profilo professionale posseduto o alle mansioni svolte.
Il D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 –Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni pubbliche- prevede, all’articolo 52, che per obiettive esigenze di servizio il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore:
a) nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti;
b) nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione dell'assenza per ferie, per la durata dell'assenza.
Si considera svolgimento di mansioni superiori soltanto l'attribuzione in modo prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di dette mansioni.
Nei casi suindicati per il periodo di effettiva prestazione, il lavoratore ha diritto al trattamento previsto per la qualifica superiore. Qualora l'utilizzazione del dipendente sia disposta per sopperire a vacanze dei posti in organico, immediatamente, e comunque nel termine massimo di novanta giorni dalla data in cui il dipendente è assegnato alle predette mansioni, devono essere avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti. Al di fuori delle ipotesi appena viste è nulla l'assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore. Il dirigente che ha disposto l'assegnazione risponde personalmente del maggior onere conseguente, se ha agito con dolo o colpa grave.
L’analisi dei giudici della Cassazione.
Per i giudici di merito di secondo grado l’applicazione art. 52 del D.lgs. n. 165/2001 dipendeva dalla circostanza che nella fattispecie non poteva ritenersi sussistente l'ipotesi contemplata da quest'ultima norma, vale a dire lo svolgimento di mansioni della qualifica immediatamente superiore, in quanto il ruolo dirigenziale rivendicato dal funzionario ricorrente rappresentava uno status, comportante poteri ed obblighi diversi, e non una qualifica superiore. Il funzionario per far valere le proprie ragioni ricorreva in Cassazione.
Ai giudici di legittimità si chiedeva in particolare se in applicazione dell'art. 4 D.lgs. 146/2000, sia illegittima l'attribuzione delle mansioni superiori ad un funzionario di livello C3 per un periodo di tempo illimitato, quando vi sia totale assenza dell'avvio delle procedure per la nomina del dirigente e quindi se sia stato erroneamente ritenuto dalla Corte territoriale che il ricorrente, pur svolgendo per molti anni con continuità, le funzioni di dirigente del penitenziario abbia avuto attribuito unicamente il livello retributivo di C/3 ancorché contestualmente l'amministrazione datoriale non abbia avviato alcuna procedura per la copertura del posto di dirigente dell'istituto.
I giudici di merito osservano che l'art. 31 del CCNL del i 16/02/1999 prevede l'istituzione di un Fondo unico di amministrazione presso ciascuna amministrazione e le fonti di finanziamento dello stesso Fondo. Quindi, come è dato vedere, non si tratta di una indennità appositamente destinata ai casi di sostituzione di dirigenti impediti o assenti o di reggenza in attesa di dirigenti da nominare, bensì di un emolumento previsto per il personale preposto alla direzione di istituti penitenziari, inteso a compensare i rischi e le responsabilità connaturati all'espletamento dell'attività penitenziaria in genere, la qual cosa prescinde dalla circostanza dell'espletamento di mansioni superiori dirigenziali in regime di sostituzione o di reggenza.
La giurisprudenza della Corte costituzionale, infatti, ha ripetutamente affermato l'applicabilità, anche nel pubblico impiego e nel lavoro pubblico in generale, dell’articolo 36 Costituzione, nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionale anche alla qualità del lavoro prestato; pertanto, si deve ritenere che intenzione del legislatore sia stata di rimuovere, con la disposizione correttiva, una norma in contrasto con i principi costituzionali.
D'altra parte, la considerazione delle specifiche caratteristiche delle posizioni organizzative di livello dirigenziale e delle relative attribuzioni regolate dal contratto di incarico, come della diversità delle "carriere", non può escludere l'applicazione della disciplina in esame quando venga dedotto, come nella specie, l'espletamento di fatto, protratto nel tempo, di mansioni dirigenziali da parte di un funzionario di posizione economica "C3", nonostante l'esistenza di una norma (art. 4 del D.lgs n. 146/2000 sulla copertura delle sedi di livello dirigenziale) che consentiva di avvalersi del personale con specifica esperienza professionale per la copertura delle sedi dirigenziali solo nella fase transitoria e che prevedeva l'adozione, non verificatasi nella fattispecie, di adeguate procedure selettive, con le modalità indicate, per l'assunzione dei dirigenti; tale ipotesi può essere, invece, ricondotta certamente alla previsione del quinto comma dell’articolo 52 del D.Lgs. n. 165/2001 relativa al conseguimento del diritto corrispondente trattamento economico, secondo la ratio della norma che è quella di assicurare al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’articolo 36 della Costituzione.
Le conclusioni.
La Corte di Cassazione accoglie il ricorso del funzionario e rinvia a diversa Corte d'appello, che uniformandosi ai suddetti principi, deve provvedere ad individuare l'esatto periodo di svolgimento delle superiori funzioni dirigenziali da parte del ricorrente e a determinare le relative differenze retributive che gli competono con riguardo al diverso trattamento economico del ruolo dirigenziale ricoperto (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione civile, sentenza 12.10.2011 n. 20978).

APPALTI SERVIZIGestione dei tributi: cadono i vincoli sul capitale sociale. Interessati i soggetti iscritti all'albo.
Le società partecipanti alle gare per la gestione dei tributi locali possono avvalersi del capitale sociale di altri soggetti iscritti all'albo.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 08.10.2011 n. 5496, ribaltando la decisione di primo grado.
Sul punto, il Tar Latina aveva escluso la possibilità di utilizzare l'avvalimento del capitale sociale minimo, trattandosi di requisito soggettivo e personalissimo preordinato a garantire l'affidabilità dell'impresa partecipante (sentenza 1865/2010).
L'impostazione del Tar non è stata tuttavia condivisa dal Consiglio di Stato, il quale ha precisato che l'avvalimento, istituto di derivazione comunitaria disciplinato dall'articolo 49 del Dlgs 163/2006, ha portata generale ed è finalizzato a soddisfare i requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, usufruendo dei requisiti di un altro soggetto. Pertanto l'avvalimento del capitale sociale non incontra alcun limite e prevale su qualunque disposizione contraria, compresa quella che richiedeva il requisito del capitale sociale di 10 milioni di euro per l'iscrizione all'albo dei soggetti abilitati a effettuare l'accertamento e la riscossione delle entrate locali.
Si tratta dell'albo ministeriale introdotto dall'articolo 53 del Dlgs 446/1997, che integra un vero e proprio obbligo per gli enti locali di riservare la partecipazione alle gare solo alle imprese in possesso di questo requisito, che costituisce garanzia di affidabilità e capacità operativa assicurata da una preselezione operata a monte. Il regolamento istitutivo dell'albo –approvato con Dm Finanze 289/2000– prevede il possesso di diversi requisiti (tecnici, finanziari, morali, eccetera) tra cui il capitale sociale minimo, sul quale è più volte intervenuto il legislatore. In particolare il Dl 185/2008 ha quadruplicato l'importo precedente elevandolo a 10 milioni di euro, ma la disposizione è stata censurata e sottoposta al vaglio della Corte Ue per presunta violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità (Tar Milano 210/2010).
Per risolvere il contrasto con l'ordinamento comunitario, il Dl 40/2010 ha introdotto tre classi operative, con diverse soglie di capitale sociale minimo (uno, cinque e dieci milioni), proporzionate alla popolazione degli enti, in modo da consentire anche a operatori di minori dimensioni di poter svolgere l'attività per i piccoli comuni. Operatori che, alla luce della decisione 5496/2011 del Consiglio di Stato, potranno ora partecipare alle gare bandite dai Comuni più grandi, chiedendo in prestito ad un'altra società il requisito del capitale sociale minimo richiesto dal bando.
Restano comunque da sciogliere alcuni nodi. Andrebbe in primo luogo chiarito se l'iscrizione all'albo sia necessaria anche per svolgere attività complementari ed accessorie (inserimento dati, rilevazione superfici, bollettazione, eccetera) –come ha più volte affermato il ministero delle Finanze e in un primo momento anche il Consiglio di Stato (2792/2003)– oppure se si deve seguire l'orientamento più recente del Consiglio di Stato che ritiene obbligatoria l'abilitazione «soltanto per l'affidamento dei servizi di liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi» non in caso di attività di supporto (1878/2006).
Inoltre il legislatore si è sempre limitato a intervenire sulla misura minima del capitale sociale, requisito che in realtà non garantisce l'ente locale dagli eventuali inadempimenti delle società. È necessaria pertanto una rivisitazione complessiva delle regole per l'iscrizione all'albo, revisione peraltro prevista chiaramente dall'articolo 3 del Dl 40/2010, ma rimasta sinora lettera morta (articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2011 - link a www.corteconti).

APPALTI: Obbligo di comunicare l'avvenuta esclusione.
Nelle gare pubbliche di appalto, l'obbligo previsto dall'art. 79, comma 5, D.Lgs. n. 163 del 2006 di comunicare l'avvenuta esclusione, entro un termine non superiore a cinque giorni, non contiene alcuna espressa sanzione, e pertanto non può dedursi, da una omissione che non ha arrecato alcun nocumento alla parte interessata, l'esistenza di un vizio tale da rendere annullabile il provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.10.2011 n. 5491 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ciò che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente"), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" -termine espunto dall'attuale disciplina-, comunque, rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
E la distinzione non è priva di rilievo, posto che va precisato il differente regime cui sono soggetti gli interventi di ristrutturazione edilizia rispetto alle nuove costruzioni: ove la ristrutturazione mantenga inalterati i parametri urbanistici ed edilizi preesistenti, l'intervento non è subordinato al rispetto dei vincoli posti dagli strumenti urbanistici sopravvenuti, giacché la legittimazione urbanistica del manufatto da demolire si trasferisce su quello ricostruito.
Dai principi sopra esposti si possono prospettare le seguenti categorie di ristrutturazione edilizia:
1) interventi edilizi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso (necessitanti il permesso di costruire);
2) interventi edilizi consistenti nella realizzazione di un organismo edilizio identico al precedente, senza aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, né, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, mutamenti della destinazione d'uso (per i quali è sufficienti la d.i.a.);
3) ristrutturazione relativa alla ricostruzione seguita alla demolizione di un organismo di cui mantiene quanto meno sagoma e volume.
Quindi, non è configurabile un’ipotesi residuale di ristrutturazione derivante da una demolizione e ricostruzione che non mantenga, quanto meno, sagoma e volume.
Per mera completezza, è da dire che, in riferimento al concetto di ristrutturazione, è possibile, sia pure in maniera del tutto limitata, anche la traslazione dell’area originaria. Secondo la Circolare 07.08.2003, n. 4174 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti <<debbono considerarsi ammissibili, in sede di ristrutturazione edilizia, solo modifiche di collocazione rispetto alla precedente area di sedime, sempreché rientrino nelle varianti non essenziali, ed a questo fine il riferimento e' nelle definizioni stabilite dalle leggi regionali in attuazione dell'art. 32 del Testo unico. Resta in ogni caso possibile, nel diverso posizionamento dell'edificio, adeguarsi alle disposizioni contenute nella strumentazione urbanistica vigente per quanto attiene allineamenti, distanze e distacchi.
In ragione delle considerazioni espresse, per gli interventi di demolizione e ricostruzione inclusi nella ristrutturazione non può trovare applicazione quella parte della normativa vigente che detta prescrizioni per quanto riguarda gli indici di edificabilità ed ogni ulteriore parametro di carattere quantitativo (altezze, distanze, distacchi, inclinate, ecc.) riferibile alle nuove costruzioni. Ciò in quanto il relativo rispetto potrebbe risultare inconciliabile con la demolizione e ricostruzione intesa come operazione da effettuarsi con la sola osservanza della sagoma e della volumetria preesistenti (ed in tale prospettiva, qualora non venga utilizzata per intero la sagoma e la volumetria esistenti, l'intervento non può essere incluso nella categoria della ristrutturazione edilizia).
Va però soggiunto che la demolizione e ricostruzione, rientrando per espressa declaratoria legislativa nella ristrutturazione edilizia, dovrà rispettare le prescrizioni ed i limiti dello strumento urbanistico vigente per quanto compatibili con la natura dell'intervento e quindi non in contrasto con la possibilità, esplicitamente prevista dal legislatore, di poter operare la ricostruzione attenendosi al solo rispetto di sagoma e volume. Più specificatamente la demolizione e ricostruzione può comportare aumenti della superficie utile nei limiti consentiti o non preclusi per la ristrutturazione edilizia: in proposito, deve ritenersi insita nella natura di tale intervento la possibilità di aumento della superficie utile con il conseguente incremento del carico urbanistico, stante la fondamentale ratio legislativa di favorire il rinnovo del patrimonio edilizio anche sotto un profilo tecnico-qualitativo che comporta il più delle volte, per la stessa praticabilità dell'intervento, un diverso dimensionamento della superficie utile>>.
Secondo condivisibile giurisprudenza (cfr. TAR Lombardia Brescia, sez. I, 09.02.2011, n. 239; Cons. St., Sez. IV, 09.07.2010 n. 4462, ivi richiamato), <<la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha ripetutamente chiarito che . . . il concetto di ristrutturazione edilizia comprende anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, purché tale ricostruzione assicuri la piena conformità di sagoma, di volume e di superficie tra il vecchio ed il nuovo manufatto e venga, comunque, effettuata in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della demolizione (si veda, fra le tante, Cons. St., Sez. sez. V, 03.04.2000, n. 1906)>>.
Intervenuto, come sopra chiarito, a definire siffatto intervento edilizio, l'art. 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, e la modifica introdotta dall'art. 1 del D.Lgs. 27.12.2002, n. 301, il vincolo della fedele ricostruzione richiesto dalla prima norma è venuto meno, così estendendosi ulteriormente il concetto della ristrutturazione edilizia, che, continua la decisione n. 239/2011 Tar Brescia cit., <<per quanto riguarda gli interventi di ricostruzione e demolizione ad essa riconducibili, resta distinta dall'intervento di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione corrisponda, quanto meno nel volume e nella sagoma, al fabbricato demolito (Cons. St., Sez. IV, 28.07.2005 n. 4011; Cons. St., Sez. V, 30.08.2006 n. 5061).
In particolare, la giurisprudenza (cfr. Cons. St., Sez. VI, 16.12.2008 n. 6214; Sez. IV, 16.06.2008 n. 2981; Sez. V, 04.03.2008 n. 918; Sez. IV, 26.02.2008 n. 681) ha sottolineato che ciò che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente"), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" -termine espunto dall'attuale disciplina-, comunque, rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente
>>.
Quindi, non esiste un tertius genus di ristrutturazione preceduta da demolizione che consenta anche la realizzazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comporti aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comporti mutamenti della destinazione d'uso.
E la distinzione, continua la citata decisione del TAR Lombardo n. 239/2011, <<non è priva di rilievo, posto che va precisato il differente regime cui sono soggetti gli interventi di ristrutturazione edilizia rispetto alle nuove costruzioni: ove la ristrutturazione mantenga inalterati i parametri urbanistici ed edilizi preesistenti, l'intervento non è subordinato al rispetto dei vincoli posti dagli strumenti urbanistici sopravvenuti, giacché la legittimazione urbanistica del manufatto da demolire si trasferisce su quello ricostruito (cfr. TAR Milano, Sez. 2°, 07.09.2010 n. 5122, Cons. St, Sez. V, 14.11.1996 n. 1359; Cons. St., Sez. V, 28.03.1998 n. 369; Cass. civ., sez. II, 12.06.2001 n. 7909; Tar Calabria, Reggio Calabria, 24.01.2001 n. 36; Puglia, Bari, sez. III, 22.07.2004 n. 3210)>> .
Ritiene il Collegio, conclusivamente, che dai principi sopra esposti si possano prospettare le seguenti categorie di ristrutturazione edilizia:
1) interventi edilizi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso (necessitanti il permesso di costruire);
2) interventi edilizi consistenti nella realizzazione di un organismo edilizio identico al precedente, senza aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, né, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, mutamenti della destinazione d'uso (per i quali è sufficienti la d.i.a.);
3) ristrutturazione relativa alla ricostruzione seguita alla demolizione di un organismo di cui mantiene quanto meno sagoma e volume (per i quali è sufficienti la d.i.a. e, in Sicilia –secondo la medesima citata decisione n. 480/2010 del CG –, l’autorizzazione edilizia ex art. 5 L.R. n. 37/1985).
Quindi, non è configurabile un’ipotesi residuale di ristrutturazione derivante da una demolizione e ricostruzione che non mantenga, quanto meno, sagoma e volume.
Invero, per mera completezza, è da dire che, in riferimento al concetto di ristrutturazione, è possibile, sia pure in maniera del tutto limitata, anche la traslazione dell’area originaria.
Secondo la Circolare 07.08.2003, n. 4174 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti <<debbono considerarsi ammissibili, in sede di ristrutturazione edilizia, solo modifiche di collocazione rispetto alla precedente area di sedime, sempreché rientrino nelle varianti non essenziali, ed a questo fine il riferimento e' nelle definizioni stabilite dalle leggi regionali in attuazione dell'art. 32 del Testo unico. Resta in ogni caso possibile, nel diverso posizionamento dell'edificio, adeguarsi alle disposizioni contenute nella strumentazione urbanistica vigente per quanto attiene allineamenti, distanze e distacchi.
In ragione delle considerazioni espresse, per gli interventi di demolizione e ricostruzione inclusi nella ristrutturazione non può trovare applicazione quella parte della normativa vigente che detta prescrizioni per quanto riguarda gli indici di edificabilità ed ogni ulteriore parametro di carattere quantitativo (altezze, distanze, distacchi, inclinate, ecc.) riferibile alle nuove costruzioni. Ciò in quanto il relativo rispetto potrebbe risultare inconciliabile con la demolizione e ricostruzione intesa come operazione da effettuarsi con la sola osservanza della sagoma e della volumetria preesistenti (ed in tale prospettiva, qualora non venga utilizzata per intero la sagoma e la volumetria esistenti, l'intervento non può essere incluso nella categoria della ristrutturazione edilizia).
Va però soggiunto che la demolizione e ricostruzione, rientrando per espressa declaratoria legislativa nella ristrutturazione edilizia, dovrà rispettare le prescrizioni ed i limiti dello strumento urbanistico vigente per quanto compatibili con la natura dell'intervento e quindi non in contrasto con la possibilità, esplicitamente prevista dal legislatore, di poter operare la ricostruzione attenendosi al solo rispetto di sagoma e volume. Più specificatamente la demolizione e ricostruzione può comportare aumenti della superficie utile nei limiti consentiti o non preclusi per la ristrutturazione edilizia: in proposito, deve ritenersi insita nella natura di tale intervento la possibilità di aumento della superficie utile con il conseguente incremento del carico urbanistico, stante la fondamentale ratio legislativa di favorire il rinnovo del patrimonio edilizio anche sotto un profilo tecnico-qualitativo che comporta il più delle volte, per la stessa praticabilità dell'intervento, un diverso dimensionamento della superficie utile
>> (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 06.10.2011 n. 2417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALINo all'apertura senza limiti orari.
È legittimo il diniego del Comune all'apertura per 24 ore su 24 e per tutti i giorni della settimana, dei «negozi automatici» che provvedono alla vendita di alimenti caldi e pronti, mediante apparecchi automatici.
Così ha deciso il TAR Toscana, Sez. II, sentenza 06.10.2011 n. 1454, che ha stabilito, tra l'altro, un'importante interpretazione del principio di libertà di concorrenza.
Il caso riguardava una Società, chiamata «Caldo in automatico», che svolgeva attività di vendita di alimenti pronti per il consumo mediante apparecchi automatici collocati in locali adibiti esclusivamente a questa attività e senza personale addetto alla consegna dei prodotti e alla riscossione del denaro.
La Società aveva chiesto l'autorizzazione all'apertura di questi locali per 24 ore su 24 e per tutti i giorni della settimana, ma il Comune aveva risposto negativamente. La società aveva allora proposto ricorso al Tar, sostenendo tra l'altro che i negozi automatici costituivano una categoria speciale di esercizi pubblici assimilabili alle rosticcerie o alle gastronomie e che le limitazioni all'orario di apertura violavano la libertà di concorrenza. Il Tar ha però respinto il ricorso in base ai seguenti argomenti, tra loro collegati.
I negozi automatici non sono riconducibili agli esercizi di somministrazione o di vendita, ma anche se dovessero essere considerati una categoria nuova o speciale, varrebbero per essi i limiti previsti per tutti gli altri esercizi commerciali, e non potrebbe essere consentita la loro apertura nelle ore notturne.
Le limitazioni di orario per i negozi automatici non violano la libertà di concorrenza, perché il principio della libertà di concorrenza deve essere considerato in riferimento al «diritto di libero accesso al mercato di riferimento».
Questo principio riguarda quindi la concorrenza «nel mercato», e non quello, più ristretto, legato «all'attività di imprenditori già presenti nel mercato di riferimento».
Di conseguenza, le limitazioni di orario per i negozi automatici non incidono negativamente sull'accesso al mercato di riferimento.
La sentenza, in riferimento al caso di specie, è esatta, ed ha il merito di avere precisato alcune significative sfaccettature di quel complesso poliedro giuridico che è il principio della libertà di concorrenza (articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Poiché l’art. 149, lett. a), D.Lg.vo n. 42/2004 statuisce che l’esonero dall’obbligo del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica viene espressamente stabilito soltanto “per gli interventi di manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, consolidamento statico e restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”, deve ritenersi che non può rientrare nell’ambito oggettivo di tale norma l’installazione di pannelli fotovoltaici sulla falda di tetto in quanto anch’essi alterano l’aspetto esteriore degli edifici e perciò non può escludersi a priori che possano risultare incompatibili con la protezione del contesto paesaggistico tutelato, come quello, nella specie, previsto dall’art. 142, comma 1, lett. f), D.Lg.vo n. 42/2004.
Va rilevato che l’installazione di tre impianti fotovoltaici, aventi una potenza complessiva di 46,98 kw, sul tetto dei due capannoni della società ricorrente (“con lo stesso orientamento e inclinazione” delle falde, di cui uno, composto da 6 stringhe di 13 moduli, e gli altri due, composti da 3 stringhe di 16 moduli) rientra quantomeno nell’ambito degli interventi di manutenzione straordinaria, espressamente previsti dall’art. 31, comma 1, lett. b), L. n. 457/1978, in quanto trattasi della realizzazione di un nuovo impianto tecnologico, che non altera i volumi e le superfici e non comporta la modifica della destinazione d’uso dell’immobile che ci occupa.

In via preliminare, va precisato che, pur prescindendo dalla circostanza che la società ricorrente non ha dimostrato che i tre impianti fotovoltaici di cui è causa hanno una superficie di massimo 25 mq., non risulta condivisibile la tesi, proposta dalla società ricorrente, secondo cui il combinato disposto di cui al punto 28 dell’Allegato 1 al DPR n. 139/2010 ed all’art. 11, comma 3, D.Lg.vo n. 115/2008 andrebbe interpretato nel senso che l’installazione dei pannelli solari, “aderenti o integrati nei tetti degli edifici con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falda e i cui componenti non modificano la sagoma degli edifici”, non sarebbe sottoposta neppure al procedimento semplificato del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, previsto dall’art. 146, comma 9, D.Lg.vo n. 42/2004 e disciplinato dal DPR n. 139 del 09.07.2010 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 26.08.2010 ed entrato in vigore il 10.09.2010), dal momento che l’art. 11, comma 3, D.Lg.vo n. 115/2008 (come sostituito dall’art. 5 D.L. n. 40/2010 conv. nella L. n. 73/2010), espressamente richiamato dal punto 28 dell’Allegato 1 al DPR n. 139/2010, statuisce soltanto che “sono considerati interventi di manutenzione ordinaria e non sono soggetti alla disciplina della Denuncia di Inizio Attività di cui agli artt. 22 e 23 DPR n. 380/2001”, ma non prevede alcunché con riferimento all’autorizzazione paesaggistica, mentre l’analogo art. 6, comma 2, lett. d), DPR n. 380/2001 (anch’esso sostituito dall’art. 5 D.L. n. 40/2010 conv. nella L. n. 73/2010) al precedente comma 1 fa espressamente salve le disposizioni contenute nel D.Lg.vo n. 42/2004.
Poiché l’art. 149, lett. a), D.Lg.vo n. 42/2004 statuisce che l’esonero dall’obbligo del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica viene espressamente stabilito soltanto “per gli interventi di manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, consolidamento statico e restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”, deve ritenersi che non può rientrare nell’ambito oggettivo di tale norma l’installazione del predetto tipo di pannelli solari, in quanto anch’essi alterano l’aspetto esteriore degli edifici e perciò non può escludersi a priori che possano risultare incompatibili con la protezione del contesto paesaggistico tutelato, come quello, nella specie, previsto dall’art. 142, comma 1, lett. f), D.Lg.vo n. 42/2004.
Comunque, va rilevato che, al momento, non risulta vigente alcuna disposizione normativa, che non sottopone ad autorizzazione paesaggistica l’installazione della sopra descritta tipologia di pannelli solari.
Pertanto, deve ritenersi che non vi sia corrispondenza biunivoca tra interventi liberi ai fini edilizi ed interventi esonerati dall’obbligo del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, in quanto le discipline giuridiche del paesaggio e dell’edilizia sono connesse, ma distinte, poiché le parti del territorio di rilevanza paesaggistica esprimono valori ed interessi pubblici diversi ed autonomi rispetto a quelli dell’ordinata e razionale trasformazione dello stesso territorio, sottesi alla normativa in materia di edilizia ed urbanistica.
In ogni caso, tenuto conto della circostanza che la società ricorrente ha in seguito ottenuto, ai sensi dell’art. 146 D.Lg.vo n. 42/2004, il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica con la Determinazione Dirigente Ufficio Urbanistica e Tutela del Paesaggio della Regione Basilicata n. 1678 del 6.12.2010, il ricorso in epigrafe va accolto, in quanto, poiché l’ultima frase dell’art. 6, comma 3, L. n. 394/1991 statuisce espressamente che “resta ferma la possibilità di realizzare gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria di cui alle lettere a) e b) del primo comma dell’art. 31 L. n. 457/1978” (anche se sono sottoposti all’onere di darne comunicazione agli organi di gestione dei Parchi Nazionali), cioè stabilisce che gli interventi edilizi di manutenzione ordinaria e straordinaria ex art. 31, comma 1, lett. a) e b), L. n. 457/1978 possono sempre essere realizzati nell’ambito dei perimetri dei Parchi Nazionali, si desume agevolmente che il successivo art. 13 L. n. 394/1991, nella parte in cui sottopone al preventivo nulla osta dell’Ente Parco Nazionale il “rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del Parco” Nazionale, si riferisce ad interventi edilizi diversi da quelli di manutenzione ordinaria e straordinaria ex art. 31, comma 1, lett. a) e b), L. n. 457/1978.
Al riguardo, va precisato che l’espresso rinvio a queste ultime due norme, a maggiore tutela degli interessi pubblici di tutela dell’ambiente, va qualificato come di carattere statico e non dinamico, cioè va applicato soltanto alle fattispecie indicate nelle predette lett. a) e b) del comma 1 dell’art. 31 L. n. 457/1978 e perciò non può essere esteso alle ulteriori fattispecie di manutenzione ordinaria e straordinaria, individuate successivamente dal Legislatore, come quella di cui è causa istituita dall’art. 5, comma 1, D.L. n. 40/2010 conv. nella L. n. 73/2010, il quale ha modificato sia l’art. 6 DPR n. 380/2001, sia l’art. 11, comma 3, D.Lg.vo n. 115/2008.
Infatti, poiché la ratio del nulla osta ex art. 13 L. n. 394/1991 è quella di tutelare e valorizzare il patrimonio ecologico-naturale di una particolare località (secondo le finalità previste dall’art. 1, comma 3, L. n. 349/1991, come: la conservazione delle specie animali e vegetali, delle singolarità geologiche e delle formazioni paleontologiche; realizzazione dell’integrazione tra uomo e ambiente naturale, mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali; promozione di attività ricreative compatibili; difesa e ricostituzione degli equilibri idraulici e idrogeologici) e non l’estetica del paesaggio, il predetto nulla osta non risulta necessario con riferimento agli interventi edilizi di manutenzione ordinaria e straordinaria ex art. 31, comma 1, lett. a) e b), L. n. 457/1978, mentre risulta utile soltanto l’onere di comunicazione di tali interventi edilizi, al fine di vigilare e controllare se effettivamente trattasi di interventi edilizi di manutenzione ordinaria e straordinaria ex art. 31, comma 1, lett. a) e b), L. n. 457/1978.
Inoltre, va sottolineato che “la possibilità di realizzare gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, così come definiti dall’art. 31, comma 1, lett. a) e b), L. n. 457/1978, dandone comunicazione all’organismo di gestione” risulta confermata dall’art. 7, comma 2, DPR 08.12.2007, istitutivo dell’Ente Parco Nazionale Appennino Lucano Val d’Agri Lagonegrese.
Al riguardo va pure evidenziato che, comunque, il successivo art. 11 del medesimo DPR 08.12.2007 statuisce che “nelle more dell’entrata a regime dell’Ente Parco” (situazione attuale al momento della proposizione del ricorso in esame, in quanto non erano ancora stati approvati i Regolamento del Parco ex art. 11 L. n. 394/1991 ed il Piano del Parco ex art. 12 l. n. 394/1991), i pareri per i progetti e gli strumenti di pianificazione, previsti dagli artt. 6, 7 e 8 dello stesso DPR 08.12.2007, “sono ricompresi nelle rispettive procedure autorizzative espletate ai sensi dell’art. 142, comma 1, lett. f), D.Lg.vo n. 42/2004”, per cui, allo stato, in ogni caso, il nulla osta ex art. 13 L. 394/1991 andrebbe acquisito di regola nell’ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica anche mediante l’indizione di un’apposita Conferenza di servizi.
In conclusione, va rilevato che l’installazione dei tre predetti impianti fotovoltaici, aventi una potenza complessiva di 46,98 kw, sul tetto dei due capannoni della società ricorrente (“con lo stesso orientamento e inclinazione” delle falde, di cui uno, composto da 6 stringhe di 13 moduli, e gli altri due, composti da 3 stringhe di 16 moduli) rientra quantomeno nell’ambito degli interventi di manutenzione straordinaria, espressamente previsti dall’art. 31, comma 1, lett. b), L. n. 457/1978, in quanto trattasi della realizzazione di un nuovo impianto tecnologico, che non altera i volumi e le superfici e non comporta la modifica della destinazione d’uso dell’immobile che ci occupa.
Per completezza, va pure precisato che non può condividersi la tesi dell’Amministrazione resistente, secondo cui, poiché gli impianti fotovoltaici di cui è causa dovevano essere qualificati come “opere tecnologiche”, ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. a), DPR 08.12.2007 (istitutivo dell’Ente Parco Nazionale Appennino Lucano Val d’Agri Lagonegrese) tali opere, se ricadenti nella Zona 1, rientravano tra quelle sottoposte ad autorizzazione dell’Ente Parco, in quanto le “opere tecnologiche”, previste dal citato art. 7, comma 1, lett. a), DPR 08.12.2007, sono quelle autonome e distanti dagli immobili esistenti (anche se pertinenziali agli stessi immobili), mentre gli impianti fotovoltaici di cui è causa aderiscono (con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento) al tetto dei due esistenti capannoni rurali della azienda agricola ricorrente, come prescritto dall’art. 11, comma 3, D.Lg.vo n. 115/2008, per cui tali pannelli solari rientrano nell’ambito della manutenzione ordinaria (ai sensi del citato art. 11, comma 3, D.Lg.vo n. 115/2008) oppure, come sopra detto, nell’ambito della manutenzione straordinaria ai sensi dell’art. 31, comma 1, lett. b), L. n. 457/1978.
Diversamente, accedendo alla predetta tesi dell’Amministrazione resistente, secondo cui qualsiasi opera tecnologica, anche se va qualificata come opera di manutenzione ordinaria o straordinaria, va assoggettata al nulla osta ex art. 13 L. n. 394/1991, sarebbe privo di effetto il successivo comma 2 dello stesso art. 7 DPR 08.12.2007, ai sensi del quale, come sopra detto ed analogamente a quanto già statuito dall’art. 6, comma 3, L. n. 394/1991, viene espressamente sancita “la possibilità di realizzare gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, così come definiti dall’art. 31, comma 1, lett. a) e b), L. n. 457/1978, dandone comunicazione all’organismo di gestione”. Ma secondo un principio generale dell’ordinamento giuridico (desumibile dall’art. 1367 C.C.) due norme, contenute in uno stesso articolo, non possono essere interpretate nel senso che una di esse non possa avere effetto.
Pertanto, l’impugnata nota Ente Parco Nazionale Appennino Lucano Val d’Agri Lagonegrese prot. n. 862 del 17.11.2010 risulta illegittima, nella parte in cui prescrive, per l’installazione dei predetti impianti fotovoltaici, l’obbligo del nulla osta ex art. 13 L. n. 394/1991 (TAR Basilicata, sentenza 06.10.2011 n. 508 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIPubblicità richiesta anche in caso di iter informali.
Anche le gare informali appaltate mediante procedure in economia (cottimo fiduciario) –dunque senza pubblicazione di un bando– sono soggette, ai fini della legittimità del procedimento, all'applicazione del principio di pubblicità dell'apertura dei plichi e delle offerte economiche; non rilevando motivazioni di tipo organizzativo dell'ente, quali l'urgenza di provvedere all'assegnazione dell'appalto o l'esiguità del personale in forza alla stazione appaltante. In tal caso, il procedimento così viziato deve essere interamente annullato, non potendosi ammettere alcuna rinnovazione, neanche parziale, dell'iter di affidamento, tenuto conto che ogni ripetizione dell'esame tecnico sarebbe condizionata dalla conoscenza ormai acquisita delle offerte.
L'orientamento.
Così ha ritenuto la V Sez. del Consiglio di Stato nella sentenza 05.10.2011 n. 5454, in relazione a una gara per servizi informatici la cui lettera d'invito agli operatori economici selezionati prevedeva che tutte le fasi, anche quelle di apertura delle offerte economiche, si sarebbero svolte in seduta riservata.
Secondo l'orientamento del Collegio, non sono ammesse deroghe al principio di pubblicità delle sedute di gara, neanche nel caso delle procedure negoziate precedute da una gara informale, caratterizzate dalle previsioni semplificate previste dall'articolo 125 del Dlgs 163/2006, che sono largamente utilizzate quando il valore dell'appalto non richiede la pubblicazione del bando di gara.
La norma in questione introduce l'iter semplificato del procedimento per appalti di valore (ora) compresi tra 40.000 e 200.000 euro, caratterizzati dalla consultazione di almeno (se possibile) cinque operatori economici nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, individuati in base a indagini di mercato o tramite appositi elenchi predisposti dalla stazione appaltante.
Il principio.
Il principio di pubblicità trova il suo fondamento nel dettato costituzionale (articolo 97) e nei principi comunitari. In questa prospettiva è quindi irrilevante, come ribadito dal Consiglio di Stato, che la commissione di gara abbia dato atto nei verbali della correttezza del procedimento di verifica e apertura delle offerte, benché sempre in seduta riservata.
D'altro canto lo stesso Codice degli appalti richiama il rispetto della pubblicità degli affidamenti tra i propri principi generali (articolo 2), applicabili a tutte le procedure di affidamento previste dal legislatore (dunque anche alle gare informali, in economia). Principi ribaditi anche nel più recente regolamento attuativo (Dpr 207/2010), che, al comma 2 dell'articolo 331, richiama l'obbligo, anche per le procedure in economia, di uniformarsi al rispetto del principio di massima trasparenza, contemperando l'efficienza dell'azione amministrativa con i principi di parità di trattamento, non discriminazione e concorrenza tra gli operatori economici.
Al comma 1 dello stesso articolo, il disposto sulla non applicazione alle procedure in economia degli obblighi di pubblicità e di comunicazione non si riferisce ai citati principi generali di trasparenza bensì al regime ordinario di pubblicazione del bando di gara previsto in ambito sovranazionale (articolo 124 del Dlgs 163/2006) (articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATACellulari, impianti di utilità pubblica.
È illegittimo il «no» del Comune alla domanda di installazione di un impianto di telefonia mobile, se il rifiuto è motivato con l'incompatibilità tra l'impianto e la destinazione urbanistica della zona, qualificata come zona in espansione e da attuarsi mediante un piano urbanistico.
Così ha deciso il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 04.10.2011 n. 691, che ha interpretato la nuova normativa statale sulla telefonia mobile, e ha indicato le linee di comportamento dei Comuni su questi problemi.
Il caso riguardava una società di telecomunicazioni che aveva chiesto al Comune l'autorizzazione all'installazione di una stazione radio base di telefonia mobile. Il Comune aveva negato l'autorizzazione, sostenendo che vi era incompatibilità tra l'impianto progettato e la disciplina urbanistica della zona in cui esso sarebbe stato installato. La società aveva però impugnato il diniego davanti al Tar, che ha accolto il ricorso, per diversi motivi.
La precedente disciplina normativa stabilita nella legge 22.02.2001, n. 36 è stata in parte modificata, e il problema deve ora essere considerato sulla base delle norme del Codice delle comunicazioni elettroniche (Dlgs 01.08.2003, n. 259), il quale all'articolo 86, comma 3, stabilisce che le «infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione (…) sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria (…)».
Di conseguenza, gli impianti di telefonia mobile (considerati opere di pubblica utilità) sono ora ricondotti alle opere di urbanizzazione, e la loro installazione è svincolata dalla destinazione urbanistica di zona, che prevedeva l'approvazione di uno strumento urbanistico attuativo.
Da questo deriva l'illegittimità del provvedimento che ha negato l'autorizzazione, per la mancata pianificazione dell'area mediante questo strumento urbanistico attuativo.
La sentenza è esatta ed è puntualmente motivata. Essa ha chiarito alcuni problemi sull'installazione degli impianti di telefonia mobile, che ora ogni Comune potrebbe prevedere e risolvere, adottando il regolamento (previsto dall'articolo 8 della legge 36/2001) per «assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione della popolazione ai campi elettromagnetici» (articolo Il Sole 24 Ore del 24.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Danno ''morale'' anche alle associazioni ambientali. Riconosciuto per l'opera di tutela del territorio.
Il danno risarcibile all'associazione ambientalista non e' solo quello patrimoniale, ma anche il danno morale derivante dal pregiudizio arrecato all'attività da quest'ultima concretamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo, come normativamente desumibile dal combinato disposto degli artt. 185, comma 2, c.p. e 2059 c.c..
La sentenza qui commentata si sofferma su un tema assai dibattuto nella giurisprudenza di legittimità, concernente non tanto la questione, ormai pacifica, della legittimazione delle associazioni ambientaliste a costituirsi parte civile nei processi penali per reati ambientali, quanto, piuttosto, sulla determinazione del «tipo» di danno risarcibile. Come, infatti, si vedrà oltre, si registra sul punto un contrasto giurisprudenziale che, assai probabilmente, potrebbe condurre nei prossimi mesi i giudici di Piazza Cavour a rimettere la decisione alle Sezioni Unite.
La tesi sostenuta dalla decisione in commento, infatti, si inserisce in quel filone giurisprudenziale secondo cui il danno risarcibile secondo la disciplina civilistica può anche configurarsi sub specie del pregiudizio arrecato all'attività concretamente svolta dall'associazione ambientalista per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo. In tali ipotesi, infatti, potrebbe identificarsi un nocumento suscettibile anche di valutazione economica in considerazione degli eventuali esborsi finanziari sostenuti dall'ente per l'espletamento dell'attività di tutela.
La possibilità di risarcimento in favore dell'associazione ambientalista, in ogni caso, secondo l'orientamento di cui è espressione la decisione in esame, non deve ritenersi limitata all'ambito patrimoniale di cui all'art. 2043 c.c., poiché l'art. 185, comma 2, c.p. -che costituisce l'ipotesi più importante “determinata dalla legge” per la risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.- dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti non solo del soggetto passivo del reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi “danneggiato” per avere riportato un pregiudizio eziologicamente riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo.
Il caso.
La vicenda processuale sottoposta all'attenzione del Supremo Collegio vedeva imputati alcuni soggetti (privati ed amministratori comunali) per i reati di falso ed abuso d'ufficio, commessi alla fine degli anni novanta in un comune pugliese e relativi alla realizzazione di attività edilizie eseguite, da un lato, senza le necessarie autorizzazioni edilizie ed ambientali e, dall'altro, attestando falsamente alla Soprintendenza dei BB.CC.AA. l'entità delle opere realizzate e la loro non-incidenza su un'area di interesse archeologico.
I giudizi di merito, conclusisi con la condanna in sede penale degli imputati, si erano altresì definiti con la condanna generica al risarcimento dei danni in favore di una nota associazione ambientalista, considerando quale fatto illecito produttivo di danno civile risarcibile il reato di abuso d'ufficio. La Corte d'appello, per quanto qui di interesse, aveva osservato, nel confermare le statuizioni civili, che l'associazione ambientalista deve sempre considerarsi come "danneggiata" dai falsi e dall'abuso d'ufficio, i quali hanno consentito che non fermasse in tempo la devastazione ambientale.
Il ricorso.
Il giudizio di condanna veniva ritenuto eccessivamente severo dalla difesa degli imputati i quali affidavano le censure alla condanna in sede penale e civile a plurimi motivi di ricorso. Limitando l'attenzione ai soli motivi inerenti il danno risarcibile, in particolare veniva contestata sia legittimazione dell'associazione ambientalista che il diritto al risarcimento del danno sostenendosi, quanto al danno, che lo stesso avrebbe potuto essere risarcito solo se discendente in maniera immediata e diretta dai reati ambientali «stricto sensu» intesi, ma giammai poteva essere ricollegato ai reati di abuso d'ufficio e falso, da cui non potrebbe mai derivare, in via diretta, un danno per l'ambiente.
La decisione della Cassazione.
La Corte ha invece, con ampia e lucida motivazione, ritenuto destituiti di fondamento gli argomenti sostenuti dalla difesa degli imputati, giungendo a dichiarare inammissibile il ricorso.
La motivazione della decisione, assai completa e dettagliata, può essere così sintetizzata anche ai fini di una miglior comprensione del percorso logico–giuridico ad essa sotteso. I giudici di legittimità, infatti, nel ricostruire con attenzione l'iter legislativo tendente al riconoscimento della legittimazione risarcitoria delle associazioni ambientaliste, evidenziano come il fondamento della legitimatio ad causam delle associazioni ambientaliste fosse stato per la prima volta riconosciuto dalla nota legge istitutiva del Ministero dell'Ambiente (L. 08.07.1986, n. 349) che, all'art. 18, introdusse un'azione di risarcimento del danno ambientale conseguente ad una responsabilità di tipo extracontrattuale od aquiliana, prevista dall'art. 2043 c.c.
L'attuale T.U.A. (D.Lgs. 03.04.2006, n. 152) ha poi disciplinato in maniera più dettagliata la questione in quanto, pur abrogando il richiamato art. 18, ha fornito la definizione di «danno ambientale» (art. 300 T.U.A.) ed ha riservato allo Stato l'azione risarcitoria in caso di danno all'ambiente (art. 311 T.U.A.), ma ha mantenuto intatto il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi (art. 313, comma 7, T.U.A.).
Quanto, in particolare, alle associazioni ambientaliste, pur ritenendosi ormai pacifica la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi penali per reati ambientali (pur in presenza dell'art. 311 T.U.A. che ha attribuito in via esclusiva la richiesta risarcitoria per danno ambientale al Ministero dell'Ambiente), si precisa che la loro legittimazione è consentita al solo fine di ottenere il risarcimento dei danni patiti dal sodalizio a causa del degrado ambientale, mentre le stesse non possono agire in giudizio per il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica (v., da ultimo: Cass., Sez. 3, 11.02.2010, n. 14828, Imp. D.F. e altro, Ced Cass., n. 246812; nella specie detta legittimazione è stata riconosciuta al Circolo Legambiente ed al WWF Italia).
Posto tale limite, tuttavia, non v'è uniformità di vedute sulla natura del danno risarcibile alle associazioni di protezione ambientale. Sulla questione, infatti, si registrano divergenti posizioni.
A fronte di decisioni, espressione di un orientamento più rigoroso (da cui si discosta consapevolmente la sentenza in commento), secondo cui le associazioni ambientaliste possono agire ai sensi dell'art. 2043 c.c. per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno "patrimoniale", ulteriore e concreto da essi subito, diverso da quello ambientale (v., ad es.: Cass., Sez. 3, 21.10.2010, n. 41015, imp. G., Ced Cass., n. 248707), si affiancano decisioni, come quella qui commentata, che ritengono invece che il danno risarcibile ad un'associazione ambientalista possa consistere anche nel pregiudizio arrecato all'attività concretamente svolta da quest'ultima per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo.
In tali ipotesi, infatti, evidenziando gli Ermellini, potrebbe identificarsi un nocumento suscettibile anche di valutazione economica in considerazione degli eventuali esborsi finanziari sostenuti dall'ente per l'espletamento dell'attività di tutela.
In tale contesto, quindi, sarebbe riduttivo limitare la possibilità di risarcimento in favore dell'associazione ambientalista all'ambito patrimoniale di cui all'art. 2043 c.c., poiché l'art. 185, comma 2, c.p. -che costituisce l'ipotesi più importante “determinata dalla legge” per la risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.- dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti non solo del soggetto passivo del reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi “danneggiato” per avere riportato un pregiudizio eziologicamente riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo.
La soluzione offerta dalla Corte nel caso in esame, pur in presenza di divergenti vedute dello stesso giudice di legittimità, sembrerebbe quella più corretta. Ed infatti, è sicuramente ipotizzabile la lesione del diritto della personalità dell'ente e la conseguente facoltà dell'associazione di protezione ambientale di agire per il risarcimento dei danni morali e materiali relativi all'offesa, diretta ed immediata, dello "scopo sociale", che costituisce la finalità propria del sodalizio.
Non a caso la stessa Corte, in una vicenda che vedeva coinvolta la stessa associazione ambientalista di cui si discute nella sentenza in commento, aveva ritenuto detta associazione, quale ente esponenziale della comunità in cui si trovava il bene collettivo oggetto di lesione ed avente a scopo la salvaguardia degli interessi lesi dal reato, era legittimata a costituirsi parte civile, ai sensi degli artt. c.p. e 74 c.p.p., sia per la tutela del diritto collettivo all'ambiente salubre sia per la protezione del diritto della personalità in conseguenza del discredito derivante alla propria sfera funzionale dalla condotta illecita (Cass., Sez. 3, 09.07.1996, n. 8699, imp. P. e altri, Ced Cass., n. 209096) (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 26.09.2011 n. 34761 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Non tutto quel che resta è rifiuto. I residui vanno trattati secondo la normale pratica industriale. La Cassazione applica la nuova definizione di sottoprodotto prevista dal dlgs 205/2010.
È il tipo di trattamento cui i residui da lavorazione industriale sono sottoposti prima del loro riutilizzo a determinarne l'inquadramento tra i «rifiuti» (la cui gestione necessita di autorizzazione in base al Codice ambientale) o tra i «sottoprodotti» (la cui gestione non soggiace invece alle stesse stringenti regole).
A effettuare una ricognizione sul confine tra rifiuti e beni è la Corte di Cassazione, che con sentenza 26.09.2011 n. 34753 ha offerto una disamina della nuova disciplina prevista in materia di sottoprodotti dal dlgs 152/2006 (c.d. Codice ambientale) alla luce della riformulazione effettuata dal dlgs 03.12.2010 n. 205 in recepimento dell'ultima direttiva comunitaria 2008/98/Ce.
Il punto della Cassazione. La Cassazione ha sottolineato come la riforma del 2010 abbia allargato la nozione di sottoprodotto prevista dal Codice ambientale, facendovi rientrare anche le sostanze e gli oggetti che sono sottoposti, dopo la loro produzione e prima del successivo riutilizzo, a un trattamento previsto dalla «normale pratica industriale», con ciò innovando la precedente disciplina che invece considerava sottoprodotti unicamente i residui oggetto di reimpiego «diretto», senza quindi ammettere trattamenti intermedi.
Nella stessa sentenza la Corte ricorda che affinché un residuo sia considerato un «sottoprodotto» e non un «rifiuto», occorre altresì che esso rispetti allo stesso tempo le altre condizioni previste (già nell'originaria versione) dal dlgs 152/2006, ossia: l'essere il residuo in parola originato da un processo di produzione del quale costituiscono parte integrante, ma il cui scopo principale non è la sua fabbricazione; l'essere il residuo destinato a un riutilizzo nello stesso o in un altro processo di produzione o utilizzazione; l'essere tale riutilizzo «legale», ossia avente a oggetto una sostanza che soddisfi (per l'utilizzo specifico) i requisiti dei prodotti e che non abbia impatti negativi su ambiente e salute umana.
Il caso. La questione verteva sul giusto inquadramento («rifiuti» o «sottoprodotti») da dare ai fanghi provenienti da un impianto di depurazione delle acque e dall'impianto di aspirazione polveri della smaltatura di piastrelle, fanghi sottoposti a un trattamento di disidratazione prima di essere reimpiegati nel processo produttivo attraverso la loro aggiunta all'impasto di terre vergini per la fabbricazione di piastrelle di terza scelta.
Annullando la sentenza di merito che condannava il responsabile del trattamento per attività di recupero di rifiuti non autorizzata, la Suprema corte ha rinviato al giudice di merito la questione, chiedendo di ridefinire la qualificazione data ai fanghi oggetto di trattamento, e ciò alla luce di due principi normativi fondamentali, ossia: quello in base al quale la nuova disciplina sui sottoprodotti introdotta dal dlgs 205/2010 non considera più rifiuti i residui trattati secondo la «normale pratica industriale» (e ciò in aderenza al principio comunitario che predilige il recupero dei rifiuti consacrato dalla citata direttiva 2008/98/Ce e da esso decreto recepito); quello in base al quale la nuova ed allargata nozione di «sottoprodotto» (vigente dal 25.12.2010, data di entrata in vigore del dlgs 205/2010 di riformulazione del Codice ambientale) va necessariamente applicata anche alle questioni pregresse e ancora pendenti (come quella in analisi, per il noto principio del «favor rei»).
La «normale pratica industriale». Sul tipo di trattamento che consente di inquadrare i residui da lavorazione industriale tra i «sottoprodotti» (piuttosto che tra i «rifiuti») la formulazione della legge appare a una prima analisi sibillina. L'articolo 184-bis del Codice ambientale, tra le condizioni che tali residui devono soddisfare per poter essere considerati sottoprodotti, infatti testualmente recita (comma 1, lettera c): «La sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale».
Fermo restando l'utilizzo, in via interpretativa, delle altre e citate condizioni stabile dallo stesso articolo 184-bis per considerare sottoprodotto un residuo (produzione non diretta alla fabbricazione dello stesso, certezza del suo riutilizzo, compatibilità con caratteristiche dei normali beni) e in assenza (a oggi) di una positiva definizione normativa della «normale pratica industriale», la sua nozione è innanzitutto da rintracciare nella prassi industriale e nella evoluzione giurisprudenziale.
Il tutto considerando, altresì, i suggerimenti in materia elargiti dalla migliore dottrina giuridica, in base alla quale: la «normalità» della pratica industriale andrebbe cercata nella «tipicità» dell'operazione svolta in un determinato contesto produttivo; tale «tipicità» dovrebbe essere poi intesa non in termini assoluti ma relativi, ossia facendo riferimento alla pratica utilizzata nello stabilimento nel quale il sottoprodotto è destinato a essere riutilizzato (articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2011 - link a www.corteconti.it).

CONDOMINIO: Bilancio ok solo se è trasparente. La documentazione deve essere a disposizione dei condomini. La Cassazione punisce il comportamento negligente dell'amministratore. Delibera annullabile.
Il comportamento negligente dell'amministratore che non consenta ai condomini di visionare la documentazione contabile può essere causa di annullamento della delibera assembleare.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la recente sentenza 21.09.2011 n. 19210.
Nel caso posto al vaglio della Suprema corte, il tribunale aveva rigettato l'impugnazione della delibera condominiale di approvazione del bilancio consuntivo di lavori effettuati nelle parti comuni e del relativo piano di riparto proposta da un condomino che aveva lamentato di non avere avuto la possibilità di visionare la relativa documentazione poiché l'amministratore non aveva acconsentito a mostrargliela nonostante esplicita richiesta prima dell'assemblea.
Il tribunale aveva infatti rilevato che la mancata esibizione dei documenti di spesa non poteva comunque inficiare la validità della delibera assembleare di approvazione del bilancio consuntivo, venendo in questione solo una presunta inadempienza dell'amministratore e non potendosi invece configurare una radicale impossibilità di accedere alle pezze giustificative della deliberazione.
La Corte d'appello, investita del riesame della questione dal condomino, dopo aver richiamato il principio affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 8460 del 1998, secondo cui ogni proprietario ha facoltà di ottenere dall'amministratore del condominio l'esibizione dei documenti contabili in qualsiasi tempo e senza l'onere di specificare le ragioni della richiesta finalizzata a prendere visione o a estrarre copia dei documenti, aveva ritenuto che tale facoltà non sia fine a se stessa, bensì finalizzata a rendere possibile un controllo non solo formale sull'attività dell'amministratore e che quindi il suo impedimento, finendo per paralizzare detta possibilità di controllo, influisca negativamente sulla legittimità della deliberazione assembleare.
Circa l'eccezione del condominio, che aveva fatto rilevare come nella specie fosse comunque intervenuta l'approvazione del consuntivo da parte dell'assemblea, la Corte d'appello aveva rilevato come non era possibile sapere in che modo la medesima assemblea si sarebbe orientata se il condomino che ne aveva fatto richiesta avesse potuto accedere alla documentazione richiesta e che, proprio per non avere avuto detta possibilità, si era determinato a non partecipare alla riunione nella quale la delibera impugnata era stata adottata.
Anche la Suprema corte, nel ricordare il predetto principio di legittimità e nel condividerne l'applicazione operata dalla Corte d'appello, ha evidenziato come il condomino ha diritto di accedere alla documentazione contabile in vista della consapevole partecipazione all'assemblea condominiale e che a tale diritto corrisponde l'onere dell'amministratore di predisporre un'organizzazione, sia pur minima, che consenta di venire incontro in maniera efficace alle richieste dei proprietari. In caso contrario, secondo i giudici di legittimità, la delibera assembleare può essere annullata ove tempestivamente impugnata.
---------------
Le richieste non devono ostacolare l'attività.
Le attribuzioni dell'amministratore consistono sostanzialmente nel dare esecuzione alle delibere assembleari e nel fare rispettare il regolamento di condominio, comminando ammonizioni o sanzioni e, se necessario, promuovendo, nei confronti dei singoli condomini, azioni giudiziarie: per queste attività l'amministratore, essendo un puro esecutore, non ha facoltà discrezionali bensì precisi doveri. Quest'ultimo dispone invece di maggior autonomia nel disciplinare l'uso delle cose comuni e la prestazione dei servizi nell'interesse comune, in modo che ne sia assicurato il migliore godimento a tutti i condomini. L'amministratore deve inoltre riscuotere i contributi sulla base del preventivo e dello stato di ripartizione approvati dall'assemblea.
Una volta in possesso dei fondi, deve provvedere alla manutenzione ordinaria delle parti condominiali e all'efficienza dei servizi comuni: per le spese che eccedono l'ordinaria amministrazione è necessaria, invece, una delibera assembleare che le autorizzi. Tuttavia può, di sua iniziativa, ordinare opere di manutenzione straordinaria che abbiano carattere d'urgenza, fermo restando l'obbligo di riferirne alla prima assemblea. L'amministratore del condominio ha, tra gli altri, anche il compito di porre in essere gli atti conservativi, tra i quali rientrano anche le azioni possessorie, dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio.
Nell'ambito di tale attribuzione ha la rappresentanza dei partecipanti al condominio e può agire in giudizio, richiedendo le necessarie misure cautelari e il risarcimento dei danni conseguenti, sia contro i condomini sia contro i terzi. Fra le incombenze dell'amministratore vi è, infine, quella di rendere, alla fine di ciascun anno, conto della propria gestione, fornendo tutte le cifre e la documentazione relativa e consentendo i controlli che, per diritto, spettano ai condomini.
Si noti che i condomini possono visionare i documenti senza la necessità di specificare la ragione per cui vogliono prendere visione o estrarre copia degli stessi: spetta semmai all'amministratore dedurre e dimostrare l'insussistenza di qualsivoglia interesse effettivo in capo ai condomini, perché i documenti personalmente non li riguardano, ovvero l'esistenza di motivi futili o inconsistenti e comunque contrari alla correttezza.
Tuttavia il condomino che vuole visionare e fotocopiare i documenti contabili deve rispettare alcune regole. In particolare la vigilanza e il controllo non devono intralciare l'attività dell'amministratore e, quindi, è necessario concordare con lo stesso il giorno e l'ora per la visione dei documenti (articolo ItaliaOggi Sette del 24.10.2011).

AGGIORNAMENTO AL 24.10.2011

ã

CONCORSI & MOBILITA'

PUBBLICO IMPIEGO: L'Ordine degli Architetti di Bergamo ha emanato un AVVISO DI MOBILITÀ ESTERNA PER LA COPERTURA DI UN POSTO DI ISTRUTTORE TECNICO DIRETTIVO - CATEGORIA C - A TEMPO PIENO.
Termine per presentazione domande:
02.12.2011.
Leggi il bando di mobilità e la domanda di mobilità.

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

EDILIZIA PRIVATA: Sulla costituzione delle unioni dei comuni per l’esercizio associato delle funzioni fondamentali previste dall’art. 21 della legge 42 del 2009.
Spettabile Redazione sito PTPL,
leggo sulla ‘home page’ del giorno 17.10.2011 la comunicazione della CGIL – FUNZIONE PUBBLICA DI BERGAMO datata 13.10.2011 avente per oggetto “costituzione delle unioni dei comuni per l’esercizio associato delle funzioni fondamentali previste dall’art.21 della legge 42 del 2009”.
La comunicazione della CGIL-FP parrebbe rivolta unicamente ad attirare l’attenzione di Sindaci, Segretari e Dipendenti, sulla questione (... continua cliccando qui)
(21.10.2011 - roberto pagliaro - responsabile UT comune del bergamasco).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: P. Giampietro, IL FRESATO D’ASFALTO COME “SOTTOPRODOTTO” - Profili giuridici e tecnici (link a www.lexambiente.it).

URBANISTICA: F. Magnosi, Sulla preminenza del Piano Paesaggistico sugli altri strumenti di pianificazione (link a www.pausania.it).

APPALTI: F. Gavioli, Codice appalti senza sponsorizzazioni (link a www.ipsoa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: M. Massavelli, Regolamentazione della circolazione stradale: chi è responsabile? (link a www.diritto.it).

QUESITI & PARERI

COMPETENZE GESTIONALI: Domanda: Chi è competente ad adottare le ordinanze di disciplina del traffico adottate a tutela della sicurezza stradale?
Risposta: La materia è disciplinata dal codice della strada (d.lgs.vo 285/1992 e s.m.i) e dal testo unico degli enti locali (d.lgs.vo 267/2000).
In particolare l’articolo 7 del codice della strada, comma 1, stabilisce che “Nei centri abitati i comuni possono, con ordinanza del sindaco:
- adottare i provvedimenti indicati nell'art. 6, commi 1, 2 e 4;
- limitare la circolazione di tutte o di alcune categorie di veicoli per accertate e motivate esigenze di prevenzione degli inquinamenti e di tutela del patrimonio artistico, ambientale e naturale, conformemente alle direttive impartite dal Ministro dei lavori pubblici, sentiti, per le rispettive competenze, il Ministro dell'ambiente, il Ministro per i problemi delle aree urbane ed il Ministro per i beni culturali e ambientali;
- stabilire la precedenza su determinate strade o tratti di strade, ovvero in una determinata intersezione, in relazione alla classificazione di cui all'art. 2, e, quando la intensità o la sicurezza del traffico lo richiedano, prescrivere ai conducenti, prima di' immettersi su una determinata strada, l'obbligo di arrestarsi all'intersezione e di dare la precedenza a chi circola su quest'ultima;
- riservare limitati spazi alla sosta dei veicoli degli organi di polizia stradale di cui all'art. 12, dei vigili del fuoco, dei servizi di soccorso, nonché di quelli adibiti al servizio di persone con limitata o impedita capacità motoria, munite del contrassegno speciale ovvero a servizi di linea per lo stazionamento ai capilinea;
- stabilire aree nelle quali e' autorizzato il parcheggio dei veicoli;
- stabilire, previa deliberazione della giunta, aree destinate al parcheggio sulle quali la sosta dei veicoli e' subordinata al pagamento di una somma da riscuotere mediante dispositivi di controllo di durata della sosta, anche senza custodia del veicolo, fissando le relative condizioni e tariffe in conformità alle direttive del Ministero dei lavori pubblici, di concerto con la Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le aree urbane;
- prescrivere orari e riservare spazi per i veicoli utilizzati per il carico e lo scarico di cose;
- istituire le aree attrezzate riservate alla sosta e al parcheggio delle autocaravan di cui all'art. 185;
- riservare strade alla circolazione dei veicoli adibiti a servizi pubblici di trasporto, al fine di favorire la mobilità urbana
” .
La portata normativa dell’art. 7 del codice della strada va adeguata alle disposizioni del testo unico degli enti locali decreto legislativo 267/2000 che nell’affermare al 2° comma che “spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente….”, al 5° comma dispone che a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo 267/2000 “le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al Capo I Titolo III l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall'articolo 50, comma 3, e dall'articolo 54”.
Ne deriva che
la competenza ad adottare ordinanze nelle materie indicate nel 1° comma dell’art. 7 del codice della strada rientra nella competenza dei dirigenti.
Conformemente, la giurisprudenza amministrativa per la quale sono escluse dalla competenza della dirigenza esclusivamente le ordinanze di maggiore impatto sull’intera collettività locale, per le quali la legge prevede l’intervento di un organo politico, come nel caso della delimitazione delle aree pedonali e delle zone a traffico limitato, per la quale si provvede “con deliberazione della giunta” (art. 7, nono comma, D.L.vo n. 285/1992), ovvero quelle di limitazioni connesse al rispetto dei limiti del tasso di inquinamento atmosferico (cfr. circ. min. ambiente, 30.06.1999, n. 2708/1999), ovvero, ancora, quelle di esercizio del potere di ordinanza contingibile ed urgente (Cons. Stato, Sez. II, parere del 02.04.2003, n. 1661; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 20.12.2005, n. 20503; TAR Basilicata, 05.03.2007, n. 146) (link a www.entilocali.provincia.le.it).

UTILITA'

SICUREZZA LAVOROFigure della Sicurezza nei luoghi di lavoro e nei cantieri edili: chi sono, cosa devono fare e cosa non devono fare!
Le figure coinvolte nella sicurezza sui luoghi del lavoro, e in particolare sui cantieri, sono diverse e ciascuna di essa ha degli adempimenti ben precisi.
Tra queste figure ricordiamo:
● Committente privato;
● Committente pubblico;
● Coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione;
● Coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione;
● Medico competente;
● Lavoratore;
● Responsabile del servizio di prevenzione e protezione;
● Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.
Ciascuna di queste figure ha degli obblighi ben precisi, individuati dalla normativa vigente.
L'ASLE (Associazione per la Sicurezza dei Lavoratori Edili) di Milano e Lodi ha pubblicato in passato un manuale rivolto ai lavoratori e a tutti i soggetti che concorrono alla sicurezza sui luoghi di lavoro. Il documento, seppur riferito alla vecchia normativa (D.Lgs. 626/1994), contiene tutte le definizioni, i compiti e gli adempimenti relativi alle varie figure impegnate sia dentro che fuori dal cantiere e risulta di semplice comprensione. Chiaramente va riadattato alle modifiche previste dal D.Lgs. 81/2008 e s.m.i. (20.10.2011 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROCome porre quesiti interpretativi sul Testo Unico sulla Sicurezza.
Il Testo Unico in materia di salute e sicurezza nel lavoro (D.Lgs. 81/2008) stabilisce, all'articolo 12, che il Ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali istituisca la Commissione per gli Interpelli, con la finalità di fornire risposte ai quesiti che costituiscano criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza.
Con Decreto Direttoriale del 28.09.2011 è stata istituita la Commissione per gli Interpelli ed è stato attivato l’indirizzo di posta elettronica interpellosicurezza@lavoro.gov.it.
I tecnici o le imprese o i datori di lavoro che abbiano necessità di formulare quesiti interpretativi o di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro possono rivolgersi agli ordini professionali o ad organismi di rilevanza nazionale, al fine di inoltrare tali quesiti alla Commissione per gli Interpelli.
Infatti, hanno possibilità di consultare la Commissione per gli interpelli solo:
● gli organismi associativi a rilevanza nazionale;
● le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori;
● i consigli nazionali degli ordini o collegi professionali.
Le istanze di interpello dovranno essere necessariamente inoltrate via e-mail (interpellosicurezza@lavoro.gov.it).
Le indicazioni fornite nelle risposte ai quesiti costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza (20.10.2011 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATAMeno carte e più sicurezza! Arriva il Vademecum dei Vigili del Fuoco sul nuovo Regolamento Antincendio.
Gianni è un imprenditore che desidera costruire un’autorimessa di 400 m²…
Maria è un’imprenditrice che vuole aprire un ampio locale per la vendita al dettaglio, la cui metratura si aggira intorno ai 1.000 m²…
Paolo ha intenzione di costruire una grande casa di riposo che riesca a ospitare e assistere fino a 110 anziani contemporaneamente…
Come dovrà operare ciascuno di questi tre imprenditori?
Fino a ieri (prima del 07.10.2011) la procedura da seguire sarebbe stata la stessa per tutti e tre gli imprenditori: prima di cominciare i lavori, il titolare dell’attività doveva inviare al Comando dei VV.F. il progetto. I Vigili del Fuoco, dopo aver analizzato il progetto e entro 90 giorni, davano il proprio parere sulla conformità del progetto alle norme antincendio. I lavori potevano cominciare solo se il parere risultava positivo.
Oggi la questione cambia: le procedure sono notevolmente semplificate e viene adottato un criterio di proporzionalità degli adempimenti: gli adempimenti amministrativi sono diversificati sulla base della complessità dell'attività da avviare e in base al rischio per l'incolumità pubblica. Infatti:
Gianni può iniziare direttamente i lavori (attività di Categoria A). A lavori ultimati raccoglie la documentazione attestante la conformità dell’attività realizzata alle prescrizioni vigenti in materia di sicurezza antincendio e la spedisce, tramite procedura on-line, al SUAP, ottenendo la ricevuta. Può immediatamente cominciare la sua attività. I Vigili del Fuoco possono effettuare controlli a campione entro 60 giorni;
Maria (attività di Categoria B) prima di iniziare i lavori deve trasmettere, tramite il SUAP, istanza ai Vigili del Fuoco per l’esame del progetto. Entro 60 giorni dalla presentazione della documentazione completa i Vigili del Fuoco rilasciano il parere. A lavori ultimati dovrà raccogliere la documentazione attestante la conformità dell’attività realizzata alle prescrizioni vigenti in materia di sicurezza antincendio e spedire la documentazione tramite procedura on-line al SUAP. I Vigili del Fuoco possono effettuare controlli a campione entro 60 giorni;
Mario (attività di Categoria C) dovrà adottare la stessa procedura seguita da Maria. Il Vigili del Fuoco effettueranno il controllo entro 60 giorni. In caso di esito positivo, il Comando Provinciale rilascerà il CPI.
N.B. – Il CPI per le attività di Categoria C, così come il verbale di visita tecnica per le attività di Categoria A e B, non è più il provvedimento finale di un procedimento amministrativo, ma costituisce solo il risultato di un controllo effettuato e non ha scadenza temporale.
Questi sono solo alcuni esempi contenuti nel documento pubblicato dal Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco che costituisce un vero e proprio Vademecum sul nuovo Regolamento antincendio.
Inoltre, in allegato a questo articolo, proponiamo uno schema con le procedure da adottare in funzione della Categoria di attività (20.10.2011 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 20.10.2011 n. 245 "Regolamento di attuazione in materia di risoluzione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche dello Stato e degli enti pubblici nazionali in caso di permanente inidoneità psicofisica, a norma dell'articolo 55-octies del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165" (D.P.R. 27.07.2011 n. 171).
---------------
P.a., l'irrequieto resta a casa. In G.U. dpr sulla sospensione cautelare.
Il dipendente pubblico «turbolento» potrà essere sospeso cautelativamente dal servizio. Infatti, in presenza di comportamenti gravi e ripetuti, tali da poter generare pericolo per sé, per gli altri lavoratori o per l'utenza, l'amministrazione pubblica potrà invitarlo a non presentarsi in ufficio, attivando, per il tramite delle aziende sanitarie, l'iter di verifica della sua idoneità alle mansioni svolte. Inoltre, se al lavoratore viene riconosciuta una inidoneità psicofisica assoluta, l'amministrazione deve risolvere il rapporto di lavoro.
Questo è quanto si rileva dalla lettura del dpr 27.07.2011 n. 171, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 20 ottobre scorso, attuativo delle disposizioni contenute all'articolo 55-octies del dlgs n. 165/2001. Come si ricorderà, (si veda ItaliaOggi del 14 luglio scorso) le disposizioni si applicano ai dipendenti, anche con qualifica dirigenziale, delle amministrazioni dello stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non economici, degli enti di ricerca e delle università, nonché al personale delle Agenzie fiscali. Mentre restano escluse le categorie del personale cosiddetto non contrattualizzato (come ad esempio i prefetti, professori universitari, magistrati).
Il dpr prevede che se il dipendente supera la soglia prevista dal contratto in caso di assenze per malattia, oppure, come detto in presenza di gravi e ripetuti comportamenti sul luogo di lavoro, l'amministrazione (ma anche il dipendente potrà chiederlo) ha la facoltà di attivare tutte le iniziative per accertare l'inidoneità del dipendente allo svolgimento delle mansioni. Inidoneità che può essere assoluta (quindi con l'impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa), oppure relativa, nel caso in cui il dipendente non potrà svolgere le attività proprie del suo profilo professionale ma che potrà essere «ricollocato» in altro profilo professionale.
In quest'ultimo caso, infatti, il dpr prevede che l'amministrazione dovrà attivarsi per «rinquadrarlo» in mansioni equivalenti, ovvero inferiori, assicurandogli comunque, il trattamento economico di provenienza. Solo se non sarà possibile collocare in alcun modo il dipendente, anche attraverso consultazioni con altre p.a., questi sarà messo in «soprannumero».
Nei casi limite, infine, ovvero se il dipendente viene riconosciuto inidoneo assoluto al servizio, l'amministrazione, previa comunicazione, risolve il rapporto di lavoro e corrisponderà l'indennità di preavviso (articolo ItaliaOggi del 22.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 42 del 20.10.2011 "Modifica della d.g.r. 713 del 26.10.2010 in materia di canoni demaniali di polizia idraulica" (deliberazione G.R. 13.10.2011 n. 2362).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATANiente Scia per occupazioni e pubblicità sulle strade.
Chi richiede l'autorizzazione all'occupazione della sede stradale per effettuare lavori o per necessità diverse anche di carattere commerciale deve sempre ottenere una regolare licenza rilasciata dall'ente proprietario della strada che non può essere sostituita dalla Scia. E questa indicazione riguarda anche la pubblicità stradale e in generale tutte le autorizzazioni necessarie per l'uso delle strade e delle relative pertinenze.
Lo ha messo nero su bianco il Ministero dei Trasporti con il parere 05.10.2011 n. 4928 di prot..
Un comune della riviera romagnola ha richiesto al ministero dei trasporti se la semplificazione introdotta nell'art. 19 della legge 241/1990 con l'avvento della segnalazione certificata di inizio attività possa interessare anche il codice della strada e in particolare le ordinanze e le autorizzazioni disciplinate dall'art. 26 del dlgs 285/1992.
A parere dell'organo centrale di via Caraci non ci sono dubbi di sorta. La semplificazione introdotta progressivamente nella legge 241/1990 negli ultimi due anni non interessa la disciplina dei provvedimenti da adottare per la regolamentazione del traffico e neppure quella per il rilascio delle licenze necessarie per occupare strade, impiantare manufatti ed effettuare interventi.
Il nuovo articolo 19 della legge 241/1990, specifica letteralmente che «ogni atto di autorizzazione il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi, è sostituito da una segnalazione dell'interessato, con la sola esclusione dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all'immigrazione, all'asilo, alla cittadinanza».
Le autorizzazioni e le concessioni rilasciate ai sensi dell'art. 26 del codice della strada, conclude il parere ministeriale, sono riferite a norme riguardanti la costruzione e la tutela delle strade. Ovvero sono atti che interessano la pubblica sicurezza e la cittadinanza. Per questo motivo specificamente esclusi dall'applicazione della disciplina introdotta con la segnalazione certificata di inizio attività (articolo ItaliaOggi del 21.10.2011).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALIArriva il primo default federalista. Carte in Procura per l'eventuale ineleggibilità dei responsabili.
È bastato meno di un mese al decreto legislativo federalista 149/2011 sui «premi e sanzioni» agli amministratori locali per avviare la prima procedura di «dissesto guidato» di un Comune.
Il primo semaforo rosso si è acceso alla Corte dei conti della Toscana, che con la delibera 18.10.2011 n. 211 diffusa ieri ha messo sui binari del dissesto il Comune di Castiglion Fiorentino, 13.400 abitanti in provincia di Arezzo.
Le voragini nei conti del Comune toscano erano emerse da un'indagine degli ispettori della Ragioneria generale dello Stato, che hanno scoperto un buco da 8-9 milioni (in un bilancio che in tutto ne vale 25) coperto, sulla carta, da entrate per conto terzi gonfiate nell'affannoso tentativo di raggiungere l'equilibrio contabile (si veda anche Il Sole 24 Ore del 24 settembre scorso). Il gioco, che secondo gli ispettori di Via XX Settembre durava almeno dal 2005, è diventato ingestibile quest'anno, con il risultato che meno di un mese fa la Giunta, guidata dall'ex assessore al Bilancio diventato sindaco alle amministrative di maggio, ha dovuto alzare bandiera bianca e lasciare il campo a un commissario a termine, che sospende per 90 giorni il consiglio comunale, senza però dichiarare il dissesto.
La novità arriva dalla Corte dei conti, che nella delibera della sezione di controllo applica per la prima volta il nuovo meccanismo con cui la scelta sul default esce dalla piena disponibilità dell'ente locale per offrire un ruolo determinante proprio alla magistratura contabile. Il problema, spiega la delibera, è che tutte le tappe previste dalla procedura sono state percorse, senza che però si riuscisse a mettere in campo qualche contromisura in grado di far approvare il rendiconto 2010 e il preventivo 2011.
I passaggi applicativi sono quelli delineati dalla stessa sezione Toscana nelle «prime linee di indirizzo» sulle nuove regole (delibera 204/2011; si veda Il Sole 24 Ore del 4 ottobre scorso): prima la «pronuncia specifica di inattendibilità e non veridicità» dei dati indicati dal Comune nel questionario sul rendiconto 2009 poi, vista l'assenza di correttivi, l'indicazione di un termine (30 settembre) entro cui il Comune avrebbe dovuto mostrare la propria reale situazione debitoria e creditoria. Nulla di tutto ciò è avvenuto, e la Corte dei conti ha deciso di riprendere carta e penna per una nuova delibera con cui segnala il tutto al Prefetto di Arezzo.
A questo punto, si è all'ultimo miglio della nuova procedura verso il dissesto: se in 30 giorni l'ente non sarà in grado di chiudere i conti (ipotesi che lo stesso commissario attuale giudica «impossibile»), al Prefetto non resterà altro da fare che imporre un termine di 20 giorni per la dichiarazione del dissesto.
Tutte le carte sono state già girate anche alla Procura regionale della Corte, per il secondo capitolo delle conseguenze legate alla nuova strada verso il default locale. Se la magistratura affibbierà anche delle condanne per danni gravi compiuti negli ultimi cinque anni, infatti, gli amministratori colpiti incapperanno nello stop decennale alla candidatura a qualsiasi elezione, dalle Europee alle comunali (articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2010 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALICity manager con la laurea. La Corte conti Toscana bacchetta un ente.
Negli enti locali, le funzioni di city manager richiedono per il loro utile svolgimento, il possesso del titolo accademico, da cui non si può prescindere. Infatti, in relazione a tale incarico, la pubblica amministrazione locale è chiamata a remunerare non una prestazione qualsiasi, ma la specifica prestazione di un contratto di alta dirigenza, con standard qualitativi, quantitativi e di professionalità ben determinati. Mancando tali parametri, ovvero l'adeguata preparazione culturale, la prestazione lavorativa è del tutto inadeguata alle esigenze dell'amministrazione.
Così la Corte dei conti Toscana, nel testo della sentenza 03.10.2011 n. 363, con la quale ha condannato gli ex amministratori del comune di Pontassieve, a rifondere le casse comunali del danno patito per le indebite erogazioni stipendiali a favore dell'ex direttore generale dell'ente, nominato dalla giunta nonostante lo stesso fosse sprovvisto del diploma di laurea.
La figura del direttore generale dell'ente locale è un incarico «indubbiamente concepito dal legislatore» in termini di alta professionalità ed elevato livello culturale. Per queste figure, la p.a. è chiamata pertanto a remunerare non una prestazione qualsiasi, ma una in particolare, caratterizzata da elevati livelli di qualità e professionalità. Ora, mancando la preparazione culturale la prestazione lavorativa è del tutto inadeguata alle esigenze dell'amministrazione pubblica e la controprestazione, ovvero la retribuzione, non è correlata alla prestazione che viene richiesta.
Senza dimenticare, rileva il collegio, che è avvenuta la manifesta violazione di norme di legge. Ovvero degli articoli 19 e 28 del dlgs n. 165/2001, dalla cui lettura si evince che il possesso della laurea deve considerarsi requisito culturale obbligatoriamente richiesto per l'accesso, a qualunque titolo, alla dirigenza. E questo sia per le amministrazioni centrali che per quelle locali. Il titolo accademico, ha concluso il collegio, lungi dal costituire una mera formalità, deve ritenersi come metro di valutazione della legittimità e della congruità della spesa pubblica, a fronte della scelta dell'organo di vertice politico.
Nell'affidamento di un incarico di direttore generale vi è una discrezionalità nella scelta, ma questa non deve ricadere nell'arbitrio, in quanto la natura fiduciaria dell'incarico «deve comunque cedere all'accertamento dei requisiti accademici e professionali» (articolo ItaliaOggi del 21.10.2011 - link a www.corteconti.it).

URBANISTICARichiesta di parere del Comune di Arona in materia di destinazione dei proventi della trasformazione del diritto di superficie.
I proventi derivanti della trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà piena sono assoggettati a un vincolo di destinazione, dovendo essere reimpiegati esclusivamente nel finanziamento di interventi di eguale natura. Il vincolo di destinazione trova giustificazione nella funzione sociale della proprietà e nella accessibilità a tutti della stessa che i comuni, attraverso le proprie politiche di edilizia residenziale pubblica, sono chiamati ad assicurare, garantendo il diritto alla casa a prezzi accessibili anche per i non abbienti e calmierando, nel contempo, i prezzi di mercato.
L’art. 31, comma 45, della legge 23.12.1998, n. 448, prevede la possibilità, per i comuni, di cedere in proprietà le aree, già concesse in diritto di superficie, comprese nei piani approvati a norma della legge 18.04.1962, n. 167 (“Disposizioni per favorire l’acquisizione di aree per l’edilizia economica e popolare”), ovvero delimitate ai sensi dell'articolo 51 della legge 22.10.1971, n. 865.
Il comma 47, del medesimo articolo 31, prevede che la trasformazione del diritto di superficie in diritto di piena proprietà su tali aree possa avvenire a seguito di proposta da parte del comune e di accettazione da parte dei singoli proprietari degli alloggi, dietro pagamento di un corrispettivo calcolato ai sensi del successivo comma 48 (sui criteri per la la determinazione del corrispettivo, si rinvia a quanto precisato dalle Sezioni riunite in sede di controllo di questo Istituto, con delibera 14.04.2011 n. 22).
Il quesito posto dal Comune istante verte sulle possibili destinazioni per i proventi derivanti dalla trasformazione del diritto di superficie, in particolare si chiede se sia possibile utilizzarli per finanziare opere di urbanizzazione primaria e secondaria a miglioramento delle stesse aree PEEP ove risiedono i beneficiari delle trasformazioni o, in via subordinata, a miglioramento delle aree limitrofe, comunque con beneficio prevalente degli stessi soggetti.
Ai fini dell’esame della questione posta, va preliminarmente richiamato il principio generale del perfetto pareggio economico che ispira la disciplina sulla realizzazione dei PEEP. Detto principio implica il necessario rimborso, da parte degli assegnatari delle aree, ovvero degli acquirenti degli alloggi, di tutte le spese sostenute (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, n. 361/2003 e n. 431/2009). In particolare, la disciplina di cui all’art. 35 della citata legge n. 865 del 1971 (novellato dall'art. 3, comma 63, L. 23.12.1996, n. 662), nel modificare l’art. 10 della legge 18.04.1962, n. 167, ha imposto il necessario equilibrio economico finanziario tra l’introito dei prezzi di cessione delle aree da una parte, e le spese sostenute dai comuni o dai consorzi per l’acquisizione delle aree e per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, dall’altra.
La necessità del rispetto del principio del pareggio è statuita anche nella disciplina di cui all’art. 16 del D.L. 22.12.1981, n. 786, convertito in legge 26.02.1982, n. 51, che, ai commi 1 e 2, prevede: “1. I comuni sono tenuti ad evidenziare con particolari annotazioni gli stanziamenti di bilancio relativi all'acquisizione, urbanizzazione, alienazione e concessione di diritto di superficie di aree e fabbricati da destinarsi alla residenza, alle attività produttive e terziarie ai sensi delle leggi 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, 22.10.1971, n. 865, e 05.08.1978, n. 457.
2. Il prezzo di alienazione o di concessione in diritto di superficie delle aree e dei fabbricati, di cui al comma precedente, deve essere determinato in misura tale da coprire le spese di acquisto, gli oneri finanziari, gli oneri per le opere di urbanizzazione eseguite o da eseguire ad eccezione di quelli che la legislazione vigente pone a carico delle amministrazioni comunali
”.
Si rileva ancora che nell’annuale delibera consiliare, allegata al bilancio di previsione, di cui all’art. 172, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 267 del 2000 (TUEL), con la quale l’ente verifica annualmente la quantità e qualità di aree e fabbricati da destinarsi alla residenza, alle attività produttive e terziarie che possono essere cedute in proprietà od in diritto di superficie,
i relativi prezzi di cessione devono essere determinati in misura tale che i proventi coprano integralmente anche le spese sostenute dal comune per l'acquisizione delle aree di cui parla l’art. 35, comma 12, della legge n. 865 del 1971 (cfr. Sezione controllo Veneto, parere 09.06.2009 n. 98).
Tanto chiarito in merito al principio della piena corrispondenza fra entrate ed uscite da parte dei Comuni in tale settore, ci si deve interrogare sulle possibili destinazioni di eventuali eccedenze di entrata, quali quelle derivanti, come nel caso di specie, dalla determinazione dell’ente di trasferire, in un momento successivo, la piena proprietà a chi è già titolare del diritto di superficie sulle aree in parola.
In primo luogo va ricordato che
i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali non possono essere utilizzati per spese diverse dagli investimenti, se non nei casi e nei limiti previsti da specifiche norme di legge, come dall’art. 2, comma 8, della legge n. 244/2007 (finanziaria per il 2008), ovvero nelle ipotesi in cui occorra provvedere al mantenimento degli equilibri di bilancio (cfr. art. 193, commi 2 e 3 del TUEL).
In materia di edilizia residenziale, oltre a tale criterio generale, viene in rilievo un vero e proprio vincolo di destinazione posto dal legislatore al comma 3 del già citato art. 16 del D.L. n. 786 del 1981, ove, una volta affermato al comma precedente il principio del pareggio fra entrate e uscite, si precisa che l’eventuale avanzo, riferito agli stanziamenti risultanti dal bilancio consuntivo dovrà essere impiegato esclusivamente per il finanziamento di investimenti di eguale natura. Si ricorda che, ai sensi del primo comma, sono poste specifiche annotazioni sugli stanziamenti di bilancio relativi all'acquisizione, urbanizzazione, alienazione e concessione di diritto di superficie di aree e fabbricati da destinarsi alla residenza, alle attività produttive e terziarie.
I proventi derivanti dal trasferimento dei diritti in parola sono assoggettati dunque a un vincolo di destinazione, dovendo essere reimpiegati esclusivamente nel finanziamento di interventi di eguale natura. Fra detti diritti deve ritenersi inclusa anche la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà piena, trattandosi pur sempre di un’alienazione.
Il vincolo di destinazione trova giustificazione nella funzione sociale della proprietà e nella accessibilità a tutti della stessa (art. 42, comma 2 della Costituzione) che i comuni, attraverso le proprie politiche di edilizia residenziale pubblica, sono chiamati ad assicurare, garantendo il diritto alla casa a prezzi accessibili anche per i non abbienti e calmierando, nel contempo, i prezzi di mercato (cfr. Sez. controllo Veneto, parere 09.06.2009 n. 98; Sez. controllo Lombardia, parere 23.02.2011 n. 94; Sez. controllo Basilicata, delibera 17.05.2011 n. 28).
E’ inoltre da tener presente, come ricordato nei pareri da ultimo citati, che il legislatore, con la disposizione contenuta nel comma 28 dell’art. 3 della legge n. 350/2003, ha stabilito che gli enti locali “hanno facoltà di utilizzare le entrate derivanti dal plusvalore realizzato con l'alienazione di beni patrimoniali, inclusi i beni immobili, per spese, aventi carattere non permanente”, connesse alle finalità di cui all'articolo 187, comma 2, del TUEL. Le somme in parola possono essere ulteriormente utilizzate, a partire dall'01.01.2005, anche per il rimborso della quota di capitale delle rate di ammortamento dei mutui (art. 1, comma 66, legge 30.12.2004, n. 311).
Passando allo specifico quesito posto dal Comune, alla luce della complessa disciplina esaminata, una volta ritenuti assoggettati anche i proventi della trasformazione del diritto di superficie al vincolo di destinazione di cui all’art. 16, comma 3, il quesito si riduce alla verifica della possibilità di qualificare o meno le fattispecie prospettate quali “interventi di eguale natura”.
Al riguardo,
il collegio ritiene che possono ritenersi tali anche le opere di urbanizzazione a miglioramento delle aree su cui siano stati realizzati interventi a norma delle leggi indicate all’art. 16, comma 1, del D.L. n. 786 del 1981. Del resto il comma citato precisa, da un alto che il prezzo di alienazione o di concessione in diritto di superficie delle aree e dei fabbricati deve essere determinato in misura tale da coprire anche gli oneri per le “opere di urbanizzazione eseguite o da eseguire”, dall’altro che l’avanzo su cui verte il vincolo di destinazione si riferisce agli stanziamenti risultanti dal bilancio consuntivo relativi anche all’urbanizzazione delle aree interessate. Appare evidente, pertanto, che possono ritenersi “di eguale natura” anche gli investimenti per opere di urbanizzazione per il miglioramento delle medesime aree, in quanto strumentali all’edilizia residenziale e dunque alla realizzazione, anche attraverso di essi, della funzione sociale della proprietà. Resta ovviamente demandata alla valutazione discrezionale dell’Ente, tenuto conto delle esigenze della cittadinanza amministrata, l’individuazione delle priorità degli interventi nell’ambito in esame, e dunque il riconoscimento dell’eventuale preminenza di opere di urbanizzazione rispetto ad altre finalità, sempre di “eguale natura”.
In ogni caso, avuto riguardo alle già citate disposizioni di cui al comma 28 dell’art. 3 della legge n. 350 del 2003 e al comma 66 dell’art. 1 della legge n. 311 del 2004,
l’Ente dovrà anche misurarsi con le eventuali priorità segnalate all’art. 187 del TUEL ovvero con l’esigenza di provvedere al rimborso della quota di capitale delle rate di ammortamento dei mutui (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 29.09.2011 n. 117).

NEWS

ENTI LOCALILa p.a. lumaca si salva in corner. Ok alla deroga unilaterale nei pagamenti alle aziende. Nel ddl recante lo Statuto d'impresa molte disposizioni modificate con gli emendamenti.
Depotenziata l'efficacia della tutela delle piccole e medie imprese contro i ritardati pagamenti da parte delle Amministrazioni pubbliche, con la soppressione delle norme sulla nullità dei patti in deroga in materia di interessi e del divieto di deroga ai termini previsti dal dlgs 231/2002 per la decorrenza degli interessi di mora.
Contrariamente a quanto affermato da alcuni organi di stampa, sono infatti spariti, nell'approvazione in Aula del disegno di legge «statuto di impresa», alcune importanti norme, varate in Commissione attività produttive (si veda ItaliaOggi di ieri) a tutela delle transazioni commerciali delle piccole e medie imprese con le amministrazioni pubbliche.
In particolare, con un emendamento presentato dal relatore del provvedimento, Cesare Cursi, in Aula sono saltati i primi tre commi dell'articolo 11 esaminato dall'Aula. Di particolare rilievo soprattutto i primi due: il primo comma stabiliva che le pubbliche amministrazioni, nelle transazioni commerciali, non potessero derogare unilateralmente ai termini di cui al presente articolo, cioè ai termini dell'articolo 4 del decreto legislativo 231/2002 (trenta o sessanta giorni da cui decorrono gli interessi di mora)
Il secondo e ancora più importante comma prevedeva invece la nullità (ex lege, quindi) della rinuncia agli interessi di mora successivamente alla conclusione del contratto, qualora una delle parti contraenti fosse stata una pubblica amministrazione. Lo stesso relatore ha anche proposto (e l'Aula ha approvato) un emendamento con il quale è stato anche soppressa la norma che prevedeva un sistema di diffide e sanzioni nei casi di ritardato pagamento, mancato versamento degli interessi moratori e mancato risarcimento dei costi di recupero, di cui agli articoli 4 e 6 del decreto legislativo 09.10.2002, n. 231.
Nella sostanza, tutto quello che poteva rappresentare un onere per l'Amministrazione, o quanto meno un inasprimento del quadro normativo vigente è stato soppresso. Così come non sono passati gli emendamenti che proponevano un sistema di certificazione dei crediti verso la pubblica amministrazione a favore delle piccole e medie imprese (stimati in complessivi 40 miliardi).
In questo caso è stata la Commissione bilancio a bocciare gli emendamenti e il presidente Antonio Azzollini, in Aula, ha avuto modo di chiarire le ragioni del parere negativo: «se non si vogliono prendere in giro le imprese, bisogna coprire pesantemente queste norme in quanto è evidente che immediatamente provocano per lo Stato e per le pubbliche amministrazioni necessità di fabbisogno assai considerevoli, che in questo momento ovviamente non possono essere soddisfatte».
Rimangono invece le norme che, nell'ambito della delega a recepire la nuova direttiva europea sui ritardati pagamenti (la 77/2010), prevedono interventi dell'Antitrust con diffide e sanzioni relativamente ai comportamenti illeciti messi in atto da grandi imprese nei confronti delle piccole e mede imprese.
Si stabilisce inoltre che la direttiva debba essere recepita per limitare soprattutto gli effetti negativi della posizione dominante di imprese sui propri fornitori o sulle imprese subcommittenti (articolo ItaliaOggi del 22.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni al restyling. Se un componente transita in un altro gruppo. Il cambio di casacca richiede una revisione globale delle rappresentanze.
Qual è la procedura da applicare per la sostituzione, nelle commissioni consiliari, di un consigliere uscito da un gruppo e transitato in un altro?
In base a quanto disposto dall'articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione.
Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il peso numerico e di voto.
Il legislatore non precisa come debba essere applicato tale criterio di proporzionalità. È da ritenersi che spetti al regolamento, cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Secondo l'univoco e consolidato indirizzo giurisprudenziale, il criterio proporzionale può dirsi rispettato ove sia assicurata, in ogni commissione, la presenza di ciascun gruppo presente in consiglio in modo che, se una lista è rappresentata da un solo consigliere, questi deve essere presente in tutte le commissioni costituite (Tar Lombardia, Brescia, 04/07/1992, n. 796, Tar Lombardia Milano, 03/05/1996, n. 567), assicurando una composizione delle commissioni proporzionata all'entità di ciascun gruppo consiliare.
Nel caso di specie, se lo statuto, nel disciplinare le commissioni, stabilisce che queste debbano essere costituite con criterio proporzionale e il regolamento comunale fissa la determinazione numerica dei commissari, demanda ai gruppi consiliari la designazione dei consiglieri incaricati di far parte delle commissioni consiliari in rappresentanza dei singoli gruppi -in modo da garantire adeguata rappresentanza a ciascuno di essi- e stabilisce il diritto di ogni consigliere a far parte di almeno una commissione, ne consegue che gli eventuali mutamenti in corso di consiliatura nel rapporto tra maggioranza e minoranza consiliare, ovvero nella consistenza numerica dei gruppi, dovrebbero implicare una revisione, a cura del consiglio comunale, degli assetti preesistenti nelle commissioni consiliari, al fine di ripristinare il rispetto dei criteri a cui le stesse devono essere conformate.
In tale prospettiva, l'ipotesi del distacco di uno o più consiglieri dal gruppo di appartenenza originaria per aderire o formare altro gruppo, va inquadrata nell'ambito di un riequilibrio generale degli assetti presenti nelle commissioni, e non già di mera sostituzione degli stessi.
Resta rimessa all'autonomia organizzativa dell'ente locale l'individuazione, anche mediante opportune integrazioni del regolamento comunale, del meccanismo tecnico -quale voto plurimo, voto ponderato o altro- reputato maggiormente idoneo ad assicurare a ciascun commissario un peso corrispondente a quello del gruppo che rappresenta.
Come rilevato nella citata sentenza del Tar Lombardia, Milano, n. 567/1996, infatti, il criterio proporzionale «è posto dal legislatore come direttiva suscettibile di svariate opzioni applicative, egualmente legittime purché coerenti con la ratio che quel principio sottende, e che consiste nell'assicurare in seno alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile» (articolo ItaliaOggi del 21.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONEIncentivi fuori dai tagli, restano ancora dubbi. I chiarimenti delle sezioni unite non sciolgono tutti i nodi.
Gli incentivi alla realizzazione di opere pubbliche derogano al tetto al fondo, al pari di quelli per gli avvocati dipendenti e dirigenti (per costoro si deve però chiarire se ci si riferisce solamente alla condanna dell'altra parte al rimborso delle spese o anche alle cifre da corrispondere in caso di semplice vittoria), mentre gli incentivi al personale dell'ufficio tributi per il recupero di evasione Ici e quelli destinati ai vigili provenienti da sponsorizzazioni non possono derogare tale tetto.
Sono queste le indicazioni dettate dalle Sezz. riunite di controllo della Corte dei conti con la deliberazione 04.10.2011 n. 51.
Rimane da chiarire, sulla base dei principi dettati dalla deliberazione, se la deroga al tetto del fondo 2010 si può estendere ai compensi per i vigili derivanti da una quota dei proventi delle sanzioni per le inosservanze al codice della strada, nonché ai risparmi nella utilizzazione del fondo del 2010, a quelli provenienti dallo straordinario non utilizzato nell'anno precedente e alla utilizzazione dei commi 2 e 5 del Ccnl 01/04/1999.
Le sezioni riunite di controllo della Corte dei conti hanno ritenuto che le risorse provenienti dall'incentivazione per la realizzazione di opere pubbliche vadano escluse dal tetto al fondo per le risorse decentrate, in quanto destinate «a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o individuabili». Si deve ritenere, ma mancano indicazioni espresse, che le stesse considerazioni si debbano applicare anche alla incentivazione per la progettazione di strumenti urbanistici.
Le stesse ragioni consentono la deroga anche per le risorse destinate alla incentivazione degli avvocati dipendenti o dirigenti: al riguardo si deve evidenziare che il parere non chiarisce se tale deroga si applichi solamente ai compensi provenienti dalla condanna dell'altra parte al rimborso delle spese legali o anche quelli da riconoscere nel caso, molto più frequente, in cui l'altra parte sia condannata, ma le spese sono rimborsate. Infatti, nella parte iniziale del parere, quella in cui si riassume il quesito, ci si riferisce solamente alla prima possibilità, mentre nella parte finale, in cui dettano le indicazioni, il riferimento è generico. Il parere esclude espressamente dalla deroga, nonostante questi compensi siano destinati anch'essi a gruppi predeterminati di dipendenti, quelli per gli uffici tributi a seguito del recupero di evasione Ici e quelli per i vigili a seguito di sponsorizzazioni private della loro attività.
Mancano indicazioni per i compensi previsti dall'articolo 208 del codice della strada per i vigili provenienti da una quota dei proventi delle sanzioni per le infrazioni alla circolazione stradale (tema su cui abbiamo pareri diversificati tra le sezioni regionali della magistratura contabile): sulla base dei principi dettati dal parere sembra doversi ritenere applicabile la deroga anche in questo caso. Principio che, per le stesse ragioni, si deve ritenere applicabile anche ai compensi provenienti dall'Istat per il censimento.
Rimangono i dubbi su altre componenti della parte variabile del fondo, in particolare per le economie derivanti dalla mancata integrale applicazione del fondo dell'anno precedente (per la sezione di controllo della Corte dei conti della Puglia si applica una deroga) e per i risparmi sul lavoro straordinario dell'anno precedente. Da evidenziare infine che sicuramente l'aumento del fondo sulla base della utilizzazione dei commi 2 (incremento fino all'1,2% del monte salari 1997 per il miglioramento della qualità dei servizi) e 5 (incremento per l'attivazione di nuovi servizi) del Ccnl 01/04/1999 è vietato se si eccede il fondo 2010. Per il divieto di utilizzazione in aumento del citato comma 2 si era espressa la Corte dei conti della Lombardia (articolo ItaliaOggi del 21.10.2011 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni, si volta pagina. Subito. Il limite del 20% non si applica ai contratti a termine. Gli enti locali possono disapplicare immediatamente le pronunce restrittive della Corte conti.
Disapplicabili da subito le pronunzie della Corte dei conti secondo le quali il limite delle assunzioni pari al 20% del costo delle cessazioni degli anni precedenti si applicherebbe anche alle assunzioni a tempo determinato.
I lavori preparatori alla legge di stabilità, e in particolare la relazione tecnica allegata, che smentiscono sul punto le conclusioni della magistratura contabile, consentono agli enti di non tenere conto di tali conclusioni, senza dover necessariamente aspettare l'approvazione del testo normativo.
La relazione tecnica, commentando l'articolo 4, comma 110, dell'attuale testo del ddl di stabilità precisa che «la norma interviene attraverso una parziale modifica dell'art. 76 del dl n. 112/2008, convertito nella legge n. 133/2008, e successive modificazioni. In particolare: la lettera a) interviene in materia di assunzioni del sistema degli enti locali -integrando l'art. 76, comma 7, del dl 112- ed è intesa a offrire un'interpretazione univoca della norma di cui trattasi, specificando che la disciplina assunzionale ivi prevista per regioni ed enti locali si riferisce alle sole assunzioni a tempo indeterminato. La disposizione, configurandosi come interpretativa, non comporta oneri a carico della finanza pubblica».
Se già il testo dell'articolo 4 del ddl è chiarissimo, poiché inserisce nell'articolo 76, comma 7, della legge 133/2010 la precisazione che il tetto del 20% si applica solo ai contratti a tempo indeterminato, ancor più lineare è l'indicazione data dalla relazione tecnica. La quale espressamente rivela l'intento del legislatore di «offrire un'interpretazione univoca», con chiaro indiretto riferimento alle contrastanti posizioni espresse, sul merito, anche nell'ambito delle stesse sezioni regionali di controllo della Corte dei conti. Non solo: la relazione considera altrettanto esplicitamente la norma come «interpretativa», certo allo scopo di chiarire la sua neutralità sul piano dei costi, ma finendo per qualificarla indirettamente come disposizione di interpretazione autentica, che pone nel nulla dall'origine le letture di segno contrario sancite dalla deliberazione 46/2011 delle sezioni riunite e recentissimamente confermate dalla sezione Lazio con deliberazione 12.10.2011, n. 59, certamente antecedente all'iniziativa legislativa.
Sul piano operativo, prudenza potrebbe consigliare alle amministrazioni di attendere l'approvazione del testo di legge e così agire libere dagli effetti vincolativi derivanti dalla lettura restrittiva della magistratura contabile. Tuttavia, occorre ricordare che le sezioni della Corte dei conti esprimono pareri, non emettono sentenze, né tanto meno possono creare diritto (anche se la deliberazione 46/2011 ha, in effetti, introdotto elementi di novità nella disciplina delle assunzioni, non sussistenti nella norma).
Si tratta di un'attività collaborativa, svolta ai sensi dell'articolo 7, comma 8, della legge 131/2003. In quanto pareri, essi non sono ovviamente vincolanti: si tratta di una funzione di amministrazione consultiva, volta a meglio chiarire aspetti controversi di una disciplina agli organi competenti, i quali restano comunque integralmente responsabili comunque delle scelte amministrative concretamente adottate. Ivi comprese, quelle di non aderire ai pareri espressi, con l'onere di fornire ampia ed approfondita motivazione che espliciti le ragioni di tale eventuale decisione.
I pareri delle sezioni restano, dunque, comunque fonti di interpretazione e non fonti di produzione del diritto (articolo ItaliaOggi del 21.10.2011 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALIBrunetta con una mano semplifica ma con l'altra complica.
Se due negazioni affermano, due semplificazioni complicano. Lo schema di decreto sviluppo, alla ricerca della riduzione degli adempimenti burocratici, così come vuole il ministro della funzione pubblica Renato Brunetta, crea non poca confusione nell'ambito della procedura di gara d'appalto, rendendo inestricabile le modalità con le quali controllare il possesso in capo alle imprese aggiudicatarie dei requisiti di moralità, tecnici e finanziari per poter stipulare il contratto.
Da un lato, infatti, il decreto intende eliminare le certificazioni come mezzi di comprova del possesso di determinati requisiti, da utilizzare per entrare in contatto con la pubblica amministrazione.
L'articolo 61 dell'attuale schema del decreto dispone espressamente che le certificazioni rilasciate dalla p.a. in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili «solo nei rapporti tra privati». Aggiungendo, con coerente consequenzialità che «nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni» sostitutive di certificazioni e dell'atto di notorietà.
Per completare l'opera, il decreto impone, a pena di nullità, di inserire in ogni certificato la dicitura attestante che il documento non possa essere prodotto agli organi della p.a., obbliga a effettuare i controlli delle dichiarazioni mediante accesso diretto alle banche dati, prevedendo sanzioni nei confronti dei dirigenti che manchino di rispettare il precetto.
Tuttavia, l'articolo 89 del decreto modifica l'articolo 48 del dlgs 163/2006, norma finalizzata a regolamentare i controlli sui requisiti delle imprese appaltatrici. Allo scopo di velocizzare tale passaggio, si stabilisce di limitare alla sola impresa aggiudicataria le verifiche, e non più di estenderle anche alla seconda in graduatoria.
Infatti, si inserisce un comma 2-bis nell'articolo 48, ai sensi del quale «le stazioni appaltanti richiedono al solo operatore economico aggiudicatario la presentazione della documentazione probatoria dei requisiti».
Ma è qui che emerge la contraddizione in termini. Nel caso degli appalti quanto stabilito prima sul valore delle dichiarazioni sostitutive non vale più. Perfino i certificati riacquistano il loro potere probatorio in via esclusiva. Molti dei requisiti richiesti all'aggiudicatario sono comprovati proprio da certificati: altro non è, infatti, il Durc, ma anche il casellario giudiziale o l'attestazione del rispetto delle norme sul diritto al lavoro dei disabili. Per effetto del decreto sviluppo, tuttavia, quei certificati non potrebbero essere esibiti alle pubbliche amministrazioni e dovrebbero essere dotati, del resto, della dicitura vista sopra.
Per acquisire, dunque, la documentazione a comprova del possesso dei requisiti, i dirigenti delle pubbliche amministrazioni non potrebbero che violare le norme sulla semplificazione disposte dal decreto.
Un cortocircuito che può risolversi solo imponendo la messa in rete telematica di tutte le banche dati e prevedendo sempre e solo l'accesso diretto, senza oneri, delle amministrazioni che gestiscono le procedure ai dati posseduti dalle amministrazioni da consultare. In mancanza di questo, il rischio è che la semplificazione, giusto obiettivo da perseguire, rimarrà sempre un proclama giustissimo, ma difficile da realizzare concretamente (articolo ItaliaOggi del 21.10.2011).

ENTI LOCALIDECRETO SVILUPPO/ Compromesso sui pagamenti p.a.. Certificazione debiti facoltativa. Ma il rifiuto va motivato. Le misure allo studio per favorire la liquidità delle imprese creditrici.
Certificazione dei debiti della p.a. facoltativa, ma con obbligo di motivazione in caso di diniego.
È questo il compromesso su cui i tecnici del Mef e del ministero della semplificazione, al lavoro sul prossimo decreto sviluppo, stanno trovando la quadra per rivitalizzare le norme sui ritardati pagamenti nei confronti delle imprese. Una soluzione intermedia tra ciò che la legge (art. 9, comma 3-bis del dl 185/2008, convertito nella legge n. 2/2009) dice già oggi, (senza peraltro aver ottenuto grandi risultati, visto lo stato di perenne sofferenza in cui versano le aziende che lavorano con la pubblica amministrazione) e le proposte di modifica avanzate da Roberto Calderoli, ma frenate dalla Ragioneria dello stato.
Il ministro della semplificazione avrebbe voluto obbligare gli enti locali, le regioni e gli enti della sanità indebitati con le imprese a certificare i crediti delle aziende in modo da favorirne la cessione alle banche. Ma dopo i rilievi del dipartimento guidato da Mario Canzio sui possibili effetti finanziari di una modifica così «spinta» si è preferita una soluzione soft.
La certificazione dei crediti certi, liquidi ed esigibili resterà facoltativa ma con l'obbligo in caso di rifiuto di spiegare il perché.
Una modifica apparentemente piccola, ma che combinata con l'altra novità in cantiere (il visto della Ragioneria comunale sulla copertura finanziaria delle opere dovrà essere dato non solo per competenza, ma anche per cassa) dovrebbe fornire alla certificazione dei crediti un'accelerazione decisiva per dare una boccata d'ossigeno al sistema produttivo.
Inoltre, la naturale ritrosia da parte delle banche ad accettare la cessione dei crediti sarà superata inserendo l'impegno a non opporsi alla cessione tra i requisiti previsti per aggiudicarsi il servizio di tesoreria degli enti. La certificazione dei crediti non è però l'unico tema al centro dei tavoli tecnici di questi giorni. A tenere banco è ovviamente il patto di stabilità 2012 i cui contorni sono diventati quanto mai nebulosi dopo i rilievi di Corte conti e Eurostat (si veda ItaliaOggi del 19/10/2011) che mettono in discussione la possibilità per comuni, province e regioni di scontare dagli obiettivi 2012 la propria quota del gettito della Robin tax. I nodi dovranno essere sciolti a breve perché di certo la disciplina del nuovo patto verrà inserita come emendamento al disegno di legge di stabilità che inizierà il proprio cammino parlamentare dal senato.
Ieri il presidente di palazzo Madama, Renato Schifani, ha dato ufficialmente il via alla sessione di bilancio, disponendo lo stralcio di otto commi dal ddl. Le norme, ha spiegato, «andranno a costituire autonomi disegni di legge». Tra queste si segnalano i commi 49 e 50 dell'articolo 4, che introducono un termine di 120 giorni per impugnare le progressioni di carriera all'interno della stessa area nelle pubbliche amministrazioni, nonché per presentare le domande di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da provvedimenti dell'amministrazione (articolo ItaliaOggi del 21.10.2011 - link a www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATADia e Scia stoppate subito. Istanza al Tar per accertare illegittimità in atto. È questo quanto emerso nel corso di un convegno organizzato a Torino.
Dia e Scia alla sbarra subito: il terzo, interessato a bloccare l'attività iniziata con una denuncia o una segnalazione di inizio attività, può chiedere immediatamente al Tar di accertare l'illegittimità in corso. Senza dover aspettare il termine (60 giorni) lasciato alla Pubblica Amministrazione per disporre il blocco dell'attività, quando questa è illegittima.
È quanto emerso al convegno di studi sul codice del processo amministrativo, organizzato il 13.10.2011 a Torino dal Tar Piemonte, dalla sezione piemontese della Associazione degli avvocati amministrativisti e dalla avvocatura del comune di Torino.
Al centro dell'attenzione una delle più significative della manovra di Ferragosto (decreto legge 138/2011).
Il decreto 138 ha modificato l'articolo 19 della legge 241/1990 inserendo il comma 6-ter. Questo comma prevede che la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili e che gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione contro il silenzio dell'amministrazione (articolo 31 del codice del processo amministrativo, dlgs 104/2010).
In sostanza il problema è di individuare quali strumenti di tutela abbia, per esempio, il vicino di casa di chi sta realizzando un'opera edilizia con una Scia o con una Dia oppure il titolare di un esercizio commerciale concorrente di chi sta aprendo un negozio dall'altro lato della strada e così via. In sostanza se, da una parte, c'è l'esigenza di semplificare e sburocratizzare le attività economiche e produttive, dall'altro lato c'è l'esigenza di non trascurare la tutela dei controinteressati, nel caso vengano iniziate attività non in regola con leggi e regolamenti.
Il problema si pone soprattutto in relazione a quei casi in cui l'attività può essere iniziata subito prima dello scadere del termine assegnato all'amministrazione per fare i controlli e ordinare il blocco dell'attività.
Si prenda il caso della Scia. L'attività oggetto della segnalazione può essere iniziata già dalla data della presentazione della segnalazione all'amministrazione competente. A questo punto l'amministrazione ha sessanta giorni di tempo per adottare motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi a meno che non sia possibile ricondurre l'attività alla piena regolarità.
Ora, siccome il comma 6-ter sopra citato individua come unica possibilità di reazione contro la scia la contestazione dell'inerzia dell'amministrazione (che non adotta i provvedimenti inibitori), ci si chiede se si devono aspettare i sessanta giorni oppure se il terzo possa agire subito. Anche perché magari una volta passati i sessanta giorni il danno per il terzo si è definitivamente consumato (ad esempio l'opera edilizia è completamente terminata).
Tra l'altro c'è una complicazione ad andare dal giudice amministrativo: l'articolo 34, comma 2, del codice del processo amministrativo prescrive che in nessun caso il giudice può pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati. Dunque se si agisce prima dello scadere dei sessanta giorni lo si farebbe in un momento in cui l'amministrazione avrebbe ancora tempo per adottare i provvedimento di blocco dell'attività e allora si rischia di incorrere nel divieto dell'articolo 34.
Secondo quanto emerso al convegno torinese il controinteressato ha la possibilità di agire subito senza dovere aspettare i sessanta giorni. Questo perché in questo caso (controllo su Dia e Scia) l'amministrazione ha un dovere di attivarsi subito a colpire una scia o una dia illegittima e il termine è un termine massimo. Ma l'obbligo di adozione dei provvedimenti di blocco sorge subito.
Quindi l'inerzia matura subito e si protrae giorno per giorno. Inoltre non c'è violazione dell'articolo 34 sui poteri del giudice, perché la regola di non ingerenza rispetto a poteri non ancora esercitati vale solo nel caso di atti discrezionali e non nel caso di attività vincolata (come quella relativa ai casi in cui si può operare con Dia e Scia) (articolo ItaliaOggi del 21.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - VARIPrivacy, documento programmatico addio.
Basta Dps privacy. Scompare il documento programmatico sulla sicurezza. Per tutti: per imprese, professionisti, enti pubblici. E comunque niente più tutela della riservatezza per le imprese, pubbliche amministrazioni e per le persone giuridiche. I dati degli enti sono liberamente utilizzabili. Tranne nel settore delle comunicazioni elettroniche. Quindi enti e imprese rimangono tutelati da telefonate e comunicazioni indesiderate.
Così la bozza del decreto sviluppo modifica il codice della privacy (d. legislativo 196/2003), a cominciare dall'articolo 4. Ma vediamo le novità più importanti di una manovra che svuota di molto l'impianto del codice della privacy.
Mentre nella versione attuale i soggetti tutelati dal codice della privacy sono le persone fisiche, le persone giuridiche, gli enti e le associazioni, nella versione proposta dal decreto sviluppo persone giuridiche, gli enti e le associazioni sono considerati solo in quanto abbonati a un servizio di comunicazione elettronica accessibile al pubblico. Questo significa che le società e gli enti in genere sono tutelati dal marketing selvaggio e che, invece, per altre finalità i dati si possono usare senza sottostare ad adempimenti privacy (informativa, consenso ecc.).
Per coerenza viene modificata anche la lettera i) del comma 1, dell'articolo 4 del codice della privacy, in cui si definisce chi è il soggetto «interessato» e cioè protetto dalla disciplina sulla riservatezza. Nella versione attuale «interessato», la persona fisica, la persona giuridica, l'ente o l'associazione cui si riferiscono i dati personali; nella versione modificata viene limitata la portata relativa a persone giuridiche, enti e associazioni, che sono considerati solo in quanto abbonati a un servizio di comunicazione elettronica accessibile al pubblico, limitatamente al trattamento dati nel settore delle comunicazioni elettroniche.
Non ci sarebbe, poi, più bisogno del comma 3-bis dell'articolo 5 del codice della privacy, disposizione, tra l'altro, appena inserita dal decreto 70/2011. Questa norma esonerava dagli adempimenti privacy il trattamento dei dati personali relativi a persone giuridiche, imprese, enti o associazioni effettuato nell'ambito di rapporti intercorrenti esclusivamente tra i medesimi soggetti per finalità amministrativo-contabili. Con le modifiche proposte anche altri trattamenti (tranne quelle relative alle comunicazioni elettroniche) sono radicalmente fuori ambito privacy: da qui l'abrogazione del comma 3-bis citato.
Ma la novità più importante è l'azzeramento dell'obbligo di tenere un aggiornato dps, e cioè il documento programmatico sulla sicurezza. Un adempimento che è risultato inviso a imprese e professionisti e che ha comportato anche ingenti spese. Il documento è previsto dall'articolo 34, comma 1, lettera g), e cioè da una disposizione soppressa dal decreto sviluppo.
La soppressione vale sia per le imprese, ma anche per i professionisti. Decade anche la sezione dell'Allegato b) al codice della privacy attuativa del dps. Da sottolineare che se cade l'obbligo di dotarsi di Dps, non viene meno la normativa sulle garanzie sostanziali di preservare condizioni di sicurezza nel trattamento dei dati (per esempio, password e back up e così via). A fronte della cancellazione totale dell'obbligo di dps non hanno più senso le disposizioni sul Dps semplificato (articolo 34, comma 1-bis), che infatti vengono abrogate.
E scompare la possibilità di sanzioni amministrative e penali per omessa adozione del Documento programmatico sulla sicurezza (mente rimangono le sanzioni per la violazione degli altri adempimenti in materia di sicurezza privacy) (articolo ItaliaOggi del 21.10.2011).

ATTI AMMINISTRATIVILEGGE DI STABILITÀ/ Onorari sempre alla p.a. vincente. Chi perde paga anche se alla difesa c'è un dipendente. Mancata attuazione di norme Ue, dimezzati i termini per i danni.
Dimezzato il termine di prescrizione per chiedere i danni allo stato causati dal mancato recepimento di direttive comunitarie: è di cinque anni. E inoltre tempi stretti per contestare le progressioni di carriera nel pubblico impiego e per chiedere i danni non patrimoniali causati al lavoratore pubblico da atti dell'ente. Infine nelle cause di lavoro si pagano gli onorari alla p.a. vincitrice, anche se si è difesa con un proprio dipendente e non con un avvocato.
Il disegno di legge stabilità approvato venerdì scorso dal consiglio dei ministri interviene pesantemente su alcune azioni, con la chiara finalità di ottenere che lo stato abbia meno esborsi in caso di soccombenza in giudizio; l'altro obiettivo è di far recuperare le spese sostenute per la difesa con proprio personale nei primi gradi delle cause di lavoro. Ma vediamo le novità in progetto.
Colpo di spugna sui risarcimento da tardivo recepimento di direttive comunitarie.
Il ddl Stabilità limita a cinque anni la prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento di direttive o altri provvedimenti obbligatori comunitari. La disposizione in esame include, infatti, il diritto al risarcimento del danno nella disciplina dell'articolo 2947 codice civile e precisa anche che il termine del quinquennio decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato.
La relazione al disegno di legge stabilisce che la norma ha lo scopo di chiarire il forte conflitto giurisprudenziale esistente sul tema del risarcimento del danno da mancato recepimento di direttive comunitarie. Solo qualche mese fa, infatti, la Cassazione (sentenza 10813 del 18.05.2011) si era pronunciata affermando il termine decennale.
La relazione sostiene anche che la norma ha valore specificamente interpretativo e, quindi, dovrebbe applicarsi anche alle cause in corso. Questo significa che si potrà registrare un mini colpo di spugna sui contenziosi pendenti; d'altra parte la relazione esplicitamente ammette che la norma è volta sostanzialmente a ridurre l'impatto oneroso dei contenziosi.
Spese legali alla p.a. che si difende senza avvocato.
Nei primi gradi di giudizio delle cause di lavoro contro le pubbliche amministrazioni, queste possono stare in giudizio senza avvocato, ma avvalendosi di propri dipendenti.
Il disegno di legge stabilità stabilisce che, nelle liquidazioni delle spese del giudizio (articolo 91 codice procedura civile) a favore delle pubbliche amministrazioni (quelle istituzionali definite dall'articolo 1, comma 2, del dlgs 165/2001, Testo unico del pubblico impiego), se assistite da propri dipendenti, si applica la tariffa vigente per gli avvocati, con la riduzione del venti per cento degli onorari.
La novità è che viene stabilito espressamente che la p.a. ha diritto al rimborso delle spese processuali calcolate con il tariffario forense. Nella giurisprudenza attuale, invece, alla p.a., che vince la causa senza avvocato, non vengono riconosciuti gli onorari, ma al massimo un rimborso delle spese vive.
Questo significa che il lavoratore soccombente dovrà pagare le spese legali all'amministrazione, anche se questa non si è difesa con un avvocato.
Vene così estesa anche alle controversie di lavoro una regola già dettata nei processi tributari (articolo 15, comma 2-bis, del dlgs 546/1992). La riscossione avverrà mediante iscrizione al ruolo. La novità non si applica alle cause pendenti, ma solo alle controversie insorte successivamente alla futura data di entrata in vigore della legge di stabilità.
Rimane fermo, invece, il mancato rimborso delle spese processuali per altri contenziosi che ammettono l'ente pubblico alla difesa in proprio (ad esempio ricorsi contro le multe del codice della strada).
Progressioni di carriera nel pubblico impiego.
Il ddl stabilità propone la modifica dell'articolo 52, comma 1-bis, del Testo unico pubblico impiego, riducendo il tempo per impugnare le progressioni di carriera. Secondo il ddl tutte le impugnazioni concernenti le progressioni all'interno della stessa area, l'ammissione e la partecipazione alle medesime, e la validità, l'interpretazione e l'applicazione dei relativi atti presupposti, devono essere proposte, a pena di decadenza, entro 120 giorni dalla comunicazione dell'esito della procedura. La disposizione si applicherà per il futuro e, quindi, alle graduatorie pubblicate successivamente alla data di entrata in vigore della legge di stabilità.
Danno non patrimoniale.
Analogo termine di centoventi giorni è proposto per la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da provvedimenti dell'amministrazione, nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle p.a. rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario. La domanda deve essere proposta entro il termine di decadenza decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza che ha definito il giudizio di impugnazione dei provvedimenti della p.a..
La disposizione avrà effetto solo per il futuro, in quanto il ddl specifica che la tagliola non si applica alle domande già proposte nei giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge stabilità (articolo ItaliaOggi del 20.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPRIVACY/ Basta l'estratto per rettificare il punteggio di un candidato. Il Garante stabilisce un principio valido per tutti i concorsi pubblici.
Concorsi pubblici più riservati. Per rettificare il punteggio di un candidato nella graduatoria di un concorso a vicepresidente di sezione di commissioni tributarie provinciali, è sufficiente pubblicare solo il dispositivo della delibera. Per pubblicare l'atto in forma integrale è necessario invece che lo disponga una norma di legge o di regolamento.
Così il Garante privacy ha deciso un ricorso stabilendo un principio valido in tutte le procedure selettive.
Il Garante con altri provvedimenti si è occupato anche di sms per protezione civile, form delle università telematiche e trattamento dei dati sanitari dei militari. Vediamo il contenuto dei provvedimenti.
Concorsi pubblici. Nel caso specifico la delibera di rettificazione del punteggio assegnato al candidato, affissa conteneva numerosi dati personali, tra i quali valutazioni e apprezzamenti sulla persona, e informazioni sulle attività prestate ritenute lesive della dignità umana e professionale. Vista la presa di posizione del Garante per questi concorsi è stata cambiata la modalità di pubblicazione, prevedendo l'affissione della sola parte dispositiva.
Il principio può essere esteso agli altri casi di pubblicazione di delibere di enti pubblici: tale forma di diffusione è legittima solo se è prevista da una norma di legge o di regolamento (come per esempio per comuni e province il Testo unico degli enti locali).
Sms di protezione civile. Il Centro di coordinamento nazionale per la viabilità («Viabilità Italia»), costituito presso il ministero dell'interno, potrà inviare sms utili alla gestione di situazioni di crisi della viabilità a tutte le persone presenti sul territorio interessato dall'emergenza. Via libera del Garante allo schema di convenzione stipulato tra «Viabilità Italia» e le società telefoniche.
«Viabilità Italia», in seguito a una ordinanza contingibile e urgente emanata da una autorità di pubblica sicurezza, potrà chiedere alle società telefoniche di individuare i cellulari dei clienti presenti nell'area di crisi per allertarli via sms sulla situazione di emergenza o di imminente pericolo. È stato escluso l'obbligo di acquisire il consenso considerato che si tratta di contattare le persone in casi di urgenza.
Università telematica. Il form di iscrizione a un sito web può contenere solo i dati personali strettamente necessari a fornire il servizio per il quale l'utente si registra. Altrimenti si viola la privacy e il Garante può bloccare il trattamento. Come è successo a una università telematica che raccoglieva anche informazioni, quali luogo e data di nascita, codice fiscale, cittadinanza, risultati eccedenti e non pertinenti rispetto alle finalità di mantenere contatti con gli utenti interessati al mondo dell'ateneo e di informare sulle novità e gli appuntamenti universitari.
Dati sanitari dei militari. Parere favorevole del Garante su uno schema di dpr predisposto dal ministero della difesa. Lo schema di regolamento disciplina l'adozione del «doppio certificato»: per il militare in malattia prevista la trasmissione di due certificati medici: uno con la sola prognosi, da consegnare al superiore diretto, e un altro, recante anche la diagnosi, da inviare alle strutture sanitarie militari (articolo ItaliaOggi del 20.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl Tar perdona l'avvocato. Regolarizzazione per chi dimentica Pec e fax. Circolare della Giustizia amministrativa sul super-contributo unificato.
Davanti al Tar dimenticare di scrivere fax e pec dell'avvocato può essere perdonato. L'ufficio può invitare alla regolarizzazione degli atti, senza passare automaticamente alla richiesta di un contributo unificato aumentato della metà.
È una delle precisazioni contenute nella circolare 18.10.2011 del Segretariato generale della giustizia amministrativa, che illustra le novità in materia di contributo unificato a seguito del decreto 98/2011. Vediamo i principali chiarimenti.
Dimenticati fax e pec. La mancata indicazione della posta elettronica è sanabile. Non necessariamente si passa all'aumento della metà del contributo unificato. Se negli atti viene omessa l'indicazione dell'indirizzo di posta elettronica certificata e del recapito fax l'articolo 37, sesto comma, del decreto n. 98 del 2011 prevede l'aumento della metà dell'importo del contributo dovuto.
La circolare precisa che, trattandosi comunque di una previsione di natura sanzionatoria, deve ammettersi la possibilità che, anche su espresso invito della segreteria dell'ufficio giudiziario e, in questo caso nel termine accordato, l'interessato possa sanare l'omissione, depositando in giudizio un atto che rechi l'indicazione dell'indirizzo di posta elettronica e del fax. E non occorre che tale atto sia preventivamente notificato alla controparte eventualmente costituita.
Più domande, un contributo. Se il ricorso introduttivo del giudizio contiene una pluralità di «domande» (annullatorie, costitutive, di condanna o di accertamento), è dovuto, sempre e comunque, un unico contributo unificato. Per esempio, spiega la circolare, ciò si verifica con l'impugnativa diretta, contestualmente, all'annullamento di un atto amministrativo e alla condanna della p.a. al risarcimento del danno.
Se la pluralità di domande non è contenuta nello stesso atto introduttivo, ma è frutto di più ricorsi (quello introduttivo e quello successivo contenente motivi aggiunti), al deposito dei motivi aggiunti di ricorso andrà versato un ulteriore contributo unificato. Il contributo non è dovuto, invece, qualora con i motivi aggiunti venga impugnato l'originario provvedimento per vizi diversi da quelli fatti valere con il ricorso originario.
Sospensiva. Non si paga il contributo unificato per la richiesta di misure cautelari monocratiche, per la richiesta di misure cautelari collegiali e per la richiesta di misure cautelari anteriori alla causa. Non comportano il pagamento del contributo unificato neppure la richiesta di esecuzione di ordinanza cautelare; la proposizione dell'appello cautelare; l'istanza di sospensione della sentenza di primo grado (art. 98 del Codice del processo amministrativo).
Risarcimento del danno. La domanda di risarcimento del danno proposta unitamente al ricorso per l'annullamento di un atto non implica il pagamento di un contributo unificato calcolato autonomamente sul valore del risarcimento richiesto: si paga il contributo di 600 euro previsto per la domanda principale.
Se la domanda di risarcimento è proposta in via autonoma (come domanda giudiziale formulata nel corso del processo con il deposito di motivi aggiunti, o dopo un giudizio impugnatorio o come richiesta risarcitoria non correlata ad azione annullatoria) il contributo unificato va corrisposto nella misura ordinaria di 600 euro (salvo il caso di controversie esenti da oneri fiscali).
Per la richiesta risarcitoria formulata in via autonoma nell'ambito del contenzioso sulle procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture, la richiesta di risarcimento del danno in forma specifica (subentro nel contratto) è soggetta al contributo di 4 mila euro; mentre la richiesta di risarcimento del danno per equivalente (solo il ristoro monetario) comporta il pagamento del contributo unificato nella misura ordinaria di 600 euro.
Motivi aggiunti. L'ampliamento della controversia con la presentazione, successivamente al ricorso introduttivo, di motivi aggiunti di ricorso, comporta un nuovo pagamento del contributo.
Decorrenza delle novità. Le disposizioni contenute nel dl n. 98 del 2011 sono entrate in vigore il 06.07.2011. Di conseguenza le novità si applicano ai ricorsi per i quali il deposito presso la segreteria del giudice amministrativo sia stato effettuato dal 06.07.2011 compreso (articolo ItaliaOggi del 20.10.2011).

AMBIENTE-ECOLOGIADECRETO SVILUPPO/ Semplificazione per i rifiuti: dalla terra ai parrucchieri. Facilitata la gestione alle attività di scavo. Ma anche agli estetisti.
Lo sviluppo riparte dall'ambiente e riguarda parrucchieri, callisti, piercing e manicure, ma anche le terre e rocce da scavo.
Nella bozza del decreto sviluppo c'è una serie di norme che riguardando sottoprodotti e rifiuti. La prima e più significativa è quella che considera le terre e rocce da scavo, derivanti anche da gallerie, sia pure contaminate, dei sotto prodotti e non dei rifiuti da riutilizzare secondo i progetti approvati dalle competenti autorità urbanistiche e ambientali. E ciò anche quando siano mischiate con residui di varia natura, ma a condizione che non siano state assoggettate a pratiche di trasformazione diverse dalla normale prassi industriale effettuate nello stesso o in altro processo di utilizzazione. Ovviamente detta prassi, precisa la bozza di decreto legge, include la selezione granulometrica, riduzione volumetrica, la biodegradazione naturale degli additivi condizionanti, l'essiccamento, la stabilizzazione con calce e cemento.
La norma considera anche il caso, di superamento della concentrazione dei valori limite oggi previsti a causa di fenomeni naturali. In questo caso si potranno adottare i valori di fondo che sono senza dubbio meno restrittivi. A questo proposito si ricorda che recentemente il dlgs n. 205/2010 (che ha recepito la nuova direttiva rifiuti) ha recepito la nozione comunitaria di sottoprodotto, prevedendo, nel contempo, l'adozione di decreti ministeriali per l'individuazione di specifiche tipologie di sottoprodotti (tra cui possono ricadere terre e rocce di cui sopra).
Torna, poi, l'esenzione dalla prestazione delle garanzie finanziarie per i produttori iniziali di rifiuto non pericolosi che trasportano in conto proprio. Essi sono iscritti all'Albo regionale dei gestori ambientali competente tramite una semplice comunicazione. Questa esenzione riguarda anche i produttori iniziali di rifiuti pericolosi nei limiti però di 150 kili o litri al giorno. Unica condizione che questa attività di trasporto sia parte integrante e accessoria dell'organizzazione aziendale. Soppressa anche la tassa di concessione governativa per l'iscrizione all'Albo dei gestori ambientali, mentre la tassa di iscrizione viene determinata in soli 50 euro.
Cambiano anche le regole per i Rifiuti elettrici ed elettronici (Raee) da trasportare obbligatoriamente nei centri di raccolta. Attualmente, infatti, i Raee sono trasportati presso i centri di raccolta con cadenza mensile e, comunque, quando il quantitativo raggruppato raggiunga complessivamente i 3.500 kg. Secondo la bozza in esame il limite di 3.500 kg non riguarderà più il raggruppamento complessivo, ma sarà riferito alla singola tipologia di Raee.
Semplificate anche le procedure di trasporto dei rifiuti per i rifiuti a rischio infettivo. Nonostante il titolo altisonante la norma avrà una ricaduta molto ampia considerata la diffusione sul territorio delle relative attività. Ciò vuol dire che podologi, calliste, estetiste, piercing, manicure che producono rifiuti a rischio infettivo (Cer 18 01 03, aghi, siringhe e oggetti taglienti usati) potranno trasportarli in conto proprio per una quantità non superiore a 30 kg giorno sino all'impianto di smaltimento tramite termodistruzione. Unico obbligo «contabile» rimane quello della compilazione dei formulari di trasporto, che dovranno essere conservati per comprovare il regolare smaltimento. Risolto anche l'obbligo di comunicazione al Catasto dei Rifiuti e che verrà assolto dall'impianto di destinazione finale. Nulla questa volta in materia di Sistri (articolo ItaliaOggi del 20.10.2011).

AMBIENTE-ECOLOGIADECRETO SVILUPPO/ Un eco-permesso unico per le pmi. E più concorrenza per gli imballaggi.
Maggiore competitività nel settore ambientale. Anche attraverso modifiche rilevanti nella gestione degli imballaggi e nelle procedure che sovraintendono all'esercizio delle attività imprenditoriali.
La bozza di decreto sviluppo modifica la gestione degli imballaggi, introducendo la regola secondo cui i produttori di imballaggio, anche in forma collettiva, possono raccogliere i rifiuti di imballaggio analoghi a quelli, che per tipologia e quantità immettono sul mercato.
L'obiettivo della norma è di mantenere un elevato livello di tutela dell'ambiente con i migliori prezzi possibile. Oggi l'art. 221 del dlgs n. 15272006 (Testo unico Ambientale) prevede in proposito la raccolta in forma autonoma degli imballaggi (in alternativa all'adesione ai consorzi) ma non prevede espressamente la possibilità di usare a questo fine quelli «analoghi», piccolo cambiamento nella forma ma significativo sotto il profilo operativo. Ma si va anche oltre.
Lo schema di decreto prevede l'introduzione dell'autorizzazione unica ambientale anche per le piccole e medie imprese. Essa presuppone che sia rilasciata da sola autorità e sia improntata alla massima semplicità e chiarezza, senza oneri addizionali. La norma intende «copiare» quanto già avvenuto per i grandi impianti industriali per i quali è vigente il sistema dell'Autorizzazione integrata ambientale di derivazione comunitaria, Con una sola autorizzazione si comprendono acqua, rifiuti e emissioni in atmosfera.
E a proposito di disciplina dell'Autorizzazione integrata ambientale, il dl sviluppo interviene proprio sui grandi impianti. Come noto, attualmente i gestori dei grandi impianti sono tenuti a comunicare i dati dei controlli ambientali alle autorità competenti, che possono poi utilizzarli anche per fini pubblici.
Ebbene, lo schema di decreto stabilisce che i dati che comunica il gestore non possono essere usati ai fini dell'accertamento delle violazioni dei valori limite fissati dall'autorizzazione (articolo ItaliaOggi del 20.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARIDECRETO SVILUPPO/ Meno aiuti al fotovoltaico del Sud. Più irraggiamento, meno incentivi. E sarà più facile costruire. Basta la Scia per impianti fino a 200 kw. Sotto i 20 kw è manutenzione.
Da un lato, le agevolazioni al fotovoltaico saranno perequate, cioè livellate a livello nazionale in base ai gradi-giorni toccati per singola zona climatica del paese. Tradotto: saranno tagliati gli incentivi al Sud. Dall'altro, saranno semplificate le attività di costruzione e ristrutturazione dei piccoli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili: ogni opera riguardante impianti di potenza massima di 20 Kw non sarà più soggetta alla disciplina della segnalazione certificata d'inizio attività (Scia). Ma verrà considerata un semplice intervento di manutenzione ordinaria. Mentre, per gli impianti compresi tra 20 e 200 kw, bisognerà presentare segnalazione certificata d'inizio attività all'amministrazione competente.
Sono queste le due principali novità in fatto di energie rinnovabili, contenute nella bozza di decreto sviluppo, a cui sta lavorando il governo.
Per il passato, invece, non v'è traccia al momento del condono tombale degli impianti fotovoltaici abusivi; cioè di quella sorta di sanatoria a fronte di una possibile oblazione di 10 euro per kw installato (ne occorrono in media 3 per famiglia), di cui nei giorni scorsi avevano parlato alcuni organi di stampa.
La perequazione degli incentivi: più sole, meno agevolazioni. La norma contenuta nella bozza di decreto non dice molto. Annuncia l'applicazione di «un correttivo perequativo» collegato ai gradi-giorni delle zone climatiche del paese, «in modo da uniformare il valore dell'agevolazione su tutto il territorio nazionale». In sostanza, la misura delle agevolazioni verrebbe ricondotta agli stessi parametri utilizzati per stabilire i calendari di accensione e spegnimento delle caldaie.
Per misure e modalità di applicazione del meccanismo perequativo, il governo rinvia a un futuro decreto interministeriale. Si può, però, già anticipare che l'introduzione di un sistema di perequazione geografica degli incentivi comporterà la riduzione degli incentivi statali per gli impianti installati nelle aree del paese a maggior irraggiamento. Si tradurrà, quindi, in un calo sensibile degli incentivi per il fotovoltaico nelle regioni del Sud Italia.
La semplificazione per i piccoli impianti. Il decreto dispone che l'obbligo di incassare l'autorizzazione unica dalla regione (o un suo ente delegato) prima di costruire, mettere in esercizio o ristrutturare impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, rimanga per i soli impianti con potenza superiore a 200 kw. La semplificazione riguarda anche gli interventi di modifica, potenziamento, riattivazione e rifacimento (totale o parziale) degli impianti stessi. E tutte le opere e le infrastrutture connesse alla costruzione e all'esercizio degli impianti in questione. Per quanto riguarda, invece, tutti gli interventi relativi a impianti con potenza compresa tra 200 e 20 kw, il decreto sviluppo prevede che siano sottoposti alla sola disciplina Scia (segnalazione certificata di inizio attività). Infine, ancora più facile sarà costruire e mettere in esercizio piccoli impianti di potenza inferiore a 20 kw: questi non saranno neanche soggetti alla disciplina Scia. Stessa cosa per gli interventi di ristrutturazione e le opere e le infrastrutture a essi connesse.
Il condono, secondo indiscrezioni, sarebbe impostato su un sistema di silenzio-assenso della p.a. Un dispositivo piuttosto difficile da applicare, visto che la costruzione di impianti fotovoltaici è soggetto all'obbligo di «Via», valutazione di impatto ambientale. E il mancato rispetto di questo vincolo ha ricadute penali. Dunque, la scelta sul punto sarà tutta politica, visto che, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, i tecnici ministeriali stanno comunque lavorando alla misura. E la platea degli interessati potrebbe essere potenzialmente enorme, visto che l'Autorità per l'Energia stima in circa 22 mila i progetti che non hanno ancora ricevuto un'autorizzazione, con richieste pari a150 mila MW di potenza elettrica (cioè il triplo della domanda di elettricità del paese).
Due numeri. Per la cronaca, secondo stime Gse, gli impianti in esercizio oggi in Italia sarebbero per oltre 11 mila Mw (con previsione 12 mila mw entro fine anno). Mentre a fine 2010 gli allacci alla rete valevano per 3.500 mw. In sostanza, nel solo 2011 sarebbero stati allacciati 8.500 mw a fotovoltaico, di cui però 3700 mw deriverebbero dalla legge salva Alcoa (n. 129/2010) e graverebbero sul Secondo conto energia e non sul quarto.
Se i conti tornano, i residui 4.800 mw allacciati nel solo 2011 avrebbero già esaurito la quota di potenza installabile messa a disposizione dal quarto conto energia, quantomeno fino a fine 2013. Che prevede fino a 2.690 kw incentivati nel periodo 2011/2012 e fino a 5030 mw incentivabili entro il 2013 (articolo ItaliaOggi del 20.10.2011).

VARIDECRETO SVILUPPO/ Pagelle, tasse scolastiche, ricette mediche: si farà tutto online.  La semplificazione viaggia sul web. Parte il fascicolo sanitario elettronico.
Le pagelle scolastiche, i certificati di iscrizione, i pagamenti delle tasse e le ricette mediche saranno disponibili online con grande risparmio di carta. Per le università, le procedure telematiche relative all'iscrizione, alla carriera degli studenti e alla prenotazione degli esami, dovranno essere rese operative dall'anno accademico 2012-2013. Anche la certificazione di malattia del figlio, ai fini della concessione del relativo congedo, dovrà essere trasmessa dal pediatra in forma telematica all'Inps, così come oggi avviene per i lavoratori dei settori pubblici e privati. Infine, saranno semplificati per i gestori di alberghi e strutture ricettive, gli obblighi relativi all'identificazione dei clienti. A breve, si potrà trasmettere alle questure competenti, la scheda rilevazione delle presenze attraverso mezzi informatici.
La bozza di decreto sviluppo contiene una decisa spinta in avanti sul fronte della digitalizzazione della p.a. Vediamo le novità più importanti.
Scuole e università digitalizzate. Semplificare e migliorare il quadro delle comunicazioni scuola-famiglia e riduzioni dei costi. Con queste lodevoli premesse, la bozza in esame prevede che, dal 2013, le scuole pubbliche, di ogni ordine e grado, dovranno mettere a disposizione degli utenti, procedure telematiche per rilasciare le pagelle e i certificati scolastici in formato elettronico, nonché la documentazione relativa alla gestione delle carriere degli studenti e la possibilità di effettuare le iscrizioni e i pagamenti delle tasse scolastiche online.
Le pagelle e i certificati telematici sostituiranno gli equivalenti documenti cartacei e saranno resi disponibili agli interessati sul sito internet istituzionale dell'istituto scolastico o attraverso la posta elettronica. Resta tuttavia fermo il diritto dell'interessato di ottenere le copie cartacee dei predetti documenti. Sul versante delle università, gli atenei statali e quelli non statali (ma legalmente riconosciuti), dovranno accelerare i processi di informatizzazione.
Dall'anno accademico 2012-2013, è obbligatorio per gli atenei, mettere a disposizione degli studenti la possibilità di iscriversi, effettuare i pagamenti, verificare la propria carriera e poter prenotare gli esami delle materie.
Malattia del figlio online. Vi è la necessità di assicurare un quadro completo delle assenze nei settori pubblico e privato, così da assicurare un efficace sistema di controllo delle stesse. Queste le ragioni per cui, in tutti i casi di assenza per malattia del figlio (ex art. 47 dlgs n. 151/2001), la certificazione di malattia è inviata per via telematica all'Inps, direttamente dal medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato. Per il via, occorrerà attendere apposito dpcm, in conformità alle regole tecniche previste dal codice dell'amministrazione digitale e alle prescrizioni in materia di protezione dei dati personali.
Alberghi, dati dei clienti online. I gestori di alberghi o strutture ricettive potranno comunicare alle questure, entro 24 ore successive all'arrivo, le generalità delle persone alloggiate, mediante l'invio dei dati contenuti nella scheda rilevazione, attraverso mezzi informatici.
Tuttavia, fino al 31/12/2011, restano immutate le procedure oggi vigenti, ovvero la consegna all'autorità locale di pubblica sicurezza di copia della scheda rilevazione delle generalità, anche a mezzo fax.
Ricette online e fascicolo sanitario elettronico. Entro il 2014 almeno il 90% delle ricette mediche di farmaci e visite specialistiche a carico del Servizio sanitario nazionale dovrà essere inviato attraverso i canali telematici. A questa soglia di digitalizzazione si arriverà gradatamente.
Nel 2012, l'obiettivo del governo è di dematerializzare almeno il 40% delle ricette. La percentuale dovrà salire al 70% nel 2013. La bozza di dl sviluppo istituisce anche il fascicolo sanitario elettronico. Sarà una sorta di diario digitale della storia clinica dell'assistito e conterrà per esempio i dati dei ricoveri, degli interventi chirurgici, delle visite.
Il fascicolo verrà aggiornato in via continuativa dal medico curante del paziente e dalle strutture mediche che lo hanno avuto in cura. La consultazione dei dati sarà possibile solo previo consenso dell'interessato (articolo ItaliaOggi del 20.10.2011).

ENTI LOCALI - VARIDECRETO SVILUPPO/ P.a., i certificati vanno in soffitta. Restano solo tra privati. Cessione crediti, rifiuto da motivare.  Mutui casa dei giovani garantiti dallo stato. Dismissioni fuori dal Patto.
Niente più certificati alla p.a. Gli uffici pubblici d'ora in avanti avranno solo due possibilità: acquisire d'ufficio dati e informazioni da cittadini e imprese o accettare le autocertificazioni. «Il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi»: sarà questa la frase che d'ora in poi campeggerà (a pena di nullità) sui certificati. Che potranno essere utilizzati solo nei rapporti tra privati. E anche il Durc (il Documento unico di regolarità contributiva che attesta l'assolvimento, da parte dell'impresa, degli obblighi legislativi e contrattuali nei confronti di Inps, Inail e Cassa Edile) dovrà essere acquisito d'ufficio.
Hanno trovato posto nella prima bozza di decreto sviluppo (anticipata ieri da ItaliaOggi) le misure di semplificazione per cittadini e imprese, annunciate dal ministro della funzione pubblica Renato Brunetta a fine settembre (si veda ItaliaOggi del 27/09/2011). Non senza qualche polemica a seguito delle dichiarazioni del ministro sui certificati antimafia. Che però non scompariranno affatto, ma dovranno essere acquisiti d'ufficio dalle p.a. «nel rispetto della normativa di settore».
La misure allo studio introdurranno una serie di «modifiche chirurgiche» al Testo unico sulla documentazione amministrativa (dpr n. 445/2000). Per scongiurare il rischio di un nuovo flop (le norme in materia di semplificazione amministrativa ci sono già ma sono inattuate da 20 anni) le p.a. che emettono i certificati dovranno individuare un ufficio responsabile «per tutte le attività volte a gestire, garantire e verificare la trasmissione dei dati o l'accesso diretto alle informazioni da parte delle amministrazioni». Chi non si adeguerà al nuovo corso rischierà grosso, perché la mancata risposta alle richieste di controllo entro 30 giorni costituirà violazione dei doveri d'ufficio e verrà presa in considerazione ai fini della valutazione delle performance individuali.
Rendicontazione periodica. Entro il 31 gennaio di ogni anno le p.a. statali dovranno trasmettere alla presidenza del consiglio una relazione sul bilancio complessivo degli oneri amministrativi a carico di cittadini e imprese. Palazzo Vidoni ogni anno dovrà predisporre una relazione contenente il bilancio annuale degli oneri amministrativi, introdotti o eliminati, per ciascun ente.
Le amministrazioni col bilancio in rosso (in cui cioè gli oneri introdotti sono stati maggiori rispetto a quelli eliminati) dovranno darsi da fare (per esempio non chiedendo più agli utenti dichiarazioni, attestazioni, certificazioni e incentivando l'utilizzo dell'autocertificazione) seguendo alla lettera un apposito piano di semplificazione che verrà messo a punto dal governo entro 90 giorni.
Certificazione dei debiti della p.a. e mutui garantiti dallo stato. Nella bozza di decreto sviluppo troverà anche spazio il restyling della normativa in materia di certificazione dei debiti delle pubbliche amministrazioni. Ci stanno lavorando i tecnici del Mef e del ministero della semplificazione e trovano conferma le anticipazioni pubblicate su ItaliaOggi lo scorso 04/10/2011. Con una sola novità: la certificazione da parte di enti locali, regioni ed enti sanitari dei crediti vantati nei loro confronti dalle imprese resterà facoltativa e non diventerà obbligatoria (la Ragioneria generale dello stato ha bocciato la proposta temendo possibili ricadute negative in termini finanziari). Ma gli enti che rifiuteranno la certificazione dovranno motivare il loro diniego.
Nei bandi di gara per la gestione dei servizi di tesoreria degli enti sarà previsto come requisito essenziale l'impegno da parte del tesoriere comunale a non opporsi alla cessione pro soluto delle somme dovute per somministrazioni, forniture e appalti. Inoltre, onde evitare che gli enti facciano il passo più lungo della gamba, verrà previsto un doppio nulla osta da parte delle ragionerie comunali sulla copertura finanziaria dell'opera: non solo per competenza, come previsto oggi, ma anche per cassa. Per questo motivo è allo studio una modifica all'art. 9 del dl 78/2009 (convertito nella legge n. 102/2009) che già si occupa di tempestività dei pagamenti della p.a..
Oggi però si prevede che «il funzionario che adotta provvedimenti che comportano impegni di spesa ha l'obbligo di accertare preventivamente che il programma dei conseguenti pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica». In pratica una compatibilità per competenza. Con le modifiche allo studio (i tecnici di Calderoli prima di sciogliere la riserva sono in attesa di un parere della Rgs sul tema dei pagamenti della p.a.) il visto della ragioneria comunale dovrà tenere conto anche delle risorse immediatamente disponibili e cioè della cassa.
Tra le altre misure su cui stanno lavorando Giulio Tremonti e Roberto Calderoli c'è anche la garanzia dello stato sui mutui casa contratti dalle giovani coppie di sposi senza un lavoro a tempo indeterminato.
Tagli agli immobili e dismissioni. Nel 2012 e nel 2013 le amministrazioni centrali dello stato dovranno ridurre di almeno il 10% la superficie degli immobili demaniali utilizzati per ospitare gli uffici pubblici. Nel caso in cui la p.a. sottoscriva nuovi contratti di locazione, sarà la spesa per i canoni d'affitto a dover essere ridotta del 10%. I risparmi ottenuti rispetto al 2011 serviranno per metà a migliorare i saldi di finanza pubblica e per l'altra metà saranno destinati alla contrattazione integrativa.
I proventi derivanti dalle dismissioni del patrimonio residenziale pubblico potranno essere utilizzati da regioni ed enti locali solo per finanziare gli investimenti e non concorreranno a determinare gli obiettivi di finanza pubblica individuati dal patto di stabilità.
Un fondo di 15 milioni di euro per lanciare gli Its. È il finanziamento aggiuntivo che è stato scovato nelle pieghe del decreto legge sviluppo per sostenere gli istituti tecnici superiori. Il dl sviluppo interviene anche sulla governance degli Its, fondazioni di diritto privato in cui possono partecipare enti locali, aziende, università e anche sindacati: i consigli di indirizzo e le giunte potranno adottare delibere con la previsione di voti di diverso peso o di diverso quorum (articolo ItaliaOggi del 20.10.2011 - link a www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATADECRETO SVILUPPO/ Permesso di costruire accelerato. Scatta il silenzio-assenso dopo 90 giorni dalla domanda. La bozza introduce molte novità in materia di edilizia e urbanistica.
Permesso di costruire con il silenzio assenso in 90 giorni e parcheggi pertinenziali liberamente commerciabili. Sono due novità della bozza di decreto legge sviluppo in materia di edilizia e urbanistica. Tra l'altro si introduce una norma di principio che dovrebbe alleggerire gli oneri urbanistici per gli interventi di recupero del patrimonio esistente. E spunta anche una polizza anti-calamità naturali per garantire un'adeguata e tempestiva riparazione e ricostruzione di beni immobili privati destinati a uso abitativo danneggiati o distrutti da calamità naturali.
Nella bozza di ddl si prevede infatti «una copertura assicurativa obbligatoria del rischio calamità naturali nelle nuove polizze che garantiscono i fabbricati privati destinati ad uso abitativo contro l'incendio, con esclusione dei fabbricati abusivi, compresi i fabbricati abusivi per i quali pur essendo stata presentata la domanda di definizione dell'illecito edilizio, non sono stati corrisposti interamente l'oblazione e gli oneri accessori».
Ma vediamo le novità (il provvedimento, suscettibile di modifiche, dovrebbe essere varato nei prossimi giorni).
Permesso di costruire.
Viene modificata la regola del silenzio-assenso sulle richieste di permesso di costruire.
Nella versione attuale dell'articolo 20, comma 8, del Testo Unico per l'Edilizia (Dpr 380/2001) si legge che decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo, se il dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali.
Nella versione riformulata del decreto legge si prevede che se il dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio assenso decorsi inutilmente novanta giorni dalla presentazione della domanda (salvo interruzione del termine per richiesta di integrazioni documentali).
Il termine diventa di centoquaranta giorni per i comuni con più di 100 mila abitanti, e per i progetti particolarmente complessi secondo la motivata risoluzione del responsabile del procedimento.
Se l'immobile oggetto dell'intervento è sottoposto a un vincolo il procedimento deve essere definito con un provvedimento espresso e se spira il termine di conclusione del procedimento stesso sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto.
Con la modifica in esame chi fa una richiesta di permesso di costruire sa che comunque in novanta giorni la pratica sarà definita, eventualmente con il silenzio-assenso.
Patrimonio edilizio.
Gli enti locali devono uniformare la propria azione al criterio che impone di differenziare adeguatamente i contributi commisurati all'incidenza degli oneri di urbanizzazione relativi al recupero e alla ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente rispetto a quelli relativi alle nuove costruzioni.
Il criterio enunciato è dichiarato principio fondamentale per la disciplina dell'attività edilizia e quindi regioni ed enti locali devono adeguarsi allo stesso. Il significato della disposizione è di favorire le attività di recupero del patrimonio edilizio esistente, senza aggravi economici sproporzionati.
Parcheggi pertinenziali.
Il decreto interviene sui parcheggi pertinenziali disciplinati dalla legge Tognoli (legge 122/1989). Nel testo oggi in vigore i box auto, realizzati con un regime edilizio agevolato, non possono essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale e i relativi atti di cessione sono nulli. Nella versione introdotta dal decreto sviluppo si consente la trasferibilità dei parcheggi a una sola condizione.
In particolare si consente il trasferimento della proprietà, anche in deroga a quanto previsto del titolo edilizio che ha legittimato la costruzione e in successivi atti convenzionali, ma solo previa destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare. Il decreto prevede che la previsione prevale su eventuali disposizioni difformi contenute nelle leggi regionali e si applica anche ai parcheggi pertinenziali già realizzati.
In sostanza cade il vincolo che implica la incommerciabilità del parcheggio (considerato il suo vincolo con una sola unità immobiliare, quella alla quale è stato in origine collegato) e si mantiene solo il vincolo con una qualsiasi unità immobiliare. La norma prevede una applicazione a tutti i parcheggi realizzati con la legge Tognoli (che consente deroghe alla normativa urbanistica ed edilizia). Il regime si estende ai parcheggi già realizzati e non solo a quelli da realizzare (articolo ItaliaOggi del 20.10.2011 - link a www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: La stazione appaltante non può incamerare la cauzione provvisoria nel caso di contemporanea partecipazione del consorzio e del consorziato.
La normativa di settore –sia l’art. 12, comma 5, della L. n. 109/1994, e sia l’art. 36, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006– non prevede l’incameramento della cauzione provvisoria nelle ipotesi di contemporanea partecipazione del consorzio e del consorziato alla medesima procedura di gara, e poiché le norme sanzionatorie che prevedono l’incameramento della cauzione provvisoria hanno carattere tassativo, non possono essere estese ad altre ipotesi (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 21.10.2011 n. 2547 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIAltolà ai parlamentari-sindaci. No al doppio incarico nei comuni sopra i 20 mila abitanti. Lo ha stabilito la Consulta decidendo sul caso del primo cittadino di Catania, Raffaele Stancanelli.
Una poltrona in parlamento basta e avanza. Troppo pensare di aggiungerci anche quella di sindaco di un grande comune. Deputati e senatori non potranno più candidarsi alla carica di primo cittadino in municipi sopra i 20.000 abitanti, sfruttando, come hanno fatto finora, un mero cavillo giuridico. E cioè il fatto che la legge sulle incompatibilità parlamentari, risalente al 1953 (n. 60), vieta ai sindaci dei comuni medio-grandi di candidarsi al parlamento, ma non l'opposto.
Una sottigliezza a cui si sono aggrappati in questi anni un drappello di parlamentari (tutti del Pdl) che ora dopo la sentenza 21.10.2011 n. 277 della Consulta, dovranno scegliere. Da ieri versano in una condizione di incompatibilità alla camera Adriano Paroli (Brescia) e Giulio Marini (Viterbo). Mentre a palazzo Madama siedono tre senatori-sindaci: Vincenzo Nespoli (Afragola) Antonio Azzollini (Molfetta) e Raffaele Stancanelli, sindaco di Catania, dal cui caso è partito il ricorso di un elettore che ha dato origine al giudizio davanti alla Consulta.
A sollevare la questione di legittimità è stato il tribunale di Catania che ha evidenziato dubbi di costituzionalità non solo sulle norme nazionali, ma anche su tre leggi regionali siciliane in materia elettorale tutte conformi al dettato della legge n. 60/1953. La Consulta però ha deciso di restringere il campo della propria decisione alla sola legge statale, ritenendo che la Sicilia (ancorché titolare di una potestà legislativa in materia elettorale più ampia rispetto a quella delle altre regioni) non avrebbe potuto determinare da sé cause di incompatibilità tra la carica di sindaco e quella di deputato o senatore. Una prerogativa, questa, che spetta solo allo stato.
Una volta circoscritto il tema della decisione, i giudici delle leggi hanno riconosciuto che una lacuna legislativa nell'ordinamento italiano c'è. Ed è tanto più grave quanto non superabile in via interpretativa. Nel 2002, infatti, ricorda la Corte, le giunte per le elezioni di camera e senato avevano sostenuto di non poter colmare il vuoto normativo applicando in via analogica le disposizioni in materia di ineleggibilità.
La tassatività delle ipotesi in materia e la considerazione che «l'elettorato passivo rientra tra i diritti politici fondamentali del cittadino» avevano frenato il parlamento dal supplire al silenzio della legge. E così, mentre restava vietato a un sindaco di un comune sopra i 20.000 abitanti di candidarsi alla camera o al senato, un deputato o un senatore già in carica poteva tranquillamente accomodarsi sulla poltrona di sindaco. Esattamente quanto ha fatto nel 2008 Raffaele Stancanelli, che due mesi dopo essere diventato senatore ha deciso di correre per la carica di sindaco di Catania risultando eletto.
Ma con la sentenza di ieri (redatta dal giudice Paolo Grossi) la Consulta ha detto basta. Perché, ha affermato, non c'è nessuna giustificazione razionale che legittimi questa disparità di trattamento. «La previsione della non compatibilità di un incarico pubblico rispetto ad un altro preesistente, a cui non si accompagni, una disciplina reciprocamente speculare, si pone in violazione della naturale corrispondenza biunivoca delle cause di ineleggibilità», si legge nella sentenza. «Tanto più che», proseguono i giudici, «la regola dell'esclusione unidirezionale viene in concreto fatta dipendere dalla circostanza, puramente casuale, connessa alla cadenza temporale delle relative tornate elettorali».
Di qui la decisione di dichiarare illegittimi gli articoli 1,2,3 e 4 della legge n. 60/1953 nella parte in cui non prevedono l'incompatibilità.
Per Graziano Delrio, presidente dell'Anci, l'intervento della Corte «chiarisce in maniera definitiva una querelle che è andata avanti per molti anni». Anche se, ha aggiunto, «resta comunque la necessità di una normativa unica di riferimento per tutte le cariche elettive» (articolo ItaliaOggi del 22.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

APPALTI: Le offerte con identico ribasso -se poste a cavallo delle ali- vanno escluse fittiziamente dalla gara.
Nell'ipotesi caratterizzata dalla presenza, a cavallo delle ali, di due imprese con identico ribasso, entrambe le imprese, alla luce dell’ormai univoco orientamento giurisprudenziale, codificato dal regolamento di attuazione approvato con DPR n. 207/2010, devono essere fittiziamente escluse dalla gara (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it -  TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 20.10.2011 n. 2502 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARICASSAZIONE/ Multa valida anche senza i vigili. Telecamera a infrarossi (T-Red) regolarmente omologata. Cambio di rotta: la normativa del 2003 ha mutato quadro di riferimento.
Cambio di rotta della Cassazione sul semaforo rosso. La multa spiccata con T-Red (telecamera infrarossi) è valida anche in assenza degli agenti.
Lo ha sancito la II Sez. civile della Corte di Cassazione che, con la sentenza 19.10.2011 n. 21605, ha respinto il ricorso della proprietaria di un'auto e del conducente, multati per essere passati col semaforo rosso.
I due avevano ottenuto da un giudice di pace di Pistoia l'annullamento della sanzione perché l'apparecchiatura T-Red non era stata attivata alla presenza di un agente.
Poi il Tribunale aveva ribaltato il verdetto ora confermato dagli Ermellini.
In particolare la Cassazione, pur essendo cosciente del deposito di alcune pronunce che avevano sancito la necessità della presenza dell'agente al semaforo, ha ora sostenuto che un decreto ministeriale del 2003 ha cambiato il quadro normativo di riferimento.
«Tutte queste decisioni», si legge nel passaggio chiave della motivazione, «si riferiscono a violazioni dell'art. 146, comma 3, del codice della strada commesse anteriormente alla data nella quale, con decreto dirigenziale del ministero delle infrastrutture e dei trasporti, sono stati accertati i requisiti di omologazione delle apparecchiature di rilevamento fotografico».
Difatti, l'art. 201 del codice dalla strada, introdotto proprio in quell'anno prevede che nell'ipotesi di attraversamento di un incrocio con il semaforo indicante la luce rossa (ipotesi contemplata dalla lettera b del comma 1-bis della medesima disposizione) non è necessaria la presenza degli organi di polizia stradale qualora l'accertamento avvenga mediante rilievo con apposite apparecchiature debitamente omologate.
In poche parole, il decreto ministeriale ha messo a posto anche il T-Red che essendo ora regolarmente omologato può funzionare anche senza la polizia.
Nell'affermare questi principi i consiglieri ne hanno ricordato un altro: il giudice chiamato a decidere sull'opposizione al verbale può anche d'ufficio (quando dà torto all'automobilista), «in assenza di espressa domanda da parte dell'Amministrazione in ordine alla determinazione della misura della sanzione - quantificare, in base al suo libero convincimento, la sanzione pecuniaria, che non sia predeterminata normativamente, in misura congrua, tra il minimo e il massimo edittale».
Anche la Procura generale del Palazzaccio, nell'udienza tenutasi lo scorso 21 settembre, aveva chiesto di confermare la legittimità del verbale (articolo ItaliaOggi del 20.10.2010 - link a www.corteconti.it).

VARIMulta per il rosso, basta la foto. Per le infrazioni post-2003 non serve la presenza di un agente.
Data spartiacque 2003. Prima non bastava la fotografia per ritenere legittima la contravvenzione inflitta a chi era passato con il rosso: serviva anche la presenza di un agente per effettuare la contestazione immediata; poi la presenza di un vigile non è stata più necessaria. A renderla superflua è stato, appunto nel 2003, il decreto legge n. 151.

A fare un po' di chiarezza in una materia tradizionalmente intricata è la Corte di Cassazione con la sentenza 19.10.2011 n. 21605 della II Sez. civile.
Di fronte al ricorso presentato dalla difesa di un automobilista che si era visto infliggere una sanzione pecuniaria per avere attraversato con il semaforo rosso, infrazione rilevata attraverso fotografia scattata con apparecchio T-Red, i giudici hanno osservato che è vero che esiste un orientamento consolidato della Cassazione nel considerare non giustificata l'assenza non occasionale di agenti sul posto che possono effettuare la contestazione immediata. E questo anche in relazione alle situazioni che si possono concretamente venire a creare come nel caso del veicolo che si trova bloccato su un incrocio senza riuscire a superarlo per la presenza di una coda.
Tuttavia, sottolinea la Corte, bisogna considerare che tutte le pronunce, anche in anni recenti, sono però relative a violazioni dell'articolo 146 del Codice della strada commesse prima della data di entrata in vigore del decreto legge n. 151 del 2003 il quale ha previsto che, nel caso di attraversamento di un incrocio con il semaforo rosso «non è necessaria la presenza degli organi di polizia stradale qualora l'accertamento avvenga mediante rilievo con apposita apparecchiature debitamente omologate».
Via libera quindi all'automatismo della contestazione senza la presenza fisica dell'agente. Solo a patto però che i dispositivi siano stati omologati. Cosa che, ricorda la sentenza, è avvenuta in particolare con il decreto 18.03.2004 per quanto riguarda il dispositivo Ftr e il decreto 15.12.2005 per il documentatore fotografico T-Red. Decreti dirigenziali emanati proprio a causa del cambiamento del quadro normativo.
Così, «i documentatori fotografici delle infrazioni commesse alle intersezioni regolate da semaforo, ove omologati ed utilizzati nel rispetto delle prescrizioni riguardanti le modalità di installazione e di ripresa delle infrazioni, sono divenuti idonei a funzionare anche in modalità completamente automatica senza la presenza degli agenti di polizia» (articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2010 - link a www.corteconti.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla portata di una clausola contenuta nell'Accordo di Programma intercorso tra un Comune ad una Provincia in materia di affidamento del servizio di trasporto pubblico locale.
La controversia riguardante la portata della clausola contenuta nell'Accordo di Programma in materia di affidamento del servizio di trasporto pubblico locale ed in particolare se l'importo da corrispondersi dal Comune alla Provincia sia una somma forfettariamente determinata, comunque dovuta dall'ente locale alla Provincia per il servizio di trasporto pubblico urbano o possa essere modulata in ragione della misura in cui l'ente territoriale assolva ai propri impegni, va letta alla luce dei principi dettati dall'art. 1362 cod. civ., che evidenziano un rapporto di sinallagmaticità tra il trasferimento delle risorse ed il complesso dei servizi che la Provincia è tenuta ad espletare.
Esiste, dunque, un'interdipendenza funzionale delle reciproche obbligazioni, sicché l'importo costituisce il corrispettivo dovuto dal Comune a fronte dell'integrale "esatto" adempimento da parte della Provincia a tutti gli impegni assunti, che comprendono anche i servizi definiti nel documento elaborato di comune accordo.
Una diversa interpretazione della clausola, non solo non corrisponde al significato letterale della locuzione usata nell'Accordo che fa riferimento alle risorse necessarie all'espletamento del servizio di trasporto pubblico urbano che completi il livello dei servizi minimi essenziali, ma determina un trasferimento di risorse senza causa, ove non è stato completato il livello dei servizi minimi.
Pertanto, l'importo in questione sta ad indicare il valore da computare ai fini della gara e, quindi, il limite massimo delle risorse che il Comune si impegna a trasferire quale corrispettivo di tutti i servizi previsti dall'Accordo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.10.2011 n. 5627 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Sull'interpretazione dell'art. 1, n. 5, della direttiva 85/337/CEE, concernente la valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, come modificata dalla direttiva 2003/35/CE.
Convenzione di Aarhus – Accesso alla giustizia in materia ambientale – Portata del diritto di ricorso contro un atto legislativo.

L'art. 1, n. 5, della direttiva del Consiglio 27.06.1985, 85/337/CEE, concernente la valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 26.05.2003, 2003/35/CE, deve essere interpretato nel senso che sono esclusi dall'ambito di applicazione di tale direttiva soltanto i progetti adottati nei dettagli mediante un atto legislativo specifico, di modo che gli obiettivi della medesima direttiva siano stati raggiunti tramite la procedura legislativa. Spetta al giudice nazionale verificare che detti due requisiti siano stati rispettati tenendo conto sia del contenuto dell'atto legislativo adottato sia di tutta la procedura legislativa che ha condotto alla sua adozione e, in particolare, degli atti preparatori e dei dibattiti parlamentari. Al riguardo, un atto legislativo che non faccia altro che "ratificare" puramente e semplicemente un atto amministrativo preesistente, limitandosi a constatare l'esistenza di motivi imperativi di interesse generale, senza il previo avvio di una procedura legislativa nel merito che consenta di rispettare detti requisiti, non può essere considerato un atto legislativo specifico ai sensi della citata disposizione e non è dunque sufficiente ad escludere un progetto dall'ambito di applicazione della direttiva 85/337, come modificata dalla direttiva 2003/35.
L'art. 9, n. 2, della convenzione sull'accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l'accesso alla giustizia in materia ambientale, conclusa il 25.06.1998 e approvata a nome della Comunità europea con decisione del Consiglio 17.02.2005, 2005/370/CE, e l'art. 10-bis della direttiva 85/337, come modificata dalla direttiva 2003/35, devono essere interpretati nel senso che:
- qualora un progetto rientrante nell'ambito d'applicazione di tali disposizioni sia adottato mediante un atto legislativo, la verifica del rispetto, da parte di quest'ultimo, dei requisiti stabiliti all'art. 1, n. 5, di detta direttiva deve poter essere sottoposta, in base alle norme nazionali procedurali, ad un organo giurisdizionale o ad un organo indipendente e imparziale istituito dalla legge;
- nel caso in cui contro un simile atto non sia esperibile alcun ricorso della natura e della portata sopra rammentate, spetterebbe ad ogni organo giurisdizionale nazionale adito nell'ambito della sua competenza esercitare il controllo descritto al precedente trattino e trarne le eventuali conseguenze, disapplicando tale atto legislativo (Corte di giustizia europea, Grande Sezione, sentenza 18/10/2011 n. C-128/09 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

COMPETENZE PROGETTUALIIl potere spettante alla Soprintendenza ai sensi dell'art. 18 L. n. 1089/1939 di autorizzare i progetti delle opere concernenti i beni sottoposti alla legge stessa, che mira ad assicurare la conformità dell'intervento alla salvaguardia del valore storico-artistico del bene, non può non estendersi anche alla verifica della idoneità professionale del progettista (come stabilita dal legislatore).
● La ripartizione delle competenze professionali tra architetto e ingegnere, come delineata nel citato art. 52, R.D. n. 2537/1925, non è venuta meno per effetto della normativa successiva che ha innovato la disciplina per il conseguimento del titolo di architetto e di ingegnere.
È bensì vero, infatti, che nel 1925 per conseguire tali titoli era sufficiente il semplice diploma di istruzione secondaria (e non già il diploma di laurea), e che nell'attuale ordinamento universitario il laureato in ingegneria civile deve avere acquisito una specifica preparazione anche nel campo dell'architettura, talché potrebbe ritenersi ormai anacronistica la limitazione posta dal citato art. 52 alla competenza professionale dell'odierno laureato in ingegneria, e in ogni caso meritevole di essere adeguata alla mutata disciplina delle professioni di architetto e di ingegnere civile.
Nondimeno la norma in questione, nella misura in cui vuole garantire che a progettare interventi edilizi su immobili di interesse storico-artistico siano professionisti forniti di una specifica preparazione nel campo delle arti, e segnatamente di una adeguata formazione umanistica, deve ritenersi tuttora vigente.
● Non sussiste l’incostituzionalità dell’art. 52, comma 2, del R.D. n. 2357/1925 in quanto “il principio di uguaglianza deve ritenersi nella specie rispettato atteso che, gli architetti in ragione dello specifico corso di laurea che sono tenuti a percorrere e della conseguente professionalità (e sensibilità) artistica ed estetica che acquisiscono devono ritenersi più idonei (rispetto agli ingegneri) a tutelare l’interesse pubblico connesso alla tutela dei beni artistici e storici e quindi a redigere i progetti di restauro e ripristino degli edifici che si caratterizzano per la loro valenza culturale”.
---------------
● L’art. 52 del R.D. n. 2537/1925 che recita: "Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere".
La giurisprudenza ha già chiarito che la terminologia usata dal Legislatore del 1925 deve essere considerata in senso atecnico, e non può essere riferita alle specifiche categorie di interventi sul patrimonio edilizio esistente poi codificate dall'art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457 e oggi recepite nell'art. 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
L'espressione "restauro e ripristino" va quindi intesa in senso omnicomprensivo, come relativa a qualsiasi attività di recupero di una struttura edilizia assoggettata a vincolo storico artistico.
Inoltre, la norma distingue nettamente tra “le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico” ed “il restauro ed il ripristino degli edifici contemplati dalla legge 20.06.1909 n. 364” (ora R.D. n. 1089/1939).
● Il Consiglio di Stato ha chiarito che la nozione di “opere di edilizia civile che presentano rilevante interesse artistico” si riferisce sia alle nuove opere, sia agli interventi su opere già esistenti (consistenti quindi in manutenzioni, ristrutturazioni, ecc.), effettuate su immobili non assoggettati a vincolo storico artistico.
Ne consegue che per sussistere la riserva di competenza degli architetti nella progettazione di interventi su immobili non soggetti a vincolo storico artistico, deve ricorrere il presupposto costituito dal “rilevante” interesse artistico dell’intervento.
Infine, l’art. 52 attribuisce alla competenza dell'ingegnere civile la cd. parte tecnica, cioè «le attività progettuali e di direzione dei lavori che riguardano l'edilizia civile vera e propria ...».
Pertanto, secondo l’interpretazione della norma fornita dalla giurisprudenza, le cui affermazioni sono condivise dal Collegio, la riserva di competenza degli architetti sussiste per ogni tipologia di intervento su immobili gravati da vincolo storico artistico ai sensi della L. 1089/1939 (oggi D.Lgs. 42/2004), ad eccezione delle attività propriamente tecniche di edilizia civile per le quali lo stesso art. 52 prevede la competenza anche degli ingegneri; la competenza degli architetti, poi, si estende anche agli interventi realizzati su immobili non assoggettati a vincolo storico artistico quando presentino “rilevante interesse artistico”.
● I progetti di intervento sui beni vincolati devono essere sottoscritti da un architetto, potendosi prevedere l’intervento dell’ingegnere soltanto per ciò che concerne la sola parte tecnica, ma con la necessaria ed imprescindibile stretta collaborazione con l’architetto e dunque mediante la sottoscrizione congiunta del progetto da parte dei due professionisti.

Con il ricorso R.G. 10073/1998 i ricorrenti hanno impugnato il provvedimento del 25.05.1998 con il quale la Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici di Verona ha reso noto ai Consigli dell’Ordine degli Architetti e degli Ingegneri e al Collegio dei Geometri delle Province limitrofe (Verona, Vicenza, Rovigo, Trento e Bolzano) che dalla data di adozione dell’atto non avrebbe più esaminato i progetti di restauro di immobili di interesse storico artistico se non sottoscritti da un architetto in conformità alle disposizioni di cui all’art. 52 del R.D. 22.10.1925 n. 2537 bensì avrebbe esaminato i progetti cofirmati, ove l’intervento richiedesse ambiti di competenza diversi.
Con il successivo ricorso R.G. 9247/1999 i ricorrenti hanno impugnato il provvedimento del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con il quale è stata ribadita la vigenza dell’art. 52 del R.D. n. 2537 del 1925 e la conseguente competenza esclusiva degli architetti in materia di immobili vincolati ai sensi della L. 1089/1939.
Avverso detti provvedimenti i ricorrenti –rispettivamente il Consiglio dell’Ordine degli Ingegneri di Verona e gli Ingegneri Montresor Giovanni, Rubinelli Gaetano, Sartori Alberto Maria, Zocca Mario– hanno dedotto, in estrema sintesi:
a) che l’Amministrazione non potrebbe esimersi dall’esaminare i progetti facendo riferimento soltanto alla qualifica del progettista;
b) che la norma dell’art. 25 del R.D. n. 2537/1925 sarebbe stata superata dalla legislazione successiva, ed in particolare dall’art. 173 del R.D. 31.08.1933 n. 1592 e dalla tabella L annessa a tale decreto;
c) che la norma di cui all’art. 25 del R.D. n. 2537/1925 sarebbe stata superata dalla direttiva comunitaria n. 85/384 recepita con L. n. 129/1992;
d) che l’art. 25 del R.D. n. 2537/1925 sarebbe stato falsamente interpretato, in quanto detta disposizione non precluderebbe agli ingegneri di firmare progetti su immobili di interesse storico artistico, ove riguardanti la sola parte tecnica e non quella tipicamente artistica, ovvero riguardanti immobili soggetti a vincoli diversi da quelli previsti dall’attuale L. 1089/39, unica normativa richiamata nell’art. 25 del R.D. n. 2537/1925, ovvero riguardanti interventi differenti dal restauro e ripristino, uniche attività individuate nella norma.
I primi tre punti sono stati compiutamente esaminati dalla giurisprudenza, le cui conclusioni sono pienamente condivise dal Collegio (Cons. Stato Sez. VI 11/09/1906 n. 5239; TAR Lombardia Sez. Brescia 24/08/2004 n. 925; Cons. Stato Sez. VI 16/05/2006 n. 2776; TAR Sardegna Cagliari, sez. I, 03.01.2005, n. 2; TAR Veneto Sez. II 28/01/2005 n. 381).
In particolare, con riferimento al primo aspetto, il Consiglio di Stato con la decisione della Sez. VI, 11.09.2006, n. 5239, ha chiarito che il potere spettante alla Soprintendenza ai sensi dell'art. 18 L. n. 1089/1939 di autorizzare i progetti delle opere concernenti i beni sottoposti alla legge stessa, che mira ad assicurare la conformità dell'intervento alla salvaguardia del valore storico-artistico del bene, non può non estendersi anche alla verifica della idoneità professionale del progettista (come stabilita dal legislatore), secondo quanto riconosciuto anche in un precedente parere del Consiglio di Stato (Cfr. Cons. St. II, 23.07.1997, n. 386/1997).
Con riferimento al secondo punto, il Consiglio di Stato nella già citata sentenza n. 5239/2006 ha rilevato che “Nella ordinanza n. 2379 dell'11.05.2005, con la quale era stato rimesso alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee di decidere pregiudizialmente sulla interpretazione della direttiva comunitaria n. 384/1985, la Sezione ha già riconosciuto che tale asserita abrogazione non può essere comprovata facendo riferimento al T.U. del 1933 sulla istruzione superiore (art. 173 e tabelle allegate), ove il legislatore si è limitato ad equiparare le lauree di architettura e di ingegneria civile in funzione dell'accesso alla professione di architetto; e neppure richiamando la legge 07.12.1961, n. 1264 (art. 15, 3° comma) che, laddove prevede come requisito per ricoprire il ruolo di architetto presso le Soprintendenze il possesso della laurea in architettura o in ingegneria civile, non stabilisce con ciò alcuna equipollenza tra le due lauree ai fini dello svolgimento della attività professionale.
Occorre aggiungere che la ripartizione delle competenze professionali tra architetto e ingegnere, come delineata nel citato art. 52, R.D. n. 2537/1925, non è venuta meno per effetto della normativa successiva che ha innovato la disciplina per il conseguimento del titolo di architetto e di ingegnere.
È bensì vero, infatti, che nel 1925 per conseguire tali titoli era sufficiente il semplice diploma di istruzione secondaria (e non già il diploma di laurea), e che nell'attuale ordinamento universitario il laureato in ingegneria civile deve avere acquisito una specifica preparazione anche nel campo dell'architettura, talché potrebbe ritenersi ormai anacronistica la limitazione posta dal citato art. 52 alla competenza professionale dell'odierno laureato in ingegneria, e in ogni caso meritevole di essere adeguata alla mutata disciplina delle professioni di architetto e di ingegnere civile.
Nondimeno la norma in questione, nella misura in cui vuole garantire che a progettare interventi edilizi su immobili di interesse storico-artistico siano professionisti forniti di una specifica preparazione nel campo delle arti, e segnatamente di una adeguata formazione umanistica, deve ritenersi tuttora vigente
”.
Con riferimento alla terza questione, relativa al superamento della normativa di cui all’art. 25 del R.D. 2537/1925 per effetto della direttiva comunitaria del 10.06.1985 n. 384 che ha equiparato i titoli di architetto e di ingegnere civile ai fini dell'esercizio delle attività professionali nel campo della architettura, il Consiglio di Stato nella già citata decisione n. 5239/2006 ha rilevato che “… gli artt. 2 e segg. della direttiva dettano le norme per il reciproco riconoscimento dei titoli di studio conseguiti dai cittadini degli Stati membri a conclusione di studi universitari riguardanti l'architettura, introducendo anche un regime transitorio di reciproco riconoscimento di taluni titoli tassativamente indicati.
Tra i titoli che beneficiano di tale riconoscimento automatico l'art. 11 menziona per l'Italia:
<<- i diplomi di "laurea in architettura" rilasciati dalle università, dagli istituti politecnici e dagli istituti superiori di architettura di Venezia e di Reggio Calabria, accompagnati dal diploma di abilitazione all'esercizio indipendente della professione di architetto, rilasciato dal ministro della Pubblica Istruzione una volta che il candidato abbia sostenuto con successo, davanti ad un'apposita Commissione, l'esame di Stato che abilita all'esercizio indipendente della professione di architetto (dott. architetto);
- i diplomi di "laurea in ingegneria" nel settore della costruzione civile rilasciati dalle università e dagli istituti politecnici, accompagnati dal diploma di abilitazione all'esercizio indipendente di una professione nel settore dell'architettura, rilasciato dal ministro della Pubblica Istruzione una volta che il candidato abbia sostenuto con successo, davanti ad un'apposita Commissione, l'esame di Stato che lo abilita all'esercizio indipendente della professione (dott. ing. architetto o dott. ing. in ingegneria civile>>.
Con la ordinanza n. 2379 dell'11.05.2005 la Sezione ha rimesso alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee di decidere pregiudizialmente se per effetto della applicazione degli artt. 10 e 11 della Direttiva dovesse ritenersi attuata nell'ordinamento interno la equiparazione anzidetta. Con la stessa ordinanza si sottoponeva alla Corte di Giustizia la prospettazione degli odierni appellanti secondo cui, in difetto di una siffatta equiparazione, la normativa italiana avrebbe potuto dar luogo ad una discriminazione alla rovescia poiché, diversamente dagli ingegneri civili che hanno conseguito il titolo rilasciato in Italia, i soggetti in possesso di un titolo di ingegnere civile rilasciato da altro Stato membro avrebbero accesso (ove tale titolo sia menzionato nell'elenco di cui all'art. 11 della Direttiva) alle attività che in Italia sono riservate agli architetti, ai sensi del ripetuto art. 52 R.D. n. 2537/1925.
Ma alla ordinanza della Sezione la Corte ha risposto trasmettendo la decisione già assunta in fattispecie del tutto identica a quella in esame, nella quale si afferma che <<la Direttiva 85/384 non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla professione di architetto, né di definire la natura delle attività svolte da chi esercita tale professione>>; ma ha invece ad oggetto solamente <<il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione allo scopo di agevolare l'esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi per le attività del settore della architettura...>>.
In definitiva, secondo la Corte, la direttiva non impone allo Stato membro di porre i diplomi di laurea in architettura e in ingegneria civile indicati all'art. 11 su un piano di perfetta parità per quanto riguarda l'accesso alla professione di architetto in Italia e tantomeno può essere di ostacolo ad una normativa nazionale che riservi ai soli architetti i lavori riguardanti gli immobili d'interesse storico-artistico sottoposti a vincolo.
Alla stregua delle conclusioni formulate dalla Corte deve dunque ritenersi infondata la tesi degli appellanti secondo cui la disposizione dell'art. 52 R.D. cit. sarebbe stata superata dalla direttiva comunitaria.
Residua il problema, prospettato nella stessa pronuncia della Corte di Giustizia, se la disposizione in questione per effetto della direttiva comunitaria realizzi una discriminazione vietata dal diritto nazionale in relazione al trattamento che sarebbe riservato a chi è in possesso di uno dei titoli di ingegneria civile elencati all'art. 11 della direttiva; e se dunque possa essere sospettata di illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 35 e 41 Cost. secondo quanto sostenuto dalle parti appellanti.
Ma siffatti dubbi non hanno ragion d'essere ove si consideri che la stessa Corte di Giustizia ritiene che la direttiva non imponga allo Stato membro di porre su un piano di perfetta parità i diplomi di laurea in architettura e in ingegneria civile per quanto riguarda l'accesso all'attività di architetto in Italia
” (così testualmente Cons. Stato Sez. VI 11/09/2006 n. 5239).
Del resto sul punto si era già pronunciato il TAR Veneto Sez. II 28/01/2005 n. 381 che nel richiamare il proprio precedente n. 1089/1999 ed il parere del Consiglio di Stato n. 386 del 1997, ha rilevato che non sussiste l’incostituzionalità dell’art. 52, comma 2, del R.D. n. 2357/1925 in quanto “il principio di uguaglianza deve ritenersi nella specie rispettato atteso che, gli architetti in ragione dello specifico corso di laurea che sono tenuti a percorrere e della conseguente professionalità (e sensibilità) artistica ed estetica che acquisiscono devono ritenersi più idonei (rispetto agli ingegneri) a tutelare l’interesse pubblico connesso alla tutela dei beni artistici e storici e quindi a redigere i progetti di restauro e ripristino degli edifici che si caratterizzano per la loro valenza culturale”.
---------------
Resta da esaminare l’ultimo aspetto, più prettamente connesso con lo specifico contenuto del provvedimento impugnato con il ricorso R.G. 10073/1998.
I ricorrenti sostengono, infatti, che la Soprintendenza avrebbe mal interpretato la norma dell’art. 52 del R.D. n. 2537/1925 che recita: "Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere".
La giurisprudenza ha già chiarito che la terminologia usata dal Legislatore del 1925 deve essere considerata in senso atecnico, e non può essere riferita alle specifiche categorie di interventi sul patrimonio edilizio esistente poi codificate dall'art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457 e oggi recepite nell'art. 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
L'espressione "restauro e ripristino" va quindi intesa in senso omnicomprensivo, come relativa a qualsiasi attività di recupero di una struttura edilizia assoggettata a vincolo storico artistico (cfr. TAR Sardegna Sez. I 24/10/2009 n. 1559).
Inoltre, la norma distingue nettamente tra “le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico” ed “il restauro ed il ripristino degli edifici contemplati dalla legge 20.06.1909 n. 364” (ora R.D. n. 1089/1939).
Se non possono sussistere dubbi in merito all’identificazione della seconda categoria, trattandosi evidentemente di immobili sottoposti a vincolo storico-artistico, più complessa è l’identificazione della prima.
Il Consiglio di Stato, nella decisione della Sez. VI 30/04/2002 n. 2303, ha chiarito che la nozione di “opere di edilizia civile che presentano rilevante interesse artistico” si riferisce sia alle nuove opere, sia agli interventi su opere già esistenti (consistenti quindi in manutenzioni, ristrutturazioni, ecc.), effettuate su immobili non assoggettati a vincolo storico artistico.
Ne consegue che per sussistere la riserva di competenza degli architetti nella progettazione di interventi su immobili non soggetti a vincolo storico artistico, deve ricorrere il presupposto costituito dal “rilevante” interesse artistico dell’intervento.
Infine, l’art. 52 attribuisce alla competenza dell'ingegnere civile la cd. parte tecnica, cioè «le attività progettuali e di direzione dei lavori che riguardano l'edilizia civile vera e propria ...» (Consiglio Stato, sez. VI, 11.09.2006, n. 5239).
Pertanto, secondo l’interpretazione della norma fornita dalla giurisprudenza, le cui affermazioni sono condivise dal Collegio, la riserva di competenza degli architetti sussiste per ogni tipologia di intervento su immobili gravati da vincolo storico artistico ai sensi della L. 1089/1939 (oggi D.Lgs. 42/2004), ad eccezione delle attività propriamente tecniche di edilizia civile per le quali lo stesso art. 52 prevede la competenza anche degli ingegneri; la competenza degli architetti, poi, si estende anche agli interventi realizzati su immobili non assoggettati a vincolo storico artistico quando presentino “rilevante interesse artistico”.
Ne consegue che il provvedimento impugnato, che riguarda specificatamente i “beni immobili di interesse artistico-storico” e che richiede per i progetti di restauro di detti beni la sottoscrizione di un architetto, in conformità a quanto previsto dall’art. 25 del R.D. n. 2537/1925, è immune dai vizi denunciati.
Il provvedimento della Soprintendenza, nel richiamare l’art. 52 del R.D. n. 2537/1925, implicitamente riconosce l’ambito di competenza degli ingegneri –per quanto concerne la parte tecnica dell’intervento– prevedendo, infatti, la disamina dei progetti cofirmati.
Come ha correttamente rilevato il Ministero nel provvedimento impugnato con il ricorso RG. 9247/1999, richiamando il parere del Consiglio di Stato n. 382/1997, i progetti di intervento sui beni vincolati devono essere sottoscritti da un architetto, potendosi prevedere l’intervento dell’ingegnere soltanto per ciò che concerne la sola parte tecnica, ma con la necessaria ed imprescindibile stretta collaborazione con l’architetto e dunque mediante la sottoscrizione congiunta del progetto da parte dei due professionisti
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 17.10.2011 n. 7997 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Non è autonomamente impugnabile il silenzio su un'stanza di annullamento in autotutela.
Il privato non può diffidare l'amministrazione ad esercitare il potere discrezionale di annullamento in autotutela di un proprio provvedimento, al fine di impugnare l'eventuale silenzio rifiuto formatosi sull'istanza.
Tale escamotage infatti si traduce in una inammissibile elusione del termine decadenziale di impugnazione degli atti amministrativi atteso che il privato, ormai decaduto dall'azione di annullamento avverso il provvedimento lesivo grazie ad un uso distorto dell'azione avverso il silenzio-rifiuto, sarebbe sostanzialmente rimesso in termini semplicemente notificando un'istanza, volta a sollecitare l'esercizio dei poteri di autotutela della p.a. competente (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 17.10.2011 n. 1859 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl certificato di agibilità delle costruzioni costituisce un'attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente.
Il certificato di agibilità non assume <<alcun rilievo sotto il profilo urbanistico edilizio, assolvendo all'esclusiva funzione di controllo sanitario-urbanistico rispetto alla concessione edilizia a monte rilasciata e con opere concluse>>.
La motivazione addotta dalla P.A. per negare il rilascio del certificato idi agibilità (versamento in ritardo dei contributi di costruzione rispetto a quanto previsto dal D.P.R. 380/2001 e necessità del previo versamento della sanzione ivi prevista ammontante in euro 14.127,19) non risulta avere alcun fondamento normativo, tanto più che in caso di mancato pagamento della sanzione per il ritardato pagamento dei contributi di costruzione, la P.A. potrà avviare ogni azione prevista all’uopo dall’ordinamento.

In base a quanto previsto dagli art. 24 e 25, D.P.R. 06.06.2001 n. 380, il certificato di agibilità delle costruzioni costituisce un'attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente.
In particolare, l'art. 25, commi 3-5 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380 prevede un procedimento di rilascio del certificato di agibilità, articolato sui seguenti principi fondamentali:
1) il procedimento deve essere concluso nel termine di 30 giorni dalla ricezione della domanda di rilascio del certificato di agibilità o di 60 giorni, nel caso in cui il ricorrente si sia avvalso della possibilità di sostituire con autocertificazione il parere dell'A.S.L. previsto dall'art. 5, 3° comma, lett. a), del d.p.r. 380 del 2001;
2) il decorso del termine per la definizione del procedimento, importa la formazione del silenzio assenso sull'istanza di rilascio del certificato di agibilità;
3) il termine del procedimento può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro quindici giorni dalla domanda, esclusivamente per la richiesta di documentazione integrativa, che non sia già nella disponibilità dell'amministrazione o che non possa essere acquisita autonomamente; in tal caso, il termine per la conclusione del procedimento ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa
A ciò aggiungasi che secondo prevalente orientamento giurisprudenziale, il certificato di agibilità non assume <<alcun rilievo sotto il profilo urbanistico edilizio, assolvendo all'esclusiva funzione di controllo sanitario-urbanistico rispetto alla concessione edilizia a monte rilasciata e con opere concluse>> (TAR Sardegna Cagliari, 26.11.2002, n. 1699).
Le considerazioni innanzi esplicitate consentono quindi al Collegio di ritenere che la motivazione addotta dalla P.A. per negare il rilascio del certificato in parola (versamento in ritardo dei contributi di costruzione rispetto a quanto previsto dal D.P.R. 380/2001 e necessità del previo versamento della sanzione ivi prevista ammontante in euro 14.127,19) non risulta avere alcun fondamento normativo, tanto più che in caso di mancato pagamento della sanzione per il ritardato pagamento dei contributi di costruzione, la P.A. potrà avviare ogni azione prevista all’uopo dall’ordinamento (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 14.10.2011 n. 1762 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione ex art. 38 dlgs. n. 163/2006.
Nel caso in cui il bando di gara, richiede genericamente una dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione di cui all'art. 38, del d.lgs. n. 163/2006, esso giustifica una valutazione di gravità/non gravità compiuta dal concorrente, sicché questi non può essere escluso per il solo fatto dell'omissione formale, cioè di non aver dichiarato tutte le condanne penali o tutte le violazioni contributive; andrà escluso solo ove la stazione appaltante ritenga che le condanne o le violazioni contributive siano gravi e definitivamente accertate. La dichiarazione del concorrente, in tal caso, non può essere ritenuta falsa.
Diverso discorso deve essere fatto quando il bando sia più preciso e non si limiti a chiedere una generica dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione di cui all'art. 38, ma specifichi che vanno dichiarate tutte le condanne penali o tutte le violazioni contributive; in tal caso, il bando esige una dichiarazione dal contenuto più ampio e più puntuale rispetto a quanto prescritto dalla legge, all'evidente fine di riservare alla stazione appaltante la valutazione di gravità o meno dell'illecito, al fine di esclusione. In siffatta ipotesi, la causa di esclusione non è solo quella, sostanziale, dell'essere stata commessa una grave violazione, ma anche quella, formale, di aver omesso una dichiarazione prescritta dal bando (TAR Umbria, sentenza 13.10.2011 n. 330 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla legittimità dell'esclusione da una gara di un'impresa concorrente, per accertata irregolarità contributiva, con riguardo ad un importo eccedente la soglia stabilita dall'art. 8 del d.m. 24.10.2007.
Alla luce della disciplina introdotta dal d.m. del Ministero del lavoro 24.10.2007 e dalla successiva circolare applicativa n. 5/2008, la presenza di un d.u.r.c. negativo alla data di presentazione della domanda di partecipazione alla gara, obbliga la stazione appaltante ad escludere dalla procedura l'impresa interessata, senza che si possano effettuare apprezzamenti in ordine alla gravità degli adempimenti ed alla definitività dell'accertamento previdenziale.
Inoltre, la regolarità contributiva deve essere conservata nel corso di tutto l'arco temporale impegnato dallo svolgimento della procedura, mentre non assume rilievo l'intervento di un adempimento tardivo da parte dell'impresa.
Pertanto, nel caso di deve ritenersi legittima la decisione con la quale la stazione appaltante ha escluso dalla procedura l'impresa concorrente alla quale era stata accertata, durante la gara, una situazione di irregolarità mediante d.u.r.c. negativo con riguardo ad un importo eccedente la soglia stabilita dall'art. 8 del citato d.m. 24.10.2007 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.10.2011 n. 5531 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

COMPETENZE PROFESSIONALI: Lottizzazione e ruolo del notaio.
Pure essendo il notaio tenuto, quale professionista, ad una prestazione di mezzi e comportamento e non di risultato l'opera di cui è richiesto non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti e di direzione della compilazione dell'atto, ma si estende a quelle attività preparatorie e successive necessarie perché sia garantita la serietà e certezza dell'atto da rogarsi ed in particolare la sua attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dalle parti (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.10.2011 n. 36413).

APPALTI: In materia di gare d'appalto, l'obbligo di rendere la dichiarazione relativa a condanne penali previsto dall'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, non sussiste per le fattispecie c.d. "depenalizzate".
L'obbligo relativo alla dichiarazione di condanne penali, previsto dall'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, non sussiste per le fattispecie c.d. "depenalizzate", ossia per reati non più previsti come tali dall'ordinamento, e che dunque non possono in alcun modo incidere sui requisiti generali del partecipante alla gara. L'art. 38, c. 1, lett. c), laddove dispone l'esclusione dalle gare nei riguardi di coloro nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato…., presuppone, agli effetti del giudizio negativo in ordine alla moralità professionale dei concorrenti, di competenza della stazione appaltante, l'attuale permanenza della riconduzione a reato della fattispecie che deve essere valutata.
Il venir meno dell'ascrizione a reato della condotta a suo tempo sanzionata, non vincola a dichiarare le condanne riportate all'epoca della vigenza della norma penale applicata dal giudice, posto che le stesse non possono più formare oggetto della predetta valutazione in ordine alla moralità professionale dell'imprenditore. Può, pertanto, affermarsi come nessun obbligo di dichiarazione di una condanna per cui sia intervenuta la depenalizzazione poteva derivare, nel caso di specie, dalla legge di gara.
Tale indirizzo interpretativo ha trovato recente conferma anche sul piano legislativo, atteso che il D.L. n. 70/2011, nel modificare l'art. 38, c. 1, lett. c), del d.lgs. n. 163/2006, ha previsto che "l'esclusione ed il divieto in ogni caso non operano quando il reato è stato depenalizzato" (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 07.10.2011 n. 7788 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: TU Ambiente, disapplicazione delle norme regionali da verificare. La disapplicazione immediata segue precisi criteri temporali.
In presenza di normative regionali, queste non subiscono immediata disapplicazione, ma si rimanda al legislatore regionale la possibilità di introdurre, nell’arco temporale di dodici mesi dall’entrata in vigore del TU Ambientale, opportuni adeguamenti per renderle compatibili e quindi ancora applicabili.
Le doglianze di parte istante traggano spunto dalla pretesa violazione della normativa di cui al D.lgs. n. 152/2006, oltre che della normativa regionale di cui alla L.r. n. 10/1999.
Orbene, va al riguardo osservato come la denunciata violazione delle norme contenute nel cd. Codice dell’Ambiente non possa essere configurata nel caso di specie, in quanto normativa non suscettibile di applicazione per ragioni di ordine temporale, considerata la normativa transitoria introdotta dal medesimo D.lgs. n. 152/2006 all’art. 35.
L’assunto da cui partono le argomentazioni difensive di parte istante non può infatti essere condiviso, in quanto basato su una non corretta lettura della norma di cui all’art. 35 del D.lgs. 152/2006 ed in particolare sull’individuazione del momento in cui sarebbero entrate in vigore le nuove disposizioni in esso contemplate per quanto riguarda la procedura di VIA.
Invero, come hanno sottolineato le difese resistenti, proprio per effetto del disposto contenuto nella norma transitoria di cui al richiamato art. 35, tenuto conto della tempistica con la quale la domanda di valutazione dell’impatto ambientale del progetto di realizzazione dell’autodromo è stata presentata alla Regione, nel caso in esame non poteva ancora trovare applicazione quanto disciplinato dal Codice dell’Ambiente, bensì doveva essere osservata, in quanto ancora applicabile, la normativa regionale.
Dispone infatti l’art. 35 del D.lgs. n. 152/2006 – “Disposizioni transitorie e finali”:
1. Le regioni ove necessario adeguano il proprio ordinamento alle disposizioni del presente decreto, entro dodici mesi dall’entrata in vigore. In mancanza di norme vigenti regionali trovano diretta applicazione le norme di cui al presente decreto.
2. Trascorso il termine di cui al comma 1, trovano diretta applicazione le disposizioni del presente decreto, ovvero le disposizioni regionali vigenti in quanto compatibili. 2-bis …..
2-ter. Le procedure di VAS, VIA ed AIA avviate precedentemente all’entrata in vigore del presente decreto sono concluse ai sensi delle norme vigenti al momento dell’avvio del procedimento
.”
Indubbiamente la richiamata disposizione indica una precisa scansione temporale, in base alla quale la nuova disciplina nazionale subentra a quella previgente, di matrice regionale, salva l’ipotesi che le Regioni stesse introducano nelle more una nuova disciplina che si concili con quella introdotta dal Decreto Legislativo.
Il termine assegnato per adeguare la normativa regionale al Codice dell’Ambiente è stato quindi fissato in dodici mesi dalla data di entrata in vigore del decreto, sulla base, quindi, dell’esistenza di normative regionali, sulle quali intervenire in via di adeguamento alla disciplina statale.
Soltanto nell’ipotesi in cui non vi fossero state normative regionali sull’argomento, è stata prevista, in base alla seconda parte del primo comma, l’applicazione immediata delle norme contenute nel decreto.
Se ne deduce, pertanto, il principio per cui, in presenza di normative regionali, queste non subiscono immediata disapplicazione, ma si rimanda al legislatore regionale la possibilità di introdurre, nell’arco temporale di dodici mesi dall’entrata in vigore del decreto, opportuni adeguamenti per renderle compatibili e quindi ancora applicabili.
Decorso il suddetto termine, avrebbero trovato diretta applicazione le disposizioni del decreto o le norme regionali vigenti (opportunamente adeguate) con esso compatibili. In linea di massima, quindi, l’entrata in vigore del Codice dell’Ambiente non avrebbe provocato l’immediata disapplicazione delle norme regionali, essendo evidente la volontà del Legislatore nazionale di costruire un sistema compatibile fra la norma statale e quella regionale, dando la possibilità alle Regioni di intervenire sulle eventuali normative vigenti al fine del loro adeguamento a quella nazionale.
L’altro profilo che interessa particolarmente il caso di specie è l’individuazione di un riferimento temporale per quanto riguarda la disciplina da applicare ai procedimenti in corso al momento dell’entrata in vigore del nuovo decreto: a tale riguardo il comma 2-ter espressamente stabilisce che le procedure già avviate (nel nostro caso di VIA) precedentemente all’entrata in vigore del decreto sono concluse seguendo le normative vigenti al momento dell’avvio del procedimento.
Al riguardo è peraltro necessario chiarire, al fine di dare un senso logico alla disposizione testé richiamata, che detto riferimento temporale deve necessariamente tenere conto della possibilità per le Regioni di adeguare nei dodici mesi dall’entrata in vigore del decreto le proprie normative, per cui è evidente che per “norme vigenti al momento dell’avvio del procedimento” debbono intendersi le normative regionali vigenti nelle more del loro eventuale adeguamento: diversamente, la disposizione non avrebbe senso, risultando in contrasto con il termine annuale assegnato alle Regioni per apportare i necessari adeguamenti, ferma restando la vigenza nelle more della normativa esistente.
Tutto quanto sin qui osservato porta quindi a concludere nel senso che tutte le procedure avviate prima che le norme del decreto entrassero in vigore a pieno regime, dovevano essere disciplinate secondo la normativa vigente al momento dell’avvio del procedimento; ne deriva che correttamente nel procedimento in oggetto è stata data applicazione alle norme regionali e non a quelle contenute nel decreto legislativo.
In buona sostanza, riassumendo quanto testé evidenziato, considerato che, per espressa previsione transitoria, l’entrata in vigore immediata delle norme del decreto è stata prevista solo in caso di mancanza di normative regionali, mentre ne è stata differita l’applicabilità per un anno dalla data di entrata in vigore, salva ancora una volta la presenza di disposizioni regionali con essa compatibili, legittimamente è stata ritenuta l’applicabilità della legge regionale veneta (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Veneto, Sez. I, sentenza 07.10.2011 n. 1502 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Omissione di atti d'ufficio. Il ricorso al giudice legittima la P.A. a non rispondere.
La diffida ad adempiere del privato non obbliga alla risposta quando l'amministrazione abbia adito le vie legali.

Si tratta di una corretta lettura dei principi applicabili in tema di omissione di atti di ufficio (articolo 328, comma 2, c.p.).
Secondo la Cassazione, in presenza di un rapporto controverso tra la pubblica amministrazione e il privato, nell’ambito del quale la prima, a fronte di un provvedimento sfavorevole del TAR, abbia fatto ricorso al Consiglio di Stato, risulta pretestuosa ed irragionevole, in quanto finalizzata a sollecitare la pubblica amministrazione ad adottare un provvedimento in contrasto con una precisa scelta già adottata e nota all’interessato, la “diffida ad adempiere” da quest’ultimo indirizzata al responsabile dell’ufficio competente finalizzata ad ottenere l’adozione del provvedimento controverso o a rispondere per indicare le eventuali ragioni del ritardo.
La Corte, per l’effetto, ha esclusa la sussistenza del reato di cui all’articolo 328, comma 2, c.p., ritenendo che il responsabile dell’ufficio, cui era stato addebitato di non avere corrisposto alla diffida, non fosse tenuto a farlo, perché la pendenza del giudizio amministrativo, conosciuta dall’interessato, rendeva insussistenza il dovere di attivarsi, per ribadire del resto quanto già devoluto alla cognizione del giudice.
Il principio è ineccepibile.
Come risulta evidente dalla formulazione della norma incriminatrice, dal punto di vista materiale, il rapporto tra privato e pubblica amministrazione è normativamente costruito, nell'articolo 328, comma 2, c.p., sulla "richiesta" che il primo rivolge al funzionario pubblico, sollecitandogli, pena la configurabilità del reato, il compimento di un atto dovuto cui sia "interessato" ovvero, in alternativa, l'esplicitazione delle ragioni giustificative del relativo ritardo.
La richiesta de qua è quindi collegata, da un lato, ad un apprezzabile interesse del richiedente e, dall'altro, ad uno dei possibili sbocchi ipotizzati dalla norma medesima: definizione della pratica, spiegazione del ritardo, sanzione penale in mancanza dell'una o dell'altra, nel termine legale di giorni trenta.
Ebbene, in questa prospettiva, la Cassazione attribuisce nessun rilievo ad una richiesta [“diffida”] che non risponde ad un reale interesse della parte, ma risulta solo pretestuosa allorquando il comportamento della amministrazione sia stato già palesato in modo in equivoco, con l’attivazione delle vie legali per contrastare l’adozione del provvedimento preteso dall’interessato (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 06.10.2011 n. 36249).

APPALTI SERVIZI: Il servizio di igiene urbana, qualificabile come servizio pubblico locale diretto a soddisfare i bisogni dell'intera collettività, non può essere affidato mediante convenzione diretta ai sensi dell'art. 5 della l. n. 381/1991.
Le cooperative sociali ai sensi dell'art. 5 della l. n. 381 del 1991, possono stipulare convenzioni con le Amministrazioni in deroga alla disciplina sui contratti pubblici, per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi, purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le categorie di persone svantaggiate di cui all'art. 4 della stessa legge.
Tuttavia, il servizio di igiene urbana, qualificabile come servizio pubblico locale diretto a soddisfare i bisogni dell'intera collettività, non può essere affidato mediante convenzione diretta ai sensi dell'art. 5 della l. n. 381 del 1991, poiché tale norma attribuisce agli enti pubblici la facoltà di derogare alla disciplina in materia di contratti per la "fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi" e, correttamente interpretata, può trovare applicazione nel solo caso in cui l'Amministrazione debba acquistare beni e servizi in proprio favore, secondo lo schema dell'appalto pubblico di servizi i forniture, e non anche affidare a terzi lo svolgimento di servizi pubblici, mediante lo strumento della concessione (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 06.10.2011 n. 1466 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

URBANISTICA: Incidenza sul carico urbanistico.
L’incidenza di un intervento edilizio sul carico urbanistico deve essere considerata con riferimento all’aspetto strutturale e funzionale dell’opera ed è rilevabile anche nel caso di una concreta alterazione della originaria consistenza sostanziale di un manufatto in relazione alla volumetria, alla destinazione o alla effettiva utilizzazione tale da determinare un mutamento dell’insieme delle esigenze urbanistiche valutate in sede di pianificazione con particolare riferimento agli standard fissati dal D.M. 1444/1968 (link a www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.10.2011 n. 36104).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Fanghi da depurazione.
L’articolo 127 D.Lv. 152/2006, nell’attuale stesura, ha fornito una ulteriore indicazione per meglio stabilire il momento in cui la disciplina dei rifiuti deve applicarsi ai fanghi e che viene individuato nella fine del complessivo trattamento, il quale è effettuato presso l’impianto e finalizzato a predisporre i fanghi medesimi per la destinazione finale –smaltimento o riutilizzo– in condizioni di sicurezza per l’ambiente mediante stabilizzazione, riduzione dei volumi ed altri processi.
Tale precisazione determina, come ulteriore conseguenza, l’applicabilità della disciplina sui rifiuti in tutti i casi in cui il trattamento non venga effettuato o venga effettuato in luogo diverso dall’impianto di depurazione o in modo incompleto, inappropriato o fittizio (link a www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.10.2011 n. 36096).

ATTI AMMINISTRATIVILa conferenza di servizi è un modello procedimentale che consente all’amministrazione procedente di acquisire in un unico contesto i pareri delle altre amministrazioni potatrici di interessi pubblici interferenti con il proprio.
Essa si sostanzia, dunque, in uno strumento di semplificazione che fa applicazione di una regola di comune esperienza, secondo la quale una decisione può essere assunta più celermente e più ponderatamente quando, invece di sentire tutti i soggetti interessati in momenti diversi, si svolge un confronto contestuale tra tutti gli interlocutori.
Stabilisce invero l’art. 14, comma 2, della legge 07.08.1990 n. 241 che “la conferenza di servizi è sempre indetta quando l'amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche e non li ottenga, entro trenta giorni dalla ricezione, da parte dell'amministrazione competente, della relativa richiesta”.
La norma disciplina la cosiddetta conferenza di servizi decisoria, che si ha quando l’amministrazione competente ad emettere il provvedimento finale deve necessariamente ottenere l’assenso di altre amministrazioni; ed impone al ricorrere della fattispecie in essa prevista, l’obbligo per l’amministrazione procedente di avvalersi dello strumento di semplificazione in esame.
Alla conferenza di servizi decisoria si contrappone la cosiddetta conferenza di servizi istruttoria di cui al primo comma dello stesso art. 14, modello che ricorre allorquando l’autorità procedente, pur non essendovi tenuta, decide di acquisire il parere di altre amministrazioni.
In questo secondo caso il ricorso alla conferenza di servizi è sempre facoltativo.
Altra ipotesi di scelta facoltativa è quella prevista dalla seconda parte del medesimo comma secondo dell’art. 14 che si occupa della conferenza di servizi decisoria. In base a questa disposizione “la conferenza può essere altresì indetta quando (…) è intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate…”.
Anche in questa ipotesi dunque, come in quello di conferenza di servizi istruttoria, l’utilizzo del termine “può” da parte del legislatore lascia intendere che l’organo procedente non è tenuto a far ricorso al modello procedimentale in esame.
Cionondimeno deve ritenersi che anche nelle due fattispecie da ultimo citate il ricorso alla conferenza di servizi costituisca la scelta naturale dell’organo procedente, posto che deve comunque privilegiarsi la soluzione che assicuri decisioni più ponderate assunte in tempi più contenuti.
---------------

La funzione della conferenza di servizi preliminare è quella di permettere alle amministrazioni interessate di esprimersi quando la progettazione è ancora in una fase embrionale, quando cioè le decisioni sulle caratteristiche allocative, strutturali e funzionali dell’opera da realizzare non sono state ancora definitivamente assunte e possono, per questo motivo, essere ancora riviste in modo da renderle conformi o, perlomeno, non configgenti con gli interessi pubblici portati da amministrazioni diverse da quella procedente.
Attraverso la conferenza preliminare, quest’ultima può dunque raccogliere in via preventiva le osservazioni che pervengono dalle altre autorità, procedere alla redazione di un progetto definitivo conforme alle osservazioni stesse, ed assicurarsi conseguentemente buone probabilità di approvazione del medesimo in sede di conferenza di servizi decisoria.
La funzione della conferenza di servizi preliminare è dunque quella di soddisfare un interesse esclusivo dell’amministrazione procedente (quello di assicurarsi l’approvazione del progetto definitivo); mentre l’interesse delle altre amministrazioni è comunque salvaguardato dalla possibilità loro riservata di esprimersi sul progetto definivo in sede di conferenza di servizi decisoria o, in mancanza, a seguito di separata richiesta di assenso. Per questa ragione, come osservato in dottrina, la convocazione della conferenza di servizi preliminare costituisce per l’amministrazione procedente un onere e non già un obbligo; e la decisione di non darvi corso per procedere direttamente alla convocazione della conferenza di servizi decisoria non può costituire di per sé causa di illegittimità del provvedimento finale adottato.

---------------
Stabilisce l’art. 14-ter, comma 6-bis, della legge n. 241/1990 che, all'esito dei lavori della conferenza di servizi, l’amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento “…valutate le specifiche risultanze della conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse in quella sede…”.
Tale disposizione è stata introdotta dall’art. 10 della legge 11.02.2005 n. 15 e sostituisce la previsione contenuta nell’abrogato comma secondo dell’art. 14-quater della medesima legge n. 241/1990, il quale stabiliva che “se una o più amministrazioni hanno espresso nell'ambito della conferenza il proprio dissenso sulla proposta dell'amministrazione procedente, quest'ultima (…) assume comunque la determinazione di conclusione del procedimento sulla base della maggioranza delle posizioni espresse…”.
La novella recata dalla legge n. 15/2005 non si è limitata ad introdurre una modificazione letterale al testo delle disposizioni legislative, ma ha immesso nell’ordinamento una norma di contenuto sostanzialmente innovativo, in base alla quale la determinazione finale assunta dall’amministrazione procedente non può più basarsi sul dato squisitamente numerico afferente alla maggioranza delle posizioni espresse in sede di conferenza, ma deve basarsi su una valutazione articolata che tenga conto della natura degli interessi fatti valere delle amministrazioni intervenute.
Da ciò discende che il provvedimento conclusivo può sì essere assunto anche in mancanza di assenso unanime; tuttavia, in tal caso, la determinazione conclusiva adottata all'esito dei lavori della conferenza deve considerarsi assoggettata ad un obbligo di autonoma e specifica motivazione che tenga conto delle posizioni emerse e, soprattutto, di quelle espresse da amministrazioni portatrici di interessi particolarmente rilevanti.

Come noto la conferenza di servizi è un modello procedimentale che consente all’amministrazione procedente di acquisire in un unico contesto i pareri delle altre amministrazioni potatrici di interessi pubblici interferenti con il proprio.
Essa si sostanzia, dunque, in uno strumento di semplificazione che fa applicazione di una regola di comune esperienza, secondo la quale una decisione può essere assunta più celermente e più ponderatamente quando, invece di sentire tutti i soggetti interessati in momenti diversi, si svolge un confronto contestuale tra tutti gli interlocutori.
Proprio per tali ragioni, il nostro legislatore ha inteso promuovere il ricorso a tale modello procedimentale.
Stabilisce invero l’art. 14, comma 2, della legge 07.08.1990 n. 241, così come modificato dall’art. 9 della legge 24.11.2000 n. 340, che “la conferenza di servizi è sempre indetta quando l'amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche e non li ottenga, entro trenta giorni dalla ricezione, da parte dell'amministrazione competente, della relativa richiesta”.
La norma disciplina la cosiddetta conferenza di servizi decisoria, che si ha quando l’amministrazione competente ad emettere il provvedimento finale deve necessariamente ottenere l’assenso di altre amministrazioni; ed impone al ricorrere della fattispecie in essa prevista, l’obbligo per l’amministrazione procedente di avvalersi dello strumento di semplificazione in esame.
Alla conferenza di servizi decisoria si contrappone la cosiddetta conferenza di servizi istruttoria di cui al primo comma dello stesso art. 14, modello che ricorre allorquando l’autorità procedente, pur non essendovi tenuta, decide di acquisire il parere di altre amministrazioni.
In questo secondo caso il ricorso alla conferenza di servizi è sempre facoltativo (stabilisce infatti il primo comma dell’art. 14 che qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, l'amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi).
Altra ipotesi di scelta facoltativa è quella prevista dalla seconda parte del medesimo comma secondo dell’art. 14 che, come visto, si occupa della conferenza di servizi decisoria. In base a questa disposizione “la conferenza può essere altresì indetta quando (…) è intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate…”.
Anche in questa ipotesi dunque, come in quello di conferenza di servizi istruttoria, l’utilizzo del termine “può” da parte del legislatore lascia intendere che l’organo procedente non è tenuto a far ricorso al modello procedimentale in esame.
Cionondimeno deve ritenersi che anche nelle due fattispecie da ultimo citate, in ossequio al principio di buon andamento dell’attività amministrativa sancito dall’art. 97 della Costituzione, il ricorso alla conferenza di servizi costituisca la scelta naturale dell’organo procedente, posto che deve comunque privilegiarsi la soluzione che assicuri decisioni più ponderate assunte in tempi più contenuti.
E’ vero che secondo l’opinione dominante in dottrina, nei casi da ultimo esaminati, non sussiste un vero e proprio obbligo di indire la conferenza di servizi per l’amministrazione competente, alla quale è anzi riservata un’ampia valutazione che impinge al merito amministrativo, per questa ragione non sindacabile dall’autorità giudiziaria.
Tuttavia deve ritenersi anche che solo in caso di esplicito divieto normativo, ovvero al ricorrere di circostanze particolari che sconsiglino il ricorso alla conferenza di servizi, l’amministrazione procedente sia tenuta ad acquisire separatamente gli atti di assenso da parte delle altre amministrazioni interessate.
---------------
Con una seconda doglianza, la ricorrente lamenta la mancata convocazione della conferenza di servizi preliminare di cui al comma secondo dell’art. 14-bis della legge n. 241/1990. Si deduce in particolare che l’autorità procedente non ha sottoposto all’esame delle altre amministrazioni interessate il progetto preliminare dell’opera, obbligandole ad esaminare direttamente il progetto definitivo della medesima.
Stabilisce la norma da ultimo citata che “nelle procedure di realizzazione di opere pubbliche e di interesse pubblico, la conferenza di servizi si esprime sul progetto preliminare al fine di indicare quali siano le condizioni per ottenere, sul progetto definitivo, le intese, i pareri, le concessioni, le autorizzazioni, le licenze, i nulla osta e gli assensi, comunque denominati, richiesti dalla normativa vigente”.
La funzione della conferenza di servizi preliminare è quella di permettere alle amministrazioni interessate di esprimersi quando la progettazione è ancora in una fase embrionale, quando cioè le decisioni sulle caratteristiche allocative, strutturali e funzionali dell’opera da realizzare non sono state ancora definitivamente assunte e possono, per questo motivo, essere ancora riviste in modo da renderle conformi o, perlomeno, non configgenti con gli interessi pubblici portati da amministrazioni diverse da quella procedente.
Attraverso la conferenza preliminare, quest’ultima può dunque raccogliere in via preventiva le osservazioni che pervengono dalle altre autorità, procedere alla redazione di un progetto definitivo conforme alle osservazioni stesse, ed assicurarsi conseguentemente buone probabilità di approvazione del medesimo in sede di conferenza di servizi decisoria (in proposito si osserva che, in base al comma 4 dell’art. 14-bis, le indicazioni fornite dalle amministrazioni interessate possono essere motivatamente modificate o integrate in sede di conferenza di servizi decisoria “…solo in presenza di significativi elementi emersi nelle fasi successive del procedimento, anche a seguito delle osservazioni dei privati sul progetto definitivo”).
La funzione della conferenza di servizi preliminare è dunque quella di soddisfare un interesse esclusivo dell’amministrazione procedente (quello di assicurarsi l’approvazione del progetto definitivo); mentre l’interesse delle altre amministrazioni è comunque salvaguardato dalla possibilità loro riservata di esprimersi sul progetto definivo in sede di conferenza di servizi decisoria o, in mancanza, a seguito di separata richiesta di assenso. Per questa ragione, come osservato in dottrina, la convocazione della conferenza di servizi preliminare costituisce per l’amministrazione procedente un onere e non già un obbligo; e la decisione di non darvi corso per procedere direttamente alla convocazione della conferenza di servizi decisoria non può costituire di per sé causa di illegittimità del provvedimento finale adottato.
---------------
Stabilisce l’art. 14-ter, comma 6-bis, della legge n. 241/1990 che, all'esito dei lavori della conferenza di servizi, l’amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento “…valutate le specifiche risultanze della conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse in quella sede…”.
Tale disposizione è stata introdotta dall’art. 10 della legge 11.02.2005 n. 15 e sostituisce la previsione contenuta nell’abrogato comma secondo dell’art. 14-quater della medesima legge n. 241/1990, il quale stabiliva che “se una o più amministrazioni hanno espresso nell'ambito della conferenza il proprio dissenso sulla proposta dell'amministrazione procedente, quest'ultima (…) assume comunque la determinazione di conclusione del procedimento sulla base della maggioranza delle posizioni espresse…”.
La novella recata dalla legge n. 15/2005 non si è limitata ad introdurre una modificazione letterale al testo delle disposizioni legislative, ma ha immesso nell’ordinamento una norma di contenuto sostanzialmente innovativo, in base alla quale la determinazione finale assunta dall’amministrazione procedente non può più basarsi sul dato squisitamente numerico afferente alla maggioranza delle posizioni espresse in sede di conferenza, ma deve basarsi su una valutazione articolata che tenga conto della natura degli interessi fatti valere delle amministrazioni intervenute.
Da ciò discende che il provvedimento conclusivo può sì essere assunto anche in mancanza di assenso unanime; tuttavia, in tal caso, la determinazione conclusiva adottata all'esito dei lavori della conferenza deve considerarsi assoggettata ad un obbligo di autonoma e specifica motivazione che tenga conto delle posizioni emerse e, soprattutto, di quelle espresse da amministrazioni portatrici di interessi particolarmente rilevanti (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 03.03.2006 n. 1023; TAR Toscana Firenze, sez. II, 19.05.2010 n. 1523; TAR Liguria Genova, sez. I, 11.07.2007 n. 1376)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 05.10.2011 n. 2372 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha affermato, anche se con più specifico riferimento alla rinuncia al condono, che siffatto istituto è “volto alla celere definizione di illeciti aventi ordinariamente natura non solo amministrativa ma anche penale, sicché l’eventuale rinuncia allo stesso, magari dopo il decorso di un lungo termine dalla presentazione della relativa istanza, rischierebbe di assicurare all’autore dell’opera abusiva una sostanziale immunità penale, sfruttando ad esempio l’eventuale prescrizione del reato edilizio, oltre a garantirgli il recupero pecuniario delle somme già versate; mentre l’Amministrazione comunale potrebbe tutt’al più adottare un provvedimento di demolizione, contro il quale l’interessato potrebbe però proporre impugnazione davanti al giudice amministrativo, rinviando così indefinitamente la definizione dell’abuso, con grave pregiudizio per la certezza dei rapporti giuridici”.
Oltretutto, non sarebbe chiara la sorte dell’avvenuto condono dell’opera nel caso di rigetto del ricorso originario, potendo a questo punto l’interessato decidere a sua discrezione di avvantaggiarsi dei benefici discendenti dal condono, determinando l’inutilità della pronuncia giurisdizionale. Ciò potrebbe concretare in definitiva un abuso del diritto, considerato che “il divieto di tenere condotte contrarie a buona fede ha un ancoraggio costituzionale nel dettato dell’art. 2 Cost., costituisce canone di valutazione anche delle condotte processuali ed opera anche nella fase patologica del rapporto”.

Quanto al primo aspetto, ossia alla presentazione della domanda di condono in via cautelativa, in base alla convinzione dei ricorrenti della non abusività delle opere, va precisato che dal condono derivano effetti tipici, prodotti direttamente dalla legge, senza che sugli stessi possa influire la volontà del soggetto cui è contestato l’abuso e che reputa di avvalersi dell’istituto, non potendo lo stesso modificare i caratteri e gli effetti di un istituto regolato in toto dalla legge. Pertanto, nessuna condizione può ritenersi apponibile alla domanda di condono e se questa risulta apposta è tamquam non esset (vitiatur sed non vitiat).
Del resto, la giurisprudenza ha affermato, anche se con più specifico riferimento alla rinuncia al condono, che siffatto istituto è “volto alla celere definizione di illeciti aventi ordinariamente natura non solo amministrativa ma anche penale (cfr. sul punto art. 38 della legge 47/1985), sicché l’eventuale rinuncia allo stesso, magari dopo il decorso di un lungo termine dalla presentazione della relativa istanza, rischierebbe di assicurare all’autore dell’opera abusiva una sostanziale immunità penale, sfruttando ad esempio l’eventuale prescrizione del reato edilizio, oltre a garantirgli il recupero pecuniario delle somme già versate; mentre l’Amministrazione comunale potrebbe tutt’al più adottare un provvedimento di demolizione, contro il quale l’interessato potrebbe però proporre impugnazione davanti al giudice amministrativo, rinviando così indefinitamente la definizione dell’abuso, con grave pregiudizio per la certezza dei rapporti giuridici” (TAR Lombardia, Milano, II, 18.05.2010, n. 1551).
Oltretutto, non sarebbe chiara la sorte dell’avvenuto condono dell’opera nel caso di rigetto del ricorso originario, potendo a questo punto l’interessato decidere a sua discrezione di avvantaggiarsi dei benefici discendenti dal condono, determinando l’inutilità della pronuncia giurisdizionale. Ciò potrebbe concretare in definitiva un abuso del diritto, considerato che “il divieto di tenere condotte contrarie a buona fede ha un ancoraggio costituzionale nel dettato dell’art. 2 Cost., costituisce canone di valutazione anche delle condotte processuali ed opera anche nella fase patologica del rapporto” (Consiglio di Stato, Ad. plen., 23.03.2011, n. 3) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.10.2011 n. 2352 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAUn onere di immediata impugnativa, in osservanza del termine decadenziale a partire dalla pubblicazione dello strumento pianificatorio, [non si pone] con riguardo alle prescrizioni di dettaglio contenute nelle norme di natura regolamentare, che sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l’atto applicativo e possono essere, quindi, oggetto di censura in occasione della sua impugnazione”.
Pertanto, le regole che più in dettaglio disciplinano l’esercizio dell’attività edificatoria, generalmente contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano, come nel caso di specie, rientrano in questa categoria e vanno impugnate unitamente agli atti applicativi delle stesse.

Come ribadito da recente giurisprudenza “un onere di immediata impugnativa, in osservanza del termine decadenziale a partire dalla pubblicazione dello strumento pianificatorio, [non si pone] con riguardo alle prescrizioni di dettaglio contenute nelle norme di natura regolamentare, che sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l’atto applicativo e possono essere, quindi, oggetto di censura in occasione della sua impugnazione” (Consiglio di Stato, IV, 28.03.2011, n. 1868).
Pertanto, le regole che più in dettaglio disciplinano l’esercizio dell’attività edificatoria, generalmente contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano, come nel caso di specie, rientrano in questa categoria e vanno impugnate unitamente agli atti applicativi delle stesse (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.10.2011 n. 2348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Inizio lavori e decadenza permesso di costruire.
La mera esecuzione di lavori di sbancamento è, di per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto dell'effettivo "inizio dei lavori" entro il termine di un anno dal rilascio del permesso di costruire a pena di decadenza del titolo abilitativo, essendo necessario, al fine di escludere la configurabilità del reato di costruzione abusiva, che lo sbancamento sia accompagnato dalla compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a confermare l'effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di realizzare l'opera assentita (tratto da www.lexambiente.it - Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.10.2011 n. 35900).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di una strada sterrata.
La realizzazione di una strada sterrata in ambito boschivo integra una trasformazione urbanistica del territorio, per la quale è necessario il rilascio di idonei titoli abilitativi, sia sotto il profilo urbanistico, sia sotto quello paesaggistico (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.10.2011 n. 35857).

EDILIZIA PRIVATAIn sede di esame del progetto per il quale si è richiesta la concessione edilizia, l’amministrazione, facendo “corretta applicazione dei poteri di valutazione del progetto” ad essa attribuiti dal complesso delle norme di natura urbanistico–edilizia, non ha negato lo ius aedificandi, né ha fondato il diniego su una non corrispondenza del progetto medesimo allo strumento urbanistico attuativo, ma ha esclusivamente indicato “i profili progettuali da modificare per consentire la corretta ambientazione dell’intervento edilizio e la migliore distribuzione del verde pubblico e dei parcheggi”.
Da quanto sin qui esposto, consegue che, per un verso, non appare privo di motivazione il diniego opposto dal Comune, ovvero privo di fondamento normativo, così come esso non si pone, come si è già affermato, né in violazione di giudicato né in contrasto con il p.u.c., attuando semmai un coordinamento tra quanto previsto dallo strumento attuativo e le esigenze espresse dalle norme sopra richiamate; esigenze che non appaiono né meramente estetiche, né irragionevoli.

Il Collegio osserva innanzi tutto che il diniego di concessione edilizia, derivante dall’applicazione di talune norme del regolamento edilizio, non pone affatto in dubbio la sussistenza dello ius aedificandi sui terreni di via dell’Aeroporto, né la concreta potenzialità edificatoria del suolo.
In definitiva, l’amministrazione non ha negato per “questioni prettamente estetiche” l’esistenza dello ius aedificandi, ma ha fatto legittima applicazione di norme del regolamento edilizio (ed ha agito sulla base del parere reso dalla commissione edilizia), per negare allo stato il titolo autorizzatorio edilizio, individuando quelle puntuali prescrizioni che –fermo lo ius aedificandi– consentono al progetto di aderire a quegli interessi pubblici dei quali le norme del regolamento edilizio sono espressione.
Ed infatti, quanto al contrasto con l’art. 67 del regolamento edilizio (recante prescrizioni per decoro estetico-ambientale e della sicurezza) si è rilevato la non corrispondenza del progetto con la tipologia prevista “a residence” ed inoltre che la collocazione in prossimità alla sede aeroportuale di due dei tre corpi che costituiscono l'organismo edilizio "A" impone una progettazione planivolumetrica che accorpi l'organismo edilizio "A" in un solo volume e la realizzazione di un’opportuna barriera fonoassorbente eseguita essenzialmente con terra di riporto e soprastante verde (terrapieno). Si è inoltre suggerito (con riferimento agli artt. 15 e 16 NTA) che i parcheggi siano per quanto possibile previsti in fregio e in adiacenza all’accesso pubblico.
In definitiva, in sede di esame del progetto per il quale si è richiesta la concessione edilizia, l’amministrazione, facendo -come condivisibilmrente sostiene la sentenza appellata- “corretta applicazione dei poteri di valutazione del progetto” ad essa attribuiti dal complesso delle norme di natura urbanistico–edilizia, non ha negato lo ius aedificandi, né ha fondato il diniego su una non corrispondenza del progetto medesimo allo strumento urbanistico attuativo, ma ha esclusivamente indicato –così come evidenziato dal giudice di I grado– “i profili progettuali da modificare per consentire la corretta ambientazione dell’intervento edilizio e la migliore distribuzione del verde pubblico e dei parcheggi”.
Da quanto sin qui esposto, consegue che, per un verso, non appare privo di motivazione il diniego opposto dal Comune, ovvero privo di fondamento normativo, così come esso non si pone, come si è già affermato, né in violazione di giudicato né in contrasto con il p.u.c., attuando semmai un coordinamento tra quanto previsto dallo strumento attuativo e le esigenze espresse dalle norme sopra richiamate; esigenze che non appaiono né meramente estetiche, né irragionevoli (né gli appellanti deducono osservazioni “di merito” in ordine al contenuto delle prescrizioni) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.10.2011 n. 5443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIBar, ordinanza del sindaco per la riduzione degli orari.
Il sindaco può disporre con ordinanza contingibile e urgente la riduzione dell'orario di apertura di un bar a tutela della quiete pubblica.

Lo ha affermato il TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I, con la sentenza 04.10.2011 n. 330.
La vicenda giudiziaria prende spunto dal ricorso del titolare di un esercizio pubblico, nella specie di un bar, avverso l'ordinanza sindacale contingibile e urgente con la quale il sindaco gli ingiungeva di anticipare fino al 30.09.2010 la chiusura alle ore 20 anziché alle 23.
Il provvedimento era motivato con la circostanza che l'esercizio era oggetto di numerose segnalazioni da parte dei cittadini residenti nell'area che lamentavano schiamazzi, assembramenti chiassosi, rumori molesti, presenza di attività di prostituzione, spaccio di sostanze stupefacenti, presenza di persone ubriache. Il ricorrente deduceva la falsa applicazione dell'art. 54 del Tuel e del decreto del ministro dell'Interno del 05.08.2008, artt. 1 e 2, e la violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, in quanto nel provvedimento impugnato non si desumevano le ragioni d'urgenza a cui è, invece, riconnesso dalla legge il potere di cui all'art. 54 del dlgs 267/2000.
Il Collegio ha respinto le ragioni del ricorrente sottolineando che l'art. 54 del Tuel, seppure la sentenza 04-07.04.2011, n. 115 della Corte Costituzionale lo ha ritenuto illegittimo nella parte in cui comprende la locuzione «anche» prima delle parole «contingibili e urgenti», è da interpretarsi nel senso che il requisito dell'urgenza è riferito al pericolo in sé e non al fattore causale del rischio, per cui, anche quando il potere sindacale è esercitato per risolvere, o anche per iniziare ad affrontare, una situazione di pericolo per l'incolumità pubblica, anche se non nell'immediatezza temporale del fattore che ha provocato il rischio, tuttavia, il potere è esercitato entro i limiti della citata disposizione.
«La ratio, infatti», ha concluso la sentenza, «è di assicurare un elevato grado di tutela alla sicurezza urbana, il che implica che la chiusura anticipata non deve necessariamente essere assistita dalla riprova della responsabilità, in senso soggettivo, del gestore del bar nell'avere causato la situazione di pericolo e di insicurezza, ma è sufficiente che l'esercizio commerciale sia un luogo di abituale frequentazione e ritrovo, soprattutto nelle ore notturne, di soggetti dediti ad attività che arrecano disturbo alla pubblica quiete, alla pubblica sicurezza e incolumità» (articolo ItaliaOggi del 22.10.2011).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici.
Va ribadito il carattere inderogabile delle disposizioni di legge sulle distanze tra gli edifici (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.10.2011 n. 35749).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Decespugliamento.
Anche il decespugliamento, il disboscamento, il taglio o la distruzione di ceppaie, al di fuori di qualsiasi pratica colturale ed in assenza di autorizzazione o in difformità da essa, configura il reato di cui all'articolo 181 del decreto legislativo n 42 del 2004 (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.09.2011 n. 35308).

EDILIZIA PRIVATA: Pertinenze e volumi interrati.
Deve escludersi l'applicabilità del regime delle pertinenze urbanistiche ove l'opera edilizia accessoria acceda ad un manufatto principale abusivo. I locali interrati debbono essere computati a fini volumetrici (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.09.2011 n. 35283).

EDILIZIA PRIVATAEnergie rinnovabili anche senza l'ok dei singoli comuni.
SILENZIO ASSENSO - Il parere non dato alla conferenza dei servizi è considerato dai giudici equiparabile al consenso espresso.

La realizzazione di un impianto per la produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile non può essere condizionata all'assenso o al gradimento preventivo dei comuni sul cui territorio l'impianto verrà costruito.
La decisione del TAR Puglia-Lecce (Sez. I, sentenza 29.09.2011 n. 1670) apre la strada alla semplificazione amministrativa, o per lo meno dei rapporti istituzionali all'interno della conferenza dei servizi nell'ambito dell'impiantistica per le fonti rinnovabili.
La questione affrontata dai giudici salentini riguardava la controversia innescata dal comune di Ginosa circa l'Autorizzazione unica per un generatore di energia elettrica da «biomasse di legno vergine» per una potenza di 5 MW. La prima conferenza dei servizi si era chiusa con il via libera per la realizzazione, pur in assenza del parere del piccolo comune. Conferenza che venne poi riaperta per la verifica dei requisiti sulla (nel frattempo intervenuta a livello legislativo regionale) "filiera corta", cioè il 40% del fabbisogno di biomasse ottenuto nel raggio di 70 km dall'impianto. In questa seconda sede Ginosa aveva espresso parere negativo, circostanza che non aveva impedito il rilascio dell'autorizzazione, e quindi il conseguente ricorso del municipio contrario.
I giudici amministrativi però hanno statuito che «il procedimento per la realizzazione di impianti di energia rinnovabile, o comunque l'esito favorevole dell'istanza, non può essere in alcun modo condizionato da qualsivoglia atto di assenso o di gradimento da parte dei comuni il cui territorio è interessato dal progetto. In altre parole non si può ritenere indispensabile a tal fine la deliberazione favorevole del Consiglio comunale», in accordo, tra l'altro, sia con la giurisprudenza di merito (Tar Lazio, Prima sezione di Latina, 1343/2009) sia con la sentenza 124/2010 della Corte Costituzionale.
Quindi, «in assenza di una efficacia condizionante di tale eventuale deliberazione, può dunque ritenersi pacificamente applicabile l'articolo 14-ter, comma 7, della legge n. 241 del 1990, a norma del quale "si considera acquisito l'assenso dell'amministrazione … il cui rappresentante, all'esito dei lavori della conferenza, non abbia espresso definitivamente la volontà dell'amministrazione rappresentata"» (articolo Il Sole 24 Ore del 20.10.2010).

VARIAutovelox in qualsiasi strada. E maglie larghe per la regolarità del verbale spedito a casa.
La polizia municipale può usare l'autovelox in qualsiasi strada posizionata all'interno del confine comunale eccetto le autostrade. E per la regolarità del verbale spedito a casa è sufficiente evidenziare nella multa che è stato utilizzato uno strumento che consente l'accertamento contestualmente al passaggio dell'automobilista negligente.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 27.09.2011 n. 19755.
Il comune di Stignano si è visto annullare numerose multe accertate dai vigili con l'uso di un misuratore elettronico della velocità, senza contestazione immediata. Contro questi annullamenti seriali, confermati dal tribunale di Locri, il primo cittadino ha intrapreso una decisa determinazione inondando gli ermellini di ricorsi. Il risultato finale è stato apprezzabile per le economie del piccolo comune calabrese che ha vinto praticamente tutti i ricorsi. Ma soprattutto la corte ha assunto chiare determinazioni sull'impiego dei temuti autovelox con pattuglia, senza arresto del veicolo.
Innanzitutto i controlli di velocità possono essere effettuati su qualsiasi strada e non solo nei tratti individuati con decreto del prefetto. Nel caso di mancata contestazione immediata, prosegue la corte, la multa è valida se viene evidenziato chiaramente nel verbale una delle giustificazioni previste dalla normativa come per l'esempio l'uso di un autovelox tradizionale che permette di effettuare l'accertamento solo al momento del passaggio del mezzo davanti alla pattuglia.
E non spetta certamente al giudice di pace sindacare in questo caso sull'organizzazione del servizio e sulla possibilità di attivare una doppia pattuglia. Circa gli strumenti autovelox il collegio ha ribadito che l'omologazione dei misuratori riguarda il modello e non il singolo esemplare. Il termine di validità dell'omologazione influenza solo la commercializzazione dell'autovelox ma non anche il suo impiego che, fino a prova contraria, è confermato dalla legge anche se nel verbale non viene indicato nulla sul corretto funzionamento dello strumento.
Nessun limite territoriale infine per gli accertamenti dei vigili, conclude la sentenza, che in qualità di operatori di polizia stradale possono elevare le multe su qualsiasi tratto di strada situata nel territorio comunale, escluse le autostrade dove può operare solo la polizia di stato (articolo ItaliaOggi del 20.10.2010).

EDILIZIA PRIVATAE’ condivisa dal Collegio l’interpretazione secondo cui lo speciale regime di gratuità della concessione edilizia richiede il concorso di due requisiti, l'uno di carattere soggettivo e l'altro di carattere oggettivo:
1. il primo consiste nell'esecuzione delle opere da parte di enti "istituzionalmente competenti", vale a dire da parte di soggetti ai quali la realizzazione dell'opera sia demandata in via istituzionale;
2. il secondo, dall'ascrivibilità del manufatto oggetto di concessione edilizia alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale.
Limitatamente al requisito sub 2) si è rilevato che, ferma la preliminare interpretazione in merito all'espressione “opere pubbliche o di interesse generale” sostanzialmente ed inequivocabilmente riconducibile al concetto di “opera pubblica”, quest’ultima deve essere realizzata, quindi, o da un soggetto pubblico o da un soggetto privato, purché per conto di un ente pubblico, come nella figura della concessione di opere pubbliche o in analoghe figure organizzatorie.
Le disposizioni in commento, contenendo ipotesi di deroghe alla legge generale, debbono ritenersi di stretta interpretazione e, quindi, non estensibili quanto a portata applicativa ad ipotesi simili in assenza di espresso riferimento normativo. D’altronde la ratio legis sottesa alla previsione di un contributo da corrispondere per la realizzazione di opere che trasformino il territorio ha portata applicativa talmente generale che immaginare ipotesi di esenzione ad ampio spettro non avrebbe alcuna logica e manifesterebbe, anzi, un approccio contraddittorio del legislatore in relazione agli oneri che la collettività, in dipendenza di esse, è chiamata a sopportare.
---------------
Al titolo abilitativo a costruire relativo ad un immobile destinato a casa di cura privata spetta la parziale esenzione dal contributo urbanistico, prevista legislativamente fin dall'articolo 10 della legge 28.01.1977 n. 10 per le concessioni relative a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi, dal momento che l'attività imprenditoriale diretta alla prestazione di servizi sanitari è a pieno titolo un'attività industriale, giusta la definizione di "attività industriale" che si ricava dall'art. 2195 cod. civ..
È corretto, quindi, affermare che l'attività sanitaria, se svolta da soggetto non istituzionalmente competente, presenta i caratteri oggettivi dell'industrialità (pur non perseguendo, soggettivamente, una finalità di lucro in senso stretto) e, pertanto, deve essere assoggettata al relativo trattamento, più favorevole.

E’ condivisa dal Collegio l’interpretazione che sul punto è stata offerta in giurisprudenza in coincidenza con ipotesi analoghe a quella oggetto del presente giudizio. Sul punto si è, infatti, detto che lo speciale regime di gratuità della concessione edilizia richiede il concorso di due requisiti, l'uno di carattere soggettivo e l'altro di carattere oggettivo:
1. il primo consiste nell'esecuzione delle opere da parte di enti "istituzionalmente competenti", vale a dire da parte di soggetti ai quali la realizzazione dell'opera sia demandata in via istituzionale;
2. il secondo, dall'ascrivibilità del manufatto oggetto di concessione edilizia alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale.
Limitandoci al requisito sub 2) si è rilevato che, ferma la preliminare interpretazione in merito all'espressione “opere pubbliche o di interesse generale” sostanzialmente ed inequivocabilmente riconducibile al concetto di “opera pubblica”, quest’ultima deve essere realizzata, quindi, o da un soggetto pubblico o da un soggetto privato, purché per conto di un ente pubblico, come nella figura della concessione di opere pubbliche o in analoghe figure organizzatorie (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 12.07.2005 n. 3774 ed i precedenti giurisprudenziali dello stesso tenore ivi richiamati, cioè Cons. Stato, Sez. V, 02.12.2002 n. 6618; 10.07.2000 n. 3860; 06.12.1999 n. 2061; 10.05.1999 n. 536; 04.05.1998 n. 492; 29.09.1997 n. 1067; 07.09.1995 n. 1280; 10.12.1990 n. 857).
E’ altresì condivisibile l’ulteriore affermazione svolta dalla decisione del Consiglio di Stato suindicata (Sez. V, n. 3774 del 2005) in virtù della quale le disposizioni in commento, contenendo ipotesi di deroghe alla legge generale, debbono ritenersi di stretta interpretazione e, quindi, non estensibili quanto a portata applicativa ad ipotesi simili in assenza di espresso riferimento normativo. D’altronde la ratio legis sottesa alla previsione di un contributo da corrispondere per la realizzazione di opere che trasformino il territorio ha portata applicativa talmente generale che immaginare ipotesi di esenzione ad ampio spettro non avrebbe alcuna logica e manifesterebbe, anzi, un approccio contraddittorio del legislatore in relazione agli oneri che la collettività, in dipendenza di esse, è chiamata a sopportare.
Conseguentemente, atteso che le opere in questione (ndr: costruzione di una struttura socio-sanitaria) non sono state realizzate da un soggetto pubblico o da un soggetto privato destinatario di una concessione di opera pubblica o di analoga figura organizzatoria, l’ipotesi di esenzione dal contributo invocata non può trovare applicazione nel caso qui in esame.
Peraltro la normativa vigente stabilisce in proposito che il contributo è corrisposto in misura ridotta per la realizzazione di interventi relativi a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla presentazione di servizi.
Sul punto, in giurisprudenza, si è chiarito che al titolo abilitativo a costruire relativo ad un immobile destinato a casa di cura privata spetta la parziale esenzione dal contributo urbanistico, prevista legislativamente fin dall'articolo 10 della legge 28.01.1977 n. 10 per le concessioni relative a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi, dal momento che l'attività imprenditoriale diretta alla prestazione di servizi sanitari è a pieno titolo un'attività industriale, giusta la definizione di "attività industriale" che si ricava dall'art. 2195 cod. civ. (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. V, 16.01.1992 n. 46).
È corretto, quindi, affermare che l'attività sanitaria, se svolta da soggetto non istituzionalmente competente, presenta i caratteri oggettivi dell'industrialità (pur non perseguendo, soggettivamente, una finalità di lucro in senso stretto) e, pertanto, deve essere assoggettata al relativo trattamento, più favorevole (cfr., sul punto TAR Abruzzo, L’Aquila, 24.05.2006 n. 383).
Conseguentemente nel caso di specie, mentre non è dovuta l'esenzione totale, correttamente il commissario ad acta ha ridotto il contributo con la citata delibera n. 2/2009, sussumendo la fattispecie nella ipotesi di costruzione a carattere industriale, sì che appare immune dai dedotti vizi il riferimento ai parametri previsti per le zone G (cfr. TAR Firenze sent. n. 466/2008) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 09.09.2011 n. 4356 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl parere della commissione edilizia può essere omesso in sede di autotutela (annullamento concessione edilizia), senza violazione alcuna del principio del contrarius actus, qualora l’annullamento si fondi su ragioni di esclusiva valenza giuridica e non anche su valutazioni tecnico-edilizie.
Quanto al mancato coinvolgimento della commissione edilizia nell'annullare una concessione edilizia rilasciata, per giurisprudenza costante tale parere può essere omesso in sede di autotutela, senza violazione alcuna del principio del contrarius actus, qualora l’annullamento si fondi su ragioni di esclusiva valenza giuridica e non anche su valutazioni tecnico-edilizie (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12.05.2011, n. 2821; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 10.11.2010, n. 23756; TAR Lombardia Milano, sez. IV, 03.03.2010, n. 532; TAR Emilia Romagna Parma, 20.10.2009, n. 686)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 09.09.2011 n. 1586 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACorrettamente l'Amministrazione … tiene conto della volumetria relativa alla parte interrata del manufatto, in quanto -così come testualmente previsto dall'art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001- il computo della volumetria di un edificio deve essere effettuato con riferimento all'opera in ogni suo elemento, compresi gli ambienti funzionalmente asserviti o interrati e con esclusione dei soli volumi tecnici, con la conseguenza che anche le opere realizzate entro terra, qualora adibite ad attività umane di tipo continuativo, devono essere considerate ai fini dei calcoli delle volumetrie assentibili in relazione ai carichi urbanistici che ne derivano”.
In materia edilizia, infatti, i vani interrati sono computabili ai fini del calcolo della complessiva volumetria dell'immobile, salvo che siano insuscettibili di produrre un aumento del carico urbanistico, non siano destinati alla stabile permanenza dell'uomo, o lo strumento urbanistico non lo escluda espressamente.
Pertanto, "salvo che non si tratti di opere di modeste dimensioni e con destinazione a usi episodici o meramente complementari (ad esempio, cantine, locali adibiti a strutture tecnologiche, garage al servizio di un appartamento), anche i locali interrati devono calcolarsi nella volumetria ammissibile in sede di rilascio della concessione edilizia”.
Comunque, il problema della inclusione o meno nella volumetria realizzabile dei locali interrati si pone per le costruzioni che si articolino in volumi fuori terra e locali interrati a quelli asserviti che non influiscono sul carico urbanistico portato dai locali fuori terra; è invece esclusa ogni questione sulla computabilità della volumetria interrata se questi locali siano autonomi,non collegati a costruzioni fuori terra.

Ritiene il collegio che, come condivisibilmente affermato dalla giurisprudenza, “correttamente l'Amministrazione … tiene conto della volumetria relativa alla parte interrata del manufatto, in quanto -così come testualmente previsto dall'art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001- il computo della volumetria di un edificio deve essere effettuato con riferimento all'opera in ogni suo elemento, compresi gli ambienti funzionalmente asserviti o interrati e con esclusione dei soli volumi tecnici, con la conseguenza che anche le opere realizzate entro terra, qualora adibite ad attività umane di tipo continuativo, devono essere considerate ai fini dei calcoli delle volumetrie assentibili in relazione ai carichi urbanistici che ne derivano” (così TAR Lazio Roma, sez. I, 02.10.2008, n. 8716; TAR Campania Napoli, sez. IV, 22.01.2007, n. 570).
In materia edilizia, infatti, i vani interrati sono computabili ai fini del calcolo della complessiva volumetria dell'immobile, salvo che siano insuscettibili di produrre un aumento del carico urbanistico, non siano destinati alla stabile permanenza dell'uomo, o lo strumento urbanistico non lo escluda espressamente (TAR Sicilia-Palermo, sez. III, 07.06.2005, n. 960): ipotesi queste da ultimo ricordate che nella fattispecie in esame non sono tuttavia riscontrabili.
Pertanto, come affermato dalla prevalente giurisprudenza amministrativa, “salvo che non si tratti di opere di modeste dimensioni e con destinazione a usi episodici o meramente complementari (ad esempio, cantine, locali adibiti a strutture tecnologiche, garage al servizio di un appartamento), anche i locali interrati devono calcolarsi nella volumetria ammissibile in sede di rilascio della concessione edilizia” (TAR Marche, 04.02.2003, n. 21).
Comunque, il problema della inclusione o meno nella volumetria realizzabile dei locali interrati si pone per le costruzioni che si articolino in volumi fuori terra e locali interrati a quelli asserviti che non influiscono sul carico urbanistico portato dai locali fuori terra; è invece esclusa ogni questione sulla computabilità della volumetria interrata se questi locali siano autonomi,non collegati a costruzioni fuori terra
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 09.09.2011 n. 1586 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICALa verifica in ordine alla sussistenza dell’interesse a ricorrere (ndr: avverso un piano di recupero, nella fattispecie) implica necessariamente un’attenta valutazione delle specificità del caso concreto.
L’interesse a ricorrere non può che essere valutato, infatti, tenendo conto delle peculiarità proprie della materia urbanistica, connotata, come noto, da un ampio margine di discrezionalità esercitabile da parte dell’amministrazione, con la conseguenza che l’utilità derivante dell’accoglimento del ricorso deve essere apprezzata anche sotto il profilo strumentale correlato all’eventuale ulteriore attività dell’amministrazione, dalla quale parte ricorrente potrebbe conseguire un risultato positivo.
Il Collegio evidenzia, altresì, che il bene della vita anelato dalla ricorrente non è né astratto né teorico, dovendosi individuare nella tutela della qualità della vita incisa dalla disponibilità di parcheggi e spazi a verde adeguati, dal contenimento dell’inquinamento acustico e da maggiori servizi, vieppiù significativi in un contesto, quale quello del centro storico del Comune di Motegrotto Terme, rinomato per le proprietà terapeutiche e curative delle acque termali del proprio sottosuolo, sito in prossimità dei Colli Euganei, nel quale la ricorrente gestisce la propria attività turistico- ricettiva con la diretta valorizzazione di tali risorse.
Non può revocarsi in dubbio, del resto, che, sebbene nella rappresentazione della lesione possano emergere apprezzamenti soggettivi legati alla sensibilità del singolo, la sussistenza di standard sufficienti è oggettivamente valutabile e rilevante; la ricorrente, infatti, non si limita a contestare, in sé, l’adozione e l’approvazione dello strumento urbanistico attuativo, ma la scelta operata dall’amministrazione che, attraverso l’impianto complessivo del Piano e, nello specifico, attraverso la cessione della cubatura di aree destinate a piazza, parcheggi e marciapiedi e di un terreno contiguo a quelli in proprietà della controinteressata, ha determinato, nonostante il significativo incremento del carico urbanistico, il mancato reperimento degli standard all’interno dell’area, ricorrendo del tutto irragionevolmente ed immotivatamente alla monetizzazione, in luogo della quale, peraltro, la società attuatrice si è impegnata a realizzare un fabbricato da destinare a spogliatori sportivi da edificare in tutt’altra area, in prossimità ed a servizio della nuova arcostruttura nella frazione di Mezzavia.
Tali circostanze vengono valutate sufficienti ai fini della sussistenza dell’interesse a ricorrere; una diversa opzione, infatti, determinerebbe la totale vanificazione della tutela avverso interventi urbanistici che, attraverso la riqualificazione di un’area, dispiegano un’incidenza che va oltre il perimetro oggetto del piano.
Occorre considerare, altresì, che l’interesse pubblico alla realizzazione del piano di recupero per soddisfare l’esigenza primaria di risanamento di una porzione circoscritta del territorio comunale deve correlarsi e confrontarsi con quello privato a non vedersi spropositatamente sacrificato da scelte opinabili, con la conseguente possibilità del giudice di verificare la sussistenza di quella correlazione conformemente ai principi di correttezza, ragionevolezza, proporzionalità e coerenza.
---------------
Le potenzialità dei Piani di Recupero vanno oltre la riqualificazione del tessuto edilizio esistente e, attraverso tali strumenti attuativi, possono essere realizzate anche delle ristrutturazione urbanistiche.
---------------
Qualora vi sia contrasto tra le indicazioni grafiche del P.R.G. e le prescrizioni normative, sono queste ultime a prevalere, in quanto in sede di interpretazione degli strumenti urbanistici, le risultanze grafiche possono solo chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo ma non possono sovrapporsi o negare quanto risulta da questo.
---------------
Il piano di recupero costituisce uno strumento urbanistico sostanzialmente attuativo delle scelte urbanistiche contenute nel piano regolatore generale, destinato al recupero del patrimonio edilizio esistente, senza, tuttavia, implicare incrementi volumetrici tali da determinare un aumento del carico insediativo, come risulta dall’orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa.
Tale strumento ha, dunque, per oggetto la ridefinizione del tessuto urbanistico di un'area ed è caratterizzato dalla specialità dei fini del recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico degradato per mantenere e meglio utilizzare il patrimonio stesso mediante una globalità di interventi edilizi organici integrati con il tessuto urbanistico esistente, nonché con lo sviluppo programmato, attraverso gli strumenti urbanistici generali.
Negli ultimi decenni gli interventi organici di recupero finalizzati al perseguimento di obiettivi di ristrutturazione urbanistica hanno assunto una crescente rilevanza; i piani di recupero, infatti, consentono il perseguimento sia di finalità di recupero del patrimonio edilizio esistente in misura più complessa degli interventi di manutenzione ordinaria e di ristrutturazione edilizia, sia finalità di recupero urbanistico, potendo, nello specifico, prevedere interventi rivolti a sostituire l'esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso, anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale.
Pur dovendosi riconoscere ampie potenzialità alle possibilità di intervento attraverso Piani di Recupero nella ridefinizione del tessuto urbanistico, residuano, comunque, i limiti derivanti dalla connotazione tipica di tale strumento attuativo, connessi alla conservazione e riutilizzazione del patrimonio edilizio esistente, con conseguente esclusione dell’ammissibilità di interventi che possano comportare incrementi volumetrici –specie ove manchi un rapporto di proporzionalità tra le preesistenze da riqualificare ed i nuovi volumi da edificare– per i quali risulta evidentemente più appropriato il ricorso a varianti al piano regolatore generale ovvero a piani particolareggiati speciali dotati del potere di modifica dello strumento urbanistico generale.

Parte resistente sostiene, nello specifico, che dall’adozione e dalla successiva approvazione del Piano di Recupero non deriverebbe alcun pregiudizio alla società ricorrente, in quanto l’intervento urbanistico interessa un’area già edificata.
Sul punto, invero, l’orientamento giurisprudenziale non è univoco.
Secondo una prima tesi, il terzo ha titolo ad adire il giudice amministrativo, quando esista una situazione soggettiva ed aggettiva di stabile collegamento con la zona coinvolta da una costruzione che, se illegittimamente assentita, sia idonea ad arrecare pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima, onde la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a radicare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo altresì la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse giuridicamente rilevante; detta legittimazione va riconosciuta ai proprietari frontisti anche quando la materia del contendere attiene ad un piano urbanistico attuativo in quanto suscettibile, ancor più del singolo permesso di costruire, di determinare quella rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, che il ricorrente intende conservare (Cons. St., sez. IV, 29.07.2009, n. 4756; TAR Campania-Salerno, sez. II, 05.10.2009, n. 5315).
Altro orientamento, condiviso dal Collegio, sostiene il principio in base al quale il criterio della vicinitas –sussistente nella fattispecie e, peraltro, non controverso– seppure idoneo a supportare la legittimazione al ricorso dei soggetti non proprietari di aree ricomprese nel perimetro del piano di recupero non esaurisce gli ulteriori profili dell’interesse concreto all’impugnazione, che costituisce l’altra fondamentale condizione dell’azione.
Anche nel processo amministrativo, infatti, l'interesse a ricorrere è caratterizzato dalla presenza dei requisiti che qualificano l'interesse ad agire di cui all'art. 100 c.p.c., vale a dire dalla prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall'effettiva utilità che potrebbe derivare a quest'ultimo dall'annullamento dell'atto impugnato (cfr Cons. St., sez IV, 12.12.2005, n.39), sicché sarebbe del tutto inutile l’annullamento di un provvedimento richiesta dal ricorrente se questi non può trarre alcun vantaggio in relazione alla sua posizione legittimante (cfr. Cons. St., sez. IV, 11.04.2007, n. 1684).
La verifica in ordine alla sussistenza dell’interesse a ricorrere implica necessariamente un’attenta valutazione delle specificità del caso concreto.
Nella fattispecie oggetto di giudizio la società ricorrente gestisce uno stabilimento termale ubicato a ridosso dell’ambito interessato dal Piano di recupero, alla cui attuazione vengono imputati significativi effetti pregiudizievoli, da individuare nel peggioramento della qualità della vita per l’aumento del traffico, l’inquinamento atmosferico ed acustico e, soprattutto, l’assenza di standard adeguati rispetto ad un intervento che presenta un considerevole peso insediativo, con inevitabili ed evidenti ripercussioni negative anche sotto il profilo turistico- ricettivo.
Il Collegio ritiene che, anche in base all’orientamento più rigoroso sopra richiamato, l’interesse a ricorrere deve, nella fattispecie, ritenersi sussistente.
L’interesse a ricorrere non può che essere valutato, infatti, tenendo conto delle peculiarità proprie della materia urbanistica, connotata, come noto, da un ampio margine di discrezionalità esercitabile da parte dell’amministrazione, con la conseguenza che l’utilità derivante dell’accoglimento del ricorso deve essere apprezzata anche sotto il profilo strumentale correlato all’eventuale ulteriore attività dell’amministrazione, dalla quale parte ricorrente potrebbe conseguire un risultato positivo.
Il Collegio evidenzia, altresì, che il bene della vita anelato dalla ricorrente non è né astratto né teorico, dovendosi individuare nella tutela della qualità della vita incisa dalla disponibilità di parcheggi e spazi a verde adeguati, dal contenimento dell’inquinamento acustico e da maggiori servizi, vieppiù significativi in un contesto, quale quello del centro storico del Comune di Motegrotto Terme, rinomato per le proprietà terapeutiche e curative delle acque termali del proprio sottosuolo, sito in prossimità dei Colli Euganei, nel quale la ricorrente gestisce la propria attività turistico- ricettiva con la diretta valorizzazione di tali risorse.
Non può revocarsi in dubbio, del resto, che, sebbene nella rappresentazione della lesione possano emergere apprezzamenti soggettivi legati alla sensibilità del singolo, la sussistenza di standard sufficienti è oggettivamente valutabile e rilevante; la ricorrente, infatti, non si limita a contestare, in sé, l’adozione e l’approvazione dello strumento urbanistico attuativo, ma la scelta operata dall’amministrazione che, attraverso l’impianto complessivo del Piano e, nello specifico, attraverso la cessione della cubatura di aree destinate a piazza, parcheggi e marciapiedi e di un terreno contiguo a quelli in proprietà della controinteressata, ha determinato, nonostante il significativo incremento del carico urbanistico, il mancato reperimento degli standard all’interno dell’area, ricorrendo del tutto irragionevolmente ed immotivatamente alla monetizzazione, in luogo della quale, peraltro, la società attuatrice si è impegnata a realizzare un fabbricato da destinare a spogliatori sportivi da edificare in tutt’altra area, in prossimità ed a servizio della nuova arcostruttura nella frazione di Mezzavia.
Tali circostanze vengono valutate sufficienti ai fini della sussistenza dell’interesse a ricorrere; una diversa opzione, infatti, determinerebbe la totale vanificazione della tutela avverso interventi urbanistici che, attraverso la riqualificazione di un’area, dispiegano un’incidenza che va oltre il perimetro oggetto del piano.
Occorre considerare, altresì, che l’interesse pubblico alla realizzazione del piano di recupero per soddisfare l’esigenza primaria di risanamento di una porzione circoscritta del territorio comunale deve correlarsi e confrontarsi con quello privato a non vedersi spropositatamente sacrificato da scelte opinabili, con la conseguente possibilità del giudice di verificare la sussistenza di quella correlazione conformemente ai principi di correttezza, ragionevolezza, proporzionalità e coerenza.
Ciò in specie considerando la consistenza dell’intervento urbanistico de quo che prevede l’integrale sfruttamento della volumetria massima prevista di 6.800 mc. (pag. 4, terzo capoverso della relazione tecnica illustrativa, all. 4 delle produzioni di parte ricorrente), con sensibile incidenza sugli standard (cfr. pag. 9 della prefata relazione tecnica illustrativa), all’interno del centro storico comunale connotato da una scarsa disponibilità di spazi pubblici e, in specie, di aree a verde; il Piano di Recupero approvato, infatti, lungi dal limitari alla conservazione del tessuto urbano costituito dagli edifici recuperabili, secondo l’accezione originaria di tale strumento attuativo, contempla un intervento complesso di sostituzione dell’esistente.
Alla stregua delle argomentazioni che precedono, dunque, l’eccezione va respinta, sussistendo, nella fattispecie, sia la legittimazione sia l’interesse a ricorrere.
---------------
Il Collegio evidenzia, in primo luogo, che le potenzialità dei Piani di Recupero vanno oltre la riqualificazione del tessuto edilizio esistente e, attraverso tali strumenti attuativi, possono essere realizzate anche delle ristrutturazione urbanistiche.
---------------
Per consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, inoltre, qualora vi sia contrasto tra le indicazioni grafiche del P.R.G. e le prescrizioni normative, sono queste ultime a prevalere, in quanto in sede di interpretazione degli strumenti urbanistici, le risultanze grafiche possono solo chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo ma non possono sovrapporsi o negare quanto risulta da questo (cfr., ex multis, TAR Puglia Bari, sez. III, 13.04.2011, n. 588).
---------------
Il piano di recupero costituisce uno strumento urbanistico sostanzialmente attuativo delle scelte urbanistiche contenute nel piano regolatore generale, destinato al recupero del patrimonio edilizio esistente, senza, tuttavia, implicare incrementi volumetrici tali da determinare un aumento del carico insediativo, come risulta dall’orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa (TAR Lombardia, Brescia, 09.12.2002 n. 2216; TAR Puglia, Bari, sez. II, 19.09.2002, n. 4016; TAR Campania, Napoli, sez. II, 07.10.1997, n. 2468; TAR Lombardia Milano, sez. II, 24.02.1992, n. 145).
Tale strumento ha, dunque, per oggetto la ridefinizione del tessuto urbanistico di un'area ed è caratterizzato dalla specialità dei fini del recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico degradato per mantenere e meglio utilizzare il patrimonio stesso mediante una globalità di interventi edilizi organici integrati con il tessuto urbanistico esistente, nonché con lo sviluppo programmato, attraverso gli strumenti urbanistici generali.
Negli ultimi decenni gli interventi organici di recupero finalizzati al perseguimento di obiettivi di ristrutturazione urbanistica hanno assunto una crescente rilevanza; i piani di recupero, infatti, consentono il perseguimento sia di finalità di recupero del patrimonio edilizio esistente in misura più complessa degli interventi di manutenzione ordinaria e di ristrutturazione edilizia, sia finalità di recupero urbanistico, potendo, nello specifico, prevedere interventi rivolti a sostituire l'esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso, anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale (Cons. St., sez. IV, 29.07.2009, n. 4756).
Da quanto sopra esposto discende, dunque, che, pur dovendosi riconoscere ampie potenzialità alle possibilità di intervento attraverso Piani di Recupero nella ridefinizione del tessuto urbanistico, residuano, comunque, i limiti derivanti dalla connotazione tipica di tale strumento attuativo, connessi alla conservazione e riutilizzazione del patrimonio edilizio esistente, con conseguente esclusione dell’ammissibilità di interventi che possano comportare incrementi volumetrici –specie ove manchi un rapporto di proporzionalità tra le preesistenze da riqualificare ed i nuovi volumi da edificare– per i quali risulta evidentemente più appropriato il ricorso a varianti al piano regolatore generale ovvero a piani particolareggiati speciali dotati del potere di modifica dello strumento urbanistico generale (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 1369 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Risarcimento dei danni per responsabilità precontrattuale della P.A..
Va accolta la domanda di risarcimento dei danni per responsabilità precontrattuale della P.A., avanzata da una ditta concorrente ad una gara per l’affidamento di un appalto, nel caso in cui la stazione appaltante, senza alcuna preventiva comunicazione alle ditte interessate, abbia disposto la revoca in autotutela della procedura di gara, per la sopravvenuta necessità di predisporre un nuovo progetto preliminare, tendente alla ottimizzazione delle risorse pubbliche impegnate, e tale revoca -nonostante che la suddetta necessità fosse conosciuta da molto tempo prima- sia stata adottata a procedura di gara pressoché ultimata (nella specie, quando restava soltanto di dover procedere all’apertura della busta del "prezzo offerto") (1).
---------------
(1) Ha aggiunto la sentenza in rassegna che, nell’ipotesi prospettata, la revoca è stata disposta quando un apprezzabile affidamento dei concorrenti si era già formato, a fronte della tardiva indicazione della necessità della revisione progettuale, con la conseguenza che, da una parte, il comportamento dell’Amministrazione deve ritenersi contrastante con il dovere di correttezza e buona fede ex art. 1337 c.c., che deve permeare i rapporti anche contrattuali con le parti private, e che, dall’altra, deve ritenersi emergente la responsabilità precontrattuale della P.A.
E’ stato ricordato che, secondo la giurisprudenza, nel caso di revoca legittima degli atti della procedura di gara, può sussistere una responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione nel caso di affidamenti suscitati nella impresa dagli atti della procedura ad evidenza pubblica poi rimossi (Cons. Stato, Ad. plen., 05.09.2005, n. 6; V, 30.11.2007, n. 6137; 08.10.2008, n. 4947; 11.05.2009, n. 2882; VI, 17.12.2008, n. 6264) potendo aver confidato l’impresa sulla possibilità di diventare affidataria e, ancor più, in caso di aggiudicazione intervenuta e revocata, sulla disponibilità di un titolo che l’abilitava ad accedere alla stipula del contratto stesso
(Cons. Stato, Ad. plen., n. 6 del 2005) (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.09.2011 n. 5002 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: False dichiarazioni. Inserimento della relativa impresa nel casellario telematico nel caso di falso imputabile.
L’inserimento nel casellario informatico, ai sensi e per gli effetti dell’art. 17, comma 1, lettera m), e dell’art. 27, comma 2, lettere s) e t), del d.P.R. 25.01.2000, n. 34, non può essere disposto solo nel caso di falso non imputabile (1). L’imputabilità, tuttavia, non può ricondursi in via esclusiva al solo caso della diretta ed immediata riconducibilità all’imprenditore della falsa dichiarazione, ma ha portata più ampia, perché -per un’immanente esigenza di tutela dell’affidamento delle amministrazioni pubbliche- si debbono a questi effetti ascrivere tra i fatti sfavorevolmente imputabili anche condotte non uniformate alla diligenza esigibile nel mercato dei pubblici appalti, qual è nel caso di omissione di adeguati controlli in occasione dell’acquisto di un ramo di azienda.
Nel caso di acquisto di ramo di azienda, incombe sull’imprenditore acquirente -che da quel momento diviene attributario delle qualificazioni- l’onere della verifica della veridicità delle preesistenti attestazioni relative al plesso aziendale da lui acquisito e di cui assume, con le utilità, il rischio. Al cessionario d’azienda possono dunque non essere, a questi fini, addebitate false dichiarazioni del cedente solo in caso di comprovata impossibilità di loro conoscenza, seppur in presenza di opportune verifiche effettuate in occasione della cessione, in relazione alle dimensioni dell’impresa e al settore di attività interessato (2).
---------------
(1) Cfr., fra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 04.02.2010, n. 515 e 08.07.2010, n. 4442
Le attestazioni inerenti i lavori effettuati dalle imprese, infatti, costituiscono la base di ufficiali certificazioni sui requisiti di capacità tecnica e finanziaria, che attestano con effetti di affidamento di tutte le amministrazioni la capacità dell’imprenditore rispetto all’oggetto dei contratti pubblici, e che perciò sono necessari per partecipare alle gare indette dalle amministrazioni medesime per realizzare col mezzo di quei contratti opere e lavori pubblici.
(2) Cfr., in senso conforme, Cons. Stato, Sez. II, parere n. 1661/2005 del 25.05.2005, per il quale rimane imputabile all’acquirente la falsità non difficilmente accertabile, ad es. mediante i certificati penali e dei carichi pendenti dei gestori della cedente.
In applicazione del principio nella specie è stata ritenuta legittima l’iscrizione nel casellario giudiziale di una falsa dichiarazione resa dall’acquirente di un ramo di azienda circa la mancanza di risoluzioni contrattuali, dichiarazione smentita dal fatto che in precedenza, nei confronti dell’impresa che aveva ceduto il ramo d’azienda, una P.A. aveva avviato azione di risoluzione, in danno dell’impresa, del contratto di appalto.
E’ stato ritenuto che di tale situazione contenziosa non sembrava illogico ritenere che potesse avere avuto notizia sia l’acquirente del ramo di azienda a circa due mesi di distanza dall’avvio dell’azione di risoluzione, sia l’acquirente successiva, che dell’attestazione contestata intendeva avvalersi ai fini della qualificazione.
In tal caso la dimostrazione della non conoscenza della causa di esclusione spettava quindi all’impresa e non certo all’Autorità di Vigilanza, che aveva ravvisato ragionevoli e concordanti indizi per desumerne l’imputabilità di cui trattasi
(massima tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2011 n. 4997 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl mutamento dei prospetti e della sagoma esterna del fabbricato preesistente), dacché incidenti sulla volumetria e sulla sagoma dell’immobile preesistente, e, quindi, comportanti la realizzazione di un organismo edilizio sostanzialmente diverso per caratteristiche morfologiche e planovolumetriche rispetto al precedente, impediscono di ricondurre le opere alla categoria della ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione, riveniente dall’art. 3, comma 1, lett. d, del d.p.r. n. 380/2001; categoria la quale include la possibilità di ottenere un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, purché, però, la diversità sia dovuta a interventi di ripristino del fabbricato preesistente e all’inserimento al suo interno di nuovi elementi e impianti, e non già alla realizzazione di nuovi volumi e alla modificazione della sagoma precedente.
Affinché possa aversi ristrutturazione previa demolizione, si deve verificare la condizione indispensabile che il nuovo fabbricato risulti sostanzialmente identico nella forma, nell’altezza e nel volume rispetto a quello preesistente, in modo da integrare la fedele ricostruzione.

... Simili difformità (ndr: mutamento dei prospetti e della sagoma esterna del fabbricato preesistente), dacché incidenti sulla volumetria e sulla sagoma dell’immobile preesistente, e, quindi, comportanti la realizzazione di un organismo edilizio sostanzialmente diverso per caratteristiche morfologiche e planovolumetriche rispetto al precedente, impedivano, dunque, di ricondurre le opere eseguite alla categoria della ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione, riveniente dall’art. 3, comma 1, lett. d, del d.p.r. n. 380/2001 (cfr. TAR Milano, sez. II, n. 2107/2010); categoria la quale include la possibilità di ottenere un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, purché, però, la diversità sia dovuta a interventi di ripristino del fabbricato preesistente e all’inserimento al suo interno di nuovi elementi e impianti, e non già alla realizzazione di nuovi volumi e alla modificazione della sagoma precedente (Cons. Stato, sez. IV, n. 1276/2007; n. 5214/2007; n. 1177/2008; TAR Bari, sez. III, n. 5030/2005; TAR Napoli, sez. IV, n. 25190/2010).
In altri termini, affinché potesse aversi ristrutturazione previa demolizione, avrebbe dovuto verificarsi la condizione indispensabile che il nuovo fabbricato risultasse sostanzialmente identico nella forma, nell’altezza e nel volume rispetto a quello preesistente, in modo da integrare la fedele ricostruzione (cfr. TAR Napoli, sez. II, n. 16667/2005; TAR Umbria, n. 476/2005). In mancanza di tale condizione, e ferma restando l’accertata inapplicabilità dell’art. 6.7 delle n.t.a. del p.d.r., la difformità tra l’assentito progetto di ristrutturazione (mediante demolizione e fedele ricostruzione) e il fabbricato realizzato con differente volumetria e sagoma non poteva non qualificarsi totale e, pertanto, assoggettata al regime sanzionatorio di cui all’art. 33 del d.p.r. n. 380/2001
(TAR Campania-Napoli Sez. VIII, sentenza 01.09.2011 n. 4271 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale:
a) quella prevista dall’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004 è una vera e propria sanzione amministrativa, e non una misura riparatorio-risarcitoria;
b) come tale, si concreta in un atto dovuto e prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale;
c) il danno ambientale e il profitto conseguiti rilevano solo come parametri alternativi per la commisurazione del quantum della sanzione.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale il Collegio non intende discostarsi:
a) quella prevista dall’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004 è una vera e propria sanzione amministrativa, e non una misura riparatorio-risarcitoria;
b) come tale, si concreta in un atto dovuto e prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale;
c) il danno ambientale e il profitto conseguiti rilevano solo come parametri alternativi per la commisurazione del quantum della sanzione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 02.06.2000, n. 3184; 08.11.2000, n. 6007; sez. IV, 12.11.2002, n. 6279; sez. VI, 03.04.2003, n. 1729; 15.05.2003, n. 2653; 17.10.2003, n. 6348; sez. IV, 03.11.2003, n. 7047; 25.11.2003, n. 7765; 04.02.2004, n. 395; sez. II; 27.02.2008, n. 1807/2005; sez. II, 09.04.2008, n. 708/2005; sez. IV, 12.03.2009, n. 1464; sez. IV, 14.04.2010, n. 2083; Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 21.09.2010, n. 1221).
In considerazione di ciò, non può reputarsi illegittimo il citato art. 4, comma 1, del d.m. 26.09.1997, nella parte in cui prevede l’applicabilità della sanzione pecuniaria anche in caso di danno ambientale pari a zero. Così come non può reputarsi illegittima, in via consequenziale, la determinazione del Comune di Montesarchio, il quale, a fronte della perizia di stima giurata presentata dalla Compare, declinatoria della richiesta quantificazione della sanzione pecuniaria (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.5), ha, comunque, reputato irrogabile la misura punitiva prevista dall’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004
(TAR Campania-Napoli Sez. VIII, sentenza 01.09.2011 n. 4271 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPossono definirsi varianti in corso d'opera i soli interventi edilizi in lieve difformità dal progetto assentito, che si rendano necessari nel corso dell'edificazione per ragioni tecniche non previste o prevedibili al momento della redazione di esso, mentre non possono ricondursi a tale categoria gli interventi edilizi implicanti una radicale modifica dell’originario progetto di ristrutturazione nel senso della nuova costruzione.
Invero, possono definirsi varianti in corso d'opera i soli interventi edilizi in lieve difformità dal progetto assentito, che si rendano necessari nel corso dell'edificazione per ragioni tecniche non previste o prevedibili al momento della redazione di esso, mentre non possono ricondursi a tale categoria gli interventi edilizi implicanti –come nella fattispecie in esame– una radicale modifica dell’originario progetto di ristrutturazione nel senso della nuova costruzione (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 09.03.2011, n. 642) (TAR Campania-Napoli Sez. VIII, sentenza 01.09.2011 n. 4271 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn applicazione della disposizione dell’art. 11, comma 5, del D.Lgs. 152/2006 (“La V.A.S. costituisce per i piani e programmi cui si applicano le disposizioni del presente decreto, parte integrante del procedimento di adozione ed approvazione. I provvedimenti amministrativi di approvazione adottati senza la previa valutazione ambientale strategica, ove prescritta, sono annullabili per violazione di legge”), l’omessa preventiva sottoposizione a V.A.S. del piano paesaggistico rende illegittimo il provvedimento di adozione.
La Valutazione Ambientale Strategica, introdotta dalla Direttiva 2001/42/CE, è la valutazione delle conseguenze ambientali di piani e programmi, finalizzata all’assunzione -attraverso la valutazione di tutte le possibili alternative pianificatorie- di determinazioni integrate e sistematiche di considerazioni di carattere ambientale, territoriale, sociale ed economico.
La V.A.S. si realizza in fase di elaborazione del piano mediante la redazione di un rapporto ambientale che deve considerare lo stato dell’ambiente attuale del territorio interessato e le sue alterazioni in presenza e non del provvedimento da valutare, confrontato anche con possibili alternative strategiche, localizzative e tecnologiche. L’art. 5 del D.Lgs. 152/2006 recante le definizioni rilevanti ai fini dell’applicazione del codice dell’ambiente afferma che “si intende per (…) piani e programmi: gli atti e provvedimenti di pianificazione e di programmazione, comunque denominati, compresi quelli cofinanziati dalla Comunità' europea, nonché le loro modifiche” (comma 1°, lettera e); il successivo art. 6 dispone: “1. La valutazione ambientale strategica riguarda i piani e i programmi che possono avere impatti significativi sull'ambiente e sul patrimonio culturale.
2. Fatto salvo quanto disposto al comma 3, viene effettuata una valutazione per tutti i piani e i programmi: a) che sono elaborati per la valutazione e gestione della qualità dell'aria ambiente, (…), della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli (…)
"; il comma 4°, inoltre, elenca espressamente i piani e programmi esclusi dal campo di applicazione delle norme del codice dell’ambiente (e quindi anche della V.A.S.), e tra questi non rientrano i piani paesaggistici: il solo dato letterale sarebbe quindi già sufficiente per ritenere il piano in questione sottoposto a V.A.S. E’, in ogni caso determinante la circostanza che la valutazione ambientale strategica, quale strumento di tutela dell’ambiente, va effettuata in tutti i casi in cui i piani abbiano “impatti significativi sull'ambiente e sul patrimonio culturale”.
Invero, contrariamente a quanto sostenuto dalle associazioni ambientaliste, “l’impatto significativo” non è quello caratterizzato da connotazioni negative in termini di alterazioni delle valenze ambientali, ma è quello ricavabile dalla definizione di impatto ambientale contenuto alla lette c) del’art. 5 citato quale “alterazione qualitativa e/o quantitativa, diretta ed indiretta, a breve e a lungo termine, permanente e temporanea, singola e cumulativa, POSITIVA e negativa dell'ambiente, inteso come sistema di relazioni fra i fattori antropici, naturalistici, (…)”, per cui la valutazione ambientale strategica va eseguita in tutti i casi di interazione (anche positiva) tra l’attività pianificatoria e le componenti ambientali.
Del resto, la V.A.S. è solo uno strumento rispetto al fine che è la sostenibilità ambientale delle scelte contenute negli atti di pianificazione ed indirizzo che guidano la trasformazione del territorio. In particolare la valutazione di tipo strategico si propone di verificare che gli obiettivi individuati nei piani siano coerenti con quelli propri dello sviluppo sostenibile, e che le azioni previste nella struttura degli stessi siano idonee al loro raggiungimento. Pertanto, a prescindere dalla qualificazione dell’atto di pianificazione in termini di piano urbanistico-territoriale o di piano paesaggistico, esso va comunque previamente assoggettato a valutazione ambientale strategica.
Infine, la tesi difensiva sostenuta dall’amministrazione regionale secondo la quale il piano in questione non determina alcun impatto significativo sull’ambiente e sul patrimonio culturale essendo “preordinato a dettare un quadro conoscitivo e una normativa di riferimento per l’attività di tutela, eminentemente conservativa de valori paesaggistici, non appare condivisibile alla luce di un provvedimento che è invece imperniato sulla “rivisitazione critica del rapporto tra pianificazione paesistica e governo del territorio”, sul parziale superamento della concezione solo conservativa del paesaggio e sul riconoscimento del paesaggio come risorsa per lo sviluppo (cfr. relazione generale e relazioni tematiche allegate al piano).
Peraltro, ammettere che un piano preordinato alla tutela e allo sviluppo dei valori dell’ambiente del paesaggio (e che quindi necessariamente impone forme di tutela che incidono sull’assetto del territorio) non debba essere preceduto dalla verifica ambientale finirebbe per vanificare la finalità della disciplina sulla VAS e di conseguenza di pregiudicare la corretta applicazione delle norme comunitarie, frustrando così gli scopi perseguiti dalla Comunità Europea con la direttiva 2001/42/CE, come quello di salvaguardia e promozione dello "sviluppo sostenibile", espressamente enunciato all'art. 1 della direttiva.
Per le ragioni che precedono e in applicazione della disposizione dell’art. 11, comma 5° del D.Lgs. 152/2006 (“La V.A.S. costituisce per i piani e programmi cui si applicano le disposizioni del presente decreto, parte integrante del procedimento di adozione ed approvazione. I provvedimenti amministrativi di approvazione adottati senza la previa valutazione ambientale strategica, ove prescritta, sono annullabili per violazione di legge”), l’omessa preventiva sottoposizione a V.A.S. del piano paesaggistico rende illegittimo il provvedimento di adozione impugnato con il ricorso in esame (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 01.09.2011 n. 2147  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACirca la definizione delle opere precarie “la modifica dell’assetto del territorio non richiede la concessione edilizia solo quando sia di minima entità ovvero di carattere precario, così intendendosi le opere, agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea (es. baracca o pista di cantiere, manufatto per una manifestazione…) destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza l’interesse finale”.
Sulla definizione delle opere precarie la Sezione ha avuto modo di precisare che “la modifica dell’assetto del territorio non richiede la concessione edilizia solo quando sia di minima entità ovvero di carattere precario, così intendendosi le opere, agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea (es. baracca o pista di cantiere, manufatto per una manifestazione…) destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza l’interesse finale” (cfr TAR Sardegna, sez. II, 12.02.2010 n. 158).
Per le opere oggettivamente precarie e temporanee è sufficiente, ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lett. m), la semplice autorizzazione edilizia per l’aspetto edilizio e l’autorizzazione paesaggistica ove l’opera ricada in ambito sottoposto a vincolo.
I manufatti realizzati dal ricorrente, essendo totalmente amovibili (come dallo stesso asserito e dal Comune non contestato) potevano ottenere l’autorizzazione edilizia (anche in accertamento di conformità) nei limiti e nella parte in cui potevano essere qualificati come precari in base al principio su riportato.
In particolare potevano ottenere l’autorizzazione, entro i limiti indicati nelle concessioni demaniali, le strutture strettamente funzionali alla balneazione e quindi di ridotte dimensioni e per il solo periodo della stagione balneare (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 01.09.2011 n. 914 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla nozione di "superficie utile" e "volume" ai fini della compatibilità paesaggistica di abusi edilizi.
... Con preavviso di rigetto 20.11.2009 n. 30828, la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le Province di Salerno ed Avellino ha segnalato che le opere realizzate senza autorizzazione e consistenti in:
- un massetto in calcestruzzo antistante il fabbricato;
- un muretto in pietra con soprastante ringhiera in ferro;
- una vasca di raccolta acque, nere e bianche, e di un serbatoio gas;
- una scala di accesso esterna al primo piano;
- una maggiore superficie e volumetria del corpo di fabbrica al piano terra,
non rientrano nei limiti fissati dall’art. 167, comma 4, D.lgs. 22.01.2004 n. 42, in quanto determinano aumento di volumetria e di superficie utile. Le stesse, quindi, non appaiono compatibili con le esigenze di tutela, apportando alterazioni significative allo stato dei luoghi ed incrementando la consistenza e l’impatto del costruito.
Al preavviso, hanno fatto seguito le osservazioni del ricorrente, datate 03.12.2009 e pervenute il giorno successivo, nella quali il medesimo:
a) si è impegnato a demolire sia il massetto in calcestruzzo antistante il fabbricato -eccetto che per una piccola striscia, larga m. 1,5 che sarà rivestita in pietra e fungerà da marciapiede, come da precedenti autorizzazioni recepite nel permesso di costruire-, sia il deposito caldaia, la cui superficie sarebbe stata utilizzata come continuazione del porticato esistente;
b) ha evidenziato che il muretto in pietra con soprastante ringhiera serve a proteggere il corpo di fabbrica, che la vasca di raccolta acque ed il serbatoio gas sono completamente interrati, che la scala di accesso esterna al primo piano è sita sul fronte interno del lotto e quindi non è visibile dall’esterno e che, rispetto al progetto approvato, la maggiore superficie e volumetria del porticato al piano terra è aumentata solo del 7%, passando da mq. 138,74 a mq. 172,82.
Sennonché, con l’impugnato provvedimento 31.12.2009 n. 34360, la Soprintendenza ha comunicato il parere contrario, “perché le opere abusivamente eseguite non rientrano nei limiti fissati dal comma 4 dell’art. 167 del D.lgs. n. 42/2004 e s.m.i. e perché risulta variata la sagoma planivolumetrica del fabbricato preesistente, con ampliamento del relativo volume”, incaricando il comune del conseguente ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
Nella stessa nota, l’autorità emanante ha richiamato il contenuto di un protocollo d’intesa tra il Ministero per i beni e le attività culturali e la Regione Lazio del 18.12.2007, al fine di precisare il significato da attribuire ai termini “superficie utile” e “volume”, alla cui presenza l’accertamento postumo di compatibilità è espressamente vietato, chiarendo che:
- per “superficie utile”, deve intendersi “qualsiasi superficie utile, qualunque sia la sua destinazione; sono ammesse le logge e i balconi, nonché i portici collegati al fabbricato, aperti su tre lati e contenuti entro il 25% dell’area di sedime del fabbricato stesso”;
- per “volume”, deve intendersi “qualsiasi manufatto costruito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto, ad esclusione dei volumi tecnici” e cioè dei vani “adibiti alla sistemazione di impianti aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione”.
Tanto premesso, applicando gli stessi concetti sopra enunciati, deve rilevarsi che:
- il massetto in calcestruzzo non rappresenta una criticità, stante l’impegno del ricorrente di ricondurlo alle funzioni e dimensioni a suo tempo assentite, cui va attribuito valore irrevocabile;
- il muretto in pietra con soprastante ringhiera in ferro non costituisce di per sé opera munita di autonoma superficie utile o di volume;
- la vasca di raccolta acque bianche e nere ed il serbatoio gas rientrano nei volumi tecnici, esclusi dalla nozione ordinaria di volume giacché “adibiti alla sistemazione di impianti aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione”.
Rimangono quindi da verificare la scala di accesso esterna al primo piano ed il porticato, rispetto ai quali parte ricorrente ha illustrato come la prima non risulta visibile dall’esterno e come il secondo varia in aumento, rispetto al progetto approvato, solo del 7%, passando da mq. 138,74 a mq. 172,82.
Orbene, non vi è dubbio che entrambi gli interventi, in quanto eseguiti in aree o su immobili sottoposti a vincolo, restano soggetti all’obbligo di valutazione a fini paesaggistici, anche in sede di rilascio di un titolo edilizio in sanatoria, essendo comunque suscettibili di alterare l’aspetto esteriore del fabbricato (cfr. TAR Sardegna, Sez. II, 24.02.2010, n. 222, riferito proprio alla realizzazione di una scala esterna di accesso al primo piano).
E però, il problema che qui si pone è un altro: se cioè l’apprezzamento della compatibilità paesaggistica delle dette opere sia o meno precluso alla Soprintendenza, in ragione del divieto assoluto posto dagli artt. 167 e 181 del citato D.lgs. n. 42/2004.
A tal proposito, occorre infatti ricordare che la menzionata normativa non esclude la possibilità di accertare ex post la compatibilità paesaggistica di un intervento edilizio eseguito in assenza di autorizzazione paesistica, in quanto il solo elemento a ciò ostativo in via assoluta preso in considerazione dal legislatore è la creazione di superfici utili o di volumi, ovvero l’aumento di quelli legittimamente assentiti, pur con l’esclusione dei lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, ai sensi dell’art. 3 D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 05.05.2010, n. 2665).
In merito, ritiene il collegio che entrambe le opere potevano e dovevano essere considerate dall’autorità statale, ai fini della verifica in concreto della loro compatibilità con le esigenze di tutela del paesaggio.
Quanto al porticato, già ai sensi del protocollo d’intesa del 18.12.2007, assunto dalla Soprintendenza come propria linea d’azione, esso costituisce un’inammissibile superficie utile solo se di dimensione eccedente il 25% dell’area di sedime del fabbricato.
E però, di tale verifica non vi è alcuna menzione nella motivazione.
Lo stesso dicasi per la scala esterna, riguardo alla quale avrebbe dovuto essere effettuata identica valutazione preliminare, stante la sua natura di pertinenza, ossia di opera posta al servizio del fabbricato, volta a renderne più agevole e funzionale l’uso e come tale soggetta a denuncia di nuova opera, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.1) ed e.6), D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 05.07.2007, n. 924).
Si tenga infine presente che il procedimento penale instaurato presso il Tribunale di Vallo della Lucania si è definito con richiesta di archiviazione del 22.02.2010, accolta dal G.I.P. in data 08.04.2010 con contestuale ordine di dissequestro, sulla scorta della seguente motivazione: “nella fattispecie, come emerge dalla consulenza di ufficio e dall’accertamento in sede di conformità urbanistica effettuato dall’ufficio tecnico del comune di Ascea, la mancanza di un apprezzabile ampliamento planivolumetrico del fabbricato in corso di manutenzione esclude in radice che gli abusivismi minori commessi dall’indagato ... possano aver leso le bellezze paesaggistiche ed ambientali o archeologiche” (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 03.05.2011 n. 852 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla necessaria motivazione del parere della Soprintendenza in merito alla verifica della compatibilità paesaggistica di abusi edilizi.
Con il primo motivo (indicato nel ricorso con la lettera A.II), viene censurata la determinazione ministeriale sotto diversi profili.
Il mezzo merita accoglimento.
Innanzi tutto -al di là della circostanza che il parere è stato effettivamente rilasciato dopo la scadenza del termine perentorio di novanta giorni– lo stesso appare viziato per evidente difetto di istruttoria e di motivazione.
In primo luogo appare, infatti, erronea l’affermazione secondo cui l’intervento di cui è causa <<è escluso dall’istruttoria>>; l’Amministrazione, adita con una domanda di autorizzazione c.d. in sanatoria, non può infatti mai esimersi dallo svolgimento dell’istruttoria, che dovrà invece essere sempre svolta, al fine dell’accertamento dei presupposti ai quali la legge subordina il rilascio della sanatoria medesima.
La motivazione del parere è poi effettivamente molto scarna, per non dire insussistente, visto che si limita a ripetere la formula di legge (aumento di volume), senza neppure accertare, come indicato dalla ricorrente, se non si tratti invece di volumi tecnici, come tali esclusi dalla previsione dell’art. 167, comma 4, del D.Lgs. 42/2004 (sulla nozione di “volume tecnico”, si veda TAR Lombardia, Milano, sez. II, 25.03.2008, n. 582).
Il parere impugnato deve, di conseguenza, essere annullato (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 16.02.2009 n. 1309 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAI vincoli che impongono l’indennizzo sono quelli di carattere espropriativo, non quelli di natura meramente conformativa; in un caso, quale quello in esame, in cui il Comune si è limitato a prescrivere per l’area del ricorrente una destinazione di zona senza localizzarvi alcuna futura opera pubblica, versiamo nell’ambito di attività di mera zonizzazione che, in base alla giurisprudenza che si è formata dopo la sentenza Corte Cost. 179/1999, costituisce esercizio di potere conformativo non suscettibile di generare obblighi di indennizzo (da ultimo CdS, IV, 2372/2010: non hanno carattere espropriativo, ma solo conformativo, e perciò non sono soggetti a decadenza ed all'obbligo dell'indennizzo, tutti i vincoli di inedificabilità imposti dal piano regolatore, a qualsivoglia titolo, per ragioni lato sensu ambientali: quindi il vincolo di inedificabilità a tutela di una strada esistente, il vincolo di verde attrezzato, il vincolo d'inedificabilità per un parco e per una zona agricola di pregio, la destinazione a verde, ecc.).
Le scelte effettuate dalla P.A. in sede di formazione ed approvazione dello strumento urbanistico generale sono accompagnate da un’amplissima valutazione discrezionale che, nel merito, appaiono insindacabili e sono, per ciò stesso, attaccabili solo per errori di fatto, ovvero per abnormità e irrazionalità delle stesse. In ragione di tale discrezionalità l’Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate nella predetta sede di pianificazione del territorio comunale, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l'impostazione del piano.
---------------
La classificazione di un’area ad uso agricolo non deve rispondere necessariamente all’esigenza di promuovere l’insediamento di specifiche attività agricole, una siffatta destinazione potendo trovare la sua ragion d’essere nella discrezionale volontà dell’amministrazione locale di sottrarre parte del territorio comunale a nuove edificazioni. Così, la destinazione di piano regolatore a verde agricolo di un’area ben può essere funzionale all’esigenza di conservazione dei valori naturalistici e di contenimento del fenomeno di espansione edilizia, di per sé idoneo, quest’ultimo, a compromettere i valori paesaggistici della zona.
Di qui il carattere non nemmeno abnorme né irrazionale della scelta di classificare l’area dell’appellante come agricola boscata, in linea con gli obiettivi dell’amministrazione di assicurare all’ambiente naturale dei luoghi in questione, quale bene pubblico di rango costituzionale una più adeguata tutela; e ciò a maggior ragione allorché i luoghi siano già contrassegnati da fenomeni di significativa urbanizzazione.

I vincoli che impongono l’indennizzo sono quelli di carattere espropriativo, non quelli di natura meramente conformativa; in un caso, quale quello in esame, in cui il Comune si è limitato a prescrivere per l’area del ricorrente una destinazione di zona senza localizzarvi alcuna futura opera pubblica, versiamo nell’ambito di attività di mera zonizzazione che, in base alla giurisprudenza che si è formata dopo la sentenza Corte Cost. 179/1999, costituisce esercizio di potere conformativo non suscettibile di generare obblighi di indennizzo (da ultimo CdS, IV, 2372/2010: non hanno carattere espropriativo, ma solo conformativo, e perciò non sono soggetti a decadenza ed all'obbligo dell'indennizzo, tutti i vincoli di inedificabilità imposti dal piano regolatore, a qualsivoglia titolo, per ragioni lato sensu ambientali: quindi il vincolo di inedificabilità a tutela di una strada esistente, il vincolo di verde attrezzato, il vincolo d'inedificabilità per un parco e per una zona agricola di pregio, la destinazione a verde, ecc.).
E' noto che, per giurisprudenza straripante, “le scelte effettuate dalla P.A. in sede di formazione ed approvazione dello strumento urbanistico generale sono accompagnate da un’amplissima valutazione discrezionale che, nel merito, appaiono insindacabili e sono, per ciò stesso, attaccabili solo per errori di fatto, ovvero per abnormità e irrazionalità delle stesse. In ragione di tale discrezionalità l’Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate nella predetta sede di pianificazione del territorio comunale, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l'impostazione del piano” (CdS, IV, 18.01.2011, n. 352).
Ed è noto altresì, anche qui per giurisprudenza straripante, che “la classificazione di un’area ad uso agricolo non deve rispondere necessariamente all’esigenza di promuovere l’insediamento di specifiche attività agricole, una siffatta destinazione potendo trovare la sua ragion d’essere nella discrezionale volontà dell’amministrazione locale di sottrarre parte del territorio comunale a nuove edificazioni. Così, la destinazione di piano regolatore a verde agricolo di un’area ben può essere funzionale all’esigenza di conservazione dei valori naturalistici e di contenimento del fenomeno di espansione edilizia, di per sé idoneo, quest’ultimo, a compromettere i valori paesaggistici della zona. Di qui il carattere non nemmeno abnorme né irrazionale della scelta di classificare l’area dell’appellante come agricola boscata, in linea con gli obiettivi dell’amministrazione di assicurare all’ambiente naturale dei luoghi in questione, quale bene pubblico di rango costituzionale (cfr. Cass. Sez. III, 10/10/2008 n. 25010) una più adeguata tutela; e ciò a maggior ragione allorché i luoghi siano già contrassegnati da fenomeni di significativa urbanizzazione” (sempre CdS, IV, 18.01.2011, n. 352)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.02.2011 n. 281 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 20.10.2011

ã

DOTTRINA E CONTRIBUTI

URBANISTICA: M. Viviani, La competenza della Giunta comunale nel procedimento di approvazione dei piani attuativi conformi allo strumento urbanistico.
---------------
Ringraziamo l'Avv. Mario Viviani per l'utile contributo ricevuto che pone chiarezza in merito al soggetto competente (Giunta o Consiglio Comunale) ad approvare i piani attuativi conformi allo strumento urbanistico a seguito di quanto dispone l’art. 5 del D.L. 13.05.2011 n. 70, convertito dalla L. 12.07.2011 n. 106 entrata in vigore il 13.07.2011.
20.10.2011 - LA SEGRETERIA PTPL

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Caringella, Architettura e tutela dell’interesse legittimo dopo il codice del processo amministrativo: verso il futuro! (link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: A. Pozzi, La contrattazione collettiva nel pubblico impiego tra illusioni e delusioni. Dalla legge 421/1992 al d.l. n. 138/2011 (link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: C. Volpe, Appalti pubblici e servizi pubblici. Dall’art. 23-bis al decreto legge manovra di agosto 2011 attraverso il referendum: l’attuale quadro normativo (link a www.giustizia-amministrativa.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Buoni pasto e Faverin "il serio" (CGIL-FP di Bergamo, nota 18.10.2011).

PUBBLICO IMPIEGO: Manovra-bis: la liquidazione del TFS/TFR tramite l'Inpdap (CGIL-FP di Bergamo, nota 17.10.2011).

UTILITA'

ENTI LOCALI - VARI: Nuovo Decreto Sviluppo: ecco il testo in anteprima (bozza aggiornata al 18.10.2011).
Pubblichiamo in anteprima il testo del nuovo Decreto Sviluppo. Si tratta di una bozza aggiornata, predisposta ieri dal Governo, ancora in fase di sistemazione (link a www.leggioggi.it).

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

Dall'aggiornamento odierno, apriamo questa nuova rubrica dal titolo "dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO".
Tutti coloro che intendono portare il proprio contributo circa le materie trattate su questo portale sono i benvenuti e gradito sarà pubblicare le loro opinioni/riflessioni/considerazioni/critiche purché strutturate in un linguaggio consono e non foriero di denunce penali.
Tuttavia, la pubblicazione sarà curata ad insindacabile giudizio della SEGRETERIA PTPL, senza che il mittente possa accampare diritti/recriminazioni di sorta.
I contributi che perverranno (da inviare all'indirizzo: info.ptpl@tiscali.it) dovranno essere predisposti in formato Word
oppure come testo di scrittura nella e-mail di invio e dovranno essere firmati e riconoscibili (quelli anonimi saranno cestinati).
Grazie in anticipo a tutti coloro che vorranno contribuire ad accrescere la dialettica su questo portale.
20.10.2011 - LA SEGRETERIA PTPL

EDILIZIA PRIVATA: Sull'esistenza -o meno- della SCIA in Lombardia.
Spettabile Redazione sito PTPL,
leggo sulla ‘home page’ del giorno 17 ottobre 2011 un contributo dell’ Avvocato Mauro Fiorona dal titolo “
I TITOLI ABILITATIVI NEL TU EDILIZIA E NELLA DISCIPLINA URBANISTICA REGIONALE: SCHEDE ESEMPLIFICATIVE - (aggiornamento a ottobre 2011)
.

Vorrei fare una notazione sull’ istituto della “SCIA – segnalazione certificata inizio attività” considerato -dall’Avvocato Fiorona- come istituto ammesso in Regione Lombardia.

A mio giudizio, invece, ritengo tale istituto (... continua cliccando qui) (17.10.2011 - roberto pagliaro - responsabile UT comune del bergamasco).

APPALTI: Sulla stazione unica appaltante.

Spettabile Redazione sito PTPL,

leggo sulla ‘home page’ del giorno 17 ottobre 2011 la lettera-circolare 05.10.2011 n. 11001/119/7/22  in merito alla STAZIONE UNICA APPALTANTE (DPCM 30 GIUGNO 2011 in GU n. 200 del 29.08.2011 avente per oggetto “Stazione Unica Appaltante, in attuazione dell’art.13 della legge 13 agosto 2010, n.136 – Piano straordinario contro le mafie”).

Con l’istituzione della S.U.A. per il Tecnico comunale finisce un incubo.

La S.U.A. dovrebbe gestire, perlomeno a livello regionale, tutto il procedimento (... continua cliccando qui) (17.10.2011 - roberto pagliaro - responsabile UT comune del bergamasco).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ATTI AMMINISTRATIVI: ISTRUZIONI SULL’APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA IN MATERIA DI CONTRIBUTO UNIFICATO NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO (circolare 18.10.2011 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPermessi al padre con moglie casalinga.
Anche il padre può fruire dei riposi giornalieri previsti dall'articolo 40 del Testo Unico sulla maternità (decreto legislativo 151/2001) nell'ipotesi di madre casalinga.
Con la nota operativa 13.10.2011 n. 23, infatti, l'Inpdap afferma che, sulla scia dell'interpretazione estensiva che scaturisce dagli indirizzi giurisprudenziali (si veda la sentenza del Consiglio di Stato 4293/2008), è possibile riconoscere al lavoratore padre il diritto a fruire dei riposi giornalieri anche nell'ipotesi in cui la madre svolga lavoro casalingo. L'ente di previdenza chiarisce che, trattandosi di permessi retribuiti, la fruizione degli stessi non ha alcuna incidenza ai fini dell'obbligo di versamento contributivo, che rimane immutato.
Con lettera circolare 8494/2009 il ministero del Lavoro, nell'intento di fare chiarezza, si è espresso in senso favorevole al riconoscimento dei riposi in capo al padre in tutte le ipotesi in cui l'altro genitore sia impegnato in attività lavorative che lo distolgono dall'assolvimento di tale compito. In quell'occasione il ministero ha richiamato la sentenza della Cassazione 20324/2005.
Il padre dipendente potrà quindi fruire dei riposi entro il primo anno di vita del bambino o entro il primo anno dall'ingresso in famiglia del minore adottato o affidato, in presenza di determinate condizioni opportunamente documentate (madre impegnata in accertamenti sanitari, cure mediche, concorsi pubblici eccetera) e, comunque, dal giorno successivo alla scadenza del congedo di maternità.
In caso di parto plurimo è concesso al padre -nell'ipotesi di madre casalinga- il raddoppio dei riposi e le ore aggiuntive possono essere utilizzate dal padre stesso anche durante i tre mesi dopo il parto. Le ore di riposo giornaliero non fruite giornalmente, come di consueto, non potranno essere fruite successivamente (articolo Il Sole 24 Ore del 18.10.2011).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Lavori pubblici, l'Authority si consulta. Varato il regolamento.
Disciplinate le modalità di svolgimento delle consultazioni volte all'adozione di atti regolatori di competenza dell'Autorità, quali determinazioni, atti di segnalazione, bandi tipo e linee guida, e delle audizioni periodiche degli operatori del mercato.
L'Autorità, al fine di migliorare la qualità dei propri atti regolatori e valutarne preventivamente l'impatto sul mercato, utilizza, ove ritenuto opportuno, metodi di consultazione preventiva, consistenti nel dare notizia del progetto di atto e nel consentire agli interessati di far pervenire i propri suggerimenti e le proprie proposte, considerazioni e osservazioni, mediante audizioni, consultazioni on-line, tavoli tecnici.
Su espressa indicazione del Consiglio può essere altresì avviata una consultazione finalizzata all'acquisizione, da parte di tutti i soggetti a qualunque titolo interessati, di osservazioni formulate attraverso la compilazione di un modulo appositamente predisposto e disponibile on-line.
L'Autorità convoca, con cadenza di norma annuale, i rappresentanti delle associazioni delle imprese e delle stazioni appaltanti, in audizione congiunta o in audizioni separate, ai fini della discussione e dell'informazione su questioni e proposte particolarmente rilevanti concernenti la disciplina ed il mercato dei contratti pubblici.
Alle audizioni possono partecipare i soggetti portatori sia di interessi pubblici e privati, sia di interessi collettivi e diffusi, che l'Autorità ritiene opportuno ascoltare e consultare con riferimento agli argomenti posti all'ordine del giorno.
(commento tratto da www.ipsoa.it - Regolamento-Disciplina della partecipazione ai procedimenti di regolazione dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 10.10.2011 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALISocietà strumentali, calcoli a metà. Ai fini del rapporto solo gli oneri per dipendenti si sommano a quelli del Comune -
IL PRINCIPIO - Le risorse sono erogate dallo stesso ente per cui la mancata esclusione determinerebbe un raddoppio del denominatore.

Nessuna operazione sul denominatore deve essere effettuata nel caso in cui l'ente provveda a consolidare, ai soli fini del calcolo dell'incidenza della spesa di personale su quella corrente, i conti delle proprie società strumentali.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Toscana, nel parere 10.10.2011 n. 208 si concentra sui nuovi limiti alla spesa di personale, rinviando peraltro l'intera questione anche alle Sezioni riunite vista la delicatezza del tema.
Secondo i magistrati toscani, il consolidamento fra le spese del Comune e quelle delle società strumentali deve essere operato esclusivamente al numeratore del rapporto (spesa di personale) e non anche in riferimento alle uscite correnti rappresentate al denominatore.
Ciò sul presupposto, sostengono i magistrati contabili, che la spesa corrente della società è erogata dall'ente stesso e pertanto non può essere computata due volte.
Diverso è invece il caso delle altre società (i cui ricavi derivano anche da altri soggetti), nei confronti delle quali non può prescindersi dal valutare la quota erogata dall'ente in virtù di contratto di servizio o per altro titolo; in questo caso occorre pertanto sommare alla spesa (corrente) del comune la sola spesa corrente societaria che supera tale importo, rimodulata in proporzione alla partecipazione detenuta, per non conteggiare due volte la stessa cifra.
Al fine di evitare facili elusioni della norma, anche l'intero costo retributivo dovrà essere parametrato alla percentuale di partecipazione, sebbene tale criterio non corrisponda pienamente all'impiego effettivo di personale a beneficio dell'ente.
In alternativa a quest'ultima soluzione, in riferimento alle società partecipate da più enti per i quali esse svolgono servizi soggetti a tariffazione, il consolidamento dei bilanci secondo il metodo Ipsas 8 suggerisce il metodo proporzionale; questo richiede di sommare ogni singola voce dello stato patrimoniale e del conto economico della partecipante con le quote delle rispettive voci dell'organismo sottoposto a controllo congiunto.
La maggiore analiticità informativa che ne deriva impone la strutturazione, all'interno del gruppo, di una contabilità analitica in grado di evidenziare, verosimilmente, il costo dei servizi erogati a beneficio dei vari enti ed il connesso impiego di risorse umane, finanziarie e strumentali.
L'articolo 20, comma 9, del Dl 98/2011 stabilisce che, ai fini del computo della percentuale in questione, si calcolano le spese sostenute anche dalle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che sono titolari di affidamento diretto di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgono funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale, né commerciale, ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica.
La Corte, in riferimento alla locuzione società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo individua il perimetro di consolidamento prospettando due diverse soluzioni interpretative. Secondo una lettura restrittiva della norma, il riferimento sembrerebbe operarsi nei confronti di partecipazioni configuranti un controllo di diritto (maggioranza del capitale) e non anche un controllo di fatto (influenza dominante) o contrattuale, che potrebbe risultare di difficile individuazione e prestarsi a pratiche elusive delle finalità del legislatore.
Una diversa soluzione potrebbe invece essere legata ad un concetto di controllo mutuato dalla regolamentazione in tema di bilancio consolidato dettata dai principi contabili dell'Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali, secondo cui l'ente locale ha, direttamente o indirettamente, il possesso dei voti esercitabili in assemblea, o rilevanti poteri di nomina sui membri del consiglio di gestione o altro organo direttivo o ancora esercita la maggioranza dei diritti di voto (articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2011 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Dismissione immobili, quando il Comune può iscriverla a bilancio. Insufficiente la stipula del preliminare.
Per accertare un'entrata è necessaria la sussistenza di un idoneo titolo giuridico che, in riferimento alle entrate patrimoniali, si realizza a seguito dell'acquisizione diretta del bene. In caso di alienazione di bene immobile, quindi, la certezza dell'entrata si ha solo in presenza del titolo che ne attesti la compravendita, non essendo sufficiente il preliminare di vendita dal quale si acquisisce solo il diritto a portare a termine l'operazione.
Con il parere che si presenta, il giudice dei conti si pronuncia, tra l'altro, a proposito del titolo necessario (contratto di compravendita piuttosto che compromesso/preliminare di vendita) per iscrivere nel bilancio di previsione del Comune l'accertamento dell'entrata connesso a un'alienazione di beni immobili.
Giova preliminarmente ricordare che l'art. 179 D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (che corrisponde agli artt. 21, 22 e 23, D.Lgs. 25.02.1995, n. 77, ora abrogati), definisce l'accertamento come la prima delle tre "fasi" attraverso le quali passano le entrate comunali (accertamento, riscossione, versamento).
Infatti, l'entrata è accertata allorché nasce per l'ente il diritto a riscuotere (è ininfluente il momento in cui, materialmente, si realizza l'entrata in numerario, facendo parte tale fattispecie dalla gestione di cassa che, a legislazione vigente, non è rilevata dal bilancio di previsione del Comune).
In altri termini, si ha l'accertamento di un'entrata quando, sulla base d'idonea documentazione, è verificata la ragione del credito e la sussistenza d'idoneo titolo giuridico; è individuato il debitore; è quantificata la somma da riscuotere e, infine, è stabilita la relativa scadenza.
Attraverso l'accertamento, dunque, è avviato il processo d'acquisizione delle risorse, poiché esso è l'atto formale di gestione che evidenzia il credito dell'Amministrazione, il soggetto debitore e l'importo del credito che viene a scadere.
Conseguentemente, gli elementi necessari dell'accertamento sono:
- la ragione del credito;
- la sussistenza di un idoneo titolo giuridico;
- la quantificazione della somma da incassare;
- la fissazione della scadenza di pagamento.
La verifica della sussistente ragione del credito riassume in sé tutti i punti successivi, e di fatto annulla la possibilità di registrare accertamenti di massima, con gli intuibili effetti distorsivi sugli equilibri e sui risultati della gestione.
Tale operazione non consente alcuna componente discrezionale, ma rappresenta una semplice presa d'atto, che prescinde dalla stima delle risorse da acquisire; l'entrata che è accertata, pertanto, è un'entrata certa, in relazione al livello di possibilità che si verifichi.
Si può pertanto affermare che l'accertamento misura il grado dell'affidamento della relativa entrata, non avendo efficacia costitutiva, ma solo dichiarativa, poiché non traccia ex novo una situazione giuridica, ma la rende incontestabile secondo l'ordinamento.
La disciplina pubblicistica sull'accertamento delle entrate degli enti locali è del tutto analoga a quella prevista dalla normativa civilistica che afferisce alle società commerciali; in particolare:
- la precisazione della definizione di accertamento è tesa a far corrispondere tale istituto giuscontabile al concetto di credito verso terzi;
- l'accertamento rileva la situazione finanziaria attiva dell'ente mediante un'annotazione nelle scritture contabili e, analogamente a una società, il bilancio di previsione di entrata rappresenta sostanzialmente un piano dei conti su cui sono registrate le scritturazioni contabili.
Per concludere, l'accertamento:
- rileva una posizione finanziaria creditoria;
- non determina il limite quantitativo delle fasi successive (riscossione/versamento), né di quella antecedente (previsione), ma solo fornisce il presupposto per le successive rilevazioni; a differenza dell'impegno di spesa, infatti, non rappresenta il limite massimo per la sua traduzione in numerario, atteso che non è possibile dare corso al pagamento di spese non impegnate, mentre è doveroso riscuotere entrate seppure non accertate;
- inoltre, il carattere autorizzatorio degli stanziamenti previsionali del bilancio, attiene unicamente alla parte spesa: mentre è legittimo procedere all'accertamento d'entrate non previste, non è mai possibile l'impegno di spese il cui stanziamento non è iscritto a bilancio;
- nell'ipotesi di entrata a destinazione vincolata, condiziona l'assunzione dell'impegno, ai sensi dell'art. 183, comma 5, D.Lgs. n. 267 del 2000.
L'insieme dei provvedimenti che costituiscono presupposto sufficiente per l'accertamento è alquanto eterogeneo; tuttavia, quanto all'accertamento derivante dalla vendita di beni immobili, la Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, con il parere 21.09.2011 n. 203, ne chiarisce gli elementi fondanti.
In particolare, il magistrato richiama il principio contabile n. 2/16, il quale prevede che "L'accertamento avviene sulla base del principio della competenza finanziaria secondo il quale un'entrata è accertabile nell'esercizio finanziario in cui è sorto il diritto di credito e quest'ultimo sia connotato dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità.
Un credito è certo in presenza di un idoneo titolo giuridico in cui esso trova fondamento; è liquido se ne è determinato l'ammontare; è esigibile se maturato nell'esercizio
.".
In caso di alienazione di bene immobile (ad esempio un terreno, un appartamento ecc.), quindi, la certezza dell'entrata si ha solo in presenza del titolo che ne attesti la compravendita, atteso che, in questi casi, il legislatore impone l'applicazione di alcune regole volte a tutelare in modo più intenso la certezza dei traffici giuridici che riguardano siffatti beni, avendo gli stessi, generalmente, un valore economico rilevante; in tali circostanze, infatti, il contratto dev'essere redatto in forma scritta ad substantiam, ossia a pena di nullità, nonché essere trascritto negli appositi registri immobiliari, a titolo di pubblicità.
Per registrare a bilancio l'accertamento, dunque, non è sufficiente il compromesso (o preliminare di vendita) dal quale si acquisisce solo il diritto (giuridicamente inteso) a portare a termine l'operazione, stabilendone modalità e termini in un contratto, e che serve a impegnare le parti per il tempo necessario a risolvere eventuali problemi che non consentono la vendita immediata; ciò, ancorché si tratti di una promessa di vendita trascritta presso la competente conservatoria di registri immobiliari: infatti, mentre è chiaro come il contratto preliminare rappresenti solamente l'antecedente logico-giuridico del futuro contratto definitivo d'acquisto tra lo stesso promittente e promissario, atteso che lo stesso non produce effetti reali, vale a dire che col compromesso non si entra in proprietà del bene e che solo col contratto definitivo si avranno un venditore ed un compratore, la pubblicità assicurata dalla trascrizione del compromesso evita che lo stesso immobile possa promettersi in vendita a più persone, per cui il contratto definitivo non potrà che avvenire tra gli stessi soggetti del compromesso medesimo.
Per completezza, infatti, e per supportare, ove occorresse, il pronunciamento della Corte, va ricordato che, tuttavia, qualora una delle parti si rifiutasse di stipulare il contratto definitivo, senza giustificato motivo, l'ordinamento riconosce alla parte non inadempiente specifici strumenti a tutela dei propri diritti:
- rivolgersi al giudice e ottenere una sentenza sostitutiva del rogito definitivo (esecuzione in forma specifica);
- richiedere, sempre al giudice, la risoluzione del contratto nonché il risarcimento del danno subito;
- se nel contratto preliminare è prevista una caparra confirmatoria, richiedere il recesso dal contratto e avvalersi della caparra, trattenendola o esigendone il doppio; se ci si avvale della caparra confirmatoria, peraltro, non si potrà agire per ottenere il risarcimento dei maggiori danni, atteso che i due rimedi, per orientamento giurisprudenziale, non sono cumulabili (commento tratto da www.ipsoa.it).

ENTI LOCALIIl conto terzi è fuori dalla spesa media.
Con la deliberazione 21.09.2011 n. 203, la Sez. controllo della Corte dei Conti della Toscana ha affrontato un argomento complesso e interessante.
Il Comune richiedente, oltre ad avere violato il patto di stabilità 2010, aveva imputato nei precedenti esercizi quote di spese correnti ai servizi in conto terzi. Il quesito verteva sulla possibilità, ai fini dell'applicazione della sanzione di cui all'articolo 7, comma 2, del Dlgs 149/2011, di computare, nel calcolo della media triennale di spesa corrente, oltre agli impegni riportati nel rendiconto, anche quelli allocati in conto terzi che, invece, avrebbero dovuto trovare collocazione al titolo I.
La sezione sul punto è stata lapidaria, stabilendo che, a fronte dell'errata contabilizzazione di spese correnti nei servizi in conto terzi, è «contrario a regole di sana gestione, nonché di corretta contabilizzazione anche agli effetti degli equilibri fondamentali di bilancio, calcolare nell'ambito della spesa media del triennio al fine di determinare il volume della medesima, la quota impropriamente imputata ai servizi per conto di terzi, soprattutto se la stessa non è dotata di adeguata copertura finanziaria».
Non è possibile, dunque, calcolare ora per allora la media triennale della spesa corrente degli esercizi precedenti, aggiungendovi la quota di spese in conto terzi che, in caso di corretta gestione, sarebbe dovuta confluire nel titolo I. L'operazione, difatti, richiederebbe la riapprovazione dei bilanci pregressi, il ricalcolo degli obiettivi del patto, la rielaborazione dei rendiconti e delle certificazioni.
Dalla pronuncia si ricava come non sia lecito beneficiare, a livello di sanzioni, di pregressi artifici contabili, grazie a una rielaborazione che faccia rientrare fra le spese finali rilevanti per il patto quelle artatamente allocate in conto terzi. La scelta appare equa, poiché non sembra logico favorire, a parità di spesa rilevante, un ente che abbia alterato i conti rispetto a uno che, pur avendo violato il patto, li abbia esposti in modo veritiero.
Dopo questa pronuncia, sarà interessante conoscere la soluzione della questione concernente la determinazione del saldo obiettivo in situazioni simili, vale a dire di alterazioni di bilancio che abbiano determinato una minore spesa corrente impegnata al titolo I rispetto a quella realmente sostenuta. In questo caso, infatti, la mera considerazione dei dati contabili non riclassificati porterebbe, stanti le regole attuali, al miglioramento del saldo obiettivo, con un'agevolazione, di certo non equa, in favore dell'ente che abbia manipolato i bilanci rispetto ad uno che, a parità di condizione finanziaria sostanziale, abbia fornito dati veritieri. Il tema potrebbe essere non solo dottrinale, viste le attuali tensioni nell'ambito della finanza locale.
Un inciso, infine, sui risvolti di simili episodi in termini di finanza pubblica allargata. L'imputazione di spese nei servizi in conto terzi, al pari dei debiti fuori bilancio, oltre a violare palesemente le regole del Tuel, può causare anche un'alterazione, di pari importo, dei conti pubblici complessivi. In base alle regole del Sec95, difatti, l'allocazione in conto terzi fa sì che la spesa, spesso priva di copertura finanziaria a causa dell'inesistenza sul piano sostanziale della correlata entrata, sfugga alle procedure di consolidamento dei conti nazionali in termini di indebitamento netto. Per questo, non si può che richiamare gli operatori alla massima prudenza (articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2011 - link a www.corteconti.it).

LAVORI PUBBLICIIl leasing dipende dal peso del rischio.
La
delibera 16.09.2011 n. 49 della Corte dei Conti a Sezz. riunite arriva dopo alcune pronunce delle sezioni regionali che già avevano "messo in allerta" le amministrazioni rispetto all'utilizzo del leasing immobiliare per spostare un indebitamento sulla parte corrente del bilancio (82/2010 Piemonte; 14/2011 Marche; 352/2011 Veneto). In realtà, dai bandi pubblicati era abbastanza evidente che si trattava in maggioranza di operazioni che nascondevano o chiamavano in diverso modo il finanziamento di un appalto tradizionale: contratti separati (leasing e appalto), rischi prevalentemente a carico dell'amministrazione.
Se il rischio di costruzione risulta spesso trasferito con il contratto chiavi in mano, che subordina il pagamento al collaudo dell'opera, altri tendono a rimanere a carico dell'amministrazione, esattamente come in operazioni tradizionali.
Il parere della Corte dei conti gioca un ruolo molto importante, con riferimento a due situazioni. Da un lato si lancia la sfida per la strutturazione di operazioni di Ppp (partenariato pubblico privato) come contratti capaci di rispondere alle esigenze di sviluppo di opere pubbliche e infrastrutture secondo standard di qualità, allocando i rischi in modo responsabile tra le parti in gioco (pubbliche e private) in base al principio del know how. Dall'altro lato, il parere della Corte dei conti inizia a sancire un concetto molto importante di "neutralità contabile" tra leasing e mutuo. Questo può rafforzare ulteriormente il Ppp: si dovrebbe scegliere questa tipologia di contratti perché veramente in grado di generare un valore aggiunto, non solo di breve termine e di tipo contabile.
I pareri non devono comunque, nel caso delle opere cosiddette fredde, far spostare ora le amministrazioni verso operazioni di project finance, il cui costo è ben più alto di quello di un contratto tradizionale o di leasing e, in buona sostanza, si potrebbe configurare anch'esso come debito. Rimane aperta la questione sviluppo e finanziamento delle opere pubbliche e infrastrutture, rispetto a cui servirebbero una politica chiara, modelli di finanziamento adeguati e, soprattutto, competenze diffuse e un patto trasparente e collaborativo tra amministrazioni, finanziatori (banche e fondi di equity) e costruttori (articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2011 - link a www.corteconti.it).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLEGGE DI STABILITÀ/ P.a., vincoli limati sul personale. Assunzioni col tetto solo su impiegati a tempo indeterminato. Smentite nel ddl le interpretazioni prospettate dalla Corte dei conti.
Il tetto alle assunzioni per gli enti soggetti al patto, pari al 20% del costo del personale cessato l'anno precedente, si applica solo ai dipendenti a tempo indeterminato.
È il disegno di legge di stabilità per il 2012, approvato dal consiglio dei ministri venerdì scorso, a chiarire l'interpretazione corretta dell'articolo 14, comma 9, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010, smentendo in modo piuttosto aperto la deliberazione della Corte dei conti, Sezioni Riunite 46/2011.
Come si ricorda, le Sezioni Riunite hanno ritenuto che il tetto di spesa debba valere per qualsiasi tipo di assunzione e contratto, ivi comprese, dunque, le assunzioni flessibili.
Molte sono le perplessità che ha destato la conclusione della magistratura contabile: la principale tra esse la considerazione evidente che il legislatore abbia inteso ridurre la spesa fissa e continuativa del personale, ma non quella connessa ad esigenze flessibili, per sua natura variabile nel tempo e, dunque, inidonea ad un tetto di spesa come quello del 20% del costo delle cessazioni.
Il disegno di legge di stabilità conferma che l'intenzione del legislatore era ben diversa da quanto hanno ritenuto le Sezioni Riunite. E chiarisce la portata della disciplina del tetto di spesa apportando due modifiche all'impianto della manovra del 2010.
Il primo intervento è una novellazione dell'articolo 76, comma 7, della legge 133/2008, (oggetto della norma contenuta nell'articolo 14, comma 9, del dl 78/2020) aggiungendovi la precisazione che gli enti soggetti al patto (i «restanti enti») possono procedere ad assunzioni di personale «a tempo indeterminato». Il nuovo testo dell'articolo 76, comma 7, della legge 133/2008, pertanto, conterrà espressamente la limitazione del meccanismo del tetto della spesa ai soli contratti a tempo indeterminato.
In secondo luogo il disegno di legge di stabilità modifica anche l'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010, così da precisare che il contenimento della spesa per personale flessibile, pari al 50% di quella del 2009 per le amministrazioni statali, valga solo come principio anche per gli enti locali.
A ben vedere, della novellazione dell'articolo 9, comma 28, della legge 122/2010 non c'era bisogno. Lo stesso concetto, ovvero che la riduzione del costo del personale flessibile costituisca un principio generale, finalizzato a ridurre il costo complessivo del personale, è espresso dall'articolo 1, comma 557, lettera a), della legge 296/2006, come novellato dall'articolo 14, comma 7, della legge 122/2010.
In ogni caso, la novellazione dell'articolo 9, comma 28, della legge 122/2010 chiarisce che il contenimento della spesa per il lavoro flessibile, per quanto autonomamente definibile da ciascun ente, deve essere sostanzioso. Gli enti locali non saranno obbligati a ridurlo né del 20% del costo delle cessazioni dell'anno precedente, né del 50% del costo affrontato a questo titolo nel 2009, ma dovranno abbatterlo in modo significativo, così da rispettare i principi normativamente posti. Senza, tuttavia, le commistioni tra misure di contenimento del lavoro a tempo indeterminato e di diminuzione della spesa del personale flessibile che avrebbe causato la delibera 46/2011 delle Sezioni Riunite (articolo ItaliaOggi del 18.10.2011 - link a www.corteconti.it).

SEGRETARI COMUNALIStipendi dei segretari, galleggiamento limitato.
Limitato il «galleggiamento» dello stipendio dei segretari comunali e provinciali.
Il ddl di stabilità per il 2012 interviene sul controverso istituto regolato dall'articolo 41, commi 4 e 5, del Ccnl 16.05.2011, allo scopo di contenerne gli effetti finanziari distorsivi e di superare i problemi posti da alcune sentenze dei giudici del lavoro.
La «clausola del galleggiamento» ha lo scopo di perequare la retribuzione di posizione dei segretari a quella del dipendente di ruolo meglio retribuito. La relazione tecnica allegata al ddl rileva che in molti casi, dalle verifiche ispettive, è emerso che l'istituto è stato applicato in modo distorto. Tra i tanti problemi posti, quello di capire se nella retribuzione di posizione del segretario dovesse comprendersi o meno l'incremento consentito dall'articolo 41, comma 4, del Ccnl 16.05.2011, dovuto all'attribuzione di «incarichi ulteriori». Molti enti hanno apportato alla retribuzione di posizione sia detto incremento per incarichi ulteriori, sia il galleggiamento, senza assorbire nel galleggiamento stesso l'incremento contrattuale.
La Ragioneria generale dello Stato e l'Aran si sono espressi in senso totalmente opposto. Tuttavia, nell'ambito dell'ampio contenzioso giudiziale emerso, la giurisprudenza di merito, in primo grado, si è orientata nel senso maggiormente favorevole ai segretari, causando con ciò «effetti onerosi per i bilanci degli enti e quindi per la finanza pubblica», come sottolinea la relazione tecnica al ddl.
Per tale ragione, il legislatore intende eliminare i dubbi interpretativi e porre un argine agli effetti negativi, in termini retributivi, delle sentenze finora emanate. Per questa ragione, si prevede che l'allineamento stipendiale «si applica alla retribuzione di posizione complessivamente intesa, ivi inclusa l'eventuale maggiorazione di cui al comma 4 del medesimo articolo 41. A far data dall'entrata in vigore della presente norma è fatto divieto di corrispondere somme in applicazione dell'art. 41, comma 5, del Ccnl del 16.05.2001 diversamente conteggiate, anche se riferite a periodi già trascorsi». Di conseguenza, gli incrementi per gli «incarichi aggiuntivi» finiranno per ridurre l'ammontare del galleggiamento.
Il ddl di stabilità farà, tuttavia, salva l'esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge.
Rimane, tuttavia, interamente irrisolto il problema dell'ammissibilità nell'ordinamento di una clausola di galleggiamento stipendiale come quella regolata dal Ccnl dei segretari comunali, vigente l'articolo 2, comma 4, del decreto legge 333/1992, convertito nella legge 438/1992, interpretato autenticamente dall'articolo 7, comma 7, del decreto legge 384/1992, convertito in legge 438/1992, a mente del quale «l'art. 2, comma 4, del dl 11.07.1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla L. 08.08.1992, n. 359, va interpretato nel senso che dalla data di entrata in vigore del predetto decreto-legge non possono essere più adottati provvedimenti di allineamento stipendiale, ancorché aventi effetti anteriori all'11.07.1992» (articolo ItaliaOggi del 18.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATALa Scia a pieno titolo negli ordinamenti locali.
In Toscana e in Umbria esce di scena la Dia e per tutti gli interventi costruttivi per la cui realizzazione non è richiesto il permesso di costruire è sufficiente la Scia (Segnalazione certificata di inizio attività).
Sono i principali risultati prodotti, almeno finora, dall'adesione delle Regioni alle previsioni della parte dell'articolo 5 del Dl 70/2011 sulla semplificazione delle procedure relative all'edilizia privata.
In Toscana, con la sparizione dall'ordinamento regionale della Dia (legge 40/2001), possono essere realizzati con il ricorso alla Scia –e quindi avviati appena dopo aver presentato la documentazione in Comune– interventi per l'abbattimento delle barriere architettoniche (anche se comportano un aumento delle superfici esistenti o se sono eseguiti in deroga agli indici di edificabilità), interventi di manutenzione straordinaria, di restauro e risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia. È sufficiente la Scia anche per particolari casi di mutamento della destinazione d'uso degli immobili, edifici e aree.
Tra la documentazione che deve essere allegata alla Scia vi è la relazione con la quale il progettista assevera che l'opera da realizzare è conforme agli strumenti urbanistico comunali. Il professionista che attesta il falso dovrà affrontare oltre al giudizio disciplinare dell'ordine professionale di appartenenza anche quello di una corte penale.
Anche in Umbria si restringe il ventaglio dei titoli abilitativi alla costruzione, con la sostituzione generalizzata della Dia con la Scia. Con un ampio provvedimento di semplificazione amministrativa dell'ordinamento regionale e di quello degli enti locali territoriali (legge 8/2011) viene recepito nella normativa regionale il comma 4-ter dell'articolo 49 del Dl 78/2010, che stabilisce che «le espressioni segnalazione certificata di inizio attività o Scia sostituiscono, rispettivamente, quelle di dichiarazione di inizio attività Dia, ovunque ricorrano, anche come parte di una espressione più ampia».
Un ribaltamento totale pure in fatto di silenzio-assenso: nella normativa previgente se il responsabile del procedimento nei 15 giorni successivi alla richiesta non rilasciava il permesso di costruire operava il silenzio-rifiuto; con la nuova legge, trascorso quello stesso periodo di tempo senza che l'amministrazione comunale «abbia adottato un provvedimento di diniego, il permesso di costruire si intende assentito».
La Regione Lazio con la legge 10/2011, di modifica del piano casa, è intervenuta per semplificare le procedure di approvazione degli strumenti urbanistici. Viene riformata la legge regionale 36/1987, sullo snellimento delle procedure urbanistiche ed edilizie, assegnando esclusivamente alla giunta regionale l'approvazione dei piani attuativi degli strumento urbanistici.
Le nuove norme elencano le modifiche che non costituiscono variante a un piano attuativo e che possono essere approvate dallo stesso organo comunale che rilascia il permesso di costruire (articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2011).

ENTI LOCALIFunzionari nei consigli tributari.
DOPPIO INCENTIVO - La creazione dell'organismo è indispensabile per i premi antievasione e gli sconti da Robin Tax.

Entro il 31 dicembre i Comuni dovranno istituire i consigli tributari, non solo per elevare dal 50 al 100% la quota di compartecipazione ai tributi erariali, ma anche per accedere al beneficio, previsto nello stesso decreto 138/2011, dell'alleggerimento del patto di stabilità interno mediante l'utilizzo del gettito della "Robin Tax".
È difficile individuare le ragioni di tanto rigore normativo e di tanta insistenza, soprattutto se si guarda alla nuova versione dell'articolo 44 del Dpr 600/1973, che sembra attribuire al consiglio tributario un ruolo del tutto autonomo rispetto a quello del Comune. È infatti previsto che l'agenzia delle Entrate metta a disposizione dei consigli tributari le dichiarazioni dei redditi e che le segnalazioni qualificate siano inviate, oltre che dal Comune, anche dal consiglio tributario.
Inoltre, l'Agenzia, prima dell'emissione di atti di accertamento sul reddito delle persone fisiche, dovrà inviare una segnalazione ai Comuni, «nonché ai relativi consigli tributari». Peraltro, l'agenzia delle Entrate finora non ha inviato segnalazioni ai Comuni, nonostante l'obbligo sancito dal Dl 78/2010 non fosse subordinato all'emanazione di alcun provvedimento né, tantomeno, all'istituzione del consiglio tributario.
I Comuni si interrogano su ruolo, funzione e composizione del consiglio tributario. Le scelte finora compiute sono molto variegate e a volte contrapposte, come quella del Comune di Bologna, che ha previsto una composizione tecnica mista (dirigenti comunali e dirigenti delle agenzie delle Entrate e del Territorio, oltre che dell'Inps), mentre il Comune di Venezia ha previsto che il consiglio comunale elegga tre componenti, sancendo l'incompatibilità per i dipendenti di Entrate e Territorio.
Va segnalata l'iniziativa di Anci Emilia Romagna (sul sito www.anci.emilia-romagna.it): una proposta di delibera e regolamento che prevede la partecipazione al consiglio tributario dei funzionari comunali responsabili degli ambiti di intervento individuati dal provvedimento del direttore dell'agenzia delle Entrate del 03.12.2007, oltre alla possibilità di invitare alle sedute del consiglio, se necessario, i rappresentanti della stessa Agenzia e di quella del Territorio, della Guardia di Finanza, dell'Inps e delle associazioni di categoria.
Quale che sia la scelta da operare, occorre partire dalla norma originaria istitutiva del consiglio tributario, il Dlgs luogotenenziale 08.03.1945, n. 77, rilevando che è inapplicabile, in quanto l'articolo 2 e l'articolo 30 prevedono l'emanazione di provvedimenti necessari per l'esecuzione del decreto stesso, che non risultano mai essere stati emanati. Il vuoto normativo potrà essere colmato mediante norme di carattere generale, e in particolare mediante l'esercizio della potestà regolamentare, disciplinata dall'articolo 7 del Dlgs 267/2000 (Tuel) e, nella specifica materia tributaria, dall'articolo 52 del Dlgs 446 del 1997.
Per gli enti sotto i 5mila abitanti è previsto l'obbligo di istituire il consiglio mediante consorzio, ma queste strutture sono state soppresse dalla legge 191 del 2009, a decorrere, in forza di vari rinvii, dall'01.01.2012. Il Comune potrà utilizzare altre forme di cooperazione, anche alla luce di provvedimenti normativi che comunque obbligano le amministrazioni a gestire le funzioni fondamentali mediante l'Unione o l'ufficio associato; da ultimo, lo stesso Dl 138 del 2011, all'articolo 16, comma 16, ha previsto la possibilità di esercitare le funzioni amministrate e i servizi pubblici mediante convenzione secondo l'articolo 30 del Tuel (articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOContributi legati agli stipendi pagati.
Arrivano i chiarimenti Inpdap su alcune problematiche applicative del Dl 78/2010.
Con la
nota operativa 05.10.2011 n. 22 l'istituto analizza i riflessi previdenziali delle progressioni giuridiche ma non economiche e le modalità di calcolo e versamento dei contributi per le riduzioni dei compensi oltre i 90mila e i 150mila euro.
L'articolo 9 della Dl 78/2010 ha introdotto diverse disposizioni di forte impatto, prima fra tutte la previsione che per gli anni 2011, 2012 e 2013 le progressioni di carriera comunque denominate e i passaggi tra le aree hanno effetti solo giuridici.
Innanzitutto è opportuno ricordare che sia alcune sezioni regionali della Corte dei conti che la Ragioneria generale dello Stato (Rgs) hanno riconosciuto che nella definizione «progressioni di carriera comunque denominate» si possono far rientrare anche le progressioni economiche (orizzontali), e questo nonostante gli articoli 23 e 24 del Dlgs 150/2009 abbiano tenuto distinti i due istituti. La Rgs, con la circolare 12/2011, ha quindi avallato il principio secondo il quale in questo triennio un dipendente possa progredire ad una posizione economica superiore pur non percependo almeno fino al 2014 –senza il beneficio della retroattività– il relativo compenso, e purché le risorse finanziarie necessarie siano rese indisponibili fino a tutto il 2013. La tesi, già messa in discussione per una serie di motivi non solo giuridici, ma soprattutto di equilibrio del fondo delle risorse decentrate, necessitava però di chiarimenti previdenziali. Che sono puntualmente arrivati con la nota operativa 22/2011 dell'Inpdap.
A fronte del previsto riconoscimento soltanto giuridico del maggiore livello retributivo cui non corrisponde il relativo adeguamento economico, nessun incremento contributivo è richiesto, per cui in questa ipotesi il versamento dovuto all'istituto deve essere rapportato alle sole retribuzioni di fatto corrisposte. Non va quindi versata alcuna contribuzione figurativa.
Altra questione attesissima riguardava il corretto calcolo dei contributi previdenziali in caso di decurtazione delle retribuzioni ai sensi del comma 2 dell'articolo 9 del Dl 78/2010. Si tratta della riduzione del 5% per i compensi sopra i 90mila euro e del 10% per i compensi sopra i 150mila euro, disposizione peraltro mantenuta in vita per i lavoratori pubblici. La norma stessa indica che tale decurtazione non opera a fini previdenziali. I dubbi però rimanevano. Gli operatori si chiedevano se comunque il dipendente dovesse pagare la contribuzione solo sui compensi effettivamente percepiti e quindi il datore dovesse intervenire con la cosiddetta contribuzione figurativa, oppure se, in questo caso, anche il lavoratore dovesse versare i contributi sull'importo spettante ante riduzione.
La Ragioneria generale dello Stato ha optato per questa soluzione, confermata ora anche dall'Inpdap. I contributi da versare devono essere calcolati sull'intera retribuzione spettante senza tener conto della riduzione sia per la quota del datore di lavoro che per quella a carico del lavoratore.
Un'ultima precisazione. Ai fini del raggiungimento della quota dei 90mila o 150mila euro, si deve fare riferimento a un criterio di competenza. Infatti, devono essere conteggiati anche i compensi corrisposti nell'anno successivo rispetto a quello in cui si sono effettuate le prestazioni. Quindi, per esempio, l'indennità di risultato per l'anno 2011 erogata nel 2012 entra come competenza dell'anno attualmente in corso (articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2011 - link a www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATAFotovoltaico, impianti come case. Il diritto di superficie è la via privilegiata all'installazione. Studio del Notariato sulle forme contrattuali a disposizione dei privati per acquisire gli spazi.
La costituzione di un diritto di superficie rappresenta lo strumento privilegiato per l'acquisizione dell'area sulla quale installare un impianto fotovoltaico, ferma restando la possibilità di gestire installazioni del genere anche con strumenti negoziali diversi, dalla locazione al comodato.
Quanto sopra si fonda sul presupposto che questo tipo di impianti debbano considerarsi beni immobili, alla stregua degli edifici, e non semplicemente beni mobili ancorati al suolo. Queste le conclusioni alle quali è giunto il Consiglio nazionale del notariato con il recente
studio 14.07.2011 n. 221-2011/C, nel quale sono state analizzate le varie forme contrattuali a disposizione dei privati per l'acquisizione delle aree sulle quali posizionare gli impianti fotovoltaici.
La natura di bene immobile dell'impianto fotovoltaico. Nel prendere le mosse dalla distinzione operata dal codice civile tra beni mobili e immobili, il Notariato ha dunque concluso per la riconduzione alla seconda categoria delle centrali fotovoltaiche (ovvero degli impianti di grandi dimensioni e di potenza complessivamente superiore ai 20 kW).
E questo perché l'eventuale precarietà dell'elemento materiale dell'ancoraggio al suolo risulta compensata da una serie di considerazioni attinenti al profilo funzionale dell'impianto. Infatti la messa in opera di una centrale fotovoltaica, ivi compresa l'integrazione tra i diversi elementi e il loro allacciamento alla rete elettrica nazionale, evidenzia uno stretto collegamento con il luogo in cui lo stesso viene installato, con la conseguenza che l'impianto risulta per sua natura finalizzato a essere utilizzato in via duratura in una determinata area di riferimento.
Le tipologie contrattuali per l'acquisizione delle aree sulle quali impiantare gli impianti fotovoltaici. Presupposta la natura di bene immobile delle centrali fotovoltaiche, lo studio del Notariato ritiene che lo strumento migliore per l'acquisizione delle aree di interesse di proprietà di soggetti terzi sia la costituzione di un diritto reale di superficie, che può garantire al titolare un potere duraturo di utilizzazione del suolo, mettendo al sicuro il relativo investimento.
Strumenti contrattuali alternativi, quali la locazione, il comodato e altre fattispecie obbligatorie, anche non previste dal codice civile, sembrano invece essere più idonei al semplice godimento di impianti già esistenti, essendo privi della predetta stabilità reale. Sempre secondo lo studio in questione, del pari poco utile risulta essere l'istituto civilistico della servitù, contraddistinto dal fatto che in tali casi è necessario che esistano due fondi, uno servente e uno dominante, rispetto ai quali il proprietario del secondo può vantare una serie di poteri e facoltà nei confronti del proprietario del primo.
Volta per volta, al fine di individuare a quale strumento giuridico le parti abbiano realmente fatto riferimento per consentire l'utilizzazione dell'area necessaria all'installazione dell'impianto fotovoltaico, andrà dunque ricercata la volontà che le stesse hanno inteso esprimere nel relativo contratto. Si tratta di una questione interpretativa che ha importanti ricadute dal punto di vista degli effetti giuridici, nonché dal punto di vista fiscale (si veda il relativo articolo).
In casi analoghi la giurisprudenza ha mostrato di valutare come dirimente la circostanza se il fondo sia stato considerato dalle parti contraenti semplicemente come bene di cui servirsi secondo la destinazione pattuita o come spazio utile alla realizzazione e al mantenimento delle costruzioni, che in questo caso costituiscono l'oggetto principale del negozio.
In quest'ultima ipotesi, infatti, l'attribuzione non già del godimento del bene in sé, che è caratteristico della locazione, ma della facoltà di avvalersi del bene stesso per conseguire quel peculiare risultato che si concreta nell'uso edificatorio del suolo è valso a identificare il diritto concretamente attribuito con quello di superficie. Sono inoltre stati considerati elementi utili a individuare la natura personale o reale del diritto, oltre al rapporto intercorrente fra disponibilità del fondo e godimento delle costruzioni realizzate, la tipologia dell'opera (stabile o instabile, di maggiore o minore entità) e l'eventuale esistenza di limitazioni del diritto nel tempo.
---------------
Trattamento fiscale legato al profilo civilistico.
Il trattamento fiscale dell'installazione di impianti fotovoltaici dipende dalla natura mobile o immobile del bene e dalla tipologia di contratto di cui ci si è avvalsi per giustificare l'utilizzo del suolo o di altre superfici ed è quindi strettamente connesso al profilo civilistico.
Il Notariato ha quindi redatto un ulteriore
studio 15.07.2011 n. 35-2011/T nel quale sono stati esaminati i vari profili fiscali della contrattazione relativa a detta tipologia di impianti ed è stata affrontata la questione della natura immobiliare/mobiliare degli stessi, dando rilevanza alle regole catastali che influenzano la formazione degli atti autentici, ma che, di riflesso, incidono anche sui rapporti di leasing. In caso di locazione/affitto dei terreni, allorché il locatore non agisca nell'esercizio dell'impresa, l'atto verrà assoggettato a imposta di registro con l'applicazione dell'aliquota per l'affitto di fondi rustici dello 0,50% o per la locazione degli altri immobili, pari al 2% (riguardo alla produzione di energia fotovoltaica si deve tenere presente che la stessa è considerata attività agricola connessa, ove l'affittuario del fondo sia imprenditore agricolo).
Nell'ipotesi di ricorso al diritto si superficie la relativa costituzione e il trasferimento da parte di cedente-costituente che non agisca nell'esercizio d'impresa segue le regole dettate per gli atti aventi per oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali. Qualora il cedente agisca invece nell'esercizio d'impresa, nel caso in cui il diritto di superficie abbia per oggetto terreni non suscettibili di utilizzazione edificatoria, l'atto è considerato cessione di bene non soggetta a Iva.
Al contrario, l'operazione è assoggettata all'imposta sul valore aggiunto e, per il principio di alternatività, sconta le imposte fisse di registro, ipotecaria e catastale. Del tutto speculare a quella dei terreni è la tassazione degli atti con i quali si concede la possibilità di realizzare un impianto fotovoltaico con riferimento ad un fabbricato, che, di regola, sarà costituito da un'area urbana ovvero dalla copertura (tetto o lastrico solare) di un edificio. In quest'ultimo caso, tuttavia, seguendo il rigido criterio proposto dall'amministrazione, collegato all'accatastamento del bene in categoria B, C, D e A/10, si potrebbe dubitare che tali possano risultare i lastrici, in quanto accatastabili in categoria F/5.
In realtà, secondo lo studio del Notariato, più elementi inducono a ritenere che i lastrici solari abbiano natura di fabbricati strumentali, quanto meno nei casi in cui il loro autonomo accatastamento sia realizzato dallo scorporo da un fabbricato avente tale connotazione. Quanto all'imposta Ici, il Notariato segnala la possibile assimilazione degli impianti a quelli di interesse pubblico, per i quali vale l'esenzione da dall'imposta (articolo ItaliaOggi Sette del 17.10.2011).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIMalattia lunga, il certificato è doc. Per prognosi oltre i dieci giorni occorre il medico dell'Ssn. Estesa al settore privato la disciplina dei dipendenti pubblici sulla giustificazione delle assenze.
Per la malattia lunga serve un certificato medico «doc». Nei casi di assenza superiori ai dieci giorni, infatti, il lavoratore deve munirsi di certificato rilasciato da un medico del servizio sanitario o convenzionato. Il vincolo, finora vigente per gli impiegati statali, è stato esteso al privato dal Collegato lavoro.
E vale non solo in caso di lunghe malattie (superiori a dieci giorni), ma per le infermità oltre la seconda in un anno.
Malattia online. La novità scaturisce dal processo di uniformazione dei regimi previsti per i dipendenti pubblici e quelli privati in ordine alle certificazioni di malattia. Unificazione che ha portato, dal 14 settembre, all'entrata in vigore di un'unica disciplina sulla trasmissione in via telematica dei certificati medici all'Inps. La necessità di un certificato «doc» già vigente per i dipendenti pubblici e ora estesa ai privati scaturisce proprio da questa equiparazione.
Regime unico. La legge n. 183/2010 (Collegato lavoro), nel completare questo processo di unificazione, ha fatto un rimando integrale ed esplicito all'articolo 55-septies del dlgs n. 165/2001, ossia al T.U. sul pubblico impiego. Ciò ha comportato, evidentemente, l'entrata in vigore di un unico regime per i dipendenti sia del settore pubblico che privato, anche per quanto concerne gli aspetti sanzionatori riferiti ai medici del Ssn o con esso convenzionati.
Successivamente, con l'entrata in vigore (dal 6 luglio) del dl n. 98/2011, è arrivata un'ulteriore innovazione: «Nel caso in cui l'assenza per malattia abbia luogo per l'espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche o esami diagnostici l'assenza è giustificata mediante la presentazione di attestazione rilasciata dal medico o dalla struttura, anche privata, che hanno svolto la visita o la prestazione».
Quando serve una certificazione «doc». Il Collegato lavoro ha stabilito che, per garantire un quadro completo e univoco delle assenze per malattia nei settori pubblico e privato, nonché un efficace sistema di controllo, dall'01.01.2010 (termine poi slittato al 14 settembre scorso, per il solo settore privato), in tutti i casi di assenza per malattia dei dipendenti di datori di lavoro privati, per il «rilascio» e la «trasmissione» della attestazione di malattia si applicano le disposizioni di cui all'articolo 55-septies del dlgs n. 165/2001.
È proprio questo rinvio normativo a determinare, per il settore privato, la necessità di ricorrere a una certificazione «doc» in alcune situazioni. Nel dettaglio è nei casi di assenza per malattia superiori a dieci giorni e comunque nei casi di eventi successivi al secondo nel corso dello stesso anno solare che anche per il lavoratore del settore privato è divenuto obbligatorio produrre, al datore di lavoro, idonea certificazione rilasciata unicamente dal medico del Ssn o con esso convenzionato.
Fa eccezione a tale regole l'assenza di malattia per l'espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche o diagnostiche per le quali la certificazione giustificativa può essere rilasciata anche da medico o struttura privata.
---------------
La richiesta viaggia sul canale telematico.
Dall'01.10.2011, le richieste di visita medica di controllo devono essere inoltrate mediante canale telematico. La novità fa parte del piano di «estensione e potenziamento dei servizi telematici offerti dall'Inps ai cittadini», in costruzione progressiva dal 1° gennaio di quest'anno e che prevede l'utilizzo graduale del canale telematico per la presentazione delle principali domande di prestazioni/servizi.
Dal 1° ottobre, dunque, è stata attivata, per i datori di lavoro, la modalità di presentazione telematica della richiesta del servizio di controllo dello stato di salute dei propri dipendenti in malattia (la cosiddetta visita fiscale), in virtù di quanto previsto dall'articolo 38 della legge n. 122/2010. Il servizio di richiesta, in modalità telematica, delle visite mediche di controllo domiciliare e/o ambulatoriale riguarda tutti i datori di lavoro, pubblici e privati, compresi quelli i cui dipendenti non sono tenuti al versamento della contribuzione di finanziamento dell'indennità economica di malattia all'Inps. Per l'utilizzo del servizio occorre essere abilitati all'accesso.
Tutti i soggetti già dotati di Pin e attualmente in grado di consultare gli attestati di malattia sono abilitati al servizio automaticamente. Invece i datori di lavoro o loro incaricati non ancora abilitati ai servizi di consultazione degli attestati di malattia, per poter accedere al servizio, devono presentare presso una sede dell'Inps i seguenti documenti: modulo di richiesta, compilato e sottoscritto dallo stesso datore di lavoro privato o dal legale rappresentante (ove il datore di lavoro sia pubblico o organizzato in forma associata o societaria), con l'elenco dei dipendenti per i quali si chiede il rilascio del Pin per l'accesso agli attestati di malattia del personale con allegata copia del documento d'identità del sottoscrittore; modulo di richiesta «individuale» compilato e firmato da ogni dipendente autorizzato, con allegata una fotocopia del documento d'identità del sottoscrittore.
I datori di lavoro o loro incaricati che intendano affidare il servizio di richiesta visita medica di controllo a un soggetto diverso da quello attualmente dotato di abilitazione per la consultazione degli attestati di malattia, devono comunicarlo all'Inps, che provvederà a modificare i relativi profili autorizzativi. Inoltre, gli stessi datori di lavoro o loro incaricati in possesso di Pin sono tenuti a chiedere tempestivamente la revoca dell'autorizzazione all'Inps (che provvederà a cessare, con effetto immediato, l'abilitazione), al verificarsi della cessazione dell'attività, della sospensione o del trasferimento in altra struttura dell'intestatario del Pin.
La richiesta di visita medica di controllo, che viene indirizzata in automatico alla sede competente dell'Inps per residenza/domicilio o per reperibilità del lavoratore, può essere effettuata per un solo lavoratore e per una sola visita alla volta. È possibile, inoltre, richiedere anche la visita di controllo ambulatoriale Inps, per casi eccezionali e motivati, cui fa seguito una verifica di fattibilità, da un punto di vista organizzativo-temporale, da parte della sede territoriale dell'Inps.
La procedura di richiesta di visita medica di controllo si compone di più pannelli che consentono un colloquio interattivo con l'utente che comunica i dati relativi alla richiesta, in modalità guidata dal sistema informatico: preimpostando i dati ove già disponibili (i dati anagrafici del datore di lavoro, per le imprese iscritte a Inps e del lavoratore se presente nell'archivio anagrafico unico); costruendo e completando dinamicamente le informazioni (per esempio, la selezione del comune nell'ambito della provincia già specificata); indirizzando l'utente con domande specifiche (per esempio «Il lavoratore ha diritto all'indennità di malattia a carico dell'Inps?»); segnalando i dati obbligatori (un asterisco, '*', accanto al campo); sottoponendo i dati forniti all'immediato controllo formale; utilizzando una messaggistica puntuale per segnalare le informazioni incongruenti. Inoltrata la richiesta di visita medica di controllo, si ottiene in risposta una ricevuta, con la segnatura di protocollo in entrata assegnata dal sistema Inps. Infine, è possibile visualizzare anche l'esito della visita. Come detto, le richieste di visita medica di controllo devono essere inoltrate attraverso il canale telematico dal 1° ottobre.
In fase di prima attuazione del processo telematizzato è concesso un periodo transitorio, fino al 30 novembre, durante il quale le richieste di visita medica di controllo inviate attraverso i canali tradizionali sono considerate validamente presentate, ai fini degli effetti giuridici previsti dalla normativa in materia. Alla scadenza, il canale telematico diventa esclusivo (articolo ItaliaOggi Sette del 17.10.2011).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAIl costo di costruzione c'è. Dall'ingrosso al dettaglio, il commerciante paga. Sentenza del Consiglio di stato: l'onere rimane, anche senza lavori edilizi.
Il costo di costruzione previsto dagli oneri di urbanizzazione imposti ai commercianti dalla legge cosiddetta «Bucalossi» è dovuto in quota corrispondente anche se nei locali non sono stati effettuati interventi edilizi per consentire il passaggio dalla vendita all'ingrosso a quella al dettaglio.
Lo precisa la sentenza 14.10.2011 n. 5539 dalla IV Sez. del Consiglio di Stato.
Trasformazione e vantaggio. L'impresa che ha sede nell'area urbana destinata all'industria e all'artigianato è «pizzicata» dal Comune: il cambio di destinazione d'uso realizzato nei locali con il «via» alla vendita al dettaglio non risulta autorizzato nell'ambito della concessione ottenuta. Scatta così la rideterminazione degli oneri di urbanizzazione, primaria e secondaria. Che tuttavia il commerciante non contesta.
Ciò che non vuole pagare l'azienda, che per ironia della sorte vende prodotti per l'edilizia, sono i costi di costruzione. E la motivazione è che non sono stati realizzati lavori per aprire la vendita al pubblico: l'ampiezza della superficie «dedicata» non è cambiata. Ma la censura non coglie nel segno.
È vero: il contributo relativo al costo di costruzione di cui alla legge Bucalossi è riconducibile all'attività costruttiva considerata in sé. Ma attenzione, si tratta di un prelievo che ha natura paratributaria: il corrispettivo è comunque dovuto in presenza di una «trasformazione edilizia» produce vantaggi economici connessi all'utilizzazione. E ciò indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere. Con il passaggio dall'ingrosso al dettaglio si verifica un mutamento d'uso rilevante nell'esercizio commerciale: si tratta, infatti, di due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e la trasformazione determina comunque un aumento del cosiddetto «carico urbanistico».
Scorporo impossibile. La mancata realizzazione di opere edilizie all'interno dei locali è irrilevante. Il passaggio dall'ingrosso al dettaglio comporta maggiori oneri sociali delle opere di urbanizzazione e fa perciò insorgere il presupposto imponibile per la debenza del contributo concessorio comprensivo della quota relativa al costo di costruzione: ne consegue che l'utilizzatore del beneficio deve pagare la differenza tra gli oneri di urbanizzazione già corrisposti per la destinazione d'uso originaria e quelli, se più elevati come nel caso di specie, dovuti per la nuova destinazione impressa all'immobile.
E il contributo concessorio così rideterminato comprende necessariamente anche il costo di costruzione (articolo ItaliaOggi del 18.10.2011).

EDILIZIA PRIVATALa presenza di vincoli di inedificabilità assoluta a’ sensi dell’art. 33 della L. 47 del 1985 introdotti in un momento successivo all’edificazione non esclude di per sé la sanatoria, imponendo comunque la verifica di compatibilità da parte dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
In effetti, la presenza di vincoli di inedificabilità assoluta a’ sensi dell’art. 33 della L. 47 del 1985 introdotti in un momento successivo all’edificazione non esclude di per sé la sanatoria, imponendo comunque la verifica di compatibilità da parte dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo (così Cons. Stato, A.P., 22.07.1999 n. 20) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.10.2011 n. 5535 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte effettuate dalla P.A. in sede di formazione ed approvazione dello strumento urbanistico sono accompagnate dal un’amplissima discrezionalità e per ciò stesso sono nel merito insindacabili se non per errori di fatto, abnormità e irrazionalità.
L’Amministrazione, in virtù della suddetta discrezionalità, non è tenuta a fornire un’apposita motivazione in ordine alle scelte operate, rinvenibile, comunque, questa, nelle ragioni che giustificano l’impostazione del piano; e, avuto riguardo alla destinazione delle singole aree, la scelta urbanistica non abbisogna di specifica motivazione se non nel caso che si vada ad incidere su posizioni giuridicamente differenziate.

Le scelte effettuate dalla P.A. in sede di formazione ed approvazione dello strumento urbanistico sono accompagnate dal un’amplissima discrezionalità e per ciò stesso sono nel merito insindacabili se non per errori di fatto, abnormità e irrazionalità (cfr. Cons. Stato Sez. IV 06/02/2002 n. 664; idem 09/07/2002 n. 3817; 27/07/2010 n. 4920).
L’Amministrazione, in virtù della suddetta discrezionalità, non è tenuta a fornire un’apposita motivazione in ordine alle scelte operate, rinvenibile, comunque, questa, nelle ragioni che giustificano l’impostazione del piano (cfr. Cons. Stato Sez. IV 18/08/2004 n. 4550); e, avuto riguardo alla destinazione delle singole aree, la scelta urbanistica non abbisogna di specifica motivazione se non nel caso che si vada ad incidere su posizioni giuridicamente differenziate (cfr. Con stato Sez. IV 10/02/2007 n. 2418; idem n. 4920/2010 già citata) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.10.2011 n. 5534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte effettuate dalla P.A. in sede di redazione di strumenti urbanistici (nella specie trattasi di variante generale di assestamento al PRG) sono nel merito insindacabili (in quanto accompagnate da un’amplissima valutazione discrezionale) e per ciò stesso attaccabili solo per errori di fatto, abnormità ed irrazionalità delle stesse.
Quanto poi alla destinazione impressa alla zona, le scelte non necessitano di specifica motivazione se non nel caso che la scelta vada ad incidere su una preesistente posizione giuridica soggettiva differenziata.

Va in primis osservato come le scelte effettuate dalla P.A. in sede di redazione di strumenti urbanistici (nella specie trattasi di variante generale di assestamento al PRG) siano nel merito insindacabili (in quanto accompagnate da un’amplissima valutazione discrezionale) e per ciò stesso attaccabili solo per errori di fatto, abnormità ed irrazionalità delle stesse (cfr. Cons. Stato Sez. IV 06/02/2002 n. 664; idem 27/07/2010 n. 4920), connotazioni nella specie non rinvenibili e comunque non provate dalla parte interessata.
Quanto poi alla destinazione impressa alla zona, le scelte non necessitano di specifica motivazione se non nel caso che la scelta vada ad incidere su una preesistente posizione giuridica soggettiva differenziata (cfr. Cons. Stato Sez. IV 10/02/2009 n. 2418), ma non è questo il caso che ci occupa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.10.2011 n. 5533 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: L'avviso d'immissione in possesso è legittimamente notificato al proprietario catastale del fondo oggetto dell'occupazione d'urgenza.
In relazione ad essa va premesso che ai sensi dell'art. 3, comma 4, della l. 03.01.1978 n. 1, l'avviso d'immissione in possesso è legittimamente notificato al proprietario catastale del fondo oggetto dell'occupazione d'urgenza, essendo onere del privato interessato curare l'esatta corrispondenza delle risultanze catastali alla reale situazione giuridica del bene oggetto della procedura ablatoria (cfr: Consiglio Stato, sez. IV, 20.05.1997, n. 957).
E’ ben vero che, più recentemente, la giurisprudenza amministrativa ha ammorbidito la portata di tale asserzione, affermando che il principio generale per cui l'avviso di immissione in possesso è legittimamente notificato al proprietario catastale del fondo non trova applicazione, perché ne viene meno la logica acceleratoria che lo sorregge, nell'ipotesi in cui l'Amministrazione abbia sicura ed esatta conoscenza della situazione dominicale, tanto da instaurare un contraddittorio nel procedimento con i proprietari effettivi e da notificare a questi altri atti della procedura (cfr: Consiglio Stato , sez. IV, 17.12.2003, n. 8289), ma tale correttivo non rileva nel caso di specie, non essendosi data la prova che l’amministrazione fosse comunque a conoscenza del dichiarato trasferimento del diritto di proprietà sull’area interessata dal procedimento espropriativo (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 12.10.2011 n. 970 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Il Comune non è competente in ordine alla realizzazione di una Caserma dei Carabinieri.
La decisione del Comune di annullare in autotutela le delibere del 2006, con cui si era deciso di dar corso alla procedura di finanza di progetto per la scelta del contraente cui affidare la realizzazione della Caserma dei Carabinieri, è stata assunta senza il concorso delle Autorità statali individuate come competenti dalla normativa primaria. Difatti, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 16 del 1985 (ora abrogato dal D.Lgs. n. 66 del 2010, Codice dell’ordinamento militare), le Caserme dei Carabinieri, essendo destinate alla difesa, rientrano tra le opere pubbliche di natura militare (TAR Lazio, Latina, 15.02.1990, n. 79).
A ciò si ricollega un filone giurisprudenziale, che il Collegio condivide, secondo cui “per le opere militari (tra cui le caserme, pur se ubicate nell’ambito urbano) tutte le competenze di programmazione, localizzazione, progettazione, esecuzione e controllo, sono di esclusiva pertinenza dell’Autorità statale, con esclusione di qualsiasi competenza o intervento di altre Autorità regionali o comunali” (TAR Sardegna, Cagliari, II, 06.09.2007, n. 1724).
Nel caso di specie, il Comune sarebbe intervenuto illegittimamente in un ambito non rientrante nella propria competenza, oltretutto senza nemmeno provvedere a coinvolgere gli organismi a ciò deputati, attraverso la convocazione, ad esempio, di una Conferenza di servizi.
Inoltre, l’adozione delle delibera impugnata, essendo avvenuta nell’esercizio del potere di autotutela, avrebbe richiesto necessariamente il coinvolgimento del soggetto privato inciso dal provvedimento adottato in precedenza.
Proprio in tema di gare pubbliche è stato affermato che “con la presentazione della domanda di partecipazione e, ancor più, con la predisposizione e l’inoltro dell’offerta, i soggetti concorrenti assumono una posizione differenziata e qualificata che giustifica la posizione di contro interessati ai quali è necessario comunicare l’avviso di avvio del procedimento ai sensi della legge sulla trasparenza amministrativa, al fine di consentire la difesa del bene della vita dato dalla chance di aggiudicazione” (Consiglio di Stato, V, 29.03.2011, n. 1922).
Questo principio vale a maggior ragione nel caso de quo, visto che il soggetto privato era stato individuato quale unico interlocutore e che, pertanto, poteva fino a quel momento vantare un interesse qualificato alla realizzazione, con il sistema della finanza di progetto, della Caserma dei Carabinieri (cfr. Consiglio di Stato, V, 06.10.2010, n. 7334) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.10.2011 n. 2412 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Cause di esclusione: il giudice non può sostituire la lex specialis di gara.
Nella ipotesi in cui una causa di esclusione non sia espressamente contemplata nella lex specialis di gara, è precluso all’interprete, sia in sede amministrativa che giurisdizionale, di desumerla in via interpretativa.
È peraltro principio consolidato che l’inosservanza delle prescrizioni del bando di gara circa le modalità di presentazione delle offerte, implica l’esclusione dalla gara solo quando si tratti di prescrizioni rispondenti ad un particolare interesse della pubblica amministrazione appaltante, o poste a garanzia della par condicio dei concorrenti.
Tuttavia, in assenza di una espressa previsione e comminatoria di esclusione, non è consentito al giudice amministrativo di sovrapporre le proprie valutazioni a quelle dell’amministrazione che ha predisposto la lex specialis, dato che il cd. criterio teleologico ha un valore esclusivamente suppletivo rispetto a quello letterale.
Non appare poi superfluo rilevare che, alla stregua delle norme del bando, nulla poteva essere giustificato in via preventiva, tenuto conto che le valutazioni relative all’ attendibilità delle offerte erano state effettuate –nel caso di specie– nel rispetto del principio del contraddittorio
Analogamente l’’ulteriore profilo di censura relativo al difetto di motivazione, in esito alla valutazione di congruità dell’offerta, deve essere respinta.
Sul punto è sufficiente rilevare che, nel caso di specie, sussiste comunque la possibilità di ripercorrere il percorso valutativo, quindi di controllare la logicità e la congruità del giudizio tecnico operato dalla stazione appaltante.
Il mezzo di gravame pertanto non merita accoglimento (commento tratto da www.leggioggi.it - TAR Lazio-Latina, sentenza 10.10.2011 n. 792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Una richiesta di riqualificazione urbanistica non può essere negata per il varo del nuovo PUG.
La p.a. non può rinviare il soddisfacimento dell’interesse alla riqualificazione urbanistica di un suolo di proprietà di un privato al momento della adozione del nuovo strumento urbanistico generale: essa deve considerare in concreto l’istanza di riqualificazione colmando senza indugio la lacuna di disciplina che si verifichi in seguito alla decadenza di vincoli impressi al suolo.
Tale obbligo giuridico ha il suo ambito di riferimento nell’art. 2 della legge 07.08.1990 n. 241, regola che sancisce il principio della doverosa conclusione di un procedimento amministrativo con un provvedimento espresso e i giudici del Tribunale amministrativo di Lecce rammentano, sulla stessa scia, di aver sostenuto già diverse volte la tesi della sussistenza dell’obbligo, per l’amministrazione comunale, di dare riscontro alla istanza con la quale il privato rivolge richiesta di riqualificazione urbanistica di un’area di sua proprietà, che si rimasta priva di disciplina a causa della decadenza di vincoli impressi sulla base di precedenti destinazioni urbanistiche.
Nello specifico, i giudici amministrativi salentini sottolineano che l’adozione di una serie di atti rientranti nella complessa sequenza procedimentale di formazione di un Piano Urbanistico Generale sia adatta solo astrattamente a soddisfare l’interesse pretensivo alla riqualificazione urbanistica.
E’, infatti, chiaro che l’avvio di un procedimento finalizzato a dare un nuovo assetto urbanistico al territorio comunale finisce con il ricomprendere anche le aspettative edificatorie del privato, data la naturale completezza dello strumento urbanistico generale, come si deduce dall’art. 7 della legge 1150/1942. Ma proprio la prospettiva di un complesso iter procedimentale contraddistinto, peraltro, dal necessario coinvolgimento di organi collegiali rappresentativi della collettività di riferimento concretizza il rischio di una sostanziale elusione dell’interesse pretensivo alla riqualificazione urbanistica.
Detto interesse richiede, invece, secondo i giudici pugliesi, “risposta puntuale e satisfattiva, il che vuol dire che il procedimento di riqualificazione urbanistica ben può avere ad oggetto la revisione lenticolare di un solo brano del territorio comunale, anche quando la P.a. ha manifestato l’intento di dotarsi di nuovo strumento urbanistico generale, come nel caso in trattazione”.
Nella circostanza in commento, infatti, la macchinosità del procedimento formativo del PUG si è manifestata concretamente dando luogo ad un’interruzione dello stesso, a causa dell’annullamento giurisdizionale della delibera che il dirigente aveva richiamato nel corpo del provvedimento impugnato, con l’obiettivo di certificare l’intenzione del Comune di darsi un nuovo assetto urbanistico, capace di considerare anche gli interessi del ricorrente (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 05.10.2011 n. 1714 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Il comune non può impugnare gli atti relativi alla gestione di una discarica sita nel territorio di un altro ente locale.
... il Comune ricorrente avrebbe dovuto dimostrare il pregiudizio effettivamente subito dall’area di competenza, “posto che il criterio della vicinitas non è considerato sufficiente dalla consolidata giurisprudenza amministrativa” (cfr., tra le altre, C.d.S., 16.04.2003, n. 1948) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 04.10.2011 n. 7682 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Illegittimo l’accesso agli atti processuali in cui è coinvolto il Comune.
Per costante giurisprudenza (v., da ultimo, TAR Molise 09.12.2010 n. 1528), l’ordinamento consente la proposizione della domanda di accesso ex art. 22 e segg. della legge n. 241 del 1990 solo se la stessa ha ad oggetto documenti qualificabili come amministrativi –quanto meno in senso soggettivo e funzionale–, mentre preclude la richiesta di esibizione degli atti processuali e di quelli espressione di attività giurisdizionale, ancorché non immediatamente collegati a provvedimenti che siano espressione dello ius dicere ma intimamente e strumentalmente connessi a questi ultimi (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 04.10.2011 n. 329 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARIDisporre di Pec pubblica è un diritto dei cittadini. La casella di posta è un canale da non bloccare.
La class action pubblica inizia ad aprire qualche breccia nell'inerzia delle amministrazioni.
Il TAR Basilicata, con sentenza 23.09.2011 n. 478 ha infatti certificato il diritto dei cittadini a un settore pubblico minimamente digitalizzato, accogliendo l'azione avviata da un'associazione («Agorà digitale») per imporre alla Regione Basilicata l'adozione della Pec come via possibile nel rapporto con i privati. L'associazione chiedeva l'accertamento del disservizio prodotto dalla mancata pubblicazione dell'indirizzo di posta elettronica certificata sulla home-page del sito istituzionale della Regione e la conseguente impossibilità di utilizzo della posta elettronica certificata per le comunicazioni all'ente.
I giudici hanno accolto la richiesta, fornendo innanzitutto una serie di importanti indicazioni operative sull'utilizzo dello strumento introdotto nel 2009 con il decreto legislativo n. 198. A poter proporre l'azione sono le associazioni dotate di sufficiente rappresentatività degli interessi diffusi di una particolare categoria di utenti. Esclusi i partiti e i movimenti politici quindi, come i radicali che avevano presentato analoga richiesta al Tar. Se poi il proponente è una persona fisica, il suo interesse e la sua omogeneità rispetto alla classe vanno dimostrati in concreto, mentre se è un ente a tutela di una posizione collettiva «non occorre indagare anche sulla sussistenza dei requisiti di concretezza, attualità e immediatezza della lesione». Insomma, è la stessa rappresentatività dell'ente rispetto a una particolare categoria di utenti o consumatori a permettere di verificare l'omogeneità del suo interesse rispetto a quello della class che dichiara di rappresentare.
E poi la pronuncia compie un passo in più per accertare se, sul punto della digitalizzazione, esiste un obbligo in capo alla Regione rimasto inadempiuto. Risposta affermativa. Dopo una ricostruzione normativa che si conclude con le «Linee guida per i siti web delle pubbliche amministrazioni». In queste ultime si precisa, tra l'altro, che l'elenco delle caselle di posta elettronica certificata sia costantemente disponibile all'interno della testata.
In sintesi, alla Regione può essere richiesto «l'obbligo di soddisfare la richiesta di ogni interessato a comunicare in via informatica tramite posta elettronica certificata e quindi, a monte, l'obbligo di adottare gli atti di carattere tecnico ed organizzativo finalizzati alla pubblicazione sulla pagina iniziale del sito degli indirizzi di posta elettronica certificata e a consentire l'effettiva, concreta ed immediata possibilità di interagire con l'ente attraverso tale modalità di comunicazione elettronica».
L'inerzia della Regione Basilicata, per il Tar, ha poi come ricaduta la preclusione di un canale oggi fondamentale nelle comunicazioni tra pubblica amministrazione e cittadini. Un vero e proprio disservizio, per eliminare il quale è utilizzabile la class action, che costringe gli interessati a recarsi personalmente presso gli uffici e a utilizzare la carta per ricevere e inoltrare documentazione e comunicazioni.
A essere compresso è poi il diritto del cittadino a partecipare al procedimento amministrativo, visto che il Codice dell'amministrazione digitale consente di esercitare questi diritti procedimentali anche attraverso gli strumenti di comunicazione telematica. Come pure da valutare è l'effetto sulla disciplina delle notificazioni. Da qui la condanna inflitta alla Regione e cioè quella di rendere disponibile la casella di Pec entro 60 giorni (articolo Il Sole 24 Ore del 18.10.2011 - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOLa «promozione» non è un diritto.
CONSEGUENZE PROCESSUALI - Il giudice ordinario non può imporre il conferimento di posizioni organizzative ma solo valutare la legittimità degli atti.

La posizione giuridica in capo al dipendente che aspira a una posizione organizzativa non è corrispondente a un diritto soggettivo perfetto, ma costituisce "solo" un interesse legittimo di diritto privato in un contesto di lavoro pubblico costituzionalizzato. Il dipendente che aspira ad essere incaricato di posizione organizzativa ha un interesse legittimo a che la procedura sia svolta in modo corretto, al quale si contrappone però un potere discrezionale da parte del «datore di lavoro», anch'esso di diritto privato; lo stesso datore può accogliere o meno la richiesta di conferimento dell'incarico, sempre nel rispetto della procedura.
La conseguenza processuale più importante è che il «giudice giammai può emettere sentenza con la quale accerta il diritto del ricorrente a vedersi conferire l'incarico cui aspira, essendo lo stesso attribuibile solo a seguito di valutazione discrezionale della Pa (si veda Cassazione 14.09.2005, n. 18198) ma lo stesso giudice, se accerta che il potere discrezionale è stato esercitato fuori dai limiti di legge, potrà dichiarare illegittimo il conferimento dell'incarico impugnato». Una tale conclusione potrà soltanto portare la Pa ad operare una nuova valutazione, nel rispetto delle norme in precedenza violate, ma non si potrà concretizzare nell'affidamento, tanto meno a carattere retroattivo, delle funzioni attribuibili alla posizione organizzativa.

Lo ha deciso il Tribunale di Trani, Sez. lavoro, nella sentenza 22.09.2011, che conferma la pregressa giurisprudenza ordinaria (si veda ad esempio Cassazione Civile, sezione lavoro 15.05.2008, nr. 12315) e quella amministrativa del Consiglio di Stato (tra le tante, sezione V, 15.02.2010, n. 815) per le quali le procedure di selezione finalizzate al conferimento delle posizioni organizzative al personale non dirigente delle Pa esulano dall'ambito degli atti amministrativi autoritativi.
La decisione di Trani, seppur inserita in una scia abbastanza consolidata nei principi, è importante in quanto ribadisce, in un momento di particolare ritorno della pubblicizzazione del rapporto di lavoro, la discrezionalità della scelta della Pa.
Tuttavia la tesi, malgrado sostenuta da ampia giurisprudenza, non potrà che essere rivista alla luce del principio di effettività della tutela: sostenere, infatti, che il giudice ordinario non possa sostituirsi all'amministrazione decidente e, nel contempo, affermarne la giurisdizione ordinaria limitandola alla possibilità della sola disapplicazione degli atti, attraverso la categoria del l'interesse legittimo di diritto privato, potrebbe portare a una carenza di tutela del singolo oggi in contrasto con i principi sull'effettività della tutela giurisdizionale, desumibili dall'articolo 24 della Costituzione e dagli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (articolo Il Sole 24 Ore del 17.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

AGGIORNAMENTO AL 17.10.2011

ã

Save the Children
BASTA UN RESPIRO PER SALVARE UN BAMBINO


Basta un respiro…
…per salvare un bambino. Quasi 8 milioni di bambini muoiono prima dei 5 anni, circa uno ogni 4 secondi, a causa di malattie prevenibili e curabili che si possono superare con semplici soluzioni da pochi euro. Per questo riparte Every One, la campagna per dire basta alla mortalità infantile e garantire salute e assistenza a mamme e bambini in 38 paesi nel mondo. Il palloncino rosso è il simbolo di questa campagna e rappresenta metaforicamente la vita di una bambino: gonfiare un palloncino significa quindi dargli la vita.

Non restare indifferente di fronte ad una simile vergogna di noi Occidentali "progrediti" con la pancia piena tutti i giorni !! E se quel bambino che muore ogni 4 secondi fosse Tuo figlio??

Invia un SMS o chiama da rete fissa al n. 45509 e dona 2,00 € oppure 5,00 €

Per saperne di più clicca qui.

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Muratori, Finalmente le "regole" per la gestione dei pneumatici fuori uso (link a www.lexambiente.it).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: costituzione delle unioni di comuni per l’esercizio associato delle funzioni fondamentali previste dall’art. 21 della legge 42 del 2009 (CGIL-FP di Bergamo, nota 13.10.2011).

PUBBLICO IMPIEGOCGIL materiali - a cura dell'ufficio comunicazione della CGIL di Bergamo (ottobre 2011).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 41 del 14.10.2011, "Aggiornamento dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite dall’art. 80 della legge regionale 11.03.2005, n. 12" (decreto D.G. 12.10.2011 n. 9290).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: M. Fiorona, I TITOLI ABILITATIVI NEL TU EDILIZIA E NELLA DISCIPLINA URBANISTICA REGIONALE: SCHEDE ESEMPLIFICATIVE - (aggiornamento a ottobre 2011).
---------------
Ringraziamo l'autore per l'invio del contributo che abbiamo pubblicato.
Tuttavia, non possiamo non evidenziare come lo scrivente sia parzialmente NON d'accordo con alcune tesi proposte dall'autore e, nello specifico, relativamente all'esistenza in Lombardia della SCIA e del silenzio-assenso in materia di permesso di costruire per le motivazioni ampiamente argomentate lo scorso 13.07.2011 e 06.06.2011.
Giova qui ricordare, ancora una volta, che a tutt'oggi la Regione Lombardia non si è ancora pronunciata sulle novità introdotte dal DL. 70/2011 e, segnatamente, alle due problematiche sopra evidenziate. E prima ancora che il decreto-legge fosse pubblicato in G.U. (il 13.05.2011) ci si era adoperati per chiedere telefonicamente al Servizio Giuridico della Regione un'anteprima chiarificatrice tenuto conto che il testo del "decreto sviluppo" era già di dominio pubblico ad opera della stampa specializzata e noi ne davamo conto nell'aggiornamento dello scorso 09.05.2011 (rubrica NEWS). Alla nostra telefonata di richiesta chiarimenti ci avevano risposto: "... abbiamo letto il testo della bozza di d.l. ... lo stiamo studiano".
Ebbene, sono trascorsi più di 5 mesi ma di chiarimenti regionali, all'orizzonte, non si vede traccia ...
17.10.2011 - LA SEGRETERIA PTPL

SICUREZZA LAVOROVademecum per il medico competente: un utile riferimento per la redazione del DVR.
La Sovrintendenza Medica Generale ha recentemente pubblicato il Vademecum per il medico competente, nato dall’esperienza professionale dei medici del lavoro dell’INAIL nella Pubblica Amministrazione.
Il vademecum rappresenta certamente un utile strumento per il medico competente della Pubblica Amministrazione, ma costituisce anche una preziosa guida agli adempimenti normativi necessari alla redazione del DVR (Documento di Valutazione dei Rischi). Al riguardo, ricordiamo che inadempienze anche formali degli obblighi previsti dalla legge sono oggetto di pesanti sanzioni.
Nel documento vengono forniti i consigli su come informare i lavoratori, come predisporre i corsi di formazione e come gestire i rapporti con il servizio sanitario nazionale.
La pubblicazione tratta i seguenti argomenti:
● la sorveglianza sanitaria nella pubblica amministrazione;
● informazione del lavoratore e consenso informato;
● organizzazione del pronto soccorso;
● classificazione delle aziende;
● requisiti e formazione degli addetti al pronto soccorso;
● attrezzature minime per gli interventi di pronto soccorso;
● contenuto minimo della cassetta di pronto soccorso;
● contenuto minimo del pacchetto di medicazione;
● riunione periodica;
● partecipazione a corsi di formazione e informazione;
● tenuta dei registri;
● rapporti del medico competente con il servizio sanitario nazionale (13.10.2011 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATADal Consiglio Superiore dei LL.PP. le Linee Guida per i pannelli portanti debolmente armati.
Il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ha pubblicato le “linee guida per sistemi costruttivi a pannelli portanti basati sull’impiego di blocchi cassero e calcestruzzo debolmente armato gettato in opera”.
Le Linee Guida sono rivolte ai progettisti, ai tecnici del settore e agli organi di controllo competenti.
Il documento riporta i riferimenti teorici e sperimentali e le indicazioni progettuali e costruttive per la progettazione ed il calcolo di edifici realizzati con sistemi costruttivi a pannelli portanti basati sull’impiego di blocchi cassero e calcestruzzo debolmente armato gettato in opera.
Per ogni sistema costruttivo dovrà essere studiata e proposta una procedura di verifica della sicurezza ai diversi stati limite, basata su criteri consolidati e sui risultati della sperimentazione specifica.
L’approccio per le verifiche di sicurezza delle strutture in oggetto è quello previsto dalle Norme Tecniche vigenti per le strutture in c.a.; in particolare si devono considerare le stesse procedure che hanno lo scopo di garantire la sicurezza nei confronti del collasso, della prestazione in servizio e la durabilità nel corso della vita nominale.
Il produttore deve rendere disponibile la documentazione tecnica dei casseri che deve contenere: ... (13.10.2011 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATAIl manuale completo per l’isolamento termico e acustico delle facciate in laterizio.
In questo articolo di BibLus-net pubblichiamo il manuale ANDIL (Associazione Nazionale Degli Industriali dei Laterizi) relativo alle prestazioni termiche e acustiche delle pareti in laterizio faccia a vista.
L’utilizzo del mattone è un’antica tradizione ma grazie alle nuove tecnologie è possibile raggiungere elevate prestazioni in termini di isolamento acustico e termico.
I tamponamenti esterni in laterizio rappresentano un’ottima soluzione per l’isolamento termico, anche grazie all’evoluzione tecnologica che ha portato alla realizzazione di mattoni ad elevata resistenza termica.
Al fine di ottenere un elevato isolamento termico è necessario utilizzare soluzioni isolanti con elevati spessori, con conseguenze sulla progettazione esecutiva e sulla messa in opera. Le normative, inoltre, hanno introdotto disposizioni che consentono lo scomputo degli extraspessori delle chiusure verticali e orizzontali al fine di incentivare migliori prestazioni energetiche.
Per l’isolamento acustico, invece, è necessario garantire determinate prestazioni che dipendono dai singoli elementi costituente la facciata e da come questi vengono disposti in stratificazione. Gli elementi che pregiudicano le prestazioni di isolamento sono quelli acusticamente più deboli come: infissi, cassonetti degli avvolgibili, prese d’aria, etc..
Nel manuale vengono trattati i seguenti argomenti: ... (13.10.2011 - link a www.acca.it).

NOTE, COMUNICATI E CIRCOLARI

APPALTIChiarimenti dal Ministero sulla Stazione Unica Appaltante.
Il Ministero dell'Interno ha inviato la lettera-circolare 05.10.2011 n. 11001/119/7/22 di prot. alle Prefetture delle province italiane, invitando ad attivarsi per l'adozione delle Stazioni Uniche Appaltanti, introdotta col D.P.C.M. 30.06.2011, in attuazione dell'articolo 13 della legge 13.08.2010, n. 136 - Piano straordinario contro le mafie (v. art. “E' arrivata la Stazione Unica Appaltante”).
Ricordiamo che la SUA (Stazione Unica Appaltante) ha il compito di seguire tutto l’iter procedurale di affidamento di lavori, forniture e servizi, collaborando con l’ente proponente ad individuare i contenuti del contratto e curando gli eventuali contenziosi insorti, con la finalità di prevenire le infiltrazioni mafiose.
La Circolare chiarisce i compiti della Stazione Unica ed evidenzia i vantaggi per le amministrazioni che la adottano. La SUA ha la funzione di curare la procedura della gara di affidamento nel suo complesso; è una struttura professionale altamente qualificata che assicura maggiore efficacia all'azione amministrativa.
L'Amministrazione ha la facoltà di aderire alla Stazione, spiega la Circolare, e ciò contribuisce a rafforzare l'economia legale e a innalzare il livello di prevenzione delle infiltrazioni criminali, ricevendo supporto dal momento dell'individuazione dei contenuti dello schema di contratto fino a quello dell'individuazione del contraente della stipula (13.10.2011 - link a www.acca.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità, conta il fattore tempo. Se il lavoratore non è subito sostituito equivale a cessazione. La Corte conti Lombardia toglie qualche certezza sul computo delle spese per il personale.
Mobilità neutrale ai fini delle spese di personale solo se effettuata contestualmente in uscita e in entrata. La mobilità in uscita è invece cessazione se il dipendente trasferito non viene sostituito velocemente, entro l'anno finanziario.
Il parere 29.09.2011 n. 498 della Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo per la Lombardia, toglie qualche certezza rispetto alla disciplina del computo delle spese di personale.
Fin qui, gran parte della dottrina e la granitica giurisprudenza della magistratura contabile ha considerato la mobilità ininfluente ai fini del computo della spesa di personale, in particolare con riferimento alla disposizione contenuta nell'articolo 9, comma 2-bis, della legge 122/2010.
Come è noto, tale disposizione impone agli enti locali di diminuire la dotazione finanziaria del fondo delle risorse decentrate in proporzione alla riduzione del personale in servizio.
Dando per scontato che la mobilità non comporta un incremento di oneri di personale per la finanza pubblica, si è ritenuto che la fuoriuscita di dipendenti trasferiti per mobilità non costituisca presupposto per apportare la diminuzione delle risorse decentrate indicata dal citato articolo 9, comma 2-bis.
La sezione Lombardia propone, però, una lettura diversa della norma. Secondo il parere reso dalla magistratura contabile, occorre partire dal presupposto che il conteggio finalizzato a costituire il fondo delle risorse decentrate avviene in base al numero di dipendenti in servizio presso l'ente. Di conseguenza, secondo la sezione il criterio di computo non può che «fondarsi sull'effettiva presenza in organico di personale». È, infatti, evidente che la riduzione del personale implica l'eliminazione dal fondo di alcune voci del finanziamento.
Del resto, il meccanismo previsto dall'articolo 9, comma 2-bis, vuole tendere alla riduzione stabile della spesa di personale, erodendo il fondo in una misura (non ancora ben determinata) proporzionata alla differenza del personale in servizio a inizio e fine anno.
Allora, ragiona la sezione Lombardia, «il venire meno di un'unità per mobilità esterna è da considerare personale cessato, quindi da prendere a riferimento ai fini applicativi dell'art. 9, comma 2-bis, citato».
Per la prima volta, dunque, la mobilità in uscita viene apertamente assimilata a cessazione, ai fini della riduzione del fondo.
Si tratta di una presa di posizione alla fine inevitabile. Infatti, se è vero che la mobilità non comporta una crescita della spesa di personale complessiva nella pubblica amministrazione, è altrettanto vero che il sistema di quantificazione di detta spesa non opera più a livello di singolo comparto, come ai tempi dell'articolo 1, comma 47, della legge 311/2004, ma esclusivamente con riferimento a ciascun singolo ente.
Dunque, l'uscita per mobilità di un dipendente, non contestualmente sostituito da una mobilità in entrata, implica oggettivamente una riduzione di personale, da cui non può non derivare l'applicazione dell'articolo 9, comma 2-bis. E viene messa, indirettamente, in discussione la vigenza del citato articolo 1, comma 47, sin cui data per scontata, ma la cui compatibilità con la vigente normativa appare molto discutibile (articolo ItaliaOggi del 14.10.2011 - tratto da www.corteconti.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGO: Formazione di livello universitario nelle PA. Coniugare le esigenze delle PA. e il diritto allo studio.
Sono stati forniti dal Dipartimento della Funzione Pubblica alcuni chiarimenti in ordine all’utilizzo di permessi e congedi per motivi di studio richiesti dal personale dipendente da Pubbliche Amministrazioni al fine di contemperare, in un giusto equilibrio, esigenze amministrative e diritto allo studio.
La legge, i contratti collettivi e gli accordi negoziali prevedono numerose possibilità di accedere proficuamente a percorsi di studio che consentano ai lavoratori di incrementare la propria professionalità, favorendo il necessario adeguamento ai rapidi cambiamenti del mondo del lavoro (dovuti anche alle numerose innovazioni tecnologiche). Le esigenze di tipo formativo devono, tuttavia, necessariamente coniugarsi con le esigenze della Pubblica Amministrazione, sia per quanto l’organizzazione del lavoro che il rispetto di limiti di spesa.
La circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica si sofferma in modo particolare sull’aspettativa per il conseguimento del dottorato di ricerca (Legge n. 476 del 1984 di recente oggetto di modifica da parte della legge n. 240 del 2010 (cd. Legge Gelmini) e del decreto legislativo n. 119 del 2011).
Normativa che si applica anche a coloro che ricadono nella sfera di applicazione del Decreto legislativo n. 165, per i quali era intervenuto il CCNL di comparto. In particolare nel 2010 è stato previsto, in maniera innovativa, che il collocamento del dipendente avvenga compatibilmente con le esigenze dell’amministrazione, accordando così all’interessato una posizione giuridica condizionata, la cui realizzazione è condizionata al buon andamento. Inoltre, il diritto al congedo non è riconosciuto a coloro che hanno già conseguito il titolo di dottore di ricerca e a coloro che sono stati iscritti a corsi di dottorato per almeno un anno accademico beneficiando del congedo senza poi avere conseguito il titolo.
Inoltre, nei casi di ripetizione degli importi corrisposti ai dipendenti (qualora avessero optato per un’aspettativa retribuita), essa e’ dovuta solo se il dipendente cessa il rapporto di lavoro con la P.A.; diversamente, nel caso in cui vi sia un passaggio per mobilità o vincita di concorso presso altra pubblica amministrazione. Per quanto attiene, inoltre, il regime delle “150 ore di permesso” (che, viene sottolineato, non spettano per l’attività di studio, ma per le attività didattiche/esami) con riferimento al cd. “personale di prestito”, la gestione dei permessi è rimessa all’amministrazione presso cui il personale e’ in comando. Una fattispecie particolare riguarda infine coloro che frequentano le università telematiche.
La disciplina dei permessi ha carattere generale e non si rinvengono preclusioni in ordine alla sua applicabilità anche all’ipotesi in commento. In ogni caso la fruizione dei permessi resta comunque subordinata alla presentazione della documentazione comprovante l’iscrizione e gli esami sostenuti, nonché all’attestazione della partecipazione perdonale del dipendente alle lezioni. In tale ultimo caso occorre certificare l’avvenuto collegamento all’università telematica durante l’orario di lavoro (commento tratto da www.ipsoa.it - Dipartimento Funzione Pubblica, circolare 07.10.2011 n. 12/2011).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Statali, salvati i buoni pasto. Berlusconi: nessun taglio - Pa: 300mila dipendenti in meno nel 2014.
EQUO INDENNIZZO - Cancellata anche la norma che negava il giudizio equitativo nelle azioni di risarcimento. Per Palazzo Vidoni era incostituzionale.

«Durante il Consiglio dei ministri se ne è parlato ma poi abbiamo deciso di non farne nulla». Silvio Berlusconi ieri ha smentito così la notizia del taglio ai buoni pasto dei dipendenti pubblici. La misura è stata sfilata dall'articolato del disegno di legge di stabilità messo a punto dai tecnici dell'Economia dopo un confronto tra i ministri anche per i «problemi applicativi» che avrebbe comportato una sua rigorosa applicazione, ha fatto sapere in una nota il portavoce del ministro per la Pa e l'Innovazione, Renato Brunetta.
Con la norma taglia-ticket –che sarebbe scattata per la maggioranza dei dipendenti, visto che valeva per presenze in ufficio inferiori alle 8 ore al giorno– è sparita anche la misura che negava la possibilità di equo indennizzo nelle azioni di risarcimento per danno non patrimoniale. In questo secondo caso lo scoglio era di natura costituzionale, stando ai tecnici di palazzo Vidoni.
Delle misure sul pubblico impiego, a questo punto, dovrebbero essere rimaste in campo la mini-tassa sui concorsi per dirigenti, la soppressione di accertamento e pagamento dell'indennità per infermità derivante da cause di servizio (da cui sono comunque esclusi i dipendenti del comparto sicurezza) e la norma che riduce a 60 giorni i termini per le azioni giudiziarie per controversie di lavoro.
La marcia indietro sui buoni pasto è stata accolta con soddisfazione da tutto il fronte sindacale e dalle opposizioni. Ma ora si tratta di capire con quali misure alternative saranno garantiti i tagli di spesa potenziali –il conto dei ticket restaurant sfiora il miliardo l'anno per tutta la Pa- visto che con quell'intervento si contribuiva a garantire i tagli alla spesa dei ministeri e degli enti territoriali.
Il pubblico impiego, in effetti, era già stato colpito da nuove misure restrittive sulla spesa (in aggiunta a quelle del 2009 e del 2010) che spaziano dalla proroga fino al 2014 del blocco dei contratti alla proroga del blocco del turn-over; strette che in termini cumulati dovrebbero garantire una minor spesa per oltre un miliardo nel 2014, anno in cui il numero complessivo dei dipendenti dovrebbe stabilizzarsi attorno ai 3,3 milioni, con un calo dell'8% rispetto all'inizio della legislatura. Nel 2014, inoltre, grazie al blocco della contrattazione, si realizzerà un allineamento tra le retribuzioni di fatto dei dipendenti pubblici con quelle dei privati, come è confermato dalle stime Aran raccolte nella relazione al Parlamento sullo stato della Pa 2010-2011 che il ministro Brunetta ha consegnato l'altro giorno al presidente della Camera, Gianfranco Fini.
La Relazione mette a fuoco alcuni dei profili più importanti di monitoraggio della spesa non obbligatoria delle amministrazioni. Un dato, in particolare, risulta significativo: è scesa sotto quota un miliardo la spesa per le consulenze esterne. L'anno scorso -secondo quanto si legge nella Relazione- sono stati spesi per le 199.619 consulenze esterne 962.918.344 euro con un calo del 5% rispetto al 2009. Il numero dei consulenti è diminuito del 16% ma è aumentato il compenso medio per incarico da 4.057 euro a 4.366 (+8%) (articolo Il Sole 24 Ore del 15.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLEGGE DI STABILITÀ/ P.a., il buono pasto va guadagnato. Ticket a chi lavora almeno 8 ore. Contributo per i concorsi. I dipendenti in missione dovranno alloggiare nelle strutture degli enti.
Il buono pasto al personale pubblico, dovrà essere corrisposto quando il lavoratore svolga almeno otto ore di servizio. Ai dipendenti pubblici comandati presso le Autority non spetterà più l'erogazione di emolumenti o indennità finalizzati a operare perequazioni con il personale di ruolo.
Per poter partecipare ai concorsi indetti dalla pubblica amministrazione per l'immissione nella carriera dirigenziale si dovrà versare un contributo per le spese della procedura. A tal fine, i bandi, dovranno prevedere un versamento variabile dai 10 ai 15 euro.
I dipendenti pubblici in missione, dovranno usufruire, per il vitto e l'alloggio, delle apposite strutture messe a disposizione delle amministrazioni di appartenenza, se esistenti e disponibili. Dall'anno scolastico 2012-2013, nel comparto scuola, i distacchi o i permessi sindacali saranno ridotti del 15%.

Sono queste alcune delle disposizioni contenute all'articolo 4 del disegno di legge di stabilità che l'esecutivo ha varato nella seduta del consiglio dei ministri di ieri. Entriamo nel dettaglio delle norme varate.
Tassa sui concorsi. I concorsi per l'accesso alle qualifiche dirigenziali delle amministrazioni pubbliche dovranno prevedere un «diritto di segreteria», dovuto a titolo di copertura delle spese della procedura. E' quanto si prevede al comma 58 del citato articolo 4. Saranno gli stessi bandi di concorso a prevedere la misura di tale contributo che dovrà variare da 10 a 15 euro. Esentati dal versamento del contributo, i concorsi indetti dalle regioni, province autonome, dagli enti locali e dagli enti del Servizio sanitario nazionale.
Buono pasto solo dopo otto ore. I dipendenti pubblici, anche con qualifica dirigenziale, non potranno ricevere il buono pasto nei giorni in cui la loro prestazione effettiva, attestata mediante i sistemi di rilevazione automatica, al netto della pausa pranzo e degli eventuali riposi, sia inferiore ad otto ore. Il comma 60 pertanto, opera un taglio netto con quanto sinora vigente (il buono pasto spetta dopo almeno sei ore di prestazione lavorativa).
E infatti, la disposizione precisa che le disposizioni contrattuali in contrasto con quanto sopra, sono nulle e non possono trovare applicazione. Dall'entrata in vigore della disposizione, pertanto, tenuto conto che la pausa pranzo non potrà essere inferiore a trenta minuti e che la prestazione lavorativa massima giornaliera non può superare, per legge, le nove ore, per avere il buono pasto si dovrà stare (fisicamente) in ufficio almeno 8 ore e 30 minuti.
Tuttavia, l'esecutivo lancia una ciambella di salvataggio, prevedendo l'esclusione dalle disposizioni sopra richiamate per il personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico.
Vitto e alloggio durante le missioni. Stretta sulla spesa per le missioni del personale statale. Il comma 123 infatti, precisa che i dipendenti pubblici inviati in missione (all'interno del territorio nazionale) per motivi di servizio, dovranno utilizzare, per il vitto e l'alloggio, delle strutture che le amministrazioni di appartenenza metteranno a loro disposizione «ove esistenti e disponibili».
Una norma finalizzata ad operare una significativa stretta sui rimborsi spese sostenuti dai dipendenti inviati in missione che, a titolo esemplificativo, oggi permettono di consumare un pasto per massimo di 22 euro e il pernottamento, qualora la missione superi le otto ore, in alberghi tre stelle.
Indennità di trasferta addio. Non sarà più erogata l'indennità di trasferta e i relativi rimborsi spese, al personale pubblico che viene trasferito per ordine dell'amministrazione di appartenenza. Il comma 57 prevede infatti, la soppressione degli artt. 18,19, 20 e 24 della legge n. 836/1973. Resta in piedi la sola indennità di prima sistemazione, ma al verificarsi del presupposto che il dipendenti cambi anche la residenza nel comune della nuova sede di servizio.
Distacchi sindacali e scuola. Dal prossimo anno scolastico, il comma 84 dell'articolo 4 del ddl in esame, precisa che, al fine di valorizzare le professionalità del personale scolastico e di pervenire a riduzioni di spesa, nel comparto scuola, i distacchi, le aspettative ed i permessi sindacali sono ridotti del 15%.
Tagli al comparto sicurezza. Meno dieci milioni di euro per il 2012 e meno cinquanta milioni dal 2013 nel comparto sicurezza. Il comma 26 prevede una razionalizzazione delle risorse umane e strumentali, fermo restando il raggiungimento degli obiettivi di sicurezza pubblica. La riduzione delle risorse sarà operata «salomonicamente» nella misura del 50% a carico della polizia di stato e dell'altro 50% a carico dell'Arma dei carabinieri.
Personale comandato delle Autority.
Stretta (economica) anche per il personale delle amministrazioni pubbliche che si trova in posizione di comando o distacco presso le autorità amministrative indipendenti. A questi lavoratori, il comma 63 prevede che non potranno essere erogati, da parte delle stesse Autorità, indennità, compensi o altri emolumenti finalizzati ad operare perequazioni con il trattamento economico fondamentale del personale di ruolo delle stesse Autorità (articolo ItaliaOggi del 15.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGORiposi orari ai papà. Ok anche se la mamma è casalinga. Nota Inpdap sulle condizioni per usufruire del diritto.
Il papà lavoratore dipendente ha diritto a fruire dei riposi orari (ex allattamento) anche se il coniuge è casalinga purché sia impossibilitata a curare il neonato.
Lo spiega l'Inpdap nella nota operativa 13.10.2011 n. 23/2011, precisando che il diritto scatta solo in certe condizioni opportunamente documentate; che il padre può fruire dei riposi entro il primo anno di vita del bimbo (o dall'ingresso in caso di minore adottato o affidato); e che non è consentito in alcun modo il recupero delle ore non godute.
La questione riguarda dunque i riposi orari. La madre lavoratrice dipendente ne ha diritto in misura pari a due periodi giornalieri, anche cumulabili, di un'ora ciascuno durante il primo anno di vita del bimbo (dopo il congedo di maternità). La disciplina (T.u. maternità, dlgs n. 151/2001) prevede che il padre lavoratore dipendente possa fruire di tali riposi nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente; qualora i figli siano affidati al solo padre o in caso di morte o grave infermità della madre. L'ipotesi di madre non lavoratrice dipendente è stata intesa nel senso di madre lavoratrice autonoma (per esempio artigiana, commerciante, coltivatrice diretta, co.co.pro. ecc.) e non anche di madre casalinga.
Con sentenza n. 4293/2008, il consiglio di stato ha interpretato in maniera più estensiva quest'ipotesi, equiparando alla madre non lavoratrice dipendente la casalinga impegnata in attività che la distolgono dalla cura del neonato. Praticamente, dunque, anche in queste ipotesi il papà ha diritto ai riposi orari.
Alla luce di tali indicazioni l'Inpdap illustra i riflessi contributivi e procedurali per quanto di propria competenza. Innanzitutto spiega che la nuova interpretazione estensiva consente di riconoscere al lavoratore padre il diritto a fruire dei permessi orari anche nell'ipotesi in cui la madre svolga lavoro casalingo.
Trattandosi di permessi retribuiti, aggiunge l'Inpdap, la loro fruizione non ha alcuna incidenza ai fini degli obblighi contributivi; pertanto, in presenza di determinate condizioni, «opportunamente documentate» (madre casalinga impossibilitata a prendersi cura del neonato perché impegnata in altre attività, quali ad esempio accertamenti sanitari, partecipazione a pubblici concorsi, cure mediche e altre simili), il padre dipendente può fruire dei riposi giornalieri nei limiti di due ore o di un'ora al giorno a seconda dell'orario giornaliero di lavoro, entro il primo anno di vita del bambino o entro il primo anno dall'ingresso in famiglia del minore adottato o affidato.
I riposi possono essere fruiti a partire dal giorno successivo ai tre mesi dopo il parto. In caso di parto plurimo, il padre dipendente può fruire del raddoppio dei riposi e le ore aggiuntive possono essere utilizzate anche durate i primi tre mesi dopo il parto. Infine, l'Inpdap precisa che non è consentito in alcun modo il recupero delle ore di permesso eventualmente non godute (articolo ItaliaOggi del 15.10.2011).

PUBBLICO IMPIEGOMalattia, ricaduta nel certificato. Messaggio Inps sulle annotazioni.
I medici devono precisare nel certificato se la malattia si riferisce a un precedente evento morboso, per evitare al lavoratore la trattenuta Inps relativa ai tre giorni di carenza.
Lo spiega, tra l'altro, il messaggio n. 19405/2011 dell'INPS.
La precisazione fa seguito ad apposite richieste di chiarimento, da parte degli uffici Inps, in merito alla nuova procedura che dal 14 settembre ha praticamente equiparato la disciplina sulla malattia dei lavoratori pubblici e privati.
Nel dettaglio l'Inps spiega che, qualora l'evento morboso si configuri quale «continuazione» dello stato patologico in corso, il medico curante deve farne menzione negli appositi campi previsti nel certificato e nell'attestazione di malattia; e che inoltre stessa annotazione deve essere riportata anche nel caso di ricaduta, ipotesi ricorrente quando il lavoratore, rientrato in servizio dopo un periodo di assenza per malattia, è costretto ad assentarsi nuovamente a causa di uno stato patologico riconducibile al precedente evento morboso «nell'arco temporale di 30 giorni dalla ripresa dell'attività lavorativa».
Tale annotazione servirà a configurare la seconda assenza per malattia non un nuovo evento morboso ma una prosecuzione del primo con la conseguenza che, agli effetti della liquidazione delle prestazioni economiche, l'Inps non effettuerà la trattenuta dei giorni di carenza (i primi tre), e potrà effettuare correttamente il calcolo dell'elevazione della misura dell'indennità in base ai limiti temporali previsti dalla normativa.
Infine, il messaggio mette in guardia gli uffici sulle visite fiscali, chiedendo di riscontrare gli esiti delle richieste inoltrate alle Asl. Ciò perché, in base a quanto riferisce l'Inps, le Asl richiedono il pagamento del compenso anche nei casi in cui non riescano a fare le visite nello stesso giorno in cui sono richieste, ma le effettuino in giornate successive (vanificando, però, gli effetti del controllo) (articolo ItaliaOggi del 15.10.2011).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Nella prima seduta scadenze non ultimative. Consiglio di stato: dal ritardo non possono discendere misure repressive. In consiglio senza affanni.
Quale disciplina dettano gli artt. 41, 46, comma 2, e 50, comma 11, del Tuel n. 267/2000 in tema di adempimenti previsti nella prima seduta del consiglio comunale rinnovato?
In linea generale, le norme di cui agli artt. 41 e 46, comma 2 del Tuel n. 267/2000 «non stabiliscono scadenze ultimative per procedere agli adempimenti da esse previsti. Le due disposizioni in esame prevedono incombenze preliminari necessarie per un ordinato inizio dell'attività dell'ente e hanno una formulazione evidentemente acceleratoria. Si tratta comunque di incombenze che non possono non essere poste in essere anche se in ritardo. Dal ritardo non possono evidentemente discendere, in mancanza di specifiche previsioni normative in tal senso, misure repressive» (Cons. stato sez. V, 22/11/2005, n. 6476).
Pertanto, se il consiglio comunale ha compiutamente adempiuto in conformità alle disposizioni citate, adottando le relative deliberazioni, ogni eventuale loro vizio non potrà che essere fatto rilevare con le previste impugnazioni (articolo ItaliaOggi del 14.10.2011).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Ordine del giorno del consiglio.
Sussiste l'obbligo di inserire nuovamente nell'ordine del giorno del consiglio comunale una mozione, presentata da un gruppo consiliare, già oggetto di discussione in una precedente seduta che si è conclusa con una dichiarazione di abbandono dell'aula da parte dei consiglieri di maggioranza ed il conseguente scioglimento della seduta per mancanza del numero legale?

L'art. 43, comma 1, del dlgs n. 267/2000 riconosce ai «consiglieri comunali e provinciali» il diritto di iniziativa su ogni questione sottoposta alla deliberazione del consiglio, stabilendo che «hanno inoltre il diritto di chiedere la convocazione del consiglio secondo le modalità dettate dall'art. 39, comma 2, e di presentare interrogazioni e mozioni».
La dottrina definisce le «mozioni» quali atti approvati dal consiglio per esercitare un'azione di indirizzo, esprimere posizioni e giudizi su determinate questioni, organizzare la propria attività, disciplinare procedure e stabilire adempimenti dell'amministrazione nei confronti del consiglio.
Il Tar Puglia –sezione di Lecce– I sez., sentenza n. 1022/2004, individua la mozione quale «istituto a contenuto non specificato trattandosi di un potere a tutela della minoranza per situazioni non predefinibili, a differenza di altri strumenti più a valenza di mera conoscenza (quali l'interrogazione o la interpellanza), essendo strumento di introduzione a un dibattito che si conclude con un voto che è ragione ed effetto proprio della mozione».
Alla luce della dottrina e della giurisprudenza segnalata, a differenza della interrogazione e dell'interpellanza a cui rispondono il sindaco e la giunta, la mozione è diretta al consiglio comunale -il cui funzionamento, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento (art. 38 del dlgs n. 267/2000)- che deve esprimersi nelle forme della deliberazione, rappresentando l'istituto una forma di controllo politico-amministrativo di cui all'art. 42, comma 1, del dlgs n. 267/2000.
Pertanto, sulla base dell'ordine del giorno fissato, ogni questione di ammissibilità alla discussione degli argomenti previsti è attribuita al potere sovrano delle assemblee politiche (Tar Puglia sent. ult. cit.) al quale spetta di decidere in via pregiudiziale (articolo ItaliaOggi del 14.10.2011).

ESPROPRIAZIONE: Indennizzi espropriativi in Corte d'appello.
Per contestare un indennizzo espropriativo si va in Corte d'appello. L'articolo 29 del decreto legislativo 150/2011 elenca tra i procedimenti sottoposti al rito sommario di cognizione le controversie aventi ad oggetto l'opposizione alla stima di cui all'articolo 54 del decreto legislativo 327/2001 (Testo unico espropri), ma mantiene la competenza della Corte d'appello nel cui distretto si trova il bene espropriato.
L'opposizione va proposta, a pena di inammissibilità, entro il termine di trenta giorni dalla notifica del decreto di esproprio o dalla notifica della stima peritale, se quest'ultima sia successiva al decreto di esproprio. Il termine è raddoppiato (sessanta giorni) se il ricorrente risiede all'estero.
Il ricorso è notificato all'autorità espropriante, al promotore dell'espropriazione e, se del caso, al beneficiario dell'espropriazione, se attore è il proprietario del bene, o all'autorità espropriante e al proprietario del bene, se attore è il promotore dell'espropriazione. Il ricorso è notificato anche al concessionario dell'opera pubblica, se tenuto al pagamento dell'indennità.
La relazione illustrativa precisa che le controversie sono state ricondotte al rito sommario di cognizione, in considerazione del fatto che esse, nel loro pratico svolgimento, sono caratterizzate da una relativa semplicità quanto all'oggetto della controversia semplice, cui consegue ordinariamente un'attività istruttoria breve, a prescindere dalla natura delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte o delle questioni giuridiche da trattare e decidere.
Di solito l'istruttoria è concentrata su una consulenza tecnica sul valore del bene espropriato.
Sono state mantenute ferme l'individuazione e la composizione dell'organo giudicante (la Corte d'appello, in grado unico di merito e la competenza territoriale, correlata al luogo in cui si trova il bene espropriato.
Sempre la relazione illustrativa spiega che sono state mantenute anche le seguenti peculiarità: il termine per la proposizione del ricorso, a pena di inammissibilità, di 30 giorni decorrente dalla notifica del decreto di esproprio o dalla notifica della stima peritale, se successiva al decreto di esproprio, aumentati a 60 giorni se il ricorrente risiede all'estero; i termini sono uniformati a quelli previsti nel decreto legislativo 150, e sono dichiarati termini posti a pena d'inammissibilità; l'obbligo di notifica del ricorso all'autorità espropriante, al promotore dell'espropriazione e, se del caso, al beneficiario dell'espropriazione, se attore è il proprietario del bene, ovvero all'autorità espropriante e al proprietario del bene, se attore è il promotore dell'espropriazione.
È stato ritenuto di mantenere la previgente dizione letterale della norma, che, secondo la giurisprudenza costante integra una ipotesi di mero avviso sulla pendenza del giudizio, rimanendo fermi i criteri elaborati dalla giurisprudenza per la individuazione del soggetto legittimato passivo rispetto alla pretesa fatta valere in giudizio (articolo ItaliaOggi del 13.10.2011).

ENTI LOCALI: Enti, chi dismette può investire. I proventi possono essere utilizzati senza sforare il Patto. Le novità che il ministero delle infrastrutture ha proposto di inserire nel decreto sviluppo.
Deroga al patto di stabilità per gli investimenti effettuati con i proventi delle dismissioni del patrimonio residenziale pubblico. Conferenza preliminare sul progetto a base di gara di lavori oltre i 20 milioni. Suddivisione in lotti per favorire le piccole e medie imprese.
Sono queste alcune delle novità proposte dal ministero delle infrastrutture e contenute nella nuova versione del decreto-legge «sviluppo» in gestazione ormai da diverse settimane e che dovrebbe vedere la luce la prossima settimana, turbolenze politiche permettendo.
Di particolare interesse è la norma che consente alle regioni e agli enti locali di utilizzare, ai fini di investimento, i proventi delle dismissioni del patrimonio residenziale pubblico; ciò potrà avvenire «in deroga al patto di stabilità» e tali somme «non concorreranno a determinare l'obiettivo di finanza pubblica individuato dal patto di stabilità». Si tratta di una norma che dovrebbe quindi incentivare le dismissioni e gli investimenti a livello locale, fornendo quelle risorse che mancano per realizzare opere pubbliche.
Una nuova norma stabilisce che, in caso di costituzione di società miste per lo sviluppo di aree territoriali, la quota di investimento pubblico degli enti locali risulti esclusa dal computo del saldo finanziario ai fini del rispetto del patto di stabilità. Inoltre le società miste potranno «fissare sistemi tariffari incentivanti l'utilizzo di modalità di trasporto meno congestionate o maggiormente sostenibili sotto il profilo ambientale e individuare tariffazioni d'area multimodale, capitalizzando eventuali esternalità positive».
La nuova versione del decreto-legge (peraltro con un primo articolo in bianco dal titolo «defiscalizzazione», di competenza del ministero dell'economia) nell'intervenire su più parti del Codice dei contratti pubblici, conferma la soppressione della norma del decreto legge 70/2011 che prevede l'aggiudicazione degli appalti al netto del costo del lavoro. Viene riscritta la norma interpretativa sul divieto di varianti (oltre il 20%) nel senso di ritenerla applicabile ai contratti stipulati dopo l'entrata in vigore della legge 106/2011, di conversione del decreto legge 70) mentre, per i contratti stipulati in precedenza, si applicheranno le norme vigenti prima dell'approvazione del decreto legge. In ogni caso si prevede che non debbano calcolarsi, ai fini dello sforamento del tetto alle varianti, gli importi relativi a varianti già approvate al momento del varo della legge 106.
Collegata a questa è anche la norma che rende responsabili in solido il progettista e il verificatore per errori o omissioni progettuali da fare valere, da parte dell'impresa, nei confronti dei soggetti garanti (le compagnie assicuratrici). Vengono poi introdotte alcune nuove disposizioni in materia di opere di urbanizzazione che escludono l'obbligo, per il titolare del permesso di costruire, dello svolgimento di una gara per la realizzazione di lavori al di sotto della soglia comunitaria.
Si prevede poi, obbligatoriamente per le opere oltre i 20 milioni di euro, affidati con procedura ristretta, la cosiddetta «consultazione preliminare» sul progetto posto a base di gara. La procedura prevede che la quale la stazione appaltante convochi tutte le imprese invitate a presentare offerta le quali possono chiedere chiarimenti sul progetto al progettista e al verificatore.
Il tutto al fine di formulare offerte il più accurate possibili. Ritoccata anche la disposizione sul «caro-materiali» (adeguamento dei prezzi contrattuali, resa possibile per sforamenti oltre il 15% del prezzo rilevato con d.m. e relativo all'anno di presentazione dell'offerta.
Per favorire l'accesso delle piccole e medie imprese agli appalti si dà la facoltà alle stazioni appaltanti di suddividere gli appalti in lotti e si stabilisce che per le grandi infrastrutture e per le opere compensative e integrative ad esse collegate, si debbano «garantire modalità di coinvolgimento delle piccole e medie imprese» (articolo ItaliaOggi del 13.10.2011 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

VARI: Corte di cassazione sugli incidenti stradali. Mancato uso di cinture di sicurezza, indennizzo ridotto. La compagnia di assicurazione può operare rimborsi parziali o rifiutare in toto il risarcimento.
In caso di sinistro stradale, verificatosi con le cinture di sicurezza non regolarmente allacciate – se non, addirittura, inutilizzate – la Compagnia di assicurazione è legittimata a operare un rimborso parziale o, perfino, a rifiutarlo del tutto: la mancata adozione dei sistemi di trattenuta anche da parte di un passeggero rappresenta, infatti, una ipotesi di concorso causale nel fatto colposo che, cooperando alla produzione del danno, determina una riduzione del risarcimento dello stesso.
È quanto è emerso, da ultimo, nella sentenza n. 19884/2011 della Corte di Cassazione (III Sez. civile), la quale ha respinto il ricorso di una donna, vittima, assieme al conducente del veicolo a bordo del quale veniva trasportata, di un incidente.
Avverso la sentenza di merito, la ricorrente –tra i motivi di censura addotti– lamentava il fatto che i magistrati di primo grado avessero desunto «per presunzione» il mancato utilizzo della cintura di sicurezza e chiedeva, di conseguenza, di accertare, in sede di legittimità, quale fosse stata la causa della contusione cranica riportata nell'impatto (collisione confermata, tra l'altro, dallo stesso conducente della vettura, secondo il quale «la trasportata aveva urtato violentemente la testa contro il vetro») se, cioè, l'urto fosse avvenuto contro il parabrezza ovvero il vetro laterale.
I Supremi giudici, nel dichiarare l'inammissibilità della censura, hanno, tuttavia, chiarito che si trattava di «questioni di fatto nuove» che avrebbero indotto a un rinnovato esame degli elementi probatori emersi e a una loro differente valutazione.
La vicenda sottoposta all'esame degli Ermellini non è, però, del tutto singolare: già nel 2009, con la sentenza n. 12547, la Terza sezione civile aveva rigettato il ricorso di un uomo ed una donna che avevano subito un tamponamento a Napoli, stabilendo che «non portare la cintura di sicurezza determina un risarcimento del danno ridotto»; nello stesso senso, secondo la Cassazione civile, Terza sezione, 28.08.2007, n. 18177, «la mancata adozione delle cinture di sicurezza da parte di un passeggero, poi deceduto, integra una ipotesi di cooperazione nel fatto colposo che legittima la riduzione proporzionale del risarcimento del danno in favore dei congiunti della vittima» (articolo ItaliaOggi del 13.10.2011 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI: L'articolo 38, comma 1, del dlgs 163/2006 ricollega l'esclusione dalla gara pubblica al dato sostanziale del mancato possesso dei requisiti indicati nel bando mentre il comma 2 non prevede analoga sanzione per l'ipotesi di mancata o non perspicua dichiarazione.
Laddove il bando di gara richiede genericamente una dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione di cui all'articolo 38 del Codice, esso giustifica una valutazione di gravità/non gravità compiuta dal concorrente, sicché questi non può essere escluso per il solo fatto dell'omissione formale, cioè di non aver dichiarato tutte le condanne penali o tutte le violazioni contributive; andrà escluso solo ove la stazione appaltante ritenga che le condanne o le violazioni contributive siano gravi e definitivamente accertate.
Diverso discorso deve essere fatto quando il bando sia più preciso e non si limiti a chiedere una generica dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione di cui all'articolo 38, ma specifichi che vanno dichiarate tutte le condanne penali o tutte le violazioni contributive; in tal caso, il bando esige una dichiarazione dal contenuto più ampio e più puntuale rispetto a quanto prescritto dalla legge, all'evidente fine di riservare alla stazione appaltante la valutazione di gravità o meno dell'illecito, al fine di esclusione. In siffatta ipotesi, la causa di esclusione non è solo quella, sostanziale, dell'essere stata commessa una grave violazione, ma anche quella, formale, di aver omesso una dichiarazione prescritta dal bando.

L’articolo 38 del Codice dei contratti pubblici considera, come cause di esclusione, al comma 1, lettera c), tra l’altro, l’aver riportato condanne per <<reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale>>.
Il comma 2 prevede che <<Il candidato o il concorrente attesta il possesso dei requisiti mediante dichiarazione sostitutiva in conformità alle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, in cui indica anche le eventuali condanne per le quali abbia beneficiato della non menzione>>.
La giurisprudenza prevalente afferma che l'articolo 38, comma 1, (nelle diverse fattispecie ivi elencate) ricollega l'esclusione dalla gara pubblica al dato sostanziale del mancato possesso dei requisiti indicati nel bando (per la fattispecie di cui alla lettera c), la stazione appaltante deve valutare caso per caso la condotta dell'offerente, tenendo conto di molteplici aspetti quali quelli soggettivi, temporali, relazionali per verificare la sua professionalità per come nel tempo si è manifestata, dando specifico conto delle risultanze nella motivazione dell'eventuale provvedimento di esclusione – cfr. TAR Umbria, 25.02.2011, n. 58 ), mentre il comma 2 non prevede analoga sanzione per l'ipotesi di mancata o non perspicua dichiarazione (cfr., da ultimo, Cons. Stato, V, 24.03.2011, n. 1795).
Laddove il bando richiede genericamente una dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione di cui all'articolo 38 del Codice, esso giustifica una valutazione di gravità/non gravità compiuta dal concorrente, sicché questi non può essere escluso per il solo fatto dell'omissione formale, cioè di non aver dichiarato tutte le condanne penali o tutte le violazioni contributive; andrà escluso solo ove la stazione appaltante ritenga che le condanne o le violazioni contributive siano gravi e definitivamente accertate.
Diverso discorso deve essere fatto quando il bando sia più preciso e non si limiti a chiedere una generica dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione di cui all'articolo 38, ma specifichi che vanno dichiarate tutte le condanne penali o tutte le violazioni contributive; in tal caso, il bando esige una dichiarazione dal contenuto più ampio e più puntuale rispetto a quanto prescritto dalla legge, all'evidente fine di riservare alla stazione appaltante la valutazione di gravità o meno dell'illecito, al fine di esclusione. In siffatta ipotesi, la causa di esclusione non è solo quella, sostanziale, dell'essere stata commessa una grave violazione, ma anche quella, formale, di aver omesso una dichiarazione prescritta dal bando (cfr. Cons. Stato, VI, 21.12.2010, n. 9324; 24.06.2010, n. 4019; 22.01.2010, n. 1017 – oltre a n. 4082/2009, cit.) (TAR Umbria, sentenza 13.10.2011 n. 330 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Spammare si può. Non è molesto l'invio ripetuto di mail. La Cassazione sentenzia che il disturbo non è diretto.
La Suprema corte «scagiona» internet. Non risponde di molestie chi invia numerosi messaggi indesiderati di posta elettronica.

È quanto sancito dalla Cassazione che, con la sentenza 12.10.2011 n. 36779, ha annullato senza rinvio la condanna inflitta a due giovani di Grosseto che avevano inviato molte e-mail indesiderate a una conoscente. Insomma la prima sezione penale ha tracciato una linea di confine fra il telefono, gli sms e internet. In poche parole con la posta elettronica il destinatario non è costretto a ricevere suoni indesiderati e quindi non si configurano le molestie.
In due pagine di motivazioni i giudici hanno sottolineato come vada «esclusa l'ipotizzabilità del reato de qua nel caso di molestie recate con il mezzo della posta elettronica, perché in tal caso nessuna immediata interazione tra il mittente e il destinatario si verificherebbe né veruna intrusione diretta del primo nella sfera delle attività del secondo. Contrariamente alla molestia recata con il telefono, alla quale il destinatario non può sottrarsi, se non disattivando l'apparecchio telefonico, nel caso di molestia tramite posta elettronica una tale forzata intrusione nella libertà di comunicazione non si potrebbe, secondo il predetto precedente, verificare, come di certo non si verifica nel caso di molestia trasmessa tramite lettera».
Ad avviso della Corte, tuttavia, va fatta una precisazione. Oggi, la tecnologia è in grado di veicolare, in entrata e in uscita, tramite apparecchi telefonici, sia fissi che mobili, anche di non ultimissima generazione, sia sms (short messages system) sia e-mail. Il carattere sincronico o a-sincronico del contenuto della comunicazione, elemento distintivo dal quale si dovrebbe ricavare il criterio per espungere dalla previsione dell'art. 660 Cp le comunicazione asincrona, non è affatto dirimente.
In realtà, ad avviso del Collegio di legittimità, «entrambe le comunicazioni sono sempre segnalate da un avvertimento acustico che ne indica l'arrivo, e che può, specie nel caso di spamming, costituito dall'affollamento indesiderato del servizio di posta elettronica con petulanti e-mail, recare quella molestia e quel disturbo alla persona che di questa lede con pari intensità la libertà di comunicazione costituzionalmente garantita. In tal caso è palese l'invasività dell'avvertimento al quale il destinatario non può sottrarsi se non dismettendo l'uso del telefono, con conseguente lesione, per la forzata privazione, della propria tranquillità e privacy, da un lato, con la compromissione della propria libertà di comunicazione, dall'altro».
Nonostante queste affermazioni Piazza Cavour ha assolto gli imputati perché gli invii indesiderati, per quanto numerosi, non creavano un disturbo diretto: la giovane doveva scaricarsi la posta prima di leggerla. Anche la Procura generale della Suprema corte aveva chiesto che gli imputati fossero assolti in Cassazione (articolo ItaliaOggi del 13.10.2011 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO – Stazioni radio base – Procedimento autorizzatorio ex art. 87 cod. com. elettroniche – Valutazione urbanistico-edilizia – Assorbimento.
Il procedimento indicato dall’art. 87 del d.lgs. n. 259/2003 ha finalità semplificatorie ai fini della realizzazione di opere aventi una particolare rilevanza pubblicistica (stazioni radio base), di talché il titolo autorizzatorio previsto dall’art. 87 d.lgs. n. 259/2003 assorbe in sé la valutazione urbanistico–edilizia che presiede al rilascio del titolo disciplinato dal d.p.r. n. 380/2001 (Cons. Stato sez. VI n. 98/2011; Cons. Stato sez. VI n. 4557/2010).
Infatti, ove si ritenesse che il procedimento previsto dal d.lgs. n. 259/2003 fosse destinato non a sostituire ma ad abbinarsi a quello edilizio ordinario, verrebbero vanificati i principi ispiratori del codice delle comunicazioni elettroniche, in particolare quelli della previsione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti per la concessione del diritto di installazione e della riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti, nonché della regolazione uniforme dei medesimi (Cons. Stato, VI, 19.10.2008, n. 5044) (massima tratta da www.ambientediritto.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 12.10.2011 n. 7905 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa circostanza che l’area sulla quale insistono le opere contestate sia inserita in un ambito territoriale designato quale Sito di Importanza Comunitaria (SIC) e Zona di Protezione Speciale (ZPS), non determina l’applicazione della disciplina paesaggistica dettata dal d.lgs. n. 42 del 2004.
Con il ricorso introduttivo del presente giudizio è stata impugnata l’ordinanza con la quale l’amministrazione comunale ha ingiunto, successivamente al rigetto della domanda di sanatoria, la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi in relazione ad opere edilizie abusive realizzate sull’immobile in proprietà del ricorrente, insistente su area sottoposta a vincolo paesaggistico.
...
Come correttamente rilevato dalla difesa del ricorrente, la circostanza che l’area sulla quale insistono le opere contestate sia inserita in un ambito territoriale designato quale Sito di Importanza Comunitaria e Zona di Protezione Speciale, non determina l’applicazione della disciplina paesaggistica dettata dal d.lgs. n. 42 del 2004.
I Siti di Importanza Comunitaria e le Zone di Protezione Speciale sono stati previsti dalla Direttiva Habitat 92/43/CEE, emanata dalla Comunità Europea il 21.05.1992 e recepita nell’ordinamento nazionale con D.P.R. n. 357 del 1997, successivamente modificato con il D.P.R. n. 120 del 2003.
La ratio sottesa ai suddetti interventi normativi è quella della conservazione e tutela degli habitat naturali e seminaturali nonché della flora e fauna selvatica. A tal fine, è stata dettata una specifica disciplina che prevede particolari procedure nonché l’introduzione della Valutazione di Incidenza, la quale costituisce istituto del tutto distinto dall’autorizzazione paesaggistica disciplinata dall’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dall’amministrazione comunale, l’applicazione del d.lgs. n. 42 del 2004 non può farsi discendere, nella fattispecie, neanche dalla previsione dell’art. 142, comma 1, lett. f), ai sensi della quale “sono comunque sottoposti alle disposizioni di questo Titolo per il loro interesse paesaggistico (….) i parchi e le riserve nazionali o regionali, nonché i territori di protezione esterna dei parchi”;
Ai fini dell’applicazione della suddetta disposizione, non può ritenersi sufficiente la circostanza che l’area de qua sia stata inserita, quale zona a previsto parco naturale, nel Piano Territoriale Regionale di Coordinamento (PTRC) nonché nel Piano Territoriale Provinciale (PTP). Infatti, sebbene il PTRC assuma la valenza –in forza delle previsioni della l.r. n. 11 del 2004, che hanno sostanzialmente confermato quanto già in precedenza disposto dalla l.r. n. 9 del 1986 e dalla l.r. n. 18 del 2006– di "piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici", ciò non determina l’applicazione della normativa dettata dal d.lgs. n. 42 del 2004.
Dunque, in mancanza di un provvedimento istitutivo del parco, allo stato solo previsto a livello di pianificazione regionale e provinciale, ed in mancanza dell’approvazione dei Piani Paesaggistici previsti dagli artt. 143 e 156 del d.lgs. n. 42 del 2004, del tutto illegittimamente l’amministrazione comunale ha applicato la disciplina prevista dall’art. 167 del suddetto testo normativo.
In conclusione, la domanda di annullamento va accolta, con assorbimento delle restanti censure, e vanno annullate sia l'ordinanza n. 55/2010 (prot. n. 10700/2010) del 05.10.2010 sia il provvedimento comunale n. 10/2011 del 12.04.2011, anche questo fondato sul medesimo erroneo presupposto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 11.10.2011 n. 1535 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nell'ipotesi di A.T.I. costituende concorrenti in una gara d'appalto, la polizza per la cauzione provvisoria deve essere intestata a tutte le imprese associate.
In materia di gare d'appalto, i principi regolanti la polizza fideiussoria, impongono di considerare soggetti obbligati a prestare la cauzione provvisoria tutti coloro che intendano eseguire l'opera e/o la progettazione, senza esclusione alcuna, in quanto individualmente responsabili delle dichiarazioni rese ai fini della la partecipazione alla gara. Diversamente opinando, qualora l'inadempimento non dipenda dalla capogruppo designata, bensì dalle mandanti, verrebbe a configurarsi una carenza di garanzia per la stazione appaltante. Tanto trova ragione nella "causa" e nella "funzione" della cauzione provvisoria.
Pertanto, nel caso di ATI costituende, la garanzia deve essere intestata a tutte le associate, che sono individualmente responsabili delle dichiarazioni rese per la partecipazione alla gara, venendosi, diversamente, a configurare una carenza di garanzia per la stazione appaltante qualora l'inadempimento non dipenda dalla capogruppo designata, ma dalle mandanti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.10.2011 n. 5499 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZIPer l'affidamento del servizio di tesoreria comunale, essendo lo stesso un servizio gratuito, non è dovuto il pagamento del contributo all’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici.
Il servizio di tesoreria è in via generale un servizio gratuito, connotato da una globale vantaggiosità patrimoniale del servizio per l’aggiudicatario, che tuttavia non entra nella causa del contratto, restando confinata nei motivi individuali del negozio.
Nel caso di specie, poi, né il bando di gara, né la lettera di invito, in linea con la natura del servizio, prevedevano un qualsivoglia tipo di corrispettivo.
Il capitolato speciale d’appalto, all’art. 6, definiva, infatti, il servizio gratuito salvo:
● i rimborsi delle spese sostenute per stampati quando non siano stati forniti dall’ente, delle spese postali, dei bolli e di qualsiasi altra spesa erogata durante la gestione per l’espletamento del servizio nell’anno, escluse le eventuali spese per le riscossioni di mandati a favore dell’ente presso la Sezione di Tesoreria provinciale del Tesoro (art. 6, punto 2, lett. a e b);
● il pagamento di diritti, interessi e commissioni per tutte quelle prestazioni non previste dalla convenzione (art. 6, punto 2, lett. c).
Le suindicate previsioni, cioè il riferimento al pagamento di diritti, interessi e commissioni per tutte quelle prestazioni non previste dalla convenzione hanno convinto il TAR che il contratto fosse connotato da elementi che lo configuravano, come contratto a titolo oneroso.
Il TAR, invero, non ha considerato, che il rimborso e il pagamento di diritti, interessi e commissioni per tutte le prestazioni non previste dalla convenzione non costituiscono corrispettivo del servizio di tesoreria, non sussistendo alcun rapporto sinallagmatico tra detti oneri e il servizio di tesoreria.
Queste spese attengono a rapporti estranei alla convenzione e quindi non partecipano del contenuto pattizio della convenzione stessa.
Ciò stante, essendo il servizio di tesoreria un servizio gratuito, non era dovuto il pagamento del contributo all’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici.
L’amministrazione proprio in considerazione della gratuità del servizio non ha indicato alcun codice identificativo di gara (CIG) che è condizione necessaria per il versamento (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.10.2011 n. 5497 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'ammissibilità del ricorso all'istituto dell'avvalimento, nel caso in cui il bando richieda, quale requisito di partecipazione, un capitale sociale minimo di importo superiore a quello posseduto dalla società che intende partecipare alla gara.
L'istituto dell'avvalimento (art. 49 del d.lgs. n. 163/2006) ha portata generale, ed è finalizzato a consentire alle imprese singole, consorziate o riunite, che intendano partecipare ad una gara di poter soddisfare i requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA, avvalendosi dei requisiti o dell'attestazione SOA di altro soggetto (a prescindere da un'espressa disposizione del bando in tal senso), ed è applicabile, ai sensi del successivo art. 50, ai sistemi legali vigenti di attestazione o di qualificazione nei servizi e forniture.
La facoltà di avvalersi di tale istituto è stata riconosciuta ammissibile anche per integrare requisiti economico - finanziari, tecnici ovvero organizzativi per l'iscrizione agli albi professionali. Pertanto, deve ritenersi ammissibile il ricorso all'istituto dell'avvalimento, ove il bando di gara richieda, quale requisito di partecipazione, un capitale sociale minimo di importo superiore a quello posseduto dalla società che intenda partecipare alla gara.
Trattasi, infatti, di requisito economico-finanziario che, ai sensi dell'art. 49, non incontra alcun limite, in quanto l'interesse sotteso alla norma, ovvero quello relativo alla solvibilità del soggetto affidatario del servizio di riscossione, viene assicurato attraverso l'impegno dell'impresa ausiliaria di mettere a disposizione le risorse necessarie di cui il concorrente è privo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.10.2011 n. 5496 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: Sul divieto di partecipazione ad una gara per la distribuzione del gas naturale, in capo alle società che gestiscano servizi pubblici locali in virtù di affidamento diretto, ovvero di una procedura non avente carattere di evidenza pubblica.
L'art. 14, c. 5, del d.lgs. n. 164/2000, recante "Attuazione della direttiva n. 98/30/CE recanti norme comuni per il mercato interno del gas naturale, a norma dell'art. 41 della l. 17.05.1999, n. 144", commina l'esclusione, dalle gare aventi ad oggetto l'attività di distribuzione del gas naturale, in capo alle società, loro controllate, controllanti e controllate da una medesima controllante, le quali gestiscano di fatto, ovvero per disposizione di legge, atto amministrativo o contratto, servizi pubblici locali, in virtù di affidamento diretto o di una procedura non avente carattere di evidenza pubblica.
La peculiarità della procedura del project financing, sussistente nel caso di specie, nonché la libertà di forme che caratterizza la prima fase, non esclude l'applicazione, ad essa, del divieto previsto per la fase della vera e propria gara, ove si consideri la finalità di tutela della concorrenza che tale norma è preposta a garantire. Ed infatti, la definizione del quadro progettuale dell'intervento rappresenta un elemento di assoluta rilevanza, nell'ambito delle scelte economiche dei soggetti aspiranti ad ottenere la concessione, anche prescindendo dalla titolarità del diritto di prelazione in capo al promotor.
Ne consegue la necessità che, sin dalla fase di selezione del promotor, non debbano sussistere cause di incompatibilità o preclusive della partecipazione. Al fine di assicurare condizioni reali di concorrenzialità nel settore, deve escludersi la partecipazione alla procedura in questione di soggetti titolari di precedenti "affidamenti diretti", idonea di per sé ad alterare la procedura di gara pubblica. Il divieto ha portata generale e va riferito a tutti i soggetti titolari di un affidamento diretto, e lo stesso non subisce temperamenti nemmeno qualora gli affidamenti diretti siano operati a favore di società che abbiano svolto una gara per la scelta del socio.
Peraltro, esso (divieto) è correlato al fatto obiettivo della titolarità di affidamento diretto, indipendentemente da ogni considerazione sulla legittimità di esso, quindi anche nei casi di affidamenti legittimamente mantenuti in regime transitorio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.10.2011 n. 5495 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla legittimità dell'aggiudicazione di una gara ad un RTI che abbia omesso di allegare alla propria offerta alcune giustificazioni preliminari, qualora ciò non risulti prescritto dal bando a pena di esclusione.
E' legittimo il provvedimento di aggiudicazione di una gara, adottato da una stazione appaltante nei confronti di un RTI concorrente, che abbia omesso di allegare, alla propria offerta, alcune giustificazioni preliminari, qualora ciò non sia espressamente previsto dal bando a pena di esclusione. Secondo un consolidato principio giurisprudenziale, infatti, nell'ambito delle procedure ad evidenza pubblica, alle clausole di esclusione deve essere attribuito valore stringente, dando prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute; è invece preclusa ogni forma di estensione analogica diretta ad evidenziare significati impliciti, che rischierebbe di vulnerare l'affidamento dei partecipanti, la "par condicio" dei concorrenti e l'esigenza della più ampia partecipazione.
Pertanto, dette clausole vanno interpretate nel rispetto dei principi di tipicità e tassatività delle ipotesi di esclusione, in ragione della valenza delle stesse che, di per sé, costituiscono fattispecie di restrizione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost., oltre che dal Trattato comunitario. Nel caso di specie, l'offerta risulta corredata dalle giustificazioni preliminari anche con riferimento alla progettazione esecutiva, il che non ha precluso alla stazione appaltante, la quale si è avvalsa della facoltà di valutare la congruità di ogni altra offerta che, in base ad elementi specifici, appaia anormalmente bassa, di chiedere chiarimenti in merito a taluni aspetti della stessa offerta, onde verificarne la congruità.
In mancanza, dunque, di una chiara ed univoca clausola che imporrebbe alla stazione appaltante di adottare provvedimenti espulsivi per l'omessa produzione degli elementi giustificativi specificamente indicati, non può disporsi l'esclusione del concorrente, ove in concreto si appalesi la necessità di integrare le giustificazioni preventive prodotte in modo non esaustivo a supporto dell'offerta.
Peraltro, in materia di appalti pubblici, le giustificazioni preliminari, quand'anche richieste i sensi dell'art. 86, c. 5, del d.lgs. n. 163/2006, non assurgono a requisito di partecipazione alla gara a pena di esclusione, venendo in rilievo la mancata documentazione delle singole voci che concorrono a formare il prezzo offerto solo in via eventuale nella fase successiva a quella di verifica dell'anomalia, e se ed in quanto l'offerta ne risulti sospetta (TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, sentenza 07.10.2011 n. 7808 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIn casi di inquinamento acustico, l’instaurazione del contraddittorio deve avvenire in maniera da non inficiare la correttezza tecnica e la bontà istruttoria delle operazioni delegate, che richiedono l’acquisizione “a sorpresa” dei dati fonometrici.
L’instaurazione del contraddittorio deve avvenire in maniera da non inficiare la correttezza tecnica e la bontà istruttoria delle operazioni delegate, che richiedono l’acquisizione “a sorpresa” dei dati fonometrici, di talché, come proposto dallo stesso organo tecnico deputato alla verificazione, la comunicazione alla ditta ricorrente deve avvenire a circa metà del periodo di rilevazione, consentendo la partecipazione della stessa, e di suoi eventuali consulenti tecnici, alle operazioni di elaborazione dei dati fonometrici da effettuarsi presso la sede dell’organo verificatore (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, ordinanza 07.10.2011 n. 831 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Destinazione alberghiera, durata del vincolo limitabile. Dipende dalle esigenze concrete.
La durata dei vincoli di destinazione alberghiera di un immobile ha natura temporalmente limitata. Tali vincoli, se in via di principio legittimi perché espressione di un diverso approccio del legislatore al modo di vincolare l'uso dell'immobile, e di instaurare quel controllo sulla proprietà e l'iniziativa private che costituisce il riflesso dell'interesse all'espansione e al miglioramento dei servizi turistici, hanno comunque ragione di esistere in ragione di esigenze concrete e sono destinati, naturalmente, ad affievolirsi.
La questione della durata dei vincoli di destinazione alberghiera è stata esaminata dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 4 del 28.01.1981 dove, dichiarando la illegittimità costituzionale dell'art. 5 del d.l. 27.06.1967, n. 460, convertito nella legge 28.07.1967, n. 628, il giudice delle leggi si è espresso per la intrinseca natura temporalmente limitata dei vincoli per l’uso alberghiero di un immobile.
Tali vincoli, in via di principio legittimi, in quanto espressione di “un diverso approccio del legislatore al modo di vincolare l'uso dell'immobile, e di instaurare quel controllo sulla proprietà e l'iniziativa private, che costituisce il riflesso dell'interesse, e qui dello stesso aiuto pubblico, all'espansione e al miglioramento dei servizi turistici”, hanno ragione di esistere in ragione di esigenze concrete e sono destinati naturalmente ad affievolirsi.
Pertanto, le discriminazioni introdotte con un regime vincolistico troppo lungo sconfinano “oltre il ragionevole esercizio della discrezionalità legislativa”, venendo così a violare il principio costituzionale di eguaglianza.
La posizione della Corte costituzionale è diventata quindi canone di azione del legislatore.
Con la legge 17.05.1983, n. 217 “Legge quadro per il turismo e interventi per il potenziamento e la qualificazione dell'offerta turistica”, pur prevedendo all’art. 8 “Vincolo di destinazione”, la possibilità di istituire un vincolo di destinazione per le strutture ricettive, veniva espressamente disposto, al comma 5, la possibilità di rimozione del detto vincolo, dando carico alle Regioni, al successivo comma 6, di procedere all’individuazione delle modalità, fermo rimanendo che la detta limitazione dovesse in ogni caso venir meno “su richiesta del proprietario solo se viene comprovata la non convenienza economico-produttiva della struttura ricettiva e previa restituzione di contributi e agevolazioni pubbliche eventualmente percepiti e opportunamente rivalutati ove lo svincolo avvenga prima della scadenza del finanziamento agevolato”.
Gli interventi normativi a livello nazionale successivi, ossia la legge 29.03.2001, n. 135 ed ora il D.Lgs. 23.05.2011 n. 79, hanno spostato a livello di legislazione regionale il piano delle attribuzioni, senza però ovviamente poter intaccare i principi di rango costituzionale che permeano la materia.
Da tale ricostruzione, emerge che il rispetto del canone di temporaneità e di modificabilità del vincolo di destinazione d’uso alberghiero, lungi dall’essere una possibilità liberamente valutabile dal legislatore regionale, appartiene alla stessa ragion d’essere della sua istituzione e deve ritenersi a questo intrinseco.
Il legislatore regionale abruzzese, con la legge regionale 28.04.1995, n. 75 “Disciplina delle strutture turistiche extralberghiere”, si è quindi fatto carico della questione, prevedendo all’art. 41 la possibilità di rimozione di tale vincolo.
Tale norma, espressamente evocata dalla B. s.r.l. come fondamento giuridico per la sua istanza, non è stata però ritenuta applicabile dal TAR in quanto ritenuta inserita nel titolo riguardante le residenze di campagna e mirata alla sola rimozione del vincolo e non al mutamento d’uso, come richiesto dal ricorrente.
Tale lettura però appare in contrasto con la interpretazione costituzionale sopra evidenziata, che vede la rimovibilità delle limitazioni come un canone di compatibilità della norma stessa con le previsioni della Carta fondamentale.
In questo senso, evocata l’applicazione dell’art. 41 citato, la strada operativa rimessa al giudice non può essere quella dal mero rispetto del dato normativo, seppur in questo caso non del tutto inequivoco, ma la valutazione della sua interpretabilità in senso costituzionalmente adeguato o, al limite, nella remissione alla stessa Corte costituzionale per la valutazione della sua correttezza, in quanto una apposizione sine die del vincolo urta con il principio della sua temporaneità sopra ricordato.
Per tali ragioni, ritiene la Sezione che il citato art. 41, che al comma 6 prevede “L'Amministrazione comunale può autorizzare la cancellazione del vincolo di cui ai commi precedenti, su specifica istanza del titolare, quando sia stata accertata la sopravvenuta impossibilità o non convenienza economico-produttiva della destinazione, subordinando la cancellazione alla revoca della concessa autorizzazione di variazione della destinazione d'uso, con conseguente ripristino della destinazione d'uso originaria”, rappresenti un principio di diritto valevole in tutte la fattispecie, ed in specie in quella qui in discussione, autorizzando l’ente pubblico a provvedere non unicamente in relazione alla residenze agricole, ma per tutte le situazioni inquadrabili nell’area concettuale in esame e consentendo ogni tipologia di provvedimento, anche implicito come il mutamento di destinazione d’uso, che permetta di giungere al risultato concreto auspicato dal privato e imposto dall’interpretazione costituzionale della norma.
In questa ottica, il rifiuto dell’amministrazione comunale di prendere posizione sull’effettiva sopravvenienza di situazioni di non economicità della gestione e quindi sull’attuale esistenza delle ragioni giustificative del vincolo, viene a violare il disposto normativo della legge regionale Abruzzo n. 75 del 28.04.1995, nella sua interpretazione più accorta e adeguata ai canoni indicati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 4 del 28.01.1981.
Sotto questo profilo, il ricorso deve essere accolto, imponendo al Comune di Francavilla al mare di provvedere sull’istanza proposta dalla B. s.r.l., sulla base degli accertamenti istruttori e della ponderazione degli interessi conformata dalle norme evocate (commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.10.2011 n. 5487 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' illegittimo l'operato di una stazione appaltante che abbia svolto l'intero procedimento di gara, affidato mediante il sistema del cottimo fiduciario, in seduta riservata.
La questione portata all’esame della Sezione consiste nello stabilire se sia ammissibile e legittimo che i procedimenti per l’affidamento di lavori, servizi e forniture attraverso il cottimo fiduciario si svolgano interamente in seduta riservata.
L’art. 125 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, disciplinando la fornitura di “Lavori, servizi e forniture in economia”, al comma 11 prevede espressamente che l’affidamento mediante cottimo fiduciario avviene nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei, individuati sulla base di indagini di mercato ovvero tramite elenchi di operatori economici predisposti dalla stazione appaltante, aggiungendo altresì che “Per servizi o forniture inferiori a ventimila euro, è consentito l’affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento”.
L’espresso richiamo al rispetto dei principi di trasparenza, rotazione e parità di trattamento esclude innanzitutto che l’affidamento mediante cottimo fiduciario di lavori, servizi e forniture sia riconducibile ad una semplice attività negoziale, essendo per contro evidente la preoccupazione del legislatore di salvaguardare l’applicazione dei principi costituzionali, cui deve essere improntata in generale l’azione amministrativa (ed in particolare il procedimento di scelta del contraente dei contratti pubblici), posti a tutela non già a tutela degli interessi singolari dell’amministrazione appaltante o degli operatori economici interessati, quanto piuttosto dell’interesse pubblico generale alla legalità, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa (come valore essenziale ed imprescindibile dell’intero ordinamento e della convivenza sociale) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.10.2011 n. 5454 - link a www.mediagraphic.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Giurisdizione pubblico impiego. Graduatorie PA, dopo 11 anni il TAR ''cede'' al giudice ordinario.
Nella sfera di giurisdizione del Tar del Lazio non rientrano le questioni che riguardano le graduatorie per le assunzioni del personale nella PA, ivi comprese le materie concernenti le graduatorie a esaurimento per l'assunzione dei docenti della scuola statale.
Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma con 8 sentenze depositate il 30.09.2011. Dopo un braccio di ferro durato 11 anni il Tar del Lazio si è arreso all'orientamento delle Sezioni unite della Cassazione ed ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in materia di graduatorie per le assunzioni nella Pubblica amministrazione.
Ma la resa non è avvenuta tanto per uniformarsi alle linee di indirizzo delle Sezioni unite, il cui orientamento era noto dal 2000, quanto, invece, per effetto del mutato orientamento dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che con la sentenza n. 11 del 12 luglio scorso, ha fatto proprie le argomentazioni delle Sezioni unite, rivedendo la propria posizione contraria espressa nel 2007.
Affermando definitivamente che le graduatorie finalizzate alle assunzioni nella Pubblica amministrazione (nel caso concreto: le graduatorie a esaurimento per l'assunzione dei docenti della scuola statale) non rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, atteso che non si tratta di materia concorsuale per carenza degli elementi essenziali (bando, prove selettive, compilazione della graduatoria e provvedimento di approvazione della stessa da parte della commissione di concorso).
La resa del TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, è avvenuta il 30.09.2011 con 8 sentenze aventi per oggetto controversie collegate alle graduatorie a esaurimento per le assunzioni del docenti della scuola statale (30.09.2011 n. 7628, n. 7629, n. 7630, n. 7631, n. 7632, n. 7655, n. 7657, n. 7659).
Il rigetto dei ricorsi per difetto di giurisdizione comporta la cessazione degli effetti delle ordinanze cautelari già emesse, fatta salva la possibilità di riassunzione davanti al giudice ordinario entro il termine di 3 mesi dal passaggio in giudicato delle sentenze.
Le sentenze.
Le questioni oggetto delle decisioni riguardano anzi tutto la possibilità, per i docenti inclusi in graduatoria, di trasferirsi da una provincia all'altra entrando nella graduatoria della nuova provincia conservando il punteggio e il diritto alla posizione corrispondente (c.d. inserimento a pettine: sentenze n. 7628 del 2011; n. 7629 del 2011 e n. 7630 del 2011).
Su tale questione, peraltro, Il Tar del Lazio si era già pronunciato accogliendo il ricorso dei ricorrenti che lamentavano il mancato inserimento in graduatoria e, a seguito di diversi giudizi di ottemperanza, l'Amministrazione scolastica aveva proceduto a tali inserimenti.
Le altre questioni oggetto di pronunce di inammissibilità per difetto di giurisdizione riguardano:
- il diritto a vedersi riconoscere il punteggio relativo all'anno in cui sia stato prestato il servizio militare anche se non in costanza di nomina (n. 7632 del 2011);
- la facoltà di chiedere anche tardivamente di permanere nelle graduatorie (n. 7659 del 2011);
- la mancata previsione della possibilità di inserimento in graduatoria per i docenti di strumento neoabilitati (n. 7631 del 2011 e n. 7655 del 2011);
- la preclusione dell'inserimento in graduatoria dei docenti che si sono abilitati con i corsi del decreto Miur n. 85 del 2005, ma non hanno potuto presentare la domanda di inserimento con riserva nelle graduatorie 2007 del 2009 perché non sono stati attivati i corsi stessi al momento della scadenza del termine di presentazione delle istanze (n. 7657 del 2011) e, infine, la preclusione dell'inserimento o della permanenza in graduatoria degli aspiranti docenti ultrasessantacinquenni (n. 7658 del 2011) (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Esproprio aree agricole.
La Corte di Cassazione indica i criteri per l'applicazione alle aree agricole dell'indennizzo pari al valore venale del bene, a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo l'indennizzo parametrico.

La I Sez. civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 29.09.2011 n. 19936, individua i casi in cui, a seguito della sentenza 181/2011 della Corte Costituzionale, per l'esproprio di suoli agricoli non edificabili, in luogo di un indennizzo parametrico definito dal valore agricolo medio, è dovuto un indennizzo pari al valore venale del bene, fissato dall'art. 39 della legge 25.06.1865 n. 2359.
Al riguardo la Suprema Corte ha dichiarato che il criterio del valore venale non si applica ai soli rapporti ormai esauriti in modo definitivo (per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l'ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo) ovvero per essersi verificate preclusioni processuali (o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d'incostituzionalità); viceversa si applica nel caso in cui l'interessato, mediante apposita azione non ancora conclusa, abbia impedito la definitiva ed immodificabile determinazione dell'indennità.
Con l'occasione la Suprema Corte ha avuto modo di dichiarare che, per la determinazione del valore venale del bene, è consentito dimostrare, in base ad una documentata valutazione di mercato (determinata sempre all'interno della categoria suoli inedificabili e anche attraverso rigorose indagini tecniche), che il valore agricolo sia mutato e/o aumentato in conseguenza di una diversa destinazione del bene, egualmente compatibile con la sua ormai accertata non edificabilità tramite una autorizzabile utilizzazione intermedia tra l'agricola e l'edificatoria (parcheggi, impianti sportivi, ecc.) (commento tratto da www.legislazionetecnica.it).

APPALTI: Sull'illegittimità dell'aggiudicazione di una gara ad un concorrente che abbia omesso di allegare le dichiarazioni di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, con riferimento ai progettisti indicati ai sensi dell'art. 53, c. 3, d.lgs. 163/2006.
E' illegittimo il provvedimento di aggiudicazione di una gara adottato da una stazione appaltante nei confronti di un RTI concorrente, che abbia omesso di allegare, alla propria offerta, le dichiarazioni sostitutive in ordine alla sussistenza delle condizioni di affidabilità morale e professionale, di cui alle lett. b) e c) dell'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, con riferimento ai progettisti "indicati", ai sensi dell'art. 53, c. 3, del d.lgs. n. 163/2006.
Secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa, non solo i progettisti associati, ma anche quelli "indicati", se di certo non assumono il ruolo di concorrenti, nondimeno partecipano alla gara, apportando al concorrente taluni requisiti da esso non posseduti, con l'evenienza che di detti requisiti il progettista indicato può essere chiamato a dare effettiva dimostrazione ex art. 48 del medesimo decreto.
Tale necessità sussiste anche in ordine ai requisiti "generali", i quali concorrono a formare, insieme con quelli "speciali", la "legittimazione" all'appalto. In questa direzione, il possesso dei requisiti generali di partecipazione alla gara d'appalto, va verificato anche in capo alle singole imprese/professionisti, designati quali esecutori del servizio di progettazione.
Infatti, una cosa è l'individuazione del concorrente in possesso dei requisiti tecnico-organizzativi, necessari ai fini della realizzazione dell'opera, altro è l'individuazione del concorrente "moralmente affidabile"; la relativa verifica va pertanto eseguita nei confronti "di tutti i soggetti ammessi a partecipare alle gare", dunque anche in capo ai progettisti "individuati" dall'impresa esecutrice.
Diversamente opinando, risulterebbero violati sia il principio costituzionale di buon andamento, sia il principio comunitario di "precauzione", in quanto si giungerebbe all'irragionevole conclusione che le garanzie di serietà economica e moralità professionale, richieste agli imprenditori ai fini della partecipazione alle gare, vengano eluse da altri soggetti i quali, mediante il sistema della mera "indicazione", riuscirebbero di fatto ad eseguire servizi per una gara cui non potrebbero essere ammessi (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 29.09.2011 n. 1666 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

URBANISTICALe Norme Tecniche di Attuazione di uno strumento urbanistico “sono atti a contenuto generale, recanti prescrizioni a carattere normativo e programmatico, destinate a regolare la futura attività edilizia e, in quanto tali, non sono di per sé immediatamente lesive di posizioni giuridiche soggettive di singoli, per cui la loro impugnazione può avvenire soltanto unitamente all’impugnazione del provvedimento che ne costituisca la concreta applicazione e il termine per la proposizione del relativo ricorso decorre non dalla data di pubblicazione della norma di piano, bensì dalla piena conoscenza del provvedimento esecutivo".
La modifica dello strumento urbanistico in sede di emenda di errore materiale può essere disposta solo ove tale attività non comporti una attività interpretativa della volontà della Amministrazione.

Come affermato da consolidata Giurisprudenza del Consiglio di Stato (ex plurimis: C.d.S. sez. IV 12.07.2002 n. 3929), le Norme Tecniche di Attuazione di uno strumento urbanistico “sono atti a contenuto generale, recanti prescrizioni a carattere normativo e programmatico, destinate a regolare la futura attività edilizia e, in quanto tali, non sono di per sé immediatamente lesive di posizioni giuridiche soggettive di singoli, per cui la loro impugnazione può avvenire soltanto unitamente all’impugnazione del provvedimento che ne costituisca la concreta applicazione e il termine per la proposizione del relativo ricorso decorre non dalla data di pubblicazione della norma di piano, bensì dalla piena conoscenza del provvedimento esecutivo”.
Il Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza 07.04.2004 n. 1968, ha chiarito che la modifica dello strumento urbanistico in sede di emenda di errore materiale può essere disposta solo ove tale attività non comporti una attività interpretativa della volontà della Amministrazione (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 29.09.2011 n. 1416 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’autorizzazione paesaggistica deve necessariamente indicare le specifiche ragioni sulla base delle quali l’ente preposto alla tutela del relativo vincolo ritiene che l’intervento abusivo sia compatibile con l’ambiente circostante, oggetto di tutela.
Con il presente ricorso, il proprietario di due manufatti abusivi, costituiti da un capanno in lamiera zincata e da una tettoia, per i quali aveva presentato istanza di concessione edilizia in sanatoria ex art. 39 della L. n. 724 del 1994, impugna il decreto in data 25/07/2000, con il quale la Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici di Ravenna ha annullato l'autorizzazione paesaggistica precedentemente rilasciatagli dal Comune di Santarcangelo di Romagna.
...
Risulta infondato, infine, il motivo facente leva sull’asserito carattere di controllo di merito e non di legittimità dell’attività svolta dalla Soprintendenza con l’adozione del gravato decreto.
Invero, sotto tale profilo, il controllo esercitato dalla Soprintendenza risulta certamente finalizzato a verificare la legittimità dell’autorizzazione, quanto meno in riferimento a uno degli autonomi capi di motivazione su cui si fonda il decreto, vale a dire quello con il quale si evidenzia il palese difetto di motivazione dell’autorizzazione comunale.
Il Collegio osserva che il rilievo della Soprintendenza è pienamente condivisibile, non potendo, all’evidenza, ritenersi né sufficiente né idonea a motivare l’autorizzazione, la generica e apodittica affermazione del Comune secondo la quale “…le opere abusive realizzate non alterano negativamente lo stato dei luoghi”.
Sul punto, l’oramai pacifico orientamento della giurisprudenza amministrativa (orientamento pienamente condiviso anche da questo Tribunale), ha stabilito che l’autorizzazione paesaggistica deve necessariamente indicare le specifiche ragioni sulla base delle quali l’ente preposto alla tutela del relativo vincolo ritiene che l’intervento abusivo sia compatibile con l’ambiente circostante, oggetto di tutela (v. ex multis: Cons. Stato, sez. VI, 06/06/2003 n. 3186; TAR Emilia–Romagna –BO- sez. II, 16/04/2010 n. 3535; 01/02/2010 n. 539; TAR Campania –SA- sez. II, 19/07/2007 n. 847) (TAR Emilia Romagna, Sez. II, sentenza 28.09.2011 n. 671 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla legittimità dell'esclusione di un concorrente, per omessa indicazione dei nominativi dei rappresentanti e dei direttori tecnici cessati dalla carica nell'ultimo triennio, in violazione dell'art. 38, lett. b) e c), del d.lgs. n. 163/2006.
E' legittimo il provvedimento di esclusione da una gara, adottato da una stazione appaltante nei confronti di un concorrente che abbia omesso di indicare i nominativi degli amministratori con rappresentanza e dei direttori tecnici cessati dalla carica nell'ultimo triennio, in quanto ciò vìola l'art. 38, lett. b) e c), c. 1 e 2, del d.lgs. n. 163/2006.
Nel caso di specie, infatti, la dichiarazione presentata dall'amministratore della società concorrente non consente di individuare i nominativi e le funzioni svolte dai soggetti cessati dalla carica, e la stessa risulta, pertanto, indeterminata, in quanto incompleta di elementi essenziali. Né è ammissibile un'integrazione postuma ai sensi dell'art. 46 del d.lgs. n. 163/2006, in quanto, nella fattispecie, la lex specialis di gara prescrive espressamente che tale dichiarazione sia inserita nella busta contenente la documentazione amministrativa, a pena di esclusione.
Peraltro, la disposizione di cui all'art. 38, c. 2, del d.lgs. n. 163/2006 pone, a carico del concorrente, l'onere di attestare il possesso dei requisiti mediante dichiarazione sostitutiva, con le modalità previste dal D.P.R. n. 445/2000, e non ammette altri mezzi atipici equipollenti.
D'altra parte, lo stesso comma 3 dell'art. 38 D.lgs. n. 163/2006, presuppone l'assolvimento dell'onere, da parte dell'interessato, della previa indicazione degli elementi indispensabili ai fini del reperimento delle informazioni o dei dati richiesti; analogamente, la dichiarazione sostitutiva deve necessariamente contenere gli estremi identificativi dei soggetti terzi, cui si riferisce, configurandosi altrimenti una vera e propria carenza in ordine all'oggetto della dichiarazione stessa, che non consente di individuare la portata liberatoria nei confronti dei terzi, né l'ampiezza della responsabilità del dichiarante in ordine alla veridicità dell'asserita sussistenza dei prescritti requisiti (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 27.09.2011 n. 5385 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATARelativamente alla sanatoria di abusi edilizi, va condiviso il principio della “doppia conformità”, secondo cui “la concessione edilizia in sanatoria presuppone la conformità del manufatto abusivo agli strumenti urbanistici vigenti sia al tempo della sua realizzazione, sia al momento in cui si chiede il rilascio del provvedimento di condono”.  
Il Collegio ritiene di condividere, sulla base delle motivazioni espresse al riguardo dal Giudice di prime cure, il principio della “doppia conformità”, secondo cui “la concessione edilizia in sanatoria presuppone la conformità del manufatto abusivo agli strumenti urbanistici vigenti sia al tempo della sua realizzazione, sia al momento in cui si chiede il rilascio del provvedimento di condono
(CGARS, sentenza 27.09.2011 n. 607 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer “linea di battigia” deve intendersi la linea di contatto tra mare e terraferma e che la misurazione debba essere eseguita in orizzontale.
La distanza va quindi misurata tenendo conto dell’unica linea retta che congiunge l’immobile (od anche soltanto lo spigolo dello stesso) al punto più vicino in cui la terraferma entra in contatto con il mare.

Per quel che concerne il criterio da adottare ai fini della corretta misurazione della distanza intercorrente tra il punto della battigia più vicino all’edificio, oggetto di istanza di rilascio di concessione edilizia in sanatoria, e l’edificio stesso, il Collegio ritiene, sulla base di costante giurisprudenza, anche di questo C.G.A., che per “linea di battigia” debba intendersi la linea di contatto tra mare e terraferma e che la misurazione debba essere eseguita in orizzontale (cfr. decisione n. 617/2001).
La distanza va quindi misurata tenendo conto dell’unica linea retta che congiunge l’immobile (od anche soltanto lo spigolo dello stesso) al punto più vicino in cui la terraferma entra in contatto con il mare
(CGARS, sentenza 27.09.2011 n. 607 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ricostruzione ruderi.
La ricostruzione su ruderi costituisce sempre “nuova costruzione”, in quanto il concetto di ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un organismo edilizio dotato delle murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
In mancanza di tali elementi strutturali non è possibile valutare l'esistenza e la consistenza dell'edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un'area non edificata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2011 n. 34768 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base al comma 5 dell'art. 338 del r.d. n. 1265/1934  “per dare esecuzione ad un'opera pubblica (…), purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto…”.
Questa norma consente, dunque, la realizzazione di opere pubbliche entro la fascia di rispetto cimiteriale a condizione che intervenga l’autorizzazione del Comune e della ASL competenti; autorizzazione che, in caso di opere strategiche come quella in esame, è sostituita dalla deliberazione del CIPE di approvazione del progetto definitivo ai sensi dell’art. 165, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006.
--------------
La fascia di rispetto cimiteriale risponde, da un lato, all’esigenza di tutela dell'interesse pubblico all'igiene di ogni tipo di costruzione destinata alla vita dell'uomo e, dall'altro, all'esigenza di assicurare tranquillità e decoro ai luoghi di sepoltura.
Si deve pertanto ritenere che il vincolo in parola riguardi quelle costruzioni incompatibili con la funzione cimiteriale in quanto destinati ad ospitare stabilmente l’uomo quali, in primo luogo, le abitazioni (ma si pensi anche agli alberghi, agli ospedali, alle scuole ecc..); e che esso non osti alla realizzazione di altri manufatti che tale funzione non possiedono quali, ad esempio, strade e parcheggi (ragionando a contrario dovrebbe ritenersi che neppure le strade che portano al cimitero potrebbero realizzarsi).
Questa interpretazione è avvalorata dal dato letterale della disposizione che, come visto, vieta specificamente la realizzazione di nuovi “edifici” e non già la realizzazione di una qualsiasi opera.

In base al comma 5 dell'art. 338 del r.d. n. 1265/1934  “per dare esecuzione ad un'opera pubblica (…), purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto…”.
Questa norma consente, dunque, la realizzazione di opere pubbliche entro la fascia di rispetto cimiteriale a condizione che intervenga l’autorizzazione del Comune e della ASL competenti; autorizzazione che, in caso di opere strategiche come quella in esame, è sostituita dalla deliberazione del CIPE di approvazione del progetto definitivo ai sensi dell’art. 165, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006.
---------------
Secondo la giurisprudenza la fascia di rispetto cimiteriale risponde, da un lato, all’esigenza di tutela dell'interesse pubblico all'igiene di ogni tipo di costruzione destinata alla vita dell'uomo e, dall'altro, all'esigenza di assicurare tranquillità e decoro ai luoghi di sepoltura (cfr. ex multis TAR Sicilia-Catania, sez. I, 15.07.2003, n. 1141).
Si deve pertanto ritenere che il vincolo in parola riguardi quelle costruzioni incompatibili con la funzione cimiteriale in quanto destinati ad ospitare stabilmente l’uomo quali, in primo luogo, le abitazioni (ma si pensi anche agli alberghi, agli ospedali, alle scuole ecc..); e che esso non osti alla realizzazione di altri manufatti che tale funzione non possiedono quali, ad esempio, strade e parcheggi (ragionando a contrario dovrebbe ritenersi che neppure le strade che portano al cimitero potrebbero realizzarsi).
Questa interpretazione è avvalorata dal dato letterale della disposizione che, come visto, vieta specificamente la realizzazione di nuovi “edifici” e non già la realizzazione di una qualsiasi opera (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 26.09.2011 n. 2295 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa repressione dell’abusivismo edilizio da parte delle competenti amministrazioni non si esaurisce nella pronuncia dell’ingiunzione al ripristino dello stato dei luoghi e nella minaccia dell’adozione delle ulteriori misure che la legge prevede nel caso in cui l’ingiunzione non venga eseguita; l’amministrazione, infatti, è tenuta a curare il seguito dell’ingiunzione al fine di restaurare effettivamente l’ordine giuridico violato dando concretezza, ove ne sussistano i presupposti, a quella “minaccia” (e va detto per inciso che solo così i procedimenti sanzionatori in materia edilizia possono svolgere la funzione dissuasiva, per così dire general-preventiva, dell’abusivismo che pure hanno o dovrebbero avere).
Oggetto del giudizio del silenzio è l’accertamento della inerzia su una specifica istanza e, in caso positivo, la condanna dell’amministrazione a dar seguito all’istanza stessa adottando un provvedimento esplicito sulla medesima
Nel caso all’esame la diffida (o meglio le diffide) di parte ricorrente avevano a oggetto l’emanazione dell’ingiunzione alla demolizione delle opere abusive e quindi il comune sulla stessa ha provveduto (ordinando la demolizione di quelle opere per le quali non pende il procedimento di accertamento di conformità).
Non può tuttavia fare a meno di rilevarsi –anche nell’ottica della prevenzione di ulteriore contenzioso- che la repressione dell’abusivismo edilizio da parte delle competenti amministrazioni non si esaurisce nella pronuncia dell’ingiunzione al ripristino dello stato dei luoghi e nella minaccia dell’adozione delle ulteriori misure che la legge prevede nel caso in cui l’ingiunzione non venga eseguita; l’amministrazione infatti è tenuta a curare il seguito dell’ingiunzione al fine di restaurare effettivamente l’ordine giuridico violato dando concretezza, ove ne sussistano i presupposti, a quella “minaccia” (e va detto per inciso che solo così i procedimenti sanzionatori in materia edilizia possono svolgere la funzione dissuasiva, per così dire general-preventiva, dell’abusivismo che pure hanno o dovrebbero avere) (TAR Lazio-Latina, sentenza 26.09.2011 n. 736 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOValutazione in forma numerica e necessaria predeterminazione dei criteri.
La sentenza che si segnala consente di formulare una breve sintesi degli orientamenti invalsi sul tema dell’esaustività della motivazione affidata alla sola forma numerica nelle procedure concorsuali.
L’appello deciso dalla Quinta Sezione verteva sull’impugnazione di una sentenza del TAR con la quale erano stati annullati gli atti di un concorso per l’insufficienza della motivazione numerica espressa in relazione agli elaborati presentati dai candidati, in quanto nemmeno i criteri di valutazione che erano stati deliberati dalla Commissione erano risultati sufficientemente predeterminati e, quindi, suscettibili di consentire un effettivo apprezzamento delle ragioni sottese all’attribuzione del punteggio.
Il Consiglio di Stato, nel respingere il gravame rileva un primo criterio, identificato nella “capacità di esposizione” può considerarsi sicuramente idoneo a sorreggere la successiva attribuzione del punteggio numerico, in quanto con tale parametro ci si riferisce in generale alla “capacità del candidato di esporre i concetti in un linguaggio corretto e secondo un’articolazione logica”.
Per converso, il secondo criterio, relativo alla “capacità di sintesi” si rivela generico e deficitario di quei caratteri di chiarezza ed esaustività necessari a rendere percepibile “il percorso logico attraverso il quale i commissari abbiano inteso valutabile tale «capacità»”.
Considerazioni non dissimili vengono espresse anche per il terzo criterio, riguardante le “capacità di risoluzione del problema”, rispetto al quale il Consiglio di Stato rileva come “in assenza di elementi motivazionali o, come evidenziato dal T.A.R., di sottoparametri suppletivi, non appare, né può essere stato idoneo a consentire una valida e razionale valutazione della prova né a ciò si può supplire, con giudizio solo numerico”.
Numerose altre sentenze sono intervenute in materia, sostanzialmente in linea con l’orientamento da ultimo espresso dal Consiglio di Stato nella sentenza che qui si segnala.
Ad esempio, la Sezione Sesta, con sentenza 10.09.2009, n. 5447, aveva rilevato che “l’espressione del punteggio in termini solo numerici … non si configura di per sé idonea ad esternare le ragioni della valutazione discrezionale dell’Amministrazione, in assenza di una griglia che ne scomponga l’ entità in relazione ai plurimi aspetti della carriera del dipendente interessato che vengono a formare oggetto di contestuale considerazione”, con la conseguenza che “in presenza dell’ ampia sfera di discrezionalità che viene a caratterizzare il giudizio oggetto di contestazione proprio la mancanza di precisi parametri di riferimento cui raccordare il punteggio assegnato impone la necessità di dare motivazione degli elementi elencati alla categoria terza ritenuti rilevanti ai fini della sua quantificazione, ovvero del limitato rilievo assegnato a taluni di essi agli effetti del punteggio complessivo”.
Per converso, la stessa Sezione Sesta, con sentenza 08.07.2009 n. 4384 ha riconosciuto la legittimità degli atti di un concorso in cui la valutazione in forma numerica trovava riscontro in criteri, non formulati dalla Commissione esaminatrice, ma che potevano essere desunti dagli atti pregressi della procedura concorsuale, ed in particolare dallo stesso bando della selezione. Anzi, la soluzione di anticipare la fissazione dei criteri valutativi in uno stadio procedimentale che sia meno prossimo all’esercizio della effettiva attività valutativa ad opera della commissione (e di limitare al massimo per tal via il potere discrezionale di quest’ultima) è ritenuta una forma di garanzia ancor più incisiva (commento tratto da www.amministrazioneincammino.luiss.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.09.2011 n. 5061 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Espropri: restituzione del fondo e riduzione in pristino
Il Consiglio di Stato conferma che il proprietario di un’area, occupata senza titolo per la realizzazione di un’opera pubblica, può legittimamente domandare nel giudizio di ottemperanza sia il risarcimento, sia la restituzione del fondo che la sua riduzione in pristino.

Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 02.09.2011 n. 4970, prendendo in esame il ricorso di ottemperanza per l’esecuzione di una precedente sentenza che ha dichiarato illegittimi (e quindi decaduti) gli atti per l’acquisizione di un’area per la realizzazione di un’opera pubblica, ha dichiarato che, in caso di inerzia dell’Amministrazione nell’acquisire legittimamente il bene, è suo obbligo primario procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta.
Con l’occasione viene evidenziato come, a seguito della sentenza 293/2010 della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima la cd acquisizione sanante (articolo 43 del TU sulle espropriazioni), l’Amministrazione possa acquisire legittimamente il bene facendo uso dei due strumenti tipici, ossia il contratto (tramite l’acquisizione del consenso della controparte) o il provvedimento (e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie), ai quali va aggiunto il possibile ricorso al procedimento espropriativo semplificato (articolo 42-bis del TU sulle espropriazioni, come introdotto dall’articolo 34, comma 1, del D.L. 98/2011 in materia di disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, convertito in L. 15.07.2011 n. 111).
Pertanto, in assenza -da parte dell’Amministrazione- della concreta manifestazione che intenda acquisire legittimamente il bene, il proprietario può legittimamente domandare nel giudizio di ottemperanza sia il risarcimento, sia la restituzione del fondo che la sua riduzione in pristino.
Nel caso in esame, emergendo dagli atti come l’Amministrazione comunale non abbia fatto uso di nessuno dei mezzi giuridici a sua disposizione, rimanendo così integra la situazione di illegittimità nell’uso del bene, il Consiglio di Stato ne ha intimato la restituzione nel termine di 120 giorni; disponendo che, in caso di ulteriore inadempimento, a tale attività provveda il commissario ad acta nominato contestualmente (commento tratto da www.legislazionetecnica.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Verifica dei requisiti per l’accesso ad un pubblico impiego.
Sul candidato che partecipa ad un procedimento concorsuale gravano obblighi di correttezza –specificati attraverso il richiamo alla clausola generale della buona fede e solidarietà e rivenienti il fondamento sostanziale negli artt. 2 e 98, co. 1, Cost.– fra cui il dovere di cooperare lealmente fornendo tutte le informazioni richieste in modo veridico e indicando tutti i dati necessari per la gestione di procedimenti di massa (Cfr. Corte cost., n. 329 del 2007; Cons. St., sez. V, n. 2311 del 2011; sez. IV, n. 7382 del 2010.
In applicazione del principio nella specie è stato ritenuto che una candidata di un concorso pubblico aveva violato tali doveri di correttezza perché, a suo tempo, aveva dichiarato di essere in possesso del diploma di scuola secondaria superiore indicando un punteggio in sessantesimi mai conseguito).
Nei concorsi per l’accesso ad un posto di pubblico impiego, i requisiti generali che legittimano la nomina e l’instaurazione del rapporto di lavoro (quale il possesso del pertinente titolo di studio), devono permanere in costanza di servizio; pertanto, in materia, vige il principio generale (enucleabile dagli artt. 127, lett. d), t.u. imp. civ. Stato e 3, co. 3, d.P.R. n. 487 del 1994), in base al quale, nell’ipotesi di mancanza successivamente accertata del requisito legale, indipendentemente dal riscontro di qualsivoglia profilo di colpevolezza del candidato, l’Amministrazione deve escludere dal concorso il candidato e dichiarare la decadenza di diritto dalla nomina con la conseguente cessazione del rapporto di servizio; in tal caso il provvedimento è atto interamente vincolato e, come tale, non assistito dalle garanzie partecipative e motivazionali previste dalla l. n. 241 del 1990 e può intervenire in qualunque momento successivo al reclutamento (Cfr. sul principio generale ed i suoi corollari applicativi, Cons. St., sez. IV, n. 7382 del 2010; sez. IV, n. 148 del 2006; sez. III, n. 86/2004 del 03.02.2004).
In linea generale, il riscontro del possesso dei titoli da parte dei candidati e l’adozione dei provvedimenti conseguenti rientrano nella competenza dell’Amministrazione procedente e non della commissione esaminatrice (Cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 2968 del 2008) (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.09.2011 n. 4896 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Annullamento in sede statale del nulla osta paesaggistico per difetto di motivazione del nulla osta rilasciato in sede locale, in caso di intervento edilizio di notevole consistenza.
E’ legittimo l’annullamento in sede statale del nulla osta paesaggistico rilasciato in sede locale per difetto di motivazione, ove si tratti un intervento edilizio di notevole consistenza, in un’area che dalla documentazione in atti appare inedificata, nonché interessata da regime vincolistico di tipo sostanzialmente conservativo; infatti, in tal caso, non appare illogico che l’assenso comunale, non accompagnato da adeguate considerazioni sulla massiccia ed irreversibile trasformazione del territorio progettata, sia incorso nelle valutazioni negative della Soprintendenza, che ha ritenuto di fatto violato il regime vincolistico di cui trattasi (1).
---------------
(1) Sull'annullamento in sede statale del nulla osta paesaggistico v. tra le tante:
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza 09-03-2011 (sul rispetto del termine di 60 giorni per l’annullamento in sede statale del nulla osta paesaggistico e sulla necessita o meno per l’Autorità statale, nel caso di annullamento per difetto di motivazione, di indicare le ragioni dell’incompatibilità dell’intervento con l’assetto paesaggistico).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza 03-02-2011 (sul termine di 60 giorni entro il quale l’Autorità statale può annullare il nulla-osta paesaggistico rilasciato in sede regionale e sull'annullabilità o meno del nulla-osta stesso per difetto di motivazione, ove l’annullamento contenga anche considerazioni attinenti al merito).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza 26-07-2010 (sull’illegittimità dell’annullamento in sede statale del nulla-osta paesaggistico per asserito difetto di motivazione, ma che in realtà sottende motivi di merito).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza 08-06-2010 (sui limiti del potere di controllo dell’Autorità statale sui nulla-osta paesaggistici rilasciati in sede regionale ed in particolare sulla possibilità o meno per l’autorità statale di disporre l’annullamento del nulla-osta per difetto di motivazione e di istruttoria).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza 22-02-2010 (sui limiti del potere di controllo dell’Autorità statale sui nulla osta paesaggistici rilasciati in sede regionale ed in particolare sulla possibilità o meno per l’autorità statale di disporre l’annullamento del nulla osta per difetto di motivazione e di istruttoria; fattispecie relativa ad impianto per la produzione di energia eolica).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza 07-12-2009 (sulla legittimità o meno dell’annullamento in sede statale dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune disposto per difetto di motivazione dell’autorizzazione stessa).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza 06-06-2008 (sul termine previsto dall’art. 159 del Codice dei beni culturali e del paesaggio per l’annullamento in sede statale del nulla-osta paesaggistico e sull’annullamento di tale nulla osta per difetto di motivazione).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza 08-02-2008 (sulla possibilità di dare comunicazione dell’avvio del procedimento di controllo in sede statale del nulla osta paesaggistico mediante forme equipollenti e sulla legittimità dell’annullamento da parte della Soprintendenza del nulla osta rilasciato dal Comune per difetto di motivazione).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza 24-01-2006 (sull’illegittimità dell'annullamento da parte della Soprintendenza dell’autorizzazione rilasciata dal Comune per la realizzazione di una ristrutturazione in zona soggetta a vincolo paesaggistico con una motivazione che finisce per sostituire la valutazione tecnico-discrezionale effettuata dal Comune).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza 11-05-2005 (sulla necessità di ottenere il nulla osta per le costruzioni abusive realizzate in zone soggette a vincolo paesaggistico a prescindere dalla data di imposizione del vincolo e sull’illegittimità dell’annullamento in sede statale del nulla osta senza adeguata istruttoria e motivazione).
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. II, sentenza 24-01-2008 (sugli elementi da valutare in sede di rilascio di una autorizzazione paesaggistica e sulla motivazione necessaria per l’annullamento in sede statale dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata in sede regionale).
TAR VENETO, SEZ. II, sentenza 22-10-2008 (sul dies a quo ed ad quem del termine di 60 giorni previsto per l’annullamento in sede statale dell’autorizzazione paesaggistica, sulla necessità o meno di motivare anche i provvedimenti ampliativi e sulla legittimità o meno di una autorizzazione paesaggistica rilasciata con una motivazione standard)
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.08.2011 n. 4854 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Casi in cui è ammessa la procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando.
La procedura negoziata, senza previa pubblicazione del bando di gara, è ammessa nei soli e limitati casi individuati dal legislatore all’art. 57 del D.Lgs. n. 163 del 2006, trattandosi di procedura che, derogando all’ordinario obbligo dell’Amministrazione di individuare il privato contraente attraverso il confronto concorrenziale, riveste carattere di eccezionalità e richiede un particolare rigore nella individuazione ed apprezzamento dei presupposti che possono legittimarne il ricorso (cfr., ex multis, Corte giustizia CE, 13.01.2005, n. 84) di cui, peraltro, deve essere data adeguata motivazione nella deliberazione o determinazione a contrarre (art. 57, comma 1), in modo da scongiurare ogni possibilità che l’amministrazione utilizzi situazioni genericamente affermate, come un "commodus discessus" dall'obbligo di esperire una pubblica procedura di selezione che è la sola con carattere di oggettività e trasparenza (Cfr. TAR Lazio-Roma, Sez. I, 18.02.2009, n. 1656).
Illegittimamente la stazione appaltante, al fine di affidare un appalto di forniture, fa ricorso, per ragioni di natura tecnica e di unicità del prodotto da acquisire, all’istituto della procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando, ex art. 57 del d.lgs. n. 163 del 2006 (Codice dei contratti pubblici) nel caso in cui, da un parte, abbia erroneamente ritenuto che i prodotti oggetto della fornitura fossero infungibili, e, dall’altra, abbia dato contezza dei motivi di carattere tecnico per cui ha ritenuto di poter trattare e affidare l’appalto unicamente ad una determinata società solo successivamente all’affidamento, e, in particolare, soltanto nell’avviso volontario per la trasparenza, pubblicato nella G.U.C.E. (massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 21.07.2011 n. 803 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 13.10.2011

ã

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGOManovra-bis, come cambiano le pensioni (CGIL-FP di Bergamo, nota 10.10.2011).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sull'applicazione del Regolamento UE 333/2011 - Rottami metallici: applicazione Regolamento UE 333/2011 “End of Waste.
A seguito dell’emanazione del Regolamento UE 333/2011 - cosiddetto “End of Waste” (E.o.W.) - recante “i criteri che determinano quando alcuni tipi di rottami metallici cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della direttiva 2008/98/UE …” (in G.U.U.E. L 94/2 dell'08/04/2011), sono pervenute a questa Amministrazione, sia da parte delle Province lombarde che degli operatori del settore, richieste di chiarimenti in ordine ai conseguenti adempimenti da parte degli impianti che effettuano le operazioni di recupero dei rifiuti di ferro, acciaio ed alluminio.
Le principali novità introdotte dal Regolamento riguardano:
● l’applicazione di un sistema di gestione della qualità;
● l’utilizzo sistematico di dichiarazioni di conformità per i prodotti generati dal recupero di rifiuti;
● l’introduzione di caratteristiche di qualità dei prodotti ottenuti dall'operazione di recupero, in alcuni casi più restrittive, in altri meno restrittive di quelle previste dal d.m. 05.02.1998;
● l’individuazione delle tipologie di rifiuti recuperabili;
● i processi e le tecniche di trattamento;
● l’adempimento di puntuali obblighi di monitoraggio delle diverse fasi del processo.
In tal senso, restando impregiudicata la sfera di attribuzioni delle Province che assumono gli atti di competenza sotto la propria piena ed esclusiva responsabilità, si forniscono in via collaborativa le seguenti indicazioni:
1- per quanto attiene alle procedure E.o.W. dei rottami metallici in acciaio, ferro, alluminio e leghe di alluminio, si ricorda che le disposizioni del Regolamento sono operative dal 09.10.2011;
2- tali disposizioni si applicano ai soli impianti che effettuano operazioni di recupero rifiuti costituiti da rottami metallici in acciaio, ferro, alluminio e leghe di alluminio e non ai produttori primari di tali rifiuti;
3- per poter generare prodotti (ex MPS) e non rifiuti, a partire dal 09.10.2011, tutti gli impianti, operanti sia con autorizzazione ordinaria che in procedura semplificata, devono essere adeguati alle prescrizioni previste dal Regolamento;
4- gli impianti che operano esclusivamente in procedura semplificata e che non si adeguano al Regolamento, possono continuare a svolgere il complesso delle operazioni che per il d.m. 05.02.1998 sono riconducibili all’operazione R4, ma da tali operazioni decadono solo rifiuti e non prodotti (ex MPS). Analogamente, i medesimi impianti possono continuare a svolgere l’operazione di messa in riserva R13 che, di per sé, non può dare origine a prodotti (ex MPS) ma solo a rifiuti;
5- se vengono rispettate tutte le prescrizioni del Regolamento, i prodotti generati possono essere conferiti nelle aree che sono attualmente individuate come “deposito MPS”, a condizione che per tali partite di materiale sia già stata predisposta la dichiarazione di cui all’allegato 3 del Regolamento e che pertanto siano escluse dalla qualifica di rifiuto;
6- gli operatori che si adeguano ai disposti del Regolamento, ai sensi dell’art. 6, comma 7, devono darne comunicazione alle Province territorialmente competenti, trasmettendo copia della documentazione inerente l'accertamento di idoneità del sistema di qualità da parte dell'organismo/verificatore incaricato, comunque rientrante tra quelli previsti dall’art. 6, comma 5, del Regolamento.
Si sottolinea infine che tali indicazioni sono già state in parte valutate e condivise nella seduta del 13.09.2011 del “Tavolo di lavoro permanente per il coordinamento dell’esercizio delle attività attribuite alle Province in materia di recupero e smaltimento di rifiuti”.
Milano, 07.10.2011.
L’Assessore al Territorio e Urbanistica, Daniele Belotti - Il Direttore Generale, Bruno Mori (link a www.territorio.regione.lombardia.it).

APPALTI: P.a., pagamenti alti con verifica. Sopra i dieci mila euro controllo preventivo con Equitalia. Una circolare della Ragioneria generale dello stato dà ulteriori indicazioni sul dpr 602/1973.
La pubblica amministrazione fa un passo indietro. Prima di effettuare il pagamento a imprese e privati di somme superiori a 10 mila euro, la pubblica amministrazione deve effettuare un controllo preventivo con Equitalia. In base all'art. 48-bis del dpr 602/1973, dovrà sempre essere verificato se il creditore ha in sospeso con l'Erario il pagamento di cartelle esattoriali.
E questa verifica deve essere effettuata anche se il credito deriva da una sentenza o da un provvedimento esecutivo. In caso di pendenze nei confronti dell'erario la p.a. non procederà al pagamento. Le disposizioni restrittive non si applicano nel caso di erogazioni di finanziamenti e contributi pubblici.

È quanto emerge dalla
circolare 23.09.2011 n. 27 + allegato A della  della Ragioneria generale dello stato, con la quale vengono rese note ulteriori indicazioni sulla procedura disciplinata dall'art. 48-bis del dpr n. 602/1973. Sull'argomento i primi chiarimenti sono stati forniti con le circolari n. 22/rgs del 29.07.2008 e n. 29/rgs dell'08.10.2009, che mantengono, come sottolineato dalla recente circolare, piena validità.
Obblighi di pagamento derivanti da sentenza. Il pagamento da cui il legislatore fa derivare gli obblighi di verifica previsti dall'articolo 48-bis è relativo, come precisato nella precedente circolare n. 22/rgs/2008, all'adempimento di un obbligo contrattuale. Tuttavia, è possibile che l'obbligazione del pagamento non nasca da un contratto, bensì da un altro atto o fatto idoneo a produrla, in conformità dei principi dell'ordinamento giuridico.
A titolo esemplificativo e non esaustivo, possono scaturire obblighi di pagamento pur in assenza di un contratto nei seguenti casi:
-gestione di affari altrui (c.d. negotiorum gestio ai sensi dell'articolo 2028 c.c.);
-pagamento dell'indebito (articolo 2033 c.c.);
-arricchimento senza causa (articolo 2041 c.c.);
-risarcimento per fatto illecito (articolo 2043 c.c.);
-rovina di edificio (articolo 2053 c.c.);
-responsabilità precontrattuale (articolo 1337 c.c.).
L'obbligo di pagamento posto a carico dell'amministrazione può derivare anche da una sentenza passata in giudicato o da un provvedimento giurisdizionale esecutivo con cui il giudice ha determinato concretamente l'esistenza e la misura del diritto di credito vantato dal beneficiario nei confronti della p.a. soccombente.
In merito a tali aspetti, la Ragioneria, con la recente circolare n. 27/rgs/2011, chiarisce che anche se il credito deriva da una sentenza o da un provvedimento esecutivo, l'amministrazione debitrice dovrà sempre procedere al controllo preventivo con Equitalia e verificare se il creditore ha in sospeso con l'Erario il pagamento di cartelle esattoriali.
Esecuzione di somme assegnate dal giudice. Un altro caso esaminato nella circolare è quello in cui l'Amministrazione, avendo assunto la qualità di terzo pignorato a seguito di un'ordinanza di assegnazione del giudice dell'esecuzione, si trova a dover effettuare il pagamento delle somme dovute non al creditore originario, ma direttamente al creditore assegnatario.
Al riguardo, la Ragioneria ritiene che la procedura di verifica dovrà essere effettuata nei confronti del creditore assegnatario e non di quello originario.
Dal punto di vista soggettivo, infatti, il creditore assegnatario (pignorante) subentra all'originario beneficiario (pignorato) quale parte nel rapporto di credito nei confronti dell'Amministrazione debitrice, tanto che l'eventuale pagamento effettuato all'originario creditore, in costanza di pignoramento, non avrebbe alcuna efficacia liberatoria.
Finanziamenti e contributi alle imprese. Tali concessioni sono considerate prioritarie rispetto alla verifica di regolarità fiscale. Secondo la circolare n. 27/rgs/2011, nel campo degli incentivi, la p.a. ha pochi margini di discrezionalità. Ciò in quanto i requisiti dei soggetti ammessi agli incentivi sono stabiliti direttamente dal legislatore e inoltre gli stessi incentivi sono finalizzati al raggiungimento degli obiettivi ritenuti prioritari per l'interesse della collettività. Pertanto in tal caso l'interesse pubblico è preminente rispetto alla procedura di verifica.
Il controllo amministrativo di regolarità amministrativa. Alcune difficoltà sono state manifestate in particolare da parte dei soggetti preposti al controllo di regolarità amministrativo-contabile, riguardo il trattamento di eventuali irregolarità riscontrate in ordine all'effettuazione della verifica prescritta dall'art. 48-bis e dal dm 40/2008. In particolare, sono stati formulati dubbi circa l'opportunità di procedere, ogni qual volta si presenti una situazione di irregolarità, alla denuncia o alla segnalazione del fatto potenzialmente dannoso per l'erario, in quanto potrebbe semplicemente trattarsi di un mero inadempimento procedurale, senza conseguenze sulla finanza pubblica.
In presenza di irregolarità, devono essere primariamente promosse tutte quelle iniziative di natura conoscitiva per accertare o escludere i presupposti di un danno all'erario.
In assenza di chiarimenti soddisfacenti da parte dell'Amministrazione che ha disposto il pagamento, diventa comunque necessario, prima di avanzare una segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei conti, effettuare una verifica del disposto pagamento.
La richiesta ad Equitalia. Nelle more dell'implementazione di un sistema telematico che renda possibile effettuare on-line l'accertamento, la p.a. dovrà formulare apposita richiesta scritta, utilizzando uno specifico modello previsto dalla circolare n. 27/rgs/2011, da inviare a Equitalia.
Sulla base della richiesta, l'ente di riscossione accerterà se il beneficiario del pagamento si trova a quel momento in posizione di inadempienza rispetto all'obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari o superiore all'importo di 10 mila euro e, nel solo caso affermativo, se tale posizione di inadempienza era già esistente, sulla base dell'obbligo derivante dalle medesime cartelle, all'epoca in cui è stato effettuato il pagamento.
L'esito del suddetto accertamento sarà comunicato da Equitalia direttamente all'Amministrazione interessata, indicativamente nel termine di 30 giorni, attraverso il mezzo indicato da quest'ultima al momento della richiesta.
Laddove l'esito dell'accertamento palesi un perdurante stato di inadempimento a carico del beneficiario, i soggetti tenuti all'obbligo di denuncia devono provvedere a trasmettere apposita segnalazione alla competente procura regionale della magistratura contabile, in aderenza alle direttive contenute nella nota del procuratore generale presso la Corte dei conti n. p.g. 9434/2007P, del 02.08.2007 (articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2011 - link a www.corteconti.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: W. Fumagalli, Nessun ricorso, nessun risarcimento: come farsi risarcire dalla Pubblica Amministrazione - Il nuovo codice del processo amministrativo permette di chiedere il risarcimento dei danni provocati da provvedimenti amministrativi illegittimi anche se non si chiede il loro annullamento. Se però non si chiede l’annullamento del provvedimento, ottenere il risarcimento dei danni può rivelarsi impossibile. E allora che cosa bisogna fare? (AL n. 07-08/2011).

APPALTI SERVIZI: R. Cavalli, Decreto ambiti distribuzione gas: il blocco delle gare (link a www.dirittosuweb.com).

APPALTI SERVIZI: D. Scarpino, Gestione di impianti sportivi e responsabilità civile (link a www.dirittosuweb.com).

APPALTI: R. Cavalli, Commento al DPCM del 30.06.2011 sulle stazioni uniche appaltanti (link a www.dirittosuweb.com).

ENTI LOCALI: A. Lisi e F. Giannuzzi, Punizione a colpi di PEC per la Regione Basilicata (link a www.filodiritto.com).

ENTI LOCALI: G. Rognetta, L'accesso telematico delle pubbliche amministrazioni agli indirizzi PEC dei professionisti (link a www.filodiritto.com).

QUESITI & PARERI

SICUREZZA LAVORO: Responsabilità penale di soci di società di persone: sussiste per inadempimenti in materia di sicurezza sul lavoro?
Domanda.
I soci di una società di persone possono essere chiamati a rispondere delle sanzioni penali che conseguono ad inadempimenti formali in materia di sicurezza sul lavoro come previsto dal decreto 81 del 2008 cosiddetto Testo Unico?
Risposta.
In materia penale, come è quella prevenzionistica relativa alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro di cui al d.lgs. n. 81/2008, come modificato dal d.lgs. n. 106/2009, anche quando attivata in via contravvenzionale con la procedura di prescrizione obbligatoria, la responsabilità per le condotte illecite rilevate dal personale ispettivo è personale di ciascuno dei soggetti che, in qualità di datore di lavoro, avrebbero dovuto e potuto agire diversamente, tenendo la condotta doverosa o non ponendo in essere il comportamento antidoveroso, per conto dell'azienda nella quale le violazioni vengono ad essere riscontrate e debitamente accertate.
L'articolo 16 del d.lgs. n. 81/2008, peraltro, disciplina espressamente i requisiti legali della delega di funzioni in materia di sicurezza, che è ammessa entro limiti precisi e tassativi, con adeguata e tempestiva pubblicità, e deve possedere i seguenti elementi oggettivi:
a) risultare da atto scritto recante data certa;
b) il delegato deve possedere tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
c) la delega attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
d) la delega attribuisca al delegato l'autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate;
e) la delega sia accettata dal delegato per iscritto.
In mancanza della delega realizzata e prodotta come sopra indicato, ciascuno dei soci della società di persone, quale datore di lavoro, potrà essere chiamato a rispondere delle violazioni prevenzionistiche rilevate dagli organi di vigilanza, fatta salva la dimostrazione di una obiettiva insussistenza della responsabilità personale colpevole che però potrà essere offerta esclusivamente durante il procedimento penale dinanzi all'Autorità giudiziaria e non già nelle attività di Polizia Giudiziaria quale è la prescrizione obbligatoria di cui al D.lgs. n. 758/1994.
Le considerazioni sono frutto esclusivo del pensiero dell'Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l'Amministrazione alla quale appartiene (07.10.2011 - tratto da www.ipsoa.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODirigenti a contratto, si assume. Tetto all'8% fino alla definizione degli indici di virtuosità. La Corte dei conti del Molise è stata la prima a pronunciarsi sul correttivo della Brunetta.
Gli enti locali possono assumere dirigenti a contratto entro il tetto dell'8%, finché non siano definiti i parametri di virtuosità previsti dall'articolo 20, comma 3, della legge 111/2011.
È la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Molise la prima a pronunciarsi in merito agli effetti dell'articolo 1 del dlgs 141/2011, il cosiddetto «correttivo» alla riforma-Brunetta, col parere 14.09.2011 n. 81, sostenendo che l'ampliamento della percentuale di assunzione di dirigenti «a contratto» al 18% resta congelato, in attesa delle regole sulla virtuosità degli enti locali.
L'articolo 1 del dlgs 141/2011 novella l'articolo 19 del dlgs 165/2001, nell'intento di chiarire entro quale misura gli enti locali possono acquisire dirigenti «esterni» alla dotazione organica, aggiungendo un comma 6-quater, ai sensi del quale “per gli enti locali, che risultano collocati nella classe di virtuosità di cui all'articolo 20, comma 3, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, come individuati con il decreto di cui al comma 2 del medesimo articolo, il numero complessivo degli incarichi a contratto nella dotazione organica dirigenziale, conferibili ai sensi dell'articolo 110, comma 1, del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, non può in ogni caso superare la percentuale del diciotto per cento della dotazione organica della qualifica dirigenziale a tempo indeterminato".
Si applica quanto previsto dal comma 6-bis».
Subito si è posta la questione se in assenza dei parametri di virtuosità e, dunque, della espressa qualificabilità degli enti come «virtuosi» valesse la percentuale del 18%, oppure non si potesse radicalmente assumere qualsiasi dirigente a contratto o, infine, continuasse a vigere la percentuale dell'8%, seguendo le indicazioni del comma 6 dell'articolo 19, come interpretato dalle Sezioni riunite della Corte dei conti, delibere 12, 13 e 14 del 2011.
La tesi più restrittiva, secondo la quale effetto del dlgs 141/2011 sarebbe stato il congelamento della possibilità di assumere dirigenti a contratto non era convincente. È evidente l'intento del legislatore di dettare regole finalizzate a permettere di assumere dirigenti a contratto, entro limiti percentuali da definire. L'incertezza non poteva che riguardare, allora, la determinazione della percentuale.
Secondo la Sezione Molise nelle more dell'emanazione del decreto finalizzato a determinare quali saranno gli enti collocati nella classe di massima virtuosità «rimane consentito procedere al conferimento di incarichi ex art. 110, comma 1, comma Tuel nei limiti di quanto previsto dalle deliberazioni delle Sezioni Riunite della Corte dei conti nn. 12 e 13/2001/QM».
La condivisibile tesi della Sezione permette di inquadrare meglio, allora, il nuovo comma 6-quater dell'articolo 19. Non si tratta della fissazione secca di un potere discrezionale assoluto degli enti locali di incrementare la percentuale dei dirigenti esterni dall'8% al 18%. Tale incremento apparirebbe, se slegato da ragioni particolari, del tutto irrazionale, posto che nelle amministrazioni dello Stato la combinazione dei limiti percentuali entro i quali è possibile acquisire dirigenti a tempo determinato, pari al 10% per la dirigenza di prima fascia e all'8% per i dirigenti di seconda, dà come risultato in termini assoluti proprio l'8%. È, insomma, fuorviante immaginare che per gli enti locali si potessero sommare la percentuale del 10 e dell'8%.
Secondo la chiave di lettura suggerita dalla Sezione Molise, il comma 6-quater deve essere considerato logicamente connesso al comma 6 dell'articolo 19, norma che regge il sistema e che fonda la possibilità di assumere dirigenti a contratto solo entro la soglia dell'8% della dotazione organica. Sicché, il comma 6-quater finisce per essere una norma che incentiva gli enti a collocarsi nella fascia di massima virtuosità, in quanto tra gli altri «benefici» scatta anche quello di poter acquisire dirigenti a contratto oltre la soglia «ordinaria» dell'8%, fino al massimo del 18%.
Questa logica interpretativa è confermata da una specificazione espressa del parere della Sezione Molise, secondo il quale la possibilità di assumere entro la più ristretta percentuale dell'8% varrà anche successivamente all'adozione del decreto sulla virtuosità degli enti anche «per gli enti non collocati nella prima classe di virtuosità» (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2011 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE: Enti locali, incentivi senza tagli. I compensi a progettisti e legali interni fuori dal tetto 2010.  La Corte conti a sezioni unite: solo due eccezioni alla stretta del dl 78 sulle risorse decentrate.
Gli incentivi per la progettazione (interna) di opere pubbliche e i compensi per l'avvocatura comunale e provinciale restano fuori dalla stretta prevista dalla manovra correttiva 2010. Si tratta delle uniche eccezioni all'applicazione dell'art. 9, comma 2-bis, del dl 78/2010 che ha imposto agli enti locali di cristallizzare, dall'01/01/2011 e fino al 31/12/2013, le risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale in modo che non superino l'importo fatto registrare nel 2010.
Nessun'altra deroga può essere ammessa perché la ratio della disposizione (limitare la crescita dei fondi destinati alla contrattazione integrativa) impone una lettura non estensiva. Per questo, onde evitare effetti distorsivi, gli enti dovranno sterilizzare le spese sostenute nel 2010 per pagare i progettisti e gli avvocati interni, non includendole nel tetto da prendere in considerazione. Diversamente, chi l'anno scorso ha dovuto pagare ingenti somme per questo tipo di spese ne risulterebbe eccessivamente penalizzato, perché il tetto delle risorse complessive destinabili alla contrattazione integrativa risulterebbe elevato «in modo improprio».

Lo hanno chiarito le Sezz. unite della Corte dei Conti con la deliberazione 04.10.2011 n. 51 che ha tolto agli enti ogni speranza di aprire un varco interpretativo a proprio favore. A chiamare in causa le sezioni unite è stata la Corte conti Lombardia.
I giudici lombardi ancora una volta hanno tentato di alleggerire il compito di comuni e province escludendo dal tetto di spese, che dovrà per tre anni restare al livello del 2010, una serie di risorse destinate a finanziare specifici incentivi: oltre a progettisti e avvocati interni, la Corte conti Lombardia chiedeva di escludere i compensi per il recupero dell'Ici, quelli per le indennità di turno della polizia locale e i proventi derivanti dai contratti di sponsorizzazione.
La magistratura erariale milanese ha richiamato a sostegno delle proprie tesi anche l'orientamento analogo delle sezioni regionali di Marche e Liguria, oltre a una circolare della Conferenza delle regioni. Tutte favorevoli a escludere dal tetto gli incentivi di cui sopra per svariate ragioni. Gli incentivi Ici, per esempio, non andrebbero tenuti in conto poiché «verrebbero corrisposti con fondi che si autoalimentano, ossia mediante risorse etero-finanziate rispetto alle risorse proprie degli enti locali».
I compensi per i legali dell'ente derivanti dalla condanna alle spese delle controparti andrebbero esclusi perché «non si tratterebbe di somme incidenti sugli equilibri di bilancio degli enti». E ancora, i proventi dei contratti di sponsorizzazione dovrebbero restare fuori dal tetto in quanto risorse, sì destinate al fondo per la contrattazione integrativa, ma anche in questo caso «etero-finanziate e dunque non incidenti sugli equilibri delle finanze locali». Mentre gli incentivi ai progettisti, secondo la Corte conti Lombardia, sarebbero da considerare spese per investimenti e non invece per personale.
Le sezioni unite, dopo un lungo excursus storico sulle dinamiche retributive che dal 1993 in poi hanno di fatto incrementato la spesa delle pubbliche amministrazioni a livello decentrato aumentando sempre più il divario tra stipendi contrattuali e stipendi percepiti, ha ribadito che l'art. 9, comma 2-bis, non ammette sconti. «Si tratta di una norma volta a rafforzare il limite posto alla crescita della spesa di personale», scrivono i giudici presieduti da Luigi Giampaolino, «che prescinde da ogni considerazione relativa alla provenienza delle risorse e per questo applicabile anche nel caso in cui l'ente disponga di risorse aggiuntive derivanti da incrementi di entrata».
Le uniche eccezioni che le sezioni unite ammettono alla necessità di interpretare in modo non estensivo la disposizione del dl 78 riguardano come detto gli incentivi ai progettisti e agli avvocati interni. Si tratta infatti di risorse «correlate allo svolgimento di prestazioni professionali specialistiche offerte da personale qualificato in servizio presso la p.a.» che, se acquisite all'esterno, comporterebbero costi aggiuntivi per i bilanci degli enti. «Pertanto», chiariscono le sezioni unite, «in tali ipotesi dette risorse alimentano il fondo in senso solo figurativo dato che esse non sono poi destinate a finanziare gli incentivi spettanti alla generalità del personale dell'amministrazione pubblica».
I fondi derivanti dal recupero dell'Ici o dai contratti di sponsorizzazione, invece, non possono essere esclusi perché «potenzialmente destinabili alla generalità dei dipendenti» (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2011 - link a www.corteconti.it).

NEWS

ENTI LOCALI - VARIAutovelox a noleggio trasparenti.
Via libera all'acquisizione di strumenti autovelox a noleggio da parte dei comuni purché il contratto con la ditta sia trasparente e a canone fisso ovvero senza alcun collegamento premiale al numero delle infrazioni accertate.

Lo ha ribadito il Ministero dei Trasporti con parere 04.08.2011 n. 4195.
Nonostante la legge 120/2010 abbia evidenziato il divieto di attivare contratti di noleggio autovelox condizionati dal numero delle multe accertate, sono ancora tanti i comuni che chiedono chiarimenti. L'art. 61 della legge 120/2010, entrata in vigore definitivamente alla vigilia dello scorso ferragosto, ha stabilito che gli enti locali possono acquisire misuratori elettronici di velocità anche con contratti a noleggio a canone fisso.
In buona sostanza il comune può concordare con il privato il ristoro delle spese di accertamento cioè di un costo documentabile ed unitario. Tra l'altro questo importo, secondo l'art. 201 del codice della strada, dovrebbe sempre essere addebitato al trasgressore. Anche un costo fisso forfettario può andare bene, conclude il mit, ma sempre senza valutazioni a percentuale sulle multe accertate (articolo ItaliaOggi dell'11.10.2011).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il passaggio diretto dribbla il turnover ma non il Patto.
FUORI DAL BLOCCO - Ma il divieto può scattare se non si rispettano i saldi e le norme sul contenimento della spesa come interpretate dalla Corte dei conti.

Il contenimento delle spese di personale e le regole sul turn over costringono a guardare con sempre maggiore attenzione all'istituto del passaggio diretto di dipendenti tra pubbliche amministrazioni.
Dal punto di vista legislativo non vi è dubbio che la mobilità venga sempre più ricercata prima di procedere a qualsiasi assunzione dall'esterno. Sia il Dl 98/2011 che il Dl 138/2011 individuano la procedura come il primo passo da fare, peraltro obbligatorio sia per la mobilità ex articolo 30, comma 2-bis, che per quella dell'articolo 34-bis del Dlgs 165/2001 in uno spirito di condivisione delle risorse pubbliche senza incrementi di spesa.
Non a caso il legislatore ha previsto che prima di ogni procedura concorsuale si debba procedere a rendere pubbliche le disponibilità di posti, affinché ci si possa avvalere, prima di ogni altra scelta, dei trasferimenti in entrata di lavoratori di altri enti.
Addirittura il Tar Lombardia Milano, sezione IV, con sentenza 21.09.2011 n. 2250, nell'affrontare la questione se viene prima la mobilità o lo scorrimento della graduatoria ha optato per la prima indicazione. L'amministrazione, infatti, quando prevede la copertura di un posto in organico mediante mobilità volontaria esercita un potere discrezionale di scelta delle modalità di copertura delle proprie esigenze di organico con uno strumento che, essendo oggetto di preferenza legislativa e garantendo l'assunzione di personale specializzato, non richiede specifica motivazione.
L'attenzione si sposta a questo punto sul considerare o meno la mobilità quale assunzione. Dal punto di vista giuridico non ci sono dubbi. La procedura non comporta la costituzione di un rapporto di lavoro, ma soltanto la cessione del contratto di lavoro già in essere con l'originaria amministrazione di appartenenza. La fattispecie integra una modificazione soggettiva del rapporto di lavoro, con il consenso di tutte tre le parti e, quindi, appunto, una cessione del contratto. Parola di Consiglio di Stato, così come si ricava dalla recente sentenza n. 5085/2011.
Rimane, però, sempre incertezza sul rapporto dell'istituto con le spese di personale e le possibilità di assunzione, soprattutto dopo la delibera n. 46/2011 delle Sezioni riunite della Corte dei conti che fa rientrare nelle regole del turn over «le assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale». Anche la mobilità, quindi?
La risposta dovrebbe essere negativa. Infatti, in questo contesto, trova piena applicazione l'articolo 1 comma 47 della legge 311/2004 (Finanziaria 2005) laddove è previsto che in un rigido regime di turn over la mobilità è comunque consentita tra Pa che hanno limiti alle assunzioni. Allo stato attuale tutti gli enti locali hanno limiti: gli enti non soggetti a Patto possono assumere nel limite delle cessazioni dell'anno precedente; quelli soggetti nel limite del 20% della spesa delle cessazioni dell'esercizio precedente. La mobilità non può, quindi, essere considerata né tra le cessazioni né tra le assunzioni quando avvenga tra le autonomie territoriali.
Vi sono però altre disposizioni che possono impattare sull'istituto. Infatti, anche i passaggi di dipendenti tra amministrazioni possono essere vietati qualora non si rispetti il Patto di stabilità e non si osservino le norme sul contenimento della spesa di personale (comma 557 e comma 562, legge 296/2006). In questo caso si è, infatti, in presenza di rigide sanzioni specifiche per il singolo ente.
Alcune sezioni regionali della Corte dei conti hanno esteso il divieto anche al caso in cui l'ente abbia un rapporto tra spese di personale e spese correnti superiore al 40 per cento. Per ultimi l'hanno ribadito i giudici contabili della Liguria con la delibera n. 61/2011, allargando il campo d'azione non solo alla mobilità, ma anche all'utilizzo di personale comandato da altri enti (articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2011 - link a www.corteconti.it).

CONDOMINIO: Riscaldamento, distacco a ostacoli. Nuovi limiti introdotti dalle norme sul risparmio energetico. Si complica il passaggio dal sistema centralizzato a quello autonomo nei condomini.
Abitazioni troppo calde o troppo fredde: non si riesce mai a trovare la via di mezzo. E proprio con l'avvicinarsi della stagione invernale si fanno più urgenti le problematiche legate al riscaldamento. In molti sono invogliati (anche a causa dei costi dei carburanti) a valutare la possibilità di staccarsi dal riscaldamento centralizzato.
Una strada però in salita. Se, infatti, le sentenze della Cassazione, anche recenti, sono favorevoli a questo tipo di scelta, il quadro è stato complicato dalle nuove norme in materia di risparmio energetico che sembrano ostacolare la decisione. Intanto, sempre in materia di riscaldamento della casa, è in arrivo per i condomini l'obbligo di installazione delle valvole termostatiche sui termosifoni per il controllo della temperatura ambientale.
L
e sentenze della Cassazione. La Cassazione si è più volte dichiarata favorevole alla scelta del distacco, anche nelle sentenze più recenti. Come in quella n. 11857 del 27 maggio scorso, in cui la Suprema corte ha ribadito che il distacco è legittimo anche senza l'autorizzazione dell'assemblea.
Unica condizione da rispettare è che non si creino squilibri termici nell'edificio in grado di pregiudicare l'erogazione del servizio e comportare spese aggiuntive per gli altri condomini. La Corte ha anche precisato che per squilibrio termico non si può considerare solo la differente temperatura che può venirsi a creare nell'appartamento distaccato rispetto agli altri.
È necessaria in ogni caso la certificazione della condizione termica del nuovo impianto. Inoltre, la relazione del termotecnico può attestare che, per compensare gli effetti creati dal distacco, il condomino che non utilizza più il centralizzato è tenuto a pagare comunque una quota fissa di consumi. In aggiunta, in base al secondo comma dell'articolo 1118 del codice civile, chi rinuncia al diritto sulle cose comuni, deve comunque contribuire alle spese per la loro conservazione, ossia in questo caso alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria dell'impianto centralizzato, inclusa la sua sostituzione.
Le nuove norme in materia di risparmio energetico. Le sentenze della Corte riguardano però casi antecedenti le nuove norme in materia di risparmio energetico. Come, per esempio, il dpr 59/2009, che vieta la trasformazione di impianti centralizzati in impianti autonomi negli immobili con più di quattro unità abitative o con potenza superiore a 100 kW.
La giurisprudenza, quindi, finora è stata favorevole a chi decide per il distacco ma, in futuro, l'orientamento potrebbe cambiare alla luce di queste novità normative, portando ad accogliere, per esempio, il ricorso di un condominio che potrebbe lamentare l'impossibilità di raggiungere un buon livello di efficienza e risparmio energetico.
Occhio alla canna fumaria. Se si opta per la scelta di distaccarsi dal centralizzato, occorre però sapere che per poter procedere all'installazione della caldaia autonoma è necessario uno sbocco per la canna fumaria. Una realizzazione che può essere costosa, ma che non richiede il lasciapassare da parte dell'assemblea condominiale. Infatti, l'uso delle parti comuni per il passaggio della canna è lecito se non impedisce il loro utilizzo agli altri condomini e se non danneggia il decoro dell'edificio.
Le valvole termostatiche diventano obbligatorie. Un aiuto al controllo della temperatura all'interno degli appartamenti viene anche dalle valvole termostatiche, ossia dei dispositivi che, installati sui termosifoni, permettono di regolare il flusso di acqua calda, contabilizzando i consumi. Un sistema che consente di evitare gli sprechi, stabilizzando la temperatura nei diversi locali a seconda delle necessità.
Nel caso di edifici con impianto di riscaldamento centralizzato, è necessario che il condominio realizzi contemporaneamente un sistema di contabilizzazione individuale del calore (ogni condomino paga quello che consuma come con un impianto autonomo, al netto dei costi dei servizi comuni) per far sì che i risparmi ottenuti siano riconosciuti e attribuiti ai singoli.
In Lombardia è stato recentemente istituito un decreto-legge regionale (n. 3 del 21.02.2011) che estende l'obbligo dei sistemi per la termoregolazione degli ambienti e la contabilizzazione autonoma del calore a tutti gli impianti di riscaldamento al servizio di più unità immobiliari, anche se già esistenti, a partire dal primo agosto 2012 e per i tre anni successivi a seconda dell'età della caldaia.
Tutti i condomini e tutti gli appartamenti dovranno quindi dotarsi di sistemi per la contabilizzazione del calore e la regolazione della temperatura. La normativa è al momento in vigore in Lombardia e in Piemonte, ma nei prossimi mesi sarà estesa anche alle altre regioni (articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2011).

ENTI LOCALI - VARI: Fabbricati rurali, tempo scaduto. Ora parte il recupero dei tributi. Decorso il termine per la variazione della categoria degli immobili. La proroga non è arrivata.
Tempo scaduto per la presentazione della richiesta di variazione della categoria dei fabbricati rurali. Decorso il 30 settembre scorso e in assenza di una proroga, per l'amministrazione finanziaria e per gli enti locali si apre la stagione delle verifiche e del recupero dei tributi anche pregressi (dal 2006), poiché detta variazione funge anche da minisanatoria.

L'annunciata (e poi smentita e poi riannunciata) proroga del termine prescritto dall'art. 7, del decreto n. 70/2011 (cosiddetto «decreto sviluppo») non è arrivata e molti proprietari e titolari di diritti reali delle costruzioni, sebbene rispettose dei requisiti richiesti dai commi 3 (abitativi) e 3-bis (strumentali) dell'art. 9, dl n. 557719893, rischiano il recupero coattivo dell'Irpef e dell'Ici per il quinquennio appena trascorso, in quanto il mancato accatastamento alle categorie specifiche «A/6» (abitativi) e «D/10» (strumentali) comporta inevitabilmente il disconoscimento della ruralità.
Sul punto appare quasi inutile ricordare i ritardi nell'emanazione del decreto di attuazione che, ancorché datato 14 settembre, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 220 del 21.09.2011, mentre la circolare esplicativa dell'Agenzia del territorio, assolutamente non esaustiva, è stata emanata e messa a disposizione sul sito in data 22.09.2011; definire tempestiva la messa a disposizione di tali documenti a solo otto giorni dalla scadenza, pare fin troppo azzardato, anche perché l'autocertificazione da presentare risulta complessivamente inadeguata e non esaustiva delle situazioni presenti sul territorio nazionale.
Peraltro, è opportuno ricordare che il comma 2, dell'articolo 3, della legge n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), fin troppe volte disatteso dalla stessa amministrazione finanziaria, dispone che «_ in ogni caso, le disposizioni tributarie non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore o dell'adozione dei provvedimenti di attuazione in esse espressamente previsti_».
Inoltre, si deve prendere atto che non tutte le situazioni sono risultate di semplice soluzione basti pensare, per esempio, al caso del garage dell'abitazione, rispettosa dei requisiti di ruralità, di cui al comma 3, del citato art. 9, che deve essere censita nella categoria «A/6»: tale pertinenza, ai sensi dell'art. 817 c.c., è di servizio alla costruzione censita in categoria «A/6», ma la stessa non può essere inserita in tale categoria per espresso diniego degli uffici periferici del Territorio, con la conseguenza che l'unica categoria attribuibile, in assenza di chiarimenti, è quella assegnata agli immobili strumentali ovvero alla categoria «D/10».
La circolare n. 6/T/2011 dell'Agenzia del territorio, cui dobbiamo riconoscere la celerità di emanazione a ridosso della pubblicazione del provvedimento attuativo, non ha sedato ulteriori problematiche, come quelle del pensionato, ex lavoratore agricolo, cui non si possono (inevitabilmente) rendere applicabili tutte le condizioni indicate dalle lettere da a) a e), del comma 3, dell'art. 9 (per esempio, il rispetto dei metri quadrati dei terreni asserviti), in presenza di utilizzo del fabbricato a destinazione abitativa ma, soprattutto, che cosa succede per i fabbricati legittimamente non ancora censiti nel catasto fabbricati (sul tema, si rinvia alla datata circolare n. 96/T/1998), per i quali non si intravede altra soluzione che procedere a un primo accampionamento, ma non come variazione ma con vero e proprio accatastamento.
Sul punto, in effetti, in un passo della circolare n. 6/T/2011 (§3) il Territorio afferma che «_ la domanda di variazione per il riconoscimento delle menzionate categorie può essere presentata soltanto per le unità immobiliari già iscritte al catasto urbano_»; di conseguenza appare chiaro che il proprietario era di fronte a un bivio, con tempi di risposta estremamente ristretti e con la necessità, alternativa, di procedere in tutta fretta a presentare la procedura Docfa con la richiesta di accatastamento, ancorché accompagnata dalle autocertificazioni allegate alla circolare n. 7/T/2007 per la conferma del possesso dei requisiti di ruralità o di rimanere inerti, nella consapevolezza che il fabbricato, ancora censito in catasto terreni, potrebbe essere disconosciuto come rurale, giacché non in possesso della categoria specifica richiesta, con recupero pregresso dei tributi.
Pare evidente che, come richiesto a gran voce dalle associazioni di categoria e dai professionisti tecnici, l'allungamento dei tempi (si ipotizzava il 30 giugno dell'anno prossimo) avrebbe permesso di analizzare, anche a cura del Territorio, numerosi casi particolari, emanando ulteriori documenti di prassi necessari a dare contezza e certezza per la corretta applicazione delle disposizioni vigenti.
Infine, cosa di non minore importanza, niente è stato disposto per i contenziosi tuttora aperti, soprattutto quelli che avevano a oggetto il disconoscimento della ruralità ai fini Ici, in assenza della specifica categoria, non solo riferibili ai periodi d'imposta inclusi nella «pseudo» sanatoria, ma anche quelli inerenti periodi d'imposta anteriori al quinquennio indicato dal decreto sviluppo.
Sul punto, si aprono numerosi scenari in quanto, se rimane quasi certa la possibilità di un abbandono del contenzioso da parte dell'ente in presenza di un accertamento ricadente nel quinquennio, stante l'acquisizione «pregressa» della qualifica di rurale, non è facile comprendere la fine dei contenziosi per i quali, per esempio, la ruralità era presente nel periodo d'imposta accertato ma è stata persa, per effetto dell'assenza delle condizioni, anche per un solo periodo d'imposta diverso da quello accertato o, addirittura, se il ricorso pendente riguarda annualità anteriori a quelle incluse nella sanatoria (ante 2005) (articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2011).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Può ricorrere all’avvalimento anche la società che non abbia il capitale sociale minimo richiesto dal bando di gara.
Nella controversia in commento era in discussione la tesi secondo cui l’istituto dell’avvalimento trova un limite laddove ai fini della partecipazione a una gara sia necessario il possesso di un requisito soggettivo personalissimo come quello del capitale sociale minimo, dato che esso è predisposto per garantire l’affidabilità dell’impresa partecipante.
Tale impostazione non è stata considerata condivisibile dai giudici del Consiglio di Stato che innanzi tutto, evidenziano che l’istituto dell’avvalimento –istituto di derivazione comunitaria- disciplinato dall’ordinamento italiano dall’art. 49 del d.lgv. n. 163 del 2006, ha portata generale. Esso è finalizzato a consentire alle imprese singole, consorziate o riunite, che intendono partecipare ad una gara di poter soddisfare i requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA, avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto ed è applicabile, ai sensi del successivo articolo 50, ai sistemi legali vigenti di attestazione o di qualificazione nei servizi e forniture.
Ciò posto, deve ritenersi che ben sia possibile far ricorso all’istituto dell’avvalimento, ove il bando di gara richieda quale requisito di partecipazione un capitale sociale minimo di importo superiore a quello posseduto dalla società che intende partecipare alla gara. Trattasi, infatti, di requisito economico–finanziario che ai sensi dell’art. 49 non incontra alcun limite e prevale su qualunque disposizione contraria, compresa la disposizione, al tempo vigente, che richiedeva il requisito del capitale sociale di 10 milioni di euro per l’iscrizione all’albo dei soggetti privati abilitati alle attività di liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi (art. 32, comma 7, del d.l. n. 185 del 2008, convertito nella l. n. 2 del 2009).
Infatti, l’interesse sotteso alla norma, cioè quello della solvibilità del soggetto affidatario del servizio di riscossione viene assicurato attraverso l’impegno dell’impresa ausiliaria di mettere a disposizione per tutta la durata dell’appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente (cfr. per caso identico, Cons. Stato, V, n. 1624 del 2009).
D’altra parte l’impresa ausiliaria non è semplicemente un soggetto terzo rispetto alla gara, dovendosi essa impegnare, non soltanto verso l’impresa concorrente ausiliata, ma anche verso l’amministrazione procedente a mettere a disposizione del concorrente le risorse di cui questo sia carente; in tale ipotesi, quindi, l’impresa ausiliaria diventa titolare passivo di una obbligazione accessoria dipendente rispetto a quella principale del concorrente e tale obbligazione si perfeziona con l’aggiudicazione a favore del concorrente ausiliato, di cui segue le sorti (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13.05.2010, n. 2956) (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.10.2011 n. 5496 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACompete al Tribunale superiore delle acque pubbliche (TSAP) e non agli organi ordinari della giustizia amministrativa (TAR) la cognizione delle controversie aventi per oggetto la domanda di annullamento di provvedimenti adottati da un comune e da una provincia per la salvaguardia del vincolo di inedificabilità della fascia di rispetto dell'argine trasversale di un fiume.
Osserva, al riguardo, il Collegio come l’odierno giudizio verta sull’impugnazione di un diniego di condono, adottato dal Comune di Rho sull’imprescindibile presupposto che: <<l’autorimessa è collocata sul confine del torrente Lura e, pertanto, in contrasto con le prescrizioni indicate nell’art. 96, comma f), del R.D. 25.07.1904 n. 523 e s.m.i. che vietano in modo assoluto le costruzioni a distanza dai corsi d’acqua minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località e, in mancanza di tali discipline, a metri dieci>>.
In tali evenienze, come correttamente osservato dalla difesa resistente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno, anche recentemente, ribadito che: "Compete al Tribunale superiore delle acque pubbliche e non agli organi ordinari della giustizia amministrativa la cognizione delle controversie aventi per oggetto la domanda di annullamento di provvedimenti adottati da un comune e da una provincia per la salvaguardia del vincolo di inedificabilità della fascia di rispetto dell'argine trasversale di un fiume" (così, Cassazione civile, sez. un., 15.06.2009, n. 13898; id. 12.05.2009, n. 10845; 20.11.2008, n. 27528).
Nella specie, non può essere revocato in dubbio che il provvedimento impugnato è stato motivato in ragione dell’ubicazione dell’autorimessa, realizzata al confine del muro di sostegno del torrente Lura e, dunque, all’interno della fascia di 4 metri dall’alveo del torrente, su cui insiste il vincolo di inedificabilità assoluta, ai sensi dell’art. 96, lett. f) cit., come integrato dall’art. 82 del cit. reg. edilizio comunale.
Né può assumere rilievo, onde scalfire il profilo di interferenza, almeno astrattamente ipotizzabile, tra siffatto abuso edilizio e il regime delle acque pubbliche, la presenza -nel tratto di torrente qui considerato- di una tombinatura, trattandosi di opera a carattere non definitivo, comunque inidonea ad elidere le ragioni di fondo del vincolo di inedificabilità di cui al citato art. 96.
Si tratta, infatti, di una disciplina delle acque pubbliche che ne impone inderogabilmente la tutela, senza che residuino margini per attribuire rilievo alla conformazione del corpo superficiario (e, quindi, al fatto che esso si presenti con argini o sponde, con tombinatura o senza), atteso che, per il rispetto della predetta fascia, è vietata qualsiasi costruzione e, persino, qualunque deposito di terre o di altre materie, a distanza di metri dieci dal corso d’acqua (cfr. in tal senso, Cass. I, 22.04.2005, n. 8536, nonché, Cass. Sezioni Unite nn. 12271/2004; 19813/2008; analogamente Cons. Stato, IV 23.07.2009 n. 4663).
Sussiste, pertanto, l’eccepito profilo di inammissibilità del ricorso, con conseguente difetto di giurisdizione del giudice adito, trattandosi di questioni rientranti nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche (T.S.A.P.), come prevista dall’art. 143 del R.D. n. 1775/1933 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.10.2011 n. 2378 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’esclusione dal regime del permesso di costruire sussiste soltanto per i manufatti di assoluta ed evidente precarietà, desumibile dall’uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici e cronologicamente delimitati, sicché tale precarietà va esclusa quando si tratta di opere oggetto di duratura utilizzazione.
È sufficiente notare, più in generale, come l’esclusione dal regime del permesso di costruire sussista soltanto per i manufatti di assoluta ed evidente precarietà, desumibile dall’uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici e cronologicamente delimitati, sicché tale precarietà va esclusa quando si tratta di opere oggetto di duratura utilizzazione (cfr., a proposito della definizione dell'opera come precaria o stabile in dipendenza, non tanto, dell'elemento strutturale dei materiali utilizzati, quanto di quello funzionale, legato al fattore tempo e, dunque, alla durevolezza della destinazione impressa, in quanto non volta a soddisfare esigenze contingenti e circoscritte: TAR Puglia Lecce, sez. III, 26.11.2009, n. 2853; analogamente, id., sez. III, 08.03.2010, n. 688; nonché, TAR Lombardia Brescia, sez. I, 30.03.2009, n. 720) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.10.2011 n. 2377 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione del manufatto abusivo è legittimamente adottato nei confronti del proprietario dell'immobile indipendentemente dall'essere egli stato anche autore dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di far valere, sul piano civile, la responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, del proprio dante causa.
Sulla non riferibilità all’esponente della realizzazione dell’opera indicata sub n. 4 dell’ordinanza di demolizione, è sufficiente notare come, in disparte la totale carenza di dimostrazione dell’assunto di parte circa la propria estraneità alla realizzazione dell’abuso, nondimeno, l'assenza di responsabilità del proprietario, in relazione ad un abuso edilizio, non incide sulla legittimità dell'ordinanza di demolizione, ma rileva nella fase successiva all'adozione della stessa, precludendo, nel caso di inottemperanza, l'acquisizione del bene, così come previsto dall'art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, che ricollega tale sanzione alla sola inottemperanza del responsabile (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I, 18.01.2011, n. 381; Cassazione penale, sez. III, 13.07.2009, n. 39322, per cui:<<L'ordine di demolizione del manufatto abusivo è legittimamente adottato nei confronti del proprietario dell'immobile indipendentemente dall'essere egli stato anche autore dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di far valere, sul piano civile, la responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, del proprio dante causa>>) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.10.2011 n. 2377 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La giunta ed il consiglio comunale non possono effettuare valutazioni che contrastino con quelle già formalizzate con il piano regolatore. Infatti, se un’area è stata da questo destinata all’edificazione, nel corso del procedimento di approvazione del piano attuativo non è giuridicamente possibile che la medesima area non vada considerata in concreto edificabile ‘per ragioni ambientali e paesaggistiche’, e cioè sulla base di valutazioni diametralmente opposte a quelle già poste a base dello strumento primario che ha previsto l’edificabilità sul piano urbanistico. Ove emergano le relative ragioni, può essere attivato il procedimento per la modifica del piano regolatore, ma –sul piano urbanistico- non può essere respinto il progetto di lottizzazione conforme allo strumento primario.
La valutazione dei temi della viabilità, e quindi della sufficienza dei collegamenti esterni all’area oggetto di lottizzazione, non è un elemento da sviluppare in occasione dell’approvazione del piano di lottizzazione, che ha natura attuativa, ma deve essere contenuto, a monte, nello strumento urbanistico generale il quale, sulla base di una previsione complessiva dei temi della gestione del territorio, è il mezzo giuridico funzionalmente idoneo a dare ingresso alle tematiche della circolazione nell’ambito del territorio comunale.
Ritiene la Sezione che la propria precedente decisione n. 4368 del 16.09.2008 abbia già sufficientemente individuato i limiti decisionali che regolamentano l’approvazione dei piani di lottizzazione, quando ha affermato che “la giunta ed il consiglio comunale non possono effettuare valutazioni che contrastino con quelle già formalizzate con il piano regolatore. Infatti, se un’area è stata da questo destinata all’edificazione, nel corso del procedimento di approvazione del piano attuativo non è giuridicamente possibile che la medesima area non vada considerata in concreto edificabile ‘per ragioni ambientali e paesaggistiche’, e cioè sulla base di valutazioni diametralmente opposte a quelle già poste a base dello strumento primario che ha previsto l’edificabilità sul piano urbanistico. Ove emergano le relative ragioni, può essere attivato il procedimento per la modifica del piano regolatore, ma –sul piano urbanistico- non può essere respinto il progetto di lottizzazione conforme allo strumento primario”.
Nel rispetto delle diverse finalità della pianificazione urbanistica, la valutazione della congruità del piano di lottizzazione deve quindi porsi in collegamento attuativo e nel rispetto funzionale delle previsioni dello strumento urbanistico di valenza generale. Tali ragioni hanno quindi spinto la Sezione ad affermare che il compito spettante alla giunta ed al consiglio comunale siano limitati all’accertamento della conformità del progetto alle previsioni dello strumento urbanistico primario, imponendo peraltro, giusta il canone ordinario di correttezza dell’azione amministrativa, che le relative determinazioni in merito all’eventuale non conformità del progetto al piano regolatore si fondino su una puntuale motivazione, tale da permettere l’emersione di interessi pubblici effettivamente sussistenti e la conseguente tutela dell’interessato in sede di giustizia amministrativa.
Se queste affermazioni, in merito al metro di giudizio, non paiono contestabili, né sono state aggredite dalle parti contendenti, una diversa valutazione va fatta in relazione alla base del giudizio, ossia agli elementi che possono essere correttamente valutati al fine della declaratoria di non conformità rispetto allo strumento pianificatorio generale ed in particolare in relazione alla supposta insufficienza della viabilità.
In questo senso, nessun aiuto può provenire dalla decisione n. 4368 del 2008, evocata a vario titolo da tutte le parti, atteso che nella detta sentenza non sono stati valutati gli aspetti della viabilità, in quanto introdotti successivamente al provvedimento allora gravato e quindi integranti una motivazione postuma dello stesso. Le affermazioni ivi contenute hanno quindi natura di obiter dictum, sebbene incidentalmente, non si possa non notare come la Sezione abbia suffragato “la sussistenza del potere del consiglio comunale di valutare la sufficienza della viabilità nell’area oggetto del progetto, in rapporto all’area più vasta in cui la sua realizzazione si va ad inserire”, ossia limitando il sindacato alla viabilità interna al piano da realizzare.
In senso più generale, non si può non osservare come il tema della pianificazione viaria sia tradizionalmente oggetto di previsioni a livello di piano regolatore generale. L’art. 7 della legge urbanistica (legge 17.08.1942, n. 1150, indicando i contenuti del piano generale, espressamente prevede, al punto 1 del comma 1, che questo indichi “la rete delle principali vie di comunicazione stradali, ferroviarie e navigabili e dei relativi impianti”. E previsioni di tal fatta si riscontrano, peraltro con terminologia normativa più corrente, in tutte le discipline regionali che trattano il tema dell’assetto e del governo del territorio (ad esempio, nell’ambito della regione Veneto, la L.R. n. 11 del 2004, separando gli aspetti strutturali del piano regolatore da quelli operativi, prevede che siano fissati “gli obiettivi e le condizioni di sostenibilità degli interventi e delle trasformazioni ammissibili”, individuando “le infrastrutture e le attrezzature di maggiore rilevanza” – art. 13 comma 1, lett. j).
Emerge quindi uno stretto collegamento tra la pianificazione generale comunale e l’individuazione della rete viaria necessaria all’attuazione delle scelte di piano. E tale collegamento opera in senso discendente, in modo che la predisposizione infrastrutturale si pone a monte delle previsioni operative attuative.
Così ricostruito il quadro dei rapporti tra i contenuti di piano, appare evidente come la valutazione dei temi della viabilità, e quindi della sufficienza dei collegamenti esterni all’area oggetto di lottizzazione, non sia un elemento da sviluppare in occasione dell’approvazione del piano di lottizzazione, che ha natura attuativa, ma debba essere contenuto, a monte, nello strumento urbanistico generale il quale, sulla base di una previsione complessiva dei temi della gestione del territorio, è il mezzo giuridico funzionalmente idoneo a dare ingresso alle tematiche della circolazione nell’ambito del territorio comunale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.10.2011 n. 5485 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIStop antimafia senza sconti. Decide il prefetto. E il Tar non entra nel merito. Per Palazzo Spada l'inderdittiva è una misura cautelare di polizia.
Stop all'appalto pubblico per l'azienda se uno dei soci frequenta un capozona della criminalità organizzata. E ciò anche quando il «colletto bianco» è incensurato e non risulta affatto indagato. L'interdittiva anti-mafia, infatti, è una misura cautelare di polizia e il giudice amministrativo cui si rivolge l'azienda che si è vista revocare l'affidamento non può entrare nel merito, come farebbe invece il collega del settore penale: il sindacato risulta invece limitato a verificare il significato che il prefetto attribuisce agli elementi di fatto individuati dalle forze dell'ordine e l'iter seguito per pervenire allo revoca dell'appalto.
È quanto emerge dalla sentenza 05.10.2011 n. 5478, emessa dalla III Sez. del Consiglio di Stato.
Operazione trasparenza.
Lo stop imposto dal rappresentante del governo all'appalto «in odore» di mafia costituisce una misura preventiva che è diversa e ha una funzione distinta dalle misure di prevenzione antimafia di natura giurisdizionale.
L'interdittiva antimafia serve ad anticipare la soglia di autotutela amministrativa per evitare possibili ingerenze criminali nella attività dell'impresa: ciò che preme all'amministrazione, innanzitutto, è accertare l'affidabilità della impresa affidataria dei lavori.
Non contano, in questo caso, i rilievi probatori tipici del diritto penale.
Insomma: l'alt del prefetto costituisce l'esercizio di un'ampia discrezionalità e tanto basta alla revoca dell'appalto.
L'ufficio territoriale del governo effettua la sua valutazione sulla scorta di un mero quadro indiziario: assumono dunque rilievo gli elementi raccolti dalle forze dell'ordine ed essi sono sufficienti quando non è «manifestamente infondato» che i comportamenti e le scelte dell'imprenditore possono rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche amministrazioni. Dopodiché per l'imprenditore risultato vicino ai clan non c'è niente da fare: l'interdittiva antimafia non può essere annullata se il provvedimento non mostra elementi che possono evidenziare un deficit di motivazione, di illogicità e di travisamento, dal momento che il giudice di merito non ha sindacato di merito in materia.
Rapporti opachi.
Il ricorso dell'azienda calabrese, nel caso risolto dal Consiglio di stato, è in parte rigettato e in parte inammissibile. Sono davvero inquietanti i rapporti di uno dei soci della compagine con alcuni boss della 'ndrangheta: le forze dell'ordine individuano rapporti professionali e anche frequentazioni private e familiari, dunque un quadro di relazioni che va oltre lo stretto necessario in un contesto delicato come il comparto dei lavori pubblici nelle aree del Mezzogiorno inquinate dalla criminalità organizzata.
E la giurisprudenza amministrativa è ferma nel ritenere i contatti rilevati dalle forze dell'ordine tra il vincitore dell'appalto e pregiudicati sospettati di essere «capibastone» delle consorterie mafiose risultano un adeguato presupposto per far scattare l'interdittiva antimafia, a patto che gli incontri non siano brevi, occasionali o addirittura casuali (articolo ItaliaOggi del 12.10.2011).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalla caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della l. n. 729/1961 e dal successivo d.m. n. 1404/1968 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
Cosicché le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti
.

Come affermato da recente giurisprudenza, che il Collegio condivide, “il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalla caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della l. n. 729/1961 e dal successivo d.m. n. 1404/1968 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
Cosicché le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale (Cass. civ., n. 6118/1995) o che costituiscano mere sopraelevazioni (Cass. civ., n. 193/1987) o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti
” (TAR Campania, Napoli, VIII, 14.03.2011, n. 1461; altresì, ex multis, Cassazione civile, II, 03.11.2010, n. 22422; Consiglio di Stato, IV, 14.04.2010, n. 2076) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.10.2011 n. 2353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Sulla compatibilità, o meno, dell'attività di frantumazione inerti in zona D5 del vigente P.R.G..
L’art. 37 delle N.T.A. stabilisce che nella zona D5, quale è quella in cui opera la ricorrente, è ammesso il deposito dei prodotti finiti o semilavorati, nel rispetto delle norme contro ogni forma di inquinamento. Nella stessa zona sono ammesse alcune delle destinazioni di cui all’art. 8 delle N.T.A., ossia 2d, 2e, 5c, 8b e 10; tutte le altre sono vietate.
La frantumazione degli inerti effettuata dalla ricorrente si configura quale attività di trattamento di rifiuti, che non rientra in nessuna delle predette categorie di cui all’art. 8 delle N.T.A. e comunque richiederebbe una speciale autorizzazione, nel caso di specie mancante (cfr. Cassazione penale, III, 12.01.2011, n. 5346; Consiglio Stato, V, 14.04.1997, n. 351; TAR Lombardia, Milano, IV, 05.12.2008, n. 5719) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.10.2011 n. 2349 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARIPersi i punti. La patente è da rifare. Consiglio di stato: non conta se la comunicazione è una. Cumulativo il taglio.
Perde i punti della patente senza saperlo e ora deve rifare l'esame. Farà bene dunque a leggere di volta in volta i verbali l'automobilista multato, se non vuole ritrovarsi all'improvviso a quota zero e dover così rifare l'esame. Sulla patente, infatti, il taglio dei punti può essere «cumulativo».
È quanto emerge dalla sentenza 29.09.2011 n. 5410 della IV Sez. del Consiglio di Stato che ha rovesciato il verdetto del Tar, secondo cui un'unica comunicazione di più decurtazioni di punti collegate a violazioni diverse e lontane nel tempo determina un sostanziale aggiramento delle norme del Codice della strada.
Secondo il Tar il fatto che due o più infrazioni al Cds, fra loro distinte e lontane nel tempo, siano notificate al trasgressore con un'unica comunicazione della decurtazione dei punti sulla patente determina «un sostanziale aggiramento delle norme del Codice della strada». E ciò perché, sostiene il giudice di primo grado, esistono anche i corsi di recupero: a ogni infrazione con taglio dei punti deve seguire, nei tempi dettati dalla legge, una comunicazione al contravventore che sia specifica e autonoma, in modo da consentire al trasgressore di riparare alla violazione commessa frequentando le lezioni che permettono di ricostituire il patrimonio perduto. È questo, afferma il Tar, lo spirito della patente a punti: un sistema di afflizione, accessoria e progressiva, che vuole stimolare il fair-play sulle strade.
La sentenza del Tribunale amministrativo, che pure sembrerebbe motivata in modo ragionevole, è tuttavia annullata su ricorso del ministero dei Trasporti: l'automobilista indisciplinato deve rassegnarsi a dover sostenere una nuova prova di idoneità tecnica. Perché il taglio dei punti è disposto dall'Anagrafe nazionale abilitati alla guida e produce i suoi effetti in modo diretto e immediato nella sfera giuridica dell'interessato come qualsiasi provvedimento sanzionatorio.
La successiva comunicazione di cui all'articolo 126-bis Cds non è condizione di validità della decurtazione. Tanto meno l'omesso o intempestivo avviso riguarda in alcun modo il provvedimento di revisione della licenza di guida, che consegue esclusivamente alla perdita totale dei punti della patente. Il terzo comma dell'articolo 126-bis Cds, intanto, parla chiaro: «Ogni variazione di punteggio è comunicata agli interessati dall'anagrafe nazionale degli abilitati alla guida». Ma attenzione, la mancata adozione del provvedimento nei termini previsti determina un solo effetto: lo spostamento del termine per la proposizione della eventuale impugnazione.
L'omissione costituisce una mera irregolarità che non pregiudica in alcun modo gli interessi del privato. Insomma, quando rileva un vizio del provvedimento di decurtazione dei punti della patente, costituito dalla mancata tempestiva comunicazione ex articolo 126-bis, comma 3, Cds, l'automobilista deve proporre subito l'opposizione prevista dall'articolo 22 e seguenti della legge 689/1981 (articolo ItaliaOggi del 12.10.2011).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della formazione del silenzio-assenso (per la realizzazione impianti radioelettrici e di telecomunicazione) non è sufficiente la sola presentazione della domanda e il decorso del tempo indicato dalla norma che lo prevede, ma è necessario altresì che essa sia corredata dalla indispensabile documentazione prevista dalla normativa, non implicando il meccanismo del silenzio-assenso alcuna deroga al potere-dovere dell'Amministrazione pubblica di curare gli interessi pubblici nel rispetto dei principi fondamentali sanciti dall'art. 97, Cost. e presupponendo quindi che l'Amministrazione sia posta nella condizione di verificare la sussistenza di tutti i presupposti legali per il rilascio dell'autorizzazione.
---------------
Qualora le strutture di telecomunicazioni vengano allocate in zona sottoposta a vincolo paesaggistico è necessaria la relativa autorizzazione.

La giurisprudenza del Consiglio di Stato, in una fattispecie analoga a quella in esame, ha ritenuto che “Il silenzio-assenso di cui all'art. 87 d.lgs. n. 259 del 2003 non è applicabile (come, in verità, "in radice", l'intera procedura ex art. 87 cit.) al caso di manufatti già realizzati, nel caso fin dal 1990, e non dunque di futura edificazione, come è desumibile dallo stesso comma 10 dell'art. 87, il quale, sebbene fondi la conclusione dell'assorbimento della concessione edilizia nell'ambito dell'autorizzazione disciplinata da tale norma, rende del pari evidente che la fattispecie autorizzativa (anche) silenziosa è riferibile esclusivamente ad opere che "devono essere realizzate" (entro il termine perentorio di dodici mesi dalla formazione del silenzio-assenso) e quindi, appunto, non già edificate” (Cons. St., sez. VI, 17.12.2008, n. 6276).
In particolare, è stato chiarito che “anche per i suoi più volte chiariti fini acceleratori della realizzazione degli impianti radioelettrici e di telecomunicazione, la norma riguarda, proprio alla luce della sua ratio, future realizzazioni impiantistiche” (Cons. St., n. 6276 del 2008 cit.)
Nel caso in esame, è indiscusso che l’antenna era già preesistente, essendo stata installata nel 1989, e quindi, in applicazione del principio sopra riportato, non può ritenersi che il mancato diniego nel termine di novanta giorni possa aver comportato l’accoglimento dell’istanza.
È da evidenziare poi che il silenzio non può ritenersi formato neanche applicando al caso in esame la disciplina prevista dall’art. 20 l. 241/1990.
In primo luogo, il comma 4 dell’articolo in esame, prevede espressamente che “Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico”.
In secondo luogo, la giurisprudenza prevalente ritiene che, ai fini della formazione del silenzio assenso, non è sufficiente la sola presentazione della domanda e il decorso del tempo indicato dalla norma che lo prevede, ma è necessario altresì che essa sia corredata dalla indispensabile documentazione prevista dalla normativa, non implicando il meccanismo del silenzio-assenso alcuna deroga al potere-dovere dell'Amministrazione pubblica di curare gli interessi pubblici nel rispetto dei principi fondamentali sanciti dall'art. 97, Cost. e presupponendo quindi che l'Amministrazione sia posta nella condizione di verificare la sussistenza di tutti i presupposti legali per il rilascio dell'autorizzazione (Cons. St., sez. V, 01.04.2011, n. 2019; Cons. St., sez. V, 29.12.2009, n. 8831; Cons. St., sez. V, 19.06.2009, n. 4053).
Nel caso in esame, l’amministrazione comunale ha rilevato la mancanza di una serie di documenti necessari ai fini della valutazione dell’istanza e comunque, come verrà specificato nel prosieguo, si ritiene che l’autorizzazione in questione necessitava di una preventiva autorizzazione paesaggistica; da qui la conseguenza che la documentazione inviata dalla ricorrente al Comune non poteva ritenersi completa.
---------------
La ricorrente ritiene che le strutture di telecomunicazioni non sono soggette alle prescrizioni urbanistico-edilizie e quindi neanche alla preventiva autorizzazione paesaggistica, in quanto deve ritenersi prevalente l’interesse alla diffusione del servizio radio rispetto alla tutela del vincolo paesaggistico.
È da rilevare in proposito che la stessa disciplina del d.lgs. 259/2003, con l’art. 86, comma 4, nel prevedere espressamente che “restano ferme le disposizioni a tutela dei beni ambientali e culturali contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490”, fa salve le disposizioni a tutela dei beni culturali con la logica conseguenza che qualora ,come nel caso in esame, l’impianto viene allocato in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, è necessario richiedere una preventiva autorizzazione paesaggistica.
D’altronde, non si può ritenere, come invece dedotto dalla ricorrente, che il Comune non ha alcuna competenza in ordine alla localizzazione delle strutture di telecomunicazioni.
La giurisprudenza ha affrontato la questione del riparto di attribuzioni tra Stato ed enti locali per la disciplina delle installazioni produttive di inquinamento elettromagnetico e per la regolamentazione dei relativi impianti sotto il profilo urbanistico sulla scia della sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2003, che ha dichiarato l’incostituzionalità del decreto legislativo 04.09.2002, n. 198 per la parte in cui (art. 3, comma 2) sanciva la compatibilità “con qualsiasi destinazione urbanistica” e la realizzabilità “in ogni parte del territorio comunale” delle infrastrutture in questione, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ad ogni altra disposizione di legge o di regolamento, ledendo in tal modo la potestà pianificatoria della Regione riconosciuta dall’art. 117, comma 3, della Costituzione, il quale cita espressamente, tra le altre, le materie del governo del territorio, della tutela della salute e dell’ordinamento della comunicazione.
La Corte costituzionale, in particolare, ha ritenuto che è rimessa alle Regioni e agli enti territoriali minori la localizzazione degli impianti, come questione attinente alla disciplina dell’uso del territorio, purché la pianificazione adottata non sia tale da impedire o da ostacolare ingiustificatamente l’insediamento degli impianti stessi (Corte cost., 01.10.2003, n. 303).
La giurisprudenza ha quindi chiarito che “la disciplina degli impianti di telecomunicazione e radiotelevisivi coinvolge profili sia di tutela dell’ambiente che di governo del territorio, in quanto impone standards di protezione dalle onde elettromagnetiche uniformi su tutto il territorio nazionale a garanzia del diritto alla salute, ma anche modalità di localizzazione degli impianti stessi, tali da consentire il rispetto sia dei parametri urbanistici che di corrette regole di ottimale diffusione delle reti di comunicazione, secondo un ben preciso riparto di competenze” (Tar Lazio, sez. II-bis, 16.03.2009, n. 2690).
Pertanto, in base ai principi individuati dalla giurisprudenza citata, “non si può oggi seriamente sostenere che gli artt. 86 ed 87 del D.Lgs. 01.08.2003, n. 259, lascino al Comune esclusivamente un mero coordinamento formale della procedura autorizzatoria, privandolo di ogni competenza propria, solo perché riservano la verifica iniziale del rispetto dei limiti di esposizione ai campi elettrici ed elettromagnetici fissati dallo Stato all’ARPA, ente tecnico istituzionalmente preposto ad effettuare verifiche istruttorie del tipo in esame. La normativa specifica in materia di antenne e l’ordinaria normativa edilizia soccorrono a dirimere ogni dubbio al riguardo. In particolare, l’art. 86, comma 3, del citato D.Lgs. n. 259/2003 assimila le stazioni radio base alle opere di urbanizzazione primaria. Ad esse si applica, pertanto, la normativa vigente in materia (DPR n. 380 del 2001). Il comma 4 prevede che restano ferme anche le disposizioni in materia di tutela ambientale (DLgs. n. 490 del 1999) e di servitù militari.” (Tar Lazio, n. 2690/2009 cit.) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 29.09.2011 n. 1691 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quando manca una normativa specifica gli impianti eolici possono essere localizzati in tutte le zone agricole.
Se è vero che i Comuni possono prevedere, nell’esercizio della propria discrezionalità in materia di governo del territorio, aree specificamente destinate ad impianti eolici, anche tenendo conto delle diverse disposizioni vigenti in tema di sostegno del settore agricolo, agroalimentare locale e di tutela della biodiversità, del patrimonio culturale e paesaggio rurale, occorre, però ritenere che, in assenza di alcuna espressa previsione conformativa, detti impianti possono essere localizzati senza distinzione, almeno per quanto riguarda la valutazione di compatibilità urbanistica, in tutte le zone agricole (TAR Calabria, n. 32/2011 cit. e TAR Umbria, 15.07.2007, n. 518) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 27.09.2011 n. 1430 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Si è in presenza di un atto “meramente confermativo” (detto anche “conferma impropria”) quando l'amministrazione, di fronte ad un'istanza di riesame o ad una nuova istruttoria, si limiti a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento, senza compiere alcun specifico approfondimento e senza una nuova motivazione.
Si è invece al cospetto di un atto “confermativo” (conferma in senso proprio) quando l'amministrazione, dopo aver riconsiderato i fatti e i motivi prospettati, si esprime nuovamente senza limitarsi ad una constatazione di fatto dell'esistenza di un precedente provvedimento ma dando luogo ad un sostanziale procedimento di riesame, che porta alla riconsiderazione della situazione di fatto e di diritto alla base della decisione.

Una nuova statuizione assunta in esito ad una nuova istruttoria assume valore di atto "confermativo" e non già di atto "meramente confermativo" secondo quanto assunto da fonte giurisprudenziale ormai consolidata, per cui si è in presenza di un atto “meramente confermativo” (detto anche “conferma impropria”) quando l'amministrazione, di fronte ad un'istanza di riesame o ad una nuova istruttoria, si limiti a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento, senza compiere alcun specifico approfondimento e senza una nuova motivazione. Su tale fondamento, l'atto meramente confermativo non può riaprire i termini per impugnare il precedente, semplicemente confermato, non rappresentando il secondo atto un'autonoma determinazione dell'amministrazione, sia pure identica nel contenuto alla precedente, ma solo la manifestazione della decisione dell'amministrazione di non ritornare sulle scelte già effettuate.
Al contrario, si è invece al cospetto di un atto “confermativo” (conferma in senso proprio) quando l'amministrazione, dopo aver riconsiderato i fatti e i motivi prospettati, si esprime nuovamente senza limitarsi ad una constatazione di fatto dell'esistenza di un precedente provvedimento ma dando luogo ad un sostanziale procedimento di riesame, che porta alla riconsiderazione della situazione di fatto e di diritto alla base della decisione (da ult.: TAR Sicilia, Pa, Sez. II, 03.03.2011, n. 391; Cons. Stato, Sez. VI, 11.05.2007, n. 2315) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 27.09.2011 n. 1430 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: L'amministratore non può rifiutarsi di consegnare i conti.
Se il condomino chiede all'amministratore di visionare o estrarre copia dei documenti contabili, non è tenuto a specificare le sue ragioni.

La richiesta, infatti, secondo la sentenza 21.09.2011 n. 19210 della Corte di Cassazione, può essere avanzata sempre e non soltanto in sede di rendiconto annuale e di approvazione del bilancio da parte dell'assemblea.
L'unico punto di attenzione è che l'esercizio di tale facoltà non ostacoli l'attività di amministrazione e non si presenti come contraria ai principi di correttezza risolvendosi in un peso economico per il condominio (in tal caso i costi dell'operazione gravano solo su chi ha fatto la richiesta).
La Corte ha peraltro chiarito che il rifiuto di estrarre copia dei documenti contabili, laddove non sia dimostrata l'impossibilità di esaudire la richiesta perché pervenuta a poche ore dall'inizio della seduta, dà luogo all'annullamento della delibera eventualmente presa dall'assemblea (articolo ItaliaOggi Sette del 10.10.2011).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ammessi i controlli a sorpresa.
PREROGATIVE - L'azienda ha però il diritto di verificare e contestare anche successivamente la veridicità e idoneità delle ispezioni.

L'ordinanza del Sindaco contro l'inquinamento acustico non richiede la preventiva comunicazione dell'avvio del procedimento, perché la Pubblica amministrazione incaricata dei controlli ha il «diritto alla sorpresa», per evitare che la comunicazione consenta al controllato di «non farsi cogliere sul fatto».
Così ha stabilito il TAR Umbria, Sez. I, sentenza 26.08.2011 n. 271.
Il caso riguardava una società di mangimi per animali, la cui lavorazione produceva forti rumori, che danneggiavano la salute degli abitanti di un edificio residenziale, situato di fronte allo stabilimento. Il sindaco, per risolvere il problema, aveva emanato un'ordinanza ai sensi dell'articolo 50, comma 5 del Testo unico degli Enti locali, e aveva ordinato alla società di adeguare le emissioni acustiche ai limiti normativi. La società aveva impugnato l'ordinanza, sostenendo, tra l'altro, che non vi era stata la preventiva comunicazione del l'avvio del procedimento e delle misurazioni programmate dal l'Arpa.
Il Tar ha però respinto il ricorso basando le sue motivazioni su due punti: e l'organo pubblico incaricato dei controlli ha il «diritto alla sorpresa» nello svolgimento delle attività istituzionali, per evitare che il preavviso consenta al controllato di «non farsi cogliere sul fatto»; il controllato ha però il diritto di verificare e contestare, anche successivamente, la veridicità e l'idoneità degli accertamenti compiuti.
La sentenza è giustificata. Il «diritto alla sorpresa» della pubblica amministrazione controllante è consentito dall'articolo 7 della legge 241/1990, che stabilisce che non è necessario l'avvio del procedimento allorché «sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento».
Si potrebbe obiettare che il contraddittorio deve essere osservato «nel momento» in cui il controllo è effettuato, e non in momenti successivi. Ma l'obiezione non sarebbe persuasiva. Infatti, vi è qui una situazione vincolata, perché se vi è l'avvio del procedimento, il controllato può sfuggire al controllo; se non vi è l'avvio del procedimento, il controllo si svolge senza contraddittorio.
I giudici hanno perciò esattamente stabilito che il contraddittorio è necessario, ma esso può avvenire anche in momenti successivi (articolo Il Sole 24 Ore del 10.10.2011 - link a www.ecostampa.it).

APPALTILa verifica di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, ma mira ad accertare se l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell'appalto. Pertanto, il procedimento di verifica è avulso da ogni formalismo ed è improntato alla massima collaborazione tra stazione appaltante e offerente; il contraddittorio deve essere effettivo; non vi sono preclusioni alla presentazione di giustificazioni, ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; mentre l'offerta è immodificabile, modificabili sono le giustificazioni, e sono ammesse quelle sopravvenute e compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione, a garanzia di una seria esecuzione del contratto.
---------------
Non è escluso che si possa procedere in sede di verifica di anomalia ad un limitato rimaneggiamento dei suoi elementi, purché la proposta contrattuale non venga modificata o alterata.
Non può essere fissata, ai fini della valutazione di anomalia delle offerte presentate nelle gare di appalto, una quota rigida di utile al di sotto della quale l'offerta debba considerarsi per definizione incongrua, dovendosi invece avere riguardo alla serietà della proposta contrattuale e risultando in sé ingiustificabile solo un utile pari a zero, atteso che anche un utile apparentemente modesto può comportare un guadagno importante, quando il contratto abbia un importo elevato.

La verifica d’anomalia è disciplinata dall’art. 88 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, per il quale “la richiesta di giustificazioni è formulata per iscritto e può indicare le componenti dell'offerta ritenute anormalmente basse, ovvero, alternativamente o congiuntamente, invitare l'offerente a dare tutte le giustificazioni che ritenga utili.
All'offerente è assegnato un termine non inferiore a dieci giorni per presentare, per iscritto, le giustificazioni richieste.
La stazione appaltante, se del caso mediante una commissione costituita secondo i criteri fissati dal regolamento di cui all'articolo 5, esamina gli elementi costitutivi dell'offerta tenendo conto delle giustificazioni fornite, e può chiedere per iscritto ulteriori chiarimenti, se resi necessari o utili a seguito di tale esame, assegnando un termine non inferiore a cinque giorni lavorativi.
Prima di escludere l'offerta, ritenuta eccessivamente bassa, la stazione appaltante convoca l'offerente con un anticipo non inferiore a cinque giorni lavorativi e lo invita a indicare ogni elemento che ritenga utile.
Se l'offerente non si presenta alla data di convocazione stabilita, la stazione appaltante può prescindere dalla sua audizione.
La stazione appaltante esclude l'offerta che, in base all'esame degli elementi forniti, risulta, nel suo complesso, inaffidabile.
La stazione appaltante sottopone a verifica la prima migliore offerta, se la stessa appaia anormalmente bassa, e, se la esclude, procede nella stessa maniera progressivamente nei confronti delle successive migliori offerte, fino ad individuare la migliore offerta non anomala
.”.
L’art. 88 prevede una scansione di natura dilatoria, i cui termini non possono essere inferiori a disposizione ivi previsti.
Ne consegue che nulla vieta –nel rispetto del canone di ragionevolezza, comunque conformato all’esigenza che le procedure di aggiudicazione si concludano celermente ed in tempi certi- che la stazione appaltante assegni termini superiori.
Per la pacifica giurisprudenza, la verifica di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, ma mira ad accertare se l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell'appalto. Pertanto, il procedimento di verifica è avulso da ogni formalismo ed è improntato alla massima collaborazione tra stazione appaltante e offerente; il contraddittorio deve essere effettivo; non vi sono preclusioni alla presentazione di giustificazioni, ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; mentre l'offerta è immodificabile, modificabili sono le giustificazioni, e sono ammesse quelle sopravvenute e compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione, a garanzia di una seria esecuzione del contratto (Consiglio Stato, sez. VI, 21.05.2009, n. 3146).
---------------
Per la pacifica giurisprudenza non è escluso che si possa procedere in sede di verifica di anomalia ad un limitato rimaneggiamento dei suoi elementi, purché la proposta contrattuale non venga modificata o alterata (Consiglio Stato, sez. VI, 07.03.2008, n. 1007; sez. VI, 26.04.2005, n. 1889; sez. V, 11.11.2004, n. 7346)
Ad avviso delle appellanti, l’incidenza del “rimaneggiamento” (55 voci di costo, che nell’offerta complessiva assumono un valore pari al 59,8% del prezzo dell’appalto) sarebbe tale da suggerire l’utilizzo del termine stravolgimento: esso non sarebbe consentito dalla legge.
In contrario senso, rileva invece il Collegio che l’art. 87, comma 1, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, nella versione antecedente alla modifica introdotta dall’articolo 4-quater, comma 1, lettera c), punto 1), del D.L. 01.07.2009, n. 78 dispone che, “Quando un'offerta appaia anormalmente bassa, la stazione appaltante richiede all'offerente le giustificazioni, eventualmente necessarie in aggiunta a quelle già presentate a corredo dell'offerta, ritenute pertinenti in merito agli elementi costitutivi dell'offerta medesima”.
L’utilizzo dell’inciso “in aggiunta” esclude la fondatezza delle dette censure e consente di rilevare che, purché l’utile di impresa sia indicato e risulti permanere all’esito della verifica d’anomalia, e purché non si registrino indebite “sostituzioni di voci”, il rimaneggiamento dell’offerta appare non soltanto consentito, ma addirittura fisiologico.
L’entità del rimaneggiamento deve ovviamente essere rapportato al numero delle “voci” ed all’importo complessivo dell’appalto: nel caso di specie la pluralità di voci in cui si articolava l’offerta, la complessità delle opere, e l’elevatissimo importo dei lavori (circa 360 milioni di Euro) ben consentono di ritenere che non si verta in una ipotesi di inammissibile stravolgimento dell’offerta ma, appunto, di un limitato –e per questo consentito ed ammissibile- rimaneggiamento che non ne ha alterato la sostanza.
Anche tale profilo di censura conclusivamente va respinto.
Va anche respinta (ancorché non sia stata formulata dall’appellante BPT in forma di motivo autonomo) l’affermazione contenuta nelle conclusioni dell’elaborato peritale di parte (a firma dell’Ing. ...) dell’08.03.2010, e richiamata nelle censure, secondo cui la percentuale di utile riscontrato dalla stazione appaltante non sarebbe stata “accettabile”.
Al contrario, armonicamente con le conclusioni della giurisprudenza (Consiglio Stato, sez. VI, 16.01.2009, n. 215) non può essere fissata, ai fini della valutazione di anomalia delle offerte presentate nelle gare di appalto, una quota rigida di utile al di sotto della quale l'offerta debba considerarsi per definizione incongrua, dovendosi invece avere riguardo alla serietà della proposta contrattuale e risultando in sé ingiustificabile solo un utile pari a zero, atteso che anche un utile apparentemente modesto può comportare un guadagno importante, quando il contratto abbia un importo elevato
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.08.2011 n. 4801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Immobili abusivi. Acquisizione gratuita e sequestro penale: una convivenza possibile.
Ancora sul rapporto tra acquisizione gratuita al patrimonio di immobile abusivo non demolito e sequestro penale. Per i giudici amministrativi pugliesi i due provvedimenti, che paiono escludersi a vicenda, in realtà trovano nell'ordinamento strumenti chiari di coordinamento. La legge prevede che la realizzazione di un immobile abusivo costituisce un fatto che interessa sia il diritto amministrativo che il diritto penale.
Il diritto amministrativo (D.P.R. n. 380 del 2001) prevede l'emanazione di un ordine di demolizione da parte dell'autorità comunale, che è un tipico provvedimento sanzionatorio conseguente al compimento di attività in contrasto con le norme urbanistiche di tutela del suolo. In quanto sanzionatori tali procedimenti sono diretti nei confronti dei responsabili degli abusi (v. art. D.P.R. n. 380 del 2001); l'art. 31, D.P.R. n. 380 del 2001 impone inoltre, a differenza di ciò che avveniva con la precedente normativa, la notifica del provvedimento sanzionatorio oltre che al responsabile dell'abuso anche al proprietario, a carico del quale sussiste una presunzione di responsabilità per gli abusi edilizi accertati (TAR Veneto, Sez. II, Sent. 17.06.2011, n. 1059).
Dal punto di vista degli effetti l'ordine amministrativo di demolizione rientra tra le sanzioni di tipo ripristinatorio (o reale), che colpiscono l'oggetto dell'illecito, riportando la situazione allo stato quo ante.
In caso di inottemperanza decorso il termine di 90 giorni dal ricevimento dell'ordinanza di demolizione il bene è acquisito al patrimonio indisponibile del Comune.
Il diritto penale prevede invece che la realizzazione di una costruzione abusiva costituisce reato punito oggi dall'art. 44, D.P.R. n. 380 del 2001.
L'art. 31, D.P.R. n. 380 del 2001 al comma 9 prevede poi che per le opere abusive il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita.
Spesso capita, inoltre, che la denuncia penale sia accompagnata dal sequestro probatorio ai sensi dell'art. 253 Codice di Procedura Penale costituendo l'immobile il corpo del reato.
Misura analoga è il sequestro preventivo di cui al primo comma dell'art. 321 c.p.p. che può avere ad oggetto qualsiasi bene a chiunque appartenente e, quindi, anche a persona estranea al reato purché esso sia, anche indirettamente, collegato al reato e, ove lasciato in libera disponibilità, idoneo a costituire pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di agevolazione della commissione di ulteriori fatti penalmente rilevanti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, Sent. 08.10.2009, n. 39078).
La sentenza in commento ci permette di affrontare i problemi inerenti ai rapporti tra il sequestro ed il potere dovere dell'amministrazione comunale di ordinare la demolizione e di acquisire il bene al patrimonio indisponibile in caso di mancata demolizione.
Sebbene, in linea generale la eventuale manomissione dell'immobile soggetto a sequestro configuri il reato di cui all'art. 349 c.p., essendo fatto divieto a chicchessia di alterare o distruggere il "corpo del reato", la giurisprudenza afferma che la circostanza che l'immobile abusivo sia sottoposto a sequestro (probatorio), non osta all'adozione dell'ordine di demolizione, dal momento che è possibile motivatamente domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile proprio al fine di ottemperare al predetto ordine (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 13.01.2011 n. 84; TAR Sardegna, Sez. I, 09.11.2007, n. 2040).
Analoga considerazione viene fatta dalla sentenza in commento per la mancata demolizione dell'opera entro 90 giorni dal ricevimento dell'ordinanza di demolizione.
Infatti, dice la sentenza "la sottoposizione a sequestro giudiziale di un bene immobile imprime al bene medesimo un vincolo di indisponibilità che si risolve nella temporanea sua immodificabilità e o incommerciabilità. Il destinatario del provvedimento deve senz'altro rendersi parte diligente al fine di dare corretta esecuzione all'ordine di demolizione emanato dalla P.a. competente senza poter addurre a sua esimente la sussistenza di un provvedimento di sequestro al quale egli stesso ha dato causa.
Ma il conflitto di interessi nascente dalla contemporanea emanazione di un'ordinanza che ingiunge la demolizione di un'opera abusiva deve essere risolto dalla competente autorità giudiziaria penale.
Spetta, in definitiva, a quest'ultima decidere il mantenimento in vita del sequestro a fini di tutela di esigenze di carattere penalistico (ad es. fini probatori, o di prevenzione penale o, ancora, di natura conservativa a garanzia delle obbligazioni civilistiche nascenti da reato) ovvero il dissequestro del bene qualora si ritenga di accordare prevalenza al ripristino dello stato dei luoghi
".
Pertanto, solo l'istanza di dissequestro negata può rilevare come scriminante nei riguardi dell'autore dell'abuso edilizio che non ottemperi all'ordine del Comune, per il noto principio "ad impossibilia nemo tenetur" (TAR Sardegna, Cagliari, Sez. I, 09.11.2007, n. 2040).
Da ultimo occorre evidenziare che, nel caso in cui l'efficacia del sequestro venga meno dopo la scadenza del termine di 90 giorni per la demolizione e questa non sia stata impedita dal giudice, la restituzione essere effettuata a favore di chi "ne abbia il diritto" che in tal caso è il Comune.
Infatti l'acquisizione da parte del Comune dell'immobile abusivo e dell'area di sedime avviene ipso lure, a seguito dell'emissione dell'ordinanza sindacale di demolizione e dello spirare del novantesimo giorno dalla notifica della stessa all'intimato, ove questi non vi abbia prestato ottemperanza richiedendo al giudice il dissequestro del bene (Corte di Cassazione penale, Sez. III, 08.01.2009 (Ud. 19.11.2008), Sent. n. 143) (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 16.08.2011 n. 1530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIVa esclusa la possibilità generalizzata di modifica, in sede di giustificazioni, delle voci di costo, cambiandole ad libitum, essendo solo consentito di procedere ad una modifica delle giustificazioni delle singole voci di costo (rispetto alle giustificazioni già fornite), lasciando le voci di costo invariate, oppure ad un aggiustamento di singole voci di costo, che trovi il suo fondamento o in sopravvenienze di fatto o normative che comportino una riduzione dei costi, o in originari e comprovati errori di calcolo, o in altre ragioni plausibili.
L’assunto fatto proprio dal Giudice di prime cure, che le voci di costo non sono modificabili senza alcuna motivazione, va quindi inteso nel senso che esse non sono modificabili al solo scopo di assicurarsi che il prezzo complessivo offerto resti immutato e si superino le contestazioni sollevate dalla stazione appaltante su alcune voci di costo.
Il procedimento di verifica di anomalia può essere avulso da ogni formalismo inutile e può essere improntato alla massima collaborazione tra stazione appaltante e offerente, senza preclusioni alla modifica di giustificazioni di singole voci di costo fornite prima della scadenza del termine di presentazione delle offerte, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione, e a tale momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto.

La giurisprudenza esclude la esistenza della possibilità generalizzata di modifica, in sede di giustificazioni, delle voci di costo, cambiandole ad libitum (Cons. St., sez. VI, 21.05.2009 n. 3146; Cons. St., sez. VI, 19.05.2000 n. 2908), essendo solo consentito di procedere ad una modifica delle giustificazioni delle singole voci di costo (rispetto alle giustificazioni già fornite), lasciando le voci di costo invariate, oppure ad un aggiustamento di singole voci di costo, che trovi il suo fondamento o in sopravvenienze di fatto o normative che comportino una riduzione dei costi, o in originari e comprovati errori di calcolo, o in altre ragioni plausibili.
L’assunto fatto proprio dal Giudice di prime cure, che le voci di costo non sono modificabili senza alcuna motivazione, va quindi inteso nel senso che esse non sono modificabili al solo scopo di assicurarsi che il prezzo complessivo offerto resti immutato e si superino le contestazioni sollevate dalla stazione appaltante su alcune voci di costo (Consiglio Stato, sez. VI, 15.06.2010, n. 3759).
Nel caso che occupa l’A.T.I. appellante non ha posto in essere gli aggiustamenti (dello stesso tipo di quelli sopra indicati) che possono ritenersi consentiti, ma ha modificato, come da quadro sinottico depositato nel giudizio di primo grado dalla ... s.p.a., i prezzi unitari proprio allo scopo di assicurarsi che il prezzo complessivo rimanesse immutato, con violazione del principio di par condicio tra concorrenti e privazione di ogni rilievo dei prezzi unitari (Consiglio Stato, Sez. IV, 11.04.2006, n. 2021).
In conclusione, il procedimento di verifica di anomalia può essere avulso da ogni formalismo inutile e può essere improntato alla massima collaborazione tra stazione appaltante e offerente, senza preclusioni alla modifica di giustificazioni di singole voci di costo fornite prima della scadenza del termine di presentazione delle offerte, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione, e a tale momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto (Consiglio Stato, sez. VI, 21.05.2009, n. 3146).
Ciò non può, tuttavia, ritenersi che sia avvenuto nel caso che occupa, in cui tutti i prezzi unitari sono stati modificati ed è stata effettuata una tardiva trasmigrazione dei costi da una voce all'altra, il che ha dimostrato che l’offerta non era nel complesso affidabile (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.06.2011 n. 3864 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 10.10.2011

ã

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Regolamento recante disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione incendi.
Il 22 settembre scorso è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 221 il "Regolamento recante disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione incendi, a norma dell'articolo 49 comma 4-quater, decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122", adottato con D.P.R. 01.08.2011 n. 151, la cui entrata in vigore è prevista per il 07.10.2011.
Il regolamento ha inteso raccordare la disciplina vigente in materia di prevenzione incendi con l'introduzione della Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA), in modo da garantire certezza giuridica al quadro normativo e coniugare l'esigenza di semplificazione con quella di tutela della pubblica incolumità, quale funzione di preminente interesse pubblico.
L'adozione del nuovo regolamento ha consentito, attraverso una profonda rivisitazione delle procedure di prevenzione incendi, di perseguire anche gli obiettivi in materia di snellimento e semplificazione dei procedimenti amministrativi, da tempo intrapresi, in armonia sia con il decreto legislativo n. 139/2006, che con le recenti disposizioni sugli sportelli unici per le attività produttive.
La nuova disciplina coniuga semplificazione e riduzione degli oneri burocratici, nonché riduzione e certezza dei tempi con una elevata tutela della pubblica incolumità.
La Direzione Centrale per la Prevenzione e la Sicurezza Tecnica ha emanato, con lettera-circolare 06.10.2011 n. 13061, i primi indirizzi applicativi sul Nuovo regolamento di prevenzione incendi - d.P.R. 01.08.2011, n. 151: "Regolamento recante disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione incendi".
Il documento consente di dare immediata operatività al regolamento che, come noto, entra in vigore il 7 ottobre e fornisce, per uniformità di indirizzo, alcune prime indicazioni applicative.
Alla lettera circolare è stata allegata anche la modulistica necessaria all'avvio delle istanze e alle segnalazioni che viene elencata di seguito:
1- richiesta, ai sensi dell’art. 3 del DPR 01/08/2011 n. 151, di voler disporre la VALUTAZIONE DEL PROGETTO ALLEGATO;
2- richiesta, ai sensi dell’art. 8 del DPR 01/08/2011 n. 151, del NULLA-OSTA DI FATTIBILITA';
3- SEGNALAZIONE CERTIFICATA DI INIZIO ATTIVITA' AI FINI DELLA SICUREZZA ANTINCENDIO (ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. 01/08/2011 n. 151);
4- ASSEVERAZIONE AI FINI DELLA SICUREZZA ANTINCENDIO;
5- richiesta di voler disporre la VERIFICA IN CORSO D’OPERA, ai sensi dell’art. 9 del DPR 01/08/2011 n. 151;
6- richiesta, ai sensi dell’art. 5 del DPR 01/08/2011 n. 151, del rinnovo periodico di conformità antincendio;
7- ASSEVERAZIONE ATTESTANTE LA FUNZIONALITÀ E L’EFFICIENZA DEGLI IMPIANTI DI PROTEZIONE ATTIVA ANTINCENDI (con esclusione delle attrezzature mobili di estinzione);
8- richiesta, ai sensi dell’art. 7 del DPR 01/08/2011 n. 151, ai fini dell’ottenimento di DEROGA all’osservanza della vigente normativa antincendio.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

LAVORI PUBBLICI: G.U. 06.10.2011 n. 233 "Disposizioni sull’uso e l’installazione dei dispositivi di ritenuta stradale" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 28.06.2011).
---------------
Sicurezza stradale, barriere a prova d'urto con l'Europa.
Potranno essere ancora utilizzate in via provvisoria le barriere di sicurezza stradale sprovviste di marcatura europea a condizione che siano state immesse sul mercato entro il 31 dicembre ovvero installate entro lo stesso termine, nel caso in cui il fabbricante o produttore coincida con la stazione appaltante.
Lo ha stabilito il decreto 28.06.2011 del Ministro dei Trasporti, pubblicato sulla G.U. n. 233 del 06/10/2011.
Come disposto dall'art. 2 del decreto, dall'01.01.2011 i dispositivi di ritenuta stradale devono essere muniti di marcatura CE in conformità alla normativa armonizzata UNI EN 1317-5:2007+A1:2008 e successivi aggiornamenti. La marcatura viene apposta a seguito dell'emissione del certificato e della dichiarazione Ce di conformità.
In via provvisoria e comunque entro 12 mesi dall'entrata in vigore del dm potranno ancora essere usati i seguenti dispositivi di ritenuta stradale privi della marcatura ovvero le barriere omologate fino al 31.12.2010 (ai sensi del dm del 21.06.2004) e le barriere sottoposte con esito positivo alle prove d'urto prescritte dalla norme UNI EN 1317, i cui rapporti di prova siano stati verificati (ai sensi del dm del 21.06.2004 e del relativo allegato tecnico) da parte della stazione appaltante.
Per entrambe le tipologie, il fabbricante o produttore deve esibire alla stazione appaltante, o su richiesta dell'organo di controllo, apposita documentazione comprovante che i dispositivi sono stati immessi sul mercato prima del 31.12.2010. Per gli appalti di opere stradali dei quali è stata avviata la procedura di gara, potranno essere utilizzati le due predette tipologie di barriere, purché siano state immesse sul mercato entro il 31.12.2010. Oltre a ciò, l'allegato 1 del dm riporta i contenuti minimi del manuale per l'uso e l'installazione, che descrive le prescrizioni, indicazioni e informazioni fornite dal fabbricante, produttore o suo mandatario ai fini dell'installazione, della manutenzione, dei controlli e delle riparazioni.
Il decreto dispone che entro dodici mesi dall'entrata in vigore la direzione generale per la sicurezza stradale dovrà provvedere ad emanare l'aggiornamento delle istruzioni tecniche per l'uso e l'installazione delle barriere di sicurezza stradale. Nel frattempo resteranno in vigore le vecchie istruzioni che non sono in palese contrasto con il nuovo provvedimento (articolo ItaliaOggi dell'08.10.2011).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Titoli edificatori - SCIA - Installazione di recinzione in pali e rete metallica - Non necessaria.
Domanda: Per realizzare una recinzione con paletti in ferro e rete in plastica con relativo cancello di ingresso al fondo, è sufficiente presentare una SCIA?
Risposta: Con riguardo alla necessità della sussistenza di titoli formali per l'installazione di una recinzione in pali e rete metallica (senza cordolo in cemento) di parziale recinzione di un superficie la giurisprudenza del Giudice amministrativo ha recentemente affermato che tali opere non comportano alcuna trasformazione del territorio, non essendo conseguentemente necessaria la disponibilità di titoli edificatori, i quali sono invece da richiedersi per mutazioni sostanziali della morfologia del territorio.
La recinzione in legno o in rete metallica di un terreno non richiede alcuna concessione o autorizzazione edilizia, in quanto costituisce non già trasformazione urbanistica (non comporta, infatti, trasformazione morfologica del territorio), ma estrinsecazione lecita dello jus excludendi alios, caratteristica qualificante del diritto di proprietà: a tale nozione si adatta perfettamente la recinzione che sia costituita da paletti infissi al suolo (senza cordolo di calcestruzzo, cemento o altro materiale incorporato al suolo) e collegati da una rete metallica, con conseguente illegittimità, dunque, dell'ordine di demolizione. Sul punto si è recentemente espresso il TAR Veneto evidenziando che un principio pacificamente affermato dalla giurisprudenza è sempre stato quello che la recinzione in legno o in rete metallica di un terreno non richiede alcuna concessione o autorizzazione edilizia (sentenza 07.03.2006, n. 533).
Ancora più di recente sempre il TAR del Veneto, con la sentenza n. 1547 del 2010, ha confermato che l'apposizione di una recinzione in rete e paletti infissi al suolo sia un attività edilizia libera, non soggetta a concessione edilizia (e oggi non soggetta a permesso di costruire) in quanto esplicazione delle facoltà insite nel diritto di proprietà.
Si aggiunga in generale che, come osserva il Giudice amministrativo, la valutazione in ordine alla necessità della concessione edilizia (ora: permesso di costruire), per la realizzazione di opere di recinzione, deve essere effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione; in base a tale criterio, dunque, non è necessario il permesso per costruire per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno, in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende la delimitazione e l'assetto delle singole proprietà (23.09.2011 - tratto da www.immobili24.ilsole24ore.com).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: A. P. Oliveri, L’audizione dell’AVCP, i bandi tipo ed il costo del lavoro. Quali giustificazioni negli appalti pubblici sul costo del personale dopo il decreto Sviluppo? (link a www.leggioggi.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Viola, La doppia tutela in ambito edilizio dopo il nuovo Codice del processo amministrativo (link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: S. Fantini, Profili pubblicistici dei diritti edificatori (link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: M. Benedetto, Incarichi dirigenziali: regole per conferimento e revoca (link a www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: EE.LL. censimento 2011: le risorse destinate ai dipendenti (CGIL-FP di Bergamo, nota 06.10.2011):
- file in formato .PDF oppure (per la compilazione) - file in formato .DOC

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOC'è un tetto sui buoni pasto: non superabile quota 5,29.
Il buono pasto non concorre a costituire reddito da lavoro dipendente fino alla soglia prevista dall'articolo 51 del Tuir, oggi fissata a 5,29 euro. La quota eccedente tale soglia, pertanto, costituisce reddito imponibile e soggetta alle ritenute fiscali e previdenziali.
Ne consegue che un ente locale non può incrementare il valore del singolo buono pasto per i propri dipendenti oltre la soglia di 5,29 euro in quanto, in tali casi, vige il divieto, imposto dall'articolo 1, comma 9 della manovra correttiva 2010, di incrementare fino al 2013, il trattamento economico (anche quello accessorio) dei dipendenti pubblici, rispetto a quello goduto nel 2010.

Lo ha sancito la sezione regionale di controllo della Corte dei Conti Toscana, nel testo del parere 21.07.2011 n. 187 con il quale ha fatto chiarezza sui riflessi contenuti nel divieto imposto alle Pa di aumentare il trattamento economico ai dipendenti, con riguardo al valore del buono pasto.
Rispondendo a un'apposita richiesta proveniente dalla Provincia di Prato, in merito alla possibilità di incrementare il valore del buono pasto ai propri dipendenti portandolo da 5,29 a 7,50 euro, il collegio toscano ha rilevato che la natura giuridica del buono pasto è quella di essere un'agevolazione di carattere assistenziale, non costituendo un elemento integrativo della retribuzione.
Ma solo entro certi limiti, che il legislatore ha infatti posto all'articolo 51, comma 2 del Tuir. In pratica, il buono pasto ha valore di ristoro solo se il suo valore non supera la soglia di 5,29 euro. L'importo che eccede tale limite concorre alla formazione del reddito imponibile e quindi del trattamento economico complessivo (è questo, ad esempio, il caso del personale appartenente al comparto ministeri che beneficia di un buono pasto pari a 7 euro), perdendo la sua natura puramente assistenziale.
Da ciò consegue, rileva la Corte toscana, che il divieto di aumentare ai dipendenti, per il triennio 2011-2013 «il trattamento ordinariamente spettante per l'anno 2010», così come prescritto dal citato articolo 9, comma 1 del dl n. 78/2010, sia violato se l'amministrazione locale intende incrementare il valore del buono pasto oltre la soglia di 5,29 euro.
In più, la Corte ha rilevato che il buono pasto va sempre incluso nel computo della spesa di personale ai fini del rispetto dei commi 557 e 562 della lf 2007, che gli enti locali sono tenuti a perseguire (articolo ItaliaOggi dell'08.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALILa dichiarazione sostitutiva per i contributi a enti privati.
La pubblica amministrazione che intende erogare un contributo ad enti privati, potrà accertare la sussistenza delle condizioni previste dall'art. 6, comma 2, del dl n. 78/2010, ove si prevede che la titolarità degli organi collegiali di chi riceve contributi a carico delle finanze pubbliche è onorifica, attraverso una dichiarazione sostitutiva di atto notorio.
Inoltre, stante l'ampiezza e la genericità della disposizione richiamata, per organi collegiali devono intendersi anche gli organi di controllo.

Lo ha messo nero su bianco la sezione regionale di controllo della Corte dei Conti Campania, con il parere 12.07.2011 n. 336 che ha fatto luce sulla portata delle disposizioni recate dall'articolo 6, comma 2, della manovra correttiva del 2010.
In tale norma, si prevede che dal 31.05.2010, la partecipazione agli organi collegiali, anche di amministrazione degli enti che ricevono contributi a carico delle pubbliche finanze, è onorifica. Se previsti i gettoni di presenza, la norma rileva che questi non potranno superare l'importo di 30 euro a seduta. In caso di violazione, si determina la responsabilità erariale e la nullità degli atti adottati.
La Provincia di Napoli richiedeva l'intervento della Corte, per conoscere quale fosse il mezzo più adatto per accertare l'adeguamento degli enti privati a quanto disposto dalla norma richiamata, prima di erogare, a favore degli stessi, contributi o utilità a carico delle casse dell'ente provinciale. La Corte campana ha rilevato che è necessario che la p.a. proceda preliminarmente alla verifica delle condizioni imposte dalla legge, prima di procedere alla corresponsione di contributi a carico dei propri bilanci.
Il mezzo idoneo altro non è che la dichiarazione sostitutiva di atto notorio (ex artt. 38 e 47 del dpr n. 445/2000). In tale documento il legale rappresentante dell'ente dovrà attestare che la partecipazione agli organi collegiali dell'ente e la titolarità di detti organi, siano effettivamente onorifiche, con espresso richiamo alla consapevolezza delle sanzioni previste in caso di dichiarazione non veritiera o di falsità negli atti.
Inoltre, ha concluso la Corte, in relazione alla locuzione «organi collegiali» contenuta nella disposizione in esame, l'ampiezza e la genericità di questa portano a non ravvisare distinzioni relativamente alla natura o alla composizione degli organi destinatari della norma. Ne consegue che in essa vanno ricompresi anche gli organi di controllo senza alcuna eccezione (articolo ItaliaOggi dell'08.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il Sindaco del Comune di Mantova ha posto alla Sezione un quesito del seguente tenore: <<se le nuove disposizioni sugli incarichi dirigenziali a tempo determinato introdotte dal D.Lgs. 27/10/2009 n. 150 debbano considerarsi estese anche agli Enti Locali, stante la previsione dell’art. 1 del D.Lgs. che vieta l’introduzione di deroghe al TUEL se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni>>.
Inoltre, per il caso in cui si propendesse per una risposta in senso affermativo al quesito che precede, ha domandato <<
se l’Ente possa determinare un ragionevole tetto percentuale per il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato, svincolandosi dalle percentuali previste per la dirigenza statale ed, in particolare, se possa dare quattro incarichi a tempo determinato ex art. 110 TUEL, attingendo, per tre di essi, a personale interno>>.
---------------
1° quesito: <<se le nuove disposizioni sugli incarichi dirigenziali a tempo determinato introdotte dal D.Lgs. 27/10/2009 n. 150 debbano considerarsi estese anche agli Enti Locali, stante la previsione dell’art. 1 del D.Lgs. che vieta l’introduzione di deroghe al TUEL se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni>>.
Preliminarmente le Sezioni Riunite hanno dovuto affrontare la questione se l’ente locale, nel conferire incarichi dirigenziali a tempo determinato per posti in dotazione organica, debba rispettare le percentuali di cui all’art. 19, comma 6 dell’art. 19 del d.lgs. 165/2001 o se sia ancora vigente ed applicabile l’art. 110, comma 1 del TUEL che non prevede alcun limite.
In proposito, hanno statuito che <<la questione verte sulla compatibilità tra le disposizioni dettate dal d.lgs. 150/2009 in tema di conferimento degli incarichi dirigenziali a termine conferiti a soggetti esterni all’amministrazione e la disciplina dettata in materia per gli enti locali nel d.lgs. 267/2000 (Testo unico sull’ordinamento degli enti locali).
Il d.lgs. 27.10.2009 n. 150, in vigore dal 15.11.2009, ha introdotto, negli artt. 37–45, significative modifiche di alcune disposizioni del titolo II, capo II, sezione I, del d.lgs. 165/2001 in materia di dirigenza pubblica.
Nelle ipotesi in esame rileva in particolare l’art. 40 che, nel modificare l’art. 19, commi 6 e seguenti, del d.lgs. n. 165/2001, ha riformulato le disposizioni in materia di conferimento degli incarichi dirigenziali a termine a soggetti esterni all’amministrazione.
Tale disposizione ha, in particolare:
- confermato i limiti percentuali della dotazione organica entro cui conferire tali incarichi dirigenziali (“entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli di cui all'articolo 23 e dell'8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia");
- consentito il ricorso agli incarichi esterni nelle sole ipotesi in cui non si rinvengono, all’interno delle amministrazioni, persone dotate della qualificazione professionale richiesta; introdotto la necessità di motivare in modo esplicito le ragioni per le quali si intende attingere a professionalità esterne;
- precisato il meccanismo di computo dei limiti percentuali della dotazione organica (il quoziente derivante dall'applicazione di tale percentuale, è arrotondato all'unità inferiore, se il primo decimale è inferiore a cinque, o all'unità superiore, se esso e' uguale o superiore a cinque).
Tali disposizioni sono state espressamente ritenute applicabili alle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, tra cui anche gli enti locali (comma 6-ter del citato art. 19 del d.lgs. 165/2001, introdotto dall’art. 40 del d.lgs. 150/2009)
>> (Sez. Riun. in sede di contr. n. 12 e n. 13 dell’08.03.2011).
2° quesito: se <<l’Ente possa determinare un ragionevole tetto percentuale per il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato, svincolandosi dalle percentuali previste per la dirigenza statale ed, in particolare, se possa dare quattro incarichi a tempo determinato ex art. 110 TUEL, attingendo, per tre di essi, a personale interno>>.
Avendo risolto il primo problema nel senso che il nuovo comma 6 dell’art. 19 TUPI si applica anche agli enti locali, si pone l’ulteriore problema se le percentuali previste dalla norma (10 per cento della dotazione organica per i dirigenti di prima fascia e 8 per cento della dotazione organica per i dirigenti di seconda fascia) siano applicabili o se sia possibile sommare le stesse, attesa l’assenza di tale distinzione per la dirigenza degli Enti Locali.
In proposito, le Sezioni Riunite hanno statuito che <<l’espressa estensione della predetta disciplina anche agli enti locali, pone problemi di compatibilità con la specifica disciplina dettata in materia di incarichi dirigenziali esterni contenuta nell’art. 110 del TUEL>>.
In particolare, <<il tenore letterale dell’art. 110, comma 1 –la cui disciplina (che demanda allo statuto dell’ente la possibilità di coprire, con contratti a tempo determinato, i posti dei responsabili dei servizi o degli uffici, sia di qualifica dirigenziali che di alta specializzazione) non appare completamente sovrapponile a quella contenuta nell’art. 19, comma 6 del d.lgs. 165/2001– esclude, in primo luogo, la configurazione, nel caso all’esame, di una ipotesi di abrogazione tacita di tale disposizione ad opera della norma intervenuta successivamente.
La questione sottoposta alle Sezioni riunite concerne pertanto, più propriamente, la diretta applicabilità agli enti territoriali, limitatamente al conferimento degli incarichi dirigenziali a contratto previsti nell’art. 110, comma 1, del TUEL, delle disposizioni contenute nell’art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. 165/2001, malgrado il richiamo, contenuto nell’art. 27 del d.lgs. 165/2001 e nell’art. 111 del TUEL, alla autonomia statutaria e organizzativa riconosciuta agli enti locali.
Soccorre al riguardo il principio, sotteso a più di una disposizione dello stesso d.lgs. 150/2009, in base al quale si considerano direttamente applicabili le norme che contengono i principi di carattere generale, escludendo, per contro, la immediata applicabilità delle norme che introducono modalità operative o misure di dettaglio.
E che le disposizioni dettate dall’art. 19, comma 6 e 6-bis, del d.lgs. 165/2001 debbano essere considerate espressione di principi di carattere generale discende, in primo luogo, dalla interpretazione data dalla Corte Costituzionale nella recente sentenza n. 324/2010. La Consulta, eliminando ogni incertezza, ha, infatti dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Regioni Piemonte, Toscana e Marche, in ordine all’art. 40, comma 1, lett. f), del d.lgs. 150/2009, confermando l’applicazione immediata e diretta delle citate norme sia nell’ordinamento delle Regioni sia in quello degli enti locali, cui spetta pertanto un corrispondente obbligo di adeguamento.
La sentenza della Corte Costituzionale afferma, in particolare, che l’art. 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001 non riguarda né procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al pubblico impiego né la scelta delle modalità di costituzione di quel rapporto, con la conseguenza che non può rilevarsi alcuna violazione degli artt. 117 e 119 della Costituzione giacché la norma impugnata non attiene a materie di competenza concorrente (coordinamento della finanza pubblica) né di competenza residuale regionale (organizzazione delle Regioni e degli uffici regionali, organizzazione degli enti locali).
Secondo la Consulta, atteso che il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni si realizza mediante la stipulazione di un contratto di lavoro di diritto privato, il legislatore statale ha correttamente esercitato la propria potestà legislativa adottando una normativa riconducibile alla materia dell’ordinamento civile sia per la fase costitutiva di tale contratto, sia per quella del rapporto che sorge per effetto della conclusione di quel negozio giuridico. Trattandosi pertanto di materia che l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato, l’immediata e diretta applicazione anche agli ordinamenti locali e regionali della disciplina contenuta nell’art. 19 del d.lgs. 165/2001, al pari degli istituti previsti nelle disposizioni indicate nell’art. 74, comma 1, del d.lgs. 150/2009, non determina una violazione della Costituzione.
Quanto all’ambito applicativo, la disposizione introdotta con l’art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. 165/2001, è stata valutata dalla Corte Costituzionale, nel suo complesso, con riferimento in particolare ai requisiti soggettivi che debbono essere posseduti dal contraente privato (adeguata motivazione del possesso di particolare e comprovata qualificazione professionale, valutata anche sulla base di precedenti esperienze lavorative, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione), alla durata massima del rapporto (non superiore a cinque anni) e ad alcuni aspetti del regime economico e giuridico (l’indennità che –ad integrazione del trattamento economico– può essere attribuita al privato e le conseguenze del conferimento dell’incarico su un eventuale preesistente rapporto di impiego). Resta invece sullo sfondo, anche nell’ambito della decisione della Consulta, la disposizione concernente i limiti percentuali della dotazione organica nell’ambito dei quali è concesso agli enti locali conferire incarichi dirigenziali a soggetti esterni. Trattandosi, in ogni caso, di presupposti di fatto attinenti la costituzione del rapporto di lavoro, appare coerente con l’interpretazione accolta dalla Corte Costituzionale ritenere che siano immediatamente vincolanti per gli enti territoriali.
La disciplina dettata dall’art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001 va infatti considerata nel suo complesso proprio alla luce dei principi indicati dal legislatore nella legge delega n. 15/2009 volti, in particolare, a ridefinire la disciplina relativa al conferimento degli incarichi a soggetti estranei alla pubblica amministrazione e ai dirigenti non appartenenti ai ruoli, prevedendo comunque la riduzione, rispetto a quanto previsto dalla normativa vigente, della quota della dotazione organica entro la quale sia consentito affidare detti incarichi. Tale interpretazione risulta, inoltre, in linea con la più recente giurisprudenza, anche costituzionale, che, nell’obiettivo di rafforzare il principio di distinzione tra funzioni di indirizzo e di controllo (spettanti agli organi di governo) e le funzioni di gestione amministrativa (spettanti alla dirigenza), ha espresso un orientamento restrittivo nei confronti della c.d. “dirigenza fiduciaria”, privilegiando, per l’accesso alla dirigenza, il ricorso a procedure selettive pubbliche e, per il conferimento dei relativi incarichi, la dirigenza di ruolo.
Quanto alle concrete percentuali applicabili, queste Sezioni Riunite, condividono l’orientamento seguito dalle Sezioni regionali di controllo per la Puglia e per il Veneto. Considerato quindi che la contrattazione collettiva di comparto non prevede la distinzione tra dirigenza di prima e di seconda fascia, appare ragionevole applicare la percentuale dell’8% in considerazione del fatto che la percentuale più elevata è prevista per la dirigenza statale di prima fascia, ovvero addetta ad uffici di livello dirigenziale generale, che non trova previsione equipollente nell’amministrazione locale. Va conseguentemente esteso agli enti locali anche il meccanismo di computo dei limiti percentuali della dotazione organica (art. 19, comma 6-bis, del d.lgs. 165/2001) che, superando le precedenti incertezze, ha definitivamente precisato le modalità applicative in base alle quali il quoziente derivante dall'applicazione di tale percentuale, deve essere arrotondato all'unità inferiore, se il primo decimale è inferiore a cinque, o all'unità superiore, se esso è uguale o superiore a cinque
>> (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 30.03.2011 n. 161).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATANorme antincendio su misura. Pratiche snellite e proporzionali all'attività dell'azienda. In vigore il dpr 151/2011. E una circolare del Mininterno illustra le novità più rilevanti.
Antincendio su misura. Da ieri è entrata in vigore la nuova normativa (dpr 151/2011) che punta alla semplificazione degli adempimenti per le aziende. Le attività d'impresa sono collocate in tre categorie, da quelle a minore rischio incendi a quelle più complesse e più soggette a tale rischio.
E gli adempimenti sono proporzionali a tale classificazione: per le attività della prima classe, cioè le meno complesse, basterà ad esempio presentare la Segnalazione certificata di inizio attività (Scia) corredata dell'asseverazione di un tecnico e si potrà partire. E non servirà più il parere preventivo dei vigili del fuoco.

A chiarire le novità in vigore dal 7 ottobre è la lettera-circolare 06.10.2011 n. 13061 del Ministero dell'interno, Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, Direzione centrale per la prevenzione e la sicurezza tecnica.
La circolare fornisce, per uniformità di indirizzo, le prime indicazioni applicative in attesa della emanazione dei decreti attuativi previsti dal dpr 151. Obiettivo del regolamento, precisa la circolare, il bilanciamento degli interessi di tutela della sicurezza delle persone con le esigenze di semplificazione e riduzione degli oneri a carico delle imprese che potranno rivolgersi al Suap (Sportello unico attività produttive) o direttamente ai comandi provinciali.
Articolata in sette distinti paragrafi, la nota esamina innanzitutto quelle che sono le novità sostanziali introdotte dal sopraindicato dpr 151/2011, che adotta come «metro» per modulare gli adempimenti amministrativi il principio di proporzionalità. Questi infatti, come detto, sono diversificati in rapporto alle 3 categorie, A, B e C, nelle quali il regolamento inquadra, in base alla gravità del rischio, le attività d'impresa sottoposte ai controlli di prevenzione incendi di competenza dei vigili del fuoco. Nella categoria A sono ricomprese attività di limitata complessità e che hanno una regola tecnica di riferimento; nella B sono individuate le stesse attività della A, quanto a tipologia, ma caratterizzate da un livello di complessità più alto e prive di una regolamentazione tecnica specifica di riferimento.
Nella categoria C, infine, rientrano attività con livello di complessità ancora più elevato, indipendentemente dall'esistenza o meno di una regola tecnica di riferimento. Per le attività inserite nella classe A, non sarà più previsto il preventivo parere di conformità dei comandi dei vigili. In sostanza, prima dell'inizio dell'attività, il titolare presenterà una Scia che sarà corredata dall'asseverazione del tecnico il quale attesterà la conformità dell'opera alla regola tecnica prevista per quella determinata fattispecie e, ove previsto, al progetto approvato dal relativo comando provinciale. Inoltre, alla medesima Scia dovranno essere allegate le certificazioni e le dichiarazioni atte a comprovare che i prodotti, i dispositivi e gli impianti sono stati realizzati, installati o posti in opera in conformità alla normativa in materia di sicurezza antincendio.
Rilevante il fatto che per le attività inserite nelle categoria A e B, i controlli avverranno entro 60 giorni dal ricevimento della Scia, mediante metodo a campione o in base a programmi settoriali. Sarà la Direzione centrale, in accordo con quelle regionali, a fornire all'inizio di ogni anno le tipologie di attività ed il numero di controlli che dovranno essere effettuati dai comandi provinciali. Entro il prossimo dicembre almeno il due per cento delle attività, individuate a sorteggio, riceveranno la visita del Comando che rilascerà, a richiesta degli interessati, il verbale della visita tecnica.
Per le attività di categoria C, invece, il controllo sarà effettuato entro 60 giorni. Solo in caso di esito positivo sarà rilasciato il certificato di prevenzione incendi che, comunque precisa la circolare, non è più un provvedimento finale di un procedimento amministrativo, ma costituisce soltanto il risultato del controllo effettuato e non ha scadenza temporale (articolo ItaliaOggi dell'08.10.2011).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Nuovo regolamento di prevenzione incendi - d.P.R. 01.08.2011 n. 151 (Ministero dell'Interno, nota 05.10.2011 n. 4865 di prot.).

PUBBLICO IMPIEGOP.a., il taglio non tocca le pensioni. Sulla parte di stipendio ridotta si pagano comunque i contributi. Una circolare Inpdap illustra gli effetti previdenziali delle disposizioni previste dal dl 78/2010.
Il taglio degli stipendi pubblici non tocca le pensioni. Infatti, sulla quota ridotta delle retribuzioni (in misura del 5-10%), operati agli impiegati statali con stipendi sopra i 90 mila euro per il triennio 2011/2013, devono comunque essere pagati i contributi previdenziali.
A precisarlo è l'Inpdap, nella nota operativa 05.10.2011 n. 22, illustrando i riflessi contributivi sulle misure di contenimento della spesa in materia di impiego pubblico introdotte dalla manovra estiva dello scorso anno.
L'istituto precisa, inoltre, che lo stop triennale degli adeguamenti retributivi e delle progressioni di carriera, invece, determina automaticamente un ridotto versamento contributivo e, quindi, una minore copertura pensionistica.
Stop agli aumenti retributivi. Le misure analizzate dall'Inpdap sono tre, e tutte previste dall'articolo 9, commi 2 e 21, del dl n. 78/2010, convertito dalla legge n. 122/2010. La prima di queste prevede, per gli anni 2011, 2012 e 2013, il blocco senza successivi recuperi dei meccanismi di adeguamento retributivo al personale (ex all'articolo 3 del dlgs n. 165/2001).
In sostanza, come peraltro chiarito dal ministero della pubblica amministrazione (circolare n. 12/2011), questa misura prevede nei confronti del predetto personale, per il triennio 2011/2013, l'interruzione di tutti gli automatismi stipendiali, la cui naturale data di maturazione slitta di tre anni (a ripartire).
Per ciò che riguarda i riflessi previdenziali, spiega l'Inpdap, l'imponibile contributivo non subisce variazioni a seguito dei mancati aumenti retributivi; pertanto, le amministrazioni datori di lavoro sono tenute a versare i contributi, per la quota a proprio carico e per quelle a carico dei lavoratori, in misura corrispondente alle retribuzioni effettivamente erogate.
Stop alle progressioni di carriera. La seconda misura è il blocco delle progressioni di carriera, comunque denominate, per gli stessi anni (2011/2013) e per lo stesso personale individuato dall'articolo 3 del T.u. sul pubblico impiego (dlgs n. 165/2001), le quali (progressioni) hanno effetto, per il predetto triennio, esclusivamente ai fini giuridici.
L'Inpdap precisa che, per le progressioni interessate al blocco, in pratica, il lavoratore acquista la posizione/qualifica superiore mediante promozione, ma senza la relativa remunerazione che otterrà soltanto a partire dall'anno 2014 in poi. Anche in questo caso, per quanto concerne i riflessi previdenziali, l'imponibile contributivo non subisce variazioni a seguito dei mancati aumenti retributivi; pertanto, le amministrazioni datori di lavoro sono tenute a versare i contributi, per la quota a proprio carico e per quelle a carico dei lavoratori, in misura corrispondente alle retribuzioni di fatto corrisposte.
Riduzione stipendi. Diverso è il discorso sulla riduzione straordinaria degli stipendi pubblici. L'articolo 9, comma 2, del dl n. 78/2010 prevede che, dall'01.01.2011 e fino al 31.12.2013, i trattamenti economici dei dipendenti superiori a 90 mila euro lordi sono ridotti del 5% per la parte eccedente tale importo e fino a 150 mila euro, nonché del 10% per la parte eccedente i 150 mila euro. La stessa norma inoltre precisa che «la riduzione_ non opera ai fini previdenziali».
In questo caso, spiega l'Inpdap, la previsione normativa è esplicita nel garantire la tutela previdenziale, per cui la riduzione retributiva non determina la corrispondente riduzione della base imponibile ai fini contributivi e previdenziali.
Pertanto, le amministrazioni devono calcolare i contributi sull'intera retribuzione, senza cioè tener conto della riduzione del 5-10%, e denunciarli e versarli sia per la quota a proprio carico che per la quota a carico dei lavoratori (articolo ItaliaOggi dell'08.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - VARIIl fisco fa luce sugli accatastamenti rurali.
Con la circolare 22.09.2011 n. 6/T, l'Agenzia del Territorio precisa le nuove regole per l'accatastamento dei fabbricati rurali.
L'argomento ci appare interessante in quanto sono molti i Comuni che presentano casi di accertamento ai fini Ici di immobili che presentano o meno tali caratteristiche di ruralità.
Ciò riveste carattere di particolare novità, in quanto per la prima volta, a seguito delle modifiche introdotte con l'art. 7, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, del decreto legge 13.05.2011, convertito con modificazioni in legge 12.07.2011, il fisco precisa le procedure, a carico dei proprietari, per l'accatastamento dei fabbricati rurali nelle categorie catastali A/6 e D/10 .
Innanzi tutto appare utile ricordare come la materia sia già disciplinata dall'art. 9 del dl 30.12.1993 n. 557 (poi convertito nella legge 26.02.1994 n. 133).
La nuova norma in realtà reperisce la «stretta» operata dalla giurisprudenza sui benefici fiscali connessi alla ruralità degli immobili che sono, ad avviso della Cassazione, da destinarsi esclusivamente ai fabbricati censiti come A/6 e D/10, a seconda dell'uso (rispettivamente abitativo o strumentali di detti immobili).
Con successivo decreto ministeriale del 14.09.2011, sono state stabilite le modalità applicative e la documentazione necessaria per la presentazione della certificazione per il riconoscimento della ruralità dei fabbricati.
Per ciò che concerne gli immobili già censiti in catasto, i proprietari devono attestare mediante autocertificazione il possesso dei suddetti requisiti; ciò sarà oggetto, ovviamente del controllo ai fini Ici per quanto riguarda gli enti locali comunali che avranno modo di verificare tali requisiti.
Crediamo sia da segnalare la novità, prevista dal dm 14.09.2011, della istituzione nella categoria A/6, della classe «R», che è attribuita, indipendentemente dalle caratteristiche intrinseche dell'unità presa in considerazione, a tutte le unità immobiliari ad uso abitativo, ancorché strumentali all'attività agricola, purché siano verificati i relativi requisiti di ruralità.
Si ricorda, tuttavia, che, ai sensi dell'art. 9, comma 3, lettera e) del decreto legge n. 557 del 1993, è precluso il riconoscimento della ruralità ai fabbricati che hanno le caratteristiche delle unità immobiliari appartenenti alle categorie A/1 e A/8.
Analoga preclusione avviene per gli immobili aventi le caratteristiche «di lusso».
La presentazione della documentazione deve (o doveva) avvenire mediante presentazione all'Ufficio provinciale dell'Agenzia del territorio territorialmente competente (di seguito «Ufficio»), entro la data del 30.09.2011.
Dato lo strettissimo termine concesso (e scaduto da poco) si ritiene che presumibilmente l'Agenzia del territorio concederà una proroga a tale termine.
Di particolare rilievo appare che nella prevista autocertificazione, il richiedente dichiari, tra l'altro, che l'immobile possiede, in via continuativa, a decorrere dal quinto anno antecedente a quello di presentazione della domanda, i requisiti di ruralità di cui all'articolo 9 del decreto legge n. 557 del 1993.
Ciò appare importante anche per i profili di accertamento ai fini Ici e delle altre imposte dirette: infatti, il periodo quinquennale adesso cennato copre integralmente gli anni potenzialmente accertabili.
La Circolare inoltre evidenzia che, qualora il fabbricato sia entrato nel possesso del soggetto dichiarante da meno di cinque anni, il modello di autocertificazione prevede la possibilità di integrare la documentazione con una ulteriore autocertificazione, resa dai precedenti titolari dei diritti reali o dai loro eredi, con cui può essere dichiarata la sussistenza dei requisiti di ruralità anche per il periodo anteriore, necessario a completare il quinquennio previsto dalla legge.
Regole particolari sono riservate alle procedure «dogfa» ancora in essere alla data del decreto.
Vediamo adesso le due conseguenze che ci possono essere per la richiesta di accatastamento dei fabbricati rurali. In caso di esito positivo, l'Ufficio convalida l'autocertificazione attribuendo la categoria A/6, classe «R», per le unità immobiliari a destinazione abitativa, e la categoria D/10, per le unità aventi destinazione diversa da quella abitativa strumentali all'attività agricola, mantenendo la rendita in precedenza attribuita.
L'esito negativo dei controlli, invece, comporta il mantenimento del classamento originario; il mancato riconoscimento dell'attribuzione della categoria catastale richiesta è adottato con provvedimento motivato ed è registrato negli atti catastali mediante specifica annotazione, riferita ad ogni unità immobiliare interessata.
Concludendo, per quanto riguarda infine i controlli effettuati dai comuni, allo scopo di agevolare le attività di verifica, il decreto stabilisce che l'Agenzia del territorio rende disponibili ai comuni, sul relativo portale, le domande di variazione presentate dai contribuenti (articolo ItaliaOggi del 07.10.2011).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Impianti fotovoltaici senza l'Ici. Il mantenimento dell'attività agricola salva dall'imposta. Due studi del Notariato sulla disciplina fiscale e giuridica della produzione di rinnovabili.
Gli impianti fotovoltaici non scontano l'Ici per la continuazione, ancorché parziale, della produzione agricola e acquisizione della categoria «D/10» o per la possibile funzione pubblica svolta, che permette l'attribuzione della categoria «E/3» al medesimo impianto.
Queste alcune indicazioni fornite con due documenti:
1- Alcune questioni civilistiche connesse alla realizzazione di un impianto fotovoltaico: prime note - studio 14.07.2011 n. 221-2011/C;
2- Profili fiscali degli atti relativi agli impianti fotovoltaici - studio 15.07.2011 n. 35-2011/T,
approvati in luglio 2011 dalla Commissione studi tributari del Consiglio nazionale del notariato.
Profili civilistici. Il primo documento (studio n. 221-2011/C) si sofferma sull'inquadramento dell'impianto fotovoltaico, con riferimento alla natura mobile o immobile del bene, stante l'applicazione di normative completamente diverse, anche sotto il profilo fiscale. Il documento ricorda che l'art. 812 c.c. dispone che «sono beni immobili il suolo, le sorgenti e i corsi d'acqua, gli alberi, gli edifici e le altre costruzioni, anche unite al suolo a scopo transitorio e in genere tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo».
Di conseguenza, resta fondamentale stabilire quando si configuri l'unione o l'incorporazione, ancorché transitoria, del bene al suolo, presupposto necessario per reputare immobili, dal punto di vista strettamente giuridico, i beni che non lo sono dal punto di vista naturalistico. Sul tema, l'Agenzia del Territorio (circ. 3/T/2008) ritiene, in linea con la Suprema Corte (Cassazione, sentenza n. 16824/2006), di natura immobiliare la centrale elettrica, con conseguente inquadramento del bene nella categoria «D/1» e attribuzione di rendita, mentre l'Agenzia delle Entrate (circ. n. 38/E/2008 e 46/E/2007) ritiene immobile è solo ciò che non è possibile separare dal terreno, senza alterare la funzionalità dello stesso.
Non è di aiuto la disciplina urbanistica (art. 12, dlgs 387/2003), ma è evidente che la realizzazione di un impianto di notevole potenza (superiore almeno ai 20 kw) configura un intervento di trasformazione del territorio con la necessità di ottenere il permesso a costruire, mentre per la realizzazione di impianti di potenza più contenuta è richiesta la DIA (o SCIA); su tale assunto, solo se l'impianto è di grosse dimensioni e saldamente impiantato al suolo, lo stesso si può inquadrare come immobile
Profili tributari. La questione della natura mobiliare e/o immobiliare dell'impianto è di estrema importanza, sia per i riflessi che la stessa ha sulle fonti di finanziamento (leasing, in primis) che sui profili inerenti la regolarità catastale, che possono incidere anche sulla natura contrattuale. Il documento (studio n. 35-2011/T) evidenzia la possibilità di ricorrere a diverse tipologie contrattuali, per acquisire l'area su cui installare l'impianto fotovoltaico, che comportano una disciplina diversa dal punto di vista tributario, sia per quanto concerne l'imposizione indiretta che diretta.
Per quanto concerne l'impianto realizzato sopra gli edifici, un caso del tutto particolare è quello relativo al lastrico solare, con particolare riferimento alla possibile attribuzione della categoria «F», ma la commissione ritiene che gli stessi mantengano la natura dell'edificio di riferimento. Con riferimento all'emersione di plusvalenze, viene evidenziato che la cessione del diritto di superficie deve essere assimilata alla cessione di beni immobili, ai sensi dell'art. 9, dpr n. 917/1986, con l'applicazione della disciplina (tassazione) indicata dall'art. 67 del medesimo testo unico, non potendo la cessione risultare assimilabile alla cessione dell'usufrutto o all'assunzione di obbligazioni di permettere.
Per quanto concerne le procedure di ammortamento, si ribadisce la necessità di procedere alla corretta qualificazione dell'impianto (mobile e/o immobile), con la necessità di procedere allo scorporo della quota che si riferisce al terreno, pur consapevoli dell'assenza di un coefficiente specifico, ma tenendo conto di quanto già indicato dalla prassi ministeriale (9% se bene mobile, 4% se bene immobile) sul tema.
Risulta estremamente interessante, inoltre, il paragrafo relativo alla tassazione Ici con particolare riferimento a quanto sancito da una recente giurisprudenza di merito (C.T.P. di Bologna, sentenza 12/01/2009 n. 11) che ha sostenuto la tesi della cosiddetta «funzione pubblica» (utilità) degli impianti fotovoltaici, con il possibile accatastamento nella categoria «E/3» e conseguente esenzione, ai sensi dell'art. 7, dlgs n. 504/1992 (articolo ItaliaOggi del 06.10.2011).

SICUREZZA LAVORO - VARI: Formazione addetti alla prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione delle emergenze (D.Lgs. 81/2008). Corsi di aggiornamento (Ministero dell'Interno, nota 23.02.2011).

ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ MODIFICA MANSIONI/ Qual è il trattamento economico da riconoscere al dipendente cui sono state conferite mansioni superiori?  (parere 06.06.2011 n. RAL-126 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ MODIFICA MANSIONI/ E' consentito conferire, anche più volte, mansioni superiori al medesimo dipendente? (parere 06.06.2011 n. RAL-125 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ MANSIONI SUPERIORI/ È legittimo conferire le mansioni superiori ad un dipendente della categoria C (ex 6^ qualifica - posizione economica C3) per la sostituzione di un dipendente appartenente alla categoria D (ex 8^ qualifica - posizione economica D5) in part-time verticale nei mesi di assenza di quest'ultimo? (parere 06.06.2011 n. RAL-124 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ MANSIONI SUPERIORI/ Possono essere conferite le mansioni superiori relativamente al periodo di assenza di un lavoratore per la fruizione delle ferie? (parere 06.06.2011 n. RAL-123 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ MANSIONI SUPERIORI/ Devono essere previste espressamente delle risorse ai fini dell'attribuzione delle mansioni superiori? (parere 06.06.2011 n. RAL-122 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ MANSIONI SUPERIORI/ Un dipendente è stato a suo tempo riclassificato in qualifica inferiore per inidoneità fisica ai sensi dell’art. 11 del DPR n. 347/1983, non essendo possibile, per mancanza di posti, utilizzarlo in altre mansioni ascrivibili alla sua qualifica di inquadramento. Lo stesso dipendente, a seguito di progressione verticale, è stato ora reinquadrato nella categoria corrispondente alla qualifica superiore originariamente posseduta.
La differenza di retribuzione tra le due qualifiche, computata nel maturato per anzianità ai sensi dell’art. 27, comma 2, del DPR n. 347/1983 si conserva o viene riassorbita?
(parere 06.06.2011 n. RAL-121 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ MANSIONI SUPERIORI/ In caso di applicazione dell’art. 21, comma 4, del CCNL del 06.07.1995 (e successive modifiche) e di conseguente utilizzazione del dipendente in mansioni proprie di profilo professionale ascritto a categoria inferiore, come deve applicarsi la previsione dell’art. 4, comma 4, della L. n. 68/1999? Si può attribuire un assegno personale?
E’ possibile applicare tale beneficio ai casi verificatisi prima della stipulazione del CCNL del 14.09.2000?
(parere 06.06.2011 n. RAL-120 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ MANSIONI SUPERIORI/ E’ possibile riclassificare in categoria inferiore un dipendente su sua espressa richiesta o, comunque, con il suo consenso? (parere 06.06.2011 n. RAL-119 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ MANSIONI SUPERIORI/ Esistono 'differenze' tra il personale dell'area di vigilanza classificato nella posizione economica D1 in relazione al diverso sistema di selezione utilizzato dall'ente (da un lato selezione interna per progressione verticale ai sensi dell'art. 4 del CCNL del 31.03.1999 e, dall’altro riclassificazione ai sensi dell'art. 29 del CCNL del 14.09.2000)? (parere 06.06.2011 n. RAL-118 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ MANSIONI SUPERIORI/ E’ possibile utilizzare un messo comunale per il ritiro e la consegna della corrispondenza?
Quand’è che le mansioni possono essere considerate equivalenti ai fini dell’applicazione dell’art. 3, comma 2, del CCNL del 31.03.1999?
(parere 06.06.2011 n. RAL-117 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ MANSIONI SUPERIORI/ Quali criteri devono essere seguiti per la richiesta corretta di mansioni equivalenti? (parere 06.06.2011 n. RAL-116 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ MANSIONI SUPERIORI/ Come deve essere attuato il criterio della 'equivalenza delle mansioni'? in particolare per la categoria A? (parere 06.06.2011 n. RAL-115 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ MANSIONI SUPERIORI/ E’ possibile attribuire ad un lavoratore di posizione tabellare D1 mansioni di un profilo di livello superiore corrispondenti ad una posizione economica D3?
Che valore ha il principio della equivalenza delle mansioni nella categoria D?
(parere 06.06.2011 n. RAL-114 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ MANSIONI SUPERIORI/ Come deve essere correttamente interpretato il principio della ‘equivalenza delle mansioni’?
Possono essere indicati utili riferimenti giurisprudenziali in materia?
L'affidamento di mansioni equivalenti può comportare la eventuale erogazione di una indennità correlata alle nuove attività?
(parere 06.06.2011 n. RAL-113 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Può il personale comandato presso altri enti partecipare alle progressioni orizzontali nell’ente di appartenenza? (parere 05.06.2011 n. RAL-282 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Sono possibili progressioni orizzontali per tutto il personale? (parere 05.06.2011 n. RAL-281 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ E’ possibile escludere dalle selezioni per la progressione economica orizzontale il personale che abbia effettuato lunghi periodi di assenza?
Il direttore generale dell’ente può sostituirsi, nella valutazione, al “funzionario responsabile”?
A chi è possibile presentare eventuali ricorsi e entro quale termine?
(parere 05.06.2011 n. RAL-280 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ E’ possibile applicare la disciplina delle progressioni orizzontali al personale assunto a tempo determinato? (parere 05.06.2011 n. RAL-279 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Per alcune Amministrazioni risulta indispensabile conoscere l’importo della progressione orizzontale. Sulla busta paga è da ritenersi corretto lo scorporo della retribuzione tabellare (di cui alla tabella B allegata al ccnl) in due distinte voci: stipendio tabellare e progressione orizzontale? (parere 05.06.2011 n. RAL-278 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Quali sono gli effetti della sentenza con la quale il TAR ha annullato un provvedimento di destituzione dall’impiego?
In particolare, il periodo intercorso tra la destituzione e la riammissione in servizio è utile ai fini della maturazione delle ferie e ai fini della progressione economica all’interno della categoria?
(parere 05.06.2011 n. RAL-277 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ E’ possibile ipotizzare nello stesso anno più passaggi per effetto di progressione economica orizzontale ai sensi dell'art. 5 del CCNL del 31.03.1999? (parere 05.06.2011 n. RAL-276 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ E' possibile una valutazione "a posteriori" ai fini della progressione orizzontale? (parere 05.06.2011 n. RAL-275 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ La valutazione del personale, ai fini della progressione economica, ha cadenza annuale? (parere 05.06.2011 n. RAL-274 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Il ccnl del 22.1.2004 prevede la costituzione – con decorrenza dal 31.12.2003 – di due nuove “categorie”, B7 e D6 (accesso B3 e D3). A queste nuove categorie compete l’assegno personale per differenza di I.I.S.? (parere 05.06.2011 n. RAL-273 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ A seguito dell’attribuzione della progressione economica ai sensi dell’art. 5 del CCNL del 31.03.1999, il dipendente ha diritto alla riliquidazione, per l’anno di riferimento della valutazione, delle voci del trattamento economico variabile (come l’indennità di turno, reperibilità, straordinario, ecc.) che fanno riferimento, ai fini della loro quantificazione, alla nozione di retribuzione che ricomprende anche le progressioni economiche orizzontali (art. 52, comma 2, lett. b e lett. c)? (parere 05.06.2011 n. RAL-272 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Il personale che arriva alla posizione B3 per progressione orizzontale mantiene il diritto alla indennità di L. 125.000? (parere 05.06.2011 n. RAL-271 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Presso un ente non si sono effettuate progressioni economiche orizzontali negli anni 2008 e 2009.
E’ legittimo, nel 2010, destinare una parte del fondo di produttività relativa agli anni 2008 e 2009, all’attuazione delle progressioni economiche orizzontali, con decorrenza retroattiva dall’01.01.2008, sulla base della valutazione del personale riferita ai suddetti anni 2008-2009, secondo i criteri già a suo tempo definiti in sede di contrattazione integrativa?
(parere 05.06.2011 n. RAL-270 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Le nuove posizioni di sviluppo economico (A5, B7, C5 e D6) possono essere riconosciute e pagate anche con decorrenza 01.01.2003, come indicato nella tabella C allegata al ccnl? (parere 05.06.2011 n. RAL-269 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Le nuove posizioni di sviluppo economico introdotte in ciascuna categoria dall’art. 35 del CCNL del 22.01.2004 (A5, B7, C5, e D6) possono essere attribuite e remunerate con decorrenza 01.01.2003? (parere 05.06.2011 n. RAL-268 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Il contratto decentrato stipulato nell’anno 2000, può consentire la progressione economica orizzontale anche per il 1999? (parere 05.06.2011 n. RAL-267 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Un ente ha effettuato n. 2 progressioni orizzontali con decorrenza 01.01.1999 e 01.01.2000, determinandone il costo a carico delle risorse decentrate in ragione degli incrementi previsti dal CCNL 01.04.1999 allora vigente (es. costo di una progressione da C1 a C3 pari a € 70,11 mensili oltre 13^). In seguito all’applicazione dei CCNL del 05.10.2001 e del 22.01.2004 il costo di progressione orizzontale del dipendente in C3 è stato rivalutato rispettivamente di € 6.71 e di € 3.98 mensili oltre 13^.
Si formulano i seguenti quesiti:
1. l’importo da portare oggi in deduzione delle risorse decentrate è quello iniziale di € 70.11, considerato che l’art. 29 del CCNL 22.01.2004 e la dichiarazione congiunta n. 14 sembrano stabilire che gli incrementi rispetto alla posizione iniziale (€ 6.71 e € 3.98) sono a carico del bilancio?
2. Il fondo di cui all’art. 17, comma 2, lett. b), CCNL 01.01.1999 è composto dal costo iniziale di progressione orizzontale (€ 70.11), con risorse prelevate dal fondo, e dai successivi adeguamenti (€ 6.71 ed € 3.98) con risorse prelevate dal bilancio dell’ente?
3. Quando il dipendente cessa dal servizio libera a favore del fondo il solo costo iniziale (€ 70.11) o anche le successive rivalutazioni (€ 6.71 ed € 3.98)?
(parere 05.06.2011 n. RAL-266 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ In caso di assunzione a seguito di trasferimento da altro ente, l’importo della progressione orizzontale eventualmente in godimento da parte del lavoratore interessato come viene finanziata?
A carico del bilancio o a carico delle risorse decentrate stabili?
(parere 05.06.2011 n. RAL-265 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Il maggior incremento stipendiale attribuito al dipendente in posizione C3, pari a € 3,98 mensili (47,76 annui per 12 mensilità oppure 51,74 per 13 mensilità), dovrà essere finanziato con oneri a carico del bilancio dell’Ente o dovrà essere finanziato con le risorse decentrate decurtando di fatto gli altri istituti tra i quali la produttività collettiva? (parere 05.06.2011 n. RAL-264 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Gli incrementi contrattuali che il CCNL del 05.10.2001, riconosce al personale collocato nelle posizioni di sviluppo economico del sistema di classificazione devono essere finanziati a carico delle risorse disponibili ai sensi dell’art. 15 del CCNL dell’01.04.1999? (parere 05.06.2011 n. RAL-263 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Con quali modalità deve essere erogato l’importo corrispondente al valore della posizione economica di sviluppo acquisita per effetto di progressione economica? (parere 05.06.2011 n. RAL-262 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Quali sono gli adempimenti necessari per realizzare una corretta progressione economica orizzontale del personale nel periodo di permanenza nella stessa categoria? (parere 05.06.2011 n. RAL-261 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROGRESSIONI ECONOMICHE/ Qual'è l’esatta distinzione fra il lavoratore che a seguito di progressione economica orizzontale è collocato nella posizione economica C2 rispetto a quello collocato in C1? (parere 05.06.2011 n. RAL-260 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROFILI PROFESSIONALI/ Qual è l’esatto trattamento economico da applicare al dipendente assunto per concorso pubblico?
Si può riconoscere il salario di anzianità acquisito in un pregresso rapporto?
(parere 05.06.2011 n. RAL-112 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROFILI PROFESSIONALI/ E’ possibile riconoscere la retribuzione individuale di anzianità maturata nell’Ente di provenienza al dipendente assunto tramite concorso? (parere 05.06.2011 n. RAL-111 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROFILI PROFESSIONALI/ È possibile per il dipendente imporre la variazione del proprio profilo professionale? (parere 05.06.2011 n. RAL-110 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROFILI PROFESSIONALI/ E’ possibile stabilire un rapporto di 'gerarchia' tra i profili collocati nelle posizioni tabellari B3 e D3 rispetto ai profili collocati, rispettivamente, nelle posizioni tabellari B1 e D1? (parere 05.06.2011 n. RAL-109 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROFILI PROFESSIONALI/ E' consentito prevedere un profilo di "Responsabile del servizio ragioneria"? (parere 05.06.2011 n. RAL-108 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROFILI PROFESSIONALI/ A quale soggetto istituzionale spetta il compito di definire le declaratorie dei profili professionali? (parere 05.06.2011 n. RAL-106 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ PROFILI PROFESSIONALI/ Quali sono gli adempimenti per l'individuazione e la descrizione dei nuovi profili professionali? (parere 05.06.2011 n. RAL-105 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ ACCESSO E INQUADRAMENTO/ Per l’accesso dall’esterno alla categoria D è possibile prevedere titoli di studio diversi da quelli contenuti nell’allegato A del CCNL 31/03/1999?
In particolare è possibile prevedere, relativamente alla categoria D, p.ec. D1, il titolo di studio della laurea (L) e, relativamente alla categoria D, p.ec. D3, il titolo di studio della laurea specialistica (L.S)?
(parere 05.06.2011 n. RAL-104 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ ACCESSO E INQUADRAMENTO/ E’ vero che a partire dall’01.01.2002 le posizioni di ingresso nelle diverse categorie si sono ridotte da 6 a 4, a seguito del venire meno delle posizioni B3 e D3? (parere 05.06.2011 n. RAL-103 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ ACCESSO E INQUADRAMENTO/ In caso di mobilità volontaria ex art. 30 del D.Lgs. n. 165/2001, è possibile che il nuovo datore di lavoro attribuisca al dipendente, attualmente in possesso di un profilo professionale avente il tabellare iniziale in D3, un profilo professionale avente il tabellare iniziale in D1?
Precisiamo che il lavoratore si è dichiarato d’accordo e che gli sarebbe comunque garantito il trattamento economico in godimento
(parere 05.06.2011 n. RAL-102 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ ACCESSO E INQUADRAMENTO/ Inquadramento del personale proveniente da amministrazione pubblica di altro comparto di contrattazione o da azienda privata: esiste una disciplina di riferimento che stabilisca le corrispondenze tra le posizioni dei diversi sistemi di classificazione? (parere 05.06.2011 n. RAL-101 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ ACCESSO E INQUADRAMENTO/ Quale trattamento economico deve essere corrisposto ai vincitori di concorso pubblico? Possono essere confermati compensi acquisiti in altre amministrazioni (RIA, assegni ad personam, progressione orizzontale, ecc.)? (parere 05.06.2011 n. RAL-100 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ ACCESSO E INQUADRAMENTO/ Come deve essere determinato il trattamento di un vincitore di concorso; per la categoria D è possibile attribuire un tabellare pari a D4? (parere 05.06.2011 n. RAL-99 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ ACCESSO E INQUADRAMENTO/ E' ancora possibile la trasformazione dei posti apicali della ex sesta qualifica funzionale di cui agli artt. 5 e 21 del DPR n. 268/1987? (parere 05.06.2011 n. RAL-98 - link a www.aranagenzia.it).

NEWS

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni mutevoli. Impattano le modifiche dei gruppi consiliari. Il criterio di proporzionalità indicato dall'articolo 38 del Testo unico.
QUESITO
Il criterio della proporzionalità, recato dall'art. 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, deve essere riferito alla rappresentanza del gruppo, ovvero deve riguardare anche la suddivisione interna al gruppo stesso?
In caso di dissenso all'interno del gruppo, il capogruppo ha la facoltà di sostituire i componenti delle commissioni già designati con altri componenti del gruppo, ovvero di modificare le assegnazioni alle commissioni già disposte, o di nominare un consigliere in una commissione diversa da quella richiesta dall'interessato?
RISPOSTA
In base alla riconosciuta autonomia funzionale e organizzativa dei consigli comunali, di cui all'art. 38, commi 2 e 3 del dlgs n. 267/2000, la materia riguardante la costituzione ed il funzionamento dei gruppi e delle commissioni consiliari è regolata primariamente dalle apposite norme statutarie e regolamentari di ogni ente locale, per cui è alla stregua delle stesse che vanno valutate e risolte le afferenti questioni.
L'art. 38, comma 6, del Tuel cit., configura le commissioni come organismi strumentali dei consigli -«il consiglio si avvale di commissioni»- e in quanto tali composte esclusivamente con i membri del consiglio -«nel proprio seno»- con l'osservanza del criterio proporzionale, in modo da riprodurre nelle stesse, specularmente, le forze politiche presenti nel consiglio comunale.
Il criterio della proporzionalità indicato dall'art. 38, comma 6, del Tuel n. 267 cit. non può che intendersi riferito ai gruppi consiliari, in quanto il parametro che identifica le forze politiche presenti nel consiglio è dato dai risultati elettorali conseguiti dalle varie liste che hanno partecipato alla competizione elettorale.
Poiché il gruppo è formato, di norma, dai consiglieri eletti nella medesima lista, ne deriva che il criterio della proporzionalità con cui devono essere composte le commissioni deve intendersi riferito ai gruppi.
Qualora gli assetti politici, in linea di principio non cristallizzati nel tempo, dovessero mutare nell'arco della consiliatura per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza determinando, nel rispetto delle previsioni regolamentari, la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, occorrerà procedere ad una revisione della composizione delle commissioni, al fine di ripristinare la conformità delle stesse al criterio.
In merito al secondo quesito, in assenza di puntuali disposizioni regolamentari che pongano limiti o vincoli alla discrezionalità nella designazione, si può ritenere che il presidente del gruppo disponga di ampi spazi di discrezionalità comprensivi della potestà di variazione delle designazioni già effettuate.
Peraltro, in assenza di una disciplina locale espressa, non può rinvenirsi una soluzione univoca ai quesiti prospettati, in particolare in ordine alla possibilità, per i singoli consiglieri, di esprimere preferenze sull'espletamento dell'incarico di rappresentante del gruppo in una delle commissioni, o alla rilevanza da attribuire alle eventuali diverse posizioni presenti all'interno del gruppo nell'individuazione dei consiglieri da inserire nelle commissioni.
In tal senso le ipotesi di conflittualità interna, allorché impediscano la formazione di un'univoca volontà all'interno del gruppo e, soprattutto, rendano difficoltoso il regolare funzionamento dell'organo assembleare, possono trovare soluzione in norme che assicurino il regolare funzionamento dei gruppi secondo metodi di organizzazione democratica, adottate dall'ente nell'ambito della propria autonomia.
A titolo esemplificativo, merita menzione il regolamento della Camera dei deputati, che, all'art. 15-bis, relativo al gruppo misto, ha individuato una compiuta disciplina per la formazione della volontà all'interno del gruppo stesso (articolo ItaliaOggi del 07.10.2011).

APPALTI SERVIZIAntitrust, no al conto terzi nell'affidamento in house.
Illegittimo l'affidamento in house, a una società strumentale interamente partecipata da una regione, di attività di supporto al responsabile del procedimento, di alta sorveglianza e di Pcm (project construction management) che non abbiano carattere istituzionale e che soprattutto siano a beneficio di un altro soggetto pubblico (un'altra Regione).
È quanto ha affermato l'Autorità garante della concorrenza e del mercato nel parere 06.09.2011 n. 47798 di prot., emesso ai sensi dell'articolo 22 della legge 287/1990 e concernente la convenzione stipulata fra la Regione Calabria, quattro Asl calabresi, la Regione Lombardia e la Ilspa concernente la realizzazione di quattro presidi ospedalieri, Vibo Valentia, Piana di Gioia Tauro, Sibaritide e Catanzaro).
In particolare l'Antitrust ritiene in violazione dell'articolo 13 della legge 248/2006 l'affidamento in via diretta alla Ilspa dell'attività di supporto al Rup e di Pcm e alta sorveglianza per la fase realizzativa degli interventi, considerato che la Ilspa, fa parte del sistema regionale della Lombardia ed è una società strumentale della Regione lombarda (che ne detiene la totalità del capitale).
In relazione alla natura della società affidataria l'Antitrust, nel parere trasmesso al Presidente della Regione Calabria, evidenzia come tale società avrebbe potuto svolgere in house soltanto attività di valorizzazione e sviluppo della dotazione infrastrutturale della regione lombarda e soltanto a favore della regione Lombardia.
Viceversa, l'Autorità per la concorrenza e il mercato pone in luce come la convenzione si concretizzi «in un affidamento diretto alla Ilspa di attività che lungi dal consistere nella produzione di beni e servizi strumentali all'attività istituzionale della regione Lombardia, vanno a beneficio di un altro soggetto pubblico», cioè il commissario delegato all'emergenza socio-economico-sanitaria nella Regione Calabria, in violazione dell'articolo 13 della legge 248/2006 che fa divieto alla società strumentale di rendere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privato (articolo ItaliaOggi del 07.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALINuove unioni, fuoco di fila. Discutibili regolamentazione ad hoc e bilanci. Nota di lettura dell'Anci sull'articolo 16 della manovra di Ferragosto.
È molto discutibile la scelta di prevedere una regolamentazione particolare per le unioni che saranno costituite tra i comuni aventi popolazione inferiore a 1.000 abitanti, così come si determina un «vuoto normativo» a seguito del superamento dello strumento bilancio preventivo in questi enti.
Sono queste le principali critiche che, sul terreno strettamente tecnico, sono contenute nella prima nota di lettura Anci delle previsioni dettate dall'articolo 16 del dl n. 138/2011, la c.d. manovra di ferragosto, in materia di gestione associata.
Questa nota è accompagnata da una tabella in cui sono riassunti i termini entro cui il governo deve adottare le misure amministrative previste dal legislatore, le regioni devono effettuare le proprie scelte e i comuni dare corso ai vincoli dettati dal legislatore. Ovviamente a queste critiche si devono aggiungere le durissime proteste che l'associazione dei comuni ha mosso alla scelta di imporre come vincolante la gestione associata di tutte le funzioni e i servizi tra i piccoli comuni, nonché i dubbi di legittimità costituzionale che solleva tale scelta.
Le nuove regole prevedono che le unioni costituite tra i comuni aventi popolazione inferiore a 1.000 abitanti abbiano delle significative differenziazioni rispetto a quelle ordinarie, che ricordiamo essere dalla stessa disposizione indicate come lo strumento, insieme alle convenzioni, attraverso cui i comuni con popolazione inferiore a 5 mila abitanti devono dare corso alla gestione associata delle funzioni fondamentali.
Per la nota viene giudicata come «farraginosa e discutibile la differenziazione tra tali unioni (prive di giunta – vedi comma 9) e quelle costituite solo da comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti». Da evidenziare che la considerazione che è un errore il ritenere che queste unioni non debbano avere le giunte, che invece scompaiono nei comuni fino a 1.000 abitanti. Le principali differenze sono quelle che vanno nella direzione del potenziamento del ruolo della unione rispetto a quello dei comuni, scelta che si manifesta soprattutto assegnando alla prima e non ai singoli municipi il potere di approvazione dello statuto.
Una ulteriore considerazione fortemente critica viene mossa alla scelta di privare sostanzialmente i municipi fino a 1.000 abitanti del loro bilancio preventivo: questi centri potranno solamente concorrere alla redazione del documento contabile della unione, approvando preventivamente un documento di indirizzo che deve tenere conto delle indicazioni suggerite ancor prima dalla unione. Le modalità operative saranno dettate con uno specifico decreto del Ministero dell'Interno. Nel giudizio dell'Anci, «si palesa anche un evidente vuoto normativo per la mancanza di coordinamento del regime di finanza locale dell'Unione tra i comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, indeterminata, rispetto alla vigente disciplina dei trasferimenti erariali e del federalismo fiscale municipale».
Il documento non fornisce chiarimenti su alcuni aspetti poco chiari contenuti nella disposizione e che meritano uno specifico approfondimento, in quanto costituiscono un fattore di essenziale rilievo per le scelte che i comuni dovranno adottare. In primo luogo, non viene detto se nei comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti che aderiscono alla unione e decidono di assegnare ad essa la gestione di tutte le proprie funzioni e servizi, le giunte rimarranno in carica oppure saranno travolte, come avviene nei comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti dal momento in cui nasce la unione.
Non viene inoltre chiarito se in questi piccolissimi comuni, se si decide di dare corso alla unica convenzione in luogo della costituzione della unione, le giunte rimangano in vita. Ed inoltre, si deve ancora chiarire se la soglia demografica minima di 5 mila abitanti prevista per le unioni costituite tra i comuni aventi popolazione inferiore a 1.000 abitanti si debba o meno applicare anche nel caso in cui questi enti stipulino una convenzione.
La prima scadenza prevista dal dl n. 138/2011 è fissata, ci dice il crono programma degli adempimenti redatto dall'Anci, per il 17 novembre, cioè due mesi dalla entrata in vigore della legge di conversione, e riguarda la possibilità offerta alle regioni di scegliere soglie minime di abitanti diverse rispetto a quelle previste dal provvedimento per le gestioni associate dei comuni fino a 1.000 abitanti e di quelli fino a 5 mila abitanti.
Si deve inoltre ricordare che entro il 31.12.2011 i comuni fino a 5 mila abitanti devono realizzare la gestione associata di almeno due funzioni fondamentali e che quelli fino a 1.000 abitanti possono avanzare la proposta di unione di cui fare parte entro il termine perentorio del 17.03.2012, cioè entro sei mesi dalla entrata in vigore della legge di conversione (articolo ItaliaOggi del 07.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento di demolizione dell'abuso edilizio realizzato nella fascia di rispetto di 10 mt. del corso d'acqua demaniale va impugnato innanzi al Tribunale superiore delle acque pubbliche e non dinanzi al Tar.
La giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143, comma 1, lett. a), del R.D. n. 1775/1933, ha per oggetto i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi che siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche: cosicché rientra nella sua giurisdizione la controversia «relativa al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici»

Sull'annullamento del provvedimento del 24.05.2011 prot. n. 4647, avente ad oggetto “Ordinanza n. 2 del 24.05.2011”, con la quale il Comune di San Pietro in Gu - Area Tecnica e Tecnico Manutentiva, Servizi per il Territorio, Ambiente e Lavori Pubblici, in persona del Responsabile del Procedimento, ha rigettato la richiesta di concessione edilizia in sanatoria ed ordinato la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi.
...
Come già affermato da questa stessa Sezione in alcune recenti sentenze (cfr. Tar Veneto, II, 03.01.2011, n. 3; Tar Veneto, II, 01.02.2011, n. 184) e ribadito anche dal Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, VI, 09.05.2011, n. 2745), il provvedimento di demolizione de quo è -per l'iter procedimentale da cui è scaturito- chiaramente posto a tutela della fascia d'inedificabilità latistante un corso d'acqua demaniale: esso andava pertanto impugnato innanzi al Tribunale superiore delle acque pubbliche.
Invero, la giurisdizione di quest’ultimo Tribunale, prevista dall'art. 143, comma 1, lett. a), del R.D. n. 1775/1933, ha per oggetto i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi che siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche: cosicché rientra nella sua giurisdizione la controversia -intuitivamente affine a quella in esame- «relativa al diniego di rilascio di concessione in sanatoria, opposto dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione dell'immobile da condonare in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici» (Cass., S.U., 12.05.2009, n. 10845).
Va, pertanto, dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice adito, indicando nel Tribunale superiore delle acque pubbliche quello che ne è fornito, anche ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 11 c.p.a. (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.10.2011 n. 1488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vietato l’uso della canna fumaria che non supera il colmo
Il Consiglio di Stato ha dichiarato legittimo il provvedimento con il quale il Comune ha inibito al proprietario di un edificio residenziale l’uso della relativa canna fumaria, che non supera il colmo dell’edificio sul quale insiste.

Il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 05.10.2011 n. 5474, confermando la precedente sentenza del TAR, ha dichiarato legittimo il provvedimento con il quale il Comune ha inibito al proprietario di un edificio residenziale l’uso della relativa canna fumaria, motivato con riferimento al fatto che è risultato provato che la medesima canna non supera il colmo dell’edificio sul quale insiste.
Nel merito viene fatto riferimento alla mancata applicazione all’articolo 64 del Regolamento di Igiene del Comune di Roma, approvato con deliberazione n. 7395 del 12/11/1932 (e successive modifiche e integrazioni), secondo il quale «Nella città e nei centri abitati i fumaioli dovranno essere elevati al di sopra del fabbricato e, ove questo sia più basso di quelli contigui, prolungati sino ad una altezza sufficiente per evitare danno o incomodo ai vicini»; risultando evidente che la ratio di tale norma sia quella di evitare che le canne fumarie provochino immissioni nocive o comunque disturbo a terzi e pertanto, laddove, come nel caso in esame, per la peculiare configurazione architettonica a scaloni, lo stabile abbia due o più piani di copertura di diverso livello, le canne fumarie debbono innalzarsi oltre l’ultimo piano al fine di evitare immissioni nocive a terzi.
Appare opportuno ricordare che le ultime innovazioni legislative in materia di disciplina edilizia, attribuendo precise (ed esclusive) responsabilità ai progettisti, richiamano –di fatto– la loro specifica competenza nell’attuazione delle norme tecniche in edilizia, che dovrebbero risultare chiare ed univoche. La sentenza in esame richiama, quale norma di riferimento, un datato regolamento comunale di igiene (la cui redazione, a sua volta, ha dovuto rispettare le ancora vigenti Istruzioni ministeriali 20.06.1896 in materia di regolamenti locali sull’igiene del suolo e dell’abitato); norma di immediata applicazione anche se dovrebbe risultare coordinata con le norme sulle installazione dell’impianti tecnici negli edifici dettate dal DM 37/2008 (che, sottraendo la materia dal DPR 380/2001 TU edilizia, ha fatto rivivere la disciplina dettata dalla legge 46/1990), le quali contemplano anche i sistemi di evacuazione fumi e dichiarano realizzati a regola d’arte gli impianti che rispettino le norme e le regole dettate dagli Enti di normazione (Uni, Cei, ecc.).
E’ appena il caso di ricordare che le «regole tecniche», di applicazione obbligatoria, derivano dalla attribuzione –tramite provvedimento amministrativo- di tale requisito alle «norme» (di applicazione volontaria) emanate dagli Enti di normazione; procedimento che, per quanto riguarda gli impianti tecnici negli edifici, è attuato quasi esclusivamente con riferimento agli impianti di distribuzione ed utilizzazione del gas (commento tratto da www.legislazionetecnica.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sul divieto di commistione fra requisiti di partecipazione e requisiti di valutazione delle offerte.
Il bando di gara è un atto scindibile nelle sue diverse clausole, con la conseguenza che l'illegittimità di una di esse non si estende automaticamente alle altre non dipendenti.

Costituisce principio generale regolatore delle gare pubbliche quello che vieta la commistione fra i criteri soggettivi di prequalificazione e quelli oggettivi afferenti alla valutazione dell'offerta ai fini dell'aggiudicazione. Detto canone operativo, che affonda le sue radici nell'esigenza di aprire il mercato premiando le offerte più competitive ove presentate da imprese comunque affidabili, unitamente al canone di par condicio che osta ad asimmetrie pregiudiziali di tipo meramente soggettivo, trova in definitiva il suo sostanziale supporto logico nel bisogno di tenere separati i requisiti richiesti per la partecipazione alla gara da quelli che invece attengono all'offerta e all'aggiudicazione.
Il bando di gara è un atto scindibile nelle sue diverse clausole, con la conseguenza che l'illegittimità di una di esse non si estende automaticamente alle altre non dipendenti e addirittura all'intero provvedimento, comportando il rinnovo dell'intera procedura. Tuttavia, a conclusioni diverse deve giungersi quante volte la clausola illegittima rivesta una tale importanza (sotto il profilo quali-quantitativo) nell'economia generale della gara, da doversi ritenere che essa rappresenti uno dei contenuti essenziali delle determinazioni manifestate attraverso l'indizione della procedura. In siffatte ipotesi, non è possibile procedere al giudizio di frazionamento della complessiva disciplina di gara, attraverso la pura e semplice avulsione della clausola illegittima (e dei suoi effetti), né è possibile valutare la disciplina di gara nel suo complesso semplicemente come se la clausola in parola non esset (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.10.2011 n. 5434 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: E' legittima l'ordinanza contingibile ed urgente, ex art. 50, comma 5, del d.lgs. 267/2000, tendente a far innalzare l'esistente canna fumaria, del vicino di casa, avente due bocche di emissione situate a una distanza di circa tre metri e a quota inferiore rispetto al filo superiore di due finestre dall’abitazione dell'esponente, la quale crea evidenti e constatati in loco problemi igienico-sanitari.
Osserva il Collegio che il Sindaco di Sezze ha emesso l’ordinanza contingibile e urgente ai sensi dell’art. 50, comma 5, del d.lgs. 267/2000 (che attribuisce tale potere al Sindaco per il caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale) a seguito della segnalazione del responsabile del servizio Igiene e Sanità in data 18.01.2001, il quale rappresenta che a seguito di sopralluogo in data 29.12.2000 è stato rilevata la presenza di una canna fumaria da cui si dipartono due bocche di emissione situate a una distanza di circa tre metri e a quota inferiore rispetto al filo superiore di due finestre dall’abitazione dei vicini signori ... e ....
Al fine di eliminare gli inconvenienti igienico-sanitari lamentati dagli esponenti, il funzionario invita il Sindaco a emanare apposito provvedimento ordinatorio finalizzato all’innalzamento delle bocche di emissione delle canne “nei confronti del proprietario della canna fumaria, indicato dagli esponenti nella persona della sig.ra ...”.
L’art. 6.15 del DPR 1392/1970 (Regolamento per l'esecuzione della L. 13.07.1966, n. 615, vigente all’epoca dell’adozione dell’impugnato provvedimento. recante provvedimenti contro l'inquinamento atmosferico, limitatamente al settore degli impianti termici) stabilisce che “Le bocche dei camini devono risultare più alte di almeno un metro rispetto al colmo dei tetti, ai parapetti ed a qualunque altro ostacolo o struttura distante meno di 10 metri”.
L’inosservanza della norma nel caso concreto è evidente e pertanto, anche alla luce della succitata nota a firma del Responsabile del Servizio Igiene e Sanità, l’ordinanza contingibile e urgente del Sindaco di Sezze appare immune dalle dedotte censure (TAR Lazio-Latina, sentenza 04.10.2011 n. 769 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 86, comma 3, del D.Lgs. n. 259 del 2003, nel ricondurre gli impianti di telefonia mobile (qualificati come opere aventi carattere di pubblica utilità) alle opere di urbanizzazione, ha inteso svincolare l’installazione di tali impianti sul territorio comunale dalla destinazione urbanistica di zona, con conseguente illegittimità del provvedimento comunale che sulla base della disciplina di zona che prevede l’approvazione di uno strumento urbanistico attuativo, nega al gestore di impianti di telefonia mobile la richiesta autorizzazione proprio in ragione della mancata pianificazione dell’area mediante detto strumento.
Il Collegio osserva che il ricorso merita accoglimento, risultando fondato il terzo motivo, rilevante eccesso di potere per carenza di motivazione e di adeguata istruttoria, nonché omessa applicazione degli artt. 86 e 87 del D.Lgs. n. 259 del 2003.
In particolare, il diniego comunale risulta motivato non già esponendo oggettive e documentate valutazioni circa la non correttezza dell’insediamento urbanistico e territoriale dell’impianto, ma sulla base di una presunta e non meglio individuata incompatibilità tra l’impianto progettato e la disciplina urbanistica della zona in cui esso avrebbe dovuto essere installato, in quanto zona “…di espansione di iniziativa privata da attuarsi attraverso un piano urbanistico preventivo…”.
Il Collegio deve osservare che l’art. 86, comma 3, del D.Lgs. n. 259 del 2003, nel ricondurre gli impianti di telefonia mobile (qualificati come opere aventi carattere di pubblica utilità) alle opere di urbanizzazione, ha inteso svincolare l’installazione di tali impianti sul territorio comunale dalla destinazione urbanistica di zona, con conseguente illegittimità del provvedimento comunale che –come è avvenuto nel caso di specie– sulla base della disciplina di zona che prevede l’approvazione di uno strumento urbanistico attuativo, nega al gestore di impianti di telefonia mobile la richiesta autorizzazione proprio in ragione della mancata pianificazione dell’area mediante detto strumento (v. in termini: TAR Veneto, sez. II, 22/05/2006 n. 1428; TAR Calabria –CZ- sez. II, 06/03/2008 n. 269) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 04.10.2011 n. 691 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La posizione legittimante l'accesso agli atti amministrativi non può identificarsi con il generico e indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell’attività amministrativa, per dovere essere invece la concreta pretesa sussumibile in una fattispecie normativa all’esito di una valutazione prognostica e secondo un rapporto di chiara percepibilità.
Pertanto, se è vero che la situazione di stabile collegamento con la zona in cui viene realizzata una data opera è sufficiente a radicare in capo al proprietario, secondo il criterio della vicinitas, una posizione differenziata rispetto all’interesse generico di ogni cittadino a conoscere l’attività dei pubblici poteri, la conseguente legittimazione a prendere visione dei relativi atti amministrativi è necessariamente circoscritta agli aspetti di ordine edilizio, urbanistico e ambientale, i soli che sono assistiti nell’ordinamento da tutela in capo a chi adduca la semplice prossimità all’area interessata dall’intervento.

Ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990, nella materia dell’accesso sono «interessati» “…i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
Come la giurisprudenza ha più volte avuto modo di rilevare (v., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 03.03.2010 n. 530; TAR Lazio, Sez. I, 09.09.2010 n. 32202), la posizione legittimante non può identificarsi con il generico e indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell’attività amministrativa, per dovere essere invece la concreta pretesa sussumibile in una fattispecie normativa all’esito di una valutazione prognostica e secondo un rapporto di chiara percepibilità.
Pertanto, se è vero che la situazione di stabile collegamento con la zona in cui viene realizzata una data opera è sufficiente a radicare in capo al proprietario, secondo il criterio della vicinitas, una posizione differenziata rispetto all’interesse generico di ogni cittadino a conoscere l’attività dei pubblici poteri, la conseguente legittimazione a prendere visione dei relativi atti amministrativi è necessariamente circoscritta agli aspetti di ordine edilizio, urbanistico e ambientale, i soli che sono assistiti nell’ordinamento da tutela in capo a chi adduca la semplice prossimità all’area interessata dall’intervento.
In ragione di ciò, le ricorrenti non hanno titolo all’accesso agli atti che attengono alla selezione pubblica per la scelta dell’area destinata alla localizzazione dell’impianto fotovoltaico, per risolversi una simile indagine nella mera verifica della legittimità dell’attività della pubblica Amministrazione, non funzionale alla salvaguardia di un interesse giuridico protetto (a norma dell’art. 24, comma 3, della legge n. 241 del 1990 “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”).
Neppure può essere invocata la speciale normativa dell’accesso in materia ambientale, attesa la non immediata riconducibilità ai profili di rilievo paesaggistico/ambientale degli atti della selezione oggetto della richiesta di accesso rimasta inevasa (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 04.10.2011 n. 328 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali.
Solo le opere in cemento armato relative a piccole costruzioni accessorie rientrano nella competenza dei geometri, risultando ininfluente che il calcolo del cemento armato sia stato affidato ad un ingegnere o ad un architetto.
In buona sostanza, la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato; solo in via di eccezione si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo 16, R.D. n. 274/1929 cit., purché si tratti di piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è comunque esclusa nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza è pertanto riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali; sotto tale angolazione deve escludersi che le innovazioni introdotte nei programmi scolastici degli istituti tecnici possano ritenersi avere ampliato, mediante l'inclusione tra le materie di studio di alcuni argomenti attinenti alle strutture in cemento armato, le competenze professionali dei medesimi.
---------------
In ordine alle prestazioni ulteriori (comprese in astratto nella competenza dei geometri, affidate loro insieme con quella della progettazione di costruzioni civili in cemento armato), si estende -o meno- la nullità del contratto, secondo che siano strumentalmente connesse con l'edificazione e implichino la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, come la redazione di un piano di lottizzazione, oppure siano autonome e distinte dalla realizzazione delle strutture in cemento armato, come l'individuazione dei confini di proprietà, la costituzione di servitù, lo svolgimento di pratiche amministrative.
Conseguentemente:
a) è legittimo il provvedimento di annullamento, in via di autotutela, di una concessione edilizia per la demolizione di un fabbricato (e la sua ricostruzione, con nuova destinazione d'uso residenziale e commerciale), per l'incompetenza del geometra progettista, sia sotto il profilo dell'entità della costruzione, atteso che la competenza dei geometri è limitata alla progettazione di modeste costruzioni civili, sia sotto il profilo della necessità del rispetto delle prescrizioni antisismiche;
b) il contratto con il quale viene affidata a un geometra la progettazione di una costruzione civile in cemento armato è nullo, indipendentemente dalle dimensioni eventualmente ridotte dell'opera o dalla circostanza che il compito, su richiesta dell'incaricato, è poi svolto da un ingegnere o architetto;
c) è affetto da nullità il contratto di prestazione d'opera che affidi a un geometra calcoli in cemento armato e ciò anche ove il compito, limitatamente a quelle strutture, venga poi svolto da un professionista abilitato, che ne sia stato officiato dall'originario incaricato; è irrilevante, a tali fini, che l'incarico sia distinto per le parti in conglomerato e non sia stato (sub)delegato dal geometra, ma conferito direttamente dal committente stesso a un ingegnere o architetto, in quanto non è consentito neppure al committente scindere dalla progettazione generale quella relativa alle opere in cemento armato poiché non è possibile enucleare e distinguere un'autonoma attività, per la parte di tali lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto (il che appare senz'altro esatto, poiché chi non è abilitato a delineare l'ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne sorretto);
d) solo le prestazioni accessorie, autonome e distinte dalla realizzazione delle strutture in conglomerato, come l'individuazione dei confini di proprietà, la costituzione di servitù, lo svolgimento di pratiche amministrative, possono farsi rientrare nella competenza dei geometri;
e) è nullo, ex art. 2231 c.c., il contratto d'opera stipulato da un geometra, ed avente ad oggetto la trasformazione di un fabbricato artigianale fatiscente in un complesso residenziale.

Il collegio non intende discostarsi dal consolidato quadro ermeneutico tracciato dalla più recente giurisprudenza civile, amministrativa e penale, cui si rinvia a mente dell'art. 74 c.p.a. (Cass. civ., II, 07.09.2009 n. 19292; id., 08.04.2009 n. 8543; 25.05.2007 n. 12193; Cons. St., V, 26.04.2011 n. 2537; id.,. IV, 05.09.2007 n. 4652; Cass. pen., III, 26.09.2000, secondo cui anche in tali ipotesi sussiste il reato di esercizio abusivo della professione di ingegnere o architetto).
A norma dell'art. 16, lett. m), R.D. 11.02.1929 n. 274, e come si desume anche dalle leggi 05.11.1971 n. 1086 e 02.02.1974 n. 64, che hanno rispettivamente disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone sismiche, nonché dalla legge 02.03.1949 n. 144 (recante la tariffa professionale), esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali.
Solo le opere in cemento armato relative a piccole costruzioni accessorie rientrano nella competenza dei geometri, risultando ininfluente che il calcolo del cemento armato sia stato affidato ad un ingegnere o ad un architetto.
In buona sostanza, la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato; solo in via di eccezione si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo 16, R.D. n. 274/1929 cit., purché si tratti di piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è comunque esclusa nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza è pertanto riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali; sotto tale angolazione deve escludersi che le innovazioni introdotte nei programmi scolastici degli istituti tecnici possano ritenersi avere ampliato, mediante l'inclusione tra le materie di studio di alcuni argomenti attinenti alle strutture in cemento armato, le competenze professionali dei medesimi.
I limiti posti dall'art. 16, lett. m) cit. alla competenza professionale dei geometri:
a) rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità;
b) indicano, di contro, un preciso requisito, ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato.
È pertanto esclusa la possibilità di un'interpretazione estensiva o "evolutiva" di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme -art. 2, L. 05.11.1971 n. 1086 e art. 17, L. 02.02.1974 n. 64- che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professionale.
È stata inoltre esclusa l'illegittimità, e quindi la disapplicabilità, delle disposizioni dettate dall'art. 16 R.D. 274/1929, avente natura regolamentare, il quale non contrasta con norme costituzionali o ordinarie, essendo aderente ai criteri della disposizione legislativa cui ha dato attuazione (l'art. 7 L. 24.06.1923 n. 1395) e comportando una razionale delimitazione delle attività professionali consentite ai geometri, in rapporto alla loro preparazione.
---------------
In ordine alle prestazioni ulteriori (comprese in astratto nella competenza dei geometri, affidate loro insieme con quella della progettazione di costruzioni civili in cemento armato), si estende -o meno- la nullità del contratto, secondo che siano strumentalmente connesse con l'edificazione e implichino la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, come la redazione di un piano di lottizzazione, oppure siano autonome e distinte dalla realizzazione delle strutture in cemento armato, come l'individuazione dei confini di proprietà, la costituzione di servitù, lo svolgimento di pratiche amministrative.
Dai su esposti principi si sono tratti i seguenti corollari applicativi:
a) è legittimo il provvedimento di annullamento, in via di autotutela, di una concessione edilizia per la demolizione di un fabbricato (e la sua ricostruzione, con nuova destinazione d'uso residenziale e commerciale), per l'incompetenza del geometra progettista, sia sotto il profilo dell'entità della costruzione, atteso che la competenza dei geometri è limitata alla progettazione di modeste costruzioni civili, sia sotto il profilo della necessità del rispetto delle prescrizioni antisismiche;
b) il contratto con il quale viene affidata a un geometra la progettazione di una costruzione civile in cemento armato è nullo, indipendentemente dalle dimensioni eventualmente ridotte dell'opera o dalla circostanza che il compito, su richiesta dell'incaricato, è poi svolto da un ingegnere o architetto;
c) è affetto da nullità il contratto di prestazione d'opera che affidi a un geometra calcoli in cemento armato e ciò anche ove il compito, limitatamente a quelle strutture, venga poi svolto da un professionista abilitato, che ne sia stato officiato dall'originario incaricato; è irrilevante, a tali fini, che l'incarico sia distinto per le parti in conglomerato e non sia stato (sub)delegato dal geometra, ma conferito direttamente dal committente stesso a un ingegnere o architetto, in quanto non è consentito neppure al committente scindere dalla progettazione generale quella relativa alle opere in cemento armato poiché non è possibile enucleare e distinguere un'autonoma attività, per la parte di tali lavori, riconducibile ad un ingegnere o ad un architetto (il che appare senz'altro esatto, poiché chi non è abilitato a delineare l'ossatura, neppure può essere ritenuto in grado di dare forma al corpo che deve esserne sorretto);
d) solo le prestazioni accessorie, autonome e distinte dalla realizzazione delle strutture in conglomerato, come l'individuazione dei confini di proprietà, la costituzione di servitù, lo svolgimento di pratiche amministrative, possono farsi rientrare nella competenza dei geometri;
e) è nullo, ex art. 2231 c.c., il contratto d'opera stipulato da un geometra, ed avente ad oggetto la trasformazione di un fabbricato artigianale fatiscente in un complesso residenziale.
Da quanto esposto discende che ai fini dell’autorizzazione amministrativa nessun valore legale -o di presupposto legale– avrebbe potuto assumere il progetto di costruzione redatto e sottoscritto da tecnico con qualifica di geometra, considerato che la realizzazione è prevista in conglomerato cementizio (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 03.10.2011 n. 7670 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'indicazione nelle gare di appalto dei costi relativi alla sicurezza.
Gli oneri della sicurezza, sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture vanno distinti tra oneri non soggetti a ribasso finalizzati all'eliminazione dei rischi da interferenze (adeguatamente quantificati dalla stazione appaltante nel DUVRI) ed oneri inclusi nell'offerta, ed aperti quindi al confronto concorrenziale, concernenti i costi specifici connessi con l'attività delle imprese, da indicarsi a cura delle stesse nelle offerte rispettive, con conseguente onere per la stazione appaltante di valutarne la congruità (anche al di fuori del procedimento di verifica delle offerte anomale) rispetto all'entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o fornitura.
Tutto ciò si evince dalle disposizioni dell'art. 86, c. 3-bis e dell'art. 87, c. 4, del D.Lgs. n. 163/2006, che impongono la specifica stima ed indicazione dei (e dunque di tutti i) costi relativi alla sicurezza, tanto nella fase della "predisposizione delle gare di appalto" (espressione che deve intendersi riferita alla "predisposizione" della documentazione di gara: bando, inviti e richieste di offerta), quanto nella fase della formulazione dell'offerta economica.
Pertanto, nella predisposizione della gara (e cioè dei bandi e della documentazione integrativa degli stessi), i costi relativi alla sicurezza derivanti dalla valutazione delle interferenze devono essere specificamente indicati (ex art. 86, c. 3-bis., cit.) separatamente dall'importo dell'appalto posto a base d'asta, con preclusione di qualsivoglia facoltà di ribasso dei costi stessi (art. 86, c. 3-ter, del D.Lgs. n. 163/2006), in virtù della preclusione legale di indisponibilità di detti oneri da parte dei concorrenti, trattandosi di costi necessari, finalizzati con tutta evidenza alla massima tutela del bene costituzionalmente rilevante dell'integrità dei lavoratori (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 03.10.2011 n. 5421 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sull'illegittimità dell'esclusione da una gara di un concorrente che abbia presentato la sola prima pagina del certificato di iscrizione alla Camera di Commercio prescritto a pena di esclusione dal disciplinare di gara.
Ai sensi dell'art. 46 del D.Lgs. 163/2006, la stazione appaltante non può sopperire con il c.d. "potere di soccorso" alla totale mancanza di un atto prescritto dalla lex specialis di gara: difatti, i criteri esposti ai fini dell'integrazione riguardano semplici chiarimenti di un atto incompleto, mentre l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può considerarsi alla stregua di un'irregolarità sanabile e, quindi, non ne è permessa la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali, tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara.
Al contrario, il potere di richiedere chiarimenti ed integrazioni alla ditta partecipante si applica nelle ipotesi in cui sussistono dubbi circa l'esistenza dei requisiti richiesti dal bando ed in ordine ai quali vi sia, tuttavia, un principio di prova circa il loro possesso da parte del concorrente, trattandosi di ipotesi ontologicamente distinta da quella della documentazione del tutto mancante: in tali casi, sussistendo un indizio del possesso dei requisiti richiesti, l'amministrazione non può pronunciare l'esclusione dalla procedura ma è tenuta a richiedere al partecipante di integrare o chiarire il contenuto di un documento già presente, costituendo siffatta attività acquisitiva un ordinario modus procedendi, ispirato all'esigenza di far prevalere la sostanza sulla forma.
Pertanto, nel caso di specie, è illegittimo il provvedimento di esclusione da una gara adottato da una stazione appaltante nei confronti di un concorrente che abbia presentato la sola prima pagina del certificato di iscrizione alla Camera di Commercio (documento prescritto a pena di esclusione dal disciplinare di gara), in quanto l'allegazione della prima pagina del certificato camerale costituisce un valido principio di prova in ordine al possesso di tale certificazione (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 30.09.2011 n. 4585 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ESPROPRIAZIONEEsproprio. Variante al Prg non basta.
Cittadino batte amministrazione. Bocciata la delibera del Comune, che paga pure le spese di giudizio ai privati. Stop al provvedimento che destina la strada privata, precedentemente al servizio di un fondo, alla viabilità pubblica dopo la decisione di costruire nuove case in zona. L'atto approvato dall'ente locale infatti non indica il titolo in base al quale si può procedere all'esproprio. Mentre sarebbe servito il piano di lottizzazione.

È quanto emerge dalla sentenza 29.09.2011 n. 5416 della IV Sez. del Consiglio di stato.
L'amministrazione è sconfitta su tutti i fronti. I privati proprietari del terreno dove passa la strada oggetto del procedimento ablativo hanno interesse a ricorrere contro la delibera del Comune, nonostante un mezzo passo indietro dell'ente. In linea di principio la scelta di programmazione non può essere ostacolata dai cittadini perché gli amministratori hanno tutto il diritto di dare al territorio l'assetto più confacente all'interesse pubblico per lo sviluppo delle aree: l'ente è quindi libero di dare il via a una nuova zona di espansione edificatoria e ai relativi collegamenti con il preesistente tessuto urbanistico.
Il fatto è che nella decisione l'esproprio non risulta giustificato: non si spiega quale concreto interesse generale legittimi l'ablazione, se ad esempio l'uso della strada privata si protragga da tempo immemorabile da parte di persone appartenenti alla comunità locale. Insomma: senza darne adeguatamente conto alla cittadinanza, il Comune non può assumere decisioni che investono posizioni di diritto già consolidate, come quella del proprietario di viabilità a servizio dell'azienda agricola da destinare invece al transito di tutti.
Non mostra, il Comune, l'analisi eventualmente effettuata dei rapporti e dei limiti del nuovo dimensionamento urbanistico del territorio. Né indica lo stato di attuazione delle prescrizioni del piano regolatore vigente. Diversamente da quanto impone la normativa regionale, l'ente non mette in relazione le nuove costruzioni all'andamento demografico sul territorio, che è poi la ragione per la quale la strada privata dovrebbe essere asservita alla viabilità.
Infine, di fronte alla nuova zonizzazione, la sede programmatoria urbanistica generale risulta inadeguata a individuare i collegamenti stradali resi necessari dalle nuove costruzioni: l'operazione compete di solito agli strumenti attuativi e, infatti, nella specie è la stessa variante a indicare ad hoc il piano di lottizzazione (articolo ItaliaOggi del 07.10.2011).

EDILIZIA PRIVATALa previsione di cui al comma 2 dell'art. 12 della legge n. 47 del 1985 (secondo cui "quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il sindaco applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978 n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura dell'ufficio tecnico erariale, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale") non può considerarsi limitata ai soli casi in cui sia stata riscontrata una parziale difformità rispetto ad un previo e già rilasciato titolo abilitativo a costruire, in quanto la norma deve trovare applicazione anche quando la costruzione sia avvenuta in assenza di concessione edilizia, essendo costituito il presupposto per l'applicazione della disciplina sanzionatoria pecuniaria in questione, in luogo di quella reale, dalla salvaguardia della staticità della parte non abusiva del manufatto e non anche dalla circostanza che l'abuso sia caratterizzato da una parziale difformità rispetto ad un previo rilascio concessorio.
Il pagamento delle sanzioni pecuniarie, se esclude che le opere edilizie abusive possano essere legittimamente demolite, non ne rimuove, però, il carattere antigiuridico, né tampoco legittima il compimento di ulteriori lavori in difformità o in assenza della concessione edilizia.

Osserva il Collegio, alla stregua della più attenta giurisprudenza formatasi in materia di applicabilità dell'art. 12 della legge n. 47 del 1985, che la previsione di cui al comma secondo di detta norma non può considerarsi limitata ai soli casi in cui sia stata riscontrata una parziale difformità rispetto ad un previo e già rilasciato titolo abilitativo a costruire, in quanto la norma deve trovare applicazione anche quando la costruzione sia avvenuta in assenza di concessione edilizia, essendo costituito il presupposto per l'applicazione della disciplina sanzionatoria pecuniaria in questione, in luogo di quella reale, dalla salvaguardia della staticità della parte non abusiva del manufatto e non anche dalla circostanza che l'abuso sia caratterizzato da una parziale difformità rispetto ad un previo rilascio concessorio (cfr. TAR Calabria, CZ, sez. II, n. 2343 dell'08.10.2002 e C.d.S., sez. V, n. 2339 dell'11.05.2007).
Osserva, altresì, il Collegio, aderendo a tesi già emersa da tempo, sia in sede giurisprudenziale (cfr. C.d.S., sez. V, n. 1510 del 30.10.1995), sia in dottrina, che il pagamento delle sanzioni pecuniarie, se esclude che le opere edilizie abusive possano essere legittimamente demolite, non ne rimuove, però, il carattere antigiuridico, né tampoco legittima il compimento di ulteriori lavori in difformità o in assenza della concessione edilizia.
In ciò, infatti, consiste la differenza tra le previsioni contenute negli articoli 12 e 13 della legge n. 47 del 1985, che è stata successivamente resa esplicita dal secondo comma dell’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001, soltanto però con riferimento all’ipotesi di annullamento del permesso di costruire, per differenziarla dalla diversa e distinta ipotesi di cui all’art. 34 dello stesso T.U. edilizia (accertamento di conformità) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.09.2011 n. 5412 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO DELL’ENERGIA – Art. 12 d.lgs. n. 387/2003 – Termine di conclusione del procedimento – Natura perentoria – Inutile decorso – Ricorso avverso il silenzio ex art. 117 c.p.a..
Dal testo dell'art. 12 D.Lgs. 387/2003 si evince il termine di conclusione del procedimento decorrente dalla data di presentazione della relativa domanda ha natura perentoria, con la conseguenza che al suo inutile decorso l’interessato può proporre il ricorso avverso il silenzio di cui all’art. 117 c.p.a. (TAR Sicilia, Palermo, Sez II, 19.03.2010, n. 3253 e 25.09.2009 n. 1539; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 14.10.2008, n. 1819), tenuto anche conto di quanto affermato nelle sentenze della Corte Costituzionale n. 124 e n. 168 del 2010, con le quali la Corte ha affermato che le Regioni, nel disciplinare gli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, "sono tenute al rispetto dei principi fondamentali dettati dal legislatore statale" e, in particolare, il principio fissato dall'art. 12, comma 4, del D.L.vo n. 387/2003, il quale stabilisce "il termine massimo per il rilascio dell'autorizzazione alla costruzione ed all'esercizio degli impianti" (tratto da www.ambientediritto.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 29.09.2011 n. 2373 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: I presupposti necessari per l'emanazione di provvedimenti contingibili ed urgenti sono, da un lato, l'impossibilità di differire l'intervento ad altro momento in relazione alla ragionevole previsione di danno incombente (da cui il carattere dell'urgenza), dall'altro, l'inattuabilità degli ordinari mezzi offerti dalla normativa (da cui la contingibilità).
Con specifico riferimento, poi, ai provvedimenti in materia di sanità ed igiene, si è poi precisato che l'esercizio, da parte del Sindaco, del potere di emanare ordinanze è condizionato all'esistenza dell’attualità od imminenza di un fatto eccezionale, quale causa da rimuovere con urgenza; del preventivo accertamento, da parte degli organi competenti, della situazione di pericolo e di danno e della mancanza di strumenti alternativi previsti dall'ordinamento, visto il carattere extra ordinem del potere sindacale.

Secondo giurisprudenza consolidata (Cons. Stato, sez. IV, 24.03.2006, n. 1537 e 22.06.2004, n. 4402), i presupposti necessari per l'emanazione di provvedimenti contingibili ed urgenti sono, da un lato, l'impossibilità di differire l'intervento ad altro momento in relazione alla ragionevole previsione di danno incombente (da cui il carattere dell'urgenza), dall'altro, l'inattuabilità degli ordinari mezzi offerti dalla normativa (da cui la contingibilità).
Con specifico riferimento, poi, ai provvedimenti in materia di sanità ed igiene, si è poi precisato che l'esercizio, da parte del Sindaco, del potere di emanare ordinanze è condizionato all'esistenza dell’attualità od imminenza di un fatto eccezionale, quale causa da rimuovere con urgenza; del preventivo accertamento, da parte degli organi competenti, della situazione di pericolo e di danno e della mancanza di strumenti alternativi previsti dall'ordinamento, visto il carattere extra ordinem del potere sindacale (TAR Toscana Firenze sez. II 18.06.2009 n. 1070; TAR Campania, Napoli, Sez. V, 14.10.2005, n. 16477).
Orbene, nel caso di specie, difettano tutti i presupposti richiesti.
In primo luogo, è insussistente qualsiasi profilo di tutela della “pubblica incolumità”, posto che il provvedimento è limitato alle possibili immissioni della canna fumaria diretta “verso la finestra della famiglia Montalto” ed incide, quindi, esclusivamente nei rapporti tra i privati. In secondo luogo non è configurabile il requisito della contingibilità, tenuto conto che l'ordinanza gravata non reca alcuna motivazione in ordine all’impossibilità, per il Comune -nei limiti della propria competenza- di utilizzare gli ordinari strumenti di accertamento e contestazione, nel rispetto delle regole procedimentali di partecipazione. Infine, le ordinanze impugnate non indicano nemmeno le concrete situazioni di pericolo e di danno limitandosi ad affermare che la canna fumaria “… produce sostanze”, senza specificarne la natura, l’effettiva sussistenza e il grado di pericolosità (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 29.09.2011 n. 2371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La clausola del bando con cui l’Amministrazione si riserva la facoltà di non aggiudicare la gara a proprio insindacabile giudizio è da ritenere illegittima, occorrendo, per costante giurisprudenza, il rispetto dei principi di correttezza e buona fede, nonché l’obbligo di motivare tale scelta.
La clausola del bando con cui l’Amministrazione si è riservata la facoltà di non aggiudicare la gara a proprio insindacabile giudizio è da ritenere illegittima, occorrendo, per costante giurisprudenza, il rispetto dei principi di correttezza e buona fede, nonché l’obbligo di motivare tale scelta (Tar Lazio, Roma, II, n. 8975/2010; Tar Sardegna, I, n. 2167/2010; in particolare, si segnala Tar Campania, VIII, n. 555/2010, secondo cui “La partecipazione alla gara evidenzia e qualifica la posizione del concorrente che vi è ammesso, cosicché non può ragionevolmente escludersi una qualsiasi tutela a fronte degli eventuali ripensamenti dell'Amministrazione: l'interesse all'aggiudicazione (che costituisce l'obiettivo finale di ciascun concorrente) ha un suo corollario nell'interesse allo svolgimento e alla definizione della procedura, secondo le regole fissate dalla lex specialis. In tale caso, la discrezionalità dell'Amministrazione, seppure notevolmente ampia, non è dunque senza limiti né è del tutto sottratta al sindacato di legittimità”) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 29.09.2011 n. 382 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla legittimità dell'esercizio del diritto di riscatto da parte di un comune nei confronti di una società titolare del servizio di gestione degli impianti di illuminazione pubblica, nel caso in cui la concessione originaria sia già scaduta.
L'art. 24 del r.d. 15.10.1925 n. 2578, secondo cui il potere di riscatto deve essere esercitato con il preavviso di un anno, si applica per le concessioni di servizi già affidati ai privati che vengono a risolversi prima della naturale scadenza contrattuale.
Pertanto, nel caso di specie, è legittimo l'esercizio del diritto di riscatto da parte del comune nei confronti della società titolare del servizio di gestione degli impianti di illuminazione pubblica, senza il preavviso di un anno, in quanto l'originaria concessione trentennale era scaduta al momento dell'esercizio del riscatto e non poteva considerarsi tacitamente prorogata in base ad una apposita clausola della convenzione, poiché prima della scadenza era entrato in vigore l'art. 6 della l. 24.12.1993 n. 537, che ha introdotto il divieto di rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, con la previsione -inserita in sede di successive modifiche- della nullità dei contratti stipulati in violazione del predetto divieto.
Peraltro, l'esercizio del diritto di riscatto non è subordinato al previo raggiungimento di un accordo tra le parti sullo stato di consistenza o sulla quantificazione dell'indennizzo, in quanto, la mancata definizione consensuale della questione patrimoniale implica la rimessione della controversia economica ad un apposito collegio arbitrale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.09.2011 n. 5403 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: L'osservanza delle forme di pubblicità prescritte per i bandi di gara è necessaria per consentire agli operatori del settore di conoscere l'avvenuta indizione delle procedure e decidere, di conseguenza, se parteciparvi o meno.
L'osservanza delle forme di pubblicità prescritte per i bandi di gara è necessaria per consentire agli operatori del settore di conoscere l'avvenuta indizione delle procedure e decidere, di conseguenza, se parteciparvi o meno, disponendo di un congruo lasso di tempo per ponderare ed eventualmente predisporre la loro offerta.
La tutela della concorrenza che il principio di pubblicità persegue si declina, dunque, nell'interesse del potenziale concorrente alla conoscibilità della gara e alla concreta possibilità di prendervi parte (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 28.09.2011 n. 4518 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: Distribuzione gas, 18 mesi per le gare. Parere del Consiglio di stato sul dm.
Affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale: ci saranno fino a diciotto mesi per fare le gare, la stazione appaltante potrà essere il Comune più popoloso o la Provincia e la gara verterà anche sul valore di rimborso al gestore uscente.
Il Consiglio di Stato, con il parere 28.09.2011 n. 3598 sullo schema di regolamento che detta i criteri di gara e di valutazione dell'offerta per l'affidamento del servizio della distribuzione del gas naturale, attuativo dell'art. 46-bis, comma 1, della legge n. 222 del 2007, ha sbloccato uno dei provvedimenti centrali per la liberalizzazione del pubblico servizio di attività di distribuzione del gas. A questo regolamento ne seguiranno altri due: quello sulla definizione territoriale degli ambiti minimi e quello sulla tutela dell'occupazione del personale.
Il provvedimento individua il soggetto che dovrà gestire la gara e i relativi poteri sostitutivi, stabilisce quali siano gli obblighi informativi dei gestori, il valore di rimborso ai titolari degli affidamenti e concessioni cessanti, il valore del rimborso al gestore uscente a regime, la proprietà degli impianti, gli oneri da riconoscere all'ente locale concedente e ai proprietari di impianti, i contenuti del bando di gara e del disciplinare di gara e tutte le altre norme sullo svolgimento della gara (requisiti di partecipazione, commissioni di gara, criteri di aggiudicazione).
Su questo schema, particolarmente articolato e complesso, il Consiglio di Stato aveva reso un parere interlocutorio (adunanza del 05.05.2011) con il quale era stata disposta una ulteriore istruttoria e venivano richiesti elementi al Dicastero proponente (MISE) che successivamente (04.08.2011) ha dettagliatamente risposto ad una serie di eccezioni che venivano fatte.
Con il parere la sezione consultiva dà il via libera allo schema chiedendo al Ministero, dopo avere preso atto della correttezza dei chiarimenti, ritenuti condivisibili, di precisare ancora alcuni elementi. In particolare il Consiglio di Stato invita l'amministrazione a considerare l'opportunità di prevedere l'indicazione diretta, nel regolamento, del Comune più popoloso o della Provincia a fungere da stazione appaltante nel caso in cui in un ambito territoriale non vi sia un comune capoluogo di provincia. La ragione di questa richiesta risiede nel fatto che l'intervento sostitutivo regionale potrebbe essere limitato ai casi in cui o lo stesso comune più popoloso o la maggioranza dei comuni dell'ambito non ritengano possibile che tale ente svolga convenientemente le funzioni di stazione appaltante.
Il parere chiede inoltre di ridurre il termine di 18 mesi decorsi i quali, in assenza di emanazione del bando, scatta il potere sostitutivo. Viene poi chiesto al Mise di lasciare alla stazione appaltante la valutazione sulla rilevanza delle sanzioni applicate dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici valutare se l'esclusione di un concorrente ai fini dell'esclusione di un concorrente dalla gara (articolo ItaliaOggi del 06.10.2011).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Inizio attività, smaltimento rifiuti svincolato dai 90 giorni.
Il T.U. Ambiente, nel prevedere che la Provincia verifichi la sussistenza dei presupposti e dei requisiti richiesti per l'attività di smaltimento rifiuti, consente che il potere di controllo sia esercitabile anche in caso di accertamento successivo alla decorrenza dei termini di inizio dell'attività qualora si verifichino irregolarità o il mancato rispetto della norma tecnica a presupposto della quale viene svolta l'attività.
La segnalata decisione affronta la delicata questione circa il rilascio di un’autorizzazione per l’inizio e prosecuzione dell’attività di gestione dei rifiuti, con particolare riguardo al potere di controllo della P.A. esercitabile anche dopo l’inizio della stessa.
Nello specifico, la ricorrente ha impugnato il provvedimento con il quale la competente Provincia aveva disposto il divieto di prosecuzione dell’attività di smaltimento, nonché quello emesso dall’Albo nazionale delle imprese che svolgono la gestione dei rifiuti con cui era stata disposta l’archiviazione della domanda di iscrizione al registro.
Ha eccepito, oltre al resto, la violazione dell’art. 216, D.Lgs. n. 152/2006, oltreché l’illegittimità derivata del provvedimento dell’Albo in conseguenza dei vizi dell’atto provinciale.
Con ricorso per motivi aggiunti, la medesima ditta ha contestato che l’amministrazione resistente aveva altresì integrato la motivazione dei provvedimenti impugnati mediante le proprie difese.
Il ricorso principale e quello aggiuntivo sono stati rigettati in quanto infondati.
Il Collegio di Milano, infatti, ha evidenziato come l’art. 216, T.U. Ambiente prevede una procedura semplificata, mediante denunzia d'inizio d'attività, di autorizzazione allo smaltimento dei rifiuti.
Nel dettaglio, mentre il comma 1 della menzionata disposizione sancisce che l'attività può essere intrapresa decorsi novanta giorni dalla comunicazione d'inizio di attività alla Provincia territorialmente competente, il comma 3 prevede che, entro quel termine, la Provincia deve verificare d'ufficio la sussistenza dei presupposti e dei requisiti per l'esercizio dell'attività e il comma 4 che, accertato il mancato rispetto delle norme tecniche e delle condizioni di cui al comma 1, la Provincia dispone il divieto d'inizio o di prosecuzione dell'attività.
Orbene, richiamata la normativa di riferimento, il TAR lombardo ha sottolineato come la comunicazione di inizio attività, benché in termini generali sortisce effetto già per il decorso del termine di 90 giorni in assenza di specifici divieti o richieste di integrazioni documentali da parte della Provincia, soggiace alle disposizioni richiamate dall’art. 214 T.U. Ambiente, ovvero alle statuizioni sulla veridicità delle comunicazioni rese e dei relativi atti che la compongono.
Inoltre, rinviando all’art. 216, comma 3, secondo cui la Provincia verifica la sussistenza dei presupposti e dei requisiti richiesti, il giudicante ha ritenuto che siffatto potere di controllo sia esercitabile anche in caso di accertamento successivo alla decorrenza dei termini di inizio attività, qualora si verifichino irregolarità o il mancato rispetto della norma tecnica a presupposto della quale viene svolta l’attività.
Di conseguenza, a opinione dell’adito Tribunale, nella vicenda nessuna consumazione del potere di controllo provinciale si era verificata per il fatto che il diniego di autorizzazione era stato emanato oltre un anno dopo la presentazione della domanda.
Parimenti infondato è stato ritenuto l’ulteriore motivo secondo cui la procedura semplificata avrebbe consentito alla ricorrente di svolgere l’attività di recupero dei rifiuti in via accessoria e strumentale senza, così, il possesso dei requisiti chiesti in via ordinaria dall’art. 216 cit..
Al riguardo, il G.A. non ha mancato di precisare come l’art. 216 stabilisce al comma 1 che l’autorizzazione semplificata opera "a condizione che siano rispettate le norme tecniche e le prescrizioni specifiche di cui all'articolo 214, commi 1, 2 e 3"; sicché, la previsione della comunicazione di inizio di attività non poteva costituire una forma di liberalizzazione dell’attività.
Inoltre, poiché condizione indispensabile per l’utilizzo della procedura semplificata è costituita dal rispetto del D.M. 05.02.1998 per quanto riguarda i rifiuti non pericolosi, il Collegio ha ritenuto improbabile che la mera accessorietà dell’attività di recupero dei rifiuti rispetto all’attività principale di smaltimento potesse giustificare il mancato rispetto della normativa ambientale.
Sebbene, infatti, tra gli scopi del T.U. Ambiente figuri anche quello di favorire il recupero dei rifiuti rispetto alle tradizionali attività di smaltimento, la legge non ha voluto, con gli artt. 214 e ss., D.Lgs. n. 152/2006, ritenere che il recupero sia attività irrilevante dal punto di vista ambientale, quanto piuttosto sottoporla a un regime amministrativo ambientale semplificato e di favore, a condizione però che siano rigidamente osservati i limiti stabiliti dal D.M. 05.02.1998 per quanto riguarda i rifiuti non pericolosi.
Solo il rispetto di fatto di queste condizioni, dunque, avrebbe legittimato la piena efficacia della D.I.A. e la conseguente iscrizione all’Albo dei Gestori Ambientali della ricorrente.
Non differente sorte è spettata al gravame aggiuntivo.
Il G.A. milanese, in primo luogo, ha osservato come nella vicenda non v’è stata alcuna integrazione postuma della motivazione del provvedimento impugnato, atteso che la Provincia ha operato una mera specificazione dei profili di violazione del D.M. 05.02.1998.
Tanto, sulla scorta del notorio indirizzo giurisprudenziale per cui, in caso di atti vincolati, nella motivazione è sufficiente indicare i fatti e le norme giuridiche che attribuiscono all’amministrazione il potere di provvedere (c.d. “giustificazione”: cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 22.06.2006, n. 3962).
Conseguentemente, il TAR lombardo ha concluso ritenendo che i fatti e la fonte normativa a base del potere dell’amministrazione provinciale erano stati specificati nel provvedimento, mentre la successiva attività difensiva si era limitata a specificare il profilo della violazione perpetrata dal ricorrente, senza che ciò avesse aggiunto nulla al contenuto del provvedimento (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 28.09.2011 n. 2311 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La dimostrazione dell'affidabilità dei concorrenti per mezzo dell'esperienza pregressa non può trasformarsi in una rendita di posizione per i soggetti economici che abbiano avuto rapporti continuativi con le stazioni appaltanti.
Nel giudizio sull'esperienza la stazione appaltante, se non si è data regole più stringenti nella lex specialis, può certamente effettuare una ponderazione delle diverse attività praticate dai concorrenti, trascurando quelle marginali e focalizzando la propria attenzione su quelle che rivestono maggiore importanza.
Allo stesso modo può considerare irrilevante il mancato svolgimento di alcune attività se nel complesso risultino espletate quelle che costituiscono la parte più impegnativa dell'appalto da aggiudicare. Nell'interpretazione di clausole di questo tipo deve sempre essere favorita la massima partecipazione, che a sua volta è una condizione per assicurare l'effettiva competizione nel mercato, e corrispettivamente deve essere dato il minimo rilievo alle formalità non necessarie.
La dimostrazione dell'affidabilità dei concorrenti per mezzo dell'esperienza pregressa non può infatti trasformarsi in una rendita di posizione per i soggetti economici che abbiano avuto rapporti continuativi con le stazioni appaltanti o che, specialmente nei settori dove la concorrenza è minore, abbiano avuto la possibilità di occupare per più tempo le poche nicchie di mercato disponibili (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 28.09.2011 n. 1328 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Aria - Emissioni e disturbo olfattivo - Disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori - Assenza - Reato di cui all'art. 674 c. p. - Configurabilità - Criterio della "stretta tollerabilità" - Individuazione del parametro di legalità dell'emissione - Fattispecie: bruciatura del rivestimento in plastica di fili di rame - Art. 844 c.c..
Si configura il reato di cui all'art. 674 c. p., anche nel caso di "molestie olfattive" promananti da impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera. L'evento del reato consiste nella molestia, che, nel caso sia provocata dalle emissioni di gas, fumi o vapori, prescinde dal superamento di eventuali limiti previsti dalla legge, essendo sufficiente il superamento del limite della normale tollerabilità ex art. 844 c.c. (Cass. Sez. 1, n. 16693 del 27/3/2008, Polizzi).
Inoltre nel caso di emissioni idonee a creare molestie alle persone rappresentate da odori, se manca la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle emissioni stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testi, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti (Cass., Sez. 3, n. 19206 del 27/03/2008, Crupi). Fattispecie: alimentazione di un falò, che bruciando il rivestimento in plastica di 15 Kg di rame produceva un fumo acre che si incanalava nella valle e raggiungeva le abitazioni fino a circa seicento metri di distanza, provocando emissioni di fumo atte ad offendere e molestare persone (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.09.2011 n. 34896 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aria. Emissioni e molestie olfattive.
Il reato di cui all'art. 674 c. p. è configurabile anche nel caso di "molestie olfattive" promananti da impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera. L'evento del reato, infatti, consiste nella molestia, che, nel caso sia provocata dalle emissioni di gas, fumi o vapori, prescinde dal superamento di eventuali limiti previsti dalla legge, essendo sufficiente il superamento del limite della normale tollerabilità ex art. 844 c.c..
Inoltre, nel caso di emissioni idonee a creare molestie alle persone rappresentate da odori, se manca la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle emissioni stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testi, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.09.2011 n. 34896 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Autodemolizione manufatto abusivo ed estinzione reato.
La demolizione delle opere abusive non comporta l'estinzione del reato commesso con la loro costruzione. Nei reati urbanistici è lo stesso territorio che costituisce il bene oggetto della relativa tutela, e tale bene è esposto a pregiudizio da ogni condotta che produca alterazioni in danno del benessere complessivo della collettività e delle sue attività ed il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2011 n. 34769 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Unitarietà di valutazione dell'intervento.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarlo, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale. L'opera dove essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti.
Va altresì ribadito che i lavori edilizi che riguardano manufatti abusivi che non siano sanati ne condonati non sono assoggettabili al regime nella DIA (anche se astrattamente riconducibili, nella loro oggettività a tale regime), in quanto gli interventi ulteriori ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono.
Anche i delitti previsti dal comma 1-bis dell'art. 181 D.Lv. 42/2004 sono reati dì pericolo e, pertanto, per la configurabilità di tali illeciti, non è necessaria un effettivo pregiudizio per l'ambiente, potendo escludersi dal novero delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle che si prospettano inidonee, pure in astratto, a compromettere i valori del paesaggio e l'aspetto esteriore degli edifici.
Il principio di offensività deve essere inteso, al riguardo, in termini non di concreto apprezzamento di un danno ambientale, bensì dell'attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2011 n. 34764 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Sottoprodotti.
Nell'art. 184-bis attualmente vigente il legislatore italiano ha recepito la nozione comunitaria di cui all'art. 5 della direttiva quadro sui rifiuti 2008/98/CE (ricalcata sui principi enucleati dalla Corte di giustizia e sugli orientamenti espressi dalla Commissione europea nella Comunicazione interpretativa sui rifiuti e i sottoprodotti del febbraio 2007), che mostra un'evidente favore del legislatore comunitario per la soluzione di recupero dei rifiuti, come si desume dalla previsione contenuta nell'art. 4 della direttiva recante la gerarchia dei rifiuti, che vede al primo posto la prevenzione e preparazione per il riutilizzo.
Fermo restando il principio della interpretazione estensiva della nozione di rifiuto, la direttiva quadro ha tracciato il confine tra ciò che deve considerarsi rifiuto e ciò che ha assunto valore di autentico prodotto. Inoltre la disciplina comunitaria tra i requisiti indicati nella nozione di sottoprodotto, ha incluso i trattamenti che rientrano nella "normale pratica industriale", con l'effetto pratico di ampliamento della categoria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2011 n. 34753 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di bosco.
Il bosco risulta essere una nozione di tipo naturalistico e comprende ogni terreno coperto da vegetazione forestale arborea, associata o meno a quella arbustiva, da castagneti, sughereti o da macchia mediterranea ed indipendentemente dal fatto che la zona venga riportata come tale dalla Carta tecnica regionale, atteso che ai fini della sottoposizione a vincolo paesaggistico la nozione non può essere intesa in senso riduttivo, dovendo comprendere anche le aree limitrofe (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2011 n. 34752 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni abusive - Ordine di demolizione - Adozione all'atto della presentazione della domanda di sanatoria - Improcedibilità.
L'ordine di demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta di accertamento di conformità o di condono, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima, è illegittimo in quanto l'amministrazione ha l'obbligo di pronunciare su di essa prima di procedere all'irrogazione delle sanzioni definitive, mentre la presentazione della domanda di concessione in sanatoria o di condono successivamente all'emanazione del provvedimento sanzionatorio determina l'improcedibilità del ricorso ma non incide sulla legittimità del provvedimento, considerato che l'illegittimità è situazione patologica originaria dell'atto, relativa al suo momento genetico, mentre la proposizione dell'istanza è vicenda successiva (TAR Campania-Salerno, sez. II, 07.05.2009, n. 1827) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 26.09.2011 n. 1411 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Calcestruzzo e altri materiali da lavaggio mezzi meccanici.
Il calcestruzzo e gli altri materiali da costruzione, residuati all'interno dei mezzi meccanici utilizzati nel ciclo produttivo ed eliminati con il mezzo della lavatura e dell'immissione di acqua, di per sé stessa detergente, rientrano nella nozione di rifiuti allo stato liquido (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.09.2011 n. 34608 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione di opere abusive è un atto dovuto in presenza di opere realizzate senza titolo abilitativo, e pertanto abusive, e non necessita di particolare motivazione sull’interesse pubblico in confronto al sacrificio imposto al privato o sulla eventuale sanabilità delle opere. Infatti, ai sensi del comma 2 dell'art. 31 del d.P.R. 380 del 2001, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza del permesso di costruire, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione delle opere abusive.
Il presupposto per l’adozione dell'ordine di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione dell'opera in totale difformità dalla concessione od in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrono i predetti requisiti, è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con la affermazione della accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse pubblico alla sua rimozione.
In sostanza, l'ordinanza di demolizione non deve essere sorretta da alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione, poiché l'abuso, anche se risalente nel tempo, non può giustificare alcun legittimo affidamento del contravventore a veder conservata una situazione di fatto che il semplice trascorrere del tempo non può legittimare.
Il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione dell'opera in totale difformità, dalla concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento -ove ricorrano i predetti requisiti- è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera. L'ordinanza di demolizione, quindi, in quanto atto vincolato, non richiede in alcun caso una specifica motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico o sulla comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
---------------
L’atto con il quale il Comune accerta l'inottemperanza all'ordine di demolizione di un'opera edilizia abusiva, limitandosi a rappresentare l'attuale stato dei luoghi rispetto all'ingiunzione precedentemente spedita, costituisce un atto procedimentale avente contenuto di accertamento ed esplicante una funzione meramente preparatoria e strumentale in vista delle successive determinazioni dell'Ente, sicché, di per se stesso, è manifestamente inidoneo a ledere situazioni giuridiche.
Il provvedimento per il quale l’art. 31 del d.P.R. 380/2001 consente la trascrizione non è l’ordine di demolizione, contemplato al comma 2 del citato art. 31, ma solo la successiva determinazione, adottata dal competente organo comunale, di procedere alla acquisizione del bene alla mano pubblica, una volta accertata l’inottemperanza all’ordine di demolizione.
In particolare, ai sensi del citato art. 31, comma 4, del d.P.R. 380/2001 il titolo per l’immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II. è costituito dall’accertamento di inottemperanza della ingiunzione a demolire; e per tale deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale, ma un atto formale di accertamento compiuto dagli organi dell’ente dotati della relativa potestà provvedimentale, che il Comune ha correttamente adottato.

L’ordine di demolizione di opere abusive è un atto dovuto in presenza di opere realizzate senza titolo abilitativo e pertanto abusive (secondo giurisprudenza costante: fra le più recenti TAR Campania Napoli, sez. II, n. 2042 del 20.04.2009; TAR Campania Napoli, sez. VI, 14.07.2008, n. 8761; TAR Campania Napoli, sez. VII, 05.06.2008, n. 5244; Consiglio Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2705) e non necessita di particolare motivazione sull’interesse pubblico in confronto al sacrificio imposto al privato o sulla eventuale sanabilità delle opere.
Infatti, ai sensi del comma 2 dell'art. 31 del d.P.R. 380 del 2001, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza del permesso di costruire, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione delle opere abusive.
Per giurisprudenza pacifica di questo Tribunale in materia urbanistica, il presupposto per l’adozione dell'ordine di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione dell'opera in totale difformità dalla concessione od in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrono i predetti requisiti, è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con la affermazione della accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse pubblico alla sua rimozione.
In sostanza, l'ordinanza di demolizione non deve essere sorretta da alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione, poiché l'abuso, anche se risalente nel tempo, non può giustificare alcun legittimo affidamento del contravventore a veder conservata una situazione di fatto che il semplice trascorrere del tempo non può legittimare.
Il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione dell'opera in totale difformità, dalla concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento -ove ricorrano i predetti requisiti- è atto dovuto ed è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera. L'ordinanza di demolizione, quindi, in quanto atto vincolato, non richiede in alcun caso una specifica motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico o sulla comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
---------------
Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. ex multis, TAR Campania, II Sezione, 18.05.2005, n. 6525; Idem, 21.11.2006, n. 10110; TAR Sicilia Palermo, sez. II, 24.12.2002, n. 4652), l’atto con il quale il Comune accerta l'inottemperanza all'ordine di demolizione di un'opera edilizia abusiva, limitandosi a rappresentare l'attuale stato dei luoghi rispetto all'ingiunzione precedentemente spedita, costituisce un atto procedimentale avente contenuto di accertamento ed esplicante una funzione meramente preparatoria e strumentale in vista delle successive determinazioni dell'Ente, sicché, di per se stesso, è manifestamente inidoneo a ledere situazioni giuridiche.
Secondo il tradizionale orientamento di questa Sezione (cfr, TAR Campania Napoli, sez. II n. 5905/2008; idem, n. 1959/2009), il provvedimento per il quale l’art. 31 del d.P.R. 380/2001 consente la trascrizione non è l’ordine di demolizione, contemplato al comma 2 del citato art. 31, ma solo la successiva determinazione, adottata dal competente organo comunale, di procedere alla acquisizione del bene alla mano pubblica, una volta accertata l’inottemperanza all’ordine di demolizione.
In particolare, ai sensi del citato art. 31, comma 4, del d.P.R. 380/2001 il titolo per l’immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II. è costituito dall’accertamento di inottemperanza della ingiunzione a demolire; e per tale deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale, ma un atto formale di accertamento compiuto dagli organi dell’ente dotati della relativa potestà provvedimentale, che il Comune ha correttamente adottato
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 23.09.2011 n. 4479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi - Condono - Silenzio-assenso - Termine legale necessario - Presupposti - Allegazione della documentazione necessaria - Fedeltà della stessa - Pagamento integrale dell'oblazione - Non violazione dei vincoli di cui all'art. 33 della L. n. 47 del 1985.
E' noto che il termine legale per la formazione del silenzio-assenso in materia di condono degli abusi edilizi presuppone che la domanda sia stata corredata dalla prescritta documentazione, non sia infedele, sia stata interamente pagata l'oblazione e, altresì e soprattutto, l'opera non sia in contrasto con i vincoli di inedificabilità di cui all'art. 33, l. 28.02.1985, n. 47 (Consiglio Stato, sez. IV, 22.07.2010, n. 4823).
Ma, appunto, l’intero versamento dell’oblazione autoliquidata e la completezza della documentazione, sono necessarie ai fini della formazione del silenzio assenso.
Essi non possono costituire presupposto di un diniego in una situazione di fatto che vede il procedimento protrarsi dal 1995 e con un contenzioso favorevole al ricorrente.
Gli adempimenti alla base dell’illegittimo diniego avrebbero dovuto essere richiesti al fine del rilascio del provvedimento e non possono essere ragione di diniego dello stesso (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 23.09.2011 n. 947 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sul potere di autocertificazioni riconosciuto al privato nelle gare di appalto.
Il potere di autocertificazione riconosciuto al privato nei casi previsti dalla legge non è svincolato da ogni controllo sulla veridicità della stessa autocertificazione da parte della P.A., la quale è tenuta a verificare la complessiva affidabilità dei concorrenti nell'aggiudicazione delle gare di appalto, anche mediante riscontro diretto dei dati del casellario giudiziario, essendo, a tal fine, il certificato richiesto da soggetti diversi dall'interessato equiparato a quello richiesto dall'interessato stesso (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 22.09.2011 n. 19364 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi edilizi interni che provochino una diversa utilizzazione dell'area interessata, come nel caso dell'aumento (da una a due) delle unità abitative, determinano una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico.
Interventi edilizi interni che provochino una diversa utilizzazione dell'area interessata, come nel caso dell'aumento (da una a due) delle unità abitative, determinano una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico (cfr. Cons. St. Sez. V 23.05.1997 n. 529 e Sez. IV 29.04.2004 n. 2611; TAR Trentino Alto Adige Trento, 12.05.2006 n. 160)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 22.09.2011 n. 1320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disposizione di cui all'art. 52, comma 3-bis, L.R. 12/2005 della Lombardia vuole evitare che -attraverso la liberalizzazione dei cambi di destinazione d'uso stabilita dall'art. 51 della LR 12/2005- siano realizzate innovazioni di grande impatto sul tessuto urbano senza un preventivo esame da parte dell'amministrazione.
Anche in presenza non di un luogo espressamente destinato all’esercizio del culto islamico, ma solo di un luogo di raduno di immigrati di religione islamica con finalità meramente culturali e non cultuali comunque trova applicazione (configurandosi alternativamente l’ipotesi del “centro sociale”, inteso come luogo di aggregazione di una cospicua entità di soggetti aventi interessi comuni) la suddetta norma regionale che richiede il rilascio di specifico titolo edilizio, nella specie non richiesto.

La L.R. 11.03.2005 n. 12, al comma 3-bis dell’art. 52 (recante la rubrica ”Mutamenti di destinazione d'uso con e senza opere edilizie”) espressamente dispone che: “I mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire”.
La Sezione (cfr. la sentenza 14.09.2010 n. 3522 ) ha già avuto modo di rilevare che tale disposizione vuole evitare che -attraverso la liberalizzazione dei cambi di destinazione d'uso stabilita dall'art. 51 della LR 12/2005- siano realizzate innovazioni di grande impatto sul tessuto urbano senza un preventivo esame da parte dell'amministrazione.
Va rilevato che quand’anche dovesse accedersi alla tesi di parte ricorrente, -secondo cui nella fattispecie non si sarebbe in presenza di un luogo espressamente destinato all’esercizio del culto islamico, ma solo di un luogo di raduno di immigrati di religione islamica con finalità meramente culturali e non cultuali- ciò non di meno comunque trova applicazione (configurandosi alternativamente l’ipotesi del “centro sociale”, inteso come luogo di aggregazione di una cospicua entità di soggetti aventi interessi comuni) la suddetta norma regionale che richiede il rilascio di specifico titolo edilizio, nella specie non richiesto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 22.09.2011 n. 1320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Valutazione della destinazione urbanistica da imprimere al territorio - Scelte discrezionali degli Enti locali interessati - Insindacabilità - Eccezioni - Palese illogicità ed irrazionalità delle scelte fatte.
In materia urbanistica e in particolare con riguardo alla valutazione della destinazione urbanistica da imprimere al territorio comunale, attraverso i previsti strumenti urbanistici normativi, sussiste per pacifica giurisprudenza un elevato grado di discrezionalità da parte degli Enti locali interessati, salvo il controllo di legittimità da parte del giudice amministrativo nei soli casi di palese illogicità ed irrazionalità delle scelte operate (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 22.09.2011 n. 656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Documenti condominiali, visura sì ma con ordine.
La Suprema Corte ha ribadito ancora una volta il principio per cui
ciascun comproprietario ha la facoltà di richiedere e ottenere dall'amministratore del condominio l'esibizione dei documenti contabili in qualsiasi tempo, senza l'onere di specificare le ragioni della richiesta, purché l'esercizio di tale facoltà non risulti di ostacolo all'attività di amministrazione, non sia contraria ai principi di correttezza e non si risolva in un onere economico per il condominio. Affinché tale diritto sia esercitabile ed effettivo incombe sull'amministratore l'onere di predisporre un'organizzazione minima e di rendere informati tutti i condomini di tale organizzazione.
L’orientamento della giurisprudenza, ormai abbastanza risalente nel tempo, secondo il quale la documentazione condominiale doveva essere posta a disposizione dei condomini dall’amministratore soltanto in sede di assemblea per l’approvazione del rendiconto e, comunque, tale omissione poteva rilevare soltanto come inadempimento dell’amministratore medesimo senza influire in alcun modo sulla validità della delibera condominiale di approvazione è radicalmente mutato a partire dalla sentenza della Cassazione n. 8460/1998, cui si sono succedute numerose pronunce, sia di legittimità che di merito, fino alla recentissima sentenza 21.09.2011 n. 19210 della Corte di Cassazione, Sez. civile.
Il revirement della giurisprudenza degli ermellini è stato determinato da un’attenta riflessione sul rapporto tra amministratore e assemblea e dall’applicazione a esso delle norme sul mandato.
Il rapporto tra l'amministratore e i condomini, infatti, è sussumibile nello schema del mandato con rappresentanza, anche se si connota per alcuni aspetti peculiari determinati normativamente quali l'obbligatorietà della nomina, il contenuto e gli effetti, tanto che si parla di mandato ex lege.
Dalla disciplina predisposta dal legislatore per amministrare le cose comuni si desume il rapporto particolare intercorrente tra l'amministratore (mandatario) e i singoli condomini (mandanti), così che potranno applicarsi a esso soltanto le norme sul mandato compatibili.
Alla luce di tanto si deve valutare se il potere dei condomini di vigilare e di controllare in ogni tempo la gestione dell'amministratore, potere che spetta al mandante nei confronti del mandatario ex art. 1713 c.c., è conciliabile con il rapporto di amministrazione delineato dalla legge.
La risposta è sicuramente positiva soprattutto avuto riguardo alla circostanza che l'amministratore, per ragioni del suo ufficio, detiene i registri e i documenti contabili afferenti alla gestione e riguardanti gli stessi condomini e, pertanto, non vi è alcuna ragione giustificatrice alla limitazione di tali poteri, sempre che la vigilanza ed il controllo non si risolvano in un intralcio all'amministrazione, non siano contrari al principio della correttezza, che deve stare alla base dei rapporti interpersonali (art. 1175 cod. civ.), e non creino aggravi di costi del condominio. Non è neppure necessario che i condomini specifichino la ragione per cui vogliono prendere visione o estrarre copia dei documenti, rimanendo onere dell’amministratore dimostrare la contrarietà alla correttezza o l’intralcio alla gestione condominiale di tali richieste.
Le motivazioni alla base del rifiuto dell’amministratore devono essere analizzate con particolare rigore in quanto il diniego di visionare tali documenti non si concreta in un semplice inadempimento dell’amministratore ma può avere effettive conseguenze sulle decisioni assembleari: infatti non avendo il condomino una conoscenza completa dei documenti, non potrà esprimere a pieno il suo parere e non potrà influenzare l’orientamento degli altri condomini. Pertanto, la violazione di tale diritto determina l’annullabilità della delibera approvata, in quanto risulta viziato il procedimento di formazione della volontà assembleare (Cass. 15159/2001, Cass. 13350/2003, Cass. 1544/2004, Cass. 12650/2008).
Spetterà, quindi, all’amministratore rifiutare soltanto quelle richieste che palesemente e ictu oculi contrastano con la corretta e funzionale gestione condominiale o con il principio di correttezza, gravando su di lui –e quindi sul condominio– la prova di siffatti caratteri della richiesta e non essendo all’uopo sufficienti meri e/o generici richiami all’intralcio all’attività di amministrazione, soprattutto quando la richiesta è finalizzata all’esame di documenti inerenti agli argomenti inseriti nell’ordine del giorno dell’adunanza e, pertanto, è rivolta ad assicurare una partecipazione consapevole all’assemblea.
Né legittima il rifiuto dell’amministratore il mero riferimento a orari e modalità contrari ai principi di correttezza e buona fede: è compito dell’amministratore, infatti, predisporre un’organizzazione che permetta di conciliare la propria attività, soprattutto nel caso in cui gestisca un numero elevato di condòmini, con il rispetto dei diritti dei singoli condomini, nonché di portare a conoscenza di tutti tale suo modello organizzativo: rimanendo, comunque, a suo carico l’onere di dimostrare l’impossibilità di dar seguito alla richiesta a causa della non compatibilità di essa con le modalità già previamente indicate e comunicate (commento tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni - Precarietà - Caratteristica non desumibile né dalla facile e rapida amovibilità dell'opera, né dal tipo più o meno fisso del suo ancoraggio al suolo - Necessità che l'opera sia destinata a soddisfare necessità contingenti.
Nel provvedimento impugnato si specifica che l’intervento consiste in una “struttura di mq. 150 circa alta mt. 3,20 circa di alluminio anodizzato, coperta con teli di plastica in p.v.c. e tamponata con vetri scorrevoli su binario, asportabili”.
La descrizione dell’intervento conduce, innanzi tutto, ad escludere che l’opera sia destinata alla sola difesa dalle intemperie. Si tratta, infatti, di una struttura chiusa sui lati, che dà luogo ad un nuovo volume edilizio entro il perimetro di uno spazio in origine aperto.
Il volume realizzato, peraltro, non è trascurabile, in quanto la superficie coperta è di circa 150 mq., per un’altezza di m. 3,20.
In proposito va rilevato che l’art. 1 della legge 28.01.1977 n. 10, vigente all’epoca dell’adozione del provvedimento impugnato, imponeva al soggetto attuatore di munirsi di concessione edilizia per ogni attività comportante la trasformazione del territorio attraverso l’esecuzione di ogni intervento sul territorio, preordinato alla perdurante modificazione dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di opere in muratura.
Quanto all’affermato carattere precario dell’intervento, non v’è che da richiamare il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui la precarietà di una costruzione non va desunta dalla facile e rapida amovibilità dell’opera, ovvero dal tipo più o meno fisso del suo ancoraggio al suolo, quanto dal fatto che la costruzione appaia destinata a soddisfare una necessità contingente (ex plurimis, TAR Campania, Napoli, sez. VII, 11.02.2011 n. 896, TAR Marche, sez. I, 20.04.2010 n. 182, Cons. St., sez. V, 04.02.1998, n. 131).
Nel caso di specie appare da escludere il carattere contingente delle esigenze che l’intervento è destinato a soddisfare, chiaramente correlate alla fruizione di uno spazio chiuso, che, come si è rilevato, risulta di dimensioni considerevoli (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 20.09.2011 n. 7462 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per espresso dato normativo (art. 9 della legge 24/07/1961 n. 729), le fasce di rispetto autostradali sono soggette a vincolo di inedificabilità assoluta non suscettibile a deroghe o sanatorie.
Sul punto conforta altresì l’orientamento giudice di seconde cure. Il Consiglio di Stato ha chiarito come le opere realizzate all'interno della fascia di rispetto autostradale prevista al di fuori del perimetro del centro abitato (fascia di sessanta metri) sono ubicate in aree assolutamente inedificabili e, pertanto, se costruite dopo l'imposizione del vincolo, rientrano nella previsione di cui all'articolo 33, comma 1, lettera d), della legge 28.02.1985, n. 47 e non sono suscettibili di sanatoria.
Le distanze previste dalla norma suddetta vanno rispettate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopralevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti.
In altri termini, in presenza di una norma introduttiva di un vincolo di inedificabilità assoluto, non può operare, all’interno del procedimento volto all’eventuale rilascio di una concessione edilizia in sanatoria, l’istituto del silenzio significativo per l’acquisizione del parere da parte dell’autorità preposta alla tutela dello specifico vincolo.
Né come già sopra evidenziato, possono venire il rilievo le caratteristiche concrete delle opere abusive realizzate nell’ambito della fascia medesima.

Analoga questione è stata già affrontata da questa sezione con la condivisibile sentenza n. 1070/2009 dalla quale il Collegio non trae oggi motivo di discostarsi.
Ed invero il dettato letterale dell’art. 23, comma nono, della L.R. n. 37/1985 prevede la concedibilità del titolo edilizio in sanatoria per le costruzioni realizzate all’interno delle fasce di rispetto “stradali”, come definite dal D.M. 01/04/1968 e “semprechè a giudizio degli enti preposti alla tutela della viabilità le costruzioni stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico”.
Si osserva a tal fine che per espresso dato normativo (art. 9 della legge 24/07/1961 n. 729), le fasce di rispetto autostradali sono soggette a vincolo di inedificabilità assoluta non suscettibile a deroghe o sanatorie.
Sul punto conforta altresì l’orientamento giudice di seconde cure. Il Consiglio di Stato ha chiarito come le opere realizzate all'interno della fascia di rispetto autostradale prevista al di fuori del perimetro del centro abitato (fascia di sessanta metri) sono ubicate in aree assolutamente inedificabili e, pertanto, se costruite dopo l'imposizione del vincolo, rientrano nella previsione di cui all'articolo 33, comma 1, lettera d), della legge 28.02.1985, n. 47 e non sono suscettibili di sanatoria.
A tale riguardo giova premettere che, ai sensi dell'articolo 41-septies, commi 1 e 2, della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150 (articolo aggiunto dall'articolo 19 della l. 06.08.1967, n. 765) "Fuori del perimetro dei centri abitati debbono osservarsi nell'edificazione distanze minime a protezione del nastro stradale, misurate a partire dal ciglio della strada. Dette distanze vengono stabilite con decreto del Ministro per i Lavori pubblici di concerto con i Ministri per i trasporti e per l'Interno, entro sei mesi dall'entrata in vigore della presente legge, in rapporto alla natura delle strade ed alla classificazione delle strade stesse, escluse le strade vicinali e di bonifica".
Tale vincolo di inedificabilità è configurato come assoluto nel caso di autostrade per le aree situate al di fuori del centro abitato, perché -ai sensi del D.M. 01.04.1968- è esclusa ogni possibilità di deroga alla distanza minima, fissata in sessanta metri (la fascia di rispetto è, invece, ridotta a venticinque metri all'interno del perimetro del centro abitato ed è derogabile a mente dell'articolo 9, comma 1, della legge 24.07.1961, n. 729). [...]
Va, inoltre, osservato che il carattere assoluto del vincolo sussiste a prescindere dalla concrete caratteristiche dell'opera realizzata. Infatti il divieto di costruire ad una certa distanza dalla sede autostradale, posto dall'articolo 9 della legge 24.07.1961, n. 729 e dal successivo d.m. 01.04.1968, non può essere inteso restrittivamente e cioè come previsto al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali emergenti dal suolo e suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico ed alla incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi con la presenza di costruzioni.
Pertanto le distanze previste dalla norma suddetta vanno rispettate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale (in termini, Cass. civ., 01.06.1995, n. 6118) o che costituiscano mere sopralevazioni (v. Cass. civ., 14.01.1987, n. 193), o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti (Cons. Stato, sez. IV, 18.10.2002 n. 5716; Cons. Stato, sez. IV, 25.09.2002 n. 4927; Cons. Stato, sez. V, 08.09.1994 n. 968).
In altri termini, in presenza di una norma introduttiva di un vincolo di inedificabilità assoluto, non può operare, all’interno del procedimento volto all’eventuale rilascio di una concessione edilizia in sanatoria, l’istituto del silenzio significativo per l’acquisizione del parere da parte dell’autorità preposta alla tutela dello specifico vincolo.
Né come già sopra evidenziato, possono venire il rilievo le caratteristiche concrete delle opere abusive realizzate nell’ambito della fascia medesima (cfr. TAR Lombardia Brescia, sez. I, 30.04.2010, n. 1628; TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II, 20.05.2009, n. 768; Consiglio Stato, sez. IV, 14.04.2010, n. 2076) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 20.09.2011 n. 1663 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Le attività di disinfezione, disinfestazione e derattizzazione non possono essere considerate quali compiti sanitari in senso proprio ed appaiono piuttosto da assimilare ad attività che, pur avendo una sicura rilevanza per la salute, rientrano nella competenza di enti diversi dalle aziende sanitarie locali.
Per antica tradizione i comuni sono dotati di una competenza generale in materia di igiene e sanità pubblica sicché, in mancanza di dati normativi univoci che attribuiscano alle aziende sanitarie locali l'esercizio delle attività di disinfezione, disinfestazione e derattizzazione, le attività in parola che, si ribadisce, non possono essere considerate quali compiti sanitari in senso proprio (come ad es. la somministrazione di terapie e di medicinali, interventi chirurgici o ricoveri ospedalieri), essendo invece assimilabili ad attività quali il corretto smaltimento dei rifiuti, il mantenimento di idonee condizioni igieniche o ambientali, e devono quindi considerarsi come rientranti nella competenza di enti diversi dalle aziende.
---------------
L'attività di derattizzazione è propriamente attività preventiva, generale e periodica che prescinde dalla esistenza di malattie infettive essendo tesa a ridurre ordinariamente il numero dei ratti al di sotto di una certa soglia indipendentemente dalla insorgenza di malattie infettive.
Sicché, l’attività di derattizzazione non è riconducibile al concetto di disinfestazione.
Va premesso, al fine di collocare nella giusta prospettiva il presente contenzioso, che le attività di disinfezione, disinfestazione e derattizzazione non possono essere considerate quali compiti sanitari in senso proprio ed appaiono piuttosto da assimilare ad attività che, pur avendo una sicura rilevanza per la salute, rientrano nella competenza di enti diversi dalle aziende sanitarie locali.
Infatti, come rilevato nella nota n. 10652/DS del 15.06.2007 che ha richiamato una pertinente sentenza del giudice amministrativo (Tar Campania, Napoli, Sez. I, 07.10.2004 n. 13593), per antica tradizione i comuni sono dotati di una competenza generale in materia di igiene e sanità pubblica sicché, in mancanza di dati normativi univoci che attribuiscano alle aziende sanitarie locali l'esercizio delle attività di disinfezione, disinfestazione e derattizzazione, le attività in parola che, si ribadisce, non possono essere considerate quali compiti sanitari in senso proprio (come ad es. la somministrazione di terapie e di medicinali, interventi chirurgici o ricoveri ospedalieri), essendo invece assimilabili ad attività quali il corretto smaltimento dei rifiuti, il mantenimento di idonee condizioni igieniche o ambientali, e devono quindi considerarsi come rientranti nella competenza di enti diversi dalle aziende.
La competenza dei comuni circa l'esercizio delle attività in questione si evince dagli artt. 3 e 33 del R.D. n. 1265 del 1934, ed in particolare dall'art. 259 di tale R.D., che testualmente recita: "I comuni provvedono ai servizi di profilassi, assistenza e disinfezione per le malattie contagiose. Tali servizi possono essere assicurati mediante consorzi fra comuni secondo le norme contenute nel testo unico della legge comunale e provinciale".
Tale norma è confermata dagli artt. 27 e 32 del D.P.R. n. 616 del 1977. L'art. 27 indica in particolare, tra le materie concernenti l'assistenza sanitaria ed ospedaliera, la prevenzione e la cura delle malattie (lett. A) e l'igiene degli insediamenti urbani e della collettività (lett. D); l'art. 32 attribuisce ai comuni, singoli ed associati, tutte le funzioni amministrative di cui all'art. 27 che non siano espressamente riservate allo Stato, alle Regioni ed alle Province.
La esistenza di una competenza residuale generale in relazione alle esigenze del territorio riservata ai comuni si deduce anche dall’art. 13 del d.lgs. n. 267 del 2000 “Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità…”.
---------------
L'attività di derattizzazione è propriamente attività preventiva, generale e periodica che prescinde dalla esistenza di malattie infettive essendo tesa a ridurre ordinariamente il numero dei ratti al di sotto di una certa soglia indipendentemente dalla insorgenza di malattie infettive.
D’altro canto, la profilassi diretta di una malattia infettiva è l’insieme delle misure di prevenzione che mirano a impedire la diffusione dei germi attraverso l’isolamento del malato e l’uccisione dei germi.
In tale attività rientra la disinfestazione cioè la distruzione dei macroparassiti in presenza di una malattia infettiva.
Ma la derattizzazione prescinde dalla esistenza di una malattia infettiva o comunque da una situazione di pericolo per la salute pubblica trattandosi, come prima osservato, di una attività ordinaria, preventiva e generale, indipendente dalla insorgenza di una vera e propria patologia mentre nel caso che la infestazione rappresenti un fattore di rischio sanitario e gli interventi di disinfestazione siano per tali motivi connessi alla prevenzione delle malattie diffusive e infettive essi devono essere effettuati dalla aziende sanitarie.
Infine in ordine alla attività di vigilanza igienica sulla attività di disinfestazione, disinfestazione e derattizzazione, prevista dal DPCM 29.11.2001, è agevole evidenziare che il riferimento alla vigilanza implica la necessità che siffatte attività vengano effettuate da soggetti diversi dalle aziende; diversamente il riferimento alla vigilanza non avrebbe ragion d’essere posto che vi sarebbe coincidenza tra il soggetto vigilante e soggetto vigilato
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.09.2011 n. 5267 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: L'avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest'ultimo in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora dovuti.
In sintesi, la natura “reale” dell'obbligazione riguarda i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, quelli che realizzano l'edificazione e poi i loro aventi causa.
---------------
Posto che il lottizzante ha dieci anni di tempo per l'esecuzione delle opere previste in convenzione, soltanto dalla scadenza della convenzione medesima è possibile verificare se le opere siano state o meno eseguite ed il Comune abbia titolo per richiedere la cessione delle aree.
In sostanza, l'obbligazione del privato diventa esigibile proprio al termine della scadenza della convenzione e da tale momento inizia a decorrere pure l'ordinario termine di prescrizione.
Seguendo lo stesso percorso argomentativo, decorsi dieci anni (ordinario termine prescrizionale ex art. 2946 c.c.), da tale termine iniziale (quello di scadenza della convenzione), il diritto dovrebbe dichiararsi prescritto.

Va premesso che l'obbligo di “facere”, previsto nella convenzione a carico della parte lottizzante, consistente nella realizzazione delle opere e nella conseguente cessione delle aree, ai sensi dell’art. 8, comma 5, n. 2 e comma 7, della legge 06.08.1967 n. 765, ha natura di prestazione patrimoniale imposta e di obbligazione “ambulatoria” o “propter rem” dal lato passivo, gravante, quindi, sugli aventi causa degli originari lottizzanti (ex plurimis: Cass. civile Sez. III, 17.06.1996, n. 5541; Cass. Sez. 1° 20.12.1994 n. 10947; Cass. Civ., Sez. II, 26.11.1988 n. 6382; Consiglio di Stato, Sez. V 13.08.2003 n. 1157), per cui, di norma e salva diversa pattuizione negoziale, l'avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest'ultimo in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora dovuti (ex plurimis Consiglio di Stato, Sez. V, 17.11.1997 n. 1471).
In sintesi, la natura “reale” dell'obbligazione riguarda i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, quelli che realizzano l'edificazione e poi i loro aventi causa (conf.: Cass. Civ. Sez. II, 27.08.2002 n. 12571).
---------------
Con la terza censura, parte ricorrente deduce la prescrizione del credito vantato dal Comune di Badolato.
La convenzione de qua non precisa il termine entro il quale la parte lottizzante avrebbe dovuto assolvere l'obbligo di cessione delle aree, ma deve pure considerarsi che tale obbligo avrebbe potuto essere fatto valere dal Comune, a termini dell'art. 2935 c.c., soltanto a decorrere dalla scadenza del termine decennale di validità della convenzione, che segna il termine finale di eseguibilità “spontanea” delle opere in essa previste.
In altri termini, posto che il privato ha dieci anni di tempo per l'esecuzione delle opere previste in convenzione, soltanto dalla scadenza della convenzione medesima è possibile verificare se le opere siano state o meno eseguite ed il Comune abbia titolo per richiedere la cessione delle aree (TAR Brescia, n. 1126/2001 e n. 65/2003; TAR Campania, Napoli, sez. II, n. 2773/2007).
In sostanza, l'obbligazione del privato diventa esigibile proprio al termine della scadenza della convenzione e da tale momento inizia a decorrere pure l'ordinario termine di prescrizione.
Seguendo lo stesso percorso argomentativo, decorsi dieci anni (ordinario termine prescrizionale ex art. 2946 c.c.), da tale termine iniziale (quello di scadenza della convenzione), il diritto dovrebbe dichiararsi prescritto
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 19.09.2011 n. 1226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire - Annullamento o revoca - Perdita di una posizione di vantaggio acquisita - Pregiudizio al proprietario dell'immobile - Necessità dell'avvio del procedimento - Non rilevanza dell'illegittimità dell'opere da eseguire.
Risulta innanzitutto fondato il primo motivo in quanto effettivamente l'annullamento o la revoca del permesso di costruire, determinando la perdita di una posizione di vantaggio acquisita, reca un pregiudizio al proprietario dell'immobile e pertanto quest'ultimo deve essere posto, attraverso la comunicazione dell'avvio del procedimento di cui all’art. 7 L. 07.08.1990 n. 241, nella condizione di poter partecipare al previo contraddittorio; né può validamente supplire alla mancata comunicazione la conoscenza che il proprietario in ipotesi possa aver avuto della ravvisata illegittimità delle opere da eseguire, perché tanto non implica affatto, sotto il profilo consequenziale, anche l'annullamento della concessione edilizia già rilasciata.
Anche gli altri motivi appaiono fondati in quanto:
a)- l'amministrazione non ha in alcun modo motivato in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale nonché prevalente sull'affidamento ingenerato nel ricorrente mediante il rilascio del permesso di costruire;
b)- l'amministrazione col provvedimento impugnato si è sostanzialmente intromessa in una lite tra condomini arrogandosi prerogative in ordine all'accertamento delle facoltà connesse al diritto di proprietà di ciascuna di esse e del regime d'uso del solaio che non le competevano e che avrebbero dovuto trovare soluzione nella competente sede giurisdizionale civile, anche perché ogni provvedimento amministrativo è rilasciato con la clausola "fatti salvi i diritti dei terzi" e, quindi, non pregiudica la possibilità per eventuali privati controinteressati di far valere le proprie ragioni nelle sedi competenti (Consiglio di Stato, sez. V 07.09.2009, n. 5223; Consiglio di Stato, sez. V, 07.09.2007, n. 4703; TAR Trentino Alto Adige, sez. Trento, 14.05.2008, n. 111; TAR Piemonte, sez. I, 13.06.2005, n. 2039 (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 16.09.2011 n. 1559 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere edilizie abusive - Ordine di demolizione - Atto dovuto - Presupposto - Accertata abusività dell'opera - Mancata comunicazione dell'avvio del procedimento - Applicabilità dell'art. 21-octies della L. n. 241 del 1990 - Impossibilità di emanare un atto con un contenuto diverso da quello presente nell'atto adottato - Legittimità del procedimento.
L’omessa comunicazione d’avvio del procedimento non determina l’illegittimità dell’ordine di demolizione.
Secondo l’indirizzo consolidato della giurisprudenza anche di questa Sezione, considerata la natura di atto dovuto dell'ordine di demolizione di opere edilizie abusive -il cui presupposto è rappresentato solamente dalla constatata esecuzione di opere edilizie in assenza o in difformità dal titolo abilitativo- il procedimento non è inficiato dall'omissione della comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, L. n. 241 del 1990, poiché nella fattispecie trova applicazione l'art. 21-octies della stessa legge che statuisce la non annullabilità del provvedimento adottato in violazione delle norme sul procedimento qualora, come nel caso di specie, sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato.
Il provvedimento gravato costituisce atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale dell’opposto interesse privato al mantenimento dell’opera abusiva, in quanto la repressione dell'abuso corrisponde ipso facto all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato.
Pertanto, l’ordinanza è da ritenersi sorretta da adeguata e autosufficiente motivazione, già solo rinvenibile nella compiuta descrizione delle strutture abusive e nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 14.09.2011 n. 1626 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illeciti edilizi, pensilina o tettoia pari sono. Senza autorizzazione sempre reato.
La sostanziale identità delle nozioni di tettoia e pensilina, ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli agenti atmosferici, determina la necessità del permesso di costruire nei casi in cui sia da escludere la natura precaria o pertinenziale dell'intervento.
Interessante decisione della Suprema Corte su un tema in edilizia abbastanza approfondito relativo alla natura precaria o meno di una costruzione ai fini della necessità del permesso di costruire.
La sentenza in esame, peraltro, si segnala per la novità della questione in quanto la necessità di previo rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di una pensilina è questione assolutamente inedita nella giurisprudenza della Corte, meritevole, pertanto, di particolare menzione.
I giudici di Piazza Cavour, sul punto, dopo aver operato un’interessante ricostruzione della disciplina, giungono ad affermare che anche per la pensilina, al pari della tettoia, occorre il preventivo rilascio del titolo abilitativo rappresentato dal permesso di costruire, salvo che non sia possibile qualificare l’intervento come davvero “pertinenziale”.
Il fatto.
La vicenda processuale da cui la Suprema Corte ha preso le mosse per occuparsi della questione di diritto segue ad una sentenza di condanna, confermata anche in appello, per violazione dell’art. 44, comma 1, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in relazione alla costruzione, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, di una pensilina con struttura in ferro e copertura in plexiglas avente superficie di mq. 18 circa ed altezza di metri 3.
I giudici di merito avevano accertato, in fatto, che la pensilina era stata realizzata in area sottoposta a vincolo paesaggistico, con conseguente configurabilità del reato contemplato dalla lett. c) dell’art. 44 del d.P.R. n. 380/2001.
Date tali premesse, gli stessi giudici hanno escluso che le opere realizzate fossero collocabili tra gli interventi cosiddetti minori in quanto modificative dell'originario stato dei luoghi e costituenti trasformazione urbanistica del territorio di natura permanente e tale da richiedere, quale titolo abilitativo, il permesso di costruire.
Il ricorso.
Resisteva alla condanna l’imputata che, oltre a far valere la presunta estinzione per prescrizione del reato ipotizzato, deduceva in particolare l'erronea applicazione della norma penale in questione, rilevando che l'opera oggetto di contestazione non era suscettibile di sanzione penale in quanto soggetta a d.i.a. (denuncia di inizio attività) semplice, al pari degli altri interventi eseguiti, per i quali era stata rilasciata sanatoria, efficace anche con riferimento alla pensilina realizzata, cosicché i giudici dell’appello avrebbero errato nell'applicare la disposizione richiamata e la giurisprudenza di legittimità.
La decisione della Cassazione.
La Corte non ha ritenuto fondati i motivi di ricorso ed ha, conseguentemente, rigettato il ricorso dell’imputata confermando l’impianto motivazionale della sentenza di merito.
Nel disattendere i motivi propositi dalla difesa, gli Ermellini procedono anzitutto all’inquadramento giuridico dell’intervento edilizio costituito dalla realizzazione della pensilina.
Prima di analizzare il percorso motivazionale della decisione di legittimità, è sufficiente qui ricordare che è definibile come pensilina una “tettoia sporgente da un muro o sorretta da pilastri, per proteggere dalle intemperie persone che attendono” (v. Il Sabatini Coletti, dizionario della lingua italiana on-line) e che, normalmente, i regolamenti edilizi normalmente la definiscono come “una struttura composta di elementi verticali in legno, in ferro o altro metallo e da una copertura in tela, vetro o metallo (con l’esclusione dell’utilizzo dell’alluminio anodizzato), con la funzione di proteggere il percorso dal marciapiede pubblico all'ingresso del fabbricato” (v., ad es., l’art. 2.15.3 del Regolamento urbanistico del Comune di Pisa, che, nell’inquadrarla tra i cosiddetti “manufatti e accessori leggeri”, specifica che la stessa deve avere un'altezza al colmo non superiore a 3,00 ml. ed una larghezza non superiore a 2,00 ml., aggiungendo che i lati devono essere privi di qualsiasi elemento di chiusura, anche trasparente o mediante inferriate o simili ed esclude la realizzazione di pensiline a protezione di accessi di singole unità immobiliari: http://www.comune.pisa.it/regedi/Reg/1Def/ART2_15.htm).
Passando, nello specifico, ad analizzare il ragionamento della Cassazione, i giudici ricordano come sono in genere soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U. Edilizia (artt. 3 e 10), tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando la trasformazione in via permanente del suolo in edificato per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale ed alla sua qualificazione giuridica.
Orbene, si afferma in sentenza come in tale tipologia di interventi “è certamente collocabile la realizzazione di una pensilina …. che era certamente qualificabile come intervento di nuova costruzione ai sensi del T.U. edilizia e per la quale non è neppure ipotizzata l'eventuale natura pertinenziale”.
Detta qualificazione, in particolare, era certamente ricavabile dalle dimensioni e dalle caratteristiche costruttive indicate nell'imputazione, indipendentemente dalla corretta individuazione della nozione di "pensilina". E’ innegabile, infatti, che particolarmente approfondito è stato nella giurisprudenza di legittimità il concetto di "tettoia".
Qualche decisione, peraltro, si è spinta ad analizzare le differenze tra “tettoia” e "pergolato", osservando che la diversità strutturale delle due opere è rilevabile dal fatto che, mentre il pergolato costituisce una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore ed è destinato a creare ombra, la tettoia può essere utilizzata anche come riparo ed aumenta l'abitabilità dell'immobile (Cass. pen., Sez. III, 19.05.2008, n. 19973, imp. L., in Ced Cass. 240049).
Mai, però, i giudici di Piazza Cavour si erano occupati ex professo della qualificazione giuridica, agli effetti urbanistici, della pensilina, salvo ad affermare incidentalmente, in una fattispecie relativa a chiosco prefabbricato in ferro e pensilina prefabbricata in ferro presso un impianto di distribuzione di carburanti, che l'autorizzazione prefettizia per detto impianto non escludesse la necessità del titolo abilitativo edilizio per la costruzione dei manufatti accessori a detto impianto, essendo le due autorizzazioni richieste a tutela di distinti interessi: l'uno relativo alla disciplina del deposito e della distribuzione dei carburanti, l'altro concernente la tutela dell'assetto urbanistico (Cass. pen., Sez. III, 20.02.1973, n. 1446, imp. T., in Ced Cass. 123229); in un altro caso, poi, la stessa Cassazione aveva poi precisato che le opere edilizie abusive, realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione e, se costituenti pertinenze, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione (Cass. pen., Sez. III, 31.01.1994, n. 2733, imp. P., in Ced Cass. 197066; nella specie la Corte aveva ritenuto la motivazione dell'ordinanza di riesame corretta nel confermare il sequestro preventivo emesso dal G.I.P. in relazione alla violazione del vincolo di inedificabilità, essendo stata la pensilina eseguita in zona in cui, secondo la previsione del Piano Urbanistico Territoriale, erano consentiti esclusivamente piccoli interventi di restauro conservativo su edilizia esistente).
Facendo coerente applicazione della giurisprudenza di legittimità formatasi in tema di tettoie, quindi, i giudici puntualizzano come essendo detti manufatti lessicalmente assimilabili (in quanto la pensilina condivide con la tettoia comuni finalità di arredo o di riparo e protezione e dalla quale non può distinguersi neppure per la conformazione, stante le diversità di materiali con i quali possono essere realizzate entrambe le strutture e le modalità di ancoraggio al suolo o in aggetto rispetto ad altro edificio), giungono ad affermare il condivisibile principio secondo cui la sostanziale identità delle nozioni di tettoia e pensilina ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli agenti atmosferici, determina la necessità del permesso di costruire nei casi in cui sia da escludere la natura precaria o pertinenziale dell'intervento (commento tratto da www.ipsoa.it -
Corte di Cassazione, Sez. feriale, sentenza 07.09.2011 n. 33267 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sottotetto - Destinazione d'uso - Variazione della destinazione d'uso di sottotetto - Ingiunzione di riduzione in pristino - Difformità parziale alla concessione edilizia - Riscontrata presenza degli impianti elettrici e termoidraulici - Indizio rivelatore dell'avvenuto mutamento della destinazione d'uso - Esclusione - elementi compatibili con la possibile e legittima destinazione della soffitta a ripostiglio, guardaroba o simili.
Il ricorso è fondato per le ragioni che seguono.
Invero, in base al citato art. 24, comma 6, del regolamento edilizio comunale, nel sottotetto destinato a soffitta sono consentiti ripostigli, guardaroba o simili, come pertinenze dell’abitazione, senza che ciò comporti il mutamento della destinazione in abitazione “permanente”.
Trattandosi nella fattispecie di ufficio, la destinazione autorizzata era quella di archivio ad esso pertinenziale, essendo ovviamente esclusa la possibilità di un’estensione dell’ufficio ubicato al livello sottostante.
Ora, il provvedimento repressivo impugnato è dotato di un apparato motivazionale completo e sufficiente, posto che riporta i risultati del sopralluogo eseguito (il cui rapporto tecnico contiene una completa descrizione delle opere eseguite in difformità dal titolo ed è corredato da riproduzioni fotografiche che confermano le riportate conclusioni), le norme urbanistiche vigenti, gli esiti del contraddittorio procedimentale instaurato con la parte, lo specifico oggetto della contestazione e la qualificazione giuridica dell’abuso.
Ciò posto, il Collegio osserva che la semplice finitura con intonaco e tinteggiatura a civile, la pavimentazione in legno, la presenza di un controsoffitto e dell’impianto elettrico non integrano ex se il contestato abuso, in quanto detti elementi sono compatibili con la possibile e legittima destinazione del sottotetto ad archivio o deposito e non raggiungono, perciò, la soglia di rilevanza dell’avvenuto mutamento di destinazione d’uso.
La presenza, poi, di scaffali, tavoli con soprastanti plastici, scrivanie con sedie disposte in maniera non funzionale, scatoloni in cartone e materiale vario appare coerente con l’uso effettivo dei locali come archivio-deposito.
Inoltre, dalle fotografie scattate durante il sopralluogo e prodotte in giudizio dall’Amministrazione emerge che effettivamente i locali del sottotetto sono adibiti ad archivio-deposito e che appaiono assenti frazionamenti murari con la creazione di vani separati o arredi ed allestimenti idonei ad una fruizione permanente di tali locali come estensione dell’ufficio sottostante.
Dunque, poiché l'art. 24 del Regolamento edilizio comunale consente la fruizione pertinenziale dei locali accessori nei sottotetti di altezza inferiore a 2,20 ml., a tale stregua non pare integrare alcun autonomo abuso l’esistenza nei citati locali di impianti che ne consentano il suddetto utilizzo.
Il Collegio, infine, osserva che, se il Comune vuole evitare espedienti attraverso i quali possa realizzarsi un dissimulato ed abusivo mutamento della destinazione d’uso dei sottotetti, deve formulare norme urbanistiche chiare e tassative: ad esempio, deve prescrivere che nei sottotetti non abitabili non sono consentite opere civili come intonacatura, piastrellatura, parquet, impianti elettrici, idraulici, telefonici o citofonici, impianti satellitari, impianti di riscaldamento, etc..
Se, infatti, è consentita dalla normativa urbanistica comunale la destinazione dei sottotetti, con altezza inferiore a mt 2,20, a soffitta, ripostiglio, guardaroba, o simili, come pertinenze dell’abitazione (nella specie, dell’ufficio), e se addirittura le relative concessioni edilizie autorizzano il collegamento del sottotetto all’abitazione (nella specie, all’ufficio) sottostante con scala interna, appare incoerente poi sanzionare la presenza di impianti e finiture che, di per sé, non integrano il mutamento di destinazione d’uso di tali ambienti, essendo funzionali a quegli usi di migliore abitabilità ma non residenziali, che lo stesso comune ha autorizzato con le incongrue e perplesse norme edilizie sopra riportate (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 07.09.2011 n. 226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIInformative prefettizie.
Il TAR Calabria-Reggio Calabria, Sez. I, nella sentenza 21.06.2011 n. 518, ha affermato che: "Diversamente dall'informativa prefettizia tipica, che ha carattere interdittivo di ulteriori rapporti negoziali con le amministrazioni appaltanti, la c.d. informativa atipica non ha carattere di per sé interdittivo, ma consente l'attivazione degli ordinari strumenti di discrezionalità nel valutare l'avvio o il prosieguo dei rapporti contrattuali, alla luce dell'idoneità morale del partecipante alla gara di assumere la posizione di contraente con la Pubblica amministrazione".
Primariamente, i giudici amministrativi reggini evidenziano la diversità dell'informativa atipica, per quanto concerne gli effetti: mentre l'informativa tipica ha carattere interdittivo, nel senso che impedisce di diritto l'instaurazione di rapporti negoziali con l'impresa, attraverso il divieto di stipula del contratto, l'informativa atipica non presenta tale carattere, ma consente solo (e non è poco!) l'esercizio dei poteri discrezionali di intervento sui provvedimenti amministrativi posti in essere, sulla base, appunto, delle informazioni assunte.
Con l'informativa atipica non scatta alcun obbligo legale interdittivo, ma solo l'obbligo di valutare attentamente le notizie acquisite, al fine di decidere se il soggetto interessato presenta l'idoneità morale necessaria per iniziare o proseguire le prestazioni contrattuali. Proprio per tale sua caratteristica di non costituire un "legale impedimento", l'informativa atipica non necessita di un grado di comprovazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l'appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso. Infatti, osserva il Tar, si fonda su elementi, anche indiziari, (che la stazione appaltante non ha né il potere né l'onere di verificarne la portata o i presupposti) ottenuti con l'ausilio di particolari indagini, che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo.
E' stato osservato, in giurisprudenza, che l'informativa atipica consente alla stazione appaltante di adottare un provvedimento di diniego di stipula del contratto o di prosecuzione del rapporto contrattuale in corso, che potrà essere sufficientemente motivato anche per relationem, essendole riservato "un margine assai ristretto di valutazione discrezionale, mentre il dovere di ampia motivazione sussiste solo nel caso della scelta della prosecuzione del rapporto per inderogabili ed indeclinabili necessità della prestazione, non altrimenti assicurabile" (Tar Campania, sez. Napoli I, n. 16618/2010).
Fra l'altro, non deve essere dimenticato che il potere di indagine e di sindacato del giudice amministrativo è abbastanza limitato: "Le informative atipiche , in quanto atti meramente partecipativi di circostanze di fatto, non determinano un divieto legale a contrarre e non comportano, necessariamente ed inevitabilmente, l'adozione di provvedimenti pregiudizievoli per il privato, l'assunzione dei quali è rimessa alla discrezionalità della stazione appaltante; in questi casi, il sindacato del giudice amministrativo non può entrare nel merito restando circoscritto a verificare sotto il profilo della logicità il significato attribuito agli elementi di fatto e l'iter procedimentale seguito per pervenire a determinate conclusioni" (Tar Campania, sez. Salerno I, n. 11842/2010).
Proprio in ragioni di tali caratteristiche, la giurisprudenza si è, poi, interrogata anche sulla "compatibilità comunitaria" dell'istituto, pervenendo ad una positiva risposta, fondata sulla considerazione che le cause di esclusione dagli appalti, previste dal diritto comunitario, e puntualmente recepite dall'ordinamento interno non sono esaustive e tassative, potendo i Legislatori nazionali prevederne ulteriori, a salvaguardia di interessi pubblici generali, diversi da quello della tutela della concorrenza, e fondate su ragioni di ordine e sicurezza pubblica.
Alla luce delle considerazioni sin qui espresse, il Tar Reggio Calabria ritiene infondato il ricorso per tre precise ragioni. In primo luogo, si fa osservare che l'impresa ricorrente non ha impugnato né censurato il contenuto dell'informativa atipica, che il Comune ha assunto a necessario ed esclusivo presupposto motivazionale del provvedimento di revoca. In secondo luogo, si rileva che il ricorrente non ha evocato in giudizio la Prefettura di Reggio Calabria, che tale provvedimento ha emanato.
Inoltre, appare decisamente carente l'apparato motivazionale del ricorso, in quanto il medesimo si limita a contestare la circostanza della carenza di requisiti di ordine generale, senza avvedersi che, in realtà, l'Amministrazione si è uniformata al contenuto dell'informativa, rispetto alla quale non sono dedotte censure, rimanendo incontestati due puntuali ed inequivoci fatti: a) la sottoposizione del ricorrente ad indagini per i gravi reati contestatigli, aventi immediata e diretta incidenza sull'affidamento di appalti e, quindi, sulla capacità a contrarre con la Pubblica amministrazione; b) la rilevanza di tali circostanze in ordine all'efficacia propria delle informative antimafia atipiche (tratto dalla newsletter di www.centrostudimarangoni.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIConcessioni di servizi.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, nella sentenza 06.06.2011 n. 3377 ha affermato che: "Le concessioni di servizi, nel quadro del diritto comunitario, si distinguono dagli appalti, non per il titolo provvedimentale dell'attività, né per il fatto che ci si trovi di fronte ad una vicenda di trasferimento di pubblici poteri o di ampliamento della sfera giuridica del privato, né per la loro natura autoritativa o provvedimentale rispetto alla natura contrattuale dell'appalto, ma per l'assenza di un corrispettivo, a carico dell'amministrazione, e per la conseguente traslazione dell'alea inerente la prestazione a carico del soggetto privato".
Il Consiglio di Stato, nella sentenza in esame, principia la sua analisi dalla nozione codicistica di concessione di servizi, ponendo in evidenza che anche le direttive comunitarie n. 17 e n. 18 del 2004 definiscono la concessione di servizi come "un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo". Dunque, il prezzo, nella concessione di servizi è solo un elemento secondario ed eventuale, in quanto il tratto caratteristico è rappresentato dal diritto di gestire il servizio, da cui si traggono le primarie fonti di remunerazione.
In altri termini, nella concessione, il prezzo assume importanza per la sua assenza, nel senso che la mancanza, assoluta o tendenziale, di un prezzo, cioè di un corrispettivo, che dall'amministrazione viene erogato in favore dell'operatore economico contraddistingue la natura del rapporto. Inoltre, la concessione si distingue dall'appalto, allorquando l'operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, rifacendosi sostanzialmente sull'utente, mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto. Non esplica grande rilevo il titolo provvedimentale dell'attività, né il fatto che ci si trovi di fronte ad una vicenda di trasferimento di pubblici poteri o di ampliamento della sfera giuridica del privato, né la natura autoritativa o provvedimentale della concessione rispetto alla natura contrattuale dell'appalto.
Ciò che è fondamentale, ai fini della sussistenza di una concessione di servizi, è il fenomeno di traslazione dell'alea inerente una certa attività in capo al soggetto privato. Pertanto, ad avviso dei giudici amministrativi di appello, si avrà concessione quando l'operatore si assume in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull'utenza, mentre si avrà appalto quando l'onere del servizio stesso venga a gravare sostanzialmente sull'amministrazione.
Tale assunto, è stato più volte confermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia CE, la quale ha ribadito che si è in presenza di una concessione di servizi, allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest'ultimo assuma il rischio legato alla gestione dei servizi in questione (Corte Giustizia CE, Sez. III, 15.10.2009, C – 196/08). Viceversa, in caso di assenza di trasferimento al prestatore del rischio legato alla prestazione, si è in presenza di un appalto di servizi (Corte Giustizia CE, Sez. III, 10.09.2009, C – 206/08).
Sulla base di tali argomentazioni, il CdS ritiene che non vi è alcun dubbio che la gara per l'affidamento del servizio di tesoreria rientri nello schema della concessione di servizi. Infatti, l'assenza tendenziale del corrispettivo non implica che il concessionario non può trarre alcuna utilità economicamente apprezzabile dallo svolgimento del servizio, ma solo che il prezzo deve risultare assente quale primario elemento di connotazione (tratto dalla newsletter di www.centrostudimarangoni.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIRequisiti di ordine fiscale.
Il TAR Puglia-Lecce, Sez. III, nella sentenza 20.05.2011 n. 883, ha affermato che: "Alla luce della nuova normativa, introdotta dal Codice dei contratti pubblici (D.Lgs n. 163/2006), emerge che la violazione fiscale provoca l'esclusione dalla gara allorquando sia "definitivamente accertata", vale a dire sia divenuta incontestabile per decisione giurisdizionale o per intervenuta inoppugnabilità. Solo allora, infatti, l'inadempimento tributario è indicativo del mancato rispetto degli obblighi relativi al pagamento di imposte e tasse".
Il requisito della "regolarità fiscale" è stato interessato da un'importante modificazione, introdotta dal recente decreto legge n. 79/2011 ("decreto sviluppo) e confermata anche in sede di conversione in legge. Precisamente, il decreto sviluppo ha introdotto le seguenti modificazioni:
1) le violazioni in materia fiscale, ai fini dell'esclusione, devono essere gravi. E' stato aggiunto, quindi, l'aggettivo "grave" al testo della disposizione normativa;
2) il 2° comma del novellato articolo 38 stabilisce che si intendono gravi le violazioni che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse per un importo superiore all'importo di cui all'articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis, del d.P.R. 29.09.1973, n. 602. Attualmente, l'importo è pari ad € 10.000,00.
Nella recentissima sentenza del Tar Sardegna, sez. I, n. 519 del 26.05.2011, è stato già richiamato ed applicato il decreto sviluppo in tema di violazioni fiscali. Precisamente, il tribunale amministrativo ha evidenziato che la ratio della disposizione in esame è chiara e risponde all'esigenza di garantire l'amministrazione relativamente alla solvibilità e solidità finanziaria del soggetto con il quale contrarre e che tale norma è direttamente attuativa dell'articolo 45 della direttiva 2004/18, la quale è palesemente diretta ad appurare la sussistenza dei presupposti di generale solvibilità dell'eventuale futuro contraente della Pubblica amministrazione.
Secondo il Tar, dalla lettura delle due disposizioni normative (europea e nazionale) e della giurisprudenza correlata, si desume il principio che il giudizio, in ordine rispetto degli obblighi relativi al pagamento delle imposte, debba strutturarsi con un concreto accertamento della globale regolarità, sul piano tributario, dell'impresa partecipante alla gara e non, piuttosto, sul mero riscontro della sussistenza di singole e isolate omissioni.
Per sostenere la bontà di tale assunto, il Tar segnala che: "significativo, in materia, è l'orientamento del legislatore "correttivo" (de jure condendo), che recepisce proprio l'esigenza e l'orientamento di restringere le ipotesi di esclusione per la lettera "g" alle sole ipotesi "gravi" (cfr. art. 4, punto 1.5 del D.L. n. 70 del 13.05.2011 "Semestre Europeo, prime disposizioni urgenti per l'economia). In definitiva anche la valutazione dei requisiti di cui all'art. 38, lett. "g" (anteriormente alla modifica, poi intervenuta) deve essere comunque svolta alla stregua del canone della "ragionevolezza", tenendo presenti le finalità a cui la norma è preordinata.
Laddove si riscontrino delle situazioni di non grave consistenza, ovvero delle situazioni da cui emerga l'intento non elusivo delle regole (in tal senso deve essere interpretata la volontà di effettuare il pagamento dei tributi a fronte della concessa rateizzazione), spetta alla stazione appaltante un giudizio sulla meritevolezza del soggetto aspirante contraente. Ed il giudizio non può essere limitato al mero riscontro della sussistenza di pendenze tributarie contenute nei certificati". In merito a tale recentissima modificazione, occorre ricordare che, anche prima, si assisteva ad un dibattito, avente ad oggetto proprio la necessità che la stazione appaltante ponga in essere un'indagine volta ad accertare e valutare l'entità della violazione fiscale.
Infatti, accanto ad una giurisprudenza maggioritaria, che sosteneva, a fronte del tenore letterale della norma, l'insussistenza di tale potere (Il legislatore ha imposto, all'art. 38, lett. g), del d.lgs. n. 163/2006, quale requisito di partecipazione alle pubbliche gare d'appalto, l'assenza di qualsivoglia pendenza fiscale; tanto a prescindere dall'entità del debito e da ogni valutazione di gravità dell'inadempienza, ciò a differenza del parallelo requisito dell'assenza di pregiudizi penali per i quali la legge utilizza il termine gravi reati
" (Tar Piemonte, sez. I, n. 3129/2010; CdS, sez. V, n. 6325/2009), si era sviluppato un diverso indirizzo.
Precisamente, si affermava che "La presenza di violazioni, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse secondo la legislazione italiana, non integra una fattispecie di esclusione automatica dell'impresa concorrente che le ha commesse, a prescindere dalla loro valutazione in concreto" (Tar Lombardia, sez. Brescia II, n. 2305/2010). Il contrasto, quindi, è stato risolto nel segno dell'attribuzione alla stazione appaltante di un potere valutativo, attraverso l'aggiunta "gravi", eliminando ogni ipotesi di esclusione automatica (tratto dalla newsletter di www.centrostudimarangoni.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi sell'art. 31, comma 1, lett. d), della legge 05.08.1978, n. 457, il concetto di ristrutturazione edilizia comprende anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, purché tale ricostruzione assicuri la piena conformità di sagoma, di volume e di superficie tra il vecchio ed il nuovo manufatto e venga, comunque, effettuata in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della demolizione.
Per effetto, poi, della normativa introdotta dall'art. 1 del D.Lgs. 27.12.2002, n. 301, il vincolo della fedele ricostruzione è venuto meno, così estendendosi ulteriormente il concetto della ristrutturazione edilizia, che, per quanto riguarda gli interventi di ricostruzione e demolizione ad essa riconducibili, resta distinta dall'intervento di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione corrisponda, quanto meno nel volume e nella sagoma, al fabbricato demolito.
Ciò che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente"), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" -termine espunto dall'attuale disciplina-, comunque, rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
L’intervento edilizio che si caratterizza per il sostanziale mantenimento delle caratteristiche d’ingombro del fabbricato, con l’unica differenza di sagoma dovuta alla trasformazione della copertura (che da “a doppia falda inclinata” passa a “piana”) che avviene mediante l’abbassamento della quota del colmo, con conseguente riduzione della volumetria che passa da mc. 123,41 della originaria legnaia a mc. 94,80, è da ascriversi nella fattispecie della ristrutturazione edilizia.

Sotto un profilo d’ordine generale va osservato quanto segue (cfr. Cons. St., Sez. IV, 09.07.2010 n. 4462).
L'art. 31, comma 1, lett. d), della legge 05.08.1978, n. 457 definiva lavori di ristrutturazione edilizia "quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi impianti".
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha ripetutamente chiarito che, ai sensi della norma avanti citata, il concetto di ristrutturazione edilizia comprende anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, purché tale ricostruzione assicuri la piena conformità di sagoma, di volume e di superficie tra il vecchio ed il nuovo manufatto e venga, comunque, effettuata in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della demolizione (si veda, fra le tante, Cons. St., Sez. sez. V, 03.04.2000, n. 1906 ).
È poi intervenuto, a definire siffatto intervento edilizio, l'art. 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, che, nel testo originario, menzionava il criterio della "fedele ricostruzione" come indice tipico della tipologia di ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione.
Per effetto, poi, della normativa introdotta dall'art. 1 del D.Lgs. 27.12.2002, n. 301, il vincolo della fedele ricostruzione è venuto meno, così estendendosi ulteriormente il concetto della ristrutturazione edilizia, che, per quanto riguarda gli interventi di ricostruzione e demolizione ad essa riconducibili, resta distinta dall'intervento di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione corrisponda, quanto meno nel volume e nella sagoma, al fabbricato demolito (Cons. St., Sez. IV, 28.07.2005 n. 4011; Cons. St., Sez. V, 30.08.2006 n. 5061).
In particolare, la giurisprudenza (cfr. Cons. St., Sez. VI, 16.12.2008 n. 6214; Sez. IV, 16.06.2008 n. 2981; Sez. V, 04.03.2008 n. 918; Sez. IV, 26.02.2008 n. 681) ha sottolineato che ciò che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente"), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" -termine espunto dall'attuale disciplina-, comunque, rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
Infine, va precisato il differente regime cui sono soggetti gli interventi di ristrutturazione edilizia rispetto alle nuove costruzioni: ove la ristrutturazione mantenga inalterati i parametri urbanistici ed edilizi preesistenti, l’intervento non è subordinato al rispetto dei vincoli posti dagli strumenti urbanistici sopravvenuti, giacché la legittimazione urbanistica del manufatto da demolire si trasferisce su quello ricostruito (cfr. TAR Milano, Sez. 2°, 07.09.2010 n. 5122, Cons. St, Sez. V, 14.11.1996 n. 1359; Cons. St., Sez. V, 28.03.1998 n. 369; Cass. civ., sez. II, 12.06.2001 n. 7909; Tar Calabria, Reggio Calabria, 24.01.2001 n. 36; Puglia, Bari, sez. III, 22.07.2004 n. 3210).
L’intervento qui in contestazione si caratterizza per il sostanziale mantenimento delle caratteristiche d’ingombro del fabbricato, con l’unica differenza di sagoma dovuta alla trasformazione della copertura (che da “a doppia falda inclinata” passa a “piana”) che avviene mediante l’abbassamento della quota del colmo, con conseguente riduzione della volumetria che passa da mc. 123,41 della originaria legnaia a mc. 94,80.
In tale contesto, pare al Collegio di poter affermare che la riduzione suddetta non escluda ma anzi confermi l’ascrizione della fattispecie all’ipotesi normativa della ristrutturazione (in tal senso si veda, operando a contrario quanto rilevato da Cons. St., Sez. VI, 15.06.2010 n. 3744, ove si è affermato che la nozione di ristrutturazione presuppone, come condizioni essenziali per distinguerla dall'intervento di nuova costruzione, che la ricostruzione non comporti alterazione in aumento di volumetria o di altezza). Qui invece c’è riduzione sia di volumetria che di altezza (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 09.02.2011 n. 239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 06.10.2011

ã

UTILITA'

AMBIENTE-ECOLOGIA: Lombardia, indicazioni pratiche per i controlli sui tagli dei boschi da parte delle GEV.
Le Guardie Ecologiche Volontarie (GEV) sono competenti, in base all’art. 61 della l.r. 31/2008, ad effettuare la vigilanza e l’accertamento delle violazioni relative ai danni alle superfici forestali.
Il r.r. 5/2007 “Norme Forestali Regionali” obbliga gli enti forestali a svolgere annualmente controlli su almeno il 2% dei circa 23 mila permessi di taglio concessi annualmente in Lombardia. A tal fine, la collaborazione fra uffici boschi di parchi, comunità montane e province e GEV è fondamentale.
Purtroppo, spesso molte guardie ecologiche non dispongono delle necessarie informazioni pratiche per effettuare i controlli nel settore forestale
La presente pubblicazione mira proprio a fornire alcuni consigli pratici sui controlli dei tagli colturali del bosco e a costituire, in ogni gruppo di GEV, un nucleo di alcune guardie preparate sul settore forestale (link a www.sistemiverdi.regione.lombardia.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

LAVORI PUBBLICI: C. Rapicavoli, L’ammissibilità del ricorso al leasing immobiliare per la realizzazione di opere pubbliche da parte degli enti locali - Corte dei Conti - Sezioni riunite di controllo n. 49/2011 del 16.09.2011 (link a www.ambientediritto.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI: Più flessibilità sulle entrate a cassa vincolata. Una sentenza della Corte dei Conti.
Il recente parere 03.08.2011 n. 91 della sezione di controllo della Corte dei conti dell'Abruzzo affronta il tema del limite massimo di utilizzo per cassa delle entrate aventi specifica destinazione. Le somme vincolate sono risorse (derivanti da indebitamento o da trasferimenti finalizzati di altri enti pubblici) alle quali, per evitare lo sviamento dalle loro finalità, la legge imprime, oltre a un vincolo di bilancio, anche un vincolo di cassa.
L'articolo 195 del Tuel prevede, in via eccezionale, un loro uso per fronteggiare carenze di liquidità secondo regole speculari a quelle dell'anticipazione di tesoreria. In generale, perciò, il limite dell'articolo 222 del Tuel (3/12 delle entrate accertate nel penultimo esercizio) è unico e abbraccia sia l'anticipazione sia le vincolate.
Richiamando le circolari del ministero dell'Interno 15 e 18 del 1997 sulla tesoreria unica, un Comune in crisi di liquidità e prossimo al limite massimo di utilizzo dell'anticipazione di tesoreria, ha chiesto alla Corte se sia lecito utilizzare, per pagamenti correnti, le somme vincolate giacenti presso il tesorerie, anche oltre i 3/12, ma nel limite dei trasferimenti erariali vantati dall'ente e non riscossi.
Si precisa che il saldo delle vincolate consiste, secondo un meccanismo di pura tesoreria, nella differenza fra l'importo di reversali e mandati vincolati e giacenza effettiva di cassa, indipendentemente dall'imputazione dei fondi in tesoreria unica. La Corte abruzzese, precisando che il tema è quello del limite d'utilizzo per cassa delle entrate vincolate (e non di quello dell'anticipazione di tesoreria), dopo la ricostruzione dell'istituto, afferma che, nel caso vi sia una giacenza vincolata tale da non permettere, a causa dei meccanismi della tesoreria unica, l'accesso ai trasferimenti erariali, è possibile attingere alle somme vincolate oltre il limite dei 3/12, per un importo pari ai trasferimenti non riscossi.
La Corte così conferma il contenuto delle circolari 15 e 18 del 1997 che, diversamente, potrebbe sembrare in contrasto con il tenore letterale dell'articolo 195 del Tuel.
Nonostante le aperture della Corte, tuttavia, va raccomandata comunque prudenza nell'utilizzo per cassa delle somme vincolate. La loro gestione è fondamentale negli enti in crisi di liquidità, poiché il superamento dei 3/12 può provocare l'insolvenza. In caso di necessità di pagamento della spesa vincolata, infatti, non sarebbe possibile neanche il ricorso alla già consumata anticipazione di tesoreria.
L'esame del conto delle vincolate correttamente tenuto, inoltre, consente un check up immediato e affidabile della salute delle finanze pubbliche. Dall'incapacità di reintegro dei vincoli, infatti, si può dedurre l'inattendibilità del rendiconto dovuta all'inesigibilità di residui attivi di parte corrente che vanno a inficiare la veridicità del risultato di amministrazione. Un'analisi di questo tipo è in grado di prevenire crisi di liquidità, poiché può evidenziare l'incoerenza fra i dati di competenza e di cassa, alla stregua di quanto ricavabile da un costante ricorso all'anticipazione del tesoriere (articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

VARIMulte, ricorsi subito. Ridotto a trenta giorni il termine. Circolare Viminale sulle violazioni del codice stradale.
Per tutte le infrazioni stradali accertate dal 6 ottobre il trasgressore avrà a disposizione solo 30 giorni per proporre ricorso al giudice di pace mentre resta invariato il termine per avanzare alternativamente lagnanze alla prefettura.
Lo ha chiarito il Ministero dell'Interno con la nota 30.09.2011 n. 300/A/7799/11/101/3/3/9.
Il decreto legislativo 01.09.2011, n. 150, in vigore dal 6 ottobre, ha effettuato una semplificazione dei procedimenti civili di cognizione regolati dalla legislazione speciale riducendo ai tre modelli principali tutte le singole fattispecie.
Per quanto riguarda il ricorso contro le multe al giudice di pace non sono tante le modifiche. A parte il dimezzamento dei termini per proporre censure che scendono a 30 giorni. Per il resto eccetto il richiamo al rito del lavoro, «ove non diversamente stabilito», una delle novità favorevoli alla linea difensiva è riscontrabile nel nono comma del nuovo art. 7 del dlgs. Se l'opponente o il suo difensore non si presentano all'udienza senza giustificati motivi il giudice convaliderà la multa «salvo che la illegittimità del provvedimento risulti dalla documentazione allegata dall'opponente, ovvero l'autorità che ha emesso il provvedimento impugnato abbia omesso il deposito dei documenti». In buona sostanza si apre la possibilità di ottenere vittoria anche solo sulla base della negligenza della pubblica amministrazione che non ha depositato gli atti oppure, come di consueto, se la vicenda è palesemente a favore del trasgressore.
Novità anche sul fronte della sospensione dell'efficacia del provvedimento impugnato dove la novella evidenzia l'intenzione del legislatore per una maggior severità nella concessione del beneficio. Con la nota in commento il ministero si riserva di evidenziare meglio questi dettagli operativi della riforma puntando immediatamente l'attenzione alla riduzione dei termini per proporre ricorso al giudice di pace.
Specifica infatti la circolare del 30 settembre che per tutte le violazioni accertate da giovedì prossimo, 6 ottobre, «le modalità di proposizione del ricorso al giudice di pace, ex art. 204-bis cds, dovranno essere notificate alla luce della novella normativa, indicando il termine di 30 giorni, anziché gli attuali 60 giorni». Restano salve solo le multe accertate prima del 6 ottobre e non ancora notificate per le quali continuerà a valere il vecchio termine (articolo ItaliaOggi del 04.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATAIstruzioni per bolli e diritti, ma il Suap parte al ralenti. Circolare sui pagamenti e sullo sportello unico attività produttive.
Arrivano le modalità tecniche per i pagamenti di bolli e diritti relativi ai procedimenti presentati al Suap, ma lo sportello unico parte, comunque, al rallentatore. Insomma, l'01.10.2011 che doveva rappresentare la data della grande svolta della informatizzazione della pubblica amministrazione, perché i procedimenti relativi alle attività economiche dovevano svolgersi esclusivamente online, è passato senza particolari trambusti. Anche perché è intervenuta, nel frattempo, la nota 28.09.2011 n. 1431 di prot., a firma congiunta degli uffici legislativi del ministero dello sviluppo economico e della presidenza del consiglio dei ministri, con la quale sono fornite a tutti gli enti interessati e all'Anci in primis, le indicazioni operative.
Il rinvio, del resto, era scontato, anche perché la legge 12.07.2011 n. 106, di conversione del dl 70 aveva già anticipato che «Con decreto del ministro dello sviluppo economico e del ministro per la semplificazione normativa, sentito il ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, sono individuate le eventuali misure che risultino indispensabili per attuare, sul territorio nazionale, lo sportello unico e per garantire, nelle more della sua attuazione, la continuità della funzione amministrativa, anche attraverso parziali e limitate deroghe alla relativa disciplina
Per il resto, la circolare anticipa quelli che saranno i contenuti del decreto attualmente all'esame della Conferenza unificata, anche se –è la stessa circolare a puntualizzarlo– la sua entrata in vigore non potrà che essere successiva all'abrogazione del dpr 447/1998 che fino al 30 settembre aveva disciplinato alcune tipologie di procedimento per i Suap già operativi. Lo Sportello unico disciplinato dal dpr 160/2010 che in attuazione delle disposizioni emanate dal Parlamento a favore dell'«impresa in un giorno» prevede essere l'unico interlocutore al quale il prestatore è tenuto a rivolgersi, stenta, quindi, a decollare, anche se la suddetta circolare del 28 settembre scioglie alcune delle più complesse problematiche relative ai procedimenti telematici. Tra le diverse questioni, infatti, che il decreto sarà chiamato a risolvere, sono i pagamenti.
È stato previsto che il soggetto interessato provvede, qualora il Suap non disponga dell'autorizzazione che consente il pagamento dell'imposta di bollo in modo virtuale, a inserire nella domanda i numeri identificativi delle marche da bollo utilizzate, nonché ad annullare le stesse, conservandone gli originali. Il decreto, inoltre, intende valorizzare l'esperienza del portale www.impresainungiorno.gov.it che già oggi contiene tutte le informazioni relative allo sportello unico, compreso l'elenco dei Suap che sono stati fino ad ora accreditati.
È prevista, infatti, l'individuazione di un metodo condiviso con le amministrazioni competenti, al fine di validare la modulistica di riferimento per ogni procedimento. Tale modulistica sarà utilizzata, si precisa, da tutti i soggetti interessati, qualora lo Suap dovesse risultarne sprovvisto (articolo ItaliaOggi del 04.10.2011).

ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/ Nel caso si intenda procedere alla risoluzione di un contratto di formazione e lavoro prima della sua scadenza, qual è il termine di preavviso?
Come deve calcolarsi la relativa indennità sostitutiva?
(parere 06.06.2011 n. RAL-412 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/ Il dipendente assente per malattia ha un vero e proprio diritto soggettivo all’ulteriore periodo di assenza previsto dall’art. 21, comma 2, del CCNL del 06.07.1995?
In caso negativo, quand’è che l’amministrazione può legittimamente rifiutarglielo?
(parere 06.06.2011 n. RAL-411 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/ Se dall’accertamento medico effettuato ai sensi dell’art. 21 del CCNL del 06.07.1995 risulta che il dipendente può permanentemente svolgere solo in modo parziale le mansioni del proprio profilo è corretto mantenerlo in servizio? (parere 06.06.2011 n. RAL-410 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/ Al fine della risoluzione del rapporto di lavoro conseguente all’applicazione dell’art. 21, commi 4 e 4-bis, del CCNL del 06.07.1995 e successive modifiche, è necessario attendere in ogni caso il superamento del periodo di comporto? (parere 06.06.2011 n. RAL-409 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/ Che significato deve essere attribuito all’espressione “l’Ente può procedere alla risoluzione del rapporto, corrispondendo al dipendente l’indennità sostitutiva del preavviso” contenuta nell’art. 12 del CCNL del 05/10/2001? (parere 06.06.2011 n. RAL-408 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/ Si può risolvere il rapporto di lavoro di un dipendente dichiarato inidoneo alle proprie mansioni, in mancanza di altri posti vacanti di altri profili? (parere 06.06.2011 n. RAL-407 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/ Il dipendente dimissionario che fruisce di una pensione di anzianità, può presentare domanda per la ricostituzione del rapporto di lavoro (ai sensi dell’art. 26 del CCNL del 14.09.2000) dopo il raggiungimento dei 65 anni? (parere 06.06.2011 n. RAL-406 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/ E’ possibile avere qualche chiarimento sulla disciplina applicabile alle dimissioni presentate dalla lavoratrice durante il periodo in cui è previsto il divieto di licenziamento ai sensi dell’art. 54 del D.Lgs. 151/2001? (parere 06.06.2011 n. RAL-405 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/ Un dipendente che abbia rassegnato le dimissioni con effetto dall’01.01.2001 può anticipare la risoluzione del rapporto all’01.09.2000? (parere 06.06.2011 n. RAL-404 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/ In caso di pagamento dell’indennità sostituiva del preavviso, da quando si verifica l’effetto risolutivo del rapporto? (parere 06.06.2011 n. RAL-403 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO/ E’ possibile revocare le dimissioni ?
In caso positivo, per il periodo intercorrente tra la cessazione del rapporto e la ripresa del servizio qual è il trattamento economico da corrispondere al dipendente?
(parere 06.06.2011 n. RAL-402 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: NORME DISCIPLINARI/ Un dipendente, sospeso dal servizio perché rinviato a giudizio, sta prestando la propria attività di lavoro dipendente a favore di terzi.
È dovuto l'assegno alimentare, e con quali modalità, devono essere ripetute le somme corrisposte a tale titolo nel caso in cui il dipendente sia sottoposto a condanna passata in giudicato?
(parere 05.06.2011 n. RAL-667 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: NORME DISCIPLINARI/ E’ possibile per il datore di lavoro pubblico applicare la sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione anche nel caso in cui il dipendente sia in malattia nel momento in cui gli deve essere eseguita la sanzione stessa, senza dovere attendere la cessazione dello stato morboso? (parere 05.06.2011 n. RAL-666 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: NORME DISCIPLINARI/ La cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni volontarie estingue il procedimento disciplinare? (parere 05.06.2011 n. RAL-665 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: NORME DISCIPLINARI/ Quali sono gli effetti della sentenza con la quale il TAR ha annullato un provvedimento di destituzione dall’impiego?
In particolare, il periodo intercorso tra la destituzione e la riammissione in servizio è utile ai fini della maturazione delle ferie e ai fini della progressione economica all’interno della categoria?
(parere 05.06.2011 n. RAL-664 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Nella espressione 'compensi Istat' sono da ricomprendere anche quelli relativi ai censimenti?
Tali compensi possono essere corrisposti anche ai titolari delle posizioni organizzative?
(parere 05.06.2011 n. RAL-639 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Quali sono gli adempimenti per l’attribuzione al personale incaricato di posizione organizzativa di prestazioni straordinarie elettorali e compensi ISTAT?
Gli enti possono farsi carico delle relative risorse?
(parere 05.06.2011 n. RAL-638 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Quali sono i criteri guida per la disciplina dei compensi ai professionisti?
Le relative risorse devono intendersi al netto o al lordo degli oneri riflessi?
(parere 05.06.2011 n. RAL-637 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Il compenso spettante al segretario di una commissione può essere corrisposto anche al responsabile di posizione organizzativa? (parere 05.06.2011 n. RAL-636 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ E’ possibile avere chiarimenti sull’applicazione dell’art. 8 del CCNL del 05.10.2001 che consente di integrare la retribuzione di risultato del personale dell’area delle posizioni organizzative?
In particolare, quali sono, se ci sono, i momenti di confronto con le OO.SS.? Da quando è efficace il citato art. 8?
(parere 05.06.2011 n. RAL-635 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ I compensi per recupero evasione ICI possono essere corrisposti al personale incaricato delle posizioni organizzative anche con decorrenza dal gennaio 2000? (parere 05.06.2011 n. RAL-634 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Sono compatibili con la retribuzione di posizione i compensi per "recupero evasione fiscale"? (parere 05.06.2011 n. RAL-633 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ La disciplina per il pagamento dei compensi per straordinario elettorale, di cui all'art. 39 del CCNL del 14.09.2000, ha decorrenza retroattiva? (parere 05.06.2011 n. RAL-632 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Il Comandante della Polizia Municipale, titolare di posizione organizzativa, che coordina un progetto intercomunale, può partecipare alla distribuzione delle risorse specificamente destinate al progetto? (parere 05.06.2011 n. RAL-631 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ L'indennità di vigilanza per gli incaricati delle posizioni organizzative di cui all'art. 35 del CCNL del 14.09.2000 ha effetto retroattivo? (parere 05.06.2011 n. RAL-630 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Quali compensi possono essere corrisposti al responsabile dell’area della vigilanza (incaricato di posizione organizzativa) oltre alla retribuzione di posizione? (parere 05.06.2011 n. RAL-629 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ E’ possibile che un ente stabilisca di remunerare le attività svolte dai responsabili di posizione organizzativa nell’ambito di un progetto finalizzato attraverso l’istituzione di un apposito compenso denominato “indennità di pronta disponibilità”? (parere 05.06.2011 n. RAL-628 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Quali sono i compensi aggiuntivi spettanti al personale incaricato di posizione organizzativa, oltre alla retribuzione di posizione e alla retribuzione di risultato? (parere 05.06.2011 n. RAL-627 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ L’art. B10 del CCNL del 22.01.2004 prevede che l’importo della retribuzione di posizione per le alte professionalità varia da un minimo di € 5.160,66 ad un massimo di € 16.000,00; si chiede di sapere se ai funzionari che già godevano di detta indennità nella misura massima di £. 25.000.000 (oggi € 12.911,42), sia automaticamente attribuibile l’indennità di € 16.000,00, con la medesima decorrenza contrattuale dei benefici economici (01.01.2002) (parere 05.06.2011 n. RAL-626 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Responsabile di posizione organizzativa in distacco sindacale: quali effetti produce, sul suo trattamento economico, la rideterminazione dei valori delle retribuzioni di posizione di cui all’art. 10 del CCNL sul sistema di classificazione del 31.03.1999? (parere 05.06.2011 n. RAL-625 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ La retribuzione di posizione deve essere corrisposta per tredici mensilità?
Il valore annuo della retribuzione di posizione ricomprende anche la 13^ mensilità e quindi deve essere diviso, e corrisposto, per 13 mesi, secondo la chiara previsione dell'art. 11 del CCNL del 31.03.1999
(parere 05.06.2011 n. RAL-624 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ La retribuzione di posizione è utile per la determinazione del trattamento di pensione e dell’indennità di buonuscita?
In relazione al quesito formulato, possiamo segnalare che l'INPDAP, con la recente circolare n. 51 del 28.11.2000, ha specificato che la retribuzione di posizione di cui all'art. 10 e 11 del CCNL dell'01.04.1999, è utile ai fini del trattamento di pensione (quota A) mentre non è interamente utile per la determinazione della indennità premio di fine servizio (buonuscita) se non nella misura di L. 1.500.000, che corrisponde alla precedente indennità del personale di ottava qualifica
(parere 05.06.2011 n. RAL-623 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Il valore minimo della retribuzione di risultato (10%) deve essere comunque riconosciuto al responsabile della posizione organizzativa? (parere 05.06.2011 n. RAL-622 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ L’art. 10, comma 1, del CCNL del 31.03.1999 prevede che il trattamento economico accessorio del personale incaricato di una delle posizioni di cui agli artt. 8 e ss. sia costituito unicamente dalla retribuzione di posizione e dalla retribuzione di risultato disciplinate nello stesso art. 10. Come devono essere remunerate le prestazioni di lavoro straordinario? (parere 05.06.2011 n. RAL-620 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Il dipendente incaricato di una delle posizioni di cui agli artt. 8 e ss. del CCNL del 31.03.1999 perde la possibilità di effettuare passaggi all’interno della categoria per effetto di progressione economica? (parere 05.06.2011 n. RAL-619 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ All’incaricato di posizione organizzativa deve essere mantenuta la quota di LED attribuita o deve essere riassorbita nella retribuzione di posizione? (parere 05.06.2011 n. RAL-618 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Qual è il personale cui va corrisposta l’indennità di direzione e staff di cui all’art. 37, comma 4, CCNL 06/07/1995 di £. 1.500.000? (parere 05.06.2011 n. RAL-617 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Se un ente adotta un orario di lavoro articolato su 38 ore settimanali su sei giorni per tre settimane e 30 ore settimanali su cinque giorni per la quarta settimana, è possibile che anche il responsabile di posizione organizzativa fruisca, nella quarta settimana e con libera scelta del giorno, del previsto “riposo compensativo”? (parere 05.06.2011 n. RAL-616 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ L’orientamento dell’ARAN a riconoscere il riposo compensativo al personale incaricato di posizione organizzativa nel caso di attività prestata in giorno di riposo settimanale può essere intesa anche al caso di prestazione lavorativa di sabato? (parere 05.06.2011 n. RAL-615 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Le prestazioni lavorative rese da personale incaricato di una delle posizioni organizzative di cui agli artt. 8 e ss. del CCNL del 31.03.1999 in giornata domenicale o festiva infrasettimanale danno diritto a compensi aggiuntivi e/o al recupero della giornata di riposo? (parere 05.06.2011 n. RAL-614 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Il dipendente incaricato di una posizione organizzativa può gestire il proprio orario di lavoro in modo flessibile, come i dirigenti, o è tenuto a rispettare le regole stabilite per tutti i dipendenti? In particolare, per posticipare il suo orario d’entrata deve farsi autorizzare? (parere 05.06.2011 n. RAL-613 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ E’ possibile estendere la disciplina in materia di orario di lavoro dei dirigenti al personale incaricato di posizione organizzativa? (parere 05.06.2011 n. RAL-612 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Il dipendente in aspettativa per dottorato di ricerca con rinuncia alla borsa di studio ha diritto, ai sensi dell'art. 52, comma 57, della L. n. 448/2001, alla conservazione della retribuzione di posizione e di risultato in godimento?
Anche in caso di scadenza dell'incarico di posizione organizzativa durante il periodo di aspettativa o in caso di successive modifiche organizzative?
Se sì, è possibile frazionare in più periodi l'aspettativa in modo da garantire, almeno in parte, l'effettivo espletamento dei compiti ai quali è collegata la retribuzione di posizione e di risultato?
(parere 05.06.2011 n. RAL-611 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ La retribuzione di risultato prevista dall’art. 10 del CCNL del 31.03.1999 spetta anche per i periodi di congedo parentale?
In caso affermativo, deve essere liquidata sulla base della retribuzione di posizione teoricamente spettante o sulla base di quella effettivamente corrisposta?
(parere 05.06.2011 n. RAL-610 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ La dipendente in congedo di maternità ha diritto alla retribuzione di posizione di cui all’art. 10 del CCNL del 31.03.1999 per tutta la durata del congedo anche se l’incarico di posizione organizzativa scade all’interno di tale periodo? (parere 05.06.2011 n. RAL-609 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Alla dipendente incaricata di posizione organizzativa deve essere corrisposta la retribuzione di posizione durante i periodo di astensione facoltativa e di assenza per malattia del figlio? (parere 05.06.2011 n. RAL-608 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Al personale incaricato di posizione organizzativa si può applicare la disciplina dei permessi brevi di cui all’art. 20 CCNL 06/07/1995? Si può disciplinare la presenza in servizio oltre le 36 ore settimanali? (parere 05.06.2011 n. RAL-607 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ La retribuzione di posizione prevista dall’art. 10, comma 1, del CCNL del 31.03.1999 spetta anche in caso di assenza prolungata? (parere 05.06.2011 n. RAL-606 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Nei comuni privi di qualifiche dirigenziali che rapporto c'è tra le posizioni di responsabilità di uffici e servizi e le posizioni organizzative?
Esiste un obbligo alla corresponsione della retribuzione di posizione e di risultato?
(parere 05.06.2011 n. RAL-606 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Qual è il trattamento economico da riconoscere al responsabile di posizione organizzativa che sostituisca nelle funzioni (con incarico ad interim) una collega assente per congedo di maternità (anche lei responsabile di posizione organizzativa)? (parere 05.06.2011 n. RAL-605 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Come bisogna comportarsi per la sostituzione dell'incaricato di posizione organizzativa? (parere 05.06.2011 n. RAL-604 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Gli incarichi delle posizioni organizzative possono essere affidate, nei comuni di cui all’art. 11 del ccnl del 31.03.1999, al personale della categoria C anche nel caso in cui l’ente abbia uno o più posti della categoria D? (parere 05.06.2011 n. RAL-603 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Il regolamento di un comune privo di dirigenza prevede la istituzione dei Settori, come strutture apicali; lo stesso regolamento consente che le funzioni dirigenziali ex art. 107 del TUEL possono essere attribuite solo ad alcuni capi-settore, i settori con responsabile privo di funzioni dirigenziali è inserito funzionalmente in altro settore al cui responsabile sono attribuite le funzioni gestionali dirigenziali.
Secondo l’art. 15 del CCNL 22.01.2004 la posizione organizzativa deve essere riconosciuta a tutti i capi-settore, con relativa attribuzione della retribuzione e del risultato?
(parere 05.06.2011 n. RAL-602 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Ente privo di posizioni di qualifica dirigenziale che abbia applicato la disciplina dell’area della posizioni organizzative ai responsabili dei servizi ai sensi dell’art. 11, comma 1, del CCNL del 31.03.1999: in caso di assenza per malattia di lunga durata, è possibile revocare l’incarico di posizione organizzativa al responsabile di servizio? (parere 05.06.2011 n. RAL-601 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ E’ possibile attribuire funzioni di rappresentanza dell’ente o incarichi di posizione organizzativa a soggetti con incarico di collaborazione? (parere 05.06.2011 n. RAL-600 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ E’ possibile attribuire incarichi di posizione organizzativa, con i corrispondenti trattamenti economici, con effetto retroattivo? (parere 05.06.2011 n. RAL-300 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Il dipendente può rifiutare l’incarico di posizione organizzativa che l’ente abbia deciso di conferirgli? (parere 05.06.2011 n. RAL-299 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Qual’è, all’interno dell’ente, il soggetto competente per il conferimento degli incarichi di posizione organizzativa? (parere 05.06.2011 n. RAL-298 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ In un comune privo di figure dirigenziali è stato istituito un apposito “fondo” (distinto dalle risorse dell’art. 15 del CCNL del 01.04.1999) per corrispondere la retribuzione di posizione e di risultato dei responsabili dei servizi nominati dal Sindaco. Si formulano i seguenti quesiti:
1) le risorse corrispondenti allo 0,20% del monte salari dell’anno 2001, destinate a remunerare gli incarichi delle alte professionalità (art. 32, comma 7, e art. 10, comma 5, del CCNL del 22.01.2004) devono essere inserite tra le risorse decentrate stabili (art. 31, comma 2 del CCNL 22.01.2004) oppure tra quelle del “fondo” della retribuzione di posizione e di risultato delle P.O.?
2) l’incremento delle predette risorse decorre dell’anno in cui viene istituita la posizione di alta professionalità o si devono calcolare comunque a partire dall’anno 2003?
3) Se non si intende istituire una posizione di alta professionalità, si deve comunque integrare il “fondo” dello 0,20% del monte salari 2001?
(parere 05.06.2011 n. RAL-297 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ E’ possibile, in un Comune privo di dirigenza, utilizzare le risorse destinate al fondo di produttività per il finanziamento della retribuzione di posizione e risultato dei responsabili di servizio? (parere 05.06.2011 n. RAL-296 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Alcune precisazioni circa il finanziamento, la quantificazione e la corresponsione dell’indennità di risultato solo negli enti con dirigenza (parere 05.06.2011 n. RAL-295 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Le risorse necessarie per il pagamento della retribuzione di posizione e di risultato ai responsabili degli uffici e dei servizi, nei Comuni destinatari dell’art. 11 del CCNL del 31.03.1999, sono interamente a carico del bilancio dell’ente? (parere 05.06.2011 n. RAL-294 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Quali sono gli strumenti e le procedure da attivare per la definizione dell’area delle posizioni organizzative? (parere 05.06.2011 n. RAL-293 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ L’ente è obbligato ad applicare la disciplina degli artt. 8 e seguenti del CCNL del 31.03.1999 sulle posizioni organizzative?
Possono essere stabiliti valori diversi da quelli contrattuali per la retribuzione di posizione?
(parere 05.06.2011 n. RAL-292 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Il riproporzionamento dell’indennità di posizione e di risultato per le posizioni organizzative a tempo parziale ha valenza retroattiva? (parere 05.06.2011 n. RAL-291 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ In un ente con dirigenza è possibile il conferimento di un incarico di P.O. ad un dipendente con rapporto di lavoro a tempo parziale? (parere 05.06.2011 n. RAL-290 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Il responsabile di una posizione organizzativa può delegare ad altri dipendenti le relative funzioni? (parere 05.06.2011 n. RAL-289 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Ad un dipendente inquadrato in categoria D, con incarico di P.O. ai sensi della lett. a), dell’art. 8 del CCNL 31.03.1999, può essere attribuito anche un incarico di alta professionalità, ai sensi dell’art. 10, comma 2, lett. a), del CCNL del 22.01.2004, elevando la retribuzione di posizione a 16.000 euro? (parere 05.06.2011 n. RAL-288 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ Il principio relativo alla adozione degli atti di diritto comune per la valorizzazione delle alte professionalità, di competenza dei dirigenti, trova applicazione anche con riferimento agli adempimenti per la applicazione della disciplina delle PO di cui alla lettera a) dell’art. 8, del CCNL 31.03.1999? (parere 05.06.2011 n. RAL-287 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ La disciplina delle posizioni organizzative non attinenti alla direzione di struttura, di cui all’art. 8, comma 1, lett. b) e c.), del ccnl del 31.03.1999, continua ad applicarsi anche dopo l’introduzione delle alte professionalità di cui all’art. 10 del ccnl del 22.01.2004? (parere 05.06.2011 n. RAL-286 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: SISTEMA DI CLASSIFICAZIONE/ POSIZIONI ORGANIZZATIVE/ L’art. 8, comma 1, del CCNL del 31.03.1999 prevede che gli enti istituiscono posizioni di lavoro caratterizzate da 'assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato'.
Come deve intendersi tale espressione?
(parere 05.06.2011 n. RAL-285 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FORMAZIONE/ L’art. 23 del CCNL dell’01/04/1999 obbliga gli enti a destinare alla formazione “una quota pari almeno all’1% della spesa complessiva del personale”? (parere 05.06.2011 n. RAL-128 - link a www.aranagenzia.it).

NEWS

VARIMulticorsia. Massima visibilità per i limiti.
Anche sulle strade a due o più corsie per ogni senso di marcia serve la massima trasparenza sul limite di velocità che deve essere obbligatoriamente ripetuto a sinistra o sopra alla carreggiata. Non vale la stessa regola per il segnale di preavviso di controllo autovelox in atto che secondo il codice basta sia facilmente avvistabile.
Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con il parere 20.09.2011 n. 4720.
Dal mese di agosto 2007 tutti i dispositivi per il controllo elettronico della velocità devono essere segnalati con pannelli tradizionali o luminosi, ai sensi dell'art. 3 del dl 117/2007. Per quanto riguarda i segnali tradizionali, sul pannello rettangolare di dimensioni e colori propri del tipo di strada sul quale saranno installati dovrà essere indicata la frase «controllo elettronico della velocità» oppure «rilevamento elettronico della velocità». Questa annotazione dovrà comparire anche sui segnali a messaggio variabile installati sulle strade o sui veicoli di servizio.
La normativa vigente non opera distinzione tra postazioni presidiate e postazioni non presidiate conseguentemente non è previsto che la segnalazione si riferisca alle modalità di funzionamento delle apparecchiature. Nessuna disposizione richiede che i sistemi automatici per il controllo della velocità debbano essere preventivamente segnalati diversamente dalle postazioni mobili presidiate dalla polizia. Con il dm 15.08.2007 sono poi state fissate nel dettaglio le caratteristiche e le modalità di impiego dei segnali e dei dispositivi. Un utente stradale ha richiesto chiarimenti nel caso di circolazione su una strada a due o più corsie per ogni senso di marcia. In particolare come deve essere organizzata la segnaletica indicante il limite di velocità e il preavviso di controllo in atto.
A parere dell'organo centrale di via Caraci il regolamento stradale impone la ripetizione dei segnali prescrittivi tra i quali è ricompreso il limite di velocità sul lato sinistro o al di sopra della carreggiata. Per i segnali di indicazione, prosegue la nota centrale, «tra i quali sono ricompresi quelli relativi al preavviso di controllo della velocità, l'art. 124/3° del regolamento impone invece che siano facilmente avvistabili e riconoscibili, senza ulteriori precisazioni» (articolo ItaliaOggi del 05.10.2011).

PUBBLICO IMPIEGO: Parere aran. E-learning, la p.a. non dà permessi.
Non spettano le 150 ore di permesso retribuito per studio ai lavoratori pubblici che frequentano corsi organizzati dalle università telematiche. Infatti, in questi casi, posto che il lavoratore non è tenuto a rispettare un orario di frequenza del corso in orari prestabiliti, si può ritenere che ciò possa avvenire anche al di fuori dell'orario di lavoro, con il conseguente venire meno di ogni necessità di fruizione dei citati permessi.
È quanto precisa l'Aran nel testo del parere 25.09.2011 n. 166, rispondendo a un quesito relativo alla corretta fruizione dei permessi retribuiti per diritto allo studio ex art. 13 Ccnl 16/05/2001 (meglio noti come 150 ore).
L'Agenzia, infatti, precisa che i permessi in oggetto possono essere fruiti solo per lezioni e corsi di studio il cui svolgimento sia previsto in concomitanza con l'orario di lavoro. In tale ambito, pertanto, l'attestato di partecipazione o di frequenza assume un rilievo prioritario, in quanto certifica sia la circostanza dell'effettiva presenza alle lezioni sia quella che le medesime lezioni si svolgono all'interno dell'orario di lavoro (ciò che giustifica la fruizione dei permessi).
In presenza di un lavoratore che deve seguire dei corsi organizzati da università telematiche, proprio la circostanza che lo stesso non è tenuto a rispettare un orario di frequenza del corso in orari prestabiliti, induce l'Aran a ritenere che ciò possa avvenire anche al di fuori dell'orario di lavoro, con il conseguente venir meno della fruizione dei citati permessi. Infatti, non essendo obbligato a partecipare necessariamente alle lezioni in orari rigidi, come avviene nelle università ordinarie, il lavoratore potrebbe sempre scegliere orari di collegamento compatibili con l'orario di lavoro nell'ente.
Tuttavia, apre uno spiraglio l'Agenzia, i permessi potrebbero essere concessi solo nel caso in cui il dipendente fosse in grado di presentare, in particolare, un certificato dell'Università che attesti «che lo stesso ha seguito personalmente, effettivamente e direttamente le lezioni trasmesse in via telematica e che le giornate e gli orari coincidono con le ordinarie prestazioni lavorative» (articolo ItaliaOggi del 05.10.2011).

ENTI LOCALI: Società on-line entro il 6 ottobre. Ogni ente deve pubblicare sul sito i dati delle realtà di cui detiene quote.
Trasparenza. L'obbligo riguarda le partecipazioni dirette e indirette, anche di minoranza, e i risultati di bilancio.

Partirà il prossimo 6 ottobre il calendario degli adempimenti delle manovre correttive, con il termine per la pubblicazione online dei dati delle società a partecipazione pubblica (articolo 8 del decreto legge n. 98/2011, convertito dalla legge n. 111/2011).
Il nuovo obbligo di trasparenza richiede a tutte le amministrazioni di pubblicare sul sito istituzionale, e aggiornare periodicamente, l'elenco delle società di cui detengono, direttamente o indirettamente, quote di partecipazione anche minoritaria. Di ogni società vanno indicati i seguenti elementi: la quota del capitale sociale posseduta dall'ente pubblico e se ha raggiunto, con riferimento al triennio antecedente la data di pubblicazione, il "pareggio di bilancio".
Un'espressione, quest'ultima, tipica della contabilità pubblica ed estranea al mondo della contabilità privata, dove va necessariamente ricondotta al risultato economico positivo. Dovrà inoltre essere diffusa sul sito una rappresentazione grafica che evidenzi i collegamenti tra l'ente e le società o tra le controllate. Anche se non è richiesto, andrebbe data l'informativa delle società che sono in corso di dismissione perché non strategiche. Va rilevato poi che il riferimento alle "società" taglia fuori dall'obbligo di trasparenza i consorzi, le associazioni e le fondazioni.
Qualche ente ha già provveduto a inserire nel sito, all'interno della sezione «Trasparenza, valutazione e merito», le ulteriori informazioni societarie su denominazione, quote di partecipazione e risultato 2008, 2009 e 2010; in diversi casi i Comuni si sono limitati a indicare l'esistenza o meno del pareggio di bilancio, senza dare il valore effettivo del risultato economico.
Il nuovo adempimento va ad aggiungersi a quello relativo alla pubblicazione nel sito e nell'albo degli incarichi di amministratore delle società e dei relativi compensi (articolo 1, comma 735, legge 296/2006), sottoposto a un vincolo di aggiornamento semestrale. In quest'ultimo caso la sanzione per l'inadempimento, irrogata dal prefetto nella cui circoscrizione ha sede la società, è pari a 10mila euro. A partire dall'01.01.2011 va ricordato che l'obbligo in parola, come tutti quelli di pubblicazione di atti e provvedimenti aventi effetto di pubblicità legale, è assolto con la pubblicazione sul solo sito informatico (articolo 32, legge 69/2009).
Sempre in campo di pubblicazione online sono arrivate di recente (Dpcm 26.04.2011, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 1° agosto) le modalità di pubblicazione nei siti informatici delle gare e dei bilanci. Il decreto attuativo dell'articolo 32, comma 2, della legge 69/2009 prevede che siano pubblicati sul sito e raggiungibili da apposita etichetta: i bandi di gara, i bandi di gara scaduti e i bilanci. Gli atti da pubblicare sono costituiti da documenti amministrativi informatici o da copie informatiche di documenti analogici.
I bilanci, che devono essere direttamente raggiungibili dalla home page, sono riportati utilizzando i modelli stabili per la pubblicazione sui quotidiani (Dpr 90/1989); essi devono essere consultabili in ordine cronologico e senza alcuna limitazione temporale. Dall'01.01.2013, infine, le pubblicazioni dei bilanci effettuate in forma cartacea non avranno effetto di pubblicità legale, per cui la pubblicazione dovrà avvenire solo sul sito (articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2011).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Spending review sulla gestione del personale.
Le misure straordinarie di carattere finanziario contenute nelle ultime manovre dovranno spingere le pubbliche amministrazioni a effettuare una revisione strutturale della spesa, uscendo fuori dall'angolo dei tagli lineari, al fine di realizzare un ridisegno delle amministrazioni in tutta la loro estensione e articolazione.
Le amministrazioni dovranno intanto applicare le disposizioni di razionalizzazione contenute nel Dl 98/2011 e nel Dl 138/2011, diverse per comparto e per livello di governo. Se le amministrazioni centrali dello Stato saranno tenute nei prossimi mesi a razionalizzare i propri uffici periferici, a rivedere in riduzione gli organici, accorpare gli enti previdenziali, eccetera, oltre a sperimentare la spending review, per gli enti locali si prevedono maggiori limiti in materia di assunzioni, l'inclusione delle spese di personale delle partecipate nei vincoli di riferimento, la razionalizzazione delle partecipate, la realizzazione di unioni per i comuni sotto i mille abitanti, nonché la gestione associata delle funzioni fondamentali per i comuni da mille a 5mila abitanti. Cui si aggiungeranno per gli enti locali gli effetti dei tagli ai trasferimenti e gli obiettivi del patto di stabilità.
Il quadro è tale quindi da richiedere piani di razionalizzazione strutturali e nuovi modelli di gestione. Per questo occorre pensare ad alcune soluzioni organizzative e logistiche che già da tempo le amministrazioni avrebbero potuto adottare e che invece o sono rimaste sulla carta oppure hanno trovato un'applicazione distorta e inefficiente.
L'esempio classico e oggi più evidente è dato dalla gestione del personale, una funzione interna resa sempre più complessa dall'evolversi del quadro normativo e che assorbe molte energie e personale all'interno delle singole amministrazioni. Il paradosso è dato dal fatto che non solo ogni amministrazione ha un proprio ufficio per il personale, ma spesso ogni settore, dipartimento o direzione ha a sua volta una propria struttura dedicata. Un'area questa che potrebbe essere certamente esternalizzata e gestita in forma associata, migliorando così l'efficienza ma anche la qualità dei servizi.
Nell'ambito della gestione del personale è possibile ad esempio ricorrere alle agenzie per il lavoro, che sono portatrici di un know how di rilievo nel settore della gestione delle risorse umane; questo consentirebbe alle amministrazioni interessate di liberare seriamente il settore pubblico da una serie di incombenze amministrative. Già l'articolo 74 del Dl 112/2008 aveva individuato i criteri di riorganizzazione e riduzione degli organici con particolare riferimento alla concentrazione dell'esercizio delle funzioni istituzionali, attraverso il riordino delle competenze degli uffici e all'unificazione delle strutture che svolgono funzioni logistiche e strumentali. Ma alla fine tutte le amministrazioni, paradossalmente, hanno proceduto al semplice taglio lineare.
Tanti altri esempi si possono fare, spesso supportati da una esplicita previsione normativa: dall'ufficio relazione con il pubblico all'ufficio disciplinare, dall'organismo di valutazione alla gestione del sito internet, nonché alla gestione dei bilanci e degli appalti.
Ma pur in presenza di una esplicita previsione normativa, le amministrazioni hanno sempre preferito gestire attraverso un proprio ufficio o settore oppure realizzarci persino delle società in house. Un'altra area da aggredire è quella della razionalizzazione degli immobili di proprietà e in locazione. Il blocco delle assunzioni per anni, i processi di semplificazione e digitalizzazione, le esternalizzazioni hanno ridotto sensibilmente il fabbisogno immobiliare delle Pa, ma resistenze interne e incapacità di mettere a valore gli immobili portano a una spesa elevata e crescente.
La migliore razionalizzazione inoltre è quella che avviene dal basso, che è più prossima, in quanto è in grado di scegliere tra spesa buona e spesa cattiva, di tagliare ma di effettuare investimenti. I piani di razionalizzazione previsti dall'articolo 16 del Dl 98/2011 costituiscono un'occasione per avviare dei piani di razionalizzazione "industriali" e far nascere delle relazioni sindacali alte nel settore pubblico. Per questo sarà necessario eliminare i vincoli finanziari sulla formazione, soprattutto se finalizzata ad accompagnare i piani di razionalizzazione o il programma di revisione della spesa previsti dalla recente normativa (articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cessioni di cubature, più tutele con la trascrivibilità nei registri. Con la manovra-bis si possono formalizzare i contratti che trasferiscono i diritti edificatori.
È possibile trascrivere le cessioni di cubature e quindi formalizzare i contratti concedendo le tutele tipiche della trascrizione alle parti. L'articolo 5, comma 3, del decreto sviluppo ha previsto infatti che sono trascrivibili nei registri immobiliari «i contratti che trasferiscono i diritti edificatori comunque denominati nelle normative regionali e nei conseguenti strumenti di pianificazione territoriale, nonché nelle convenzioni urbanistiche a essi relative».
La cessione della cubatura o del diritto a edificare è uno strumento da tempo ammesso dal nostro ordinamento. O meglio trattasi di convenzioni in uso nella prassi che in assenza di divieti espliciti dell'ordinamento erano da considerare lecite. L'intervento del decreto sviluppo non sancisce la possibilità di attivare lo strumento ma regolamenta invece la trascrizione nei registri immobiliari dei contratti che hanno a oggetto il volume edificatorio.
L'obiettivo della norma è quello di offrire certezza alle parti dei contenuti contrattuali tra loro stipulati e aventi a oggetto la cubatura e il risultato è ottenuto aggiungendo all'articolo 2643 del codice civile il numero 2-bis) la locuzione secondo cui sono soggetti a trascrizione anche i contratti che trasferiscono i diritti edificatori e anche dei contratti che «costituiscono o modificano» tali «diritti edificatori» (tale ultimo inciso è stato inserito nella legge di conversione del decreto legge sviluppo).
Così facendo si superano le incertezze del passato quando per dare rilevanza (o meglio per poter trascrivere) a tali contratti si accompagnava la cessione della cubatura a una servitù così da rendere possibile la trascrizione dell'atto. In sostanza considerato che la cessione della cubatura comporta che il diritto a edificare si «sposta» da un immobile all'altro dopo aver pattuito ciò si costituiva una servitù che comportava la costituzione di un vincolo di in edificabilità sull'immobile da cui era trasferito il diritto .
Ora ciò non è più necessario.
Nella pratica una esemplificazione di tali fattispecie è la seguente:
Mario Rossi è proprietario di un terreno su cui non è più possibile edificare.
Nel contempo Giovanni Bianchi è proprietario di un terreno che ha invece ancora una capacità edificatoria di X metri cubi.
In forza della cessione Rossi potrà utilizzare la capacità edificatoria originariamente correlata al terreno di Bianchi sul proprio terreno.
Con la trascrizione dell'atto l'operazione diviene così trasparente anche per i terzi che possono essere edotti delle reali caratteristiche degli immobili dopo l'intervenuta cessione.
Prima dell'intervento del legislatore la giurisprudenza si era già interessata della fattispecie cercando di offrire una qualificazione.
La Corte di Cassazione, Sez. I civ., 14.12.1988 n. 6807, ha sostenuto che la «cessione di cubatura» è quell'atto con cui «il proprietario del fondo, cui inerisce una determinata cubatura, distacca in tutto o in parte la facoltà inerente al suo diritto dominicale di costruire nei limiti della cubatura concessagli dal piano regolatore e, formando un diritto a se stante, lo trasferisce definitivamente all'acquirente, a beneficio del fondo di costui» (si veda). In pratica si ritiene che l'edificabilità di un'area (espressa in volumetria) costituisce un valore economico che qualora si stacchi dal terreno a cui inerisce forma oggetto autonomo di contrattazione anche ricollegandosi al fatto che l'art. 810 del codice civile prevede che sono «beni le cose che possono formare oggetto di diritti».
Non si può però dimenticare che tale tesi non è stata l'unica sostenuta nei tempi della giurisprudenza e anche sostenuta dalla dottrina. Ora sembrerebbe che quella sopra riportata proprio in forza della trascrivibilità sia però quella che maggiormente si addice al nuovo scenario legislativo.
Pertanto ad oggi parrebbe che:
- il diritto di costruire sul proprio fondo costituisce una caratteristica del fondo e come sopra ricordato può civilisticamente essere considerato un bene;
- il diritto è disponibile per il proprietario che può esercitare la sua facoltà o utilizzandola (costruendo) o trasferendola a terzi con il risultato di ampliare il diritto dell'acquirente e di ridurre invece quello del cedente.
La qualificazione civilistica comporta conseguenze fiscali non di poco conto. Anche se non recente è bene da subito ricordare che la risoluzione protocollo 250948 del 17.08.1976 la prassi amministrativa ha sostenuto che «si debba convenire con quanto più volte affermato dalla Corte di cassazione... nel senso che il caso di specie dà luogo alla produzione di effetti analoghi a quelli derivanti da un atto costitutivo di diritti reali immobiliari». Si è in pratica abbracciato l'orientamento della corte di cassazione secondo cui nella cessione di cubatura si giunge ad acquistare/cedere un diritto assimilabile a quelli reali immobiliari di godimento.
---------------
Il regime Iva da applicare è quello tipico dei terreni.
La cessione di cubatura sconta l'Imposta sul valore aggiunto chiaramente sussistendo i requisiti necessari per l'applicazione dell'imposta. Anche con riguardo a tale punto è decisivo l'orientamento della Corte di cassazione che porta a parificare la cubatura a un diritto reale (atipico) sul terreno. Pertanto il regime Iva applicabile è assimilabile a quello proprio dei terreni.
A sostegno di ciò la Suprema corte ha sostenuto in tema di registro e Iva che è sufficiente che nella convenzione in esame si riscontrino effetti assimilabili a quelli propri dei trasferimenti immobiliari per giungere a ritenere tassabile la situazione. In particolare il riferimento è effettuato all'art. 20 del dpr 131/1986 Tur. In sostanza si ritiene che l'operazione dia luogo a un trasferimento ma oltretutto che non si possa contestare il contenuto patrimoniale dell'atto. Occorre dar valenza al principio generale secondo cui l'imposta di registro è applicata «secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente». La Corte di cassazione arriva infatti ad affermare che ai fini dell'imposizione (indiretta) il legislatore ha ritenuto sufficiente che nella pattuizione tra le parti si riscontrino effetti assimilabili a quelli propri di un trasferimento immobiliare.
Tale orientamento è stato poi confermato dalla Corte di cassazione, con la sentenza n. 5363 del 02.11.1998 in cui si è affermato che «ai fini dell'imposta di registro è soggetto all'imposta proporzionale e non all'imposta fissa, l'atto con cui il proprietario di un lotto edificabile costituisce su di esso un vincolo di inedificabilità... (la cessione di cubatura), pur non essendo un atto costitutivo di una servitù, non dà luogo infatti a un mero vincolo amministrativo, in quanto il trasferimento della potenzialità edificatoria di un lotto all'altro comporta una diminuzione del valore del primo lotto e un correlativo incremento del valore dell'altro».
---------------
Trattamento fiscale indiretto individuabile dall'ambito soggettivo.
Alternatività Iva o registro anche per la cubatura. L'esatto trattamento ai fini delle imposte indirette è direttamente individuabile dalla natura soggettiva delle parti della convenzione. Partendo dall'assimilazione della cessione del diritto a edificare a quello previsto per l'immobile a cui si riferisce si deve individuare il trattamento Iva o registro avendo riguardo all'ambito soggettivo.
Da ciò è possibile riepilogare il trattamento della cessione di cubatura ai fini dell'imposte indirette in questo modo:
● l'operazione è da assoggettare a Iva essendo assimilata alla cessione dei terreni edificabili;
● la cessione è (alternativamente) da assoggettare ad imposta di registro scontando l'imposta nella misura prevista di cui all'art. 1 della Tariffa A del dpr 131/1986.
Tale indicazioni derivano dal fatto che proprio in forza dell'oggetto della convenzione (il diritto a edificare) è evidente come le regole applicabili siano quelle proprie dei terreni edificabili. Pertanto l'alternativa Iva o registro dipenderà dalla natura del soggetto cedente o meglio ancora dal fatto che l'operazione sia posta in essere nell'ambito della sfera privata o invece della sfera commerciale di un soggetto.
Con riguardo ai riflessi Iva si segnala anche la nota n. 42 del 16.04.1999 della direzione delle regionale delle entrate delle Marche che ha esaminato la questione della assoggettabilità a Iva di una cessione del diritto di usufruire della superficie utile lorda (diritto di cubatura) relativa al «relitto stradale» facente parte dei beni comunali, giungendo a negare l'assoggettamento ad imposta ma in realtà confermando quanto sopra indicato. Infatti tale conclusione nella nota della direzione regionale non discende dall'analisi della presenza del requisito oggettivo bensì dalla carenza (sempre nel caso di specie) del requisito soggettivo–imprenditoriale.
In sostanza la Direzione regionale della Marche ha escluso l'assoggettamento a Iva in quanto nell'ipotesi ha ritenuto non potersi ravvisare un'attività commerciale in capo al comune che era intenzionato a porre in essere l'operazione (articolo ItaliaOggi Sette del 03.10.2011).

AMBIENTE-ECOLOGIARottami metallici, trattamento secondo standard ad hoc.   A partire dal 9 ottobre in vigore le regole Ue.
Dal 09.10.2011 nuove regole per riabilitare allo status di veri e propri «beni» rottami di ferro, acciaio e alluminio. Ad aprire il nuovo capitolo sulla produzione delle cosiddette «materie prime secondarie» è l'entrata in vigore del regolamento comunitario n. 333/2011 («I criteri che determinano quando alcuni tipi di metalli cessano di essere considerati rifiuti»), regolamento pubblicato sulla Guue dell'08.04.2011 (n. L 94) e, dalla data di entrata in vigore, dotato di immediata applicazione in tutti gli stati Ue.
La disciplina comunitaria detta sia le condizioni che le strutture deputate al trattamento dei rottami dovranno soddisfare, sia gli standard tecnici relativi ai diversi rottami trattati.
Regole generali. Le imprese di trattamento dei rifiuti dovranno innanzitutto dotarsi di un sistema di gestione della qualità ad hoc, sistema che dimostri il rispetto degli specifici standard tecnici di trattamento dei rottami metallici e che sia così articolato: controllo preventivo dei rifiuti; monitoraggio del trattamento e della qualità dei rottami; revisione e miglioramento del sistema di qualità; formazione del personale addetto al trattamento; verifica dell'adozione di analogo sistema di gestione di qualità da parte dei propri fornitori di rottami.
Il produttore (quale soggetto che cede a un altro soggetto rottami che per la prima volta hanno cessato di essere considerati rifiuti) o, in caso di soggetto esterno all'area Ue, l'importatore di rottami (quale soggetto che introduce nell'Ue rottami metallici riabilitati allo status di «beni») dovrà redigere una «dichiarazione di conformità» recante l'identificazione dei rottami trattati, il rispetto dei requisiti tecnici di processo, l'applicazione del sistema di gestione della qualità.
La dichiarazione dovrà altresì essere comunicata al successivo detentore dei rottami riabilitati, conservata per un anno e messa a disposizione delle autorità di controllo.
Standard tecnici. Le specifiche tecniche da osservare imporranno sostanzialmente il trattamento limitato ai soli rifiuti costituiti (con un certo margine di tolleranza) da ferro, acciaio e alluminio recuperabili, l'assenza di sostanze pericolose, la separazione a monte tra i metalli e l'esclusione di eventuali elementi diversi, il rispetto delle particolari prescrizioni su trattamento di veicoli fuori uso e clorofluorocarburi, la purezza delle materie prime secondarie ottenute, il rispetto delle specifiche tecniche di settore per il riutilizzo diretto nella produzione di sostanze o oggetti metallici in acciaierie e fonderie (articolo ItaliaOggi Sette del 03.10.2011).

EDILIZIA PRIVATA: Iva al 21%, effetti soft sull'edilizia. Gran parte delle operazioni del settore è assoggettata all'aliquota agevolata o a quella minima.
L'aumento al 21% dell'aliquota Iva ordinaria, scattato il 17 settembre scorso per effetto della legge n. 148/2011, ha un impatto contenuto sul mondo dell'edilizia. Gran parte delle operazioni del settore (cessioni e costruzioni di immobili), infatti è assoggettata all'aliquota agevolata del 10%, oppure a quella minima del 4% qualora si tratti della «prima casa».
Anche gli interventi di recupero del patrimonio edilizio, come pure le cessioni degli edifici sottoposti a tali interventi effettuate dalle imprese che li hanno eseguiti, non sono interessati dall'aumento, perché scontano l'aliquota del 10%.
Dal punto di vista oggettivo, l'aliquota ordinaria (si veda la tabella) riguarda quasi esclusivamente le operazioni sui fabbricati non abitativi (anche in questo caso, con molte eccezioni) e sulle aree edificabili; l'edilizia abitativa sconta infatti l'aliquota ordinaria solo sulle operazioni relative a immobili «di lusso».
In tutti i casi in cui si applica l'aliquota ordinaria, la nuova aliquota del 21% è applicabile alle operazioni che si considerano «effettuate» a decorrere dal 17.09.2011. Pertanto, in base alle disposizioni sul momento di effettuazione dell'operazione contenute nell'art. 6 del dpr 633/1972, la nuova aliquota si applica essenzialmente nelle seguenti situazioni:
a) cessioni di beni mobili (es. materie prime) consegnati o spediti dal 17.09.2011, salvo che per l'eventuale importo fatturato o pagato precedentemente;
b) cessioni di beni mobili consegnati o spediti prima del 17.09.2011, qualora l'effetto traslativo della proprietà si realizzi da tale data (es. contratto estimatorio, vendite sottoposte a condizione), salvo che per l'importo pagato o fatturato precedentemente;
c) cessioni di beni mobili in esecuzione di contratti di somministrazione il cui corrispettivo sia pagato dal 17.09.2011, anche se la consegna dei beni è anteriore;
d) cessioni di beni immobili stipulate dal 17.09.2011 (non è rilevante la stipula del contratto preliminare), salvo che per l'importo pagato o fatturato precedentemente;
e) cessioni di beni immobili stipulate prima del 17.09.2011, ma sottoposte a condizione non ancora realizzata a tale data, salvo che per l'importo fatturato o pagato precedentemente;
f) prestazioni di servizi il cui corrispettivo sia pagato dal 17.09.2011, salvo che per l'eventuale importo fatturato precedentemente (articolo ItaliaOggi Sette del 03.10.2011).

GIURISPRUDENZA

VARIDoppia infrazione, doppia sanzione. Cassazione, cumulo non riconosciuto.
L'automobilista che passa due volte col rosso nello stesso tratto stradale paga due multe. Non sussiste continuazione o cumulo giuridico tra sanzioni in caso di concorso materiale. Cioè in caso di violazioni commesse con più azioni od omissioni.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione che, con la sentenza 03.10.2011 n. 20222, ha accolto il ricorso della Prefettura di Trieste presentato contro la decisione del giudice di pace che aveva accordato a un'automobilista, passata due volte col semaforo rosso, la continuazione. La donna non era stata condannata a pagare due multe ma una maggiorata. Contro questa decisione, la Prefettura ha presentato ricorso in Cassazione e lo ha vinto.
Ad avviso della seconda sezione civile «in tema di sanzioni amministrative, la norma di cui all'art. 8 della legge n. 689 del 1981, nel prevedere l'applicabilità dell'istituto del cosiddetto cumulo giuridico tra sanzioni nella sola ipotesi di concorso formale (omogeneo o eterogeneo) tra le violazioni contestate -per le sole ipotesi, cioè, di violazioni plurime, ma commesse con un'unica azione od omissione- non è legittimamente invocabile con riferimento alla diversa ipotesi di concorso materiale -di concorso, cioè, tra violazioni commesse con più azioni od omissioni».
A questo caso non è neppure applicabile in via analogica la norma dettata dall'articolo 81 del codice penale, in tema di continuazione fra reati, sia perché il citato art. 8 della legge 689/1981 prevede espressamente tale possibilità soltanto per le violazioni in materia di previdenza ed assistenza (con conseguente evidenza dell'intento del legislatore di non estendere la disciplina del cumulo giuridico agli altri illeciti amministrativi), sia perché la differenza morfologica tra illecito penale ed illecito amministrativo non consente che, attraverso un procedimento di integrazione analogica, le norme di favore previste in materia penale vengano tout court estese alla materia degli illeciti amministrativi.
Ora la causa tornerà al giudice di pace di Trieste (articolo ItaliaOggi del 04.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIl ko delle Entrate valido senza notifica. Per i 175 dirigenti nullità immediata.
Centosettantacinque incarichi dirigenziali da annullare. Sono questi per l'Agenzia delle entrate gli effetti immediati della sentenza 30.09.2011 n. 7636 del TAR Lazio-Roma, Sez. II, qualora dovesse essere notificata. Ma, a ben vedere, l'annullamento del bando per la selezione dei 175 dirigenti potrebbe conseguire direttamente dall'adozione della sentenza stessa, senza dover attendere i successivi passaggi della procedura giurisdizionale.
Molto dipenderà dalle scelte operative che adotterà l'Agenzia. Un fatto è certo: le decisioni del Tar Lazio incidono in maniera pesantissima sulla prassi più che decennale di coprire posti della dotazione organica dei dirigenti con incarichi ai funzionari, vere e proprie «promozioni sul campo», legittime solo a condizione che si rispettino le condizioni oggettive e soggettive discendenti dai principi enunciati dall'articolo 19 del dlgs 165/2001.
La tentazione di lasciare fermi gli effetti degli incarichi conferiti sarà molto forte, anche perché organizzativamente gli effetti della sentenza del 30 settembre, aggiunta a quella sempre del Tar Lazio del 1° agosto, privano l'Agenzia di centinaia di soggetti da poter preporre ai vertici delle proprie strutture. I giudici amministrativi nelle loro decisioni hanno imputato all'Agenzia stessa la responsabilità organizzativa, derivante dalla manifesta intenzione di lasciare scoperti quasi il 70% dei posti da dirigenti, proprio per cooptare i funzionari interni.
La soluzione ideale sarebbe indire un concorso interamente pubblico in tempi brevissimi, facendolo precedere da una procedura di mobilità anche intercompartimentale, che consentirebbe in linea teorica di acquisire in tempi brevi dirigenti di ruolo e fare fronte alle emergenze. E la situazione è considerata un vero e proprio terremoto, tanto che le sigle sindacali rappresentanti dei lavoratori hanno presentato una nota unitaria in cui chiedono un incontro urgente con l'Agenzia delle entrate.
«La sentenza del Tar apre un capitolo inquietante», commenta Vincenzo Patricelli, della segreteria generale della Flp, federazione lavoratori pubblici e funzioni pubbliche. «Non siamo mai stati teneri con L'Agenzia né sulle modalità di conferimento degli incarichi dirigenziali né sulla valutazione di alcuni titoli per il concorso a 175 posti. Ma ricorrere per cassare tutto il concorso e proporre come alternativa lo scorrimento di graduatorie di concorsi dirigenziali vecchi di 10-15 anni e persino 20 anni fa, anziché battere sugli aspetti del concorso che erano certamente da cambiare, significa non solo bloccare gli incaricati dirigenziali ma negare qualunque possibilità di carriera a una generazione di funzionari giovani e preparati che non sono incaricati. Una scelta conservatrice che non è condivisibile in alcun modo. Se poi la conseguenza dovesse essere la reggenza senza remunerazione alcuna, vogliamo vedere chi andrà a dirigere gli uffici» (articolo ItaliaOggi del 05.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConcorso con riserva, da rifare. Illegittimo sanare gli incarichi dirigenziali dei funzionari. Il Tar del Lazio boccia la procedura dell'Agenzia delle entrate per la copertura di 175 posti.
Illegittimo il concorso per assumere dirigenti amministrativi con riserva di posti agli interni, bandito nel 2010 dall'Agenzia delle entrate, allo scopo di «sanare» incarichi di funzioni dirigenziali conferiti da anni ai funzionari.
È durissimo il doppio colpo che il TAR Lazio-Roma, Sez. II, inferisce all'Agenzia, prima con la sentenza 01.08.2011 n. 6884 e, poi, con la sentenza 30.09.2011 n. 7636, che colpiscono al cuore la discutibile prassi, comune a molte altre amministrazioni, di attribuire incarichi dirigenziali a funzionari privi della qualifica di dirigente, costruendo un surrettizio spoil system, in barba alle varie disposizioni normative che pretendono il concorso per soli esami per accedere alla qualifica dirigenziale.
Con la decisione dello scorso 1° agosto, il Tar Lazio aveva rilevato l'illegittimità dell'articolo 24 del regolamento di organizzazione, che consentiva l'attribuzione di incarichi dirigenziali ai funzionari come ordinario sistema di copertura dei posti della dotazione organica dirigenziale, contravvenendo ai principi generali enunciati dall'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001. Quest'ultima norma, infatti, consente di reclutare dirigenti al di fuori della dotazione organica solo in casi eccezionali e per rimediare alla conclamata assenza di professionalità tra i dirigenti in ruolo.
L'Agenzia ha largheggiato senza troppo contenersi nella possibilità di affidare incarichi a contratto ai propri funzionari, tanto che negli anni dei 1.143 posti della dotazione dirigenziale, solo 376 sono coperti da dipendenti aventi la qualifica dirigenziale. La gran parte dei restanti posti è stata coperta con incarichi «straordinari», prorogati, però, costantemente ogni anno. Tanto è vero che con provvedimento 29/10/2010 n. 146687 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, IV serie speciale n. 88 del 05/11/2011), l'Agenzia aveva bandito una selezione concorsuale, finalizzata ad acquisire 175 dirigenti di ruolo e rimpolpare, così, la più che scarna schiera di dirigenti a tempo indeterminato dotati della necessaria qualifica.
Applicando disinvoltamente alcune disposizioni, come l'articolo 1, comma 530, della legge 196/2006, che consente all'Agenzia di utilizzare modalità selettive speciali per assumere i propri dipendenti, il provvedimento impugnato e stigmatizzato come illegittimo dal Tar Lazio con la sentenza del 30 settembre, aveva riservato il 50% dei posti messi a concorso a dipendenti interni. In particolare, proprio ad alcuni tra i tantissimi funzionari che negli anni erano stati cooptati negli incarichi dirigenziali, al dichiarato scopo di sanare la loro posizione ed in considerazione dell'egregio lavoro svolto, nonostante la mancanza della qualifica dirigenziale.
Il Tar Lazio ha accolto il ricorso, annullando il provvedimento principalmente sotto il profilo della violazione dei principi generali che regolano l'accesso alla dirigenza, posti dal combinato disposto degli articoli 97, comma 3, della Costituzione e 28 del dlgs 165/2001, che impongono esclusivamente il concorso pubblico per soli esami. Un concorso avente finalità di «sanatoria» come quello bandito dall'Agenzia finisce per contravvenire alle norme sulle «stabilizzazioni» dei precari, che avevano escluso espressamente proprio gli incarichi dirigenziali e, prevedendo la riserva di posti, non può essere configurato come pienamente «pubblico», cioè aperto a tutti, allo scopo di selezionare le migliori professionalità.
Nel merito, poi, la sentenza oltre a richiamare integralmente le ragioni addotte con la precedente decisione del primo agosto 2011, critica fortemente la stessa idea, alla base del concorso «a sanatoria», che l'Agenzia fosse tenuta o potesse discrezionalmente agire allo scopo di riconoscere ai funzionari incaricati da dirigenti la qualifica dirigenziale. I giudici amministrativi romani sono trancianti: nella sostanza, la reiterazione continua degli incarichi dirigenziali ai funzionari si è tramutata nell'attribuzione di mansioni superiori illegittima, per violazione dell'articolo 52, comma 5, del dlgs 165/2001.
Ma vi è di più: secondo i giudici, l'Agenzia avrebbe potuto fare fronte alla carenza di figure dirigenziali attribuendo correttamente gli incarichi di «reggenza» ai propri funzionari: la sentenza fa notare che lo svolgimento della funzione di reggenza fa parte dei «contenuti professionali di base propri della terza area funzionale», come definiti dalla contrattazione nazionale collettiva del comparto delle Agenzie fiscali. Insomma, l'Agenzia avrebbe dovuto ricorrere agli incarichi di reggenza e non abusare degli incarichi dirigenziali, anche perché così avrebbe potuto risparmiare la maggiore spesa connessa all'attribuzione del trattamento economico dirigenziale, non spettante nel caso di reggenza.
Per l'Agenzia adesso la situazione è delicatissima. L'annullamento del bando travolge anche la legittimità dei provvedimenti di assegnazione degli incarichi dirigenziali, col rischio di coinvolgere in aggiunta gli atti adottati dai dirigenti, che possono rimanere salvi solo in applicazione del principio dell'affidamento dei terzi sulla legittimità dell'azione amministrativa. In ogni caso, l'esecuzione della sentenza impone l'annullamento degli incarichi dirigenziali assegnati ai funzionari (articolo ItaliaOggi del 04.10.2011 - tratto da www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’interesse all’annullamento del provvedimento deve sussistere anche al momento della decisione.
Qualora l’interesse all’annullamento fatto valere dal ricorrente, in relazione al provvedimento adottato da una pubblica amministrazione, non presenti più il carattere dell’attualità, il ricorso introduttivo del giudizio diventa improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
Così ha stabilito il TAR Campania-Napoli, Sez. IV, nella sentenza 30.09.2011 n. 4598.
Questo perché l’interesse al ricorso, in quanto condizione dell’azione, deve sussistere sia al momento della proposizione del gravame, che al momento della decisione, con conseguente attribuzione al giudice amministrativo del potere di verificare la persistenza della predetta condizione in relazione a ciascuno di tali momenti (cfr. sul punto Cons. Stato, sez. V, 14.11.2006, n. 6689).
Nel caso di specie, l’interesse all’annullamento del provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo era, inesorabilmente, venuto meno, alla luce della rinnovata attività procedimentale posta in essere dall'amministrazione e del conseguente nuovo provvedimento adottato al riguardo.
Il Collegio, in particolare, richiama l’indirizzo già espresso in altra sede dai giudici di Palazzo Spada (Cons. Stato, sez. IV, sent. 3255/2008) secondo cui si configura la sopravvenuta carenza di interesse al gravame laddove il provvedimento sopravvenuto abbia fornito al rapporto giuridico controverso una disciplina totalmente nuova (e quindi un nuovo assetto di interessi), in modo da rendere priva di ogni utilità la pronuncia sul ricorso (commento tratto da www.diritto.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Truffa aggravata per il dirigente che "protegge" il dipendente assenteista.
Rischia la condanna per truffa aggravata il dirigente che a fronte della falsa attestazioni della presenza in ufficio da parte di alcuni dipendenti, non solo non si adoperi per sanzionarli ma addirittura ostenti nei loro confronti un atteggiamento di favore tale da incoraggiarne la condotta fraudolenta. Scoraggiandone nello stesso tempo la denuncia da parte dei colleghi, per paura di mettersi contro il capo.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la sentenza 29.09.2011 n. 35344, rigettando il ricorso del direttore delle relazioni esterne del comune di Milano, già condannato dalla Corte di appello meneghina.
Nel ricorso alla Suprema corte il dirigente si era difeso sostenendo che la presenza del meccanismo del tesserino magnetico per entrare a lavoro lo rassicurava circa la corretta attestazione delle presenze dei dipendenti. E che comunque un simile controllo non rientrava nelle sue mansioni, spettando semmai al capo del personale.
Di altro avviso la Cassazione, secondo cui la responsabilità del dirigente non dipendeva da un comportamento omissivo ma piuttosto, come chiarito dalla sentenza di Appello, in un comportamento sostanzialmente commissivo dato dalla esibizione di un rapporto preferenziale con i dipendenti che li aveva messi in una «posizione privilegiata» che li rendeva «capaci di ottenere il silenzio di tutti gli altri dipendenti pena delazioni del capo».
Scrive infatti la Cassazione: «Concorre nel reato con condotta commissiva -anziché mediante omissione ai sensi dell'art. 40, 2 comma c.p.- il dirigente di un ufficio pubblico che non soltanto non impedisce che alcuni dipendenti pongano in essere reiterate violazioni nell'osservanza dell'orario di lavoro, aggirando in modo fraudolento il sistema computerizzato di controllo delle presenze, ma favorisca intenzionalmente tale comportamento creando segni esteriori di un atteggiamento di personale favore nei confronti dei correi, in modo tale da creare intorno ad essi un'aurea di intangibilità, disincentivare gli altri dipendenti dal presentare esposti o segnalazioni al riguardo e così affievolire, in ultima analisi, il cosiddetto 'controllo sociale».
«Pertanto tale condotta -scrivono i supremi giudici- ha in sé valenza agevolatrice nella commissione del reato, anche solo per il sostegno morale e l'incoraggiamento che i dipendenti infedeli ricevono da una simile situazione di favore senza che occorra quindi accertare, sul piano del rapporto di causalità, se il dirigente dell'ufficio avesse il potere di impedire la consumazione del reato o se avesse a tal fine contemporaneamente assunto iniziative di portata generale (come il controllo computerizzato delle presenze) iniziative comunque rivelatesi inefficaci» (tratto da e link a www.diritto24.ilsole24ore.com).

EDILIZIA PRIVATAPer il ritardato pagamento degli oneri di una concessione edilizia non si può invocare la preventiva escussione del fideiussore.
Con l’appello in esame, il ricorrente aveva chiesto la riforma di una sentenza del Tar che aveva respinto un ricorso proposto contro un comune, dal quale era stato sanzionato per il ritardato pagamento degli oneri relativi al rilascio di una concessione edilizia.
I giudici del Consiglio di Stato hanno respinto la tesi difensiva del ricorrente ricordando che su questo punto è ormai consolidato l'orientamento della quinta sezione: con decisioni C.S. n. 1250/2005, n. 6345/2005, n. 4025/2007 è stato, infatti, precisato che in assenza di inadempimenti imputabili all'Amministrazione idonei a configurare a suo carico una responsabilità "da contatto" oppure di natura precontrattuale, non può farsi riferimento all'art. 1227 c.c. essendo tale disposizione riferibile solo alle obbligazioni di carattere risarcitorio e non a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, come nel caso in esame.
Quest'ultima conclusione deve essere confermata. Invero, pur in presenza di un contratto di garanzia cosiddetta autonoma, con il quale il garante si obbliga ad eseguire la prestazione oggetto della garanzia "a semplice richiesta" del creditore garantito, senza opporre eccezioni attinenti alla validità, all'efficacia ed alla vicenda del rapporto principale, anche in questa ipotesi il meccanismo dell'adempimento del garante "a prima richiesta" scatta a seguito dell'inadempimento dell'obbligazione principale, ancorché resti vietato al garante di chiedere la preventiva escussione del debitore principale (Cass. 18.11.1992 n. 12341, 03.11.1993 n. 10850, 17.05.2001 n. 6757).
D'altronde, neppure con riguardo al regime ordinario delle obbligazioni tra privati sarebbe pertinente il richiamo all'art. 1227 cod. civ. Infatti, l'onere di diligenza che questa norma fa gravare sul creditore non si estende alla sollecitudine nell'agire a tutela del proprio credito onde evitare maggiori danni, i quali viceversa sono da imputare esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al tempestivo adempimento della sua obbligazione (V. Corte cost. n. 308 del 14.07.1999).
Inoltre, non è dato ravvisare nel sistema di cui agli artt. 1936 ss. cod. civ. alcun principio di preventiva doverosa escussione del fideiussore alla scadenza del termine fissato per l'adempimento dell'obbligazione garantita, che peraltro colliderebbe con le finalità dell'istituto, inteso a rafforzare la garanzia del credito in funzione di un interesse proprio e specifico del creditore.
In altri termini, ed in materia di obbligazioni "portable" quali quelle pecuniarie, e con termine di adempimento che esonera dalla costituzione in mora del debitore, il creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità del fideiussore, senza che possa invece ritenersi tenuto ad escutere il coobbligato piuttosto che attendere il pagamento, ancorché tardivo, salva l'esistenza di apposita clausola in tal senso (che dovrebbe essere accettata dall'Amministrazione), nella specie non prevista
” (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.09.2011 n. 5395 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Decorrenza del termine di impugnazione del permesso di costruire.
Il Consiglio di Stato (Sez. IV), con sentenza del 23.09.2011 n. 5346, ha precisato che
il termine decadenziale per l’impugnazione di un permesso di costruire, decorre dalla piena conoscenza dell’esistenza e dell’entità delle violazioni urbanistiche o del contenuto specifico del progetto edilizio.
La sentenza in commento è stata pronunciata in riforma della decisone del TRGA di Trento, il quale aveva dichiarato irricevibile, in quanto tardivo, un ricorso (notificato il 24/12/2003) avverso una concessione edilizia (rilasciata il 14/07/2003) per la realizzazione di un intervento di ricostruzione di un edificio.
In particolare, i giudici della IV sezione hanno ricostruito l’orientamento della giurisprudenza amministrativa in merito alla individuazione del momento conoscitivo da cui far decorrere il termine decadenziale per l’impugnativa sottolineando come “…in virtù di un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, qui pienamente condiviso, ai fini della tempestiva impugnazione del titolo ad aedificandum rilasciato a terzi l’effettiva, piena conoscenza dell’atto in parola deve essere ancorata all’ultimazione dei lavori oppure al momento in cui la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell’opera per una eventuale non conformità urbanistico-edilizia della stessa (cfr. Cons Stato, Sez. IV, 28.01.2011 n. 678;), lì dove non si può più avere dubbi in ordine alla reale portata dell’intervento edilizio assentito (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 03.03.2004, n. 1023).
Sempre sulla questione della individuazione del momento conoscitivo cui far decorrere il termine decadenziale per l’impugnativa, la giurisprudenza ha avuto modo di stabilire che:
- non vale, in assenza di altri elementi probatori, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnativa, a dimostrare la piena conoscenza del provvedimento edilizio, la presenza del cartello di cantiere recante l’indicazione della concessione edilizia e la descrizione dell’intervento e neppure la data di inizio lavori (Cons. Stato, Sez. IV, 28.01.2011 n. 678);
- in capo alla parte che eccepisce la tardività dell’impugnativa sussiste un rigoroso onere di dimostrazione della circostanza relativa all’anticipata conoscenza (cfr. Con. Stato, Sez. V, 05.02.2007 n. 452)
”.
In conclusione, secondo i giudici del Consiglio di Stato, la presenza del cartello di cantiere recante l’indicazione della concessione edilizia, la descrizione dell’intervento, e la data di inizio lavori non sono elementi idonei di per sé, ad evidenziare la tardività del gravame (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALILa pubblicazione e l'uso della PEC sono obblighi per la PA.
L'interessante sentenza costituisce una delle prime pronunce giurisprudenziali in attuazione del Codice dell'Amministrazione digitale.
L'argomento è quello della cogenza delle disposizioni che impongono l'uso della telematica nei rapporti con cittadini e imprese e, nello specifico l'obbligatorietà delle disposizioni in tema di PEC. Nella pronuncia entrano in gioco l'art. 3 e 54 del D.Lgs. 82/2005 nonché le norme introdotte con il decreto sulla ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico - d.lgs. 150/2009 ed infine, quanto disposto in ordine alle modalità di pubblicazione dalle "Linee guida per i siti web della P.A. - Anno 2010".
Appare opportuno, pur anticipando l'esito della decisione con la quale si condanna una Regione per non aver pubblicato sul proprio sito web l'indirizzo o gli indirizzi di posta elettronica certificata a cui i cittadini possono rivolgersi, riportare la parte motiva della suddetta sentenza in quanto riepilogativa delle norme vigenti in materia di posta elettronica certificata.
La quaestio: "occorre accertare se la mancata pubblicazione da parte della Regione dell’indirizzo di posta elettronica certificata sulla pagina iniziale del proprio sito istituzionale e la non effettiva attivazione della casella di posta elettronica certificata per le comunicazioni con gli utenti integri uno dei presupposti previsti dall’art. 1 del d.lgs. n. 198/2009 e, segnatamente, quello della “mancata adozione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo”.
Per poter verificare se sussista in capo alla Regione un obbligo rimasto inadempiuto giova una breve ricostruzione del quadro normativo di riferimento al precipuo fine di verificare se le norme vigenti impongono l’immediata applicazione o frappongano dilazioni all’operatività delle disposizioni in materia di comunicazione tramite posta elettronica certificata. Una prima imposizione alle Regioni di comunicare in via digitale è rinvenibile nell’art. 2 del d.lgs. 07.03.2005, n. 82, recante codice dell’amministrazione digitale, che reca: “lo Stato, le regioni e le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione". Il successivo art. 3 del citato D.Lgs. 82/2005 pone in diretta correlazione l’obbligo della pubblica amministrazione di comunicare in via digitale con il riconoscimento agli utenti del diritto di “richiedere ed ottenere l'uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche amministrazioni”.
Tra le modalità di comunicazione tra privato e pubblica amministrazione contemplate dal codice dell’amministrazione digitale, l’art. 6 prevede l’utilizzo da parte della pubblica amministrazione della posta elettronica certificata per la trasmissione telematica di documenti che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna. L’attuazione degli adempimenti relativi alla posta elettronica certificata è individuato dall’art. 11, comma 5, del D.Lgs. 27.10.2009 n. 150 (recante attuazione della legge 04.03.2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni) come strumento per rendere effettivi i principi di trasparenza nella pubblica amministrazione.
Lo stesso decreto legislativo n. 150/2009, all’art. 11, comma 1, che per effetto di quanto disposto dal successivo art. 16 trova immediata applicazione anche negli ordinamenti delle regioni, impone la pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni pubbliche, delle informazioni concernenti ogni aspetto dell'organizzazione e quindi anche degli indirizzi di posta elettronica certificata fruibili dagli interessati. Come precisato dall’art. 54, comma 2-ter, del codice dell’amministrazione digitale, le amministrazioni sono tenute a pubblicare nei propri siti un indirizzo istituzionale di posta elettronica certificata “a cui il cittadino possa rivolgersi per qualsiasi richiesta” e “di assicurare, altresì un servizio che renda noti al pubblico i tempi di risposta”.
Al riguardo, un ulteriore vincolo, che questa volta incide sulle modalità di pubblicizzazione delle caselle di posta elettronica certificata, è dettato dalla “Linee guida per i siti web della P.A - Anno 2010” dettate dal Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione in attuazione della direttiva n. 8/2009 del Dipartimento della funzione pubblica, dove le regioni sono espressamente indicate tra le amministrazioni tenute all’osservanza delle indicazioni impartite (art. 1, comma 3, delle citate linee guida).
Tali linee guida impongono che l’elenco delle caselle di posta elettronica certificata debba essere: a) “costantemente disponibile all’interno della testata”; b) collocato in posizione privilegiata in modo da essere visibile nella home page del sito. L’immediata applicabilità per le Regioni delle disposizioni sopra illustrate e la conseguente cogenza dell’obbligo per le amministrazioni di pubblicare sulla propria home page l’elenco completo delle caselle di posta elettronica certificata e di rendere effettiva la possibilità per l’utente di comunicare tramite posta elettronica certificata è confermata anche da alcune disposizioni del decreto legislativo correttivo al codice dell’amministrazione digitale (D.Lgs. 30.12.2010, n. 235) ed in particolare:
a) dall’abrogazione nel corpo dell’art. 3 del codice dell’amministrazione digitale della disposizione (comma 1-bis) che, con riferimento alle amministrazioni regionali e locali, subordinava l’attuazione del principio relativo al diritto dell’utente di “richiedere ed ottenere l’uso delle tecnologie telematiche” alla sussistenza delle risorse tecnologiche ed organizzative disponibili e al rispetto della loro autonomia normativa;
b) dall’assenza di una specifica disposizione transitoria che dilazioni l’entrata a regime delle disposizioni in materia di comunicazione tra cittadini e pubblica amministrazione tramite posta elettronica certificata, come invece previsto all’art. 57 del D.Lgs. 30.12.2010 n. 235, rubricato “disposizioni transitorie e finali”, per altre disposizioni del codice, quali ad esempio quelle in materia di pagamenti telematici di comunicazioni tra imprese e amministrazioni pubbliche, che sono subordinate all’adozione, entro termini prestabiliti, di successivi decreti ministeriali.
Il quadro normativo sopra tratteggiato delinea quindi in modo chiaro il comportamento esigibile dalla Regione: l’obbligo di soddisfare la richiesta di ogni interessato a comunicare in via informatica tramite posta elettronica certificata e quindi, a monte, l’obbligo di adottare gli atti di carattere tecnico ed organizzativo finalizzati alla pubblicazione sulla pagina iniziale del sito degli indirizzi di posta elettronica certificata e a consentire l’effettiva, concreta ed immediata possibilità di interagire con l’ente attraverso tale modalità di comunicazione elettronica (…omissis), poiché la mancata individuazione di almeno un indirizzo istituzionale di posta elettronica certificata sul sito web (…omissis) nonché la mancata attuazione del diritto degli utenti di comunicare elettronicamente tramite l’utilizzo della stessa determina un disservizio, costringendo gli interessati a recarsi personalmente presso gli uffici e ad utilizzare lo strumento cartaceo per ricevere ed inoltrare comunicazioni e/o documenti.
Va peraltro precisato che il disservizio lamentato estende i suoi riflessi negativi anche sulle modalità di esercizio del diritto del privato di partecipare al procedimento amministrativo poiché l’art. 4, comma 1, del codice dell’amministrazione digitale consente, infatti, di esercitare tali diritti procedimentali anche attraverso strumenti di comunicazione telematici.
Né è possibile sottovalutare le ripercussioni di tale disservizio sulla disciplina delle notificazioni, così come previsto dall’art. 4 del d.lgs. n. 82/2005, il quale consente che “ogni atto e documento può essere trasmesso alle pubbliche amministrazioni con l'uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione se formato ed inviato nel rispetto della vigente normativa”, che attribuisce al documento trasmesso lo stesso valore giuridico della trasmissione del documento in originale, posto che a norma dell’art. 45 dello stesso decreto legislativo il documento trasmesso con qualsiasi mezzo informatico idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfa il requisito della forma scritta e la sua trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale e che “il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all'indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore”.
Alla stregua delle considerazioni svolte, in accoglimento delle censure con cui è dedotta la violazione degli articoli 3, 6 e 54 del codice dell’amministrazione digitale, la Regione (..), è tenuta a consentire agli utenti di interloquire tramite posta elettronica certificata e a rendere visibile nella home page del sito l’elenco degli indirizzi di posta elettronica certificata, come imposto dalle “Linee guida per i siti web della P.A- Anno 2010-” dettate dal Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione.” (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Basilicata,
sentenza 23.09.2011 n. 478 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Sopraelevazione, solo il regolamento pattizio (e provato) può fermarla.
La Corte di Cassazione ha ribadito il principio in virtù del quale il diritto di sopraelevare nuovi piani o nuove fabbriche riconosciuto al proprietario dell'ultimo piano dell'edificio in condominio o del lastrico solare può essere limitato soltanto da un regolamento condominiale di natura contrattuale. Per cui assume fondamentale importanza la dimostrazione, in corso di giudizio, di tale natura che non può essere desunta soltanto dal fatto che il regolamento sia richiamato e accettato o allegato all'atto di compravendita.
La vicenda all’attenzione della Corte di Cassazione con la pronuncia in esame trae origine dall’azione giudiziaria intrapresa da parte di un condominio per l’abbattimento un manufatto costruito ad opera di un condomino sul lastrico solare di sua proprietà pur in presenza di un regolamento condominiale che vietava espressamente ogni tipo di sopraelevazione sulla copertura del fabbricato.
Sia la Corte territoriale che i Giudici di appello avevano accolto l’istanza del condominio di ripristino dello status quo ante sul presupposto dell’accettazione di tale regolamento da parte del condomino in virtù del richiamo contenuto nell’atto di acquisto dell’appartamento.
Contro la statuizione di secondo grado, il condomino proponeva ricorso in cassazione assumendo che soltanto un regolamento contrattuale avrebbe potuto limitare il diritto di sopraelevare riconosciuto dalla legge e, nel caso in concreto, non era stata fornita la prova della sua natura negoziale.
Orbene, l’art. 1127 c.c. riconosce il diritto di costruire nuovi piani o nuove fabbriche al proprietario dell'ultimo piano dell'edificio e al proprietario esclusivo del lastrico solare, salvo che ciò comporti compromissioni delle condizioni statiche o dell’aspetto architettonico dell’edificio o limiti notevolmente l’aria e la luce ai piani sottostanti e salvo che risulti altrimenti da un titolo e cioè da un negozio giuridico pattizio.
E’ questa l’unica deroga normativa, accanto alle due pattizie costituite dal diritto di superficie e dalla proprietà superficiaria, al principio dell'automatico acquisto della proprietà della costruzione e di tutto ciò che venga comunque stabilmente unito al suolo da parte del proprietario di questi: tale eccezione trova la sua giustificazione nel c.d. “regime dualistico” caratterizzante gli edifici in condominio e consistente nella contemporanea presenza di unità immobiliari di proprietà esclusiva e di cose, impianti e servizi di proprietà di tutti i partecipanti.
In esso, infatti, sul suolo, che è di proprietà comune e pro indiviso tra tutti i condomini ai sensi dell’art. 1117 c.c., salvo che risulti diversamente dai titoli di proprietà, vengono realizzate le porzioni immobiliari di proprietà esclusiva, una sopra l’altra, e, quindi, la costituzione di una proprietà superficiaria in favore del proprietario di quella realizzata al di sopra delle preesistenti.
Ciò comporta che il diritto di superficie viene necessariamente a spostarsi verso l'alto, fino all’ultimo piano o al lastrico solare, con la conseguente accessione all’ultimo piano o al lastrico solare di quanto realizzato al di sopra.
Pertanto soltanto il proprietario dell'ultimo piano -e non anche il proprietario di uno dei piani sottostanti- è proprietario anche delle costruzioni realizzate sopra l'ultimo piano.
Di conseguenza nel caso in cui l'ultimo piano sia composto da più unità immobiliari appartenenti a soggetti diversi, ciascuno di questi ha facoltà di sopraelevare relativamente alla proiezione verticale della sola porzione che gli appartiene; viceversa nel caso in cui la proprietà dell'ultimo piano appartenga in comune pro-indiviso a più soggetti, è necessario il consenso unanime di tutti i comproprietari all’edificazione (Cass. S.U. 30.07.2007 n. 16794).
A fronte di tale diritto, però, l'art. 1127 cod. civ. pone a carico del condomino che realizza la sopraelevazione l'obbligo di corrispondere agli altri condomini una indennità, la cui misura è stabilita nel quarto comma del medesimo articolo, per compensare la riduzione del valore delle quote di pertinenza degli altri condomini sulla comproprietà del suolo comune conseguente alla sopraelevazione realizzata da uno di essi e dall'acquisto, da parte di quest'ultimo, della relativa proprietà.
In giurisprudenza si era creata una difformità sul concetto di “nuovo piano o nuova fabbrica”, ormai superata con l’intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte che ha ribadito il concetto che “qualsiasi costruzione oltre l'ultimo piano dell'edificio realizza, in ogni caso, un nuovo piano od una nuova fabbrica indipendentemente dal rapporto con la precedente altezza dell'edificio stesso”.
Questo diritto riconosciuto dalla legge non può essere limitato o escluso da un regolamento di condominio adottato dall’assemblea: infatti, in applicazione dei principi generali del diritto, l’art. 1138 c.c., quarto comma, statuisce che le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino.
Questi possono essere limitati o finanche esclusi soltanto da un titolo, intendendosi per tale l’insieme di tutti gli atti di acquisto di ogni singola unità immobiliare da cui risulti una tale clausola o un contratto, stipulato anche successivamente, fra tutti i condomini o, infine, un regolamento condominiale di natura contrattuale e cioè un regolamento approvato e sottoscritto da tutti i condomini: ciò avviene sia quando esso è stato predisposto dall’unico originario proprietario e allegato e accettato da ogni acquirente delle singole unità immobiliari o cui vi hanno aderito, anche fuori dalla sede assembleare, tutti i singoli condomini.
Tali regolamenti, da considerarsi veri e propri contratti, possono essere trascritti presso l’Agenzia del Territorio e, in tal modo, diventano opponibili nei confronti di tutti e anche dei successivi acquirenti degli immobili pur in assenza di un richiamo espresso nei rogiti notarili.
Ma, quand’anche non trascritti nei pubblici registri immobiliari, essi sono opponibili nei confronti dei successivi acquirenti se richiamati nei singoli atti d’acquisto della proprietà.
Ed è questo il thema decidendum della sentenza in esame: accertare se la clausola limitativa del diritto di sopraelevare contenuta nel regolamento di condominio richiamato e accettato, genericamente, nell’atto di acquisto dell’unità immobiliare è contenuta in un regolamento di condominio di natura assembleare o contrattuale.
Per quanto sopra detto, soltanto nel secondo caso è idonea a escludere il diritto di cui all’art. 1127 c.c..
Ebbene la Corte d’appello nella sentenza impugnata, pur in assenza della prova della natura del regolamento richiamato nell’atto di compravendita, ha fondato la propria decisione sull’apodittica affermazione della sua natura contrattuale, presumibilmente confondendo il concetto della conclusione del contratto con quello della sua opponibilità. In realtà il contratto plurilaterale si forma solo con l'incontro delle volontà di tutte e ciascuna delle parti interessate che, riguardando diritti reali immobiliari, devono necessariamente assumere la forma scritta e non può desumersi dal solo fatto che esso sia allegato ad un singolo atto di acquisto (Corte di Cassazione civile, sentenza 21.09.2011 n. 19209 - tratto da www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Per quanto riguarda i ricorsi avverso i provvedimenti adottati dal Sindaco quale Ufficiale di Governo, la giurisprudenza è concorde nel ritenere valida la notifica effettuata presso la casa comunale, anziché presso l'Ufficio dell'Avvocatura dello Stato competente.
--------------
In materia di tutela dell'ambiente esterno e dell'ambiente abitativo dall'inquinamento acustico, nelle more del procedimento finalizzato alla classificazione del territorio comunale ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. a), della L. n. 447 del 1995, sono operativi i limiti cd. "assoluti" di rumorosità, ma non anche quelli cd. "differenziali".
---------------
L’art. 9 della legge 447/1995 rappresenta, per così dire, l’ordinario rimedio in materia di inquinamento acustico, non prevedendo la citata legge altri strumenti a disposizione delle Amministrazioni comunali con la conseguenza che l’emanazione di questo tipo di ordinanza non dev’essere preceduta dalla prova che siano stati utilizzati altri mezzi giuridici predisposti dall’ordinamento in via ordinaria.
---------------
Appare sufficiente anche la segnalazione di un solo cittadino, così come l’accertamento effettuato presso una sola persona, per consentire al Comune di intervenire per reprimere le violazioni alla disciplina sull’inquinamento acustico, utilizzando a tal scopo lo specifico –ed unico peraltro– strumento messo a disposizione dalla legislazione speciale in materia (legge 447/1995), vale a dire l’ordinanza di cui all’art. 9 della medesima legge 447/1995.
A tal proposito giova in primo luogo rammentare che l’art. 15 della legge regionale lombarda 13/2001 ha cura di precisare che per tale attività le Amministrazioni effettuano precise richieste all’ARPA (il che è avvenuto nel caso di specie), <<privilegiando le segnalazioni, gli esposti, le lamentele presentate dai cittadini residenti in ambiti abitativi o esterni prossimi alla sorgente di inquinamento acustico>> (comma 2°).
Del resto, la più recente giurisprudenza ha ammesso la legittimità di un’ordinanza ex art. 9 citato anche se adottata a seguito di un esposto di una sola famiglia.
---------------
Il potere di ordinanza comunale in materia costituisce espressione della potestà regolatoria volta a conformare l’attività privata al rispetto dei limiti di emissione acustica nell’ambito del territorio comunale; tale potere conformativo può manifestarsi, come del resto è avvenuto nella presente fattispecie, anche attraverso l’obbligo per il responsabile delle immissioni rumorose di ridurre o rimodulare l’orario della propria attività fonte delle suddette immissioni.
---------------
Essendo l’ordinanza in parola strumento ordinario di tutela della salute dei cittadini, anche singoli, come sopra indicato, nessun’altra motivazione è richiesta al fine di dimostrare l’interesse pubblico all’emissione dell’ordinanza in parola.
Neppure per le ordinanze extra ordinem è richiesto che le misure imposte a tutela della salute siano temporanee in quanto la giurisprudenza ha chiarito che l'intervento non deve avere necessariamente il carattere della provvisorietà, atteso che suo connotato essenziale è l'adeguatezza della misura a far fronte alla situazione determinata dall'evento straordinario. Il che chiaramente sta a indicare che nell'adozione di provvedimenti contingibili e urgenti non esiste, in astratto, un metro di valutazione fisso da seguire, ma la soluzione va individuata di volta in volta, secondo la natura del rischio da fronteggiare. Sono, infatti, le esigenze obiettive che si riscontrano nel caso concreto che determinano la «misura» dell'intervento, anche se la soluzione deve corrispondere alle finalità del momento, senza che possa assumere, cioè, i caratteri della continuità e della stabilità.
Il Collegio osserva che, per quanto riguarda i ricorsi avverso i provvedimenti adottati dal Sindaco quale Ufficiale di Governo, la giurisprudenza è concorde nel ritenere valida la notifica effettuata presso la casa comunale, anziché presso l'Ufficio dell'Avvocatura dello Stato competente (Cons. Stato, sez. IV, 28.03.1994, n. 291; Tar Liguria, sez. II, 05.11.2002 n. 1077; Tar Campania Napoli, sez. I, 30.05.2000, n. 1717).
---------------
La giurisprudenza (Tar Friuli Venezia Giulia, Trieste, Sezione 1, sentenza 08.04.2011, n. 183) afferma comunemente che in materia di tutela dell'ambiente esterno e dell'ambiente abitativo dall'inquinamento acustico, nelle more del procedimento finalizzato alla classificazione del territorio comunale ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. a), della L. n. 447 del 1995, sono operativi i limiti cd. "assoluti" di rumorosità, ma non anche quelli cd. "differenziali".
A sostegno di quanto suesposto, occorre far riferimento all'art. 8, comma 1, del D.P.C.M. del 14.11.1997 che testualmente afferma che "In attesa che i comuni provvedano agli adempimenti previsti dall'art. 6, comma 1, lett. a) della legge 26.10.1995 n. 447, si applicano i limiti di cui all'art. 6, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 01.03.1991".
Ne consegue che anche in mancanza di disposizioni regolamentari il Comune ben poteva imporre il rispetto dei limiti assoluti al rumore con un’ordinanza contingibile ed urgente.
---------------
La giurisprudenza di questa Sezione ha da tempo riconosciuto che l’art. 9 della legge 447/1995 rappresenti per così dire l’ordinario rimedio in materia di inquinamento acustico, non prevedendo la citata legge altri strumenti a disposizione delle Amministrazioni comunali (TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 27.12.2007, n. 6819; TAR Lombardia, Milano, IV, 02.04.2008, n. 715) con la conseguenza che l’emanazione di questo tipo di ordinanza non dev’essere preceduta dalla prova che siano stati utilizzati altri mezzi giuridici predisposti dall’ordinamento in via ordinaria.
---------------
La giurisprudenza (TAR Lombardia, Milano, IV, 02.04.2008, n. 715) ha riconosciuto che appare sufficiente anche la segnalazione di un solo cittadino, così come l’accertamento effettuato presso una sola persona, per consentire al Comune di intervenire per reprimere le violazioni alla disciplina sull’inquinamento acustico, utilizzando a tal scopo lo specifico –ed unico peraltro– strumento messo a disposizione dalla legislazione speciale in materia (legge 447/1995), vale a dire l’ordinanza di cui all’art. 9 della medesima legge 447/1995.
A tal proposito giova in primo luogo rammentare che l’art. 15 della legge regionale 13/2001, dopo aver attribuito ai comuni e alle province l’attività di vigilanza e controllo in materia di inquinamento acustico (comma 1°), ha cura di precisare che per tale attività le Amministrazioni effettuano precise richieste all’ARPA (il che è avvenuto nel caso di specie), <<privilegiando le segnalazioni, gli esposti, le lamentele presentate dai cittadini residenti in ambiti abitativi o esterni prossimi alla sorgente di inquinamento acustico>> (comma 2°).
Del resto, la più recente giurisprudenza ha ammesso la legittimità di un’ordinanza ex art. 9 citato anche se adottata a seguito di un esposto di una sola famiglia (TAR Puglia, Lecce, sez. I, 08.06.2006, n. 3340 e sez. I, 24.01.2006, n. 488).
---------------
Il potere di ordinanza comunale in materia costituisce espressione della potestà regolatoria volta a conformare l’attività privata al rispetto dei limiti di emissione acustica nell’ambito del territorio comunale; tale potere conformativo può manifestarsi, come del resto è avvenuto nella presente fattispecie, anche attraverso l’obbligo per il responsabile delle immissioni rumorose di ridurre o rimodulare l’orario della propria attività fonte delle suddette immissioni (TAR Lombardia, Milano, IV, 02.04.2008, n. 715).
Ne consegue che è legittima l’ordinanza che conformi l’attività nei risultati, lasciando le modalità di attuazione alla libera scelta del titolare dell’impresa, e disponga, nel frattempo, la riduzione dell’orario.
---------------
Essendo l’ordinanza in parola strumento ordinario di tutela della salute dei cittadini, anche singoli, come sopra indicato, nessun’altra motivazione è richiesta al fine di dimostrare l’interesse pubblico all’emissione dell’ordinanza in parola (in questo senso Tar Lazio, sez. II, 22.02.1995 n. 242; Tar Toscana, sez. II, 14.02.2000, n. 168; Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 01.07.1993, n. 564; Tar Sicilia, Catania, sez. II, 09.06.1992, n. 596; Tar Puglia, Bari, sez. I, 26.09.2003 n. 3591).
In secondo luogo neppure per le ordinanze extra ordinem è richiesto che le misure imposte a tutela della salute siano temporanee in quanto la giurisprudenza ha chiarito che l'intervento non deve avere necessariamente il carattere della provvisorietà, atteso che suo connotato essenziale è l'adeguatezza della misura a far fronte alla situazione determinata dall'evento straordinario. Il che chiaramente sta a indicare che nell'adozione di provvedimenti contingibili e urgenti non esiste, in astratto, un metro di valutazione fisso da seguire, ma la soluzione va individuata di volta in volta, secondo la natura del rischio da fronteggiare.
Sono, infatti, le esigenze obiettive che si riscontrano nel caso concreto che determinano la «misura» dell'intervento, anche se la soluzione deve corrispondere alle finalità del momento, senza che possa assumere, cioè, i caratteri della continuità e della stabilità (Cons. Stato, sez. V, n. 580 del 09.02.2001) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 21.09.2011 n. 2253 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il procedimento di mobilità volontaria esterna tra pubbliche Amministrazioni.
La giurisprudenza ha affermato che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il procedimento di mobilità volontaria esterna tra pubbliche Amministrazioni, trattandosi di atto di gestione del rapporto di lavoro; tale mobilità, infatti, infatti, determina una semplice cessione del contratto di lavoro del dipendente tra l'Amministrazione di provenienza e quella di destinazione con continuità del suo contenuto (art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001) e non la costituzione di un nuovo rapporto di pubblico impiego o una nuova assunzione. Tutte le vicende che interessano la fase di gestione del rapporto di lavoro e le modifiche soggettive ed oggettive che dovessero intervenire in costanza di esso (ivi compresa la mobilità volontaria) devono, perciò, essere conosciute dal giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, residuando la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie in materia di procedure concorsuali finalizzate all'assunzione dei dipendenti, ossia relative alla fase antecedente alla costituzione del rapporto di impiego (TAR Puglia Lecce, sez. II, 16.08.2011, n. 1509).
Il ricorrente, benché affermi di voler tutelare il proprio diritto all’assunzione derivante dallo scorrimento della graduatoria, può infatti contestare il contenuto e le modalità di svolgimento della selezione per mobilità volontaria solo nella diversa qualità di dipendente pubblico abilitato a parteciparvi, situazione che è ammessa pacificamente dalle parti, facendo valere il proprio interesse alla cessione del suo contratto di lavoro.
Il difetto di giurisdizione investe anche la domanda volta all’accertamento del diritto del ricorrente ad essere assunto dal Comune di Sedriano in quanto il ricorrente fa valere in via principale il suo diritto all’assunzione al di fuori dell’ambito di una procedura concorsuale (Cass. SS.UU. 13.06.2011 n. 12895) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 21.09.2011 n. 2250 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nella valutazione dei concorrenti, vietato superare i criteri del bando.
Per la valutazione delle offerte in gara, la commissione giudicatrice è tenuta a osservare i soli criteri individuati nel bando, non potendo procedere, in caso di loro inutilizzabilità, a un ulteriore esame discrezionale qualitativo dei parametri attribuendo o modificando i punteggi all'esito di valutazioni comparative tra le varie offerte.
Con la sentenza 15.09.2011 n. 5157, la VI Sez. del Consiglio di Stato ha dunque evidenziato come nel l'ambito di un appalto pubblico non è comunque consentito alla Commissione di gara –nominata dall'ente (ex articolo 84, comma 1, Dlgs 163/2006) e che ha scelto di seguire il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa– di procedere discrezionalmente a una fase di analisi comparativa non prevista nella lex specialis. E questo anche nel caso –non escludibile nel campo dell'Information technology– di uguaglianza delle offerte perché riferite allo stesso prodotto informatico.
Il fatto scaturisce dall'impugnazione del provvedimento di aggiudicazione di una gara indetta per la realizzazione di un sistema DataWareHouse, in cui le uniche due imprese concorrenti avevano basato la propria offerta su identica piattaforma software.
La Commissione giudicatrice ha ritenuto di poter individuare la migliore offerta soltanto attraverso un esame delle soluzioni di dettaglio nonché delle modalità di organizzazione dei dati e della mappatura nei software di processi, affermando, comunque, che dalla comparazione non vi sarebbe stata «modifica successiva dei punteggi, ma solo espressione posticipata di giudizi». Come osservato dalla Sezione, questo ulteriore procedimento di valutazione non era espressamente previsto nel bando di gara e ha, di fatto, comportato l'esercizio da parte della commissione, di un potere discrezionale non consentito,in violazione di quanto previsto dalla lex specialis, oltre che delle regole generali indicate dall'articolo 83, del Dlgs n. 163/2006).
Peraltro, in questi casi proprio la norma in questione del Codice dei contratti pubblici consente, per la predisposizione del bando di gara, non solo di poter individuare i criteri di valutazione (comma 1), ma di precisarne, per ciascuno, la relativa ponderazione (comma 2), e qualora questo procedimento risulti inapplicabile, di poter indicare un ordine decrescente di importanza di tali parametri (comma 3); nonché di specificare, all'occorrenza, sub-criteri, sub-pesi o sub-punteggi (comma 4). Consente inoltre di tenere conto che le metodologie da utilizzare per attuare la ponderazione o per attribuire il punteggio a ciascuna offerta, devono essere conformi a quanto stabilito dal regolamento attuativo e tali da consentire di individuare un unico parametro numerico finale (comma 5).
I criteri di scelta che la Commissione avrebbe dovuto adottare, vista l'identicità del prodotto indicato nelle offerte, avrebbero dovuto pertanto riguardare la valutazione di fattori qualitativi delle stesse. Invece si è verificata una fase irrituale di valutazione discrezionalmente gestita dalla Commissione. Nel l'ipotesi poi di stallo vero e proprio, a fronte dell'impossibilità di poter effettuare una concreta attribuzione di punteggi, l'unico rimedio sarebbe stato la reiterazione della gara con individuazione più precisa e puntuale dei criteri da seguire (articolo Il Sole 24 Ore del 03.10.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza minima, decide lo Stato. I comuni non possono diminuire i limiti tra gli edifici. Il Tar Lombardia chiarisce i rapporti tra normativa nazionale e locale in tema di costruzioni.
I regolamenti comunali non possono diminuire la distanza minima tra edifici richiesta dalla disciplina di livello nazionale. I dieci metri previsti dalla normativa edilizia statale come limite minimo da rispettare per le nuove costruzioni da erigere a fronte delle pareti finestrate non possono quindi essere derogati dagli enti locali.
Lo ha stabilito di recente il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, con la sentenza 07.06.2011 n. 1419, nella quale i giudici amministrativi hanno chiarito i rapporti tra normativa statale e locale in materia di distanze tra le costruzioni.
La sentenza del Tar Lombardia. Nel caso in questione alcuni privati avevano impugnato la concessione edilizia rilasciata da un comune lombardo ai rispettivi vicini di casa per la costruzione di un'autorimessa ritenuta troppo vicina al proprio fabbricato.
Il provvedimento di autorizzazione comunale era infatti stato adottato sulla base di quanto previsto dal regolamento edilizio locale, che ammetteva l'erezione di nuovi manufatti con l'osservanza della distanza minima di soli cinque metri tra una costruzione e l'altra. I ricorrenti avevano quindi chiesto l'annullamento della concessione edilizia, segnalando la violazione dell'art. 9 del decreto ministeriale n. 1444/1968, che prevede il rispetto di una distanza minima di 10 metri tra nuovo e vecchio edificio.
La quarta sezione del Tribunale amministrativo regionale lombardo, richiamando un proprio recentissimo precedente (sentenza n. 1282/2011), ha quindi avuto modo di chiarire che la misura minima tra le costruzioni prevista dall'art. 9 del dm n. 1444/1968 ha valore cogente e non derogabile nei confronti delle pubbliche amministrazioni, nemmeno in sede di formazione e revisione dei propri strumenti urbanistici, con la conseguenza che eventuali norme locali in contrasto con la disciplina regolamentare nazionale devono ritenersi illegittime e, come tali, vanno disapplicate, potendo i comuni disporre soltanto la fissazione di distanze minime in misura superiore a quella prevista nella citata disposizione.
Il Tar ha quindi fornito anche una lettura estensiva dell'espressione «pareti finestrate» di cui all'art. 9, comma 2, del predetto decreto ministeriale, chiarendo che con tale termine devono intendersi non soltanto le pareti munite di vedute ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi e finestre di ogni tipo.
Le distanze minime tra gli edifici. Il tema delle distanze minime da rispettare nella costruzione di nuovi edifici appassiona spesso gli operatori del diritto e i tecnici, affollando di conseguenza le aule dei tribunali civili e amministrativi di cause, c.d. di vicinato, nelle quali si litiga appunto per fare accertare il diritto a che il vicino costruisca a una distanza maggiore dal proprio confine.
Nel codice civile è contenuto un articolo, il numero 873, che prescrive una distanza minima di tre metri fra le costruzioni, a meno che le stesse non siano unite o aderenti (fattispecie che presuppone la mancanza nelle pareti di luci o vedute: si veda il relativo approfondimento). La norma in questione, proprio per la sua collocazione, riguarda però i rapporti tra i privati e rileva ai fini del risarcimento del danno da riconoscere in favore del soggetto vittima del comportamento illegittimo del vicino.
A livello edilizio e urbanistico, invece, la norma di riferimento per le distanze tra edifici è l'art. 9 del dm 02.04.1968, n. 1444, emanato in esecuzione dell'art. 41-quinquies della legge urbanistica n. 1150/1942, come modificato dalla successiva legge n. 765/1967, che come detto prescrive la distanza minima inderogabile di 10 metri tra pareti finestrate o pareti di edifici antistanti.
La disposizione in questione impone infatti determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o nella revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante nei rapporti tra i privati. Pertanto, come evidenziato dalla Corte di cassazione (sezione seconda, sentenza n. 3771/2001), l'eventuale previsione nei regolamenti urbanistici locali di distanze inferiori a quelle prescritte dal predetto art. 9 è da considerarsi illegittima e deve essere disapplicata.
Tuttavia la previsione del dm n. 1444/1968 non può considerarsi immediatamente applicabile nei rapporti tra i privati, almeno fino a che non la misura della distanza minima tra edifici non sia stata inserita negli stessi strumenti urbanistici adottati o modificati a livello locale.
---------------
Almeno tre metri tra finestre e fabbricati.
Le distanze tra le luci e le vedute (con tali termini si intendono, in buona sostanza, i balconi e le finestre di qualsiasi dimensione e forma) e i fabbricati, secondo quanto previsto dall'art. 907 c.c., non possono essere inferiori ai tre metri (e, quindi, non può essere mai ammessa la costruzione in aderenza, che equivarrebbe alla chiusura della luce o della veduta). Secondo il disposto dell'art. 900 c.c., infatti, le luci «danno passaggio alla luce e all'aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino», mentre le vedute o prospetti «permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente».
Da evidenziare come, secondo la giurisprudenza ormai consolidata di legittimità (Cassazione, sezione seconda, sentenza n. 12097/1995 e sentenza n. 10500/1994), la nozione di costruzione comprende non solo i manufatti in calce e mattoni, ma qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata eretta, sia di ostacolo alla libera visuale del proprietario dell'immobile confinante. La norma in questione attribuisce al privato un vero e proprio diritto soggettivo, con la conseguenza che anche la pubblica amministrazione non può legittimamente autorizzare la costruzione di opere che non rispettino tali distanze minime.
Il presupposto logico-giuridico dell'applicazione della disciplina della distanza delle costruzioni dalle vedute è ovviamente quello dell'anteriorità dell'acquisto del diritto alla veduta sul fondo vicino rispetto all'esercizio, da parte del proprietario di quest'ultimo, del proprio ius aedificandi, ovvero del proprio diritto di elevare delle costruzioni sul proprio terreno. Perché si possa parlare di veduta la situazione di fatto dell'immobile dal quale si pretende di esercitare tale diritto deve consentire le c.d. inspectio e prospectio sul fondo vicino, ovvero una piena e comoda visione del paesaggio circostante.
In particolare la inspectio si concreta nella possibilità di guardare nel fondo del vicino senza l'uso di mezzi artificiali, mentre la prospectio consiste nello sporgere il capo e nel vedere nelle diverse direzioni in modo agevole e non pericoloso (si veda Cassazione, sentenza n. 15371/2000). In altre parole, l'apertura sul fondo del vicino costituisce veduta quando la stessa consenta di affacciarsi e di guardare secondo una valutazione rapportata a criteri di comodità, sicurezza e normalità.
È appena il caso di osservare che è del tutto irrilevante l'amenità del paesaggio che è possibile osservare dalla veduta: che si tratti di un pittoresco paesaggio marino, piuttosto che di un povero orto di campagna o di una ciminiera industriale, il diritto del proprietario della veduta è appunto quello di avere libero e senza ostacoli il relativo spazio visivo (articolo ItaliaOggi Sette del 03.10.2011).

AGGIORNAMENTO AL 03.10.2011

ã

UTILITA'

ENTI LOCALI: Piccoli comuni, le scadenze fissate dalla legge.
Entro il 17.11.2011 le Regioni possono legiferare sulle dimensioni degli ambiti, entro il 31.12.2011 i Comuni tra 1.000 e 5.000 abitanti devono gestire in forma associata almeno due funzioni.

La “manovra-bis”, legge n. 148 del 2011, contiene numerose e incisive disposizioni che impattano direttamente sui piccoli Comuni e sulle Unioni di Comuni da essi costituite.
In particolare è evidenziata, innanzitutto, la scadenza del 17 novembre p.v., ovvero dei due mesi previsti (entrata in vigore della legge) dal comma 6 dell’art. 16, affinché ciascuna Regione possa esercitare la facoltà di individuare limiti demografici diversi da quanto stabilito dalla nuova normativa per le Unioni costituita da Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, obbligati all’esercizio associato di tutte le funzioni amministrative e dei servizi pubblici.
Tali Unioni, infatti, dovranno essere istituite in modo che la complessiva popolazione residente nei rispettivi territori sia di norma superiore a 5.000 abitanti, ovvero a 3.000 abitanti qualora i Comuni che intendano comporre la stessa Unione appartengano o siano appartenuti a Comunità montane.
Altra scadenza rilevante è quella del 31.12.2011.
L’art. 16, al comma 24, ha parzialmente modificato quanto già determinato dal DL 78/2010, aumentando a 10.000 abitanti il limite demografico minimo per la costituzione delle Unioni di Comuni e delle convenzioni formate da Comuni con una popolazione compresa tra 1.000 e 5.000 abitanti, per l’esercizio delle funzioni fondamentali.
Tale innovazione comporta, inoltre, l’obbligo dell’esercizio associato di tutte le funzioni fondamentali entro il 31.12.2012, mentre resta invariata la tempistica per l’esercizio di almeno due funzioni fondamentali da definire appunto entro il 31 dicembre dell’anno in corso.
Anche in questo caso, la Regione ha due mesi di tempo (quindi entro il 17 novembre p.v.) dall’entrata in vigore della legge n. 148 per esercitare la facoltà di stabilire un limite demografico diverso.
Infine, sempre per fornire agli Enti interessati ogni utile assistenza di carattere interpretativo, a breve sarà aperta sul sito ANCI una finestra dedicata a tali tematiche con prime risposte e commenti in merito alle (FAQ) domande che più frequentemente sono state formulate fino ad oggi (commento tratto da www.anci.lombardia.it).
---------------
ALLEGATO: l'utile tabella crono-normativa elaborata da ANCI.

EDILIZIA PRIVATA: 149 domande e risposte sul Nuovo Conto Energia. Tutti i dubbi sciolti dal GSE!
Cosa è un impianto fotovoltaico?
Quali impianti possono accedere al Quarto Conto Energia?
Cosa si intende per“piccoli impianti” e “grandi impianti”?
Quali sono le procedure per accedere agli incentivi?
In quali casi è possibile ottenere un incremento della tariffa incentivante?
Come avvengono i rimborsi?
E’ possibile utilizzare una casella di Posta Elettronica Certificata (PEC) per ricevere comunicazioni da parte del GSE?
La risposta a tutte queste e altre domande (in totale ben 149) fornita dal GSE (Gestore dei Servizi Elettrici), per sciogliere tutti i dubbi scaturiti dagli operatori del settore e da tutti gli interessati ad accedere agli incentivi.
Vengono fornite risposte a quesiti sulle istruzioni operative per accedere agli incentivi, sulla cumulabilità degli incentivi, sulla compilazione delle schede tecniche, sui grandi impianti, sull’utilizzo del portale informatico.
Ricordiamo che la nuova versione 8 di Solarius-PV (il software ACCA per la progettazione di impianti fotovoltaici) è già aggiornata al Quarto Conto Energia (29.09.2011 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia n. 39 del 29.09.2011, supplemento, "Avviso di rettifica Legge regionale 04.08.2011, n. 12 «Nuova organizzazione degli enti gestori delle aree regionali protette e modifiche alle leggi regionali 30.11.1983, n. 86 (Piano generale delle aree regionali protette. Norme per l’istituzione e la gestione delle riserve, dei parchi e dei monumenti naturali, nonché delle aree di particolare rilevanza naturale e ambientale) e 16.07.2007, n. 16 (Testo unico delle leggi regionali in materia di istituzione dei parchi)», pubblicata sul BURL n. 31 Supplemento del 05.08.2011" (avviso di rettifica).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: R. Bertuzzi, L'attuale operatività dei rifiuti: SISTRI gli obblighi, adempimenti a carico di coloro che producono, trattano, trasportano  rifiuti (Legge 14.09.2011 n. 148 – G.U. 16.09.2011) (link a www.lexambiente.it).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Prevenzione incendi. Autorimessa privata con 10 posti auto, sussiste l'obbligo del CPI?
Domanda.
Il condominio dove abito manca di agibilità poiché privo del CPI relativo all'autorimessa privata con 10 posti auto. Per ovviare all'obbligatorietà del CPI, c'e' la possibilità, dato l'impianto planimetrico simmetrico e la presenza di un doppio accesso carrabile, di dividere il piano seminterrato in 2 autorimesse di 5 autoveicoli ciascuna.
A questo punto rientriamo nel caso delle autorimesse private fino a 9 autoveicoli, senza obbligatorietà del CPI, ma il professionista e comunque l'amministratore del condominio devono comunque rispettare e garantire autonomamente i criteri di prevenzione incendi.
In tal caso va presentato comunque su modello PIN1 il parere di conformità sui singoli progetti al Comando Vigili del Fuoco? Oppure rientra nel caso della deroga con modello PIN2?
Risposta.
Nel caso in specie, se l'autorimessa ha una capacità di parcamento inferiore a 9 autoveicoli, il titolare dell'autorimessa stessa non ha l'obbligo della richiesta del rilascio del CPI, in quanto non rientra tra le attività soggette il cui elenco si trova in allegato al D.M. 16.02.1982.
Il titolare dell'autorimessa dovrà comunque rispettare il D.M. 01.02.1986, in particolare il punto 2. Autorimesse aventi capacità di parcamento non superiore a nove veicoli. Non dovrà quindi essere presentato né il modello PIN1, né il modello PIN2 in quanto non si tratta di una deroga all'osservanza della vigente normativa antincendio (28.09.2011 - tratto da www.ipsoa.it).

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALIConsulenze e pr, tagli senza sconti. Stretta su incarichi specialistici e pubblicità istituzionale. Le sezioni unite della Corte dei conti chiariscono l'interpretazione delle norme del dl 78/2010.
Il taglio delle spese per consulenze, incarichi, pubbliche relazioni e pubblicità non conosce eccezioni. Nemmeno quando si tratta di consulenze «altamente specialistiche», che esulano dalle competenze delle professionalità interne alle amministrazioni, o di pubblicità istituzionale, indispensabile per informare i cittadini sulle modalità di fruizione dei servizi pubblici. Entrambe non sfuggono, contrariamente a quanto affermato dalla Corte conti Lombardia, all'austerity prevista dalla manovra correttiva 2010 (dl 78) che ha imposto una riduzione dell'80% dei costi registrati nel 2009.
A chiarirlo sono le Sezioni unite di controllo della Corte Conti con la delibera 21.09.2011 n. 50 resa nota ieri.
I supremi giudici contabili sono stati chiamati in causa dalla sezione dell'Emilia Romagna a cui si era rivolto il Consiglio delle autonomie locali della regione per sciogliere una serie di dubbi interpretativi. Sulla corretta lettura da dare alle norme del dl 78 (art. 6, commi 7 e 8) i giudici emiliani hanno alzato le mani rimettendo i quesiti alle sezioni unite. Le quali tra la tesi più morbida suffragata dalla Corte conti Lombardia (che propende per escludere dal taglio le consulenze specialistiche e le spese per le finalità istituzionali previste dalla legge n. 150/2000) e quella più restrittiva fatta propria dalla sezione dell'Emilia Romagna hanno scelto quest'ultima. Sconfessando apertamente i giudici lombardi la cui interpretazione, hanno scritto, «non appare coerente con la disciplina dettata in materia che prevede tra i presupposti per il ricorso a collaborazioni il preliminare accertamento dell'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili».
Quanto alle spese di pubblicità, le sezioni unite hanno condiviso i timori della Corte conti Lombardia in ordine ai possibili effetti negativi sull'efficacia dei servizi, ma hanno ritenuto di dover escludere dalla stretta solo le forme di pubblicità previste dalla legge come obbligatorie (per esempio la pubblicità legale ndr). «L'ulteriore esclusione», hanno scritto i giudici, «di quelle relative alla c.d. pubblicità istituzionale porterebbe inevitabilmente a privare il precetto delle finalità di risparmio previste» in considerazione dell'ampiezza delle attività di formazione e comunicazione di cui alla legge n. 150/2000.
Inoltre, hanno concluso le sezioni unite, un altro argomento a favore di un'interpretazione ampia della stretta, va rinvenuto nella previsione di specifiche deroghe (convegni organizzati dalle università e dagli enti di ricerca, feste nazionali e, solo per il 2012, mostre). «La loro presenza, ove si accedesse a un'interpretazione restrittiva, si rivelerebbe in alcuni casi non utile, potendo rientrare tra le forme di pubblicità istituzionale» (articolo ItaliaOggi del 29.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSul personale limiti senza esclusioni.
È arrivata la prima interpretazione, estensiva, sul corretto calcolo del rapporto tra spese di personale e spese correnti per gli enti locali dopo che il Dl 98/2011 ha richiesto l'inserimento dei valori delle società partecipate. Una percentuale al di sopra del 40% impedisce qualsiasi tipologia di assunzione.
La Corte dei Conti della Lombardia con il parere 20.09.2011 n. 479 ha avuto affrontato il nodo della tipologia di società coinvolte nel calcolo circoscrivendo il perimetro del consolidamento. Sono oggetto della norma tutte le società controllate da enti locali che siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali a rilevanza economica, oppure che svolgano servizi pubblici locali privi di rilevanza economica (a prescindere dall'affidamento diretto), oppure che svolgano attività strumentali (anch'esse a prescindere dall'affidamento diretto).
Il problema posto dal Comune di Osio Sotto mirava anche a puntualizzare un aspetto incerto, ovvero se l'obbligo di calcolo complessivo è da intendersi riferito alle sole spese del personale sostenute dalla partecipata per i centri di costo relativi ai servizi gestiti in house o anche agli altri servizi gestiti dalla stessa in forma autonoma. Non è infatti raro che le società, una volta costituite, forniscano attività anche per il libero mercato.
La conclusione è quella a maggior tutela dei conti della finanza pubblica. L'attività di una società interamente partecipata sia essa affidataria diretta di servizi pubblici locali a rilevanza economica, o svolga servizi pubblici locali privi di tale rilevanza o attività strumentali - è imputata nel suo complesso all'ente locale socio totalitario anche in relazione ai centri di costo (e relativi servizi) "autonomi".
Si attendono ora istruzioni sulle modalità di trasformazione dei dati contabili delle società nei dati finanziari degli enti (articolo Il Sole 24 Ore del 29.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

LAVORI PUBBLICIIl leasing rischioso va trattato come il debito.
ESAME OBBLIGATORIO - Stop alle operazioni se non sono precedute da un test di convenienza sulle diverse componenti dei contratti.

Gli effetti finanziari del leasing in costruendo sono assimilabili all'indebitamento, con i conseguenti divieti per gli enti che non hanno rispettato il Patto di stabilità o superano i limiti (progressivamente in diminuzione) nel rapporto fra spese per interessi ed entrate correnti, quando i rischi riguardanti l'opera e la sua gestione ricadono sull'amministrazione.
Lo chiariscono le sezioni riunite di controllo della Corte dei Conti, che nella delibera 16.09.2011 n. 49 diffusa ieri fissano una griglia rigida per l'attivazione di operazioni sempre più praticate dagli enti locali per la realizzazione di opere pubbliche e immobili. A rendere attraente il leasing è la possibilità di aprire una strada alternativa alla costruzione, in grado di evitare i vincoli del Patto di stabilità. Senza regole univoche per la contabilizzazione delle spese e per l'analisi sull'equilibrio dei conti, però, il rischio è di andare incontro a una quota crescente di operazioni finanziarie che sfuggono al controllo.
Nasce da qui l'allerta dei magistrati contabili, che imbrigliano il leasing in costruendo fissando una serie di pre-condizioni indispensabili alla sua realizzazione. In pratica, con questo strumento, l'ente ottiene dalla società di leasing il godimento di un bene per un determinato numero di anni, dietro pagamento di un canone periodico; al termine del periodo, l'ente può riscattare il bene (l'importo del riscatto è predeterminato nel contratto iniziale di leasing). A seconda delle modalità attuative, ricadono sull'ente o sul privato il rischio di costruzione (riguardante il fatto che l'opera sia effettivamente realizzata nei tempi), e quelli di gestione (il rischio di domanda, sul fatto che l'opera trovi un utilizzatore, o quello di disponibilità, sul fatto che venga concessa all'ente).
Sulla base di questa classificazione, ripresa dai criteri Eurostat, la Corte fissa una regola generale: per evitare di dover assimilare il leasing all'indebitamento, i rischi devono «pienamente sussistere in modo sostanziale e non solo formale a carico del privato». La distribuzione dei rischi dipende dalle caratteristiche del singolo contratto (per esempio dalla presenza del riscatto finale, che secondo la Corte è «particolarmente conveniente o addirittura necessario» nel leasing in costruendo). Ma la delibera fa anche di più, e sulla scorta di quanto accade per gli altri contratti finanziari (ad esempio gli swap) prevede una dettagliata analisi di convenienza economica dell'operazione come condizione preventiva indispensabile per la sua realizzazione.
Per «scongiurare eventuali elusioni dei vincoli di finanza pubblica», la Corte chiede di valutare tutte le componenti dell'operazione proprio in base ai criteri Eurostat; un'indicazione ancora più stringente dopo che la manovra estiva ha introdotto sanzioni economiche ai funzionari e agli amministratori che mettono in piedi operazioni elusive del Patto (articolo Il Sole 24 Ore del 29.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

LAVORI PUBBLICILeasing immobiliare, occhio al debito.
Quando stipulano un contratto di leasing immobiliare (in base al quale un soggetto concede in godimento alla p.a. un bene immobile dietro pagamento di un canone periodico per un certo numero di anni) gli enti locali devono rispettare i limiti all'indebitamento. Perché il «leasing in costruendo» è un contratto che ha «un'importante componente di finanziamento» e perciò va coordinato con i vincoli del patto di stabilità.
A precisarlo sono state le Sezioni unite di controllo della Corte dei Conti con la delibera 16.09.2011 n. 49, resa nota solo ieri.
A rivolgersi alle sezioni unite è stata la Corte conti delle Marche a sua volta interpellata dal comune di Sassocorvaro (Pu). I supremi giudici amministrativi hanno sgombrato il campo da dubbi, non cedendo alla tentazione di interpretare in modo soft le norme di legge. Una tentazione in cui invece è caduto il comune marchigiano ingannato dal fatto che l'art. 3, comma 17 della legge n. 350/2003 non contempla i contratti di leasing tra le operazioni finanziarie che per gli enti locali costituiscono indebitamento ai sensi dell'art. 119 della Costituzione.
Con il leasing immobiliare, hanno chiarito invece le sezioni unite, «l'ente vincola in modo continuativo una parte delle risorse disponibili per pagare i canoni di locazione. Si tratta di un vincolo che, indipendentemente dalle modalità di contabilizzazione, è assimilabile al debito».
E un'interpretazione formale, basata sul semplice tenore letterale della norma, «si porrebbe in contrasto con la ratio della stessa, non assoggettando al limite di indebitamento operazioni che sostanzialmente ne hanno la natura» (articolo ItaliaOggi del 29.09.2011).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA - VARIVerso la proroga in Catasto. Un altro mese per mettere in regola i fabbricati. Il ministero dell'economia studia la riapertura dei termini sugli immobili rurali.
Una boccata d'ossigeno per la presentazione della domanda di variazione catastale per i fabbricati rurali. Al ministero dell'economia si starebbe studiando un'eventuale proroga, che potrebbe essere di un mese, per la presentazione della domanda il cui termine è scaduto ieri. Dunque più che una vera e propria proroga accordata sul filo di lana si tratterebbe di riapertura dei termini.
Il termine, scaduto ieri (30/09/2011), è stato fissato dal comma 2-bis, dell'art. 7, decreto legge n. 70/2011 (decreto sviluppo) e si è reso necessario per presentare all'Agenzia del Territorio la domanda di variazione della categoria catastale per l'attribuzione della categoria «A/6» alle abitazioni rurali o della categoria «D/10» per i fabbricati rurali strumentali, con le modalità indicate dal recente decreto del 14.09.2011 del Ministro dell'Economia e delle Finanze, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 220 del 21 settembre 2011.
La domanda di variazione della categoria, finalizzata all'acquisizione della qualifica rurale della costruzione, deve essere presentata al competente ufficio provinciale dell'Agenzia del Territorio, insieme a una o più autocertificazioni (dichiarazione sostitutiva) con firma autenticata, su modelli conformi agli allegati A, B e C del decreto, insieme con ogni altro documento utile. Sul sito dell'Agenzia è inoltre disponibile una specifica applicazione web, che consente la compilazione e l'invio della domanda con il contestuale ottenimento dell'identificativo numerico, con la possibilità di trasmettere all'Ufficio provinciale dell'Agenzia la documentazione prevista entro i 15 giorni successivi. In commissione finanze della camera, il 28 settembre scorso il sottosegretario all'economia, Bruno Cesario, aveva escluso una proroga lunga fino al 30.06.2012 dell'adempimento (ItaliaOggi, 29/09/2011).
La variazione si rende necessaria, come detto, al fine di ottenere una qualificazione specifica delle costruzioni rurali, rispettose delle condizioni di cui al comma 3 (abitativi) e 3-bis (strumentali), dell'art. 9, dl n. 557/1993 e vale come mini-sanatoria per il pregresso, stante il fatto che la dichiarazione sostitutiva impone l'attestazione del possesso di detti requisiti per il quinquennio precedente; il Territorio ha tempo fino al prossimo 20 novembre per verificare, ai sensi del comma 2-ter, dell'art. 7, del decreto sviluppo, la sussistenza dei requisiti e convalidare l'assegnazione nelle categorie prescritte dei fabbricati, che potranno beneficiare dell'esenzione dall'imposizione diretta e dall'Ici, anche per i periodi pregressi.
Nel caso di mancato riconoscimento dell'attribuzione della categoria richiesta (circolare 6/T/2011), il Territorio emana un provvedimento motivato (e annotato negli atti catastali) da notificarsi agli interessati, impugnabile dai proprietari dinanzi alle commissioni tributarie, nel rispetto delle modalità e dei termini prescritti dal dlgs n. 546/1992 (articolo ItaliaOggi dell'01.10.2011).

PUBBLICO IMPIEGOLA GUIDA COMPLETA ALLA MANOVRA/ Pubblico impiego: dal TFR ai tagli.
Dalla mobilità al trattenimento al lavoro. Le riduzioni dei posti nelle amministrazioni centrali. I piani di riorganizzazione delle Pa. Le regole sulle visite fiscali in caso di malattia. ... (articolo Il Sole 24 Ore del 30.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOSSERVATORIO VIMINALE/ Occhio ai costi se il dipendente cambia il part-time in tempo pieno.
Un ente locale può accogliere la richiesta, presentata da un dipendente, di trasformare il proprio rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno (contratto di lavoro con il quale lo stesso era stato originariamente assunto) tenuto conto che l'incremento di spesa che ne deriverebbe si porrebbe in contrasto con i vincoli posti dalla normativa applicabile agli enti di minori dimensioni ex art. 1, comma 562, della legge n. 296/2006, nonché con il parametro tra spesa di personale e spese correnti, stabilito dall'art. 14, comma 9, del dl 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010?

La disciplina del rapporto di lavoro a tempo parziale è contenuta nell'art. 4 del Ccnl del 14/09/2000, e in particolare, nei commi 14 e 15, che regolano rispettivamente il caso del dipendente già assunto a tempo pieno e che successivamente abbia chiesto la trasformazione del rapporto a tempo parziale e il caso del dipendente assunto direttamente a tempo parziale.
Nel caso di specie, trova quindi applicazione il comma 14, secondo cui il dipendente ha diritto di tornare a tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla trasformazione, anche in soprannumero, oppure prima della scadenza del biennio, a condizione che vi sia la disponibilità del posto in organico. La clausola contrattuale, che riproduce il testo dell'art. 6, comma 4, del dl 28/03/1997, n. 79 convertito in legge 28/05/1997, n. 140, riconosce, quindi, un vero e proprio diritto soggettivo il cui soddisfacimento non può essere autoritativamente differito.
Come sostenuto dalla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, nella deliberazione n. 002/2009/Par, «ammettere la comprimibilità di tale diritto significherebbe ammettere la comprimibilità di tutti i diritti sorti in base a disposizioni vincolanti, di fonte legale o contrattuale, che incidono sulla spesa di personale».
L'ente locale, sempre secondo le indicazioni della stessa Corte, dovrebbe tenere conto, sin dal momento della stesura del bilancio di previsione, della possibilità che venga esercitato «il diritto del personale in part-time alla ricostituzione del tempo pieno alla scadenza del biennio e, conseguentemente, adottare le necessarie iniziative di contenimento di altre componenti della spesa di personale al fine di rispettare i vincoli derivanti dalla legislazione finanziaria».
L'ente locale dovrà, pertanto, adottare quelle misure, di sua esclusiva pertinenza, che consentano di rispettare, nel contempo, gli obblighi di matrice contrattuale e le misure di contenimento della spesa pubblica stabilite dalle manovre finanziarie (articolo ItaliaOggi del 30.09.2011).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOSSERVATORIO VIMINALE/ Turnover.
Un ente locale, soggetto alle norme del patto di stabilità e con un'incidenza delle spese di personale rispetto alla spesa corrente pari al 27,98%, può conteggiare anche le cessazioni verificatesi negli anni pregressi ai fini del calcolo del turnover del settore di polizia municipale per le assunzioni da effettuarsi ai sensi dell'art. 1, comma 118, della legge n. 220/2010?

L'art. 1, comma 118, della recente legge 13.12.2010, n. 220 (legge di stabilità 2011), aggiungendo un periodo al comma 7 dell'art. 76 del dl 25.06.2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 06.08.2008, n. 133, e successivamente modificato dal richiamato dl 78/2010, ha previsto la possibilità, per gli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale è pari o inferiore al 35% delle spese correnti, di effettuare le assunzioni per turnover che consentano l'esercizio delle funzioni fondamentali previste dall'art. 21, comma 3, lett. b), della legge 05.05.2009, n. 42, in deroga al 20% e comunque nel rispetto degli obiettivi del patto di stabilità interno e dei limiti di contenimento complessivi delle spese di personale.
Dalla formulazione della norma soprarichiamata, non appare possibile utilizzare nel calcolo del turnover i posti che si sono resi vacanti negli anni pregressi, dovendosi fare esclusivo riferimento alle cessazioni verificatesi nell'anno precedente, come espressamente indicato dal comma 7, dell'art. 76 della legge n. 133/2008 (articolo ItaliaOggi del 30.09.2011).

EDILIZIA PRIVATAPrevenzione incendi avanti. Al via il processo di snellimento delle procedure. Dal 7 ottobre in vigore le nuove regole della riforma. Ecco cosa cambia.
Al via la nuova riforma della prevenzione incendi. Con il nuovo regolamento di prevenzione incendi introdotto dal dpr 01.08.2011, n. 151 (pubblicato sulla G.U. 221 del 22.09.2011) e le cui regole entreranno in vigore il prossimo 7 ottobre, infatti, ha inizio un processo di snellimento del sistema autorizzativo in capo al Corpo nazionale dei Vigili del fuoco.
Per la prima volta, infatti, in una materia così complessa viene concretamente incoraggiata un'impostazione fondata sul principio di proporzionalità in base al quale gli adempimenti amministrativi vengono diversificati in relazione al livello di rischio connesso con l'attività. Questo naturalmente, mantenendo inalterato il livello di sicurezza che oggi la prevenzione incendi ha raggiunto in Italia.
Va, infatti, ricordato che l'Italia ha un numero di vittime per incendi (per milione di abitanti) che è il più basso al mondo, così come è il più basso al mondo il costo (in termini percentuali rispetto al pil) dei danni dovuti all'incendio. Cambiano così dopo 30 anni le attività soggette ai controlli di prevenzione incendi (di cui al dm 16/02/1982) che da 97 si riducono a 80, e vanno in pensione gli allegati A e B del dpr 689/1959.
Le attività soggette vengono ripartite in tre categorie (A, B, C), individuate a seconda della gravità del rischio, della dimensione o del grado di complessità dell'attività stessa e i procedimenti vengono differenziati, divenendo più semplici per le attività meno complesse (A e B). In questo modo, per le attività rientranti nella categoria A, soggette a norme tecniche verticali, sparisce il parere di conformità e il progetto deve essere presentato contestualmente alla Scia (Segnalazione certificata di inizio attività).
Per le attività in B e C invece, viene mantenuto il parere di conformità, ma l'inizio attività sarà assoggettato alle procedure previste a lavori ultimati per la Scia (Segnalazione certificata di inizio attività). Una semplificazione avverrà anche per i controlli in campo, che nel caso di attività di tipo A e B diverranno a campione, mentre per le attività di categoria C saranno a tappeto.
Quali quindi i criteri che hanno ispirato il Corpo nazionale nell'emanazione di questa nuova riforma? Innanzitutto l'eliminazione, la riduzione o semplificazione delle procedure ridondanti o sproporzionate in relazione alla dimensione, all'attività esercitata dall'impresa o alle esigenze di tutela degli interessi pubblici coinvolti; l'informatizzazione e poi l'estensione dell'autocertificazione e delle attestazioni dei tecnici abilitati e delle agenzie per le imprese.
Anche i professionisti quindi, con la riforma, assumono un ruolo di maggiore coinvolgimento nel sistema della prevenzione e della sicurezza. Proprio per questo, con il decreto dello scorso 5 agosto (pubblicato su G.U. 206 del 05.09.2011) è stato aggiornato il provvedimento precedente (dm 25.03.1985) di individuazione delle procedure e dei requisiti necessari ai fini dell'iscrizione negli elenchi del ministero dell'interno per il rilascio delle certificazioni in materia di prevenzione incendi (articolo ItaliaOggi del 30.09.2011).

APPALTIUn codice delle leggi antimafia. Banca dati, recesso dal contratto, informazioni per 12 mesi. In Gazzetta Ufficiale il decreto 159/2011 che attua il Piano straordinario. Via dal 13 ottobre.
Istituzione della banca dati unica della documentazione antimafia, pubblicità per il procedimento in cui si applicano misure di prevenzione, ampliamento delle fattispecie da cui il prefetto desume il tentativo di infiltrazione mafiosa, obbligo di recesso dal contratto in caso di verifica antimafia interdittiva, raddoppio della validità dell'informazione antimafia che passa da 6 a 12 mesi.

Sono questi alcuni dei principali contenuti del corposo Codice delle leggi antimafia, delle misure di prevenzione e delle nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia (il decreto legislativo 06.09.2011, n. 159, pubblicato sul supplemento ordinario n. 214 alla Gazzetta Ufficiale n. 226 del 28.09.2011) che entrerà in vigore il 13 ottobre.
Il decreto legislativo attua le deleghe previste dagli articoli 1 e 2 della legge 13.08.2010, n. 136 (il c.d. Piano straordinario contro le mafie che ha dato vita anche alla normativa sulla tracciabilità dei flussi finanziari) e sarà seguito, anche su sollecitazione delle commissioni parlamentari che hanno esaminato il testo a luglio, da una nuova iniziativa governativa legislativa che coprirà l'intero spettro della disciplina sostanziale e processuale in materia di criminalità organizzata (intercettazioni «giudiziarie», collaboratori e testimoni di giustizia, regime carcerario previsto dall'art. 41-bis, colloqui investigativi speciali, attività di cooperazione giudiziaria).
Venendo al Codice, per quel che riguarda le misure di prevenzione, si prevedono alcune importanti novità. In primo luogo la facoltà di richiedere che il procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione sia celebrato in udienza pubblica. Viene poi stabilito un limite di durata anche per il procedimento di secondo grado, prevedendo la perdita di efficacia del sequestro ove non venga disposta la confisca nel termine di un anno e sei mesi dalla immissione in possesso da parte dell'amministratore giudiziario (in caso di impugnazione della decisione, entro un anno e sei mesi dal deposito del ricorso), con possibilità di proroga dei termini per non più di due volte in caso di indagini particolarmente complesse.
Viene introdotta la revocazione della decisione definitiva sulla confisca di prevenzione, volta a consentire agli enti assegnatari dei beni confiscati di gestirli senza timore di doverli restituire. A seguito del definitivo decreto di confisca, la revoca sarà possibile solo in casi eccezionali (difetto originario dei presupposti, falsità delle prove); in tal caso, salvo che per i beni di particolare pregio storico-artistico, verrà restituita solo una somma di denaro equivalente al valore del bene. Viene poi dettata la disciplina dei rapporti tra la confisca di prevenzione e il sequestro penale e quella dei rapporti dei terzi con la procedura di prevenzione, a garanzia della buona fede dei terzi. In materia di certificazione antimafia, il codice semplifica ed omogeneizza una normativa resa particolarmente complessa dalla stratificazione delle norme nel tempo.
In particolare, per quel che riguarda la documentazione antimafia, essa non è richiesta per contratti di importo inferiore a 150 mila euro, così come prevede il dpr 252 del 1998; la comunicazione antimafia sarà utilizzabile per sei mesi dalla data del rilascio, anche per altri procedimenti; l'informazione antimafia sarà utilizzabile per un periodo di dodici mesi dalla data del rilascio, qualora non siano intervenuti mutamenti nell'assetto societario e gestionale dell'impresa oggetto dell'informazione.
Infine il codice istituisce la banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, presso il ministero dell'interno, consultabile dalle stazioni appaltanti, dalle camere di commercio e dagli ordini professionali, che semplificherà l'attuale sistema delle procedure di rilascio della documentazione, con l'effetto di un monitoraggio costante delle imprese.
Il codice disciplina anche i poteri di accesso e di accertamento che fanno capo ai prefetti, stabilendo che possano essere esercitati nei cantieri delle imprese interessate all'esecuzione di lavori pubblici. Per tali accessi il prefetto si dovrà avvalere dei gruppi interforze che effettueranno le indagini nei confronti di tutti i soggetti che intervengono a qualunque titolo nel ciclo di realizzazione dell'opera, anche con noli e forniture di beni e prestazioni di servizi, ivi compresi quelli di natura intellettuale, qualunque sia l'importo dei relativi contratti o dei subcontratti (articolo ItaliaOggi del 30.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIPiù Antimafia negli appalti. Una banca dati unica nazionale per combattere le infiltrazioni.
AI RAGGI X - Potenziato il ruolo dei prefetti nella redazione di dossier sugli aspiranti partner contrattuali della Pa.
Una banca dati unica nazionale per combattere le infiltrazioni mafiose negli appalti con la pubblica amministrazione. È questa l'arma in più che il decreto legislativo 159/2011 (pubblicato sul Supplemento ordinario alla «Gazzetta Ufficiale» 266 del 28 settembre) mette in campo in materia di misure di prevenzione personali e patrimoniali, di fatto una delle poche novelle nella riduzione a testo unico della normativa antimafia sul versante amministrativo (per il diritto penale servirà invece un'altra legge delega, si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri).
La banca dati, che dovrà essere calibrata da un serie di regolamenti ministeriali scadenziati per i prossimi sei mesi, consentirà un monitoraggio in tempo reale contando tra l'altro sul potenziamento del ruolo, anche informale, dei prefetti nella redazione di dossier sugli aspiranti partner contrattuali della Pa. L'accesso alle informazioni centralizzate sarà consentito alle stazioni appaltanti (a questo proposito viene riconosciuto normativamente il ruolo della Stazione unica), alle Camere di commercio e agli Ordini professionali, con garanzie di tracciamento di chi interrogherà il terminale.
La profilazione riguarderà i candidati a contrattare con la pubblica amministrazione, ma pure chi intende ricevere contributi o erogazioni pubbliche, anche comunitarie: rispetto al passato si amplia la platea dei soggetti radiografabili, includendo i general contractor. Tra i soggetti sottoposti alla verifica antimafia è stato ora inserito il riferimento ai raggruppamenti temporanei di imprese, la documentazione antimafia dei quali deve riferirsi anche alle imprese con sede all'estero, oltre al direttore tecnico e ai rappresentanti legali delle associazioni. L'informazione antimafia coinvolgerà inoltre i familiari conviventi dei soggetti che la legge sottopone alla verifica.
Resta invece immutata, nel testo unico, la soglia di esenzione della comunicazione antimafia, fissata in 150mila euro del valore economico del l'operazione da appaltare o dell'erogazione da ricevere (erano 300 milioni di lire nel Dpr 252/1998).
Il nuovo codice antimafia sdoppia i termini di validità della comunicazione antimafia rispetto alla informazione: mentre la prima continuerà a valere per sei mesi dalla data del rilascio (e scatterà automaticamente dopo la consultazione della banca dati nazionale), la comunicazione –che può riguardare anche l'attestazione di tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese– avrà efficacia per 12 mesi.
La competenza per la comunicazione antimafia resta in carico al prefetto della provincia in cui l'impresa richiedente ha sede, che diventa il prefetto dove ha sede il cantiere nei casi in cui l'azienda è basata all'estero. Non cambia, invece, la disciplina dell'autocertificazione per contratti e subcontratti relativi a lavori, servizi o forniture dichiarati urgenti e i provvedimenti di rinnovo di contratti, o per attività private, sottoposte a regime autorizzatorio o alla disciplina del silenzio-assenso.
Confermati infine i poteri di accesso ai cantieri del prefetto, già introdotti dal Dpr 150/2010.
---------------
Radiografia allargata
01 | LA COMUNICAZIONE
La comunicazione antimafia è rilasciata dal prefetto della provincia in cui i soggetti richiedenti hanno sede (se sono Pa o enti pubblici o general contractor), oppure, se richiesta da persone fisiche, imprese, associazioni o consorzi, è competenza del prefetto della provincia in cui gli stessi risiedono o hanno sede.
02 | LA BANCA DATI
Prima di rilasciare il via libera antimafia, il prefetto deve consultare la neo-istituita banca dati nazionale. Se l'interrogazione è negativa, la comunicazione antimafia liberatoria è immediata, e dà atto della consultazione al data-base centralizzato. Nel caso invece emergano divieti o cause di decadenza, prima di rilasciare una comunicazione interdittiva il prefetto verifica l'aggiornamento e l'adeguatezza dei dati.
03 | AUTOCERTIFICAZIONE
I contratti e subcontratti relativi a lavori, servizi o forniture dichiarati urgenti, e i provvedimenti di rinnovo conseguenti a provvedimenti già disposti, sono stipulati, autorizzati o adottati mediante l'acquisizione di relativa dichiarazione, con la quale l'interessato attesta che nei suoi confronti non sussistono cause di divieto, di decadenza o di sospensione.
04 | LA SOGLIA ESENTE
La "radiografia" antimafia non riguarda i provvedimenti della Pa, gli atti, i contratti e le erogazioni da ente pubblico il cui valore complessivo non superi i 150mila euro, soglia già prevista dal decreto legge 252 del 1998.
05 | PLATEA AMPIA
La platea dei soggetti interessati dai controlli preventivi anti-infiltrazioni mafiose esce allargata dal nuovo testo unico, estendenosi ai familiari conviventi, ai direttori tecnici di cantiere e ai revisori contabili.
A livello di composizione societaria, la profilazione interesserà i raggruppamenti temporanei di imprese anche per le imprese con sede all'estero.
---------------
L'indagine sull'impresa si allarga a direttori di cantiere e familiari.
L'indagine amministrativa sulle potenziali infiltrazioni mafiose nelle imprese che trattano e lavorano con la Pa si allarga alla direzione di cantiere e ai revisori contabili, oltre ai familiari. L'esperienza degli ultimi anni ha portato alla luce, soprattutto attraverso le inchieste della magistratura, un'evoluzione delle modalità di "eterodirezione" dell'attività d'impresa da parte della criminalità organizzata, che non si limita più a controllare direttamente il consiglio di amministrazione o le quote sociali ma, sempre più spesso, introduce suoi propri "referenti" negli organi di controllo dell'attività d'impresa. Pertanto le cautele antimafia, una novità del testo unico, sono state estese anche al direttore tecnico e ai componenti del collegio di revisione contabile (oltre ai già previsti organi di governance della società).
La documentazione antimafia delle imprese individuali riguarda il titolare e il direttore tecnico, mentre nelle associazioni, imprese, società, consorzi e raggruppamenti temporanei di imprese, oltre al direttore tecnico, riguarda il legale rappresentante delle associazioni, il legale rappresentante e gli eventuali altri componenti l'organo di amministrazione delle società di capitali, anche consortili, e inoltre ognuno dei consorziati che nei consorzi e nelle società consortili detiene una partecipazione superiore al 10% oppure una partecipazione inferiore al 10% e che abbia stipulato un patto parasociale "oltre soglia".
Documentazione antimafia necessaria anche per i soci o i consorziati per conto dei quali le società consortili o i consorzi operino in modo esclusivo nei confronti della pubblica amministrazione. L'adempimento di "radiografia" anti–infiltrazioni mafiose, per le società di capitali, impegna anche il socio di maggioranza in caso di società con un numero di soci pari o inferiore a quattro, o il socio in caso di società con socio unico.
Nei consorzi, documentazione antimafia necessaria per chi ne ha la rappresentanza, così come per gli imprenditori o società consorziate; tutti i componenti per le società semplice e in nome collettivo; gli accomandatari per le società in accomandita; per le società estere, chi le rappresenta stabilmente in Italia; per i raggruppamenti temporanei di imprese, le imprese del raggruppamento anche se con sede all'estero: per le società personali, i soci persone fisiche delle società personali o di capitali che ne siano socie (articolo Il Sole 24 Ore del 30.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIAntimafia, strategia preventiva. Confische veloci e blindate - Sotto esame anche i revisori contabili.
RINVIO TECNICO - Una nuova legge delega per il riordino del diritto sostanziale con entrata in vigore entro 24 mesi.

Il nuovo codice delle misure di prevenzione mafiosa, che abroga le leggi speciali emanate sul tema dal 1956 in avanti e riordina in un unico corpo normativo il contrasto patrimoniale al "416-bis", diventa legge dello Stato. Il Decreto legislativo 159 del 06.09.2011 è stato pubblicato sul Supplemento ordinario n. 214 della Gazzetta Ufficiale n. 226 di ieri, ed entrerà in vigore tra due settimane, con esclusione per i procedimenti già in corso.
La pubblicazione di ieri esaurisce la prima parte della legge delega 136/2010 sul Codice unico antimafia –scaduta a inizio settembre– relativa al Libro II, inerente le misure patrimoniali contro organizzazioni mafiose e soggetti affiliati. Ci sarà invece una nuova delega per riordinare, entro 24 mesi, il diritto sostanziale e processuale, così come avevano chiesto ad agosto la Commissione giustizia della Camera e il Comitato per la legislazione.
Il Libro I, composto da 10 articoli sulla «Criminalità organizzata di tipo mafioso» a partire dalla norma base del 416-bis, è stato quindi congelato, perché tra l'altro non era prevista l'abrogazione delle disposizioni confluite nel codice, nonostante la delega lo prevedesse. Da questo fatto puramente tecnico sarebbero potute derivare serie incertezze in sede interpretativa.
La riorganizzazione delle misure di prevenzione offrirà comunque una migliore agibilità all'autorità giudiziaria e a quella amministrativa per l'aggressione dei patrimoni di origine mafiosa e per il controllo di personaggi in odore di criminalità organizzata.
Il Libro II è diviso in cinque titoli, dalle misure di prevenzione personali a quelle di prevenzione patrimoniali, dall'amministrazione, gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati, fino alla tutela dei terzi e i rapporti con le procedure concorsuali.
Tra le novità, la facoltà di richiedere che il procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione sia celebrato in udienza pubblica e in tempi stretti: il sequestro perde efficacia se non arriva la confisca entro 18 mesi dalla immissione in possesso dell'amministratore giudiziario. Limitata, inoltre, la possibilità di revoca della confisca, che spesso blocca l'attività di reimpiego degli immobili da parte dei Comuni, che viene agganciata ai requisiti "stretti" della procedura penale, cioè al difetto originario dei presupposti per l'applicazione della misura.
Nuove regole anche per i rapporti dei terzi con il procedimento di prevenzione, vale a dire i diritti pendenti al momento dell'esecuzione del sequestro su un bene. Al terzo comproprietario è concesso, se in buona fede, diritto di prelazione per l'acquisto della quota confiscata al valore di mercato. Per quanto concerne i contratti preliminari di vendita, viene confermata la regola generale del diritto per il promissario acquirente di far valere il proprio credito nella procedura di verifica e pagamento dei crediti.
Stretta infine sui controlli per i soggetti che contrattano con la pubblica amministrazione, o che intendono ricevere contributi od erogazioni pubbliche, anche comunitarie, soggetti verso i quali si intensificano gli accertamenti antimafia. La criminalità organizzata, secondo la relazione, non si limita più a controllare direttamente il consiglio di amministrazione o le quote sociali ma, sempre più spesso introduce referenti all'interno degli organi di controllo dell'attività d'impresa. Per questo le cautele antimafia vengono estese anche al direttore tecnico e ai componenti del collegio di revisione contabile, oltre ai già previsti organi di governance della società.
---------------
L'intervento
01 | PREVENZIONE MAFIA
Il Codice che è stato pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale riguarda le misure di prevenzione personali e patrimoniali oltre all'amministrazione e la destinazione dei beni confiscati
02 | NUOVA DELEGA
La risistemazione in un unico codice del diritto penale sostanziale è stata invece rimessa, per motivi tecnici, a una nuova legge delega
03 | LEGGI ABROGATE
Il Codice abrogherà, dalla sua entrata in vigore, tutte le leggi in materia degli ultimi 55 anni.
Tra le altre: la legge 27.12.1956, n. 1423; la legge 31.05.1965, n. 575; il Dl 04.02.2010, n. 4, convertito in legge 31.03.2010, n. 50; gli articoli da 18 a 24 della legge 22.05.1975, n. 152; l'articolo 16 della legge 13.09.1982, n. 646; gli articoli da 2 a 11, 13 e 15 della legge 03.08.1988, n. 327 (articolo Il Sole 24 Ore del 29.09.2011).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODal 1° ottobre i nuovi canali telematici. La visita fiscale si chiede on-line.
Al via i nuovi servizi online dell'Inps. Dal 1° ottobre, infatti, è prevista l'attivazione sul sito internet dell'istituto delle procedure per richiedere le visite mediche di controllo (le cosiddette visite fiscali), l'erogazione di assegni familiari in agricoltura e l'autorizzazione ai versamenti volontari all'Ipost, al fondo di previdenza per il personale dipendente delle aziende private del gas e al fondo speciale per il personale dipendente dalle ferrovie dello stato. Lo ricorda l'Inps in un comunicato diffuso ieri.
Nuovi servizi online. I nuovi servizi rientrano nel programma di telematizzazione che dovrebbe concludersi entro la metà del prossimo anno, quando tutte le domande di prestazioni e servizi saranno disponibili online. Dal 1° ottobre, è la volta delle seguenti domande:
● visite mediche di controllo da parte dei datori di lavoro per cui inizia il periodo transitorio che terminerà il 30 novembre;
● assegni familiari per i coltivatori diretti, mezzadri e coloni per i quali inizia il periodo transitorio che terminerà il 30 novembre;
● autorizzazione ai versamenti volontari per il fondo di previdenza per il personale dipendente delle aziende private del gas, il fondo speciale per il personale dipendente dalla Ferrovie dello stato e l'Istituto postelegrafonici (Ipost), per cui inizia il periodo transitorio, che terminerà il 31 dicembre.
Modalità operative. Terminato il periodo transitorio, le domande non possono più essere presentate in modalità cartacea, ma solo attraverso uno dei seguenti canali:
web: avvalendosi dei servizi telematici accessibili direttamente dal cittadino tramite Pin dal portale dell'Inps (www.inps.it);
telefono: contattando il contact center integrato al numero verde 803164;
patronati e tutti gli intermediari dell'Inps usufruendo dei servizi telematici dagli stessi offerti.
Domestici e Gestione separata Inps. Vale la pena ricordare, inoltre, che sempre dal 1° ottobre, dopo un periodo transitorio in scadenza domani (30 settembre), anche l'iscrizione alla gestione separata Inps e le denunce dei rapporti di lavoro dei domestici (come colf, badanti ecc.) dovranno avvenire necessariamente in via telematica, tramite il sito internet dell'istituto di previdenza, da parte di soggetti in possesso di Pin (articolo ItaliaOggi del 29.09.2011).

ENTI LOCALILe irregolarità nelle verifiche fiscali non vanno segnalate subito alla Corte.
Le irregolarità che dovessero sorgere nel procedimento di verifica dell'insussistenza di cartelle pendenti a carico di chi percepisce un pagamento da parte della p.a. (ex art. 48 bis dpr n. 602/73), prima di essere inoltrate alla procura della Corte dei conti, devono essere segnalate alla stessa amministrazione procedente per i necessari chiarimenti.
Infatti, l'eventuale irregolarità potrebbe alla fine concretizzarsi in un mero inadempimento procedurale che, anche se rilevante dal punto di vista disciplinare, è comunque privo di conseguenze negative per le casse erariali.

Lo si rileva dalla
circolare 23.09.2011 n. 27 + allegato A della Ragioneria Generale dello Stato che fa luce sul trattamento delle irregolarità che dovessero sorgere nella verifica del corretto iter procedurale previsto dalla norma sopra citata. Secondo la Rgs, in casi di irregolarità è necessario, prima di procedere alla segnalazione alla procura della Corte dei conti, che si avvii un percorso con l'amministrazione interessata, che sia finalizzato ad acclarare o ad escludere i presupposti per l'avvio di un danno erariale.
La Rgs infatti cita, a tal fine, quanto riportato da una nota del procuratore generale della Corte dell'agosto 2007, secondo cui è escluso il dovere di denuncia «per fatti aventi solo una potenzialità lesiva» ma dove si sottolinea il fatto che «alle amministrazioni è sempre richiesta una vigile attenzione, così da apportare le correzioni che evitino il danno».
Pertanto, quando il soggetto deputato al controllo di regolarità amministrativo-contabile dovesse rilevare l'omissione della verifica ex art. 48-bis del dpr n. 602/1973, deve inoltrare all'amministrazione (entro un termine che viene fissato, di regola, in dieci giorni) un accertamento «ora per allora» per scoprire se le conseguenze dell'omissione abbiano o meno compromesso, per l'agente della riscossione, la possibilità di recuperare quanto dovuto dal beneficiario per cartelle di pagamento scadute e inevase.
A tal fine, la stessa circolare mette a disposizione un modello base con cui l'amministrazione potrà «colloquiare» con Equitalia. Solo nel caso in cui l'inadempienza era già esistente e perduri ancora, i soggetti tenuti all'obbligo di denuncia dovranno trasmettere il carteggio alla magistratura contabile. Allo stesso modo, dovranno essere segnalate alla Corte le amministrazioni che non procedano alla predetta verifica con Equitalia, a causa della sua condotta palesemente omissiva (articolo ItaliaOggi del 29.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

VARITelecamere. Sosta, ok a multe seriali.
La polizia municipale può procedere a rilievi fotografici con qualsiasi strumento che consenta di immortalare le auto in sosta vietata. E in questo caso non è neppure necessario che venga lasciato un avviso sul parabrezza del trasgressore ma la multa arriverà direttamente al domicilio dell'interessato.
Lo ha confermato il Ministero dei trasporti con il parere 20.09.2011 n. 4719.
Lo scenario delle multe automatiche negli ultimi anni si è allargato all'impiego di telecamere che vengono fornite in dotazione ai vigili urbani specificamente preposti al controllo del parcheggio selvaggio. In pratica per scoraggiare l'uso negligente delle strade del centro abitato alcuni comandi hanno munito gli agenti di telecamere che aiutano l'operatore nel rilevare le infrazioni. L'agente che vede la colonna dei veicoli in divieto di sosta può così evitare di fermarsi per iniziare la tradizionale operazione di verbalizzazione. Gli basterà riprendere le singole vetture in divieto magari annotandosi anche le targhe per redigere in ufficio i relativi verbali.
Per comprendere meglio la legittimità di questa pratica seriale un utente ha richiesto chiarimenti al Ministero dei trasporti che ha confermato l'operato del comando di polizia municipale. In caso di accertamento di una violazione di divieto di sosta innanzitutto la contestazione immediata è ordinariamente impossibile a causa della mancanza del conducente sul luogo dell'infrazione. Il controllo della sosta e della fermata dei veicoli, prosegue il parere, non implica peraltro la necessità di lasciare alcun avviso sul parabrezza del trasgressore, trattandosi in questo caso di una semplice informazione di cortesia.
Parimenti «non sussiste alcun obbligo di documentare fotograficamente la violazione commessa. Tuttavia, ai sensi dell'art. 13, comma 1, della legge 689/1981, è facoltà degli organi accertatori procedere a rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici e ad ogni altra operazione tecnica. Conseguentemente non è richiesta l'omologazione del dispositivo fotografico».
In buona sostanza la polizia stradale può avvalersi di qualsiasi strumentazione tecnica ausiliaria come telecamere e macchine fotografiche per potenziare la propria attività di accertamento. In questo caso non servono particolari strumenti omologati perché l'attività dell'accertatore è solo potenziata ma non superata dalla tecnologia (articolo ItaliaOggi del 29.09.2011).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAIl “pergolato”, rilevante ai fini edilizi, può essere inteso come un manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni.
Questo Consiglio di Stato, proprio sulla base degli elementi ora riportati, ha avuto modo di escludere che una struttura costituita da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni, tali da rendere la struttura solida e robusta e da farne presumere una permanenza prolungata nel tempo, possa essere ricondotta alla nozione di “pergolato”.
Al contrario, è stata ritenuta rientrare nella nozione di “pergolato” una struttura precaria, facilmente rimovibile, costituita da una intelaiatura in legno non infissa al pavimento né alla parete dell’immobile (cui è solo addossata), non chiusa in alcun lato, compreso quello di copertura.

L’assenza di una definizione normativa di “pergolato” non esclude la valutazione dell’amministrazione in ordine alla riconducibilità di un manufatto a tale tipologia, né il successivo sindacato del giudice sulla legittimità della stessa, sotto il profilo del vizio di eccesso di potere per illogicità, irragionevolezza, insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione.
Orbene, il “pergolato”, rilevante ai fini edilizi, può essere inteso come un manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni.
Questo Consiglio di Stato (sez. IV, 02.10.2008 n. 4793), proprio sulla base degli elementi ora riportati, ha avuto modo di escludere che una struttura costituita da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni, tali da rendere la struttura solida e robusta e da farne presumere una permanenza prolungata nel tempo, possa essere ricondotta alla nozione di “pergolato”.
Al contrario, è stata ritenuta (Cons. Stato, sez. V, 07.11.2005 n. 6193) rientrare nella nozione di “pergolato” una struttura precaria, facilmente rimovibile, costituita da una intelaiatura in legno non infissa al pavimento né alla parete dell’immobile (cui è solo addossata), non chiusa in alcun lato, compreso quello di copertura (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.09.2011 n. 5409 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVOROPonteggi insicuri, datore punito. La Cassazione sulla continuità della 626.
La 626 sarà stata pure abrogata, ma sopravvive nella successiva riforma che ha riordinato la normativa in tema di sicurezza sul lavoro: c'è continuità normativa fra i due testi di legge. Risultato? Restano invariate le sanzioni penali a carico del datore che permette agli operai di lavorare su ponteggi senza protezione e senza che indossino elmetti e scarpe anti-infortuni.
Lo precisa la sentenza 27.09.2011 n. 34903 della III sezione penale della Corte di Cassazione.
Zero rischi. Il decreto legislativo 81/2008, che ha abrogato la legge 626/94, prevede una serie di obblighi precisi in tema di tutela delle condizioni lavorative: sui ponteggi e lavori in quota, in particolare, l'articolo 122 prescrive espressamente che durante l'esecuzione debbano «essere adottate, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose».
Si segnala, osserva il collegio, che nel titolo I, capo III, sezione I del decreto 81/2008 (articoli 15 e seguenti) viene contemplata, come norma generale, la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro con particolare riguardo alla necessità di valutare tutti i rischi per la salute e sicurezza e programmare la prevenzione e l'eliminazione dei rischi (ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico).
Il titolo IV, poi, si occupa in particolare della sicurezza nei cantieri e il capo II (articoli 105 e seguenti), nella sezione IV, prevede una articolata disciplina sui lavori edilizi (in genere ed in dettaglio), nonché sui ponteggi ed lavori in quota. Altro che cancellazione dei reati, la 626 è stata trasfusa nel nuovo testo e resta in qualche modo viva e vegeta, almeno nello spirito.
Il piatto piange. Insomma: è inutile per il piccolo imprenditore condannato accampare «capziose» pretese di abolitio criminis. Non evita la condanna, insomma, il datore degli operai che sono stati sorpresi dagli ispettori del lavoro mentre erano intenti ad effettuare lavori di intonacatura su ponteggi sforniti di apposite protezioni e senza indossare elmetti e scarpe antinfortunistiche. Non resta che pagare 1.000 euro alla cassa delle ammende (articolo ItaliaOggi del 30.09.2011).

APPALTI SERVIZI: Sulla gestione degli impianti sportivi: distinzione tra l'affidamento degli impianti aventi rilevanza economica da quelli che, viceversa, ne sono privi (fattispecie inerente la l.r. Lombardia n. 27/2006).
In attuazione dell'art. 90 della l. 289/2002 (l. finanziaria 2003) che disciplina la gestione degli impianti sportivi l'art. 1 della l. R. Lombardia n. 27/2006, distingue l'affidamento degli impianti aventi rilevanza economica da quelli che, viceversa, ne sono privi. Solo in relazione ai primi, stante la necessità di garantire "una gestione di tipo imprenditoriale", il legislatore regionale ha previsto la forma dell'affidamento mediante procedura ad evidenza pubblica. Al contrario, con riferimento agli impianti sportivi senza rilevanza economica, ha ammesso la possibilità di un loro affidamento in via diretta. Dispone, infatti, la richiamata l.r. all'art. 5, c. 2, che "gli enti locali possono procedere all'affidamento diretto dell'incarico di gestione di impianti sportivi senza rilevanza economica ad associazioni, fondazioni, aziende speciali, anche consortili, e società a capitale interamente pubblico, da loro costituite", aggiungendo al c. 3, che "per gli impianti sportivi senza rilevanza economica, le cui caratteristiche e dimensioni consentono lo svolgimento di attività esclusivamente amatoriali e ricreative e richiedono una gestione facile e con costi esigui, è ammesso l'affidamento diretto dell'incarico di gestione agli utilizzatori degli impianti stessi".
Pertanto, nel caso di specie, poiché l'impianto risulta privo di una sostanziale rilevanza economica, in quanto per le sue caratteristiche intrinseche è produttivo di introiti del tutto esigui ed insufficienti a coprire i costi di gestione, senza l'apporto significativo di specifici contributi comunali, correttamente il Comune ha affidato la gestione dello stesso in via diretta alla Polisportiva comunale da lui appositamente costituita, ai sensi dell'art. 5, c. 2, della citata l.r. Lombardia n. 27/2006 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.09.2011 n. 5379 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Nell'ambito di una gara telematica in cui risulta già prescritta l'utilizzazione della firma digitale, è ultroneo richiedere che anche le autentiche notarili debbano avvenire mediante sottoscrizione digitale.
Il potere-dovere della stazione appaltante di chiedere un'integrazione documentale per carenze meramente formali nella documentazione.

Nell'ambito di una gara telematica in cui risulta già prescritta l'utilizzazione della firma digitale, è ultroneo richiedere che anche le autentiche notarili debbano avvenire mediante sottoscrizione digitale, senza consentire ai concorrenti di esibire una copia per immagine su supporto informatico di un atto pubblico notarile fidefacente, in contrasto con quanto stabilito dall'articolo 1, c. 1, del d.lgs. n. 82/2005. Pertanto, la stazione appaltante, ove avesse avuto perplessità alla luce della documentazione fornita dal concorrente, avrebbe potuto chiedere, ex art. 46 del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti pubblici), la regolarizzazione dell'atto in questione, tenendo conto, peraltro, di quanto stabilito dagli artt. 1, co. 1, lett. i-ter, e 22, c. 2, del d.lgs. n. 82/2005, il quale ultimo stabilisce che "le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono estratte, se la loro conformità è attestata da un notaio".
Nell'ambito delle procedure ad evidenza pubblica, ove la formalità richiesta non sia funzionale a garantire un apprezzabile interesse pubblico, gli oneri meramente formali affievoliscono e rilevano le dichiarazioni implicite desumibili univocamente dalla documentazione prodotta a corredo dell'offerta, con la possibilità per l'ente (in presenza di dubbi o incertezze) di richiedere ulteriori precisazioni, perché il precetto del "buon andamento" (art. 97 cost.) include anche il principio di cooperazione fra amministrazione ed amministrati. Infatti, il potere-dovere della Stazione appaltante di chiedere un'integrazione documentale (già previsto in generale dall'art. 6 della l. n. 241 del 1990), trova ormai riscontro nell'art. 46 del codice degli appalti pubblici, il quale codifica uno strumento inteso a far valere, entro certi limiti, la sostanza sulla forma, nell'esibizione della documentazione ai fini della procedura selettiva, onde non sacrificare l'esigenza della più ampia partecipazione per carenze meramente formali nella documentazione (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 23.09.2011 n. 7527 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Irregolarità contributive, per l'esclusione dalla gara serve la gravità.
E' illegittimo l'operato della stazione appaltante che, dopo aver acquisito i dati del DURC, ha escluso una ditta da una gara di appalto per difetto del requisito della regolarità contributiva, nel caso in cui l'esclusione non sia stata preceduta da una adeguata valutazione in ordine alla gravità dell'irregolarità contributiva in capo alla impresa e al carattere definitivo o meno della stessa.
La segnalata decisione affronta la vexata quaestio circa la valutazione, attraverso il DURC, da parte della stazione appaltante del requisito della regolarità contributiva di una ditta ai fini dell’eventuale esclusione della stessa da una gara di appalto.
Nello specifico, la ricorrente aveva partecipato alla procedura di gara indetta per la fornitura di alcuni servizi strumentali al trasporto pubblico locale; con successiva nota, il direttore generale della stazione appaltante comunicava all’interessata l'esclusione dalla gara in quanto dall'acquisizione del DURC, in sede di verifica della dichiarazione sostitutiva, emergeva un'irregolarità accertata dall'INPS, sanata successivamente alla data di presentazione delle offerte, nonché il mancato versamento di premi assicurativi presso l'INAIL.
Indi, con successiva determinazione, il direttore generale disponeva l'esclusione della ricorrente dalla gara; avverso quest’ultimo provvedimento è insorta la ditta la quale, oltre al resto, ha eccepito la violazione, sotto diversi profili, dell'art. 38, comma 1, lettera i), D.Lgs. n. 163/2006, in quanto i rilevati inadempimenti agli obblighi contributivi sarebbero stati insussistenti per l'avvenuto pagamento mediante compensazione e, comunque, perché non si trattava di violazioni gravi e definitivamente accertate.
Richiamava, sul punto, l'orientamento giurisprudenziale che impone alla stazione appaltante un’autonoma valutazione della gravità della violazione, pur risultante dal DURC.
Inoltre, contestava la congruità della motivazione addotta dalla stazione appaltante, secondo la quale poiché il modulo allegato al bando richiedeva «l'indicazione specifica delle violazioni in materia previdenziale e assistenziale ... la valutazione di gravità discende dall'aver taciuto tale circostanza ...»; siffatta richiesta, a dire della ricorrente, tuttavia non era indicata né dal bando di gara, né dai modelli di dichiarazione sostitutiva predisposti.
Il TAR di Cagliari ha ritenuto fondate le censure esposte.
In particolare, ha premesso che la propria delibazione doveva necessariamente limitarsi alle ragioni poste dalla stazione appaltante alla base del provvedimento di esclusione, come esplicitate nella comunicazione a firma del direttore generale e alla relazione allegata alla stessa; in altri termini, alle irregolarità accertate presso l'INPS, nonché al mancato versamento di premi assicurativi presso l'INAIL.
Orbene, il giudicante ha precisato come, dall'esame della documentazione versata, era emerso che le contestate irregolarità contributiva e assicurativa erano apparse prive dei caratteri della gravità e della definitività, come imposto dall'art. 38, comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 163/2006 al fine di integrare la causa di esclusione.
Quanto alla non gravità delle violazioni, ha proseguito il Tribunale, si doveva tener conto del pagamento in compensazione effettuato dalla ricorrente, con riguardo sia al debito nei confronti dell'INPS, sia al debito nei confronti dell'INAIL. Inoltre, in ordine al profilo della non definitività degli accertamenti aventi per oggetto le violazioni contestate, il G.A. non ha potuto non tener conto del ricorso avverso la cartella di pagamento concernente il credito INPS e l'avviso bonario INAIL.
Siffatte circostanze, a suo avviso, avrebbero dovuto presupporre l'adesione alla tesi secondo cui l’indicazione di inadempienze contenuta nel documento unico di regolarità contributiva (DURC) non integrava di per sé la causa di esclusione di cui alla lettera i) dell'art. 38 cit.; invero, la stazione appaltante avrebbe dovuto verificare se le violazioni certificate mediante il Documento unico erano da ritenere gravi e frutto di accertamenti definitivi (cfr. in questo senso, tra le altre, TAR Calabria-Reggio Calabria, Sez. I, 23.03.2010, n. 291).
Tale prospettazione, del resto, trova un’implicita conferma nell'art. 38, comma 2, cit., come modificato dall'art. 4, comma 2, lettera b), D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito nella L. 12.07.2011, n. 106, il quale, stabilendo che «Ai fini del comma 1, lettera i), si intendono gravi le violazioni ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva di cui all'art. 2, comma 2, D.L. 25.09.2002, n. 210, convertito, con modificazioni, dalla L. 22.11.2002, n. 266», ha definitivamente imposto la coincidenza tra le ipotesi che impediscono il rilascio del DURC (fissate dal decreto del Ministro del Lavoro, del 24.10.2007) e la causa di esclusione di cui trattasi.
Con ciò, peraltro, escludendo che tale regola di diritto fosse ricavabile sulla base della precedente disciplina, applicabile alla fattispecie in esame ratione temporis.
Infine, non è stata neppure condivisa dal Collegio sardo la motivazione prospettata dalla stazione appaltante, circa l'esistenza di una previsione di gara che imponesse la dichiarazione analitica della situazione contributiva dei concorrenti, atteso che dal bando e dal disciplinare di gara è risultato che la dichiarazione sostitutiva doveva riguardare genericamente il possesso dei requisiti generali di cui all'art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006: in considerazione di tanto, l’adito TAR ha accolto il ricorso (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 23.09.2011 n. 945 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALILe p.a. hanno l'obbligo di pubblicare un indirizzo Pec sul proprio sito.
Ogni pubblica amministrazione ha l'obbligo di mettere a disposizione dei cittadini, sul proprio sito internet istituzionale, un indirizzo di posta elettronica certificata, così come prevede l'articolo 11 del dlgs n. 150/2009, quale strumento per rendere effettivi i principi di trasparenza nella stessa p.a.
La mancata attuazione del diritto di comunicare telematicamente tramite Pec, determina pertanto un disservizio, in quanto costringe gli interessarsi a recarsi personalmente presso gli uffici ovvero ad utilizzare lo strumento cartaceo per ricevere ed inoltrare comunicazioni.

È quanto ha messo nero su bianco il Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata, nel testo della sentenza 23.09.2011 n. 478, con la quale ha intimato alla regione Basilicata di voler provvedere entro sessanta giorni e utilizzando le risorse umane e strumentali in suo possesso, a porre in essere gli adempimenti necessari affinché sul proprio sito istituzionale sia attivata una valida casella di posta elettronica certificata. Con l'aggiunta di provvedere al pagamento di 5.000 euro a favore dell'Associazione «Agorà digitale», promotrice del ricorso.
Il casus belli nasce da un ricorso promosso dalla predetta associazione (assieme ai radicali), nel quale ci si doleva che il sito internet della regione Basilicata non fosse attrezzato con una casella di posta elettronica certificata, così come prevedono sia il codice dell'amministrazione digitale (il dlgs n. 82/2005) che il dlgs n. 150 del 2009. Il collegio ha rilevato che al citato dlgs n. 82/2005 pone in diretta correlazione l'obbligo della p.a. di comunicare in via digitale con il riconoscimento agli utenti del diritto di «richiedere ed ottenere l'uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con la p.a.».
Tra le modalità di comunicazione si prevede espressamente l'utilizzo, da parte della p.a., della posta elettronica certificata, strumento utile alla trasmissione telematica di documenti che necessitano di una ricevuta di invio e di consegna. Il collegio ha sgomberato, altresì, ogni possibile dubbio circa l'applicabilità di tale obbligo anche alle regioni, rilevando come gli artt. 11 e 16 del dlgs n. 150/2009 trovano immediata applicazione anche negli ordinamenti regionali, imponendo la pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni, informazioni concernenti ogni aspetto dell'organizzazione e, quindi, anche degli indirizzi di Pec fruibili dagli utenti. Mancando tale strumento, ha sottolineato il collegio, si nega il diritto agli utenti di comunicare elettronicamente con la regione, creando così un disservizio, in quanto si costringe gli interessati a recarsi personalmente presso gli uffici, ovvero ad utilizzare lo strumento cartaceo per ricevere ed inoltrare comunicazioni.
Ne consegue che la regione è tenuta a consentire agli utenti di poter interloquire tramite Pec e a rendere visibile nella home page del sito, l'elenco degli indirizzi Pec, così come altresì previsto dalle linee guida per i siti web della p.a., messe a punto dal ministro Renato Brunetta (articolo ItaliaOggi del 29.09.2011).

EDILIZIA PRIVATA: Chiusura piano pilotis.
L'innalzamento dell'altezza dal suolo ed il tamponamento con conseguente chiusura del “piano pilotis” di un preesistente edificio richiedono, per la loro esecuzione, il preventivo rilascio del permesso di costruire, configurando un intervento di ristrutturazione edilizia che determina la realizzazione di nuovi volumi, nuove unità immobiliari e la modifica della sagoma e delle superfici (Corte di Cassazione, Sez. feriale, sentenza 21.09.2011 n. 34397 - link a www.lexambiente.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'incarico dirigenziale a un esterno è l'extrema ratio. L'amministrazione deve prima sondare la disponibilità di professionalità al suo interno.
Per poter legittimamente affidare all'esterno un incarico dirigenziale, l'Amministrazione deve, con procedure imparziali e trasparenti, prima scrutinare le professionalità interne disponibili e, solo all'esito di tale ricognizione, procedere all'emanazione di un bando di ricerca di professionalità esterne cui conferire l'incarico dirigenziale de quo.
La sentenza 21.09.2011 n. 7481 della Sez. I-ter del TAR Lazio-Roma ha annullato nove procedure di nomina di altrettanti dirigenti apicali esterni effettuate dalla Regione Lazio, pretermettendo i dirigenti di ruolo. Avverso tali provvedimenti erano insorte la Direr e la Cida, i sindacati maggiormente rappresentativi della dirigenza pubblica regionale.
La peculiarità della sentenza sta nella circostanza che la stessa afferma la diretta applicabilità dei principi generali dell'ordinamento (ed, in particolare, di quelli di cui all'art. 97 della Costituzione: trasparenza, imparzialità, buon andamento) al procedimento con il quale l'Amministrazione decide di rivolgersi all'esterno per conferire un incarico dirigenziale, piuttosto che utilizzare risorse interne.
Ulteriore motivo di interesse della sentenza sta nella circostanza che tale procedimento è ritenuto espressione del potere di organizzazione degli uffici che postula una motivata scelta amministrativa, di tipo autoritativo, soggetta al sindacato del G.A. che può vagliarne la legittimità sotto il profilo della violazione di legge, dell'incompetenza e dell'eccesso di potere.
È chiaro, poi, che avere, correttamente, riportato la fase iniziale del procedimento di conferimento di incarichi dirigenziali, a soggetti esterni alla p.a., nell'alveo dei procedimenti amministrativi, ha reso possibile (e necessario) valutare la motivazione dei relativi provvedimenti anche in relazione all'obbligo di rispettare i principi generali dell'esercizio del potere amministrativo, dovendosi ritenere illegittima nel nostro ordinamento, per l'assenza del carattere politico degli incarichi conferendi, ogni forma di attribuzione di incarico su base solamente fiduciaria.
La sentenza n. 7481 chiarisce una volta per tutte quali vincoli guidano in modo inviolabile le amministrazioni, quando si determinino a conferire incarichi dirigenziali a soggetti esterni:
a) una concreta motivazione, che espliciti l'assenza effettiva di professionalità interne, alla luce di una seria ed adeguata ricognizione del ruolo;
b) una procedura trasparente, con adeguata pubblicità, per consentire in primo luogo ai dirigenti di ruolo di candidarsi alla copertura degli incarichi da affidare, al fine di valorizzare le professionalità esistenti, garantendo l'autonomia della dirigenza;
c) una altrettanto seria valutazione del possesso di una professionalità assolutamente specifica in capo al soggetto esterno chiamato a svolgere l'incarico dirigenziale, come prevede l'articolo 19, comma 6, del dlgs n. 165/2001;
d) l'esigenza di garantire il contenimento della spesa, attraverso il prioritario impiego delle risorse interne.
È in quest'ottica che la sentenza n. 7481/2011 si rivela innovativa in quanto traccia il solco per riportare la prassi dei conferimenti di incarico dirigenziale a personale esterno in una logica meritocratica e rigorosamente eccezionale, con l'applicazione di strumenti (principi generali dell'ordinamento e obbligo di adeguata motivazione) che, in vero, sembravano quasi «superati», non solo nel concreto operato delle Pubbliche amministrazioni (che spesso li considerano addirittura tamquam non esset), ma, talvolta, anche nelle stesse argomentazioni degli organi di giustizia aditi.
La sentenza ha suscitato un scalpore anche perché il presidente della Regione Lazio Renata Polverini l'ha definita, in un'affollata conferenza stampa che ha avuto un grande risalto sui media, «una decisione politica». Eppure, come già rilevato negli interventi di alcuni esperti della materia, la decisione del Tar del Lazio ha un percorso argomentativo ineccepibile, limitandosi ad affermare principi di rango costituzionale e cogliendo l'illegittimità degli atti impugnati proprio nella violazione di tali principi.
La reazione della governatrice del Lazio sembra piuttosto dimostrare che la politica consideri la materia del conferimento degli incarichi dirigenziali nella p.a. attività di carattere meramente fiduciario e, come tale, scevra da qualsiasi sindacato giurisdizionale. Il Tar del Lazio, invece, ha correttamente rilevato che la scelta di rivolgersi all'esterno è attività amministrativa in senso stretto e che, conseguentemente, il relativo procedimento deve soggiacere ai principi di cui all'art. 97 della Costituzione e alle norme della legge n. 241/1990.
D'altronde l'impossibilità di ridurre il conferimento di incarichi dirigenziali ad una scelta esclusivamente fiduciaria deriva dalla insuperabile considerazione che il dirigente pubblico, a differenza di quello privato, gestisce gli interessi e i soldi della collettività e, pertanto, deve essere selezionato su base rigorosamente meritocratica (articolo ItaliaOggi del 30.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI FORNITURE: Sulla legittimità in una gara per l'appalto di forniture della richiesta di accesso da parte del concorrente agli atti relativi all'acquisto dei medesimi prodotti effettuato dalla P.A. in economia.
In una gara per l'appalto di forniture, è legittima la richiesta di accesso da parte del concorrente agli atti relativi all'acquisto dei medesimi prodotti, effettuato dalla P.A. in economia. L'interesse alla documentazione deriva dall'essere soggetto interessato a fornire il materiale all'azienda e, quindi, a verificare le eventuali irregolarità della procedura per proporre un eventuale ricorso giurisdizionale.
Nessun rilievo ha la circostanza che si verta in materia di atti di diritto privato, e ciò in virtù di un consolidato principio, secondo cui l'accesso riguarda ogni tipologia di atto della p.a., compresi quelli regolati dalle norme privatistiche. Nel caso di specie, il concorrente, in qualità di azienda operante nel settore cui si riferisce la fornitura necessaria per la stazione appaltante, vanta un interesse a partecipare alle procedure in economia che, secondo il disposto dell'art. 125, c. 11, del d.lgs. n. 163/2006, deve essere svolta nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque operatori economici, qualora sussistano in tale numero soggetti idonei.
Rientrando, pertanto, la predetta società tra i soggetti idonei, la stessa vanta un interesse a verificare che i criteri di cui alla citata norma siano stati osservati; quanto detto basta per fondare un diritto all'accesso agli atti relativi alle forniture in economia. Sarà poi sufficiente presentare una nuova richiesta, per maturare il diritto ad ottenere la anche la documentazione relativa alle successive forniture in economia (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 21.09.2011 n. 2264 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Anche per gli esclusi accesso agli atti relativi al servizio appaltato.
Sussiste il diritto di una ditta che ha partecipato a una gara finalizzata all'aggiudicazione di un appalto di fornitura di prodotti, dalla quale e' stata esclusa e che ha impugnato gli atti della medesima gara ottenendone la sospensione in sede cautelare, di accedere agli atti relativi agli acquisti di identici prodotti, effettuati dalla P.A. in economia ex art. 125, comma 11, D.Lgs. n. 163/2006, successivamente alla suddetta sospensione cautelare.

La ricorrente, partecipante a una gara per la fornitura e relativo servizio di gestione di alcuni dispositivi farmaceutici, con precedente gravame aveva impugnato il provvedimento di aggiudicazione in favore di altra ditta, contestualmente chiedendone l’annullamento, previa sospensione, dello stesso.
Il menzionato provvedimento di aggiudicazione, in virtù della sussistenza di tutti i presupposti ex lege imposti, veniva sospeso dall’adito TAR.
A seguito di tale pronunciamento, l’azienda ospedaliera aveva deciso che, nelle more della decisione di merito, avrebbe provveduto a fornirsi dei dispositivi monouso con procedure in economia.
Di conseguenza, la ricorrente chiedeva di accedere a tutta la documentazione relativa agli acquisti fatti in economia per verificare l’eventuale irregolarità della procedura e promuovere un nuovo ricorso; accesso, tuttavia, che veniva negato sulla scorta della considerazione per cui per la procedura in economia si sarebbe applicato il principio di rotazione e la documentazione non era di interesse della ricorrente in quanto non inerente al ricorso presentato avverso l’aggiudicazione.
Avverso quest’ultimo provvedimento è insorta la ditta, la quale ha eccepito la violazione degli artt. 22 e ss., L. n. 241/1990, del principio di trasparenza dell’azione della Pubblica Amministrazione, nonché l’eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione e illogicità manifesta; in particolare ha evidenziato come la richiesta di accedere alla documentazione relativa agli acquisti in economia era legittima anche solo sulla base della qualità di azienda operante nel settore, avendo una legittima aspirazione a essere interpellata.
Peraltro, l’azienda sanitaria aveva equivocato il tenore della richiesta poiché era stata intesa come esplorativa dei rapporti commerciali con la ditta aggiudicataria della gara sospesa, mentre invero riguardava gli acquisti effettuati con qualsiasi soggetto.
Difatti, la ricorrente ha sottolineato come l’interesse alla documentazione era derivato dall’essere soggetto interessato a fornire il materiale all’azienda e, così, diretto a verificare le eventuali irregolarità della procedura per proporre un ricorso giurisdizionale; di converso, a suo avviso, nessun rilievo aveva la circostanza che si trattasse di atti di diritto privato, stante il consolidato principio per cui l’accesso può riguardare ogni tipologia di atto della P.A., compresi gli atti di diritto privato.
Costituitasi in giudizio, l’Azienda Ospedaliera eccepiva, in via preliminare, la litispendenza esistente rispetto ad analoga istanza presentata dalla ricorrente con atto motivi aggiunti nel giudizio avverso l’aggiudicazione della gara per la fornitura dei dispositivi monouso.
Il Collegio di Milano in primis ha rigettato la predetta eccezione in rito in quanto ritenuta non fondata.
Sul punto ha evidenziato come dall’esame del ricorso per motivi aggiunti presentato nell’ambito del gravame principale avverso il provvedimento di aggiudicazione della gara, non era stata rilevata l’esistenza di una richiesta di annullamento dell’impugnato provvedimento di diniego dell’accesso.
Nel merito, ha poi accolto il ricorso.
Ha sottolineato, difatti, come la società ricorrente, quale azienda operante nel settore cui si riferiva la fornitura di quella resistente, vantava un interesse a partecipare alle procedure in economia che, ai sensi dell’art. 125, comma 11, D.Lgs. n. 163/2006, doveva essere svolta nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque operatori economici.
Sicché, rientrando la società tra i soggetti idonei, è apparso evidente al TAR come la ditta aveva un interesse a verificare che i criteri di cui al citato comma 11 dell’art. 125 cit. erano stati osservati: tanto, a opinione del giudicante, era sufficiente per fondare un diritto all’accesso agli atti relativi alle forniture in economia.
Di converso, ha ritenuto non pertinenti gli argomenti della stazione appaltante riferiti a precedenti giurisprudenziali tesi a dimostrare la mancanza di un interesse della ricorrente a ottenere l’accesso; ha precisato sul punto come il fatto che l’ente pubblico non dovesse motivare in modo puntuale la ragione per cui non aveva ritenuto di estendere al precedente affidatario l’invito a partecipare a procedure negoziate, non giustificava l’impugnato diniego di accesso agli atti.
Alla stregua di quanto illustrato, il G.A. lombardo ha accolto il gravame, contestualmente riconoscendo il diritto della ditta ad accedere ai documenti antecedenti la fornitura in economia, facendo comunque salvo il diritto della medesima presentare una nuova istanza di accesso per quelli adottati successivamente alla predetta fornitura (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 21.09.2011 n. 2264 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: Sulla legittimità della delibera di una giunta comunale di modificazione della vocazione di un impianto sportivo comunale.
E' legittima la delibera di una giunta comunale con cui modificando il regolamento per la gestione e l'uso degli impianti sportivi comunali ha ampliato la vocazione della struttura sportiva, essendo una scelta che rientra nell'ambito degli indirizzi politici appartenenti all'Amministrazione comunale, la quale scelta non appare, nel caso di specie, connotata da profili di irrazionalità o sproporzionalità, ed anzi risulta confortata da un ampio coinvolgimento positivo delle associazioni interessate e della minoranza consiliare (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 21.09.2011 n. 1405 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La notificazione al comune, anziché all'istituzione (organismo strumentale dell'ente locale) è idonea a costituire regolarmente il rapporto processuale.
L'Istituzione, ai sensi dell'art. 114, c. 2, d.lgs. n. 267 del 2000, è un "organismo strumentale dell'ente locale", dotato certo di autonomia gestionale, ma pur tuttavia "parte dell'apparato amministrativo che fa capo al comune", pertanto non occorre una specifica evocazione in giudizio, essendo la notificazione all'ente locale (che, peraltro, nel caso di specie, ha accettato il contraddittorio) idonea a costituire regolarmente il rapporto processuale (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 21.09.2011 n. 1405 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impianti pubblicitari senza silenzio-assenso.
L’istituto del silenzio assenso non è applicabile all'istallazione di impianti pubblicitari, ove il potere conferito agli enti proprietari della strada di disciplinare l’installazione degli impianti risponde alla necessità di garantire la sicurezza della circolazione stradale e quindi l’incolumità di persone e cose.
L’istituto del silenzio assenso, in virtù del quale l’autorizzazione amministrativa richiesta e non emessa nei termini di legge si ritiene accordata, pur essendo previsto dall’art. 20 della legge n. 241 del 1990 in termini generali, non è di portata illimitata, ma contiene deroghe per gli atti e i procedimenti indicati nel quarto comma dello stesso articolo, tra i quali sono specificamente elencati quelli che attengono alla pubblica sicurezza e all’incolumità pubblica.
Ne consegue che, per il combinato disposto della predetta norma e dell’art. 23 codice della strada, l’istituto in parola non è applicabile a questa fattispecie, ove il potere conferito agli enti proprietari della strada di disciplinare l’installazione di impianti pubblicitari risponde alla necessità di garantire la sicurezza della circolazione stradale e quindi l’incolumità di persone e cose.
I cartelli pubblicitari lungo le strade non possono essere impiantati in difetto di autorizzazione, per ragioni attinenti alla sicurezza della circolazione (Cass. n. 4045 del 2011; Cass. n. 4869 del 2007) (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione civile, sentenza 19.09.2011 n. 19103).

APPALTI: Per legittimare l'adozione dell'informativa prefettizia è sufficiente che emergano elementi indiziari che considerati nell'insieme rendano attendibile l'ipotesi del tentativo di ingerenza da parte delle organizzazioni criminali.
L'ampiezza dei poteri di accertamento giustificata dalla finalità preventiva sottesa al provvedimento interdittivo, comporta che il Prefetto possa ravvisare l'emergenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé privi dell'assoluta certezza.

- L'informativa sulla sussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa che, ai sensi dell'art. 4 d.lgs. 08.08.1994 n. 490 e dell'art. 10 d.P.R. 03.06.1998 n. 252, preclude la stipulazione di contratti con le pubbliche amministrazioni, non presuppone l'accertamento di responsabilità penali in capo ai titolari dell'impresa sospettata, essendo sufficiente che dalle informazioni, acquisiste tramite gli organi di polizia, si evinca un quadro indiziario sintomatico del pericolo di collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. A legittimare l'adozione dell'informativa prefettizia è pertanto sufficiente che, ad esito della istruttoria, emergano elementi indiziari che, complessivamente considerati, rendano attendibile l'ipotesi del tentativo di ingerenza da parte delle organizzazioni criminali.
Il parametro valutativo di tali elementi indiziari non è dunque quello della certezza, ma quello della qualificata probabilità di infiltrazione mafiosa e nel rendere le informazioni richieste dal comune ai sensi dell'art. 10, c. 7, lett. c), d.P.R. 03.06.1998 n. 252, il Prefetto non deve basarsi su specifici elementi, ma deve effettuare la propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro indiziario, ove assumono rilievo preponderante i fattori induttivi della non manifesta infondatezza che i comportamenti e le scelte dell'imprenditore possano rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche amministrazioni.
- L'ampiezza dei poteri di accertamento giustificata dalla finalità preventiva sottesa al provvedimento interdittivo, comporta che il Prefetto possa ravvisare l'emergenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé privi dell'assoluta certezza, che tuttavia, nel loro coacervo, siano tali da fondare un giudizio di possibilità che l'attività d'impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata per la presenza, nei centri decisionali, o comunque per la colleganza, di soggetti legati ad organizzazioni malavitose. In sostanza non si postula quale condizione per l'applicabilità delle disposizioni in parola, che ci si trovi al cospetto di una impresa criminale posseduta o gestita o controllata da soggetti dediti ad attività criminali, ma che vi sia la possibilità che essa possa, anche in via indiretta, favorire la criminalità.
Pertanto, la circostanza che, nel caso di specie, vi sia un collegamento economico legato a partecipazione societarie tra soggetti incensurati e soggetti facenti parte o comunque nell'orbita di sodalizi criminali, con le connesse frequentazioni e relazioni interpersonali, è indicatore tipico di rischio di infiltrazioni mafiose nell'impresa, rilevanti ai fini della adozione della interdittiva antimafia, potendosi desumere, secondo dati di comune esperienza, non una attuale ingerenza delle organizzazioni mafiose negli affari della impresa, ma una effettiva possibilità o meglio un rischio che tale ingerenza sussista (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.09.2011 n. 5262 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla validità di eventuali comunicazioni a mezzo fax, da parte della stazione appaltante, al numero indicato dai concorrenti in sede di gara.
La comunicazione a mezzo fax ad un numero indicato espressamente da un concorrente in sede di gara al fine di ricevere la documentazione riguardante la procedura d'appalto, è strumento pienamente idoneo a garantire l'effettività della comunicazione stessa.
Inoltre, non è necessaria di un'esplicita previsione del bando di gara in tal senso, essendo ormai principio pacifico che trattasi di uno strumento di comunicazione ammissibile in via ordinaria (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.09.2011 n. 5213 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATASono legittimati a richiedere il permesso di costruire non solo il proprietario, ma anche i soggetti che si trovano, rispetto al bene immobile da edificare, in una relazione qualificata, come i titolari di un diritto reale, ovvero i titolari di un diritto personale, quali, ad esempio, il conduttore.
E' bensì vero che sono legittimati a richiedere il permesso di costruire non solo il proprietario, ma anche i soggetti che si trovano, rispetto al bene immobile da edificare, in una relazione qualificata, come i titolari di un diritto reale, ovvero i titolari di un diritto personale, quali, ad esempio, il conduttore (cfr C.d.S., VI, 15.07.2010, n. 4557) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza II, sentenza 15.09.2011 n. 1434 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 3 della legge n. 47 del 1985 delinea, del resto, un sistema autosufficiente di sanzioni amministrative pecuniarie (abrogato e riassorbito, a decorrere dal 30.06.2002, dal T.U. di cui al DPR 380/2001) per i casi di ritardo del versamento del contributo di concessione edilizia, che si distinguono a seconda dell’entità del ritardo.
Non a caso la Corte dei Conti ha chiarito che in ipotesi di ritardata riscossione dei contributi in questione non è configurabile un danno per mancata esazione di interessi e rivalutazione monetaria sui contributi stessi, proprio perché la conseguenza del ritardo è sanzionata (omnicomprensivamente) dalle specifiche sanzioni amministrative pecuniarie di cui al citato art. 3 l. 47/1985.
In questo modo, vengono a trovare applicazione, peraltro, principi non dissimili a quelli vigenti in materia di sanzioni amministrative per violazioni tributarie (si veda, in particolare l’art. 2, comma 3, del d.lgs. 472/1997, secondo cui la sanzione irrogata a titolo di sanzione amministrativa non produce comunque interessi).

Non può dimenticarsi, anzitutto, che il legislatore ha in effetti puntualmente disciplinato le conseguenze per il mancato o tardivo pagamento degli oneri concessori, di cui agli artt. 5 e 6 della legge n. 10 del 1977, prevedendo, a seconda del ritardo accumulato:
a) la corresponsione degli interessi legali di mora se il versamento avviene nei successivi trenta giorni;
b) la corresponsione di un penale pari al doppio degli interessi legali qualora il versamento avvenga negli ulteriori trenta giorni;
c) l’aumento, infine, di un terzo del contributo dovuto, quando il ritardo si protragga oltre il termine di cui alla precedente lettera b).
Orbene, va dato anzitutto rilievo al fatto che la legge non prevede esplicitamente, nel caso della richiamata lettera c), l’applicazione di alcuna ulteriore penalità o l’addebito di interessi, ancorché corrispettivi e nella sola misura legale, in favore dell’Amministrazione.
Risulta, peraltro, che quest’ultima alla scadenza dei termini di pagamento è rimasta inerte, senza attivarsi per la riscossione né avvalersi delle polizze fideiussorie depositate a garanzia dell’adempimento.
La società ricorrente richiama, poi, un orientamento giurisprudenziale di primo grado, ad avviso del quale la maggiorazione del contributo concessorio, prevista dall’art. 3 della legge 28.02.1985 n. 47, non ha carattere sanzionatorio ma è una penale convenzionale ex art. 1382 c.c., con la conseguenza che essa rappresenta una liquidazione anticipata e forfettaria del danno derivante dal ritardo nel pagamento degli oneri concessori ed assorbe perciò sia gli interessi sia l’eventuale danno ulteriore (ma ciò solo fino al giorno della maturazione della maggiorazione, atteso che l’eventuale prolungamento del ritardo comporta che, a partire da quel giorno, maturano gli interessi sull’intero credito: cfr. TAR Umbria 24.10.2002, n. 752).
In realtà, non pare necessario scomodare l’istituto della clausola penale, di cui al citato art. 1382 c.c., con la quale si conviene che, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, uno dei contraenti è tenuto ad una determinata prestazione.
Detta clausola, come è noto, ha l’effetto di limitare il risarcimento del danno derivante dall’inadempimento (art. 1218 c.c.) alla prestazione promessa, se non è stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore, e svolge dunque la funzione di liquidazione preventiva del danno, essenzialmente facendo risparmiare al contraente-creditore, che chieda il risarcimento alla controparte, debitore inadempiente, la prova dell’ammontare del danno stesso.
Non solo, la clausola esonera addirittura dalla prova sull’esistenza del danno, poiché il comma 2 dello stesso art. 1382 afferma che essa opera indipendentemente da detta prova. La clausola dunque opera a favore del contraente creditore, che può pretendere la determinata prestazione anche se dall’inadempimento sia derivato un danno di valore inferiore o addirittura se non sia derivato alcun danno; ma, se non sia stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore, può risolversi in favore della parte inadempiente giacché il danno effettivo può essere superiore alla prestazione convenuta (analoghe funzioni caratterizzano la caparra confirmatoria, prevista nell’art. 1385 c.c., la quale però esercita maggiormente il ruolo di stimolo all’adempimento, atteso che il contraente non inadempiente, anziché ritenere la caparra ricevuta o pretendere il doppio della caparra data, può pretendere l’esecuzione o la risoluzione del contratto, ed in tal caso il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali, ossia dagli artt. 1223 ss. c.c.).
In verità, nella fattispecie, non sembra dover trovare applicazione l’istituto della penale civilistica su base convenzionale, assistendosi, invece, all’applicazione di penali di tipo pubblicistico, i cui contenuti prestazionali, nel rispetto dei principi di matrice costituzionale, sono fissati dalla legge stessa e pertanto, a tutela del soggetto inciso, sono assorbenti e non ammettono deroghe in senso aggiuntivo, anche se relativamente alla mera corresponsione di interessi corrispettivi connessi alla liquidità ed esigibilità del credito.
L’art. 3 della legge n. 47 del 1985 delinea, del resto, un sistema autosufficiente di sanzioni amministrative pecuniarie (abrogato e riassorbito, a decorrere dal 30.06.2002, dal T.U. di cui al DPR 380/2001) per i casi di ritardo del versamento del contributo di concessione edilizia, che si distinguono a seconda dell’entità del ritardo (cfr. Cass. civ., I, 06.11.2006, n. 23633).
Non a caso la Corte dei Conti ha chiarito che in ipotesi di ritardata riscossione dei contributi in questione non è configurabile un danno per mancata esazione di interessi e rivalutazione monetaria sui contributi stessi, proprio perché la conseguenza del ritardo è sanzionata (omnicomprensivamente) dalle specifiche sanzioni amministrative pecuniarie di cui al citato art. 3 l. 47/1985 (Corte conti, Sez. giur. Calabria, 14.05.1993, n. 20).
In questo modo, vengono a trovare applicazione, peraltro, principi non dissimili a quelli vigenti in materia di sanzioni amministrative per violazioni tributarie (si veda, in particolare l’art. 2, comma 3, del d.lgs. 472/1997, secondo cui la sanzione irrogata a titolo di sanzione amministrativa non produce comunque interessi) (C.G.A.R.S., sentenza 15.09.2011 n. 557 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In materia di gare d'appalto, in presenza di criteri o sub-criteri di valutazione generici ed imprecisi sussiste l'obbligo da parte della commissione giudicatrice di motivare i singoli punteggi assegnati ai concorrenti.
In materia di gare d'appalto, la necessità di motivazione da parte della commissione si affievolisce solo in presenza di criteri o sub-criteri di valutazione sufficientemente analitici e precisi. Qualora, questi ultimi risultino essere generici, la commissione dovrà motivare esaurientemente i singoli punteggi. Maggiore è la discrezionalità della commissione nel giudizio tecnico, più pressante è l'obbligo di esternare con precisione l'iter logico percorso.
La motivazione rappresenta lo strumento tecnico che consente il controllo sul rispetto dei principi costituzionali della parità di trattamento e par condicio dei concorrenti, nonché giurisdizionali, quali la ragionevolezza e la logicità delle scelte. Una motivazione non sufficiente o solo fittizia è da equiparare ad una non-motivazione.
I criteri motivazionali devono essere conosciuti dagli offerenti anteriormente alla presentazione dell'offerta, non essendo più possibile, in seguito alla recente abrogazione del c. 4, u.p. dell'art. 83 codice appalti, che la commissione giudicatrice, prima dell'apertura delle buste contenenti le offerte, possa fissare i parametri cui si atterrà per attribuire a ciascun criterio e sub criterio il punteggio prestabilito dal bando (T.R.G.A. Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 15.09.2011 n. 317 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAE' illegittimo il diniego del titolo edilizio adducendo la motivazione che "quanto si vuole realizzare deturpa il prospetto del fabbricato". Non risulta sufficiente neppure la ragione della non compatibilità estetica dell’intervento atteso che tale valutazione, pur risultando ampiamente discrezionale, non risulta supportata da riferimenti normativi o regolamentari.
Il diniego del titolo edilizio, comportando una contrazione dello ius aedificandi, necessita di una circostanziata motivazione, esplicativa delle reali ragioni impeditive, da individuarsi nel contrasto del progetto presentato con specifiche norme urbanistiche, esplicitamente indicate, e deve quindi indicare compiutamente e in modo intelligibile le ragioni per le quali sussiste la ritenuta difformità urbanistica.

E’ impugnata la nota del 20.10.2006 con la quale il Dirigente del Settore urbanistica ed Assetto del Territorio ha comunicato al ricorrente il rigetto dell’istanza di sanatoria delle opere consistenti nella messa in opera sul balcone aggettante interno, di alcuni grigliati in legno verticale e nella copertura della struttura a frangisole con un pannello di legno orizzontale.
...
In primo luogo deve rilevarsi che il citato provvedimento risulta così motivato “si rileva che dalla documentazione fotografica è evincibile la precarietà almeno del grigliato verticale, costituito da pannelli in listelli di legno con motivo romboidale e con ampie aperture di affaccio, mentre appare più consistente la chiusura superiore dei travetti in c.a. preesistenti, incassati nella tompagnatura stessa e peraltro compromettendo la già precaria aeroilluminazione dei vani utili prospicienti il terrazzo a livello ed in considerazione che quanto realizzato deturpa il prospetto posteriore del fabbricato”.
Risulta evidente il difetto motivazionale di cui è affetto il provvedimento impugnato non risultando lo stesso specificare le norme urbanistiche e/o regolamentari vietate.
Secondo pacifica giurisprudenza “il diniego del titolo edilizio, comportando una contrazione dello ius aedificandi, necessita di una circostanziata motivazione, esplicativa delle reali ragioni impeditive, da individuarsi nel contrasto del progetto presentato con specifiche norme urbanistiche, esplicitamente indicate, e deve quindi indicare compiutamente e in modo intelligibile le ragioni per le quali sussiste la ritenuta difformità urbanistica” (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 09.06.2011, n. 3040 TAR Basilicata Potenza, sez. I, 09.04.2010, n. 180)
Non risulta sufficiente neppure la ragione della non compatibilità estetica dell’intervento atteso che tale valutazione, pur risultando ampiamente discrezionale, non risulta supportata da riferimenti normativi o regolamentari.
A ciò aggiungasi che il gravato diniego non tiene conto della precarietà e scarsa rilevanza urbanistica delle opere oggetto dell’istanza.
Difatti, la nozione di costruzione, ai fini della necessità della concessione edilizia, si configura in presenza di opere che attuino una trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio con trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore –circostanza non sussistente nella fattispecie- (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2008).
Tali considerazioni conducono alla illegittimità del provvedimento di diniego impugnato sotto gli assorbenti profili rilevati (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 14.09.2011 n. 1623 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAUn ipotetico diniego di approvazione del piano attuativo deve essere congruamente istruito e motivato con valutazione comparata degli interessi coinvolti; tale valutazione è sottoposta al sindacato del giudice amministrativo, cui spetta, ovviamente su impulso di parte, verificare se le ragioni poste a base del diniego possono, in concreto, supportare le determinazioni assunte: ambito di scrutinio, questo, costantemente ritenuto estraneo al merito dell’azione amministrativa.
E’ sufficiente ribadire come un ipotetico diniego di approvazione del piano attuativo deve essere congruamente istruito e motivato con valutazione comparata degli interessi coinvolti; tale valutazione è sottoposta al sindacato del giudice amministrativo, cui spetta, ovviamente su impulso di parte, verificare se le ragioni poste a base del diniego possono, in concreto, supportare le determinazioni assunte: ambito di scrutinio, questo, costantemente ritenuto estraneo al merito dell’azione amministrativa (in termini, tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2010, n. 2545) (TAR Umbria, sentenza 13.09.2011 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUna volta intervenuta la pronuncia sulla prima istanza di sanatoria, l’Amministrazione è tenuta a provvedere su eventuali ulteriori istanze soltanto laddove l’interessato prospetti una soluzione atta (anche attraverso le opportune modifiche progettuali ed i conseguenti interventi di parziale ripristino) a rendere l’opera abusiva pienamente conforme alle prescrizioni vigenti; al contrario, la presentazione di un’istanza che si dimostri insufficiente alla luce dei parametri urbanistico-edilizi la cui violazione era stata rappresentata con il primo diniego, non comporterà l’obbligo di provvedere.
Parte ricorrente lamenta l’illegittimità della mancata attivazione del procedimento amministrativo per l’accertamento di conformità di cui all’art. 17 della l.r. n. 21 del 2004, evidenziando che si trattava di una differente (dal punto di vista contenutistico) istanza di sanatoria rispetto alla precedente disattesa, non rilevando l’identità dell’abuso.
Il Comune obietta l’inesistenza di un obbligo di esaminare reiterate istanze di sanatoria, in quanto ciò si tradurrebbe in una sospensione sine die del procedimento sanzionatorio.
Il Collegio è consapevole della divaricazione di posizioni giurisprudenziali registratesi in ordine agli effetti dell’istanza di sanatoria (melius, di accertamento di conformità); una parte della giurisprudenza ritiene, sia con riferimento all’art. 13 della legge 28.02.1985, n. 47, sia con riguardo all’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, che il silenzio non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto, e dunque si caratterizza come silenzio provvedimentale con contenuto di rigetto (TAR Basilicata, 14.01.2011, n. 28; TAR Piemonte, Sez. II, 20.05.2011, n. 494; TAR Campania, Sez. VI, 05.05.2005, n. 5484; TAR Campania, Sez. VI, 09.03.2006, n. 2834; Cons. Stato, Sez. IV, 13.01.2010, n. 100), con la conseguenza che, essendovi un provvedimento tacito, l’Amministrazione è esonerata dal fornire una risposta sull’istanza. Un’altra parte della giurisprudenza ritiene invece che il silenzio serbato dall’Amministrazione in relazione alla richiesta di concessione edilizia in sanatoria ha natura di silenzio-rifiuto, così che l’Amministrazione ha l’obbligo di concludere il procedimento con provvedimento espresso e motivato (TAR Lazio, Latina, 16.03.2010, n. 292; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 29.05.2003, n. 903).
In tale quadro di incertezza ermeneutica occorre tenere poi conto della disciplina regionale; a tale proposito, l’art. 17 della l.r. 03.11.2004, n. 21, al terzo comma, dispone che «alla richiesta di permesso in sanatoria si applicano le procedure previste dall’art. 17 della L.R. n. 1/2004, con esclusione della possibilità di applicare l’intervento sostitutivo della Provincia …», e dunque il procedimento per il rilascio del permesso di costruire.
Tale procedimento non contempla il silenzio-rigetto, ma un provvedimento espresso adottato dal dirigente della competente struttura comunale o dal responsabile dello sportello unico; l’ultimo comma dell’art. 17 stabilisce poi che, decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento finale, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto.
Sembra dunque sostenibile, già sul piano dell’ermeneusi letterale della norma, con un sufficiente margine di sicurezza, che nell’ambito dell’ordinamento regionale umbro non operi il silenzio-rigetto.
Quanto poi alla reiterazione dell’istanza di sanatoria, questo Tribunale Amministrativo ha ritenuto che, una volta intervenuta la pronuncia sulla prima istanza di sanatoria, l’Amministrazione è tenuta a provvedere su eventuali ulteriori istanze soltanto laddove l’interessato prospetti una soluzione atta (anche attraverso le opportune modifiche progettuali ed i conseguenti interventi di parziale ripristino) a rendere l’opera abusiva pienamente conforme alle prescrizioni vigenti; al contrario, la presentazione di un’istanza che si dimostri insufficiente alla luce dei parametri urbanistico-edilizi la cui violazione era stata rappresentata con il primo diniego, non comporterà l’obbligo di provvedere (cfr. TAR Umbria, 08.07.2002, n. 505, ed anche 20.01.2010, n. 14) (TAR Umbria, sentenza 13.09.2011 n. 296 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARINon è guida senza patente usare una licenza diversa.
Costa caro circolare in moto con una patente non idonea a questo impiego. Ma per i trasgressori che vengono pizzicati dalla polizia non si tratta comunque di guida senza patente ma solo di una violazione amministrativa sanzionata dall'art. 125 del codice della strada.
Lo ha evidenziato la Corte di cassazione, sez. IV pen., con la sentenza 14.07.2011 n. 27732.
Un motociclista munito solo di patente di categoria A1 è stato fermato dalla polizia stradale alla guida di una moto di grossa cilindrata e sanzionato per guida senza patente. Contro questa severa determinazione l'interessato ha proposto censure in Cassazione e il collegio ha ribaltato l'esito della vicenda. La guida di un motoveicolo con patente non idonea è stata censurata dalla Consulta con la sentenza n. 3/1997 che ha creato un vuoto normativo colmato solo con il dl 151/2003.
In buona sostanza dopo l'entrata in vigore della riforma della patente a punti la guida di un motociclo con patente non idonea ricade nell'ipotesi sanzionatoria amministrativa prevista dall'art. 125 del codice stradale. Ovvero 159 euro di multa e sospensione della licenza di guida da uno a sei mesi (articolo ItaliaOggi del 29.09.2011).

EDILIZIA PRIVATALa dichiarazione d’inizio attività non ha natura provvedimentale, trattandosi di un atto privato, e non è, pertanto, ad essa pertinente un’azione di annullamento, potendo la stessa semplicemente costituire presupposto per l’attivazione dei poteri inbitori della amministrazione, eventualmente stimolati da altri soggetti privati che si ritengano lesi dall’opera denunciata; né può attribuirsi carattere provvedimentale, onde ammettere che essa possa formare oggetto di ricorso giurisdizionale, alla mera inerzia mantenuta dall’amministrazione a seguito del ricevimento della D.I.A., che rileva quale puro fatto.
Preliminare esame richiede la questione, molto dibattuta e che ha dato luogo a contrasti giurisprudenziali (noti alla ricorrente che vi accenna in memoria, con richiami alla giurisprudenza), della impugnabilità della D.I.A..
Il Collegio condivide al riguardo l’indirizzo, ormai prevalente, secondo il quale (v., recentemente, Cons. Stato, Sez IV, 13.05.2010, n. 2139 e id, Sez. VI, 15.04.2010, n. 2139, cui si rinvia, a mente dell’art. 88, comma 2, lett. d, c.p.a.) la dichiarazione d’inizio attività non ha natura provvedimentale, trattandosi di un atto privato, e non è, pertanto, ad essa pertinente un’azione di annullamento, potendo la stessa semplicemente costituire presupposto per l’attivazione dei poteri inbitori della amministrazione, eventualmente stimolati da altri soggetti privati che si ritengano lesi dall’opera denunciata; né può attribuirsi carattere provvedimentale, onde ammettere che essa possa formare oggetto di ricorso giurisdizionale, alla mera inerzia mantenuta dall’amministrazione a seguito del ricevimento della D.I.A., che rileva quale puro fatto (cfr. Cons. Stato, Sez IV, 19.09.2008, n. 4513) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.04.2011 n. 656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo della zona di rispetto cimiteriale non è un vincolo di P.R.G., ma, in quanto posto dall’art. 338 del R.D. 27.07.1934 n. 1265, è operativo ope legis, con la conseguenza che esso si impone anche contro eventuali previsioni contrarie di P.R.G. o regolamenti locali e, per altro verso, la sua eventuale indicazione grafica negli strumenti urbanistici non ha carattere costitutivo ma semplicemente ricognitivo: sicché la sua mancata indicazione nel P.R.G. non significa che il vincolo non esista, bensì che la sua estensione è esattamente quella, di 200 metri, stabilita dall’art. 338 del R.D. n. 1265/1934.
Il vincolo in questione costituisce, inoltre, un vincolo assoluto di inedificabilità e vale, pertanto, per qualsiasi manufatto edilizio.

Il vincolo della zona di rispetto cimiteriale non è un vincolo di P.R.G., ma, in quanto posto dall’art. 338 del R.D. 27.07.1934 n. 1265, è operativo ope legis, con la conseguenza che esso si impone anche contro eventuali previsioni contrarie di P.R.G. o regolamenti locali (cfr., TAR Toscana, sez. I, 14.10.2003 n. 5314) e, per altro verso, la sua eventuale indicazione grafica negli strumenti urbanistici non ha carattere costitutivo ma semplicemente ricognitivo: sicché la sua mancata indicazione nel P.R.G. non significa che il vincolo non esista, bensì che la sua estensione è esattamente quella, di 200 metri, stabilita dall’art. 338 del R.D. n. 1265/1934.
Il vincolo in questione costituisce, inoltre, un vincolo assoluto di inedificabilità (cfr. Cons. di Stato, sez. II, 28.08.1996 n. 3031) e vale, pertanto, per qualsiasi manufatto edilizio.
Ne consegue che le opere di cui trattasi erano e sono, ex art. 33 della legge n. 47/1985, insuscettibili di condono edilizio per contrasto, appunto, con un vincolo di inedificabilità assoluta (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.04.2011 n. 633 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALIQuanto al potere di ordinare la rimozione dei rifiuti abbandonati, non può che convenirsi con l’indirizzo interpretativo secondo cui, alla luce dell’insuperabile dato testuale dell’art. 192, co. 3, D.Lgs. n. 152/2006, la relativa competenza appartiene al Sindaco e non ai dirigenti, e questo anche in considerazione della specialità della norma e della sua posteriorità rispetto all’art. 107 D.Lgs. n. 267/2000.
Com’è noto, l’art. 192 del D.Lgs. n. 152/2006 pone un divieto di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo, la cui violazione è difesa da quello che in dottrina viene definito un peculiare sistema sanzionatorio binario, repressivo e propositivo: da un lato, le sanzioni penali ed amministrative disciplinate dagli artt. 255 e 256 del medesimo D.Lgs. n. 152/2006, dall’altro il potere sindacale di ordinare la rimozione dei rifiuti e di provvedere al ripristino dello stato dei luoghi, ai sensi del terzo comma del medesimo art. 192. Diversamente, nei casi di contaminazione, effettiva o potenziale, di un sito, da intendersi quale superamento dei valori di concentrazione soglia di contaminazione delle sostanze inquinanti rilevate nelle matrici ambientali, trovano applicazione le procedure di messa in sicurezza e bonifica di cui all’art. 242 del D.Lgs. n. 152/2006, l’attivazione delle quali è garantita dai poteri di ordinanza e di esecuzione in danno disciplinati dai successivi artt. 244 e 250.
Nella specie, il provvedimento adottato dal Comune di S. Casciano Val di Pesa presenta una commistione di contenuti, nella misura in cui l’amministrazione non soltanto invoca, per legittimare il proprio intervento, sia l’art. 192, sia gli artt. 242 e 244 del D.Lgs. n. 152/2006, ma impartisce –nel medesimo contesto– disposizioni riconducibili ora all’una, ora alle altre delle richiamate previsioni di legge. In particolare, se il punto n. 1 del dispositivo contiene un ordine di provvedere alla messa in sicurezza e alla bonifica dell’area interessata dalla discarica, sul presupposto implicito dell’esistenza di una situazione di contaminazione, il punto n. 2 contiene quell’ordine di rimozione, smaltimento dei rifiuti e ripristino dell’area che, lo si è visto, appartiene tipicamente al novero dei poteri sindacali in materia di abbandono incontrollato dei rifiuti: ma, in disparte ogni questione circa l’ammissibilità o meno di un siffatto concorso di rimedi, i poteri esercitati esulano comunque dalle attribuzioni dell’autorità procedente.
Quanto al potere di ordinare la rimozione dei rifiuti abbandonati, non può che convenirsi con l’indirizzo interpretativo secondo cui, alla luce dell’insuperabile dato testuale dell’art. 192, co. 3, D.Lgs. n. 152/2006, la relativa competenza appartiene al Sindaco e non ai dirigenti, e questo anche in considerazione della specialità della norma e della sua posteriorità rispetto all’art. 107 D.Lgs. n. 267/2000 (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12.06.2009, n. 3765).
Quanto, invece, ai poteri di ordinanza che l’art. 244 D.Lgs. n. 152/2006 appresta onde imporre ai soggetti responsabili dell’inquinamento di un sito di provvedere alla messa in sicurezza d’emergenza ed alla bonifica, stando alla norma statale essi ricadono nella competenza della Provincia, e non induce a diverse conclusioni l’esame della legislazione regionale, posto che la legge regionale toscana n. 30/2006 ha delegato ai Comuni le sole funzioni inerenti le procedure amministrative attinenti alla procedure ex art. 242. E neppure vale sostenere, come fa la difesa del Comune, che, con l’ordinanza impugnata, si sarebbe inteso mettere lo Scherma in condizione di eseguire gli interventi richiesti dall’art. 242, non potendosi dubitare della valenza coercitiva del provvedimento e della sua perfetta sovrapponibilità con la diffida “a provvedere ai sensi del presente titolo” di competenza provinciale, come è del resto confermato dalla circostanza che lo stesso provvedimento comunale enuclea dettagliatamente gli adempimenti imposti all’interessato per l’ipotesi di superamento delle CSC e delle CSR, sul modello della previsione normativa applicata (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 07.04.2011 n. 626 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - LAVORI PUBBLICIL’approvazione del progetto esecutivo di opera pubblica è di competenza della Giunta Comunale e non del dirigente.
Non appare condivisibile l’assunto di parte ricorrente circa la natura meramente gestoria dell’atto di approvazione del progetto esecutivo di un’opera pubblica, con la sua ascrizione alla competenza dirigenziale, mentre il Collegio ritiene di condividere il prevalente orientamento giurisprudenziale che attribuisce l’approvazione del progetto esecutivo di opera pubblica alla competenza di Giunta (Cons. Stato, sez, IV, 11.09.2001, n. 4744; TAR Lecce, sez. I, 31.03.2003, n. 1415; TAR Venezia, sez. I, 07.07.2004, n. 2266; TAR Toscana, sez. I, n. 1038 del 2008) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 06.04.2011 n. 594 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl termine massimo di 10 anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall’art. 16, comma 5, della legge 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati ma valevole anche per i piani di lottizzazione, non è suscettibile di deroga neppure sull’accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo.
La convenzione non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del piano di lottizzazione.
---------------
Il piano di lottizzazione perde efficacia alla scadenza del termine massimo di 10 anni o nel minor termine previsto per la sua attuazione, così come avviene per il piano particolareggiato, essendo indifferente, a tali fini, che si tratti di uno strumento attuativo di iniziativa privata o di iniziativa pubblica.
Anche per i piani di lottizzazione vale sia la norma sulla durata decennale che la norma sulla decadenza o inefficacia del piano per la parte inattuata (entrambe dettate per i piani particolareggiati rispettivamente dagli artt. 16, comma 5, e 17, comma 1, L. 17.08.1942 n. 1150) e che il termine di 10 anni per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione poste a carico del lottizzante deve considerarsi come termine massimo da inserire in convenzione.
---------------
La domanda di proroga del piano di lottizzazione, anche se giustificata da oggettive difficoltà nell’attuazione del PdL non dipendenti dalla volontà della società lottizzante, non può essere accolta da parte del Comune qualora proposta dopo la scadenza del termine di efficacia del piano di lottizzazione. Infatti, la proroga di un piano di lottizzazione non può intervenire se l'atto da prorogare è già scaduto.
Anche qualora la richiesta di proroga intervenga durante la vigenza del piano, tuttavia da ciò non consegue il diritto del lottizzante ad ottenere la proroga, ma semplicemente egli ha una posizione giuridica di interesse legittimo al corretto esercizio da parte del Comune del potere discrezionale di esame e pronuncia sulla richiesta; richiesta che però può fondarsi solo su oggettive ragioni impeditive dell’attuazione del piano nel termine previsto, in alcun modo dipendenti dalla volontà del lottizzante.
---------------
Qualora non risulta realizzato alcun fabbricato di edilizia residenziale nei lotti previsti nel piano di lottizzazione e poiché non è più possibile rilasciare alcuna concessione edilizia in quanto il P.d.L. ha perso efficacia, consegue che la garanzia prestata (fidejussione) ha oramai perso la propria causa giustificativa. Pertanto il Comune deve restituire la polizza fideiussoria stipulata.
---------------
La mancata attuazione della convenzione, anche per fatto imputabile al lottizzante, comporta, come effetto sanzionatorio, la scadenza del piano di lottizzazione e la sua sopravvenuta inefficacia, ma non può comportare ex se anche la perdita della proprietà delle aree oggetto della cessione giacché, come detto, ciò realizzerebbe un trasferimento senza giusta causa della proprietà di tali beni.

Il termine massimo di 10 anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall’art. 16, comma 5, della legge 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati ma valevole anche per i piani di lottizzazione, non è suscettibile di deroga neppure sull’accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo (Cons. Stato, sez. IV, 11.03.2003, n. 1315; TAR Sardegna, 18.08.2003, n. 1033).
La convenzione è infatti un atto accessorio al piano di lottizzazione, per la regolazione dei rapporti tra lottizzante e comune con riferimento agli adempimenti derivanti dalla lottizzazione dell’area, che non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del piano di lottizzazione.
---------------
Per giurisprudenza pacifica, il piano di lottizzazione perde efficacia alla scadenza del termine massimo di 10 anni o nel minor termine previsto per la sua attuazione, così come avviene per il piano particolareggiato, essendo indifferente, a tali fini, che si tratti di uno strumento attuativo di iniziativa privata o di iniziativa pubblica (Cfr. Cons. Stato, IV Sez.: 25.07.2001 n. 4074, e 1315/2003 e 286/1999 cit.; TAR Calabria, Catanzaro, 16.03.2004 n. 621; TAR Lazio, sez. 2^, 11.02.2004, n. 1286; TAR Abruzzo, L’Aquila, 27.12.1999, n. 764).
Negli stessi termini si è pronunciato il TAR Sardegna con la sentenza 18.08.2003, n. 1033, nella quale ha affermato che anche per i piani di lottizzazione vale sia la norma sulla durata decennale che la norma sulla decadenza o inefficacia del piano per la parte inattuata (entrambe dettate per i piani particolareggiati rispettivamente dagli artt. 16, comma 5, e 17, comma 1, L. 17.08.1942 n. 1150) e che il termine di 10 anni per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione poste a carico del lottizzante deve considerarsi come termine massimo da inserire in convenzione.
---------------
La domanda di proroga del piano di lottizzazione, anche ove fosse stata giustificata da oggettive difficoltà nell’attuazione del PdL non dipendenti dalla volontà della società lottizzante, non avrebbe potuto essere accolta da parte del Comune perché proposta dopo la scadenza del termine di efficacia del piano di lottizzazione.
Infatti la proroga di un piano di lottizzazione non può intervenire se l'atto da prorogare è già scaduto (C.G.A. 25.01.1990, n. 2; TAR Calabria, Catanzaro, 04.03.2002, n. 491; TAR Umbria, Perugia, 21.12.1996, n. 554; TAR Lombardia Brescia, 08.10.1991, n. 690; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 19.12 1994, n. 989).
Per completezza si può aggiungere che, anche qualora la richiesta di proroga fosse intervenuta durante la vigenza del piano, tuttavia da ciò non sarebbe conseguito il diritto del lottizzante ad ottenere la proroga, ma semplicemente egli avrebbe avuto una posizione giuridica di interesse legittimo al corretto esercizio da parte del Comune del potere discrezionale di esame e pronuncia sulla richiesta; richiesta che però poteva fondarsi solo su oggettive ragioni impeditive dell’attuazione del piano nel termine previsto, in alcun modo dipendenti dalla volontà del lottizzante.
---------------
Ai sensi dell’art. 28, comma 5, della legge n. 1150 del 1942, il lottizzante è tenuto a prestare “congrue garanzie per l’adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione”. Gli obblighi assunti con la stipulazione della convenzione di lottizzazione attengono in modo particolare alla realizzazione delle opere di urbanizzazione previste dal piano di lottizzazione.
Detta obbligazione attiene sia all’aspetto quantitativo, ossia alle realizzazione di tutte le opere di urbanizzazione, ma anche all’aspetto qualitativo, ossia alla esecuzione a regola d’arte delle opere medesime.
L’incameramento della fideiussione consente al Comune di poter realizzare le opere nell’eventualità che le stesse non siano state realizzate dal lottizzante o presentino dei difetti per non essere state realizzate a regola d’arte, al fine di evitare che gli insediamenti eventualmente sorti non siano serviti dalle necessarie urbanizzazioni. Il Comune, infatti, è tenuto a rilasciare le concessioni edilizie con il contestuale inizio della realizzazione delle opere di urbanizzazione.
Il citato articolo 28 dispone, infatti, al 7° comma che: “Il rilascio delle licenze edilizie nell’ambito dei singoli lotti è subordinato all’impegno della contemporanea esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria relative ai lotti stessi”. La polizza fideiussoria viene prestata proprio per garantire detto impegno.
Poiché nel caso in esame non risulta realizzato alcun fabbricato di edilizia residenziale nei lotti previsti nel piano e poiché non è più possibile rilasciare alcuna concessione edilizia in quanto il P.d.L. ha perso efficacia, ne consegue che la garanzia prestata ha oramai perso la propria causa giustificativa. Pertanto il Comune dovrà restituire la polizza fideiussoria stipulata nel 1990.
---------------
La cessione delle aree per standards previste in convenzione è strettamente legata, in una relazione di corrispettività, al rilascio delle concessioni edilizie necessarie alla realizzazione delle edificazioni previste dal piano di lottizzzione.
La mancata attuazione della convenzione, anche per fatto imputabile al lottizzante, comporta, come effetto sanzionatorio, la scadenza del piano di lottizzazione e la sua sopravvenuta inefficacia, ma non può comportare ex se anche la perdita della proprietà delle aree oggetto della cessione giacché, come detto, ciò realizzerebbe un trasferimento senza giusta causa della proprietà di tali beni
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 31.03.2011 n. 294 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'entità del contributo dovuto per oneri concessori va individuato nel momento in cui viene rilasciata la concessione edilizia, poiché il costo da considerare ai fini della commisurazione dei relativi oneri non può essere che quello del momento in cui sorge l'obbligazione, che è appunto quello del rilascio della concessione e a tale data occorre avere riguardo per determinare l'entità del contributo con applicazione della normativa vigente al momento del rilascio della concessione medesima.
E ciò vale anche per una concessione edilizia in sanatoria in quanto la stessa è una normale concessione edilizia, che però viene rilasciata dopo l'inizio dei lavori e con effetto sanante dell'attività già compiuta e riguardante opere nuove ed autonome già abusivamente realizzate.

Il chiaro disposto dell'art. 35 della L. n. 47/1985 individua nel momento di presentazione dell'istanza di concessione in sanatoria il riferimento temporale per calcolare la misura dell'oblazione e nell'avvenuto pagamento della stessa un requisito di procedibilità della istanza medesima.
A diversa conclusione deve pervenirsi con riguardo alla determinazione degli oneri concessori. Invero, qui -diversamente dalle somme da corrispondersi a titolo di oblazione- il momento di calcolo degli oneri concessori va individuato, non già nella data di presentazione della domanda di condono, ma in quella di rilascio del provvedimento concessorio, tenuto conto che, ai sensi dell'art. 3 della legge n. 10/1977, la concessione (e non la semplice domanda) comporta "la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione".
In tal senso è l'elaborazione giurisprudenziale (CdS, V, 06.12.1999, n. 2056; id. 22.09.1999, n. 1113), secondo cui l'entità del contributo dovuto per oneri concessori va individuato nel momento in cui viene rilasciata la concessione edilizia, poiché il costo da considerare ai fini della commisurazione dei relativi oneri non può essere che quello del momento in cui sorge l'obbligazione, che è appunto quello del rilascio della concessione e a tale data occorre avere riguardo per determinare l'entità del contributo con applicazione della normativa vigente al momento del rilascio della concessione medesima (cfr., ex multis, Cons. di Stato V 25.10.1993, n. 1071, Cons. di Stato V 26.10.1987, n. 661, Cons. di Stato V 12.05.1987 n. 278, Cons. di Stato V 04.08.1986, n. 401; TAR Lazio, II-bis, 04.01.2005 n. 54).
Ciò si spiega in quanto la concessione in sanatoria è una normale concessione edilizia, che però viene rilasciata dopo l'inizio dei lavori e con effetto sanante dell'attività già compiuta e riguardante opere nuove ed autonome già abusivamente realizzate (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 31.03.2011 n. 286 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 in epoca successiva all’adozione dell’ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione contro l’atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell’abusività dell’opera, provocato dall’istanza, sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.

Successivamente all’ordine di demolizione impugnato, parte ricorrente ha presentato una istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 per le opere abusive in questione.
Il Collegio aderisce all’orientamento giurisprudenziale secondo cui la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 in epoca successiva all’adozione dell’ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione contro l’atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell’abusività dell’opera, provocato dall’istanza, sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
Nel senso dell’improcedibilità si è già peraltro più volte espressa la giurisprudenza anche di questo Tribunale con riferimento sia alle istanze di sanatoria sia alle richieste di accertamento di conformità ex art. 36 TU 06.06.2001 n. 380 presentate dopo l’ordinanza di demolizione (TAR Calabria-Catanzaro, sez. II, 07.11.2008, n. 1482; TAR Campania-Napoli, sez. VI, 22.10.2008, n. 17688; TAR Campania-Napoli, sez. III, 18.09.2008, n. 10346; TAR Campania-Napoli, sez. VI, 16.09.2008, n. 10220; TAR Campania-Napoli, sez. VI, 18.03.2008, n. 1399; TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 30.01.2008 n. 255/2008; TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 27.02.2008 n. 545/2008; Consiglio Stato, sez. V, 26.06.2007, n. 3659; Cons. Stato, 31.05.2006 n. 7884)
(TAR Camania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.03.2011 n. 1746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vano scala non può essere considerato volume tecnico, ai fini della non computabilità nel calcolo della volumetria massima consentita.
Non costituisce volume tecnico (come tale non computabile nella volumetria dell'edificio) un vano scala finalizzato non all'installazione ed all'accesso a impianti tecnologici necessari alle esigenze abitative, ma a consentire l'accesso da un appartamento ad una terrazza praticabile.

Osserva il Collegio che l’intervento, per la parte riguardante il manufatto afferente al vano scala, non poteva che essere considerato come unitario, in quanto comportante una modifica complessiva dell’assetto di quella porzione di edificio, senza che si potesse in sede di pronuncia sull’accertamento di conformità identificare delle opere del tutto autonome e distinte, al fine di trattarle in modo separato ai fini dell’esito finale dell’istanza di sanatoria.
L’intervento in questione ha comportato un aumento di volumetria non consentito dalla Variante di PRG, né quanto realizzato può definirsi come volume tecnico, in quanto, da un lato, parte ricorrente non ha dimostrato che il manufatto si limitasse allo stretto necessario ai fini del contenimento del vano scala ed, in ogni caso, come affermato dalla giurisprudenza amministrativa, il vano scala non può essere considerato volume tecnico, ai fini della non computabilità nel calcolo della volumetria massima consentita (Consiglio Stato, sez. IV, 04.05.2010, n. 2565).
In particolare, sul punto si è pronunciato questo stesso TAR osservando che non costituisce volume tecnico (come tale non computabile nella volumetria dell'edificio) un vano scala finalizzato non all'installazione ed all'accesso a impianti tecnologici necessari alle esigenze abitative, ma a consentire l'accesso da un appartamento ad una terrazza praticabile (TAR Campania Napoli Sez. III, 25/05/2010, n. 8748; vedi anche Cons. Stato Sez. V, 26/07/1984, n. 578)
(TAR Camania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.03.2011 n. 1746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPuò considerarsi un semplice pergolato, non comportante aumento di volumetria o superficie utile, solo quel manufatto realizzato in struttura leggera di legno che funge da sostegno per piante rampicanti o per teli, il quale realizza in tal modo una ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni, destinate ad uno del tutto momentaneo; al contrario deve essere qualificata intervento di nuova costruzione, ai sensi dell'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, la realizzazione di un pergolato costituito da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni, che rendono la struttura solida e robusta e che fanno desumere una permanenza prolungata nel tempo del manufatto stesso.
Affinché un’opera possa qualificarsi come mero arredo di uno spazio esterno, che non comporta realizzazione di superfici utili o volume e non necessiti alcuna concessione edilizia, è necessario difatti che l’opera consista in una struttura precaria, facilmente rimovibile, non costituente trasformazione urbanistica del territorio (Consiglio di Stato, Sez. V, 07.11.2005, n. 6193, nel caso di specie si trattava di un pergolato costituito da una intelaiatura in legno non infissa né al pavimento né alla parete dell’immobile).
Secondo giurisprudenza cui questo Collegio ritiene di aderire, può considerarsi un semplice pergolato, non comportante aumento di volumetria o superficie utile, solo quel manufatto realizzato in struttura leggera di legno che funge da sostegno per piante rampicanti o per teli, il quale realizza in tal modo una ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni, destinate ad uno del tutto momentaneo (TAR Puglia Bari, sez. III, 06.02.2009, n. 222); al contrario deve essere qualificata intervento di nuova costruzione, ai sensi dell'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, la realizzazione di un pergolato costituito da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni, che rendono la struttura solida e robusta e che fanno desumere una permanenza prolungata nel tempo del manufatto stesso (Consiglio Stato, sez. IV, 02.10.2008, n. 4793).
Affinché un’opera possa qualificarsi come mero arredo di uno spazio esterno, che non comporta realizzazione di superfici utili o volume e non necessiti alcuna concessione edilizia, è necessario difatti che l’opera consista in una struttura precaria, facilmente rimovibile, non costituente trasformazione urbanistica del territorio (Consiglio di Stato, Sez. V, 07.11.2005, n. 6193, nel caso di specie si trattava di un pergolato costituito da una intelaiatura in legno non infissa né al pavimento né alla parete dell’immobile)
(TAR Camania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.03.2011 n. 1746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’accertamento di conformità risulta essere uno strumento per sanare quanto già realizzato in assenza di permesso di costruire e non può prendere in considerazione eventuali future modifiche.
L'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 subordina il rilascio del permesso di costruire in sanatoria al presupposto della c.d. "doppia conformità": l'opera abusiva, per poter essere sanata, deve, cioè, essere conforme, come già accennato, non solo allo strumento urbanistico esistente al momento della domanda di sanatoria, ma anche a quello vigente al momento della realizzazione dell'opera.
Laddove, come accade nel caso di specie, in sede di istanza di sanatoria si preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l'opera conforme alle norme vigenti, è palese l'insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria.
Per tale ragione sarebbe illegittimo un provvedimento di sanatoria che, al fine di rendere l'esistente conforme alle prescrizioni urbanistiche vigenti, contempli l'esecuzione di ulteriori lavori.
L'art. 36, D.P.R. n. 380/2001, difatti, non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna estensione discrezionale da parte della P.A..

Il Collegio osserva che l’accertamento di conformità risulta essere uno strumento per sanare quanto già realizzato in assenza di permesso di costruire e non può prendere in considerazione eventuali future modifiche.
L'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 subordina il rilascio del permesso di costruire in sanatoria al presupposto della c.d. "doppia conformità": l'opera abusiva, per poter essere sanata, deve, cioè, essere conforme, come già accennato, non solo allo strumento urbanistico esistente al momento della domanda di sanatoria, ma anche a quello vigente al momento della realizzazione dell'opera.
Laddove, come accade nel caso di specie, in sede di istanza di sanatoria si preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l'opera conforme alle norme vigenti, è palese l'insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria (TAR Lombardia Milano Sez. II, 22.11.2010, n. 7311).
Per tale ragione sarebbe illegittimo un provvedimento di sanatoria che, al fine di rendere l'esistente conforme alle prescrizioni urbanistiche vigenti, contempli l'esecuzione di ulteriori lavori.
L'art. 36, D.P.R. n. 380/2001, difatti, non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna estensione discrezionale da parte della P.A. (C.G.A. Regione Sicilia, 15.10.2009, n. 941).
I titoli abilitativi in sanatoria sono provvedimenti tipici, che eliminano l'antigiuridicità dell'abuso, estinguendo il potere repressivo dell'amministrazione, con la conseguenza che il loro ambito di applicazione non può che essere specificamente disciplinato dalla normativa, non risultando consentito l'esercizio, da parte della P.A., di un potere di sanatoria che vada oltre i limiti imposti dal legislatore (Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 26.04.2006, n. 2306)
(TAR Camania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.03.2011 n. 1746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti che irrogano sanzioni previste dalla legge in materia edilizia, in quanto atti vincolati, non necessitano di alcuna specifica motivazione in ordine all’interesse pubblico a disporre il ripristino della situazione conforme a legge.
Secondo costante giurisprudenza, i provvedimenti che irrogano sanzioni previste dalla legge in materia edilizia, in quanto atti vincolati, non necessitano di alcuna specifica motivazione in ordine all’interesse pubblico a disporre il ripristino della situazione conforme a legge (è controversa in giurisprudenza la sola ipotesi in cui tra l’illecito e la sanzione demolitoria sia decorso un notevole lasso di tempo TAR Veneto, Sez. II - sentenza 13.03.2008 n. 605; TAR Veneto, Sez. II - sentenza 26.02.2008, n. 454; TAR Lombardia-Milano, Sez. II - sentenza 08.11.2007 n. 6200), né il Comune ha discrezionalità nello stabilire le sanzioni derivanti dall’inosservanza della normativa urbanistica e di tutela ambientale
(TAR Camania-Napoli, Sez. IV, sentenza 25.03.2011 n. 1746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso stesso, -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
Nella motivazione dell’ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l’analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell’area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, perché tali elementi afferiscono all’eventuale successiva fase di acquisizione al patrimonio comunale.

Ed invero presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso stesso, -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638; Sez. VI, 09.11.2009, n. 7077; Sez. VII, 04.12.2008, n. 20987).
Secondo una consolidata giurisprudenza infatti (ex multis, TAR Toscana Firenze, Sez. III, 06.02.2008, n. 117; TAR Campania Napoli, Sez. III, 17.12.2007, n. 16311), nella motivazione dell’ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l’analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell’area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, perché tali elementi afferiscono all’eventuale successiva fase di acquisizione al patrimonio comunale (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.03.2011 n. 1710 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è necessario il permesso di costruire per la realizzazione di modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno e senza muretto di sostegno, in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o comunque la delimitazione delle singole proprietà; occorre invece il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lettera e), del D.P.R. n. 380/2001, quando la recinzione determina un’irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi, come nel caso di una recinzione costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica.
Gli interventi consistenti nell’installazione di tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi (cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito), possono ritenersi sottratti al regime della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell’immobile cui accedono. Invece tali strutture non possono ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando abbiano dimensioni tali da arrecare una visibile alterazione del prospetto dell’edificio.

Secondo la prevalente giurisprudenza, non è necessario il permesso di costruire per la realizzazione di modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno e senza muretto di sostegno, in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o comunque la delimitazione delle singole proprietà (ex multis, TAR Veneto, Sez. II, 07.03.2006, n. 533); occorre invece il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lettera e), del D.P.R. n. 380/2001, quando la recinzione determina un’irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi, come nel caso di una recinzione costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica (ex multis, TAR Campania-Napoli, Sez. III, 18.09.2008, n. 10345; Sez. VII, 04.07.2007, n. 6458; TAR Basilicata Potenza, 19.09.2003, n. 897).
Inoltre secondo la prevalente giurisprudenza (ex multis, TAR Campania-Napoli, Sez. IV, 18.02.2003, n. 897; 20.10.2003, n. 12962), gli interventi consistenti nell’installazione di tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi (cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito), possono ritenersi sottratti al regime della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell’immobile cui accedono. Invece tali strutture non possono ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando abbiano dimensioni, come nell’iporesi di specie, tali da arrecare una visibile alterazione del prospetto dell’edificio (
ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 13.03.2001, n. 1442; TAR Lazio Roma, Sez. II, 15.02.2002, n. 1055) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.03.2011 n. 1710 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl certificato di destinazione urbanistica ha carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso risultano, visto che la situazione giuridica attestata nel predetto certificato è la conseguenza di altri precedenti provvedimenti che hanno provveduto a determinarla. Ciò impedisce all'amministrazione, una volta avvedutasi che la certificazione contiene un’attestazione non veritiera, di rilasciare un permesso di costruire basato su un erroneo presupposto.
Va premesso che il certificato di destinazione urbanistica ha carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso risultano, visto che la situazione giuridica attestata nel predetto certificato è la conseguenza di altri precedenti provvedimenti che hanno provveduto a determinarla (TAR Campania, Napoli, Sezione II, 20.09.2010 n. 17479; TAR Lombardia, Milano, Sezione IV, 06.10.2010 n. 6863; TAR Toscana, Sezione I, 28.01.2008, n. 55).
Ciò impedisce all'amministrazione, una volta avvedutasi che la certificazione contiene un’attestazione non veritiera, di rilasciare un permesso di costruire basato su un erroneo presupposto (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 21.03.2011 n. 1604 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare -ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura- onde la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesistico-ambientali vigenti al momento della riedificazione.
Inoltre, la mancata preesistenza dell’edificio costituisce anche elemento di discrimine tra intervento di risanamento conservativo e nuova costruzione.

Secondo costante e consolidato orientamento giurisprudenziale, la ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare -ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura- onde la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesistico-ambientali vigenti al momento della riedificazione (Consiglio di Stato Sezione IV, 13.10.2010, n. 7476; Consiglio di Stato, Sezione IV, 15.09.2006, n. 5375; Consiglio di Stato, Sezione V, 15.04.2004, n. 2142; 29.10.2001, n. 5642; 01.12.1999 n. 2021; 10.03.1997, n. 240; ed ancora TAR Campania Napoli, sez. II, 11.09.2009, n. 4949).
Inoltre, la mancata preesistenza dell’edificio costituisce anche elemento di discrimine tra intervento di risanamento conservativo e nuova costruzione (TAR Sardegna, Sezione II, 17.06.2008 n. 1213) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 21.03.2011 n. 1593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Al fine di determinare la tempestività dell’impugnazione da parte di terzi della concessione edilizia, il termine decorre dalla piena conoscenza ovvero dalla consapevolezza del contenuto specifico del progetto edilizio.
Tale conoscenza va intesa come un fatto, la cui prova rigorosa incombe alla parte che eccepisce la tardività dell’impugnativa; a tal fine non è sufficiente il mero inizio dei lavori, ma occorre la ultimazione di questi, affinché gli interessati siano in grado di avere cognizione dell’esistenza e dell’entità delle violazioni urbanistico-edilizie eventualmente derivanti dalla concessione.
Ne deriva che la piena conoscenza del contenuto della concessione edilizia da parte dei terzi, ai fini dell’impugnazione, non può farsi risalire al semplice inizio dei lavori ovvero al successivo stato di avanzamento dei lavori stessi, occorrendo invece la piena consapevolezza, in forma attuale, certa e diretta, della sua effettiva portata e della sua incidenza lesiva nella sfera di interessi della parte ricorrente.

Sul punto il Collegio richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, al fine di determinare la tempestività dell’impugnazione da parte di terzi della concessione edilizia, il termine decorre dalla piena conoscenza ovvero dalla consapevolezza del contenuto specifico del progetto edilizio (C. Stato, V, 19.06.2006, n. 3578).
Tale conoscenza va intesa come un fatto, la cui prova rigorosa incombe alla parte che eccepisce la tardività dell’impugnativa; a tal fine non è sufficiente il mero inizio dei lavori (cfr. Cons. St., sez. V, 11.04.1995, n. 587), ma occorre la ultimazione di questi, affinché gli interessati siano in grado di avere cognizione dell’esistenza e dell’entità delle violazioni urbanistico-edilizie eventualmente derivanti dalla concessione (cfr. Cons. St., sez. V, 13.02.1996, n. 194 e 02.04.1991, n. 375).
Ne deriva che la piena conoscenza del contenuto della concessione edilizia da parte dei terzi, ai fini dell’impugnazione, non può farsi risalire al semplice inizio dei lavori ovvero al successivo stato di avanzamento dei lavori stessi, occorrendo invece la piena consapevolezza, in forma attuale, certa e diretta, della sua effettiva portata e della sua incidenza lesiva nella sfera di interessi della parte ricorrente (cfr. ex multis: Cons. Giust. Amm.va Regione Siciliana 22.04.2005, n. 252) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 21.03.2011 n. 1582 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel concetto di volume tecnico devono comprendersi esclusivamente le porzioni di fabbricato destinate ad ospitare impianti, legati da un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzazione dello stesso.
I sottotetti quando sono di altezza tale da poter essere suscettibili d'abitazione o di assolvere a funzioni complementari, quale quella ad esempio di deposito di materiali, devono essere computati ad ogni effetto sia ai fini della cubatura autorizzabile sia ai fini del calcolo dell'altezza e delle distanze ragguagliate all'altezza, non potendo essere annoverati tra i volumi tecnici.

Ritiene il Collegio che le opere realizzate non possono rientrare nel concetto di volume tecnico, che comprende esclusivamente le porzioni di fabbricato destinate ad ospitare impianti, legati da un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzazione dello stesso.
L’intervento edilizio, impropriamente definito tetto termico, si sostanzia in effetti in un piano di copertura reso suscettibile di uso abitativo, tenuto conto della rilevante superficie ed altezza media nonché dell’apertura di balconi (cfr. Consiglio di Stato, V Sezione, 21.10.1992 n. 1025 e 13.05.1997 n. 483; TAR Campania, II Sezione, 03.02.2006 n. 1506 e 29.06.2007 n. 6382; IV Sezione, 20.06.2002, n. 3632).
Invero, ai fini della qualificazione di una costruzione rilevano le caratteristiche obiettive della stessa, prescindendosi dall’intento dichiarato dal privato di voler destinare l’opera ad utilizzazioni più ristrette di quelle alle quali il manufatto potenzialmente si presta (cfr. Consiglio di Stato, V Sezione, 23.11.1996 n.1406).
In definitiva, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l’illegittimità del permesso di costruire risulta confermata anche alla stregua delle disposizioni del Regolamento edilizio vigente nel Comune, che esclude dal calcolo del volume solo i “sottotetti non praticabili e non abitabili”, atteso che nel caso di specie la costruzione è obiettivamente suscettibile di uso abitativo (cfr., in termini, per analoghe fattispecie concernenti il medesimo Comune, TAR Campania, II Sezione, 29.04.2005 n. 5262 e 18.05.2007 n. 5394).
In materia, si è evidenziato (per tutte: TAR Campania Napoli, sez. IV, 17.06.2002, n. 3597; TAR Puglia Lecce, sez. III, 15.01.2005, n. 143 Tar Puglia-Bari sent. 2843/2004), con un orientamento del tutto condivisibile, che i sottotetti quando sono di altezza tale da poter essere suscettibili d'abitazione o di assolvere a funzioni complementari, quale quella ad esempio di deposito di materiali, devono essere computati ad ogni effetto sia ai fini della cubatura autorizzabile sia ai fini del calcolo dell'altezza e delle distanze ragguagliate all'altezza, non potendo essere annoverati tra i volumi tecnici
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 21.03.2011 n. 1582 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'Amministrazione comunale, cui è rimessa sul piano istruttorio la delibazione di conformità urbanistica di ogni progetto edilizio, deve verificare, tra l’altro, che esista un idoneo titolo per eseguire le opere, che assurge a presupposto di legittimità sia degli interventi che implicano il rilascio del permesso di costruire sia di quelli soggetti al regime semplificato della d.i.a..
Non è seriamente contestabile che nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi l'amministrazione abbia il potere ed il dovere di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, trattandosi di un’attività istruttoria che non è diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario degli immobili interessati, ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito della legittimazione del richiedente.
In caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari, è legittimo esigere il consenso degli stessi (che può essere manifestato anche per fatti concludenti) e che, a maggior ragione, qualora vi sia un conclamato dissidio fra i comproprietari in ordine all'intervento progettato, la scelta dell'amministrazione di assentire comunque le opere (in base al mero riscontro della conformità agli strumenti urbanistici) evidenzia un grave difetto istruttorio e motivazionale, perché non dà conto dell’effettiva corrispondenza tra l’istanza edificatoria e la titolarità del prescritto diritto di godimento.

Va anzitutto osservato che il primo comma dell’evocato art. 11 del T.U. sull’edilizia (e già prima l’art. 4 della legge n. 10 del 1977) dispone –ed analoga previsione è contenuta nel primo comma dell’art. 23 per gli interventi soggetti a d.i.a.– che “Il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”.
Tanto premesso, il Collegio ritiene che, sulla base della normativa richiamata, l'Amministrazione comunale, cui è rimessa sul piano istruttorio la delibazione di conformità urbanistica di ogni progetto edilizio, deve verificare, tra l’altro, che esista un idoneo titolo per eseguire le opere, che assurge a presupposto di legittimità sia degli interventi che implicano il rilascio del permesso di costruire sia di quelli soggetti al regime semplificato della d.i.a. (cfr. TAR Campania, Sezione II, 22.09.2006, n. 8243).
Vero è che la giurisprudenza amministrativa esclude l’esistenza di un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l'immobile e, soprattutto in passato, era prevalentemente orientata nel senso che il parametro valutativo dell'attività amministrativa in materia edilizia fosse solo quello dell'accertamento della conformità dell'opera alla disciplina pubblicistica che ne regola la realizzazione, salvi i diritti dei terzi, senza che la mancata considerazione di tali diritti potesse in qualche modo incidere sulla legittimità dell'atto.
Tuttavia, più recentemente (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sezione V, 15.03.2001, n. 1507 e 21.10.2003, n. 6529; TAR Campania, Sezione II, 29.03.2007 n. 2902), ha avuto occasione di precisare che la necessaria distinzione tra gli aspetti civilistici e quelli pubblicistici dell'attività edificatoria non impedisce di rilevare la presenza di significativi punti di contatto tra i due diversi profili.
In proposito ha, pertanto, chiarito che non è seriamente contestabile che nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi l'amministrazione abbia il potere ed il dovere di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, trattandosi di un’attività istruttoria che non è diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario degli immobili interessati, ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito della legittimazione del richiedente.
Ha, pertanto, concluso nel senso che, in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari, è legittimo esigere il consenso degli stessi (che può essere manifestato anche per fatti concludenti) e che, a maggior ragione, qualora vi sia un conclamato dissidio fra i comproprietari in ordine all'intervento progettato, la scelta dell'amministrazione di assentire comunque le opere (in base al mero riscontro della conformità agli strumenti urbanistici) evidenzia un grave difetto istruttorio e motivazionale, perché non dà conto dell’effettiva corrispondenza tra l’istanza edificatoria e la titolarità del prescritto diritto di godimento (cfr. TAR Campania Napoli sez. II sentenza 2681/2010) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 21.03.2011 n. 1581 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

inizio home-page