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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di SETTEMBRE 2011

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aggiornamento al 29.09.2011

aggiornamento al 26.09.2011

aggiornamento al 21.09.2011

aggiornamento al 19.09.2011

aggiornamento al 15.09.2011

aggiornamento al 12.09.2011

aggiornamento all'08.09.2011

aggiornamento al 05.09.2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 29.09.2011

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QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comunicazione di eseguita attività (c.e.a.) ex art. 41, comma 2, L.R. n. 12/2005 ed esame impatto paesistico dei progetti (Regione Lombardia, Giunta Regionale, Direzione Generale Sistemi Verdi e Paesaggio, Progetti Integrati Paesaggio, Paesaggio, nota 26.09.2011).

SINDACATI

ENTI LOCALI: Comuni sotto i mille abitanti: il Governo crea scatole vuote e lascia intatte le poltrone (CGIL-FP di Bergamo, nota 24.09.2011).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI: G.U. 28.09.2011 n. 226, suppl. ord. n. 214, "Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13.08.2010, n. 136" (D.Lgs. 06.09.2011 n. 159).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: A. Vetro, Il danno erariale conseguente alla violazione delle norme comunitarie ed interne di evidenza pubblica. I contrasti giurisprudenziali della Corte dei conti sul c.d. “danno alla concorrenza (link a www.amcorteconti.it).

ENTI LOCALI: A. Vetro, L’arricchimento senza giusta causa. I criteri di calcolo dell’indennizzo ex art. 2041 c.c. secondo la più recente giurisprudenza della Cassazione. Determinazione della “utilitas” per la pubblica amministrazione: riflessi sulla quantificazione del danno erariale, per pagamenti indebiti relativi a contratti nulli per violazione di norme imperative di evidenza pubblica, tenendo conto degli ultimi indirizzi del Consiglio di Stato (link a www.amcorteconti.it).

ENTI LOCALI: F. Longavita, Un contributo, forse, al chiarimento del danno all’immagine della P.A., ovvero una riflessione a margine della sentenza n. 355/2010 della Corte Costituzionale (link a www.amcorteconti.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALIOggetto: Decreto ministeriale 18.01.2008, n. 40, concernente "Modalità di attuazione dell'articolo 48-bis del Decreto Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602, recante disposizioni in materia di pagamenti da parte delle Pubbliche Amministrazioni" - Ulteriori chiarimenti (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, circolare 23.09.2011 n. 27 + allegato A).
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Circolare della Rgs sul filtro della Visco-Bersani ai pagamenti della p.a.. Fisco, incentivi intoccabili. I contributi anche a imprese con tasse arretrate.
Gli incentivi alle imprese potranno essere corrisposti anche a chi non ha la fedina fiscale immacolata. L'interesse all'erogazione dei contributi è infatti prioritario rispetto alla verifica di regolarità fiscale introdotta nel 2006 dal dl Visco-Bersani. Che impone alle p.a., quando devono effettuare un pagamento superiore a 10 mila euro, di controllare se il destinatario è in regola con le cartelle di Equitalia.
A intervenire nuovamente (dopo le precedenti circolari nn. 22/2008 e 29/2009) sugli ambiti di applicazione della norma è stata la Ragioneria generale dello stato con la nota n. 27 del 23.09.2011 diffusa ieri.
Il dipartimento guidato da Mario Canzio ha ritenuto di fornire ulteriori chiarimenti in considerazione della mole di quesiti pervenuti sulla procedura disciplinata dall'art. 48-bis del dpr n. 602/1973. E in attesa che venga creato un sistema telematico che renda possibile effettuare on-line le verifiche, la Ragioneria ha predisposto un modello di richiesta (allegato alla circolare) da inviare a Equitalia via fax (06-95.05.01.69) o posta elettronica certificata (sospensione.mandati@pec.equitaliaservizi.it). Sarà poi cura dell'agente unico della riscossione verificare la posizione fiscale del beneficiario del pagamento e comunicarlo alla p.a. interessata entro 30 giorni. Le amministrazioni che snobberanno l'adempimento, avverte la nota, saranno segnalate alla procura regionale della Corte dei conti e rischieranno un'imputazione per danno erariale.
Aspetti procedurali a parte, la circolare n. 27 detta alle amministrazioni i comportamenti da tenere a seconda dei casi. Quello degli incentivi alle imprese è emblematico. La Ragioneria fa notare come in questo campo la p.a. abbia pochi margini di discrezionalità. «I requisiti dei soggetti ammessi a beneficiare dell'incentivazione e le modalità di determinazione della stessa sono stabiliti dal legislatore», scrivono i tecnici del Mef, «non avendo nessun rilievo la volontà del soggetto attuatore che deve svolgere un mero controllo sul possesso dei requisiti fissati dalla legge».
E poi, prosegue la Ragioneria, gli incentivi in ultima istanza sono finalizzati a raggiungere «gli obiettivi ritenuti prioritari per il soddisfacimento del benessere della collettività». Tutte ragioni che portano a concludere che «l'interesse pubblico sotteso all'erogazione delle provvidenze economiche sia preminente rispetto alla procedura di verifica». Ragion per cui «non ricorre l'obbligo di espletarla».
Il controllo della fedina fiscale andrà invece effettuato quando l'obbligo di pagamento scaturisce da una sentenza anche non definitiva.
Un'ipotesi particolare è rappresentato dall'ipotesi in cui la p.a., avendo assunto lo status di terzo pignorato a seguito di un'ordinanza del giudice dell'esecuzione, si trovi ad effettuare il pagamento delle somme dovute non al creditore originario, ma al nuovo creditore. In questo caso la verifica della regolarità fiscale non potrà essere attivata nei confronti del creditore originario dal momento che in caso di inadempienza «l'agente della riscossione si vedrebbe preclusa, di fatto, la possibilità di pignorare le somme già vincolate dal provvedimento emesso dal giudice» (articolo ItaliaOggi del 28.09.2011).
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Pagamenti, blocco più forte. Controllo preventivo anche se il credito deriva da una sentenza.
IL VIA LIBERA - Nessuno stop in caso di contributi alle imprese previsti dalle leggi o co-finanziati dalla Ue.

Nuovo giro di vite sul blocco dei pagamenti della Pa sopra i 10mila euro. Anche se il credito deriva da una sentenza o da un provvedimento esecutivo, l'amministrazione debitrice dovrà sempre procedere al controllo preventivo con Equitalia e verificare se il creditore ha in sospeso con l'Erario il pagamento di cartelle esattoriali. Nel caso di somme assegnate dal giudice dell'esecuzione la procedura di verifica dovrà essere effettuata, ma nei confronti del creditore assegnatario e non di quello originario. Il blocco dei pagamenti, invece, non scatta in caso di contributi e finanziamenti alle imprese. Ma a una condizione ben precisa: i trasferimenti devono essere effettuati in relazione a specifiche disposizioni di legge o in virtù dell'esecuzione di progetti cofinanziati dall'Unione europea.
Sono questi, in estrema sintesi, i nuovi chiarimenti della Ragioneria generale dello Stato diramati ieri con la circolare n. 27/Rgs del 23 settembre scorso. La circolare -che di fatto, con le due precedenti del 28.07.2008 n. 22/Rgs e dell'08.10.2009 n. 29/Rgs, completa il quadro dei chiarimenti sul nuovo articolo 48-bis del Dpr 602/1973- interviene anche sulla verifica successiva delle eventuali irregolarità commesse dalle pubbliche amministrazioni in caso di mancata applicazione della verifica preventiva. Una sorta di scrematura per evitare, in alcune situazioni, inutili interventi dei giudici contabili.
La Ragioneria, dunque, interviene in primo luogo sulla possibilità che il blocco del pagamento possa operare anche nel caso in cui l'obbligazione della Pa non nasca da un contratto bensì da un altro atto conforme ai principi dell'ordinamento giuridico. In sostanza, come spiega la ragioneria, può accadere che l'obbligazione al pagamento derivi, pur in assenza di un contratto scritto, da un risarcimento per fatto illecito o per pagamenti indebiti o per responsabilità precontrattuale, solo per citare alcune ipotesi contemplate dal Codice civile.
Premesso, dunque, che un provvedimento definitivo di condanna della Pa al pagamento di una somma pecuniaria può essere effettuato anche con «una compensazione tra il debito e l'eventuale credito dell'amministrazione nei confronti dello stesso beneficiario», la Ragioneria conclude che anche in presenza di una sentenza passata in giudicato l'amministrazione è tenuta alla verifica preventiva con Equitalia e all'eventuale blocco del pagamento. Sul fronte dei trasferimenti alle imprese sotto forma di incentivi, la Ragioneria ricorda che le amministrazioni dovranno procedere a una valutazione caso per caso. E l'obbligo della verifica preventiva con Equitalia decade davanti al fatto che l'incentivo erogato alle imprese risulta finalizzato «al raggiungimento degli obiettivi ritenuti prioritari per il soddisfacimento del benessere della collettività». Come dire che l'interesse pubblico in questi casi prevale sempre sulle procedure di verifica delle eventuali posizioni debitorie dell'impresa.
Infine, in attesa che Equitalia nel suo portale inserisca dal prossimo anno una procedura automatica di controllo sulle verifiche effettuate dalle amministrazioni, la Ragioneria individua un percorso rapido per i controlli successivi di eventuali inosservanze degli obblighi di verifica delle singole amministrazioni. Con un modello allegato alla circolare, l'amministrazione interessata potrà interpellare Equitalia per verificare se il creditore sia ancora inadempiente con l'Erario. In questo modo l'eventuale intervento della procura della Corte dei conti per i mancati controlli dei dirigenti incaricati andrà a colpo sicuro (articolo Il Sole 24 Ore del 28.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

AMBIENTE-ECOLOGIAL'Abc della raccolta differenziata. Contributi ai municipi d'importo proporzionale alla «purezza» dei rifiuti.
LA MOSSA PIÙ UTILE - Suddividere attentamente i materiali nel cassonetto o nel bidone condominiale agevola la fase del riciclo da parte delle imprese.

Di rifiuti non si sa mai abbastanza, in particolare come disfarsene. Chi non si è imbattuto in un imballaggio complicato senza sapere cosa farne al momento di buttarlo: con la carta o con la plastica? O è stato tentato di gettare una lampadina vecchia nella campana del vetro? O si è domandato che fine faranno i sacchi diversamente colorati così scrupolosamente suddivisi nel cortile condominiale: lo sforzo servirà davvero a dar vita a nuovi oggetti o per lo meno a produrre energia?
Con la definitiva ripresa delle attività, con i frigo e le dispense da riempire regolarmente, si intensificheranno senz'altro le occasioni di scartare pacchi e confezioni, così come i dubbi. Senza contare le sanzioni in agguato: dal dicembre scorso il privato che abbandoni rifiuti per strada, in mare o nei fiumi rischia una sanzione da 300 a 3mila euro (Dlgs 205/2010 di recepimento dell'ultima direttiva europea sui rifiuti). Ma anche separare male in condominio può costare caro: i regolamenti comunali prevedono multe da 100 a oltre un migliaio di euro da suddividersi tra i proprietari in base ai millesimi.
L'evento.
Ecco quindi che arrivano a proposito la giornata (domenica prossima) e il mese (ottobre) dedicati a riciclo e raccolta differenziata. Due operazioni strettamente connesse in quanto alla base di un buon riciclo c'è sempre una buona raccolta. La qualità rappresenta del resto l'aggettivo e l'obiettivo che deve ormai caratterizzare la raccolta differenziata. La correttezza della raccolta e del riciclo, infatti, contribuisce a creare il cosiddetto "triangolo della sostenibilità", realizzandone aspetti ambientali, economici e sociali, perché riciclare vuol dire trasformare i rifiuti in risorse. E se la raccolta è di qualità, raggiungere questo obiettivo è più facile. La qualità del riciclo, del resto, è richiesta anche dalla direttiva 2008/98/Ce sui rifiuti (recepita con il Dlgs 152/2006, il Codice ambientale, che la fa sua all'articolo 181) tesa a realizzare la "società europea del riciclaggio".
Per questo, domenica 2 ottobre si svolgerà la seconda edizione della «Giornata nazionale del riciclo e della raccolta differenziata di qualità: la "raccolta 10+"». L'evento è promosso dal ministero dell'Ambiente e dal Conai (Consorzio nazionale imballaggi) al fine di spiegare ai cittadini come si fa la raccolta differenziata di qualità, anche attraverso il Decalogo della raccolta differenziata che, con dieci semplici regole, si propone di aiutare i cittadini a separare meglio. In questo modo l'industria potrà riciclare più facilmente gli imballaggi in acciaio, alluminio, carta, legno, plastica, vetro e l'ambiente subirà meno il peso dei nostri rifiuti.
Quest'anno l'iniziativa ha un respiro più ampio rispetto al 2010 e può contare anche sul supporto dell'Anci (Associazione nazionale Comuni italiani). Così da martedì 4 ottobre e per tutto il mese la manifestazione toccherà 20 capoluoghi di regione, 90 di provincia e tutti i comuni che hanno aderito all'iniziativa. Gazebi e van con il logo "Raccolta 10+" faranno delle piazze italiane lo snodo centrale della manifestazione e saranno i luoghi dove i cittadini potranno ricevere il Decalogo per la raccolta di qualità, mentre per le strade gireranno apposite biciclette.
Contributo all'ente locale.
Se differenziare "a regola d'arte" fa bene all'ambiente, a trarne beneficio possono essere anche le tasche dei cittadini: infatti il Conai riconosce ai Comuni corrispettivi economici a copertura dei maggiori oneri derivanti dalla raccolta differenziata.
Il contributo, secondo il sistema di premialità adottato, aumenta in misura proporzionale alla purezza dei rifiuti di imballaggio conferiti (omogeneità, presenza di materiali estranei non riciclabili): in base all'accordo di programma quadro Anci/Conai 2009-2013, un Comune di 100mila abitanti che raggiunge una raccolta differenziata complessiva intorno al 45%, può ottenere dal Conai corrispettivi economici importanti: da 232mila euro l'anno se il materiale conferito è classificato in terza fascia di qualità (materiali molto sporchi) ma circa un milione per materiale classificato in prima fascia (materiali puliti).
Quindi, con tali ordini di grandezze, un Comune con un milione di abitanti, se conferisce materiali puliti, può portare a casa ogni anno fino a 9,5 milioni di euro. Risorse preziose –tanto più in questo momento di difficoltà per le finanze locali– che i Comuni possono destinare al progressivo miglioramento del servizio di gestione dei rifiuti da imballaggio.
Regole d'oro.
L'impegno del singolo diventa dunque determinante per il benessere della collettività. Non sempre però è facile capire come fare la differenziata. Ecco quindi una bussola in questa pagina (con l'illustrazione a fianco costruita sulla base del Decalogo del Conai) nonché dagli articoli nell'altra pagina, dove vengono fornite le principali istruzioni per conferire in modo corretto i rifiuti provenienti dai sei principali materiali che compongono gli imballaggi (carta, plastica, vetro, acciaio, alluminio e legno). Con qualche indicazione anche sui risvolti energetici e sulle possibilità di recupero dei materiali (articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATATitoli abilitativi. Il quadro completo dopo la manovra. Permessi edilizi su cinque livelli con la nuova Scia. Attività libera e permesso di costruire.
Il quadro è completo, ma solo a livello statale. Con la conversione in legge della manovra di Ferragosto (Dl 138/2011, ora legge 148/2011) che ha chiarito termini e modi per contestare al Tar l'illegittimità delle opere edilizie realizzate attraverso la Scia (segnalazione certificata di inizio attività) e mediante la Dia (denuncia di inizio attività) –nei limitati casi per cui essa è ancora prevista nell'ordinamento– tutte le "cinque tessere" del mosaico statale delle procedure edilizie sono al proprio posto.
Tuttavia, ai sensi del decreto Sviluppo (Dl 70/2011 convertito in legge 106/2011), manca ancora il dispiegamento delle leggi regionali, che possono ulteriormente semplificare la disciplina procedurale delle costruzioni. E questo anche in relazione al meccanismo del silenzio-assenso ora previsto sulle domande di permesso di costruire (nuovo articolo 20, comma 8, del Testo unico sull'edilizia, Dpr 380/2001) e al rilascio dei titoli in deroga anche rispetto alle destinazioni d'uso imposte dai piani regolatori (articolo 5, comma 13, Dl 70).
Sempre le Regioni, d'altra parte, sono chiamate anche a dare attuazione al cosiddetto nuovo piano casa (o piano città) finalizzato ad agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate attraverso la concessione dei premi volumetrici. Una disposizione, quest'ultima, che non incide direttamente sul fronte dei titoli edilizi, ma che potrebbe ulteriormente modificare la situazione dei permessi edilizi, così come si è delineata nell'ultimo anno e mezzo.
La parola alla Consulta.
Il primo tema che si è posto agli operatori ha addirittura investito l'applicabilità al l'edilizia della Scia. Le incertezze anche lessicali del primo decreto (Dl 78/2010 convertito in legge 122/2010) sono state definitivamente spazzate via dalla legge di conversione del decreto Sviluppo, che ha espressamente previsto che le ultime disposizioni (cioè la nuova formulazione dell'articolo 20 della legge 241/1990) «si interpretano nel senso che le stesse si applicano alle denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380».
Resta comunque il dubbio sull'esito dei ricorsi proposti da diverse Regioni (Toscana, Emilia Romagna, Puglia) alla Corte costituzionale, che contestano soprattutto l'intrusione statale nella disciplina edilizia che, ove di dettaglio, è di competenza regionale.
La scala degli interventi.
Il sistema vigente è sicuramente articolato, si va dagli interventi liberi a quelli soggetti a comunicazione e a comunicazione asseverata, dalle opere sottoposte a Scia, a Dia (casi residuali) e a permesso di costruire (ora ottenibile anche per silentium e in deroga anche alle destinazioni d'uso e non soltanto a indici e parametri edilizi stereometrici).
Il grafico qui a fianco ricostruisce la disciplina statale, che resta valida in mancanza di specifiche disposizioni regionali e suddivide gli interventi in cinque tipologie:
- interventi liberi;
- interventi soggetti a comunicazione (semplice e asseverata a seconda dei casi);
- interventi soggetti a Scia;
- interventi soggetti a Dia;
- interventi soggetti a permesso di costruire.
L'iter della Scia.
A differenza della Dia, per la quale i lavori possono partire solo dopo il decorso di 30 giorni dalla presentazione della denuncia, nella Scia l'attività edilizia può essere avviata contestualmente al l'inoltro della segnalazione. Ecco come:
● la Scia è corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni, nonché dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati, oppure dalle dichiarazioni di conformità relative alla sussistenza dei requisiti e dei presupposti sulla conformità dell'intervento alle disposizioni di legge regolamentari, corredate dagli elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell'amministrazione;
● l'attività oggetto può essere iniziata dalla data della presentazione della segnalazione;
● se l'immobile è vincolato, i lavori potranno cominciare dopo l'ottenimento dell'autorizzazione dell'amministrazione competente alla tutela del vincolo (Soprintendenza, Regione, Provincia, Comune, Parco);
● in caso di accertata carenza della conformità dell'intervento alla legge o ai regolamenti, il Comune –nel termine di 60 giorni dal ricevimento della segnalazione– adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione del l'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività e i suoi effetti entro un termine fissato dall'amministrazione, in ogni caso non inferiore a 30 giorni;
● dopo 60 giorni il Comune può intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell'impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell'attività dei privati alla normativa vigente.
Alle violazioni di questa procedura si accompagnano poi sanzioni che variano dal livello amministrativo fino alle conseguenze penali per chi effettua false attestazioni.
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Non impugnabile il mancato diniego del Comune.
Le ultime manovre finanziarie cambiano anche il sistema delle impugnazioni, stabilendo che la Dia e la Scia non possono essere direttamente impugnate al Tar. Con la conversione in legge 111/2011 del Dl per la stabilizzazione finanziaria (98/2011) è legge la disposizione per cui Dia e Scia «non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'articolo 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104» (articolo 6, comma 1, lettera c, del Dl 131/2011).
In concreto, vuol dire che i vicini lesi dall'attività edilizia o le associazioni ambientaliste possono chiedere al Comune di impedire lo svolgimento dell'attività e poi –in caso di silenzio dell'amministrazione e comunque non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento– ricorrere al Tar contro il silenzio del Comune sulla loro richiesta.
Parrebbe però un'arma spuntata, perché al giudice la norma assegna in generale solo il potere di ordinare al Comune di provvedere sulla verifica richiesta dal privato e rimasta inevasa. Il Tar, infatti, ha la possibilità di riconoscere direttamente l'illegittimità dell'attività disponendone la cessazione solo quando si tratti di attività vincolata o quando risulta che non ci sono ulteriori margini di esercizio della discrezionalità amministrativa e non siano necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dal Comune. Condizioni che non sempre ricorrono in edilizia, specie rispetto ai progetti più complessi.
La norma è stata introdotta con la rubrica «Ulteriori semplificazioni». Non pare però che l'obbiettivo della semplificazione sia stato centrato, dato che la giurisprudenza amministrativa era recentemente approdata a una soluzione molto più diretta sul tema del l'impugnabilità di Dia e Scia. L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 15 depositata lo scorso 29 luglio aveva infatti statuito –attraverso una costruzione forse coraggiosa– che l'inerzia del Comune sulla Dia/Scia (inerzia che consente il legittimo svolgimento dell'attività privata) equivalesse a un «atto tacito di diniego del provvedimento inibitorio» direttamente impugnabile al Tar, a cui era possibile richiedere non solo l'annullamento di questa "finzione di atto", ma anche l'ordine all'amministrazione di inibire l'attività oggetto del ricorso.
L'Adunanza plenaria aveva addirittura stabilito che in caso di Scia (per cui l'attività edilizia può iniziare contestualmente al deposito della segnalazione e per cui il Comune può solo emettere sanzioni, non necessariamente inibitorie) il Tar potesse disporre subito la sospensione dei lavori appena avviati, nonostante in quel momento non esistesse alcun atto nemmeno sotto la forma del «tacito diniego di provvedimento inibitorio». Con la nuova legge, l'articolata ricostruzione del giudice amministrativo viene spazzata via e non sembra che il legislatore abbia fatto meglio del Consiglio di Stato in termini di effettività della tutela dei terzi (articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIProcesso tributario. Anche l'Ente paga per far causa. Manca la conferma dell'esenzione dal contributo unificato. La norma impone il pagamento a chi per primo si costituisce in giudizio.
Si fa sempre più concreto il rischio che gli enti locali vedano aumentare le spese nel contenzioso tributario; colpa dell'introduzione del contributo unificato nel processo tributario rischia di riservare amare sorprese a carico degli enti e dei loro concessionari.
Con le modifiche dettate dal l'articolo 37 del Dl 98/2011, l'articolo 14 del Dpr 115/2002 (Testo unico in materia di spese di giustizia) impone il pagamento del contributo in ogni grado di giudizio ad opera della parte che per prima si costituisce in giudizio o che deposita il ricorso introduttivo, anche in secondo grado.
Mentre in passato le spese del giudizio d'appello erano assolte con l'imposta di bollo versata dal contribuente, enti locali e loro concessionari potrebbero oggi essere costretti a farsi carico di tale onere, in contrasto con l'articolo 5, comma 1 della tabella allegato B al Dpr 642/1972 (non modificato dalla manovra estiva 2011), che prevede l'esenzione assoluta dal l'imposta di bollo per tutti gli atti e copie del procedimento di accertamento e riscossione di qualsiasi tributo, dichiarazioni, denunce, atti, documenti e copie presentati ai competenti uffici ai fini dell'applicazione delle leggi tributarie, con esclusione dei soli ricorsi, opposizioni ed altri atti difensivi del contribuente.
L'agenzia delle Entrate, con risoluzione 49/2002 e con circolare 70/2002, aveva confermato –a seguito dell'introduzione del contributo unificato nel processo civile e amministrativo– l'esenzione dall'imposta di bollo per gli atti giudiziari di enti locali e concessionari nei due gradi di merito (il contributo è invece dovuto per i ricorsi in Cassazione, che seguono la procedura del rito civile), che si ritiene debba permanere anche con riferimento al contributo unificato, per una pluralità di ragioni.
In primis, perché ancora oggi l'articolo 10, comma 1, del Dpr 115/2002 prevede che non sia soggetto al contributo unificato il processo già esente dall'imposta di bollo secondo previsione legislativa e senza limiti di competenza o di valore, per cui il processo tributario di appello promosso da enti locali e concessionari non dovrebbe scontare il contributo. In secondo luogo, l'articolo 158 del Dpr 115/2002 prevede al comma 1, lettera a), che nel processo in cui è parte l'amministrazione pubblica sono prenotati a debito, se a carico dell'amministrazione, il contributo unificato nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo tributario e, al successivo comma 3, che le spese prenotate a debito e anticipate dall'Erario sono recuperate dall'amministrazione, insieme alle altre spese anticipate, in caso di condanna dell'altra parte alla rifusione delle spese in proprio favore.
Per quanto tale disposizione sembri giustificare la non applicabilità del contributo nei processi promossi dagli enti locali (in tal caso non però dai concessionari) in qualità di soggetti attivi d'imposta, il ministero delle Finanze-Direzione Giustizia Tributaria, con circolare del 21.09.2011 n. 1/DF, ha specificato che, ai fini della prenotazione a debito del contributo, sono amministrazioni dello Stato soltanto i Ministeri centrali e i loro Uffici periferici, cui sono equiparate le Agenzie fiscali che gestiscono tributi erariali, escludendo quindi gli Enti locali.
Si ritiene che la specificazione fornita dal ministero delle Finanze non sia corretta, in quanto nel concetto di amministrazione pubblica rientrano necessariamente anche gli enti locali, in relazione ai quali dovrà quindi essere chiarito in base a quale disposizione potranno essere esentati dal contributo unificato.
In attesa di tale chiarimento, enti locali e concessionari potranno comunque far valere l'esenzione dal contributo (il cui importo dovrà comunque essere indicato nelle conclusioni del ricorso in appello) ai sensi dell'articolo 10, comma 1, Dpr 115/2002, per evitare di esporsi ad un versamento che –se effettuato– non potrebbe essere recuperato nei confronti dello Stato, né tanto meno del contribuente, ove le Commissioni regionali dovessero rigettare l'appello o compensare le spese di lite tra le parti (articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, date certe per il Sistri. Prove generali il 16 dicembre. In corso le verifiche tecniche. La manovra di fine estate rinnova il quadro normativo e reintroduce gli obblighi per i gestori.
Sistri, si (ri)parte. Dal 09.02.2012 scatteranno gli obblighi per medi e grandi gestori di rifiuti. Dopo il 1° giugno 2012 (nella data precisata da un futuro dm del ministero dell'Ambiente) quelli per i piccoli produttori di rifiuti pericolosi. Il tutto accompagnato da una parallela semplificazione gestionale per i produttori di rifiuti conferiti alle filiere obbligatorie (potranno delegare ai consorzi gli adempimenti Sistri) e corredato da due importanti appuntamenti «prenatalizi»: quello del 15.12.2011, termine entro il quale lo stesso dicastero dovrà ultimare un «check tecnico» sulla funzionalità del sistema informatico; quello del 16.12.2011, entro il quale dovrà individuare i rifiuti privi di «criticità ambientali» che non entreranno obbligatoriamente nel tracciamento telematico.
È questo il rinnovato quadro normativo disegnato dalla legge 14.09.2011 n. 148 di conversione del dl 138/2011, la manovra di fine estate.
Il ripristino del Sistri. La legge in parola (pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 16.09.2011 n. 216) ripristina dal 17.09.2011 (data della sua entrata in vigore) la validità dell'intero impianto normativo relativo al sistema telematico di tracciamento dei rifiuti recato dal dlgs 152/2006, dai decreti minambiente 17.12.2009 e 18.02.2011 n. 52 e dal dl 70/2011 (impianto normativo sostanzialmente cancellato dall'originaria versione del dl 138/2011).
Mediante la diretta riformulazione del dl 138/2011 (in particolare i nuovi commi 2, 3 e 3-bis dell'articolo 6) la legge di conversione conferisce così date certe all'operatività degli adempimenti previsti dal sistema Sistri: comunicazione telematica al cervellone informatico centrale dei rifiuti gestiti (tramite pc e relativa «chiave usb»); tracciamento satellitare dei mezzi di trasporto dei rifiuti (attraverso le «black box»); monitoraggio ingresso/uscite degli stessi mezzi dalle discariche (mediante apparecchiatura installata in sito).
Il «check tecnico». Il primo appuntamento previsto dal rinnovato dl 138/2011 è quello del 17.09.2011 (data di entrata in vigore della relativa legge di conversione), termine a partire dal quale il ministero dell'Ambiente dovrà assicurare la verifica delle componenti hardware e software dell'impianto tecnologico Sistri.
Tale verifica dovrà essere effettuata anche tramite test di funzionamento con il coinvolgimento delle associazioni di categoria maggiormente rappresentative e dell'utenza finale. All'esito del «check», da ultimarsi entro il 15.12.2011, dovranno essere adottati i miglioramenti e le semplificazioni tecnologiche suggerite dal caso.
I rifiuti «in deroga». Entro il 16.12.2011 il dicastero dell'Ambiente dovrà poi individuare mediante decreto, di concerto con il ministero della Semplificazione normativa, specifiche tipologie di rifiuti alle quali, in considerazione della quantità e dell'assenza di specifiche caratteristiche di criticità ambientale potranno essere applicate le procedure (Sistri) previste per i rifiuti speciali non pericolosi, ossia la facoltatività (in luogo della obbligatorietà) del loro tracciamento tramite il sistema telematico.
L'operatività degli adempimenti Sistri. Dal 09.02.2012 scatteranno per tutti i soggetti individuati dal (ripristinato) articolo 188-ter del dlgs 152/2006, ad eccezione dei piccoli produttori di rifiuti speciali pericolosi individuati dal dl 70/2011 (si veda oltre), gli adempimenti preliminari ed operativi Sistri per le nuove attività: iscrizione al Sistri e pagamento relativo contributo; comunicazione telematica dati rifiuti al cervellone informatico Sistri (tramite pc e chiave usb); tracciamento satellitare mezzi trasporto rifiuti (tramite black box); monitoraggio ingresso/uscite discariche con apparecchiature Sistri.
Il Sistri per piccoli produttori. Il ripristino della normativa Sistri ad opera della legge 148/2011 comporta anche la reviviscenza delle disposizioni del dl 70/2011 (recante «prime disposizioni urgenti per l'economia» come convertito, con modifiche, in legge 106/2011) relative al regime Sistri per i piccoli produttori di rifiuti.
In virtù dell'articolo 6, comma 2, lettera f-octies del decreto legge 70/2011 gli adempimenti operativi Sistri per i produttori di rifiuti speciali pericolosi con non più di dieci dipendenti, compresi i produttori che effettuano il trasporto dei propri rifiuti entro i 30 kg/litro al giorno (novero di soggetti individuato dal combinato disposto degli articoli 212, comma 8, dlgs 152/2006, 1, comma 5, dm Ambiente 26.05.2011, 3, comma 1, dm Ambiente 52/2011), scatteranno infatti a partire dalla data stabilita da un futuro dm del ministero dell'Ambiente e comunque non prima dell'01.06.2012.
Le semplificazioni per i rifiuti conferiti a filiera. Per espressa disposizione della legge di conversione del dl 138/2011, tutti gli operatori che producono esclusivamente rifiuti soggetti a ritiro obbligatorio da parte di sistemi di filiera (come imballaggi, pile ed accumulatori, Raee) potranno delegare ai consorzi di recupero (secondo le modalità previste per le associazioni di categoria) i propri adempimenti Sistri.
I compiti degli enti locali. Con la reviviscenza della normativa Sistri acquista dal 17.09.2011 efficacia operativa anche l'Accordo 27.07.2011 fra governo, regioni e autonomie locali siglato in sede di Conferenza unificata (e pubblicato in G.U. del 05.09.2011 n. 206).
L'atto impegna Regioni, Province e Comuni a riversare nel database Sistri tutti i dati relativi alle autorizzazioni e comunicazioni in materia di rifiuti di loro competenza utilizzando standard condivisi. Dati che poi gli enti preposti a vigilanza, controllo ed all'accertamento degli illeciti (ossia province, fino a quando esiteranno considerato il ddl costituzionale licenziato dal governo lo scorso 8 settembre che ne dispone la cancellazione, e Arpa) utilizzeranno per l'esercizio delle loro funzioni.
L'attuale regime dei rifiuti. Fino alla partenza dei nuovi termini di operatività del Sistri il regime per il tracciamento dei rifiuti continuerà ad essere quello del cd. «doppio binario» previsto dal (resuscitato) articolo 12, comma 2 del dm 17.12.2009, ossia: obbligatorietà della tenuta dei registri di carico e scarico dei rifiuti e formulario di trasporto; facoltatività di adesione al Sistri.
In base ad una parallela (e rediviva) norma dello stesso dm 17.12.2009 (articolo 12, comma 1), è ripristinato anche il cd. «Mudino», ossia l'obbligo per produttori iniziali di rifiuti e per imprese ed enti, che effettuano recupero e smaltimento già tenuti alla dichiarazione Mud (legge 70/1994), di comunicare entro il 31 gennaio al Sistri i dati annuali relativi alle relative operazioni di gestione (articolo ItaliaOggi Sette del 26.09.2011).

EDILIZIA PRIVATARiforma Suap in dirittura d'arrivo. Al via dal 30/09/2011 la procedura che accelera le autorizzazioni. Lo stato dell'arte a un anno dall'avvio del processo di informatizzazione degli sportelli unici.
Ancora pochi giorni e la riforma dello Sportello unico per le attività produttive (Suap) sarà al completo, almeno su carta. Infatti il 30 settembre entrerà in vigore il procedimento unico che prevede una riduzione dei tempi di rilascio dell'autorizzazione, con l'utilizzo della conferenza di servizi che dovrà svolgersi online.
Una procedura alla quale si farà ricorso laddove non risulterà possibile accedere alla Scia (Segnalazione certificata di inizio attività), già in vigore da fine marzo. Anche se, a un anno dall'avvio del processo di informatizzazione delle procedure, molto resta ancora da fare per rendere operative le novità introdotte per legge.
Scia all'insegna della semplificazione. L'istituto attuale dei Suap è regolamentato dal dpr 07.09.2010, n. 160, che individua un solo canale tra imprenditore e amministrazione, con l'obiettivo di eliminare ripetizioni istruttorie e documentali. Di conseguenza, le domande, le dichiarazioni, le segnalazioni e le comunicazioni concernenti le attività e i relativi elaborati tecnici e allegati possono essere presentati esclusivamente in modalità telematica, allo sportello del comune competente per il territorio. Così all'aspirante imprenditore non resta che autocertificare il possesso dei requisiti necessari all'avvio dell'attività imprenditoriale, attraverso il portale impresainungiorno.gov.it, realizzato su piattaforma da Infocamere.
Tuttavia, se l'attività è contestuale all'iscrizione al registro delle imprese, può farlo direttamente alla Camera di commercio attraverso il modello Com.unica. Una volta ricevuta la Scia, lo sportello unico verifica (sempre con modalità informatica) la completezza formale della dichiarazione e dei relativi allegati. In linea con il principio che ha ispirato questa misura («garantire l'impresa in un giorno»), l'attività oggetto della segnalazione può essere iniziata dalla data della presentazione della segnalazione. In caso di verifica positiva, lo sportello unico rilascia automaticamente la ricevuta e trasmette in via telematica la dichiarazione e i relativi allegati alle amministrazioni e agli uffici competenti.
Se invece mancano i requisiti, l'amministrazione ha 60 giorni dal momento in cui riceve la segnalazione per disporre il divieto di prosecuzione dell'attività e l'eventuale rimozione degli eventuali effetti dannosi o, in alternativa, può fissare un termine (al massimo di 30 giorni) entro il quale l'interessato ha la possibilità di uniformarsi alla decisione.
«Trascorso questo termine, l'amministrazione può intervenire solo in presenza del pericolo di un danno grave e irreparabile per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell'impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell'attività dei privati alla normativa vigente», spiega Gianluigi Spagnuolo, già responsabile del Suap di Oleggio (No) e autore di Suap@norma (www.suapanorma.it), portale in cui si confrontano professionisti e funzionari che utilizzano abitualmente lo strumento di semplificazione.
In caso di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci, l'amministrazione, ferma restando la responsabilità penale, può sempre e in ogni tempo adottare i citati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi. È prevista la sanzione penale della reclusione da uno a tre anni (salvo i casi in cui il fatto costituisce più grave reato) per chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l'esistenza dei requisiti o dei presupposti.
Il procedimento unico punta sulla telematica. Nei casi in cui non è possibile ricorrere alla Scia (si veda la tabella messa a punto da Suapanorma), le istanze vanno presentate allo sportello unico, che ha 30 giorni di tempo (a meno che la normativa regionale non preveda termini inferiori) per chiedere eventualmente all'interessato la documentazione integrativa.
Trascorso senza azioni questo termine, la richiesta si intende correttamente presentata. Verificata la completezza della documentazione, il Suap adotta il provvedimento conclusivo entro 30 giorni o indice una conferenza di servizi. «La conferenza è sempre indetta», precisa Spagnuolo, «nel caso in cui i procedimenti necessari per acquisire le suddette intese, nulla osta, concerti o assensi abbiano una durata superiore ai 90 giorni ovvero nei casi previsti dalle discipline regionali».
Scaduto questo termine, lo sportello conclude in ogni caso il procedimento, anche prescindendo dai pareri non presentati da parte delle altre amministrazioni. Tutti gli atti istruttori e i pareri tecnici richiesti sono comunicati in modalità telematica dagli organismi competenti al responsabile del Suap. Il provvedimento conclusivo del procedimento è il titolo unico per la realizzazione dell'intervento e per lo svolgimento delle attività richieste.
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Il cantiere non chiude i battenti.
Anche se la procedura di sportello unico è formalmente completa, il cantiere resta aperto. La manovra di ferragosto (legge n. 148/2011) incide sul tema attraverso l'abrogazione delle restrizioni all'accesso e all'esercizio delle professioni e delle attività economiche.
Il testo della norma stabilisce che «comuni, province, regioni e stato, entro il 16/09/2012 (un anno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del dl138/2011), adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge». «Una novità», spiega Gianluigi Spagnuolo, responsabile del Suap di Oleggio (No) e autore di Supa@norma, «che risponde al principio di libertà dell'iniziativa economica che ha contraddistinto il dibattito pre-manovra».
Lo stesso principio è sotteso all'altra misura prevista dalla legge e che impatta sui Suap: la liberalizzazione in materia di segnalazione certificata di inizio attività, denuncia e dichiarazione di inizio attività. Il testo recita: «Sono soppresse, entro il 16/09/2012 (un anno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del dl 138/2011), le disposizioni normative statali incompatibili con il principio secondo cui «l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», con conseguente diretta applicazione degli istituti della segnalazione di inizio di attività e dell'autocertificazione con controlli successivi».
«Il disegno complessivo del legislatore», conclude l'esperto, «delinea un modello di rapporti tra amministrazione e impresa caratterizzato dall'integrazione tra i diversi momenti di vita dell'attività economica fin qui rimasti separati, la liberalizzazione delle attività e la semplificazione procedurale. Non resta che sperare in un'adozione su vasta scala di questi principi» (articolo ItaliaOggi Sette del 26.09.2011).

GIURISPRUDENZA

APPALTIL’art. 43 della Dir. 31.03.2004 n. 2004/18/CE (art. 78 del Dlgs. 163/2006) nel disciplinare il contenuto dei verbali delle operazioni di gara non impone la contestualità tra la verbalizzazione e le operazioni verbalizzate ma attribuisce ai verbali una funzione di documentazione e informazione (a garanzia di tutti i concorrenti e della stessa stazione appaltante) che non sarebbe utile se la redazione venisse svolta a notevole distanza di tempo.
L’unico vincolo per la verbalizzazione è pertanto quello della tempestività rispetto alle operazioni verbalizzate. Una volta accertata questa condizione è irrilevante che il verbale riguardi una singola riunione della commissione tecnica o più riunioni o l’intera procedura. Purché sia tempestivo il verbale può essere cumulativo.

L’art. 43 della Dir. 31.03.2004 n. 2004/18/CE (art. 78 del Dlgs. 163/2006) nel disciplinare il contenuto dei verbali delle operazioni di gara non impone la contestualità tra la verbalizzazione e le operazioni verbalizzate ma attribuisce ai verbali una funzione di documentazione e informazione (a garanzia di tutti i concorrenti e della stessa stazione appaltante) che non sarebbe utile se la redazione venisse svolta a notevole distanza di tempo.
L’unico vincolo per la verbalizzazione è pertanto quello della tempestività rispetto alle operazioni verbalizzate. Una volta accertata questa condizione è irrilevante che il verbale riguardi una singola riunione della commissione tecnica o più riunioni o l’intera procedura. Purché sia tempestivo il verbale può essere cumulativo (v. CS Sez. V 15.03.2010 n. 1507; TAR Lazio Roma Sez. II 01.03.2011 n. 1906) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 28.09.2011 n. 1332 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTII gravi reati in danno dello Stato o dell’Unione Europea che incidono sulla moralità professionale e determinano l’esclusione dalle gare non sono soltanto quelli collegabili all’oggetto dell’appalto. Il concetto di moralità professionale, ripreso direttamente dall’art. 45, par. 2, lett. c), della Dir. 31.03.2004 n. 2004/18/CE, coinvolge un ambito che va oltre la stretta attività professionale del concorrente.
I gravi errori commessi nell’esercizio dell’attività professionale (e quindi a maggior ragione i reati che riguardano direttamente l’attività professionale) sono già presi in considerazione come causa autonoma di esclusione dalla lett. f) dell’art. 38, comma 1, del Dlgs. 163/2006. La moralità professionale riguarda invece l’affidabilità complessiva del concorrente sotto il profilo etico: l’amministrazione ha interesse a coltivare rapporti contrattuali esclusivamente con soggetti economici che (oltre a osservare i principi giuridici dell’ordinamento) rispettano le regole del mercato e della concorrenza.

L’aggiotaggio ex art. 2637 c.c. è un reato che richiede condotte concretamente idonee a provocare una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari. La fattispecie penale presuppone un disegno diretto a manipolare il normale funzionamento del mercato per ottenere dei vantaggi a detrimento degli altri operatori economici e della platea degli investitori. È dunque intrinseca a questo reato una componente di slealtà in ambito economico che non consente il contestuale riconoscimento del requisito della moralità professionale. Quindi, la condanna per aggiotaggio impedisce la partecipazione alle gare pubbliche.
Per quanto riguarda la corretta applicazione dell’art. 38, comma 1, lett. c), del Dlgs. 163/2006, occorre precisare subito che i gravi reati in danno dello Stato o dell’Unione Europea che incidono sulla moralità professionale e determinano l’esclusione dalle gare non sono soltanto quelli collegabili all’oggetto dell’appalto. Il concetto di moralità professionale, ripreso direttamente dall’art. 45, par. 2, lett. c), della Dir. 31.03.2004 n. 2004/18/CE, coinvolge un ambito che va oltre la stretta attività professionale del concorrente.
I gravi errori commessi nell’esercizio dell’attività professionale (e quindi a maggior ragione i reati che riguardano direttamente l’attività professionale) sono già presi in considerazione come causa autonoma di esclusione dalla lett. f) dell’art. 38, comma 1, del Dlgs. 163/2006. La moralità professionale riguarda invece l’affidabilità complessiva del concorrente sotto il profilo etico: l’amministrazione ha interesse a coltivare rapporti contrattuali esclusivamente con soggetti economici che (oltre a osservare i principi giuridici dell’ordinamento) rispettano le regole del mercato e della concorrenza.
L’aggiotaggio ex art. 2637 c.c. (anche nella versione in vigore all’epoca dei fatti) è un reato che richiede condotte concretamente idonee a provocare una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari. La fattispecie penale presuppone un disegno diretto a manipolare il normale funzionamento del mercato per ottenere dei vantaggi a detrimento degli altri operatori economici e della platea degli investitori. È dunque intrinseca a questo reato una componente di slealtà in ambito economico che non consente il contestuale riconoscimento del requisito della moralità professionale.
In questa ricostruzione il valore dell’utilità conseguita attraverso l’aggiotaggio non ha un peso decisivo, in quanto la slealtà nei rapporti economici non è diversa se praticata in vicende modeste o su ampia scala. Tuttavia anche volendo introdurre un filtro quantitativo il risultato nel caso in esame non sarebbe diverso, tenendo conto che il legale rappresentante della ricorrente è stato coinvolto nella scalata alla Banca Antonveneta. Tale operazione, come evidenziato dall’Avvocatura Generale dello Stato nel parere del 19.01.2011, costituisce uno degli episodi più gravi che abbiano interessato di recente il settore bancario. Dunque, anche se svolta in posizione marginale, la partecipazione a un’iniziativa eccezionale per mezzi utilizzati e importanza dell’obiettivo deve essere senz’altro qualificata come rilevante nella storia professionale di un soggetto economico.
Da tutto questo consegue che la condanna per aggiotaggio impedisce la partecipazione alle gare pubbliche. Il punto diventa allora la durata dell’effetto interdittivo.
In proposito si può osservare che l’art. 38, comma 1, lett. c), del Dlgs. 163/2006, nell’estendere la disciplina dell’esclusione anche alle condanne degli amministratori cessati dalla carica nel triennio anteriore alla pubblicazione del bando di gara, indica in via alternativa due condizioni che escludono l’effetto interdittivo: (1) se l'impresa dimostri di aver adottato misure di completa dissociazione dalla condotta penalmente sanzionata; (2) se sia intervenuta la riabilitazione (art. 178 cp) o l’estinzione del reato in caso di patteggiamento (art. 445, comma 2, cpp).
Occorre verificare la possibilità della trasposizione di queste norme alla fattispecie degli amministratori in carica. L’analogia non sembra sussistere per l’ipotesi della dissociazione, in quanto il primo passo in questa direzione da parte dell’impresa sarebbe proprio la sostituzione dell’amministratore condannato. Appare invece ammissibile l’estensione della norma sulla riabilitazione e sull’estinzione del reato. La riabilitazione garantisce attraverso una completa valutazione della condotta post factum l’effettivo approdo rieducativo del reo (v. Cass. pen. Sez. I 18.06.2009 n. 31089; Cass. pen. Sez. I 29.09.2009 n. 40018) e dunque per i soggetti economici costituisce anche la dimostrazione del recupero di una condotta professionale eticamente adeguata. L’estinzione del reato ex art. 445, comma 2, cpp, essendo automatica, non offre le medesime garanzie, ma può essere presa in considerazione dalla stazione appaltante quale ragionevole termine finale del periodo di esclusione dalle gare. Mancando però una verifica giudiziale della buona condotta (che è propria della sola riabilitazione) la stazione appaltante conserva il potere di contestare l’insufficiente recupero della moralità professionale qualora ravvisi elementi di continuità con la situazione pregressa;
Nel caso in esame non risultano conseguite né la riabilitazione né l’estinzione del reato ex art. 445, comma 2, cpp. L’indulto ha semplicemente cancellato una parte della sanzione pecuniaria sostitutiva senza incidere sugli effetti penali della condanna (v. sopra al punto 2) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 28.09.2011 n. 1327 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOLe dimissioni volontarie del dipendente si perfezionano con l’accettazione delle stesse da parte dell’amministrazione e non possono essere revocate quando tale provvedimento sia stato assunto, anche se il dipendente non ne abbia ancora avuto formale comunicazione, attesa la natura non ricettizia dell’accettazione medesima.
Infatti, il provvedimento di accettazione delle dimissioni (rispetto al quale la volontà del dipendente rappresenta soltanto il presupposto) ha carattere costitutivo, con conseguente effetto estintivo del rapporto di pubblico impiego al momento della sua adozione.
Pertanto, la volontà del dipendente dimissionario di revocare le dimissioni, manifestata nella domanda di revoca presentata successivamente all’accettazione delle dimissioni, è irrilevante per l’Amministrazione che non ha alcun obbligo di provvedere su una richiesta inammissibile, in quanto intervenuta quando si è già prodotto l’effetto estintivo del rapporto di impiego.

Come correttamente rilevato dal primo giudice, le dimissioni volontarie del dipendente si perfezionano con l’accettazione delle stesse da parte dell’amministrazione e non possono essere revocate quando tale provvedimento sia stato assunto, anche se il dipendente non ne abbia ancora avuto formale comunicazione, attesa la natura non ricettizia dell’accettazione medesima.
Infatti, il provvedimento di accettazione delle dimissioni (rispetto al quale la volontà del dipendente rappresenta soltanto il presupposto) ha carattere costitutivo, con conseguente effetto estintivo del rapporto di pubblico impiego al momento della sua adozione (cfr. sul punto Corte Cost. n. 417/1996; n. 92/1997).
Pertanto, come esattamente osservato dal primo giudice, la volontà del dipendente dimissionario di revocare le dimissioni, manifestata nella domanda di revoca presentata successivamente all’accettazione delle dimissioni, è irrilevante per l’Amministrazione che non ha alcun obbligo di provvedere su una richiesta inammissibile, in quanto intervenuta quando si è già prodotto l’effetto estintivo del rapporto di impiego (cfr. C.G.A.R.S., sez. consult., 11.06.1996 n. 334).
Inoltre, sempre come correttamente rilevato dal TAR, nel caso di specie l’anzidetto effetto estintivo si è prodotto indipendentemente dal fatto che le dimissioni volontarie fossero subordinate alla mancata concessione di un periodo di aspettativa per motivi familiari, atteso che il ricorrente aveva subordinato l’efficacia delle dimissioni incondizionatamente al diniego di aspettativa (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.09.2011 n. 5384 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOTutele dello Statuto anche all'impiegato comunale.
Illegittimo il licenziamento del dipendente comunale che assume un incarico di consulenza professionale mentre è sospeso dal servizio se non viene rispettata la normativa dettata dallo Statuto dei lavoratori.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 18829/2011 che ha respinto il ricorso di un ente locale nei confronti di un suo dipendente che, sospeso dal servizio perché sottoposto a procedimento penale, aveva assunto un incarico di consulenza.
Il Comune ha sostenuto che il recesso, anche se avvenuto per giusta causa, non necessitava di garanzie procedimentali particolari dal momento che la sanzione era stabilita dalla legge senza margini di discrezionalità.
La Suprema corte, al contrario, ha affermato che anche in materia di impiego pubblico, il licenziamento quando è motivato da colpa o comunque da una mancanza del lavoratore deve considerarsi di natura disciplinare e quindi assoggettato alle garanzie dettate in favore del lavoratore dalla legge n. 300 del 1970 in tema di contestazione dell'addebito e di diritto di difesa (articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIIl licenziamento minacciato non invalida le dimissioni.
Le dimissioni indotte dal pericolo di essere licenziato per giusta causa sono valide. Il loro annullamento per violenza morale, infatti, scatta solo quando viene accertata l'inesistenza del diritto al recesso del datore di lavoro: se l'inadempimento addebitato al dipendente è insussistente la minaccia del datore annulla il suo legittimo esercizio a risolvere il contratto.
Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 18705/2011.
La sezione lavoro ha bocciato il ricorso di un direttore generale che in seguito al rischio di essere mandato via ha scelto la strada dell'accordo solutorio, impugnando però in un secondo momento il licenziamento e chiedendo il risarcimento per condotta illecita della controparte e la condanna alla reintegra.
Nella ricostruzione dei termini della vicenda il Collegio evidenzia la presenza di uno scontro sulle strategie per incentivare l'attività della banca. Conosciuta l'intenzione dell'istituto di allontanarlo dall'incarico, il direttore aveva chiesto che l'intimato recesso non venisse menzionato nel verbale del Cda acconsentendo a presentare le dimissioni. In sede giudiziaria ha poi impugnato il licenziamento e il successivo accordo di prepensionamento raggiunto con l'azienda.
Il primo dato accertato dai giudici è che al momento delle dimissioni il ricorrente non era ancora destinatario di un valido atto di recesso, infatti il licenziamento era stato solo paventato. Assodato questo punto, sono passati a esaminare l'esistenza di eventuali vizi delle stesse dimissioni convincendosi che i contrastati avvenimenti pregressi avevano adeguatamente preparato il dipendente ad avere consapevolezza di una situazione non tranquillizzante, le cui conseguenze erano prevedibili e ipotizzabili. Gli "attacchi" alla sua linea operativa e programmatica non lasciavano dubbi, la minaccia di procedere al licenziamento era fondata su comportamenti incontestabili ed era dunque legittima.
Concludendo, è nei poteri della banca recedere dal rapporto di lavoro con il direttore generale assumendo come giustificazioni le contestazioni disciplinari sollevate a suo carico (articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011).

AMBIENTE-ECOLOGIANiente risarcimento ai vicini per i disagi dei lavori in casa. Le lesioni non patrimoniali meritano ristoro solo se provate.
La pace in casa è un diritto "immaginario", perciò non è risarcibile. Se nel condominio si intraprendono lavori lunghi e fastidiosi che creano disturbi alle altre famiglie, non si è tenuti a risarcire loro il danno non patrimoniale.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17427/2011 che ha accolto il ricorso di una famiglia che, per ristrutturare l'appartamento di proprietà, aveva impiegato parecchi mesi provocando sgradevoli immissioni sonore e di polveri oltre che gravi danni al piano di calpestio del locale prospiciente il cortile del fabbricato.
I ricorrenti erano stati citati in giudizio dai vicini che chiedevano, oltre ai danni patrimoniali, anche quelli morali, biologici ed esistenziali. Accolta l'istanza sia del danno morale che del danno patrimoniale in tribunale e in appello, la sentenza è stata ribaltata dalla Cassazione.
Quest'ultima infatti, ha bocciato i cosiddetti danni «immaginari», in cui rientrano disagi, fastidi, ansie e ogni altro tipo d'insoddisfazione che riguarda la vita quotidiana, che non possono essere risarciti se non adeguatamente provati. Secondo la Corte, la categoria del danno non patrimoniale è connotata da tipicità, perché tale danno «è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona atteso che, fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona costituzionalmente protetto» (tale non è, secondo la Corte, il turbamento della tranquillità familiare, riferendosi al caso di specie).
Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno-conseguenza, che deve essere provato, non potendosi accogliere la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso perché snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.
Il danno biologico, invece, avrebbe portata onnicomprensiva, in quanto il danno alla vita di relazione e i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, possono costituire solo voci del danno biologico, mentre sono da ritenersi non meritevoli di tutela risarcitoria «disagi, fastidi, disappunti, ansie e ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana né possono qualificarsi come diritti risarcibili diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità».
Sulla base di tali principi di diritto i giudici hanno ritenuto fondati i motivi del ricorso, precisando che, se il giudice può, nell'ambito della valutazione discrezionale del danno, accertare il verificarsi della menomazione psico-fisica della persona facendo ricorso alle presunzioni e quantificare il danno in via equitativa, è pur sempre necessario «che la motivazione indichi gli elementi di fatto che nel caso concreto sono stati tenuti presenti e i criteri adottati nella liquidazione equitativa, perché altrimenti la valutazione si risolverebbe in un giudizio del tutto arbitrario, in quanto non è suscettibile di alcun controllo».
La sentenza impugnata mostra che alcuna indagine è stata effettuata sull'effettiva esistenza e sull'entità del danno subito, atteso che, senza compiere alcun accertamento sulla lesione dell'integrità psico-fisica che sarebbe stata provocata agli istanti dalle immissioni, i giudici di merito avevano liquidato il danno a favore degli attori, facendo peraltro un riferimento generico e privo di alcun riscontro obiettivo ai disagi e ai turbamenti del benessere psicofisico mentre, come si è detto, il semplice turbamento della tranquillità familiare non assurge a un valore costituzionale protetto (articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011).

PUBBLICO IMPIEGOE' legittima la destituzione dall'impiego del responsabile dell'ufficio tecnico comunale poiché si ritiene che, in riferimento alla posizione rivestita -appunto- di unico responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale, l’avere taciuto all’amministrazione di appartenenza che il soggetto richiedente una concessione edilizia non era il proprietario dell’area e che gli effettivi proprietari della stessa erano il medesimo ricorrente e il coniuge e, ulteriormente, l’avere personalmente presenziato alla seduta della Commissione edilizia, esprimendo anche parere favorevole all’accoglimento della relativa domanda e, infine, l’avere dato personalmente parere favorevole anche alla proroga del termine per il ritiro della concessione, costituisca comportamento oggettivamente molto grave e certamente idoneo a far venire meno il necessario rapporto fiduciario tra l’amministrazione ed il dipendente preposto a delicate funzioni amministrative quale responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale, con conseguente adeguatezza e proporzionalità della sanzione della destituzione irrogatagli, in quanto presenti, nella specie, tutti gli elementi costitutivi della predetta misura disciplinare di cui all’art. 84 del D.P.R. n. 3 del 1957 e della corrispondente identica disposizione di cui all’art. 5 dell’allegato A) del Regolamento organico del Comune.
Inoltre, il comportamento del ricorrente ha gravemente nociuto al prestigio dell’ente di appartenenza, nel contempo arrecando anche grave pregiudizio alla dignità delle funzioni esercitate, con conseguente ragionevolezza e proporzionalità, anche sotto tale profilo, della sanzione disciplinare comminata al dipendente, in quanto rientrante nella previsione di cui all’art. 84, lett. a) del D.P.R. n. 3 del 1957.

Con il presente gravame, un dipendente del comune di Saludecio impugna, chiedendone l’annullamento, la deliberazione con la quale la Giunta Comunale –su conforme proposta della Commissione comunale di disciplina- gli ha irrogato la sanzione disciplinare della destituzione dall’impiego.
Il Collegio deve osservare al riguardo, che la sanzione irrogata risulta coerente e proporzionata rispetto ai fatti disciplinarmente rilevanti di cui il dipendente è stato ritenuto responsabile a conclusione del relativo procedimento.
Invero, si ritiene che, in riferimento alla posizione dal medesimo rivestita di unico responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale, l’avere taciuto all’amministrazione di appartenenza che il soggetto richiedente una concessione edilizia non era il proprietario dell’area e che gli effettivi proprietari della stessa erano il medesimo ricorrente e il coniuge e, ulteriormente, l’avere personalmente presenziato alla seduta della Commissione edilizia, esprimendo anche parere favorevole all’accoglimento della relativa domanda e, infine, l’avere dato personalmente parere favorevole anche alla proroga del termine per il ritiro della concessione, costituisca comportamento oggettivamente molto grave e certamente idoneo a far venire meno il necessario rapporto fiduciario tra l’amministrazione ed il dipendente preposto a delicate funzioni amministrative quale responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale, con conseguente adeguatezza e proporzionalità della sanzione della destituzione irrogatagli, in quanto presenti, nella specie, tutti gli elementi costitutivi della predetta misura disciplinare di cui all’art. 84 del D.P.R. n. 3 del 1957 e della corrispondente identica disposizione di cui all’art. 5 dell’allegato A) del Regolamento organico del Comune.
Inoltre, il comportamento del ricorrente ha gravemente nociuto al prestigio dell’ente di appartenenza, nel contempo arrecando anche grave pregiudizio alla dignità delle funzioni esercitate, con conseguente ragionevolezza e proporzionalità, anche sotto tale profilo, della sanzione disciplinare comminata al dipendente, in quanto rientrante nella previsione di cui all’art. 84, lett. a) del D.P.R. n. 3 del 1957 (v. Cons. Stato, sez. IV, 05/10/2004 n. 6490) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 26.09.2011 n. 669 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'apprezzamento discrezionale circa l’utilità o meno della pianificazione esecutiva spetta unicamente al Comune.
La fattispecie del c.d. "lotto intercluso" costituisce una deroga eccezionale al divieto per i comuni di rilasciare un permesso di costruire in assenza della preventiva approvazione dei piani attuativi previsti dallo strumento urbanistico generale (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 10.06.2010, n. 3699) per cui, in presenza di una disciplina analitica del centro storico, è del tutto recessivo il principio secondo cui può escludersi la necessità di strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in zone già urbanizzate.
Lo strumento pianificatorio è infatti indispensabile per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e la sussistenza delle condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione. In ogni caso, l'apprezzamento discrezionale circa l’utilità o meno della pianificazione esecutiva spetta unicamente al Comune (arg. ex Consiglio Stato, sez. IV, 10.06.2010, n. 3699) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.09.2011 n. 5347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: I vincoli “non ablatori” (riguardanti destinazioni, indici di fabbricabilità, altezza, cubatura, superficie coperta, distanze, zone di rispetto, limiti e rapporti per zone territoriali omogenee e simili) sono vincoli conformativi normalmente connaturali alla proprietà, e come tali non comportano indennizzo.
La previsione di una determinata tipologia urbanistica quando non configura un vincolo preordinato all'espropriazione, costituisce una disposizione urbanistica che non è indennizzabile in quanto, va come tale ricondotta alle limitazioni delle facoltà del proprietario di cui al comma 2, dell'art. 42, Cost.

Notoriamente nella pianificazione urbanistica e nelle relative norme tecniche, i vincoli “non ablatori” (riguardanti destinazioni, indici di fabbricabilità, altezza, cubatura, superficie coperta, distanze, zone di rispetto, limiti e rapporti per zone territoriali omogenee e simili) sono vincoli conformativi normalmente connaturali alla proprietà, e come tali non comportano indennizzo (cfr. da ultimo Consiglio Stato, sez. IV, 22.06.2011, n. 3797).
La previsione di una determinata tipologia urbanistica quando non configura un vincolo preordinato all'espropriazione, costituisce una disposizione urbanistica che non è indennizzabile in quanto, va come tale ricondotta alle limitazioni delle facoltà del proprietario di cui al comma 2, dell'art. 42, Cost. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.09.2011 n. 5347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl termine decadenziale per l’impugnazione di un permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza dell’esistenza e dell’entità delle violazioni urbanistiche o del contenuto specifico del progetto edilizio.
Ai fini della tempestiva impugnazione del titolo ad aedificandum rilasciato a terzi l’effettiva, piena conoscenza dell’atto in parola deve essere ancorata all’ultimazione dei lavori oppure al momento in cui la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell’opera per una eventuale non conformità urbanistico-edilizia della stessa, lì dove non si può più avere dubbi in ordine alla reale portata dell’intervento edilizio assentito.
Sempre sulla questione della individuazione del momento conoscitivo cui far decorrere il termine decadenziale per l’impugnativa, la giurisprudenza ha avuto modo di stabilire che:
- non vale, in assenza di altri elementi probatori, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnativa, a dimostrare la piena conoscenza del provvedimento edilizio, la presenza del cartello di cantiere recante l’indicazione della concessione edilizia e la descrizione dell’intervento e neppure la data di inizio lavori;
- in capo alla parte che eccepisce la tardività dell’impugnativa sussiste un rigoroso onere di dimostrazione della circostanza relativa all’anticipata conoscenza.

Il termine decadenziale per l’impugnazione di un permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza dell’esistenza e dell’entità delle violazioni urbanistiche o del contenuto specifico del progetto edilizio (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 10.12.2010 n. 8705; Sez. V, 24.08.2007 n. 4485).
Al riguardo, in virtù di un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, qui pienamente condiviso, ai fini della tempestiva impugnazione del titolo ad aedificandum rilasciato a terzi l’effettiva, piena conoscenza dell’atto in parola deve essere ancorata all’ultimazione dei lavori oppure al momento in cui la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell’opera per una eventuale non conformità urbanistico-edilizia della stessa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.01.2011 n. 678), lì dove non si può più avere dubbi in ordine alla reale portata dell’intervento edilizio assentito (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 03.03.2004 n. 1023).
Sempre sulla questione della individuazione del momento conoscitivo cui far decorrere il termine decadenziale per l’impugnativa, la giurisprudenza ha avuto modo di stabilire che:
- non vale, in assenza di altri elementi probatori, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnativa, a dimostrare la piena conoscenza del provvedimento edilizio, la presenza del cartello di cantiere recante l’indicazione della concessione edilizia e la descrizione dell’intervento e neppure la data di inizio lavori (Cons. Stato Sez. IV 28.01.2011 n. 678);
- in capo alla parte che eccepisce la tardività dell’impugnativa sussiste un rigoroso onere di dimostrazione della circostanza relativa all’anticipata conoscenza (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 05.02.2007 n. 452) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.09.2011 n. 5346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di un soppalco non rientra nell'ambito degli interventi di restauro o risanamento conservativo.
La realizzazione di un soppalco non rientra nell'ambito degli interventi di restauro o risanamento conservativo, ma nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia, dal momento che determina una modifica della superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio del carico urbanistico.

Per quanto concerne la realizzazione del soppalco, anche a prescindere dalla questione di fatto se il soppalco medesimo sia stato realizzato nel 1982, come sostenuto dalla ricorrente, oppure in data successiva, deve comunque ritenersi la necessità del previo rilascio della concessione edilizia ai fini della legittima realizzazione dell’opera in questione, in considerazione delle caratteristiche concrete di tale opera che nel caso di specie, non può essere classificata quale mero “ripostiglio ricavato da un sottotetto”, come invece sostenuto dalla ricorrente nella memoria del 22.02.2010.
L’esistenza di un servizio igienico, anche se di soli mq. 2,50, nonché la rilevata presenza, in sede di sopralluogo, di un letto nel soppalco in questione, devono ritenersi elementi sufficienti a provare che l’opera abbia determinato una modifica della superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio del carico urbanistico.
Alla luce delle predette circostanze, ritiene pertanto il collegio di dare applicazione, ai principi giurisprudenziali in materia, secondo cui la realizzazione di un soppalco non rientra nell'ambito degli interventi di restauro o risanamento conservativo, ma nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia, dal momento che determina una modifica della superficie utile dell'appartamento, con conseguente aggravio del carico urbanistico (cfr. TAR Campania Napoli, sez. IV, 28.12.2009, n. 9607; TAR Campania Napoli, sez. IV, 28.11.2008, n. 20563; TAR Piemonte Torino, sez. I, 17.12.2007, n. 3714; TAR Sicilia Catania, sez. I, 08.05.2006, n. 699).
Per le suesposte considerazioni, risultano infondate le censure mosse dalla ricorrente, relativamente all’ordine di demolizione del soppalco, di violazione della legge n. 47 del 28.02.1985 e del D.P.R. n. 380 del 06.06.2001, per difetto dei presupposti; di eccesso di potere per difetto dei presupposti; di eccesso di potere per omessa motivazione circa la necessità della demolizione in relazione al lungo tempo trascorso dalla realizzazione dell’opera e al perdurare dell’interesse pubblico alla sua eliminazione contrapposto a quello privato; di eccesso di potere per omessa accertamento della predetta circostanza; di difetto di istruttoria; di violazione dell’articolo 43 del regolamento edilizio del 2003.
In particolare, stante la natura di atto vincolato dell’ordine di demolizione di opere abusive, non può ritenersi necessaria alcuna particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico all’eliminazione dell’opera abusiva, dovendosi ritenere sufficienti i rilievi, contenuti nell’ordinanza impugnata, sia in ordine all’”incremento della superficie utile abitabile all’interno dell’unità data dalla realizzazione di un soppalco…omissis…”, “in assenza della Concessione Edilizia e in difformità dal N.O. Ufficio Tutela del Paesaggio”, sia in ordine al fatto che tali opere “sono da ritenersi abusive e lesive dei pubblici interessi” (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 23.09.2011 n. 952 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI - LAVORI PUBBLICIIn virtù di quanto disposto dall’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 i componenti di una Commissione giudicatrice in una gara di appalto devono essere in possesso delle capacità tecniche e professionali adeguate all'importanza dell'appalto, tali da poterli considerare "periti peritorum" in relazione ai concreti aspetti sui quali i medesimi devono formulare il loro giudizio, e tale capacità non può che essere desunta dal possesso di un titolo di studio adeguato e da una pregressa esperienza nel settore.
La necessità del possesso in capo ai commissari dei requisiti tecnici e della professionalità necessaria a formulare un giudizio pienamente consapevole, anche in mancanza di una specifica previsione concernente la composizione nel dettaglio della commissione giudicatrice, costituisce un canone ispirato a criteri di logicità e ragionevolezza e riveste la natura di principio immanente nell'ordinamento generale, che risponde ai criteri di rango costituzionale di buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa. Conseguentemente, è illegittima la Commissione giudicatrice composta da un ingegnere e due geometri sull’assunto che: <<Solo uno dei componenti la commissione, l’ingegnere, rivestiva la qualità di esperto nello specifico settore oggetto dell’appalto, precisando, altresì, che “i due geometri dipendenti dell’amministrazione comunale, invece, non avrebbero potuto progettare ciò su cui erano chiamati ed esprimere il proprio giudizio, non potendo essere considerati esperti nella progettazione di lavori di mitigazione del rischio idrogeologico, nel senso richiesto dall’art. 84, comma 2, del codice dei contratti pubblici, in quanto la valutazione di tale attività richiede competenze che eccedono quanto previsto dall’art. 16 del r.d. 11.02.1929, n. 274, recante il regolamento per la professione di geometra, che stabilisce proprio l’oggetto ed i limiti dell'esercizio di tale professione. In particolare tale regolamento all’art. 16, lett. q), riconosce ai geometri la possibilità di svolgere mansioni di perito comunale, ma solo per le funzioni tecniche ordinarie nei Comuni con popolazione fino a diecimila abitanti, escludendo i progetti di opere pubbliche d'importanza o che implichino la risoluzione di rilevanti problemi tecnici">>.
Alla luce dell’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 e alla luce del citato regolamento
(ndr: art. 16 del r.d. 11.02.1929, n. 274) regolante i limiti all’esercizio della professione di geometra, poiché la progettazione dei lavori per la mitigazione del rischio idrogeologico costituisce un’ opera pubblica di sostanziale importanza, implicante la risoluzione di problemi tecnici di una certa complessità, due dei membri della commissione, geometri del comune, non avrebbero potuto progettare i lavori in questione e conseguentemente non avrebbero potuto essere considerati esperti nello specifico settore oggetto del contratto e idonei a poter valutare con la dovuta cognizione e preparazione i progetti presentati, perché privi del necessario titolo di studio attestante il possesso delle specifiche competenze tecniche di tipo geomorfologico, geotecniche, geologiche e idrogeologiche e conseguentemente privi dell’esperienza nel settore>>.
● Rilevato che con sentenza TAR Basilicata 17.05.2010, n. 280:
- è stato accolto il ricorso della Riunione temporanea di professionisti (R.T.P. ) Giusti, Spicciarelli, D’Amico, Palma, Di Lucchio, per l’annullamento dell’aggiudicazione definitiva in favore della C & G Engineering s.r.l concernente l’affidamento dell’incarico “per la progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva, direzione lavori e coordinamento sicurezza (d.lgs. 494/1996) in fase di progettazione e di esecuzione e direzione relativamente ai lavori di mitigazione del rischio idrogeologico in località Cornale”;
- è stato accolto il motivo di doglianza relativo al lamentato vizio nella composizione della Commissione giudicatrice, sull’assunto che in virtù di quanto disposto dall’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 i componenti di una Commissione giudicatrice in una gara di appalto devono essere in possesso delle capacità tecniche e professionali adeguate all'importanza dell'appalto, tali da poterli considerare "periti peritorum" in relazione ai concreti aspetti sui quali i medesimi devono formulare il loro giudizio, e tale capacità non può che essere desunta dal possesso di un titolo di studio adeguato e da una pregressa esperienza nel settore;
- è stato altresì chiarito che: <<la necessità del possesso in capo ai commissari dei requisiti tecnici e della professionalità necessaria a formulare un giudizio pienamente consapevole, anche in mancanza di una specifica previsione concernente la composizione nel dettaglio della commissione giudicatrice, costituisce un canone ispirato a criteri di logicità e ragionevolezza e riveste la natura di principio immanente nell'ordinamento generale, che risponde ai criteri di rango costituzionale di buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa (in tal senso cfr. Consiglio Stato, sez. V, 18.03.2004, n. 1408)>>;
- è stata quindi ritenuta illegittima la Commissione giudicatrice composta da un ingegnere e due geometri sull’assunto che: <<Solo uno dei componenti la commissione, l’ingegnere, rivestiva la qualità di esperto nello specifico settore oggetto dell’appalto, precisando, altresì, che “i due geometri dipendenti dell’amministrazione comunale, invece, non avrebbero potuto progettare ciò su cui erano chiamati ed esprimere il proprio giudizio, non potendo essere considerati esperti nella progettazione di lavori di mitigazione del rischio idrogeologico, nel senso richiesto dall’art. 84, comma 2, del codice dei contratti pubblici, in quanto la valutazione di tale attività richiede competenze che eccedono quanto previsto dall’art. 16 del r.d. 11.02.1929, n. 274, recante il regolamento per la professione di geometra, che stabilisce proprio l’oggetto ed i limiti dell'esercizio di tale professione. In particolare tale regolamento all’art. 16, lett. q), riconosce ai geometri la possibilità di svolgere mansioni di perito comunale, ma solo per le funzioni tecniche ordinarie nei Comuni con popolazione fino a diecimila abitanti, escludendo i progetti di opere pubbliche d'importanza o che implichino la risoluzione di rilevanti problemi tecnici">>;
- è stato pertanto concluso che <<alla luce dell’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 e alla luce del citato regolamento regolante i limiti all’esercizio della professione di geometra, poiché la progettazione dei lavori per la mitigazione del rischio idrogeologico costituisce un’ opera pubblica di sostanziale importanza, implicante la risoluzione di problemi tecnici di una certa complessità, due dei membri della commissione, geometri del comune, non avrebbero potuto progettare i lavori in questione e conseguentemente non avrebbero potuto essere considerati esperti nello specifico settore oggetto del contratto e idonei a poter valutare con la dovuta cognizione e preparazione i progetti presentati, perché privi del necessario titolo di studio attestante il possesso delle specifiche competenze tecniche di tipo geomorfologico, geotecniche, geologiche e idrogeologiche e conseguentemente privi dell’esperienza nel settore>>;
● Considerato che anche con sentenza in ottemperanza TAR Basilicata 23.03.2011, n. 221, è stato chiarito che un geometra non potesse far parte della Commissione di gara in questione e ciò era desumibile dall’affermazione che: <<le prestazioni che l’amministrazione intende far salve (progettazione preliminare e definitiva) sono frutto di una attività valutativa invalida, in quanto posta in essere da una Commissione priva della legittimazione a giudicare, poiché composta per due terzi da geometri, che non avevano, in relazione allo specifico oggetto di gara, le competenze tecniche necessarie per potere selezionare i progetti>>;
● Ritenuto, in conclusione, che:
- la formulazione dell’art. 84 del d.lgs. n. 163/2006, anche quando dispone che “La commissione è presieduta di norma da un dirigente della stazione appaltante e, in caso di mancanza in organico, da un funzionario della stazione appaltante incaricato di funzioni apicali, nominato dall’organo competente” non ha inteso privilegiare e dare priorità in senso assoluto al requisito dell'inserimento nell'organico dell'ente appaltante rispetto a quello del titolo di studio, il quale, pertanto, deve comunque essere adeguato rispetto alle prestazioni che dovranno essere valutate in sede di gara;
- tale interpretazione, contrariamente a quanto controdedotto dal Comune intimato, è corroborata dalla formulazione della disposizione in commento la quale, nel prevedere che la Commissione sia “di norma” presieduta da un dipendente della stazione appaltante (dirigente o, in mancanza, da un funzionario apicale), contempla implicitamente la possibilità che in casi eccezionali- quali quella verificatasi nella fattispecie di mancanza di professionalità adeguate nell’organico dell’ente- il Presidente sia scelto tra esperti esterni all’amministrazione;
- secondo un’interpretazione analogica per la nomina di esperti esterni con funzioni di Presidente della Commissione di gara, in caso di mancanza di professionalità adeguate tra i dirigenti o i funzionari in posizione apicale nell’ente, si applicano sempre i criteri dettati dall’art. 84, comma 8, del d.lgs. n. 163/2006;
● Ritenuto, alla luce di tutto quanto sopra esposto:
- che per realizzare pienamente l’effetto conformativo della sentenza e quindi adeguare la situazione di fatto alla situazione di diritto il Comune intimato, stante la carenza in organico di adeguate professionalità, è tenuto a nominare anche il Presidente della Commissione tra professionisti esperti nella progettazione di lavori di mitigazione del rischio idrogeologico, da scegliersi tra gli appartenenti ad una delle seguenti categorie:
a) professionisti, con almeno dieci anni di iscrizione nei rispettivi albi professionali, nell’ambito di un elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite dagli ordini professionali;
b) professori universitari di ruolo, nell’ambito di un elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite dalle facoltà di appartenenza;
● Considerato, in accoglimento del ricorso che:
- a norma dell’art. 114, comma 4, lett. b), del cod. proc. amm. è dichiarata la nullità della determina 31.05.2011, n. 126, nella parte in cui nomina quale componente, nella qualità di Presidente, della Commissione giudicatrice per la valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa per l’affidamento dei lavori in discorso, nuovamente un geometra nella persona del Responsabile del Settore Tecnico del Comune di Episcopia;
- è assegnato all’Amministrazione resistente il termine di 30 (trenta) giorni decorrenti dalla comunicazione (o notifica) della presente sentenza per conformarsi alla statuizione contenuta nella sentenza, così come chiarito;
- può disporsi sin da ora, per il caso di ulteriore inerzia del Comune intimato, la conferma della nomina di Commissario “ad acta” nella persona del dott. Fabrizio D’Andrea, dirigente a.r. della Regione Basilicata, nato a Roma il 16.04.1940, residente in Lavello al vico 3 Leonardo da Vinci, n. 8, perché, decorsi i termini di adempimento assegnati all’Amministrazione, a semplice richiesta della parte ricorrente adotti tutti gli atti necessari a dare esecuzione, nei sensi sopraindicati, alla sentenza di cui trattasi nel termine di gg. 30 (trenta) decorrenti dalla scadenza di quelli già assegnati all’Amministrazione;
● Ritenuto, infine, che:
- l’istanza di condanna del Comune intimato al pagamento di una somma di denaro per ogni inosservanza successiva o ritardo nell’esecuzione del giudicato a norma dell’art. 114, comma 4, lett. e), è inammissibile in virtù dei principi del giusto processo di cui all’art. 2 del cod. proc. amm., in quanto non contenuta nell’atto introduttivo della presente fase di giudizio, ma formulata per la prima volta all’udienza camerale, alla quale peraltro il Comune non ha partecipato (il che non ha consentito la formazione di un pieno contraddittorio sul punto);
- non può accogliersi la domanda di condanna dell’amministrazione al pagamento di una somma di denaro ex art. 26, comma 2, cod. proc. amm., stante l’assenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale sul “dictum” della sentenza oggetto della presente ottemperanza (TAR Basilicata, sentenza 23.09.2011 n. 479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Mancato aggiornamento professionale e demansionamento.
La mancata predisposizione di adeguate iniziative di aggiornamento per il personale prossimo alla pensione (in quanto ultracinquantenne) può essere considerata ipotesi di demansionamento, suscettibile di risarcimento del danno patrimoniale e non.
In tal senso si è pronunciata la Corte di Cassazione con sentenza 23.09.2011.
In particolare, il datore di lavoro che rende inoperoso per un lungo periodo di tempo il proprio dipendente con apprezzabile anzianità di servizio, negandogli sia nuovi incarichi che un adeguato e costante aggiornamento professionale, lede la professionalità del dipendente stesso ed è tenuto, pertanto, a risarcire anche il danno non patrimoniale.
In merito, poi, alla prova di quest’ultimo, la Corte ha ritenuto che orientamento consolidato è che il giudice può attenersi anche a parametri probatori presuntivi (tratto da www.diritto.it).

ENTI LOCALI: È legittima la clausola di un bando per l’assegnazione di un contributo che escluda il pagamento in contanti o assegni delle spese sostenute.
In questa vicenda, una Comunità Montana aveva disposto come sanzione nei confronti della società ricorrente la riduzione di un contributo già assegnato alla stessa, in relazione a una procedura per l’erogazione di aiuti europei all’agricoltura, indetta dalla Regione.
La ricorrente, pertanto, contestava la clausola contenuta nel bando per l’assegnazione del contributo, secondo la quale, per dimostrare di aver effettivamente sostenuto le spese cui la richiesta di finanziamento si riferisce, occorre che i relativi pagamenti siano eseguiti tramite bonifico bancario, ricevuta bancaria, bollettino postale, vaglia postale, mandato di pagamento o carta di credito, con esclusione di modalità alternative e, segnatamente, del pagamento per contanti o per assegni.
Ritenendo il ricorso infondato i giudici del Tribunale amministrativo di Firenze segnalano che il bando stabilisce espressamente che, al fine di rendere trasparenti e documentabili connesse alla realizzazione degli interventi cofinanziati, il beneficiario del contributo è tenuto a dimostrare l’avvenuto pagamento delle spese inerenti un progetto approvato, producendo un documento di spesa fornito di tutti i dati occorrenti a identificare autori ed oggetto dell’operazione, nonché utilizzando una delle modalità di pagamento ivi dettagliatamente elencate, con esclusione del pagamento per contanti o per assegni.
La disposizione deve essere letta, secondo i giudici toscani, alla luce dei principi generali sull’ammissibilità delle spese di cui al paragrafo 3.1.3.1 dello stesso bando ed, in particolare, del principio di verificabilità e controllabilità esplicitato dal successivo paragrafo 3.1.3.1.3, che, in attuazione di quanto previsto dall’art. 48 del Regolamento 2006/1974/CE, stabilisce che le spese ammissibili sono quelle effettivamente e definitivamente sostenute dal beneficiario del contributo; esse debbono corrispondere a “pagamenti effettivamente effettuati”, comprovati da fatture e relativi giustificativi di pagamento, ovvero da documenti contabili aventi forza probante equivalente: se, infatti, questa è l’ottica di valutazione dell’ammissibilità degli interventi, l’esclusione dei pagamenti per contanti e per assegno dalle spese ammissibili si appalesa tutt’altro che irragionevole, trattandosi di modalità di pagamento che, di per sé, non consentono di verificare l’effettivo transito del denaro dalla disponibilità di chi esegue il pagamento in quella di chi il pagamento riceve; conclusione che vale con tutta evidenza per il pagamento in contanti (del quale neppure è oggettivamente riscontrabile la reale corrispondenza/imputabilità all’operazione ammessa a finanziamento), ma alla quale non sfugge neppure il pagamento tramite assegni, che, mentre nei rapporti fra le parti può costituire idoneo mezzo di estinzione dell’obbligazione pecuniaria, verso i terzi –come, nella specie, è l’amministrazione che eroga il contributo– rappresenta la semplice consegna di un titolo di credito, del quale resta però non verificabile l’effettiva presentazione per l’incasso.
Ne discende, almeno in astratto, che tali modalità di pagamento ben si prestano a venire utilizzate per creare una situazione di mera apparenza, finendo per risultare incompatibili con le finalità di controllo direttamente sancite dal legislatore comunitario e volte, in definitiva, ad evitare il rischio che l’erogazione dei finanziamenti non corrisponda ad esborsi realmente sostenuti dal beneficiario del contributo.
Del resto, la circostanza che il ricorso a un dato mezzo di pagamento rappresenti, in talune ipotesi, una delle possibili alternative all’uso del denaro contante, vietato dalla legge, non toglie che, per altri e diversi fini, lo stesso mezzo di pagamento possa ragionevolmente considerarsi inadeguato e, pertanto, non sia utilmente spendibile, senza che ciò determini alcun contrasto interno all’ordinamento (tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 21.09.2011 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: È nulla la clausola che violi la disciplina legislativa sulla revisione dei prezzi di gara.
In questa pronuncia, il principale argomento addotto dalla ditta ricorrente, affidataria dell’esecuzione di lavori di ristrutturazione e trasformazione di due edifici della ex struttura ospedaliera cittadina, riguardava una clausola, in sé alquanto ambigua: essa veniva intesa dall’appaltatore nel senso che il Comune si sarebbe impegnato ad assicurare una revisione dei prezzi retroattiva.
I giudici del Consiglio di Stato osservano, tuttavia, che una simile interpretazione comporterebbe la nullità della clausola per violazione della disciplina legislativa dell’istituto revisionale, regime le cui previsioni, non sono derogabili dall’autonomia privata. Gli stessi giudici rammentano, infatti, che l’art. 33 della L 28/02/1986 n. 41, dopo avere escluso la possibilità di procedere alla revisione dei prezzi per i lavori relativi ad opere pubbliche aventi durata inferiore all'anno, per quelli aventi durata superiore ammette la revisione (a decorrere dal secondo anno successivo alla aggiudicazione, e con esclusione dei lavori già eseguiti nel primo anno e dell'intera anticipazione ricevuta) quando, però, l'Amministrazione riconosca che l'importo complessivo della prestazione sia aumentato o diminuito in misura superiore al 10 per cento “per effetto di variazioni dei prezzi correnti intervenute successivamente alla aggiudicazione stessa”.
I giudici di Palazzo Spada, inoltre, sottolineano come un uniforme orientamento giurisprudenziale escluda in materia di revisione prezzi la derogabilità della regolamentazione legale, alla quale viene riconosciuta valenza imperativa.
Ad esempio, nella pronuncia Cass. Civ., I, 24.02.1994, n. 1876, si legge quanto segue: “L'art. 2 della L. n. 37 del 1973 dispone: "... la facoltà di revisione dei prezzi è ammessa, secondo le norme che la regolano, con esclusione di qualsiasi patto contrario o in deroga": vuol dire che, a decorrere almeno dalla data di entrata in vigore di questa legge, la facoltà (ora soppressa ex art. 3 d.l. 333/1992, convertito nella L. 359/1992) dell'amministrazione appaltante (o concedente) di procedere alla revisione dei prezzi non ammetteva, sotto qualsiasi profilo, deroghe pattizie, nel senso, esplicitando, che la revisione non poteva essere preventivamente esclusa o, all'opposto, resa obbligatoria (Cass. 5333/1980, Cass. 4288/1992, Cass. 4088-1985, Cass. 4099/1987), né essere regolata con modalità difformi, in tutto o in parte, dal regime legale.
Di qui la nullità (attesa la pacifica imperatività della norma sotto esame) delle pattuizioni derogative (sostituite, perciò, di diritto, ex art. 1339 c.c., dalla disciplina legale), quale che ne fosse il contenuto e, quindi, anche se attinenti non all'an ma al quantum della revisione e, in particolare, alla base del relativo computo, dato che l'art. 2 cit., rinviando, senza distinzione alcuna, alle norme (tutte) che regolavano l'istituto, non consentiva di degradare a norme dispositive quelle riguardanti il modo di determinare l'importo revisionale, …
” (tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.09.2011 n. 5280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La realizzazione o conservazione di un parco urbano non configura un vincolo né comporta l'inedificabilità assoluta.
Secondo la recente e condivisibile giurisprudenza di questo Consiglio (cfr., ex multis, Consiglio Stato, sez. IV, 10.06.2010, n. 3700), i vincoli di piano regolatore, ai quali si applica il principio della decadenza quinquennale, ai sensi dell'art. 2, l. 19.11.1968 n. 1187, sono soltanto quelli che incidono su beni determinati, assoggettandoli a vincoli preordinati all'espropriazione o a vincoli che ne comportano l'inedificabilità e, dunque, svuotano il contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio.
La previsione di una determinata tipologia urbanistica, quale nella specie relativa alla realizzazione o conservazione di parco urbano o di quartiere, non configura un vincolo preordinato all'espropriazione né comporta l'inedificabilità assoluta, trattandosi di una prescrizione diretta a regolare concretamente l'attività edilizia e quindi, costituente esercizio di potestà conformativa che sfugge al ricordato limite temporale (cfr. art. 11, l. 17.08.1942 n. 1150).
Nel caso in esame, peraltro, il vincolo consente la realizzazione di strutture a carattere provvisorio, quali chioschi di ristoro, tettoie aperte e attrezzi per il gioco dei bambini, prevedendo una destinazione non rimessa alla necessaria iniziativa pubblica e, quindi, attuabile, senza previa ablazione del bene, anche ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.09.2011 n. 5276 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La stazione appaltante deve stabilire se è definitivo l’accertamento delle violazioni riscontrate nel Durc.
Il più recente indirizzo giurisprudenziale a cui il Collegio ritiene di dover aderire, ha avuto modo di precisare come l’insindacabilità del contenuto formale del DURC non assuma certamente il significato di un’abrogazione implicita del preciso disposto dell’art. 38 del Codice dei contratti pubblici, nella parte in cui la previsione preclude la partecipazione alle procedure di affidamento di quei soggetti che abbiano “commesso violazioni gravi, definitivamente accertate alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali”.
Il raccordo tra le due discipline, pertanto, va ricercato nella valutazione dell’incidenza di quanto attestato nel DURC rispetto alla specifica procedura di affidamento.
Tale valutazione, di natura propriamente discrezionale, è riservata alla stazione appaltante.
Questa, lungi dal sindacare il contenuto del DURC, è chiamata a verificare se le violazioni da esso certificate siano da considerarsi gravi e definitivamente accertate in relazione all’oggetto e alle modalità di svolgimento della gara (cfr. Cons. Stato Sez. V, 30.09.2009, n. 5896).
Ed in questo senso, il primo giudice dopo aver premesso, in via di principio, che “un conto è la regolarità contributiva formale, rimessa al potere di accertamento e di valutazione dell’istituto previdenziale, un conto e la gravità della violazione in materia contributiva e previdenziale, ai fini della partecipazione ad una gara rimessa alla stazione appaltante che, in concreto ed al di fuori di ogni automatismo, dovrebbe per l’appunto valutare la presenza di indici sintomatici della gravità dell’infrazione, tali da giustificare l’estromissione dalla gara”, ha concluso “che alcuna censura possa essere mossa alla stazione appaltante posto che, una volta acquisiti i dati del DURC, non ha disposto l’esclusione immediata ed automatica della ricorrente, ma ha correttamente instaurato il contraddittorio chiedendo chiarimenti con nota del 10.07.2008. Le giustificazioni addotte dalla ricorrente non sono apparse sufficienti a superare le riscontrate irregolarità contributive sicché la stazione appaltante non ha potuto che disporre l’esclusione”.
Sennonché tale statuizione, corretta nella premessa, non è condivisibile nella sua conclusione.
Come già precisato, infatti, un conto e la regolarità contributiva formale, che è un dato oggettivo, rimessa al potere di accertamento dell’istituto previdenziale, un conto è la gravità della violazione contributiva e previdenziale, ai fini della partecipazione ad una gara, la cui valutazione è rimessa all’Amministrazione appaltante che, in concreto e al di fuori di ogni automatismo, deve verificare la presenza di indici sintomatici della gravità dell’infrazione, tali da giustificare l’estromissione dalla gara.

In altri termini, l’esistenza di gravi violazioni in materia contributiva e previdenziale, come requisito generale di partecipazione alle gare, costituisce oggetto di autonoma valutazione da parte della stazione appaltante, rispetto alla quale le risultanze del DURC si pongono come meri elementi indiziari, dai quali non può prescindersi, ma che comunque non esauriscono l’ambito di accertamento circa la sussistenza di una violazione grave (cfr., Cons. Stato, Sez. VI, 04.08.2009 n. 4907).
Ne deriva che una volta acquisito il DURC, spetta alla stazione appaltante valutare se le risultanze ivi contenute, oggettivamente non controvertibili, siano idonee e sufficienti anche a giustificare un giudizio in termini di gravità di una violazione che sia emersa dal DURC.
Occorre, inoltre, che l’Ente verifichi la definitività dell’accertamento, pur necessaria per ritenere integrato il precetto normativo di cui all’art. 38, comma 1, lett. i) e, dunque, a configurare la situazione ostativa prescritta dalla norma.
E, ai fini della verifica della definitività dell’accertamento, per gli effetti di cui alla citata norma, rileva che al momento della scadenza del termine per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara sia spirato il termine per l’impugnazione dell’atto di accertamento in sede amministrativa, o il relativo ricorso amministrativo sia stato respinto con provvedimento definitivo e non sia stato proposto ricorso giurisdizionale (cfr., Cons. Stato, Sez. V, 13.07.2010 n. 4511)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.09.2011 n. 5186 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: I costi dei servizi ai disabili si parametrano sulla situazione economica del solo assistito.
Nei suoi più recenti arresti, la Sezione ha avuto modo di precisare come il d.lgs. n. 109/1998 abbia introdotto l’I.S.E.E. come criterio generale di valutazione della situazione economica delle persone che richiedono prestazioni sociali agevolate, e l’applicazione di tale parametro comporta che la condizione economica del richiedente sia definita in relazione ad elementi reddituali e patrimoniali del nucleo familiare cui egli appartiene.
Rispetto a particolari situazioni, lo stesso d.lgs. n. 109/1998 prevede tuttavia l’utilizzo di un diverso parametro, basato sulla situazione del solo interessato.
In particolare, l’art. 3, comma 2–ter, stabilisce che “limitatamente alle prestazioni sociali agevolate assicurate nell’ambito di percorsi assistenziali integrati di natura sociosanitaria, erogate a domicilio o in ambiente residenziale a ciclo diurno o continuativo, rivolte a persone con handicap permanente grave, di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 05.02.1992, n. 104, accertato ai sensi dell’articolo 4 della stessa legge, nonché a soggetti ultra sessantacinquenni la cui non autosufficienza fisica o psichica sia stata accertata dalle aziende unità sanitarie locali, le disposizioni del presente decreto si applicano nei limiti stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta dei Ministri per la solidarietà sociale e della sanità. Il suddetto decreto è adottato, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, al fine di favorire la permanenza dell’assistito presso il nucleo familiare di appartenenza e di evidenziare la situazione economica del solo assistito, anche in relazione alle modalità di contribuzione al costo della prestazione, e sulla base delle indicazioni contenute nell’atto di indirizzo e coordinamento di cui all’articolo 3-septies, comma 3, del decreto legislativo 30.12.1992, n. 502, e successive modificazioni".
La deroga rispetto alla valutazione dell’intero nucleo familiare è limitata, sotto il profilo soggettivo, alle persone con handicap permanente grave e ai soggetti ultra sessantacinquenni non autosufficienti (con specifico accertamento in entrambi i casi) e, con riguardo all’ambito oggettivo, alle prestazioni inserite in percorsi integrati di natura sociosanitaria, erogate a domicilio o in ambiente residenziale, di tipo diurno oppure continuativo.
Ricorrendo tali presupposti, deve essere presa in considerazione la situazione economica del solo assistito (cfr. Sez. V,16.03.2011, n. 1607).
La tesi che esclude l’immediata applicabilità della norma, in virtù dell’attuazione demandata ad un apposito d.p.c.m., benché sostenuta da questo Consiglio di Stato in sede consultiva (sez. III, n. 569/2009) non appare convincente ed è già stata disattesa dalla Sezione in alcuni precedenti cautelari (sez. V, ord. nn. 3065/2009, 4582/2009 e 2130/2010), che hanno trovato conferma nelle più recenti sentenze (sez. V, sent. n. 551/2011; n. 1607/2011) della Sezione stessa, che il Collegio pienamente condivide.
Deve ritenersi, quindi, che il citato art 3, comma 2–ter, pur demandando in parte la sua attuazione al successivo decreto, abbia introdotto un principio, immediatamente applicabile, costituito dalla evidenziazione della situazione economica del solo assistito, rispetto alle persone con handicap permanente grave e ai soggetti ultra sessantacinquenni la cui non autosufficienza fisica o psichica sia stata accertata dalle aziende unità sanitarie locali.
Tale regola non incontra alcun ostacolo per la sua immediata applicabilità e il citato decreto, pur potendo introdurre innovative misure per favorire la permanenza dell’assistito presso il nucleo familiare di appartenenza, non potrebbe stabilire un principio diverso dalla valutazione della situazione del solo assistito; di conseguenza, anche in attesa dell’adozione del decreto, sia il legislatore regionale sia i regolamenti comunali devono attenersi a tale principio, idoneo a costituire uno dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, mirando proprio ad una facilitazione all’accesso ai servizi sociali per le persone più bisognose di assistenza.
Correttamente quindi il Tar ha fondato la sua interpretazione, oltre che sul dato letterale della legge, sul quadro costituzionale e sulle norme di derivazione internazionale, facendo particolare riferimento alla legge 03.03.2009 n. 18 che ha ratificato la Convenzione di New York del 13.12.2006, sui “diritti delle persone con disabilità”.
La giurisprudenza ha già sottolineato che la Convenzione si basa sulla valorizzazione della dignità intrinseca, dell’autonomia individuale e dell’indipendenza della persona disabile (v. l’art. 3, che impone agli Stati aderenti un dovere di solidarietà nei confronti dei disabili, in linea con i principi costituzionali di uguaglianza e di tutela della dignità della persona, che nel settore specifico rendono doveroso valorizzare il disabile di per sé, come soggetto autonomo, a prescindere dal contesto familiare in cui è collocato, anche se ciò può comportare un aggravio economico per gli enti pubblici).
I principi della Convenzione costituiscono, quindi, ulteriore argomento interpretativo in favore della tesi dell’immediata applicabilità del comma 2–ter dell’art. 3 del d.lgs. n. 109/1998 e per ritenere manifestamente infondata ogni questione di costituzionalità, che dubiti della compatibilità costituzionale della interpretazione fatta propria dal TAR e qui confermata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.09.2011 n. 5185 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOStop ai concorsi pubblici riservati ai dipendenti interni. Bocciata una selezione per progressioni verticali.
Ulteriore chiusura sulla vicenda delle progressioni verticali negli enti locali. A quasi due anni dall'entrata in vigore del Dlgs 150/2009, una recentissima sentenza del Tar Lazio di Latina, conferma l'orientamento delle sezioni riunite della Corte dei conti. Nonostante la vigenza dell'articolo 91 del Dlgs 267/2000 le autonomie territoriali non potranno più prevedere concorsi solamente riservati al personale interno.
Le progressioni tra le aree hanno subito un duro colpo ad opera della Riforma Brunetta. Da una parte è stato infatti previsto che per poter procedere all'inquadramento superiore è necessario essere in possesso del titolo di studio richiesto per l'accesso dall'esterno; dall'altra è stato sancito che il passaggio di carriera può avvenire esclusivamente tramite concorso pubblico con (eventuale) riserva ai dipendenti interni, ma mai superiore al 50% dei posti.
Mentre quindi le progressioni orizzontali mantengono la loro natura premiante del merito o del percorso valutativo, le progressioni verticali, oltre a trasformarsi in progressioni di carriera, acquisiscono una nuova e certa finalità cui è correlato uno specifico procedimento.
I magistrati del TAR Lazio-Latina con la sentenza 15.09.2011 n. 689 concludono quindi che la determinazione del responsabile del settore amministrativo di un Comune è illegittima perché prevede una procedura selettiva interna per la copertura di un solo posto di Comandante, anziché quella normativamente imposta dal Dlgs 150/2009, ovvero il concorso pubblico.
In questi casi non è neppure possibile invocare il principio di specialità del Dlgs 267/2000. Infatti il Tuel al l'articolo 91 prevede ancora che gli enti locali possono prevedere concorsi interamente riservati al personale dipendente, solo in relazione a particolari profili o figure professionali caratterizzati da una professionalità acquisita esclusivamente all'interno dell'ente.
E questo nonostante l'articolo 1, comma 4, del medesimo decreto contenga la cosiddetta clausola di rafforzamento sull'impossibilità di una norma successiva di intercedere sugli istituti propri degli enti locali senza espressa modificazione. Infatti, la stessa Corte dei conti, Sezioni riunite, con la Deliberazione n. 10/2010 aveva già scardinato tale tesi ribadendo che l'articolo 91 del Tuel risulta abrogato per incompatibilità con le norme del Dlgs 150/2009.
Le regole per le progressioni di carriera sono pertanto esclusivamente quelle volute dalla Riforma Brunetta che abbiamo riassunte qui sopra: i passaggi tra le aree possono avvenire esclusivamente con riserva di concorso e vi possono partecipare solo lavoratori in possesso di titolo di studio necessario per l'accesso dal l'esterno.
Risulta quindi impossibile bandire un concorso per un solo posto interamente riservato ai propri dipendenti.
Le progressioni verticali vecchia maniera non sono quindi più attuabili dal 15.11.2009, ma, secondo il Tar Reggio Calabria (Sentenza n. 914/2010) è possibile portare a compimento quelle previste in bandi pubblicati prima dell'entrata in vigore del Dlgs 150/2009 (articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI: P.A., senza moralità professionale niente contratti.
Il requisito della moralità professionale, richiesto per la partecipazione alle gare pubbliche di appalto, è da considerarsi mancante nell'ipotesi di commissione di un reato specifico connesso al tipo di attività che il soggetto deve svolgere.
L’Autorità di Vigilanza per i contratti pubblici inseriva nel Casellario informatico una annotazione, relativa alla revoca dell’aggiudicazione disposta da parte della più importante società autostradale per false dichiarazioni nel possesso dei requisiti da parte di una ditta partecipante. L’inserimento dell’annotazione è stato successivamente comunicato alla società interessata.
Nel frattempo, altra società operante nel medesimo settore aveva indetto una gara per l’affidamento dei lavori di manutenzione straordinaria di una determinata strada.
Nella domanda presentata, la società ricorrente comunicava la sussistenza a suo carico di un decreto penale di condanna in precedenza emesso in relazione a violazioni di norme sulla salute e sicurezza dei lavoratori, ma non la annotazione pendente nel Casellario.
La stazione appaltante, così, ne disponeva l’esclusione dalla gara sia in relazione alla mancata dichiarazione dell’annotazione, che alla mancanza dei requisiti di partecipazione, trattandosi di reato incidente sulla moralità professionale; inviava, dunque, la segnalazione dell’esclusione all’Autorità di Vigilanza.
Quest’ultima, tuttavia, archiviava il procedimento relativo a un’eventuale ulteriore annotazione per false dichiarazioni, in quanto risultava che l’impresa aveva ricevuto la comunicazione dell’annotazione successivamente alla compilazione della domanda di partecipazione alla gara.
Avverso il provvedimento di esclusione della gara, l’invio della comunicazione dell’esclusione all’Autorità di Vigilanza e la prima annotazione da parte della medesima è insorta la ditta interessata, invocandone l’annullamento con contestuale domanda di risarcimento danni.
Il TAR di Roma, dichiarata l’irricevibilità per tardività del ricorso limitatamente alla prima annotazione inserita dall’Autorità di Vigilanza, nel merito ha ritenuto inammissibile l’impugnazione proposta avverso la comunicazione dell’avvenuta esclusione da parte della seconda società stradale all’Authority, atteso che il menzionato atto, avendo natura endoprocedimentale, non appariva immediatamente lesivo né autonomamente impugnabile.
Infatti, ha proseguito il Collegio capitolino, la segnalazione nel casellario informatico non aveva prodotto alcun effetto, se non quello dell’avvio del procedimento presso l’Autorità.
Di conseguenza, l’unico atto conclusivo con valenza provvedimentale era rappresentato dall’eventuale annotazione disposta dalla medesima; al contrario, la semplice segnalazione all’Autorità costituiva una mera comunicazione circa fatti verificatisi o accertati in relazione a una gara, rispetto alla quale potevano derivare effetti pregiudizievoli per l'impresa interessata solo a seguito di annotazione nel Casellario informatico (v., di recente, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 09.02.2011, n. 762).
Passando a esaminare l’impugnazione proposta avverso il provvedimento di esclusione dalla gara, l’adito giudicante ha dichiarato l’infondatezza del gravame.
In proposito, il G.A. ha sottolineato come l’impugnato provvedimento di esclusione non era fondato solo sulla mancata dichiarazione dell’annotazione successivamente inserita dall’Autorità e che, quindi, non risultava ancora conosciuta al momento di presentazione della domanda.
Invero, ha proseguito, l’esclusione dalla gara era stata determinata anche sull’autonoma valutazione della sussistenza del precedente decreto penale di condanna, quale elemento ostativo alla partecipazione alla gara, ai sensi dell’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006, trattandosi di reato considerato incidente sulla moralità professionale.
Tale valutazione, a opinione del Tribunale, non poteva ritenersi né in contrasto con la disposizione dell’art. 38 cit., né irragionevole, trattandosi di decreto penale per reato relativo alla violazione di norme sulla sicurezza dei lavoratori.
Difatti, ha precisato che l'art. 38, comma 1, D.Lgs. n. 163 del 2006, nel testo applicabile al momento dello svolgimento della gara, prevedeva alla lett. c) l’esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi dei soggetti nei cui confronti è stato emesso, oltre al resto, decreto penale di condanna divenuto irrevocabile per reati gravi che incidono sulla moralità professionale.
In argomento, ha ancora richiamato un recente orientamento giurisprudenziale che, in relazione alla cd. “incidenza sulla moralità professionale”, ha evidenziato la rilevanza dell'interesse dell'Amministrazione a non contrarre obbligazioni con soggetti che non garantiscono adeguata moralità professionale in relazione al tipo di contratto oggetto della gara (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 12.04.2007, n. 1723).
A non differente conclusione il Collegio romano è pervenuto in relazione alla nozione di gravità del reato, la quale dev’essere valutata non in relazione alla considerazione penalistica del reato, ma all’interesse dell’Amministrazione al corretto adempimento delle obbligazioni oggetto del contratto.
Conseguentemente, ha ritenuto che la gravità del reato, ai sensi dell’art. 38 cit., non è esclusa dalla lieve pena edittale prevista nella fattispecie penale o dalla natura contravvenzionale del reato, ma dev’essere valutata in relazione all’incidenza del reato sulla moralità professionale (commento tratto da www.ipsoa.it -
TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 07.09.2011 n. 7143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOff limits le note del vigile «poliziotto».
Gli atti posti in essere dalla polizia municipale in funzione di polizia giudiziaria sono sottratti al diritto d'accesso: così ha stabilito il TAR Sardegna, Sez. II, nella sentenza 20.06.2011 n. 638.
Il Tribunale, d'altronde, ha applicato a questa vicenda i principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa in materia, secondo cui non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta all'accesso, in quanto, se la denuncia è presentata dalla Pa nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, non si ricade nell'ambito di applicazione dell'articolo 329 del Codice di procedura penale; tuttavia se la Pa che trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa nell'esercizio della propria istituzionale attività amministrativa, ma nel l'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dal l'ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'articolo 329 del Codice di procedura penale e conseguentemente sottratti all'accesso.
I giudici sardi hanno precisato che ai fini dell'esercizio del l'accesso ai documenti amministrativi, la polizia municipale esercita, rispetto alle opere edilizie abusive, funzioni di polizia giudiziaria, con la conseguenza che gli atti che quest'ultima compie e acquisisce nel l'esercizio di tali funzioni sono assoggettati al regime stabilito dal Codice di procedura penale e al segreto istruttorio di cui all'articolo 329 (articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

CONDOMINIO: Telecamere in un condominio? Dipende da dove puntano.
Il singolo condomino non può autonomamente installare un impianto di videosorveglianza che riprenda parti comuni dell'edificio, neppure a scopo di tutela della sua sicurezza, messa in pericolo da atti vandalici e/o tentativi di effrazione.
Così ha deciso il TRIBUNALE di Varese con la sentenza 16.06.2011 n. 1273, ritenendo che perché possa installarsi legittimamente detto impianto è necessario il consenso espresso di tutti i condòmini.
A seguito di alcuni tentativi di effrazione e di atti vandalici subiti, un condomino, di propria iniziativa, aveva fatto installare un impianto di videosorveglianza con tre telecamere: la prima montata sul pianerottolo del primo piano che inquadrava parzialmente la porta di ingresso di altri condòmini, la seconda che puntava sul portone di accesso al fabbricato e sul garage e l’ultima che riprendeva una vecchia serra. A tale iniziativa reagivano gli altri condòmini, sottoponendo al Tribunale di Varese la descritta situazione e chiedendo di dichiararne l’illegittimità con conseguente rimozione dell’impianto stesso, in via cautelare, sul presupposto che il sistema era destinato a riprendere immagini degli spazi comuni con conseguente violazione della privacy e della riservatezza dei condomini.
La questione giuridica affrontata concerne, in sostanza, la liceità del comportamento di un singolo condomino che, senza previa delibera assembleare, installi, al fine di tutelare la propria personale sicurezza, un impianto di videosorveglianza che riprenda anche aree condominiali comuni, con conseguente sacrificio del diritto alla riservatezza degli altri condomini e di terzi tutelato direttamente dall’art. 2 Cost..
E’ ormai orientamento consolidato che il siffatto comportamento, anche se assunto contro la volontà degli altri comproprietari, non integra il reato di interferenze illecite nella vita privata di cui all’art. 615-bis c.p. in quanto la tutela penale del domicilio è limitata a ciò che avviene in luoghi di provata dimora, non visibili ad estranei.
Ciò soprattutto se gli altri condomini siano a conoscenza dell'esistenza delle telecamere e possano visionarne in ogni momento le riprese: “l’esposizione alla vista di terzi di un'area che costituisce pertinenza domiciliare e che non è destinata a manifestazioni di vita privata esclusive è incompatibile con una tutela penale della riservatezza, anche ove risultasse che manifestazioni di vita privata in quell'area siano state in concreto, inaspettatamente, realizzate” (Cass. pen. 21.10–26.11.2008, n. 44156, Cass. pen. 30.10.2008, n. 40577, Cass. SS. UU. pen. 28.03.2006 n. 26795, Corte costituzionale n. 149/2008).
Non così pacifica è, invece, la valutazione della liceità del descritto comportamento dal punto di vista civile.
La materia sottoposta al vaglio del Tribunale si presenta alquanto spinosa e controversa. Di certo vi è che, nonostante i solleciti provenienti da più parti, manca una disciplina normativa che attui la riserva di legge prevista dall’art. 14 Cost..
In attesa che venga colmata questa lacuna, il Garante per la Privacy è intervenuto più volte per stabilire alcuni punti fermi.
In primo luogo vi è da precisare che l'installazione di tali impianti, se effettuata nei pressi di immobili privati e all'interno di condomìni e loro pertinenze, non è soggetta al Codice in materia di dati personali (D.Lgs. 196/2003) quando i dati non sono comunicati sistematicamente o diffusi. Nonostante ciò, richiede comunque l'adozione di cautele a tutela dei terzi (art. 5, comma 3, del Codice).
In particolare le riprese devono essere limitate esclusivamente agli spazi di propria esclusiva pertinenza (ad esempio quelli antistanti l'accesso alla propria abitazione) escludendo ogni forma di ripresa, anche senza registrazione di immagini, relative ad aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) o antistanti l'abitazione di altri condomini.
Quando invece la ripresa delle aree condominiali è effettuata da più condomini o dal condominio trova applicazione il citato Codice.
L'installazione di questi impianti è ammissibile esclusivamente per assicurare la sicurezza di persone e la tutela di beni da concrete situazioni di pericolo, di regola costituite da illeciti già verificatisi, oppure nel caso di attività che comportano, ad esempio, la custodia di denaro, valori o altri beni (recupero crediti, commercio di preziosi o di monete aventi valore numismatico).
Poiché, ad ogni modo, comporta l'introduzione di una limitazione e comunque di un condizionamento per i cittadini, deve essere rifiutato ogni uso superfluo nonché ogni utilizzazione eccessiva rispetto allo scopo da raggiungere. Scopo che deve essere determinato, esplicito e legittimo e, soprattutto, di pertinenza del titolare dell’impianto.
Per questo motivo possono essere attivati soltanto quando altre misure (ad esempio: controlli da parte di addetti, sistemi di allarme, misure di protezione degli ingressi, abilitazioni agli ingressi) siano insufficienti o inattuabili e, per questo motivo, anche l'installazione meramente dimostrativa o artefatta di telecamere non funzionanti o per finzione, anche se non comporta trattamento di dati personali, può essere legittimamente oggetto di contestazione.
Sulla scorta di tale quadro si è formata una giurisprudenza di merito, non essendovi ancora sul punto pronunce della Suprema Corte, compattamente orientata nel senso che non esiste un potere spettante a ciascun condomino di installare impianti di videosorveglianza, soprattutto se orientati su parti condominiali, in quanto ciò comporta una evidente compressione e lesione del diritto all’altrui riservatezza, non giustificata da un interesse altrettanto forte e ampio, considerando che l’esigenza di tutela possa far capo ad uno solo dei condòmini, mentre il diritto alla riservatezza riguarda tutti gli altri (in tal senso Trib. Nola, sez. II civ., ord. 03.02.2009, Trib. Milano, 06.04.1992).
Condividendo tali assunti, la sentenza in esame, tenuto conto che, nel caso concreto, le telecamere erano state “puntate” non soltanto sulla proprietà esclusiva del condomino installatore ma anche su aree comuni e ritenendo che “il condomino non abbia alcun potere di installare, per sua sola decisione, delle telecamere in ambito condominiale idonee a riprendere spazi comuni o addirittura spazi esclusivi degli altri condomini”, ha qualificato illecito tale comportamento con il conseguente ordine di eliminare le telecamere posizionate.
Ma il Tribunale di Varese si spinge oltre statuendo che neppure l’assemblea condominiale può deliberare l’installazione dell’impianto di videosorveglianza, in quanto lo scopo della tutela dell'incolumità delle persone e delle cose dei condòmini, non essendo finalizzata a servire i beni comuni e concretandosi in una lesione di un diritto fondamentale della persona tutelato direttamente dall’art. 2 Cost., esula dalle attribuzioni dell'assemblea stessa (conforme Tribunale di Salerno ordinanza del 14.12.2010).
Ed infatti “i singoli condòmini non possono giammai sopportare, senza il loro consenso, una ingerenza nella loro riservatezza seppur per il fine di sicurezza di chi video-riprende. Né l’assemblea può sottoporre un condomino ad una rinuncia a spazi di riservatezza solo perché abitante del comune immobile, non avendo il condominio alcuna potestà limitativa dei diritti inviolabili della persona.
Peraltro, nell’ottica del cd. balancing costituzionale, la videoripresa di sorveglianza può ben essere sostituita da altri sistemi di protezione e tutela che non compromettono i diritti degli altri condomini, offrendo quindi un baricentro in cui i contrapposti interessi possono convivere
”.
Pertanto, il sistema di videosorveglianza può essere installato soltanto nel caso in cui la decisione sia deliberata all’unanimità dai condomini, perfezionandosi in questo caso un comune consenso idoneo a fondare effetti tipici di un negozio dispositivo dei diritti coinvolti e, quindi, con il consenso espresso, libero e documentabile per iscritto come prescritto dall’art. 23 del Codice in materia di protezione dei dati personali (23.09.2011 - tratto da www.ipsoa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI - LAVORI PUBBLICIAlla luce dell’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 e alla luce del citato regolamento (ndr: art. 16 del r.d. 11.02.1929, n. 274) regolante i limiti all’esercizio della professione di geometra, poiché la progettazione dei lavori per la mitigazione del rischio idrogeologico costituisce un’opera pubblica di sostanziale importanza, implicante la risoluzione di problemi tecnici di una certa complessità, due dei membri della commissione, geometri del comune, non possono progettare i lavori in questione e conseguentemente non possono essere considerati esperti nello specifico settore oggetto del contratto e idonei a poter valutare con la dovuta cognizione e preparazione i progetti presentati.
Giusta la delicatezza e le specifiche competenze tecniche richieste nel settore del consolidamento delle aree franose, una commissione di gara composta in prevalenza da geometri, privi del necessario titolo di studio attestante il possesso delle specifiche competenze tecniche di tipo geomorfologico, geotecniche, geologiche e idrogeologiche e conseguentemente privi dell’esperienza nel settore, non può considerarsi composta da esperti e pertanto non è idonea selezionare il miglior progetto.
L’amministrazione, nel caso di specie, deve fare applicazione dell’art. 84, comma 8, del d.lgs. n. 163, del 2006, che laddove stabilisce che i commissari siano "selezionati tra i funzionari della stazione appaltante" non ha inteso privilegiare e dare priorità in senso assoluto al requisito dell'inserimento nell'organico dell'ente appaltante rispetto a quello del titolo di studio, il quale, pertanto, deve comunque essere adeguato rispetto alla prestazione oggetto della gara.

Osserva il Collegio, che l’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 prevede che: “La commissione, nominata dall’organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto, è composta da un numero dispari di componenti, in numero massimo di cinque, esperti nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto”.
Il Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza 14.10.2009, n. 6297 ha chiarito che: «I componenti di una Commissione giudicatrice in una gara di appalto devono essere in possesso delle capacità tecniche e professionali adeguate all'importanza dell'appalto. Essi possono essere individuati come i "periti peritorum" della materia sulla quale devono esprimere il loro delicato giudizio, anche in relazione ai concreti aspetti sui quali i medesimi devono formulare il loro giudizio. Ciò al fine di evitare che sussistano, a monte, elementi che inducano in via anticipata i consociati (ed i partecipanti alla gara, soprattutto) a dubitare dell'adeguatezza professionale di chi è chiamato a giudicare comparativamente le proposte aggiudicatarie. Ovviamente, nella impossibilità di saggiare in anticipo ed in concreto la preparazione specifica dei commissari, può farsi riferimento ad alcuni dati che, in via presuntiva, consentano una prognosi tranquillizzante sul punto. Tali dati non possono che essere due: possesso di un titolo di studio adeguato, e pregressa esperienza nel settore».
La necessità del possesso in capo ai commissari dei requisiti tecnici e della professionalità necessaria a formulare un giudizio pienamente consapevole, anche in mancanza di una specifica previsione concernente la composizione nel dettaglio della commissione giudicatrice, costituisce un canone ispirato a criteri di logicità e ragionevolezza e riveste la natura di principio immanente nell'ordinamento generale, che risponde ai criteri di rango costituzionale di buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa (in tal senso cfr. Consiglio Stato, sez. V, 18.03.2004, n. 1408).
Nel caso di specie, relativo all'affidamento della progettazione e direzione dei lavori di mitigazione del rischio idrogeologico, la Commissione giudicatrice era composta da un ingegnere e due geometri. Solo uno dei componenti la commissione, l’ingegnere, rivestiva la qualità di esperto nello specifico settore oggetto dell’appalto. I due geometri dipendenti dell’amministrazione comunale, invece, non avrebbero potuto progettare ciò su cui erano chiamati ed esprimere il proprio giudizio, non potendo essere considerati esperti nella progettazione di lavori di mitigazione del rischio idrogeologico, nel senso richiesto dall’art. 84, comma 2, del codice dei contratti pubblici, in quanto la valutazione di tale attività richiede competenze che eccedono quanto previsto dall’art. 16 del r.d. 11.02.1929, n. 274, recante il regolamento per la professione di geometra, che stabilisce proprio l’ oggetto ed i limiti dell'esercizio di tale professione. In particolare tale regolamento all’art. 16, lett. q), riconosce ai geometri la possibilità di svolgere mansioni di perito comunale, ma solo per le funzioni tecniche ordinarie nei Comuni con popolazione fino a diecimila abitanti, escludendo i progetti di opere pubbliche d'importanza o che implichino la risoluzione di rilevanti problemi tecnici.
Ne consegue che alla luce dell’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 e alla luce del citato regolamento regolante i limiti all’esercizio della professione di geometra, poiché la progettazione dei lavori per la mitigazione del rischio idrogeologico costituisce un’opera pubblica di sostanziale importanza, implicante la risoluzione di problemi tecnici di una certa complessità, due dei membri della commissione, geometri del comune, non avrebbero potuto progettare i lavori in questione e conseguentemente non avrebbero potuto essere considerati esperti nello specifico settore oggetto del contratto e idonei a poter valutare con la dovuta cognizione e preparazione i progetti presentati.
La delicatezza e le specifiche competenze tecniche richieste nel settore del consolidamento delle aree franose era d’altra parte richiesta ai concorrenti nello stesso bando di gara che al punto 4 prevede che i professionisti partecipanti debbano aver maturato un’esperienza riferibile e riconducibile al settore del consolidamento delle aree franose, con particolare riferimento alle attività di progettazione per siti similari. Sicché una commissione composta in prevalenza da geometri, privi del necessario titolo di studio attestante il possesso delle specifiche competenze tecniche di tipo geomorfologico, geotecniche, geologiche e idrogeologiche e conseguentemente privi dell’esperienza nel settore, non poteva considerarsi composta da esperti e pertanto non era idonea selezionare il miglior progetto.
L’amministrazione, quindi, avrebbe dovuto fare applicazione dell’art. 84, comma 8, del d.lgs. n. 163, del 2006, che, come pure osservato dal Consiglio di Stato con la citata sentenza n. 6297 del 2009, laddove stabilisce che i commissari siano "selezionati tra i funzionari della stazione appaltante" non ha inteso privilegiare e dare priorità in senso assoluto al requisito dell'inserimento nell'organico dell'ente appaltante rispetto a quello del titolo di studio, il quale, pertanto, deve comunque essere adeguato rispetto alla prestazione oggetto della gara.
L’art. 84, comma 8, del d.lgs. n. 163 del 2006, in primis prevede che i commissari diversi dal presidente siano selezionati tra i funzionari della stazione appaltante, ma nel caso di accertata carenza in organico di adeguate professionalità e quindi di personale munito del necessario titolo di studio, la scelta deve ricadere tra funzionari di amministrazioni aggiudicatrici, ovvero con un criterio di rotazione tra gli appartenenti alle seguenti categorie:
a) professionisti, con almeno dieci anni di iscrizione nei rispettivi albi professionali, nell’ambito di un elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite dagli ordini professionali;
b) professori universitari di ruolo, nell’ambito di un elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite dalle facoltà di appartenenza.
Per le ragioni esposte, assorbita ogni altra doglianza, atteso ché l’accoglimento della censura relativa alla illegittima composizione della commissione giudicatrice invalida in radice tutti gli atti della procedura di gara e della conclusiva aggiudicazione, il ricorso in epigrafe deve essere accolto e per l'effetto vanno annullati i provvedimenti impugnati (TAR Basilicata, Sez. I, sentenza 17.05.2010 n. 280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 26.09.2011

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UTILITA'

APPALTI: SCHEMA DI LETTERA DI INVITO PER LA PROCEDURA NEGOZIATA (link a www.ancebrescia.it).

APPALTI: CAPITOLATO SPECIALE D’APPALTO - NUOVO SCHEMA PREDISPOSTO DAL COMUNE DI BRESCIA (link a www.ancebrescia.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Il decreto correttivo della "riforma Brunetta": per le fasce di merito applicazione solo col nuovo ccnl (CGIL-FP di Bergamo, nota 21.09.2011).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Aiello, Pozzi neri e gestione illecita (link a www.lexambiente.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P. Briguori, Malattia: per le assenze controlli dal primo giorno (link a www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

APPALTI: P. Corciulo, L'avvalimento (11.07.2011 - link a http://doc.sspal.it).

LAVORI PUBBLICI: P. Corciulo, Il sistema di qualificazione (11.07.2011 - link a http://doc.sspal.it).

APPALTI: P. Corciulo, Il subappalto (11.07.2011 - link a http://doc.sspal.it).

LAVORI PUBBLICI: P. De Rosa, La programmazione nei lavori pubblici (28.02.2011 - link a http://doc.sspal.it).

APPALTI: P. Cena, La gestione del contratto: consegna dei lavori, esecuzione, varianti, riserve, quinto d’obbligo, revisione prezzi, collaudo tecnico ed amministrativo (16.02.2010 e 02.03.2010 - link a http://doc.sspal.it).

ESPROPRIAZIONE: P. Pantuliano, L’espropriazione per pubblica utilità: fasi e presupposti. I nuovi criteri di quantificazione dell’indennità di esproprio. La problematica dell’accessione invertita e gli atti di acquisizione sanante. Il regime speciale dell’occupazione di urgenza. Appropriazione acquisitiva (20.01.2010 e 03.02.2010 - link a http://doc.sspal.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Gare d'appalto e libera concorrenza.
Domanda.
Qual è la portata del principio della libera concorrenza nelle gare d'appalto pubblico?
Risposta.
Nelle gare d'appalto pubblico opera il principio della libera concorrenza. Tale principio trova applicazione, in primo luogo, nella fase della determinazione del contenuto del contratto oggetto di gara (con particolare riferimento all'individuazione delle prestazioni richieste), quindi, in caso di gara per l'affidamento di un appalto di fornitura, sussiste il divieto di introdurre nelle clausole contrattuali specifiche tecniche che indicano prodotti di una determinata fabbricazione o provenienza (art. 68, comma 3, lettera a), del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163).
Divieto che può essere derogato inserendo nel bando la menzione "o equivalente", che è però autorizzata solo quando le Amministrazioni non possano fornire una descrizione dell'oggetto dell'appalto mediante specifiche tecniche sufficientemente precise, o formulando la "lex specialis" in termini funzionali (art. 68, comma 3, lettera b) e lettera c), del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163).
Il principio di equivalenza ha infatti la funzione di garantire e promuovere la maggior apertura concorrenziale tanto nell'ambito del singolo procedimento di affidamento (il che si collega col tradizionale principio del favor partecipationis nelle gare pubbliche), quanto nel generale mercato degli appalti pubblici ed è riconosciuto esplicitamente, sul piano legislativo, dai commi 4 e 7 dell'art. 68 del Codice dei Contratti Pubblici (20.09.2011 - tratto da www.ipsoa.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 22.09.2001 n. 221 "Regolamento recante semplificazione della disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione degli incendi, a norma dell’articolo 49, comma 4-quater , del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122" (D.P.R. 01.08.2011 n. 151).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 22.09.2011 "Approvazione del programma d’azione regionale per la tutela ed il risanamento delle acque dall’inquinamento causato da nitrati di origine agricola per le aziende localizzate in zona vulnerabile" (deliberazione G.R. 14.09.2011 n. 2208).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 21.09.2011, "Approvazione del Documento tecnico di definizione dei criteri per il riconoscimento degli alberi monumentali e indirizzi per la loro gestione e tutela (d.g.r. 1044/2010)" (decreto D.S. 05.08.2011 n. 7502).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 21.09.2011 n. 220 "Modalità applicative e documentazione necessaria per la presentazione della certificazione per il riconoscimento della ruralità dei fabbricati" (D.M. 14.09.2011).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 21.09.2011 n. 220 "Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18.06.2009, n. 69" (D.Lgs. 01.09.2011 n. 150).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORisparmiare gonfia le risorse decentrate.
Le economie di gestione derivanti dall'anno precedente non si computano nel calcolo del tetto massimo del fondo delle risorse decentrate. È dunque possibile che il totale delle risorse decentrate del 2011 risulti in cifra assoluta superiore a quello del 2010, se lo sforamento derivi dall'applicazione dei residui dell'anno 2010.

Il parere 21.07.2011 n. 58 della Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Puglia apre spazi agli enti locali per il computo delle risorse decentrate, fornendo un'interpretazione estensiva alla previsione contenuta nell'articolo 9, comma 2-bis, della legge 122/2010.
Tale disposizione ha previsto il cosiddetto congelamento dell'ammontare delle risorse destinate alla contrattazione decentrata a decorrere dall'01.01.2011 e sino al 31.12.2013. La norma è sin troppo sommaria e laconica. Da un lato non considera che le risorse destinate al salario accessorio sono di due tipi, stabili e variabili e non fornisce la minima indicazione su come il congelamento debba operare.
In termini generali, si può ritenere che il congelamento debba prioritariamente impedire la crescita delle risorse variabili, che in quanto tali sono destinate a finanziare voci di salario del tutto accessorie ed eventuali, così da fare salve le risorse che finanziano, invece, istituti fissi e continuativi facenti parte del trattamento fondamentale individuale (progressioni orizzontali, indennità di comparto, indennità di anzianità e alcune voci peculiari per alcune categorie), ed istituti fissi accessori al salario individuale ma continuativi per l'organizzazione, come le varie indennità di turno, reperibilità, maneggio valori, rischio, disagio e responsabilità di varia natura.
Per altro verso, l'articolo 9, comma 2-bis, non considera che alcune delle risorse variabili sono finanziate da veri e propri giri contabili: è il problema ancora irrisolto della necessità di conteggiare o meno gli incentivi per la progettazione o per il recupero dell'Ici o per l'attività degli avvocati. Si tratta di somme del tutto variabili di anno in anno, in relazione al volume degli appalti progettati e della gestione delle attività e per altro finanziate con risorse fresche, non dal bilancio.
Eppure, l'incertezza sulla possibilità di non computare tali voci per la determinazione del tetto del 2010 è massima. Lo stesso concerne le economie della gestione del fondo. L'articolo 17, comma 5, del Ccnl 01/04/1999 stabilisce: «Le somme non utilizzate o non attribuite con riferimento alle finalità del corrispondente esercizio finanziario sono portate in aumento delle risorse dell'anno successivo». In effetti, assenze per aspettative prolungate, cessazioni dal servizio, mancata erogazione di parte degli incentivi per la produttività possono comportare risparmi di gestione sulle voci di spesa finanziate dal fondo. Poiché, però, si tratta di risorse a destinazione vincolata, cioè finalizzate solo a remunerare il personale e, dunque, non utilizzabili dagli enti ad altro titolo, il contratto collettivo del 1999 ha imposto agli enti di incrementare le risorse dell'anno successivo, in modo che non vadano perdute.
I residui dell'anno precedente, avendo natura del tutto eventuale e variabile, vanno a incrementare la parte variabile del fondo e finanziano istituti a loro volta variabili, come la produttività. L'applicazione dell'articolo 17, comma 5, del Ccnl 01/04/1999 potrebbe determinare lo sforamento del tetto del 2010, se i risparmi dell'anno precedenti fossero per qualsiasi causa piuttosto consistenti.
Secondo la sezione Puglia occorre accogliere la tesi alla luce della quale dal tetto 2010 occorre escludere i residui venutisi a determinare negli anni precedenti. Spiega la sezione che il legislatore, quando ha voluto ancorare le risorse decentrate al «corrispondente importo dell'anno 2010», ha preso in considerazione «un parametro certo», da «intendersi depurato da ogni aggiunta derivante da residui degli anni pregressi». Sicché, secondo il parere «residui 2009, dunque, non potranno essere computati nel calcolo del tetto 2010; ragionando nella medesima direzione, dunque, anche i residui del 2010, da riportare nel 2011, non dovranno essere considerati» (articolo ItaliaOggi del 23.09.2011).

ENTI LOCALI: Sono di competenza esclusiva dell’ente le valutazioni di conformità delle spese per manifestazioni.
Parere - Enti locali - Possibilità del comune di patrocinare una manifestazione locale - Partecipazione alle spese del comitato organizzatore dell’iniziativa - In considerazione dei limiti alle spese per relazioni pubbliche ex legge n. 122/2010 - Divieto sponsorizzazioni - Ammissibilità spese per convegni, mostre, manifestazioni - Nei limiti di spesa previsti dalla legge - Qualificazione in concreto della singola fattispecie è competenza del comune.

Con il parere in rassegna la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per il Piemonte ha dato seguito a un quesito richiesto da un comune sulla possibilità di patrocinare una manifestazione locale e di partecipare alle spese del comitato organizzatore dell’iniziativa, in conformità a quanto previsto all’art. 6, co. 8 e 9, del Dl n. 78/2010. L’articolo richiamato prevede, al comma 8, un limite del 20%, dal 2011, alle spese per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza sostenute nel 2009, mentre al successivo co. 9 sancisce il divieto per le amministrazioni pubbliche di effettuare spese di sponsorizzazione.
La sezione adita ha affermato che spetti solo ed esclusivamente agli organi del comune valutare la conformità della singola attività ai divieti sopra richiamati, i quali, nel relativo provvedimento, dovranno motivare, tenendo conto dei programmi e dei progetti sviluppati nel settore socio-economico locale (oltre a quanto già effettuato negli esercizi precedenti), le finalità e i presupposti che sono alla base della spesa e il rispetto dei criteri di efficacia, efficienza ed economicità nelle modalità di erogazione del servizio.
Pertanto, conclude la Corte dei conti piemontese, è l’ente che è chiamato a valutare la legittimità di una spesa come quella richiamata nel quesito, qualificandola, di volta in volta, come sponsorizzazione (vietata dal comma 9 sopra menzionato) ovvero come relazione pubblica, convegno mostra, pubblicità, rappresentanza o altro (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 14.07.2011 n. 108 - tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 9/2011).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La mobilità di personale tra enti è consentita purché non comporti assunzione di nuovo personale da parte dell’ente cedente.
Parere - Enti locali - Enti non soggetti a patto di stabilità - Trasferimento del dipendente - Conseguente necessità assunzione di personale - Possibilità di assunzione o mobilità esterna - Invariabilità delle spese ed equilibrio di bilancio - Rispetto del limite di incidenza delle spese di personale pari o superiore al 40% delle spese di personale intercorse nell’anno precedente.

Una serie di comuni, non soggetti a patto di stabilità e con un’incidenza delle spese di personale rispetto a quelle correnti inferiore al 40%, hanno formulato alla sezione regionale di controllo per il Piemonte una richiesta di parere in materia di assunzione di personale ai sensi dell’art. 7, co. 8, della L. n. 131/2003. In particolare, il quesito verteva sulla possibilità dell’ente di procedere a un’assunzione, mediante concorso o mobilità esterna, per coprire un posto lasciato vacante da un dipendente a seguito di trasferimento.
Come osservato dalla sezione adita, anche l’ente locale non soggetto a patto di stabilità è tenuto all’osservanza degli obblighi di contenimento della spesa per il personale previsti dalla disciplina generale in materia di assunzioni negli enti locali. Innanzitutto, con riferimento a quanto previsto dal co. 562 dell’articolo unico della L. n. 296/2006, secondo il quale tale tipologia di spesa deve essere mantenuta entro il corrispondente ammontare del 2004, prevedendo, tra l’altro, anche un limite all’assunzione di personale delle cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato intervenute nel precedente anno (come chiarito da pronunce di altre sezioni di controllo, nel limite previsto per l’assunzione di personale derivante da cessazione di rapporti di lavoro, devono essere ricomprese tutte le vacanze che si sono verificate a seguito dell’entrata in vigore della norma in questione).
Pertanto, anche a seguito dello svolgimento del turn over, l’ente è tenuto ad assicurare l’obiettivo previsto dalla norma e cioè l’invarianza della spesa per il personale come condizione per mantenere l’equilibrio di bilancio. Con riferimento, invece, alle cessazioni che hanno avuto luogo nel 2010, è operante dall'01.01.2011 il divieto per tutti gli enti (indipendentemente se siano sottoposti o meno a patto di stabilità) di procedere ad assunzioni di personale, a qualsiasi titolo e con qualsiasi tipologia contrattuale, nel caso in cui le relative spese siano pari o superiori al 40% delle spese correnti.
Inoltre, per quanto riguarda i limiti di spesa previsti al co. 9 dell’art. 14 del Dl n. 78/2010, la sezione osserva come, sulla base di un orientamento generale delle sezioni riunite della Corte, non trova applicazione, per i comuni con meno di 5.000 abitanti, il limite delle assunzioni al 20% della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente.
Tornando al quesito richiesto nel parere, la Corte dei conti piemontese ha affermato che relativamente agli enti sottoposti a regime vincolistico debba trovare applicazione l’art. 1, co. 47, della L. n. 311/2004, secondo il quale, in vigenza di un regime di limitazione della assunzioni di personale a tempo indeterminato, sono consentiti trasferimenti per mobilità, anche intercompartimentale, tra amministrazione sottoposte a regime di limitazione, a condizione che le stesse abbiano rispettato il patto di stabilità interno per l’anno precedente e purché tale trasferimento abbia luogo tra enti sottoposti a vincoli in materia di assunzioni a tempo indeterminato.
Soltanto in tal caso, continua la sezione, la mobilità non è qualificabile come assunzione poiché la modalità di trasferimento così azionata costituisce un’operazione neutra per l’amministrazione. Infatti, l’ente ricevente non è tenuto a imputare tale ingresso alla quota di assunzioni previste, e resta, pertanto, libero di effettuare un numero di assunzioni compatibile con il regime vincolistico e con le vacanze residue di organico. Ovviamente, una tale situazione è possibile soltanto laddove l’ente cedente non proceda a sua volta all’instaurazione di nuove assunzioni per la sostituzione del personale trasferito. In tal caso, conclude la Corte, non si farebbe altro che autorizzare l’ingresso dall’esterno di un numero di dipendenti maggiori di quello complessivamente consentito (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 14.07.2011 n. 107 -
tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 9/2011).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: LA PROCEDURA NEGOZIATA SENZA PREVIA PUBBLICAZIONE DI BANDO DI GARA: LE IMPORTANTI INDICAZIONI OPERATIVE DELL' AUTORITA' DI VIGILANZA.
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PREMESSA. IL COTTIMO FIDUCIARIO.
Come noto, l'articolo 57 del Codice dei contratti pubblici (D.Lgs n. 163/2006), in conformità all'articolo 31 della direttiva 18/2004, disciplina la procedura negoziata senza pubblicazione di un bando di gara. Tale procedura presenta due precisi caratteri: è facoltativa, come la negoziata con previo bando, ed è assoggettata ad un minimo di regole procedimentali (obbligo di motivazione, rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza e rotazione).
Per quanto riguarda l'obbligo di motivazione, occorre segnalare che esso appare più corposo in tale procedura, rispetto alla negoziata con previo bando. Infatti, il comma 1°, dell'articolo 57 prevede che le stazioni appaltanti possono aggiudicare contratti pubblici mediante procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara nelle ipotesi seguenti, “dandone conto con adeguata motivazione nella delibera o determina a contrarre”.
Dunque, un'espressa richiesta di motivazione, che manca, invece, nella disciplina dell' altra fattispecie. Occorre, poi, rilevare che la procedura negoziata senza previa pubblicazione di bando, relativamente al settore lavori sotto soglia, presenta due particolari tipologie applicative, disciplinate dall' articolo 122, comma 7° (affidamenti sino ad € 100.000,00) e comma 7°-bis (affidamenti da € 100.000,00 ad € 500.000,00).
Proprio in relazione a tale seconda tipologia, è intervenuta l'Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici, con la recente
determinazione 06.04.2011 n. 2, contenente importanti chiarimenti, particolarmente apprezzabili per quanto concerne il cottimo fiduciario e le concrete modalità di svolgimento della procedura.
In via preliminare, l'Autorità pone in evidenza la grande diffusione, presso tutte le stazioni appaltanti, del modello di negoziata in esame. Infatti, mentre nel 2008, il ricorso alle procedure negoziate, con o senza bando, era pari 16,8% del totale degli affidamenti, nel 2009 il solo ricorso alla negoziata senza bando è stato pari al 33,4%. Un più che vistoso incremento, pari al 327%, che viene giustamente collegato, dall'Autorità medesima, all'introduzione della negoziata sino ad € 500.000,00, operata con la legge n. 201/2008, che ha inserito, all'interno dell' articolo 122 del Codice, il novello comma 7°-bis: “i lavori di importo complessivo pari o superiore a 100.000 euro e inferiore a 500.000 euro possono essere affidati dalle stazioni appaltanti, a cura del responsabile del procedimento, nel rispetto dei principi di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza, e secondo la procedura prevista dall' articolo 57, comma 6; l'invito è rivolto ad almeno cinque soggetti, se sussistono aspiranti idonei in tale numero”.
Giova ricordare la specifica ratio, posta a fondamento della novella disposizione normativa. Si tratta di una duplice finalità: a) fronteggiare la crisi attualmente esistente nel settore delle opere pubbliche; b) semplificare le procedure di gara, in riferimento agli appalti di lavori sotto soglia comunitaria. Al riguardo, occorre ricordare che l'Autorità, sul finire dello scorso anno, ha posto in essere un'indagine, che, sostanzialmente, è stata accolta e vista come un “attacco”, seppur legittimo, alla procedura negoziata senza bando. Precisamente, l'Autority ha contestato a diverse Amministrazioni Comunali di grosse dimensioni un eccessivo ed illegittimo ricorso alla negoziata senza bando e, talora, persino all' affidamento diretto, in carenza dei necessari presupposti di legge.
L'Autorità ha evidenziato che la procedura negoziata, “a conti fatti, costa, a parità di servizi erogati e di lavori eseguiti, almeno l'8 per cento in più. Tradotto in euro significa ogni anno uno spreco di 1 miliardo e 748 milioni”. Dunque, la procedura negoziata è sempre al centro dell' attenzione dell' Autorità! Come già si anticipava, l'Autorità fornisce un prezioso contributo per la corretta comprensione del “cottimo fiduciario”.
Al riguardo, occorre segnalare che già il Codice, in ben due occasioni, chiarisce che il cottimo fiduciario è una procedura negoziata, cioè una peculiare tipologia di negoziata, quale definita dal comma 40°, dell'articolo 3 del Codice, che ci fornisce la nozione generale: “le procedure negoziate sono le procedure in cui le stazioni appaltanti consultano gli operatori economici da loro scelti e negoziano con uno o più di essi le condizioni dell'appalto. Il cottimo fiduciario costituisce procedura negoziata”. La giurisprudenza ha, da tempo, chiarito che “il cottimo fiduciario non può ricondursi ad una semplice attività negoziale di diritto privato priva di rilevanza pubblicistica. Le regole procedurali anche minime, che l'amministrazione si dia per concludere il cottimo fiduciario, implicano il rispetto dei principi generali di imparzialità, correttezza, buona fede, logicità coerenza della motivazione etc.”.
Tuttavia, nella concreta prassi delle stazioni appaltanti si rinvengono moduli comportamentali, non in linea con tali disposizioni ed indirizzi. Modelli di condotta e concreti atti, che tradiscono una concezione distorta dell' istituto, soprattutto per quel che concerne la scelta dei soggetti da invitare alla gara e le modalità di svolgimento della medesima.
A tal riguardo, l'Autorità, pregevolmente, chiarisce quanto segue:
a) il cottimo fiduciario non può ricondursi ad una semplice attività negoziale di diritto privato, priva di rilevanza pubblicistica.
b) il cottimo fiduciario è un vero e reale procedimento di scelta del contraente e non, come erroneamente ritenuto in passato “una particolare modalità di retribuzione di una prestazione ricompresa in un contratto di lavoro subordinato o autonomo, stipulato attraverso una libera contrattazione della Pubblica Amministrazione con soggetti privati”.
c) conseguentemente, devono essere osservate regole procedurali che, seppur minime e semplificate, siano idonee a garantire il rispetto dei principi generali di imparzialità, correttezza, buona fede, logicità e coerenza della motivazione .
d) la disciplina deve essere rinvenuta, oltre che nell'articolo 125, anche all' interno del Codice medesimo. Ciò consente, fra l'altro, di non ritenere corretta una prassi applicativa dell' istituto che dia luogo a distorsioni anti-concorrenziali, in chiara violazione della disciplina codicistica e dei suoi principi.
e) a conferma di ciò, va rilevato che l'articolo 331 del nuovo regolamento attuativo, stabilisce che le stazioni appaltanti devono assicurare, comunque, che le procedure in economia (che sono procedure negoziate) avvengano nel rispetto del principio della massima trasparenza, contemperando altresì l'efficienza dell'azione amministrativa con i principi di parità di trattamento, non discriminazione e concorrenza tra gli operatori economici.
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LA DISCIPLINA DELLA NEGOZIATA SENZA PREVIO BANDO.
L'Autorità effettua, in relazione alla negoziata senza pubblicazione di bando, procedura che è prevista per il sopra soglia e per il sotto soglia , un' analisi molto attenta, idonea a chiarire numerose “zone d' ombra” .
In relazione all'affidamento dei lavori di importo sino ad € 100.000,00 (art. 122, comma 7°), l'Autorità afferma che, qualora non sussistano particolari ragioni d'urgenza nell' esecuzione dei lavori, “appare preferibile il ricorso all' articolo 57, comma 6° e, quindi, l'invito rivolto ad almeno tre operatori economici”, osservando i principi comunitari di trasparenza, concorrenza, rotazione, rispetto ad un affidamento diretto. Si tratta di un'asserzione importante, in quanto la disposizione normativa non contiene alcuna procedura, ne contempla alcun rinvio, diversamente dal successivo comma 7-bis.
In ragione di tali omissioni, sussiste tuttora il dubbio se debba, comunque, applicarsi la disciplina della “negoziata mediante gara informale”, oppure la generale procedura della “negoziata pura”, di cui al comma 40°, dell'articolo 3, del Codice: consultazione degli operatori economici scelti dalla stazione appaltante e negoziazione, con uno o più di essi, delle condizioni dell'appalto. Orbene, l'Autorità, pur non prendendo una posizione definitiva, esprime una chiara preferenza: va indetta una gara informale ad inviti.
In relazione all'affidamento dei lavori di importo da € 100.000,00 sino ad € 500.000,00 (art. 122, comma 7°-bis), l'Autorità evidenzia l'importanza dei principi richiamati: non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza. In particolare, in riferimento al principio di parità di trattamento, viene precisato che il medesimo vieta non solo le discriminazioni palesi, ma anche qualsiasi forma di discriminazione dissimulata. Di conseguenza, la stazione appaltante non deve consentire, ad alcuno dei concorrenti in gara, di godere di informazioni privilegiate o di condizioni vantaggiose in sede di presentazione dell'offerta.
In questo senso, va ribadito che tutti gli operatori economici che prendono parte alla selezione devono essere invitati contemporaneamente a presentare le loro offerte e che le lettere di invito devono contenere le medesime informazioni in relazione alla prestazione richiesta”. Ad avviso dell'Autorità, trova applicazione il principio di rotazione, seppur non formalmente richiamato nel comma 7°-bis. Ciò, in ragione della necessità di evitare che la stazione appaltante possa consolidare rapporti solo con alcune imprese, violando, in tal modo, il fondamentale principio di concorrenza. Fra l'altro, la recente giurisprudenza ha già rilevato l'esigenza di rispettare, in tale procedura negoziata, un meccanismo di rotazione fra le imprese.
Per quanto concerne l'obbligo di motivazione, si fa rilevare che il ricorso alla negoziata “è legittimato dal legislatore sulla base dell' importo”. Ad ogni modo, l'AVCP sembra chiedere un minimo di “sforzo motivazionale” in più, in quanto segnala che “le norme di cui all' articolo 122 del Codice soggiacciono, comunque all'applicazione dei principi generali del diritto amministrativo: la stazione appaltante nella delibera a contrarre fornisce una spiegazione delle ragioni che l' hanno indotta a preferire tale procedura, atteso che il dettato normativo (cfr. articolo 122, comma 7-bis) esprime a riguardo una possibilità, non certo un obbligo di utilizzo della procedura negoziata”. Impegno motivazionale che, comunque, non deve essere confuso con la verifica di sussistenza di diversi presupposti applicativi, quali quelli previsti dagli articoli 56 e 57 del Codice.
Per quanto riguarda le modalità di individuazione degli operatori economici da consultare, per poi procedere alla “gara ad inviti”, l'Autorità ricorda la stringente necessità di distinguere fra “indagine di mercato” e successiva “gara informale ad inviti”. La prima è preordinata, esclusivamente, a conoscere l'assetto del mercato, cioè i possibili potenziali offerenti ed il tipo di condizioni contrattuali, che essi sono in gado e disposti a praticare, senza alcun vincolo in ordine alla scelta finale. Viceversa, la gara informale implica anche una valutazione comparativa delle offerte, comportando, per la stazione appaltante, l'obbligo dell' osservanza dei principi di "par condicio" e trasparenza nelle lettere di invito. In altri termini, l'indagine di mercato è finalizzata ad acquisire “conoscenze”, mentre la gara informale è diretta ad individuare il miglior contraente.
Le concrete modalità di svolgimento dell'indagine di mercato, ad avviso dell' AVCP, possono essere le seguenti:
a) avviso preventivo;
b) elenchi aperti di operatori economici, da non confondere con i vietati albi di fiducia.
Tali modalità appaiono pienamente in linea con il nuovo regolamento, il quale, all'articolo 332, comma 1°, prevede, appunto, che i soggetti da consultare, nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione e parità di trattamento, sono individuati sulla base di indagini di mercato, ovvero tramite elenchi aperti di operatori economici. Le indagini di mercato, effettuate dalla stazione appaltante, possono avvenire anche tramite la consultazione dei cataloghi elettronici del mercato elettronico, propri o delle amministrazioni aggiudicatici.
L'Autorità afferma che il principio di trasparenza impone di fornire, a chi vi abbia interesse e ne faccia richiesta, informazioni sulla procedura, in modo tale da consentire la presentazione di eventuali richieste di invito alla gara informale. Si tratta di una tesi molto condivisibile, in quanto costituisce esplicazione della teoria della “responsabilità da contatto amministrativo”, che prende le mosse dalla nota sentenza delle SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione n. 500 del 1999, in tema di risarcibilità degli interessi legittimi. Secondo tale teoria, dal contatto, più o meno formale, tra cittadino e PA nascono obbligazioni di protezione a carico della PA ed a garanzia del cittadino; obbligazioni che, ove inadempiute, davano luogo ad una responsabilità di carattere contrattuale. Di conseguenza, appare possibile affermare che, a seguito di un'espressa istanza, la stazione appaltante deve fornire informazioni in merito ad una gara informale in corso di elaborazione ed invitarla, se espressamente richiesto.
Infine, per quanto concerne i criteri di scelta delle imprese da invitare alla gara informale, l'Autorità ritiene possibili i seguenti:
a) le esperienze contrattuali, registrate dalla stazione appaltante nei confronti dell' impresa richiedente l'invito o da invitare, purché venga rispettato il principio della rotazione .
b) l'idoneità operativa delle imprese rispetto al luogo di esecuzione dei lavori.
c) il sorteggio.
Al riguardo, occorre osservare che, secondo un indirizzo maggioritario , la stazione appaltante deve invitare le imprese, che abbiano presentato un'espressa richiesta. Ad ogni modo, aderendo ad una condivisibile ottica garantistica, l'Autorità segnala che la stazione appaltante deve, in ogni caso, indicare nella determina a contrarre i criteri, che saranno utilizzati per l'individuazione delle imprese da invitare (tratto dalla newsletter di www.centrostudimarangoni.it - link a www.autoritalavoripubblici.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - VARIFABBRICATI RURALI/ Accatastamento senza affanno. Istanza entro il 30, poi 15 giorni per consegnare le carte. Circolare del Territorio sul passaggio alle nuove categorie A6 e D10.
Accatastamento senza affanni: per l'ottenimento della categoria specifica dei fabbricati rurali è obbligatorio il rispetto della scadenza imminente del prossimo 30 settembre. Entro tale data va redatta e compilata l'istanza con una specifica applicazione web. Ma l'invio della documentazione cartacea agli uffici può avvenire entro il 15/10/2011.
Questo ciò che emerge dalla lettura del comunicato stampa, datato 21 settembre scorso, e della circolare 22.09.2011 n. 6/2011, scaricabile dal sito dell'Agenzia del territorio, all'indirizzo www.agenziaterritorio.gov.it.
Come già indicato (Italia Oggi, 22-23/09/2011), nella Gazzetta Ufficiale n. 220 del 21 settembre scorso è stato pubblicato il decreto del ministero dell'economia e delle finanze del 14/09/2011, previsto dal comma 2-quater, dell'art. 7, dl n. 70/2011, convertito con modificazioni nella legge n. 106/2011 e avente a oggetto il riconoscimento della ruralità dei fabbricati, di cui ai commi 3 (abitativi) e 3-bis (strumentali), dell'art. 9, dl n. 557/1993 e successive modificazioni e integrazioni.
Con il provvedimento sono stati forniti gli indirizzi per ottenere l'assegnazione delle categorie «A/6» (abitativi) e «D/10» alle costruzioni rispettose dei requisiti di ruralità, attraverso la presentazione di una domanda accompagnata da una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, di cui al dpr n. 445/2000.
È proprio sulla modalità di presentazione delle istanze che si sono concentrate le maggiori perplessità, soprattutto per le numerose casistiche presenti sul territorio nazionale, non contemplate dalle disposizioni richiamate, ma neppure nel decreto dello scorso 14 settembre e nella circolare in commento.
Posto il rispetto della scadenza fissata (30/09/2011), l'interessato, anche con l'ausilio di professionisti o delle associazioni agricole delegate, deve inviare la domanda di variazione in due distinte modalità, del tutto autonome; la prima, totalmente su supporto cartaceo, comprensiva delle autocertificazioni (conformi ai modelli B e C allegati al decreto, pena diniego della variazione) mediante consegna diretta agli uffici, tramite servizio postale (con raccomandata a.r.), tramite fax o mediante posta elettronica certificata (Pec), in duplice originale, la seconda, con sviluppo in due fasi, che vede, in prima battuta, la compilazione e la stampa della domanda in modalità informatiche (si digita il codice fiscale), con assunzione (in automatico) di un codice identificativo e, in seconda battuta, l'invio dei documenti cartacei, comprese le autocertificazioni di sussistenza dei requisiti.
Sul punto, il Territorio (§ 3, circolare n. 6/T/2011) dichiara che, nel caso di utilizzo della «procedura informatica», la domanda «_ è considerata tempestiva a condizione che venga presentata all'ufficio, con una delle modalità sopraindicate, entro 15 giorni dalla data di acquisizione nel sistema informatico dei dati contenuti nella stessa domanda _»; ciò dovrebbe significare, condizionale d'obbligo, che se il proprietario (o titolare di diritti reali) o il suo delegato predispone la domanda utilizzando la procedura posta sul sito web, lo stesso ha tempo fino al prossimo 15 ottobre per inoltrare, con i mezzi indicati (fax, raccomandata, Pec ecc.), la documentazione cartacea a supporto di quanto già comunicato.
Con riferimento alla presentazione delle dichiarazioni delle nuove costruzioni per i quali sussistono i requisiti di ruralità, l'Agenzia del territorio ha reso possibile la presentazione mediante la procedura ordinaria (Docfa), allegando le relative autocertificazioni, o la presentazione di uno specifico «Docfa», finalizzato all'assegnazione delle categorie rurali, in tutte le situazioni non contemplate dal decreto dello scorso 14 settembre, utilizzando la causale «Altro» e comunicando tutte le informazioni utili al classamento automatico (consistenza, superficie ecc.).
Per quanto concerne il requisito inerente il possesso quinquennale dei requisiti di ruralità, il documento di prassi in commento (§5) chiarisce che qualora il fabbricato sia stato posseduto dal soggetto dichiarante per meno di cinque anni, l'autocertificazione prevede la possibilità di integrare la stessa con ulteriore autocertificazione, resa dai precedenti titolari dei diritti reali o dagli eredi, attestante il possesso dei medesimi requisiti per i periodi non coperti; sul punto, attenzione a quanto prescritto dall'art. 76, dpr n. 445/2000, in presenza di attestazioni false o mendaci.
Per quanto concerne la verifica del possesso dei requisiti di ruralità di cui all'art. 9, dl n. 557/1993, la circolare (§ 7) ricorda che l'Agenzia è legittimata a verificare la corrispondenza dei requisiti alle attestazioni rilasciate, anche acquisendo, presso tutti gli archivi delle amministrazioni competenti, comprese le banche dati gestite dai comuni, tutte le informazioni necessarie, utilizzando i dati indicati in albi, elenchi e pubblici registri, ma facendo riferimento, poiché ritenute sempre valide, alle indicazioni fornite a suo tempo con la circolare 7/T/2007 (articolo ItaliaOggi del 24.09.2011).

NEWS

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - RIPRISTINO DEL SISTRI A PARTIRE DAL 09.02.2012 (link a www.ancebrescia.it).

ENTI LOCALI - VARIFABBRICATI RURALI/ Variazione catastale via internet. Domande (senza bollo) accompagnate da un atto notorio. La previsione contenuta nel decreto del Mineconomia del 21/09/2011.
Al via la presentazione, esclusivamente in modalità informatica e in esenzione da imposta di bollo, delle domande di variazione catastale delle costruzioni rurali, sottoscritte dai proprietari o dai titolari dei diritti reali, accompagnate da una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, attestante il possesso quinquennale dei relativi requisiti.
È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dello scorso 21 settembre, il decreto 14/09/2011 del ministero dell'economia e delle finanze, previsto dal dl 70/2011 (cosiddetto «decreto sviluppo») che reca le modalità per ottenere la variazione della categoria catastale dei fabbricati rurali, che rispettano i requisiti, di cui al comma 3 (abitativi) e 3-bis (strumentali), dell'art. 9, dl n. 557/1993 (ItaliaOggi di ieri).
Il decreto, atteso ed emanato a ridosso della scadenza prescritta dai commi da 2-bis a 2-quater, dell'art. 7, dl n. 70/2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 106/2011, indica le modalità di presentazione delle domande per ottenere la categoria catastale A/6 (abitativi) e D/10 (strumentali) delle costruzioni rurali; sul punto viene istituita anche la classe «R» per gli abitativi, senza attribuzione della rendita, mentre per la categoria D/10, la rendita sarà attribuita per stima diretta, ai sensi dell'art. 30, del dpr 1142/1949.
Come si evince chiaramente dal provvedimento in commento, per i fabbricati già censiti in catasto in altra categoria e in possesso dei requisiti di ruralità da almeno un quinquennio (2005), il proprietario o il titolare di diritti reali potrà presentare un'istanza ad hoc, allegando un'autocertificazione attestante il possesso dei requisiti, prescritti dall'art. 9, dl n. 557/1993 (abitazione destinata all'agriturismo, utilizzata dal conduttore del fondo, utilizzata dal socio di società agricola Iap, immobile strumentale ecc.), redatta in conformità dei modelli allegati al decreto (A, B e C).
La domanda deve essere compilata e stampata con la particolare procedura messa a disposizione dal Territorio, corredata dell'autocertificazione attestante il possesso dei requisiti, e presentata agli uffici periferici entro prossimo 30 settembre, dovendo ritenere valide quelle presentate entro 15 giorni dalla data di acquisizione nel sistema; l'applicazione, scaricabile dal sito dell'agenzia (www.agenziaterritorio.gov.it), consente la compilazione e la stampa della domanda con modalità informatiche, con l'attribuzione di uno specifico codice identificativo, a conferma dell'acquisizione dei dati a cura del sistema.
Nei modelli, conformi a quelli allegati al decreto, devono essere indicati i dati del richiedente (proprietario o rappresentante legale) e dei fabbricati (tra gli altri, comune catastale, codice comune, sezione, foglio, particella, sub e categoria), nonché i vani catastali, se l'unità abitativa è censita al catasto edilizio urbano, i metri quadrati, la categoria di lusso, il titolo di possesso, se l'abitazione è utilizzata dal conduttore del fondo, e, soprattutto, il tipo catasto (terreni e/o edilizio urbano); l'inserimento del codice «T», quale tipo di catasto (terreni), fa presumere la possibilità di procedere all'attribuzione della categoria anche per quei fabbricati censiti ancora al catasto terreni.
Infatti, mentre per quanto concerne le costruzioni rurali che perdono i requisiti di ruralità, il decreto dispone l'obbligo di presentazione della variazione con il sistema ordinario (Docfa), niente viene disposto esplicitamente per i fabbricati ancora censiti nel catasto terreni, con la conseguenza che, per questi ultimi, resta da valutare l'opportunità di procedere all'accatastamento, con contestuale richiesta di classamento nelle categorie prescritte, al fine di non vedersi aggredire dagli enti impositori per gli anni ancora accertabili, stante l'assenza di una categoria specifica.
Sul punto, inoltre, è opportuno confermare che l'autocertificazione deve contenere la dichiarazione che l'immobile rispetta i requisiti di ruralità dal quinto anno precedente a quello di presentazione, con l'eccezione dei fabbricati di nuova costruzione o oggetto di interventi edilizi, comunque in possesso dei medesimi requisiti.
La domanda di variazione deve essere sottoscritta dal proprietario e dal titolare di diritti reali (usufrutto, uso ecc.), presentata dallo stesso o da un professionista o associazione di categoria delegata, mentre l'autocertificazione, conforme al modello allegato al provvedimento, deve essere sottoscritta dal medesimo richiedente, ai sensi del dpr n. 445/2000.
Da parte degli uffici provinciali del Territorio «_ viene fatta menzione (_), mediante apposita annotazione, con riferimento ad ogni unità immobiliare interessata, dell'avvenuta presentazione delle domande di variazione_»; in assenza dei requisiti, il mancato riconoscimento sarà notificato con atto motivato agli stessi richiedenti, che potranno impugnare lo stesso diniego presso le commissioni tributarie provinciali, ai sensi del dlgs. n. 546/1992 (articolo ItaliaOggi del 23.09.2011).

ENTI LOCALIMANOVRA BIS/ Mini-enti, corsa a stare insieme. Entro fine anno devono associare almeno due funzioni. Un vademecum per i comuni alle prese con la scelta tra unione o convenzione.
I piccoli comuni devono effettuare subito tutte le scelte sulla gestione associata, mettendo in moto i relativi procedimenti: hanno infatti poco più di tre mesi per dare corso concreto alla attivazione della gestione associata.
Infatti, entro il 31 dicembre di quest'anno i comuni con popolazione compresa tra 1.000 e 5.000 abitanti devono gestire in forma associata almeno due delle sei funzioni fondamentali e le restanti 4 dovranno essere gestite in tale forma entro il 2012. Le forme di gestione associata previste dal legislatore sono solamente le unioni dei comuni e le convenzioni, con una preferenza per la prima.
Il legislatore non chiarisce se le superstiti comunità montane, in quanto parificate alle unioni dei comuni dal dlgs n. 267/2000, possono essere destinatarie della gestione associata, anche se la risposta deve essere positiva alla luce della natura di tale soggetto.
Queste disposizioni si applicano anche nelle regioni a statuto speciale, ma con tempi più lunghi, in quanto la legge n. 148/2011, di conversione del dl n. 138, cd manovra di Ferragosto, espressamente stabilisce che tale applicazione coincida con l'entrata in vigore in tali regioni delle disposizioni sul cd federalismo fiscale, quindi se ne parla nel 2015.
I comuni devono in primo luogo istituire le unioni dei comuni o, laddove esistenti, devono decidere quali funzioni fondamentali assegnare a esse e quali invece gestire tramite convenzioni. Si deve ricordare che per la costituzione delle unioni e per il loro funzionamento si applicano le regole dettate dall'articolo 32 del dlgs n. 267/2000: disposizioni specifiche sono dettate dalla stessa manovra di Ferragosto unicamente per quelle che saranno costituite tra i comuni aventi popolazione inferiore a 1.000 abitanti.
Nella scelta delle modalità di gestione associata i singoli comuni devono ricordare che essi hanno sicuramente ampia autonomia tra la delega alla unione e l'attivazione di convenzioni. Ma tale autonomia può essere esercitata solamente tra le sei funzioni fondamentali e non nell'ambito della stessa.
Cioè, per fare un esempio, se il comune decide di delegare la funzione relativa ai servizi sociali alla unione, potrà decidere di svolgere la funzione relativa al governo del territorio tramite convenzione con altri municipi, ma non potrà decidere che il servizio di assistenza domiciliare agli anziani (che è una attività che è compresa nei servizi sociali) venga esercitata in modo diverso da come viene gestita la restante parte della funzione.
Il che in numerosi casi, in particolare se attualmente sono in piedi convenzioni con soggetti diversi per la gestione di singoli servizi compresi in una stessa funzione, può determinare problemi applicativi.
Tali problemi si determinano sicuramente nell'ambito dei servizi sociali se gli stessi sono gestiti con soggetti diversi, per esempio in parte in forma singola e in parte in forma associata.
Tali problemi si determinano per esempio nella stragrande maggioranza dei casi per le convenzioni relative ai segretari comunali.
Non vi è alcun dubbio infatti che questa attività possa essere compresa tra la funzione fondamentale di amministrazione, gestione e controllo per una quantità di risorse non inferiore al 70% di quelle dell'ente.
Il che determina la conseguenza che i singoli enti non potranno più stipulare convenzioni per le gestioni associate della sola segreteria comunale, ma dovranno fare rientrare tali intese nell'ambito della scelta che più complessivamente riguarda tale intera funzione (che ha un ambito peraltro assai vasto e per molti aspetti residuale, essendone la caratteristica essenziale costituita dalla ampiezza delle risorse che devono essere interessate), con la conseguenza che se i comuni sceglieranno la gestione associata tramite unione non potranno essere attivate convenzioni di segreteria.
Insieme al trasferimento della gestione della funzione alla unione i singoli comuni devono provvedere al trasferimento del personale e a tutte le misure conseguenti. In primo luogo, occorre rideterminare la dotazione organica, in modo da cancellare tali posti in quanto non più necessari. Ovviamente nel caso in cui l'ente nei prossimi anni dovesse scegliere un'altra forma di gestione associata ha il diritto e la possibilità di riassumere il personale oggi trasferito alla unione, previa rideterminazione in aumento della propria dotazione organica.
E ancora, le amministrazioni devono tagliare il fondo per la contrattazione decentrata nella stessa misura del trattamento accessorio in godimento effettivo da parte del personale che è stato trasferito alla unione dei comuni. In tale ambito si deve considerare che uno dei problemi che in molte realtà si pone è quello della scelta del responsabile della gestione del servizio, che non potrà che essere uno solo, mentre attualmente abbiamo responsabili per ognuno dei singoli comuni: in altri termini si determina la necessità di un taglio, operazione che non è affatto facile da realizzare in concreto.
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Il modello.

Così lo schema di convenzione per la gestione associata.
Convenzione per l'affidamento della gestione di una funzione fondamentale all'Unione dei comuni.

Le amministrazioni comunali di _ al fine di dare attuazione alle prescrizioni di cui all'articolo 14, comma 32, per la gestione associata tra i comuni aventi popolazione compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti convengono tra loro e con la unione dei comuni _ quanto segue:
Articolo 1
Le amministrazioni comunali di ... e la unione dei comuni di _ stipulano una convenzione per la gestione associata della/e seguente/i fondamentali _. per come individuate dalla legge n. 42/2009. Le amministrazioni sono state autorizzate alla stipula della presente convenzione con le seguenti deliberazioni assunte dai consigli comunali:
1) comune di _, deliberazione del consiglio comunale n. _ del _;
2) comune di _, deliberazione del consiglio comunale n. _ del _,
La unione dei comuni di ... è individuata come soggetto capofila a cui viene attribuita la gestione associata della funzione di cui alla presente convenzione.
Per la gestione di tutte le altre funzioni fondamentali di cui alla legge n. 42/2009, cd federalismo fiscale, i singoli comuni provvedono attraverso convenzioni con altri municipi sulla base delle previsioni di cui all'articolo 30 del dlgs n. 267/2000. Nell'ambito della funzione sono individuati in modo esemplificativo i seguenti servizi ...
L'attribuzione di tale funzione alla unione ha durata permanente e determina il trasferimento della titolarità della stessa. Con cadenza annuale il presidente della unione convoca i sindaci dei comuni aderenti per verificare l'andamento della gestione e avanzare proposte per il suo miglioramento. I comuni possono motivatamente deliberare il recesso dalla presente convenzione; esso produce i suoi effetti a partire dal 31 dicembre dell'anno successivo a quello in cui viene deliberato.
Articolo 2
La gestione associata di cui alla presente convenzione ai seguenti obiettivi:
a) garantire il miglioramento della qualità delle prestazioni svolte;
b) estendere la tutti i comuni a concreta applicazione dei seguenti servizi/attività _;
c) contenere la spesa per la gestione di tali servizi;
d) sviluppare la crescita professionale del personale impegnato.
Articolo 3
La responsabilità della gestione associata è affidata all'unione dei comuni. Essa prevede che sia costituito uno specifico ufficio. La responsabilità di tale ufficio sarà attribuita con provvedimento del presidente della unione e avrà una durata annuale. Le relative regole sono contenute nel regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi della unione. Il responsabile viene individuato come titolare di posizione organizzativa e ad esso si applicano le regole di cui agli articoli da 8 a 11 del Ccnl 31/03/1999, nonché tutte le disposizioni contrattuali dettate per queste figure.
La unione ridetermina la propria dotazione organica in relazione alla esigenza di garantire il migliore svolgimento della funzione. La sua consistenza non può superare quanto previsto dalla somma delle dotazioni dei singoli enti; tale cifra può essere superata esclusivamente se vengono attivati servizi aggiuntivi rispetto a quelli attualmente esistenti.
Il personale è individuato in quello dei comuni aderenti e viene trasferito dagli stessi alle dipendenze della unione. In tal modo si concretizza una mera cessione del rapporto di lavoro, che non modifica in alcun modo i diritti maturati, proseguendo a tutti gli effetti lo stesso alle dipendenze della unione. I comuni provvedono alla rideterminazione della propria dotazione organica in modo da cancellare tutti i posti connessi alla funzione delegata alla unione.
La unione può avvalersi di ulteriore personale nel rispetto dei vincoli dettati dal legislatore per le assunzioni e la spesa del personale, quindi garantendo il non aumento sia della spesa che del numero dei dipendenti utilizzati rispetto alla condizione esistente complessivamente nei comuni all'atto della stipula della presente convenzione.
La unione può, d'intesa con i singoli comuni, avvalersi anche per una parte del tempo, delle prestazioni del personale dipendente dagli stessi.
Articolo 4
Gli oneri per la realizzazione della gestione associata sono individuati dalla unione d'intesa con i comuni aderenti alla stessa nella presente convenzione e sono quantificati in euro ... annui. Essi sono ripartiti tra i singoli enti per il 50% in misura paritaria tra le singole amministrazioni e per il restante 50% in misura proporzionale al numero degli abitanti, per cui la ripartizione tra i comuni è la seguente _
Articolo 5
Nelle modalità di realizzazione della gestione associata si deve prevedere che sia garantita l'apertura al pubblico presso i singoli comuni per almeno ... giorni la settimana e per almeno ... ore.
La sede di lavoro viene individuata nei locali della unione. Può essere previsto che singoli dipendenti continuino a prestare la propria attività lavorativa presso un comune, fermo restando che per almeno ... giorni la settimana e per almeno ... ore lavorative dovranno svolgere la propria prestazione presso la sede della unione.
Per ogni aspetto non previsto nella presente convenzione provvede la unione, sentiti i comuni aderenti alla gestione associata (articolo ItaliaOggi del 23.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Un consigliere fa gruppo. Quando risulta l'unico eletto in una lista. La materia è regolata dagli statuti. E l'ultima parola spetta all'assemblea.
Quali norme disciplinano la costituzione di nuovi gruppi consiliari in ambito comunale?

La materia dei gruppi consiliari è regolata dalle apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta espressamente agli stessi dall'art. 38, comma 3, del Testo unico sugli enti locali n. 267/2000.
Pertanto eventuali problematiche a essa inerenti dovrebbero trovare adeguata soluzione nella specifica disciplina dettata dall'ente stesso.
In linea di principio, sono ammissibili i mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale, per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti.
Riguardo all'ammissibilità dei gruppi unipersonali, se il regolamento comunale stabilisce che ciascun gruppo sia costituito da almeno due consiglieri ma che, nel caso che una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, a questo siano riconosciute le prerogative e la rappresentanza spettanti a un gruppo consiliare, ovvero disciplina la fattispecie di distacco successivo dal gruppo, stabilendo che il consigliere che non aderisce ad altri gruppi non acquisisce le prerogative spettanti a un gruppo consiliare, potendo soltanto confluire nel gruppo misto, si può desumere che i gruppi unipersonali possano essere ammessi solo se coincidenti con l'unico consigliere eletto in una lista.
Ciò premesso, soltanto il Consiglio comunale, in quanto titolare della competenza a emanare le norme cui conformarsi in tale materia, è abilitato a fornire un'interpretazione autentica delle disposizioni statutarie e regolamentari di cui l'ente si è dotato (articolo ItaliaOggi del 23.09.2011).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Indennità di funzione.
Da quando si applica la riduzione dell'indennità di funzione da corrispondere agli amministratori comunali, alla luce delle disposizioni previste dal decreto legge 31.05.2010, n. 78 convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 30.07.2010, n. 122?

Il decreto legge n. 78/2010, concernente misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, ha introdotto una serie di disposizioni volte a perseguire una riduzione del costo degli apparati politici e amministrativi.
Tra queste l'art. 5, comma 7, prevede che con decreto del ministro dell'interno, da adottarsi entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legge stesso, ai sensi dell'articolo 82, comma 8, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, gli importi delle indennità già determinate ai sensi del citato articolo 82, comma 8, sono diminuiti, per un periodo non inferiore a tre anni, di una percentuale variabile al variare delle dimensioni demografiche dell'ente.
Le disposizioni del citato art. 5, comma 7, dovranno trovare applicazione a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto interministeriale concernente il nuovo regolamento per la determinazione della misura delle indennità e dei gettoni di presenza da corrispondere agli amministratori degli enti locali, la cui procedura di emanazione è tuttora in corso di definizione (articolo ItaliaOggi del 23.09.2011).

ENTI LOCALIRevisori, estrazione in Prefettura.
Estrazione in Prefettura. È questa l'ipotesi che secondo fonti governative si fa strada al Viminale per disciplinare le nuove modalità di scelta dei revisori dei conti negli enti locali.

La questione nasce con la manovra-bis, che nel tentativo di sottrarre le nomine dei revisori all'influenza della politica ha previsto che dal prossimo mandato i professionisti guardiani interni dei conti dell'ente vengano «scelti mediante estrazione da un elenco», a cui possono essere iscritti i professionisti che ne facciano richiesta e che possano vantare in curriculum una «specifica qualificazione professionale in materia di contabilità pubblica e gestione economica e finanziaria anche degli enti territoriali».
La norma non dice di più, e lascia aperto il campo a più di una questione applicativa da risolvere. La prima sono le modalità di questa «estrazione», il cui tratto di casualità andrà peraltro attenuato con l'applicazione dei criteri che secondo la norma devono privilegiare per gli enti più grandi i revisori con maggiore esperienza. A coprire i vuoti normativi sarà un decreto del ministero dell'Interno (c'è tempo fino a metà novembre), che secondo queste indiscrezioni porterà all'interno del Viminale gran parte della disciplina: l'elenco a cui i professionisti si potranno iscrivere sarà tenuto dal ministero, e l'estrazione potrebbe svolgersi appunto presso le Prefetture.
Non sono queste, comunque, le uniche incognite di un provvedimento che non soddisfa i professionisti, critici sul meccanismo dell'estrazione. Anche i parametri "meritocratici" individuati dalla norma sollevano più di un problema, a partire dalla «specifica qualificazione professionale» che gli aspiranti devono possedere per poter essere inseriti nell'elenco. Anche su questo punto, poi, la regola per i revisori degli enti locali non è allineata con quella, introdotta anch'essa dalla manovra, prevista per le Regioni: nel primo caso il tutto va deciso con decreto del Viminale, mentre nel secondo l'individuazione dei criteri è compito della Corte dei conti.
I «dottori commercialisti ed esperti contabili», poi, sono espressamente citati solo per gli enti locali, mentre nelle Regioni l'orizzonte è solo quello dei revisori legali (articolo Il Sole 24 Ore del 22.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIResponsabilità forti nei Comuni. Al via l'effetto combinato di decreto sulla «meritocrazia» e manovre estive.
Rafforzamento delle sanzioni per chi sfora il Patto di stabilità, e più responsabilità per gli amministratori ma anche per i funzionari che si allontanano dai sentieri della sana gestione o addirittura arrivano a provocare il dissesto dell'ente.
È il quadro che emerge dal "doppio passo" determinato dalla pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» del decreto legislativo 149/2011 su premi e sanzioni per Regioni ed enti locali (si veda Il Sole 24 Ore di ieri) e dalle manovre estive, che tra le tante misure rivolte a Comuni e Province contemplano anche il taglio fino a dieci indennità per gli amministratori e a tre mensilità per il responsabile del servizio finanziario quando l'ente rispetta gli obiettivi del Patto di stabilità solo grazie a meccanismi elusivi accertati dalla Corte dei conti.
Proprio alla magistratura contabile viene assegnato un ruolo sempre più da regista nei tentativi di repressione delle esperienze di contabilità allegra, tanto più che le pronunce delle sezioni regionali di controllo superano il valore semplicemente di indirizzo per diventare determinanti nell'applicazione delle sanzioni.
Le conseguenze più pesanti, com'è naturale, intervengono nei casi di dissesto dell'ente, fenomeno rarissimo negli ultimi anni perché non "conveniente" dopo il tramonto dei ripiani statali (solo 36 su 448 l'hanno fatto dopo la riforma del Titolo V) che però la nuova normativa prova a rendere più stringente. Il meccanismo parte proprio da un esame della Corte dei conti, che può anche seguire le verifiche avviate dalla Ragioneria generale dello Stato quando si accendono determinate spie di allarme (si veda anche il grafico qui accanto).
I magistrati contabili indicano un termine entro il quale il consiglio dell'ente deve adottare le misure in grado di evitare il default. Trascorsa senza successo la scadenza fissata dalla Corte, entra il campo il Prefetto che, dopo 30 giorni, avvia inevitabilmente l'ente sulla strada del dissesto. Alzare bandiera bianca può far detonare la moltiplicazione delle sanzioni nei confronti degli amministratori coinvolti: anche in questo caso, la parola più pesante tocca alla Corte dei conti (in questo caso le sezioni giurisdizionali). Quando i magistrati individuano negli amministratori una responsabilità per danni od omissioni che hanno portato al dissesto, nei confronti degli interessati si chiudono per dieci anni le porte verso un incarico da assessore, revisore o rappresentante dell'ente nei cda degli organismi partecipati. Per sindaci e presidenti di Provincia nella stessa situazione, poi, scatta anche l'incandidabilità decennale in qualsiasi tipo di elezione, dalle comunali alle europee.
La griglia rafforzata delle responsabilità abbraccia anche i revisori dei conti, sempre attraverso il passaggio presso la Corte. Quando la magistratura contabile li riconosce responsabili di non aver vigilato a dovere, o di non aver trasmesso (o aver trasmesso in ritardo) le informazioni che avrebbero potuto far risuonare l'allarme, anche i guardiani dei conti vengono colpiti dall'espulsione decennale che impedisce loro di far parte di altri collegi di revisione (articolo Il Sole 24 Ore del 22.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATAImmobili a caccia della ruralità. Domanda (con autocertificazione) entro il 30 settembre. In Gazzetta Ufficiale il decreto del Mineconomia con le istruzioni per il riconoscimento.
Per le unità immobiliari, già censite nel catasto edilizio urbano, i cui proprietari volessero modificare la categoria catastale per l'attribuzione del requisito della ruralità, c'è tempo fino al prossimo 30 settembre. A tal fine, la documentazione necessaria dovrà essere prodotta secondo i modelli reperibili presso gli uffici dell'Agenzia del Territorio e sul sito internet istituzionale della stessa Agenzia (www.agenziaterritorio.gov.it).
E' quanto precisa il decreto Mineconomia 14.09.2011, recante modalità applicative e documentazione necessaria per la presentazione della certificazione per il riconoscimento della ruralità dei fabbricati, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 220 di ieri.
Il decreto è previsto dal dl sviluppo e ha la funzione di dare seguito a numerose sentenze della Cassazione le quali hanno stabilito la necessità di classare gli immobili in specifiche categorie al fine di ottenere la qualifica di ruralità. Immobili che precedentemente erano accatastati in altre categorie, pur rispettando i requisiti di ruralità di cui ai commi 3 e 3-bis dell'art. 9 del dl 557/1993.
 Il decreto attribuisce le categorie catastali A/6 e D/10, rispettivamente, alle unità immobiliari ad uso abitativo e a quelle strumentali all'attività agricola, per le quali sussistono i requisiti di ruralità di cui /all'art. 9 del Dl n. 557/1993. Inoltre, viene istituita la classe «R», senza determinazione della rendita catastale, per le unità immobiliari ad uso abitativo, censite nella categoria A/6. In più, la rendita catastale per gli immobili strumentali all'attività agricola, censite nella categoria D/10, è determinata per stima diretta, ex art. 30 Dpr n.1142/1949.
Il decreto precisa che per i fabbricati, già censiti nel catasto edilizio urbano, la domanda di variazione della categoria catastale per l'attribuzione della categoria A/6 o D/10 alle unità immobiliari sopra evidenziate, comprensiva dell'autocertificazione necessaria ai fini del riconoscimento della ruralità, devono essere presentate in conformità ai modelli in allegato allo stesso decreto. Tutta la documentazione, infine, deve essere presentata all'Ufficio provinciale territorialmente competente dell'Agenzia del territorio, entro il 30.09.2011 (si veda in pagina il comunicato del Territorio di ieri sera). L'ufficio del Territorio, successivamente alla presentazione delle istanze, provvede alla verifica della sussistenza dei requisiti di ruralità, finalizzata alla convalida delle autocertificazioni, nonché al riconoscimento dell'attribuzione della categoria catastale A/6, classe «R», o D/10. A tal fine, gli uffici del Territorio reperiranno le informazioni necessarie presso le amministrazioni competenti “con qualunque mezzo idoneo ad assicurare la certezza della fonte di provenienza”.
Dopo l'avvenuta verifica dei requisiti di ruralità, l'Ufficio attribuisce la categoria A/6, classe «R», per le unità immobiliari a destinazione abitativa e la categoria D/10, mantenendo la rendita in precedenza attribuita, per le unità aventi destinazione diversa da quella abitativa, strumentali all'attività agricola. In caso di diniego, il relativo provvedimento sarà annotato negli atti catastali e notificato ai soggetti interessati. Diniego che, precisa il Dm, è impugnabile innanzi alle commissioni tributarie provinciali (articolo ItaliaOggi del 22.09.2011).

GIURISPRUDENZA

APPALTIL'indicazione di inadempienze contenuta nel documento unico di regolarità contributiva (d.u.r.c.) non integra di per sé la causa di esclusione di cui alla lettera i) dell'art. 38 cit., dovendo la stazione appaltante comunque verificare se le violazioni certificate mediante il d.u.r.c. siano da ritenere gravi e frutto di accertamenti definitivi.
L'indicazione di inadempienze contenuta nel documento unico di regolarità contributiva (d.u.r.c.) non integra di per sé la causa di esclusione di cui alla lettera i) dell'art. 38 cit., dovendo la stazione appaltante comunque verificare se le violazioni certificate mediante il d.u.r.c. siano da ritenere gravi e frutto di accertamenti definitivi (cfr. in questo senso, tra le altre, TAR Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 23.03.2010, n. 291).
La soluzione in tal senso trova una implicita conferma della sua correttezza nella modifica all'art. 38, comma 2, cit., operata dall'art. 4, comma 2, lettera b), del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, convertito con modificazioni nella legge 12.07.2011, n. 106. Modifica la quale, stabilendo che «Ai fini del comma 1, lettera i), si intendono gravi le violazioni ostative al rilascio del documento unico di regolarita' contributiva di cui all' articolo 2, comma 2, del decreto-legge 25.09.2002, n. 210, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.11.2002, n. 266», ha definitivamente imposto la coincidenza tra le ipotesi che impediscono il rilascio del D.U.R.C. (fissate dal decreto del Ministro del Lavoro, del 24.10.2007) e la causa di esclusione di cui trattasi (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 23.09.2011 n. 945 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIVa abbandonata la concezione esclusivamente "sanzionatoria" dell'incameramento della cauzione provvisoria, la quale, invece, deve essere ricostruita come garanzia della serietà e affidabilità dell'offerta che serve a dare alla stazione appaltante un ragionevole affidamento sul fatto che tutta l'attività amministrativa di scelta del contraente non sia spesa inutilmente e conduca alla stipulazione del contratto d'appalto.
La giurisprudenza amministrativa, già nella vigenza dell'articolo 30 della legge 11.02.1994 n. 109, aveva abbandonato una concezione esclusivamente "sanzionatoria" dell'incameramento della cauzione provvisoria, la quale, invece, viene ricostruita come garanzia della serietà e affidabilità dell'offerta che serve a dare alla stazione appaltante un ragionevole affidamento sul fatto che tutta l'attività amministrativa di scelta del contraente non sia spesa inutilmente e conduca alla stipulazione del contratto d'appalto (Consiglio Stato, Sez. V, 12.06.2009 n. 3746; 11.05.2009 n. 2885; 11.12.2007 n. 6362; Sez. IV, 20.07.2007 n. 4098; 30.01.2006 n. 288; Sez. V, 09.09.2005 n. 4642; 30.06.2003 n. 3866; TAR Puglia, Bari, Sez. I, 24.10.2008 n. 2373; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 10.03.2010 n. 2646) (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 22.09.2011 n. 1373 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZINegli appalti di servizi non necessità la dichiarazione ex art. 38 dlgs 163/2006 da parte del direttore dei lavori, in quanto figura non obbligatoriamente prevista.
Il Collegio ritiene di dover confermare il giudizio circa la non necessità –nel caso di specie- della dichiarazione ex art. 38 dlgs 163/2006 da parte del direttore dei lavori, in quanto figura non obbligatoriamente prevista negli appalti di servizi (conseguentemente, non è illegittima la lex specialis della gara per non aver espressamente inserito l’invocata causa di esclusione) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.09.2011 n. 5321 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Contratti pubblici e autotutela della pubblica amministrazione: limiti di esercizio più rigorosi.
In materia di contratti pubblici, dopo la pronuncia dell’aggiudicazione provvisoria, l’emanazione del provvedimento di revoca da parte della pubblica amministrazione deve essere condizionata da limiti più rigorosi ed assistita da maggior cautela. Ciò in nome dei principi di tutela dell’affidamento e della certezza del diritto nei traffici.
In tali termini si è espresso il TAR Lazio-Roma, Sez. II, nella sentenza 19.09.2011 n. 7428.
Il legittimo affidamento, si chiarisce, postula la necessità di salvaguardare le situazioni di soggetti privati che, confidando nella legittimità dell’atto rimosso, hanno acquisito il consolidamento delle posizioni di vantaggio loro attribuite da questo. Secondo consolidata giurisprudenza, può considerarsi legittimo il travolgimento di tali posizioni solo se esso è giustificato dalla necessità di assicurare il soddisfacimento di un interesse, pubblico, di carattere generale e, come tale, prevalente sulle posizioni individuali, dandone adeguato conto nella motivazione del provvedimento di rimozione, affinché ne sia consentito il controllo di legittimità in sede giurisdizionale (cfr. Cons. Stato, sent. 5444/2003).
Non può, pertanto, l’amministrazione, sulla semplice scorta di una nuova valutazione di opportunità, decidere di revocare in autotutela il provvedimento di aggiudicazione provvisoria, posto che la procedimentalizzazione pubblicistica delle trattative preliminari ha la funzione:
a) di vincolare via via sempre più (e sempre più specificamente) l’Amministrazione, al fine di evitare che il potere amministrativo si traduca in arbitrio (e di assicurare che la nascita dell’obbligazione a suo carico sorga in forza di regole “ad evidenza pubblica” o atte ad assicurare la trasparenza e l’imparzialità dell’azione pubblica);
b) e non già di creare un sistema nel quale solamente il contraente privato sia assoggettato ad obblighi.
E che, pertanto, ritiene il collegio, i provvedimenti con cui si chiudono le varie fasi sub-procedimentali sono costitutivi di effetti obbligatori a carico la della pubblica amministrazione, né più né meno di come opererebbero veri e propri contratti preliminari.
Nel caso di specie, viene conseguentemente dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione di concludere il procedimento in conformità e coerenza con le precedenti fasi, tenuto conto dell’intervenuta aggiudicazione provvisoria e del conseguente avvenuto perfezionamento dell’obbligazione di alienare l’immobile alla sola condizione dell’esito positivo delle verifiche relative alla sussistenza, in capo all’offerente (promissario acquirente) dei requisisti previsti dal bando (commento tratto da www.diritto.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le regole contenute nella lex specialis di una gara pubblica devono considerarsi vincolanti non solo per i partecipanti, ma anche per la stessa Amministrazione appaltante, che non conserva alcun margine di discrezionalità nella loro concreta attuazione, non potendo disapplicarle neppure nel caso in cui talune di esse risultino inopportunamente o incongruamente formulate, salva la sola possibilità di far luogo, nell'esercizio del potere di autotutela, all'annullamento del bando. Orbene, siffatto rigore formale risponde, per un verso, ad esigenze pratiche di certezza e celerità, e per altro verso alla necessità di garantire l'imparzialità dell'azione amministrativa, nonché la parità di condizioni tra i concorrenti. Ne deriva che solo in presenza di una equivoca formulazione della lettera di invito o bando di gara può ammettersi una interpretazione diversa da quella letterale.
In materia di appalti pubblici, la lex specialis vincola la stazione appaltante anche laddove, successivamente, si riveli incongruamente formulata. In ordine all'interpretazione delle clausole del bando, si rileva come sia necessario dare prevalenza alle espressioni letterali contenutevi, escludendo ogni procedimento ermeneutico in funzione integrativa diretto ad evidenziare pretesi significati e ad ingenerare incertezze nell'applicazione, con la conseguenza che il significato oggettivo delle espressioni testuali adoperate deve prevalere sull'intenzione soggettiva della stazione appaltante. E', dunque, preclusa, a garanzia della certezza e dell'imparzialità dell'Amministrazione, qualsiasi diversa esegesi delle clausole in parola.
Questo Consiglio ha da tempo osservato che le regole contenute nella lex specialis di una gara vincolano non solo i concorrenti, ma anche la stessa Amministrazione, che non conserva alcun margine di discrezionalità nella loro concreta attuazione, non potendo disapplicarle neppure nel caso in cui talune di esse risultino inopportunamente o incongruamente formulate, salva la sola possibilità di far luogo, nell'esercizio del potere di autotutela, all'annullamento del bando. Il rigore formale che caratterizza la disciplina delle procedure di gara risponde, per un verso, ad esigenze pratiche di certezza e celerità, e per altro verso alla necessità di garantire l'imparzialità dell'azione amministrativa e la parità di condizioni tra i concorrenti, da ciò scaturendo la conseguenza che solo in presenza di una equivoca formulazione della lettera di invito o bando di gara può ammettersi una interpretazione diversa da quella letterale (cfr. C.d.S., V, 02.08.2010, n. 5075).
Le preminenti esigenze di certezza connesse allo svolgimento delle procedure concorsuali di selezione dei partecipanti impongono di ritenere di stretta interpretazione le clausole del bando di gara, delle quali va preclusa qualsiasi esegesi non giustificata da un'obiettiva incertezza del loro significato; parimenti, si devono reputare comunque preferibili, a tutela dell'affidamento dei destinatari, le espressioni letterali delle previsioni da chiarire, evitando che il procedimento ermeneutico conduca all'integrazione delle regole di gara palesando significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale (C.d.S., IV, 05.10.2005, n. 5367; V, 15.04.2004, n. 2162).
Nell'interpretazione delle clausole del bando per l'aggiudicazione di un contratto della P.A. deve darsi, pertanto, prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, escludendo ogni procedimento ermeneutico in funzione integrativa diretto ad evidenziare pretesi significati e ad ingenerare incertezze nell'applicazione (C.d.S., V, 30.08.2005, n. 4413).
Tutte le disposizioni che in qualche modo regolano i presupposti, lo svolgimento e la conclusione della gara, siano esse contenute nel bando ovvero nella lettera d'invito e nei loro allegati (capitolati, convenzioni e simili), concorrono a formarne la disciplina e ne costituiscono, nel loro insieme, la lex specialis, per cui, in caso di oscurità ed equivocità, un corretto rapporto tra Amministrazione e privato, che sia rispettoso dei principi generali del buon andamento dell'azione amministrativa e di imparzialità e di quello specifico enunciato nell'art. 1337 c.c. (dovere di buona fede delle parti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto), impone che di quella disciplina sia data una lettura idonea a tutelare l'affidamento degli interessati, interpretandola per ciò che essa espressamente dice, e restando il concorrente dispensato dal ricostruire, attraverso indagini ermeneutiche ed integrative, ulteriori ed inespressi significati (C.d.S., V, 01.03.2003, n. 1142).
La formulazione della lettera di invito non può essere interpretata sulla base delle intenzioni della stazione appaltante, ma deve essere letta secondo il suo significato oggettivo (VI, 04.08.2006, n. 4764).
I canoni di interpretazione di una lettera di invito, così come delle clausole dei bandi di concorso, non sono quelli delle fonti indicate negli art. 12 ss. delle disposizioni sulla legge in generale premesse al codice civile, bensì quelli desunti dagli art. 1362 ss. del codice anzidetto, attesa la natura della volontà espressa, assumibile nella nozione generale del negozio giuridico. Non trova applicazione neppure la c.d. interpretazione autentica, quale quella derivante da precisazioni postume (V, 10.01.2007, n. 37; VI, 17.12.2008, n. 6281).
In sintesi, dunque:
- la Stazione appaltante è vincolata dalla lex specialis che si è data, anche ove –per ipotesi- questa abbia a rivelarsi, remelius perpensa, incongruamente formulata;
- nell'interpretazione delle clausole del bando deve darsi prevalenza alle espressioni letterali contenutevi, escludendo ogni procedimento ermeneutico in funzione integrativa diretto ad evidenziare pretesi significati e ad ingenerare incertezze nell'applicazione, palesando significati non chiaramente desumibili dalla lettura della formulazione del bando;
- il significato oggettivo delle espressioni testuali adoperate prevale sull’intenzione soggettiva della Stazione appaltante;
- a garanzia della certezza e dell’imparzialità dell’Amministrazione, va preclusa qualsiasi diversa esegesi delle clausole del bando, che non sia giustificata da un'obiettiva incertezza del loro significato
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.09.2011 n. 5282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le regole contenute nella lex specialis di gara vincolano non solo i concorrenti, ma la stessa Amministrazione.
Il concorrente non può ricostruire, attraverso indagini ermeneutiche ed integrative, ulteriori ed inespressi significati della disciplina di gara.

Le regole contenute nella lex specialis di gara vincolano non solo i concorrenti, ma la stessa Amministrazione, la quale non conserva alcun margine di discrezionalità nella loro concreta attuazione, non potendo disapplicarle neppure nel caso in cui esse risultino inopportunamente formulate, salva la possibilità di far luogo, nell'esercizio del potere di autotutela, all'annullamento del bando. Il rigore formale che caratterizzante la disciplina delle procedure di gara risponde, per un verso, ad esigenze pratiche di certezza e celerità, e per altro verso alla necessità di garantire l'imparzialità dell'azione amministrativa e la par condicio tra i concorrenti; pertanto, solo in presenza di un'equivoca formulazione della lettera di invito o bando di gara, può ammettersi un'interpretazione diversa da quella letterale. Nell'interpretazione delle clausole del bando per l'aggiudicazione di un contratto della P.A. deve darsi, dunque, prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, escludendo ogni procedimento ermeneutico in funzione integrativa diretto ad evidenziare pretesi significati e ad ingenerare incertezze nell'applicazione.
Tutte le disposizioni che regolano i presupposti, lo svolgimento e la conclusione della gara, concorrono a formarne la disciplina e ne costituiscono, nel loro insieme, la lex specialis, per cui, in caso di oscurità ed equivocità, un corretto rapporto tra P.A. e privato, che sia rispettoso dei principi generali del buon andamento dell'azione amministrativa e di imparzialità, nonché del dovere di buona fede delle parti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, ex art. 1337 c.c., impone che di quella disciplina sia data una lettura idonea a tutelare l'affidamento degli interessati, interpretandola per ciò che essa espressamente dice, e restando il concorrente dispensato dal ricostruire, attraverso indagini ermeneutiche ed integrative, ulteriori ed inespressi significati (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.09.2011 n. 5282 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Deve essere escluso da una gara il concorrente che abbia redatto l'offerta in modo difforme dal disciplinare di gara.
Secondo un consolidato principio giurisprudenziale, è legittima e doverosa il provvedimento di esclusione da una gara, adottato da una stazione appaltante nei confronti di un concorrente che abbia redatto l'offerta in modo difforme dal disciplinare di gara il quale, prescrivendo l'indicazione del ribasso percentuale in cifre ed in lettere, sancisca espressamente l'esclusione in caso di violazione di tale onere formale, non essendo consentito alla commissione di ammettere l'offerta difforme attraverso un'illegittima disapplicazione della lex specialis della procedura, con conseguente violazione della par condicio dei concorrenti.
Nell'ottica del favor partecipationis e del superamento di prassi eccessivamente formalistiche, la giurisprudenza ha affermato che la circostanza che un concorrente, in sede di presentazione dell'offerta, abbia indicato soltanto in cifre e non anche in lettere la percentuale di ribasso, non può costituire motivo di esclusione dalla gara, laddove l'offerta economica contenga comunque la doppia indicazione, in cifre e in lettere, di tutti i singoli prezzi unitari, sì che non possa ingenerarsi alcuna incertezza sulla consistenza dell'offerta stessa.
Ne consegue che, nel caso di specie, poiché il raggruppamento ricorrente ha del tutto omesso di indicare i prezzi in lettere, così violando la chiara previsione del disciplinare di gara, che non è suscettibile di interpretazione diversa da quella letterale, l'Amministrazione avrebbe dovuto senz'altro disporne l'esclusione (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 19.09.2011 n. 1370 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIE' legittima e doverosa l’esclusione dell’impresa che abbia redatto l’offerta in modo difforme dal disciplinare di gara che, prescrivendo l’indicazione del ribasso percentuale in cifre ed in lettere, sancisca espressamente l’esclusione in caso di violazione di tale onere formale, non essendo consentito alla commissione di gara di ammettere l’offerta difforme attraverso un’illegittima disapplicazione della lex specialis della procedura, con violazione della par condicio dei concorrenti.
Nell’ottica del favor partecipationis e del superamento di prassi eccessivamente formalistiche, la giurisprudenza ha affermato che la circostanza che un concorrente, in sede di presentazione dell’offerta, abbia indicato soltanto in cifre e non anche in lettere la percentuale di ribasso, non può costituire motivo di esclusione dalla gara, laddove l’offerta economica contenga comunque la doppia indicazione, in cifre e in lettere, di tutti i singoli prezzi unitari, sì che non possa ingenerarsi alcuna incertezza sulla consistenza dell’offerta stessa. Ma, nel caso in esame, il raggruppamento ricorrente ha del tutto omesso di indicare i prezzi in lettere, così violando la chiara previsione del disciplinare di gara, che non è suscettibile di interpretazione diversa da quella letterale, con l’effetto che l’Amministrazione avrebbe dovuto senz’altro disporne l’esclusione.

Ai sensi dell’art. 2.5 del disciplinare di gara, l’offerta economica doveva “… riportare, pena esclusione, tutte le indicazioni di prezzo, in cifre e in lettere, sulla base di quanto indicato nell’allegato G”.
Nell’allegato G il corrispettivo offerto dai concorrenti era scomposto in un analitico elenco di sottovoci di spesa unitarie, per ciascuna delle quali doveva essere formulata una specifica proposta, risolvendosi così (per la componente economica) in una vera e propria offerta per prezzi unitari.
Secondo la lex specialis di gara, dunque, l’indicazione in lettere dei prezzi unitari era elemento essenziale dell’offerta economica, tesa preservarne la chiarezza per il caso di eventuali equivocità nell’indicazione dei prezzi unitari in cifre.
Secondo un principio già affermato da questa Sezione, è legittima e doverosa l’esclusione dell’impresa che abbia redatto l’offerta in modo difforme dal disciplinare di gara che, prescrivendo l’indicazione del ribasso percentuale in cifre ed in lettere, sancisca espressamente l’esclusione in caso di violazione di tale onere formale, non essendo consentito alla commissione di gara di ammettere l’offerta difforme attraverso un’illegittima disapplicazione della lex specialis della procedura, con violazione della par condicio dei concorrenti (così TAR Puglia, Bari, sez. I, 02.04.2003 n. 1543).
Né rileva, in senso contrario, la giurisprudenza invocata in sede di replica dalla difesa di parte ricorrente (Cons. Stato, sez. V, 10.11.2003 n. 7134; Id., sez. V, 01.03.2005 n. 778), che a ben vedere è riferita a fattispecie nelle quali il bando di gara, diversamente che nella procedura qui esaminata, comminava l’esclusione in termini generici ed onnicomprensivi per tutti gli adempimenti formali relativi al confezionamento dell’offerta.
Del resto, proprio nell’ottica del favor partecipationis e del superamento di prassi eccessivamente formalistiche, la giurisprudenza ha affermato che la circostanza che un concorrente, in sede di presentazione dell’offerta, abbia indicato soltanto in cifre e non anche in lettere la percentuale di ribasso, non può costituire motivo di esclusione dalla gara, laddove l’offerta economica contenga comunque la doppia indicazione, in cifre e in lettere, di tutti i singoli prezzi unitari, sì che non possa ingenerarsi alcuna incertezza sulla consistenza dell’offerta stessa (così, in termini del tutto condivisibili, Cons. Stato, sez. VI, 15.01.2004 n. 106).
Ma, nel caso in esame, il raggruppamento ricorrente ha del tutto omesso di indicare i prezzi in lettere, così violando la chiara previsione del disciplinare di gara, che non è suscettibile di interpretazione diversa da quella letterale, con l’effetto che l’Amministrazione avrebbe dovuto senz’altro disporne l’esclusione (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 19.09.2011 n. 1370 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla legittimità dell'esclusione di un concorrente da una gara, per accertata irregolarità contributiva al momento della domanda di partecipazione.
La sussistenza del requisito della regolarità contributiva, necessario per la partecipazione alle procedure di gara, deve essere verificata con riferimento al momento ultimo previsto per la presentazione delle offerte. A nulla può quindi rilevare una regolarizzazione successiva della posizione contributiva, la quale, se può risolvere il contenzioso dell'impresa con l'ente previdenziale, non potrà però in alcun modo sovvertire l'oggettivo dato di fatto dell'irregolarità ai fini della singola gara.
Deve pertanto escludersi la rilevanza di un eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione contributiva, quand'anche ricondotto retroattivamente, quanto ad efficacia civilistica, al momento della scadenza del termine di pagamento, circostanza che può rilevare fra i soggetti del rapporto obbligatorio, ma non anche nei confronti dell'Amministrazione appaltante. E tanto vale, naturalmente, anche per sistemazioni debitorie postume effettuate a mezzo di compensazioni, come risulta avvenuto nel caso di specie (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.09.2011 n. 5194 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: La sussistenza del requisito della regolarità contributiva, necessario per la partecipazione alle procedure di gara, deve essere verificata con riferimento al momento ultimo previsto per la presentazione delle offerte. A nulla può quindi rilevare una regolarizzazione successiva della posizione contributiva, la quale, se può risolvere il contenzioso dell’impresa con l’ente previdenziale, non potrà però in alcun modo sovvertire l’oggettivo dato di fatto dell’irregolarità ai fini della singola gara.
Deve pertanto escludersi la rilevanza di un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, quand’anche ricondotto retroattivamente, quanto ad efficacia civilistica, al momento della scadenza del termine di pagamento, circostanza che può rilevare fra i soggetti del rapporto obbligatorio, ma non anche nei confronti dell’Amministrazione appaltante.
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La procedura di regolarizzazione contributiva prevista dall’art. 7, comma 3, del d.m. 24.10.2007 non trova applicazione nel caso di richiesta di certificazione preordinata ai fini della partecipazione a gare d’appalto, le quali sono invece interessate dalla differente disciplina contemplata dal successivo art. 8, comma 3.
Anche il semplice ritardo nei versamenti contributivi può integrare una grave violazione dei relativi obblighi, atteso che nel settore previdenziale in considerazione dei gravi effetti negativi derivanti dalla inosservanza degli obblighi in materia sui diritti dei lavoratori, sulle finanze pubbliche e sulla concorrenza tra le imprese, debbono considerarsi “gravi” tutte le inadempienze rispetto ai predetti obblighi, salvo che non siano riscontrabili adeguate giustificazioni, inerenti, ad esempio, alla pendenza di contenziosi di non agevole e pronta definizione, ovvero alla necessità di verificare le condizioni per un condono o una rateizzazione.
In questo settore può dunque ritenersi sussistente il requisito della "gravità" dell’infrazione senza che ci sia necessità di alcuna particolare motivazione.
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La dichiarazione di irregolarità espressa dagli enti previdenziali interessati implica anche l’avvenuta verifica della gravità dei relativi scostamenti, come ancora una volta il provvedimento impugnato non ha mancato di osservare, in quanto il citato decreto ministeriale ha attribuito al D.U.R.C. l’idoneità ad attestare anche l’entità dell’inadempimento degli obblighi contributivi, dando conto delle sole irregolarità tali da superare la delineata soglia di gravità.
Il d.m. 24.10.2007, infine, nel disciplinare le modalità di rilascio del D.U.R.C. definendo nel modo già visto la soglia di gravità dell’inadempimento, non può non limitare sul punto anche la discrezionalità delle stazioni appaltanti, che al riguardo ben possono quindi limitarsi a prendere atto della certificazione espressa dal D.U.R.C. (del quale non possono sindacare le risultanze, senza doversi fare carico di autonome valutazioni.

La sussistenza del requisito della regolarità contributiva, necessario per la partecipazione alle procedure di gara, deve essere verificata con riferimento al momento ultimo previsto per la presentazione delle offerte. A nulla può quindi rilevare una regolarizzazione successiva della posizione contributiva, la quale, se può risolvere il contenzioso dell’impresa con l’ente previdenziale, non potrà però in alcun modo sovvertire l’oggettivo dato di fatto dell’irregolarità ai fini della singola gara.
Deve pertanto escludersi la rilevanza di un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, quand’anche ricondotto retroattivamente, quanto ad efficacia civilistica, al momento della scadenza del termine di pagamento (cfr. Consiglio di Stato, IV, 12.03.2009 n. 1458; VI, 11.08.2009, n. 4928; 06.04.2010, n. 1934; 05.07.2010, n. 4243), circostanza che può rilevare fra i soggetti del rapporto obbligatorio, ma non anche nei confronti dell’Amministrazione appaltante.
E tanto vale, naturalmente, anche per sistemazioni debitorie postume effettuate a mezzo di compensazioni, come risulta avvenuto nel caso concreto (tra l’altro, solo a distanza di vari mesi dal termine dirimente, giacché soltanto nel mese di giugno 2009, dopo la richiesta di chiarimenti della Stazione appaltante, Frame si è attivata per avvalersi della compensazione mediante il proprio credito IVA, che in se stesso sarebbe stato suscettibile degli impieghi più svariati).
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La Sezione condivide anche la valutazione del Tribunale secondo la quale la procedura di regolarizzazione contributiva prevista dall’art. 7, comma 3, del d.m. 24.10.2007 non trova applicazione nel caso di richiesta di certificazione preordinata ai fini della partecipazione a gare d’appalto, le quali sono invece interessate dalla differente disciplina contemplata dal successivo art. 8, comma 3.
L’art. 6, comma 3, d.m. cit., infatti, nel prevedere la sospensione del termine per il rilascio del D.U.R.C. fino all’avvenuta regolarizzazione, fa appunto salva la diversa disciplina dettata dal successivo art. 8, comma 3, del decreto (si veda, in termini, la Circolare del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale del 30/01/2008 n. 5).
Ciò in linea con le esigenze di celerità che permeano le procedure di affidamento degli appalti pubblici, alle quali non si addice quel dilatarsi dei tempi per il rilascio del D.U.R.C. che sarebbe implicato dall’esigenza di consentire una regolarizzazione postuma, la quale non potrebbe poi comunque incidere sulle situazioni di irregolarità contributiva esistenti ad una determinata data.
Si conviene, inoltre, che anche il semplice ritardo nei versamenti contributivi possa integrare una grave violazione dei relativi obblighi, atteso che nel settore previdenziale, come opportunamente ricorda l’impugnato provvedimento di revoca, in considerazione dei gravi effetti negativi derivanti dalla inosservanza degli obblighi in materia sui diritti dei lavoratori, sulle finanze pubbliche e sulla concorrenza tra le imprese, debbono considerarsi “gravi” tutte le inadempienze rispetto ai predetti obblighi, salvo che non siano riscontrabili adeguate giustificazioni (che peraltro nel caso di specie non sono state fornite), inerenti, ad esempio, alla pendenza di contenziosi di non agevole e pronta definizione, ovvero alla necessità di verificare le condizioni per un condono o una rateizzazione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 17.10.2008, n. 5069; 04.08.2010, n. 5213; VI, 06.04.2010, n. 1934; 05.07.2010, n. 4243).
In questo settore può dunque ritenersi sussistente il requisito della "gravità" dell’infrazione senza che ci sia necessità di alcuna particolare motivazione.
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Va poi rammentato che la dichiarazione di irregolarità espressa dagli enti previdenziali interessati implica anche l’avvenuta verifica della gravità dei relativi scostamenti, come ancora una volta il provvedimento impugnato non ha mancato di osservare, in quanto il citato decreto ministeriale ha attribuito al D.U.R.C. l’idoneità ad attestare anche l’entità dell’inadempimento degli obblighi contributivi, dando conto delle sole irregolarità tali da superare la delineata soglia di gravità.
Il d.m. 24.10.2007, infine, nel disciplinare le modalità di rilascio del D.U.R.C. definendo nel modo già visto la soglia di gravità dell’inadempimento, non può non limitare sul punto anche la discrezionalità delle stazioni appaltanti (v. la Circolare del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale del 30/01/2008 n. 5), che al riguardo ben possono quindi limitarsi a prendere atto della certificazione espressa dal D.U.R.C. (del quale non possono sindacare le risultanze: C.d.S., V, 19.11.2009, n. 7255; IV, 10.02.2009, n. 1458; VI, 06.04.2010, n. 1934), senza doversi fare carico di autonome valutazioni
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.09.2011 n. 5194 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'associazione per cooptazione, già contemplata dall'art. 23 del D.Lgs. n. 406 del 1991, consente di far partecipare all'appalto anche imprese di modeste dimensioni, non suscettibili di raggrupparsi nelle forme previste dai commi 2 e 3 dell'art. 95 del D.P.R. n. 554 del 1999, purché l'ammontare complessivo delle qualificazioni possedute sia almeno pari all'importo dei lavori che saranno ad essa affidati e i lavori eseguiti dalle cooptate non superino il 20% dell'importo complessivo dei lavori.
Il ricorso alla cooptazione, essendo un istituto di carattere speciale che abilita un soggetto, privo dei prescritti requisiti di qualificazione (e, dunque, di partecipazione), alla sola esecuzione dei lavori oggetto di gara pubblica nei limiti del 20%, in deroga alla disciplina vigente in tema di qualificazione SOA, deve necessariamente scaturire da una dichiarazione espressa ed inequivoca del concorrente, onde evitare che un uso improprio consenta l'elusione della disciplina inderogabile, in tema di qualificazione e di partecipazione alle procedure di evidenza pubblica. Ne consegue che, in assenza di una espressa ed inequivoca dichiarazione di cooptazione, deve senz'altro ritenersi sussistere un'associazione temporanea di imprese (orizzontale o verticale), anziché la cooptazione.

Correttamente il primo giudice ha premesso, in punto di diritto, come nella giurisprudenza amministrativa la cd. “associazione per cooptazione” già contemplata dall’art. 23 d.lgs. n. 406/1991 (su cui cfr. Cons. Stato, sez. V, 11.06.2001, n. 3129 e Id., 25.07.2006, n. 4655), si caratterizzi per la possibilità di far partecipare all’appalto anche imprese di modeste dimensioni, non suscettibili di raggrupparsi nelle forme previste dai commi 2 e 3 dell’art. 95 d.p.r. 554/1999, purché l’ammontare complessivo delle qualificazioni possedute sia almeno pari all’importo dei lavori che saranno ad essa affidati e i lavori eseguiti dalle cooptate non superino il 20% dell’importo complessivo dei lavori (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10.09.2009, n. 5161).
In particolare -mentre parte della giurisprudenza opina che la possibilità dell’impresa singola o delle imprese che intendano riunirsi in associazione temporanea, in possesso dei requisiti di cui all’articolo 95 citato, di associare, nei modi di cui al comma 4, altre imprese qualificate anche per categorie ed importi diversi da quelli richiesti nel bando, sia insita nello stesso dettato normativo che impone alle imprese cooptate il solo obbligo della qualificazione e il solo limite percentuale delle opere (in termini, Cons. Stato, sez. V, 11.06.2001, n. 3129)– appare senz’altro preferibile ribadire (in conformità al più recente orientamento: per tutte cfr. Cons. Stato n. 5161/2009 cit.) come tale possibilità sia, piuttosto, subordinata ad un’espressa ed inequivoca dichiarazione, risultante dalla domanda di partecipazione alla gara, in assenza della quale è da ritenere sussistente la figura (di carattere generale) dell’associazione temporanea (orizzontale o verticale) prevista dai commi 2 e 3. E ciò sia in osservanza della par condicio fra i partecipanti alla gara (non potendosi costringere l’Amministrazione a verificare tutte le ipotesi interpretative in astratto consentite dalla normativa vigente, al fine di ricondurvi la tipologia realizzata da taluno dei concorrenti) sia in considerazione del diverso grado di impegno, responsabilità e garanzia dei partecipanti alla riunione (che vale a differenziare significativamente le due fattispecie associative in considerazione) cui si riconnette un diverso onere di dimostrazione del possesso dei requisiti di qualificazione.
La cooptazione, infatti, è un istituto di carattere speciale che abilita un soggetto, privo dei prescritti requisiti di qualificazione (e, dunque, di partecipazione), alla sola esecuzione dei lavori nei limiti del 20%, in deroga alla disciplina vigente in tema di qualificazione SOA.
Il soggetto cooptato pertanto, come esattamente rilevato dell’appellante:
- non può acquistare lo status di concorrente;
- non può acquistare alcuna quota di partecipazione all’appalto;
- non può rivestire la posizione di offerente, prima, e di contraente, poi;
- non può prestare garanzie, al pari di un concorrente o di un contraente;
- non può, in alcun modo, subappaltare o dichiarare di affidare a terzi una quota dei lavori, di cui non è titolare, essendo privo della prescritta SOA.
Il ricorso alla cooptazione, alla luce del carattere eccezionale e derogatorio dell’istituto, deve quindi necessariamente scaturire da una dichiarazione espressa ed inequivoca del concorrente, per evitare che un uso improprio consenta l’elusione della disciplina inderogabile, in tema di qualificazione e di partecipazione alle procedure di evidenza pubblica.
In conseguenza, in assenza di una espressa ed inequivoca dichiarazione di cooptazione, deve senz’altro ritenersi sussistere un’associazione temporanea di imprese (orizzontale o verticale), anziché la cooptazione (Cons. Stato V Sezione n. 5161/2009) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.09.2011 n. 5187 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sul principio dell'"equivalenza" desumbile dalla lettera dell'art. 68 del codice degli appalti (Dlgs. 163/2006).
Il principio dell'"equivalenza" si ricava dalla lettera dell'art. 68 del codice degli appalti (Dlgs. 163/2006), ove è prescritto che i documenti del contratto, quali il bando di gara, il capitolato d'oneri o i documenti complementari devono dettagliatamente indicare le specifiche tecniche richieste, senza però individuare una specifica fabbricazione o provenienza, al fine di evitare la ingiustificata restrizione della rosa dei partecipanti alla gara, con nocumento all'interesse pubblico sotteso alla più ampia partecipazione alla stessa. È previsto anche, al c. 13 che, ove sia necessario al fine della capillare descrizione di un macchinario ricorrere all'indicazione di un tipo specifico di prodotto occorre che tale indicazione sia accompagnata dall'espressione "o equivalente".
La ratio delle disposizioni richiamate contenute nell'art. 68 codice appalti è chiara. Nel rispetto del principio della più ampia partecipazione alle gare finalizzato alla ponderata e fruttuosa scelta del miglior contraente, si esclude espressamente, tranne ove sia giustificato dal particolare oggetto dell'appalto, la possibilità di indicare marchi o tipi specifici di produzione, a meno che il riferimento ad un prodotto non sia necessario al fine di descrivere dettagliatamente le caratteristiche che il bene offerto deve possedere. In questo caso è obbligatorio fare ricorso al concetto di equivalenza, con la conseguenza che, in caso di omissione dell'inciso, il bando risulterebbe in parte qua illegittimo.
Al riguardo "può intendersi come equivalente un prodotto che abbia caratteristiche identiche o analoghe al bene descritto in capitolato e che garantisca, almeno, le medesime prestazioni. La stazione appaltante, in presenza di offerte equivalenti, deve pertanto verificare la sussistenza dei requisiti descritti al fine di effettuare la valutazione dell'offerta" (TAR Valle d'Aosta, sentenza 14.09.2011 n. 59 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl verbale della polizia municipale, come tutti i verbali provenienti da pubblici ufficiali, ha efficacia di piena prova, fino a querela di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c. relativamente alla provenienza dell'atto dal pubblico ufficiale che lo ha formato, alle dichiarazioni delle parti e agli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti avvenuti in sua presenza o da lui compiuti e, se la fede privilegiata non si estende né agli apprezzamenti del pubblico ufficiale né alle sue valutazioni e deduzioni, tali elementi non sono comunque privi di valore probatorio, in quanto possono fornire elementi presuntivi idonei a fondare la decisione ove siano gravi, precisi e concordanti, ragion per cui tali rapporti conservano un'attendibilità intrinseca che può essere infirmata solo da una specifica prova contraria.
Ne consegue che le valutazioni e le deduzioni in tal modo svolte dai pubblici ufficiali possono essere confutate nella loro consistenza solo attraverso l'allegazione di circostanziate deduzioni di senso contrario, fornendo a tal fine prove idonee a vincere la veridicità del verbale, secondo l'apprezzamento rimesso al giudice.

Osserva il collegio che il verbale della polizia municipale, come tutti i verbali provenienti da pubblici ufficiali, ha efficacia di piena prova, fino a querela di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c. relativamente alla provenienza dell'atto dal pubblico ufficiale che lo ha formato, alle dichiarazioni delle parti e agli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti avvenuti in sua presenza o da lui compiuti e, se la fede privilegiata non si estende né agli apprezzamenti del pubblico ufficiale né alle sue valutazioni e deduzioni (Cons. Stato, sez. V, 28.04.2011, n. 2541), tali elementi non sono comunque privi di valore probatorio, in quanto possono fornire elementi presuntivi idonei a fondare la decisione ove siano gravi, precisi e concordanti (Cons. Stato, sez. I, 08.01.2010, n. 250), ragion per cui tali rapporti conservano un'attendibilità intrinseca che può essere infirmata solo da una specifica prova contraria (TAR Lazio, sez. III, 29.03.2005, n. 2163; TAR Campania Napoli, sez. III, 17.09.2010, n. 17438).
Ne consegue che le valutazioni e le deduzioni in tal modo svolte dai pubblici ufficiali possono essere confutate nella loro consistenza solo attraverso l'allegazione di circostanziate deduzioni di senso contrario (Cons. Stato, sez. VI, 24.09.2010, n. 7129), fornendo a tal fine prove idonee a vincere la veridicità del verbale, secondo l'apprezzamento rimesso al giudice (TAR Lazio Roma, sez. III, 03.11.2010, n. 33138)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 09.09.2011 n. 1582 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer accertare se sussistono o meno i presupposti per la decadenza di un permesso di costruire o di una concessione edilizia l'effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edificatorio programmato ed autorizzato, all'evidente scopo di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici e non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione di procedere alla realizzazione dell'opera assentita.
In ordine alla decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio dei lavori nel termine prefissato, la qualificazione delle opere da ritenersi come valido inizio dei lavori presuppone infatti che le opere realizzate devono essere finalizzate alla realizzazione del manufatto oltreché avere una certa consistenza, dovendosi così escludere che possano costituire inizio dei lavori quelle opere solo fittiziamente eseguite e che, perciò stesso, non evidenziano l'esistenza di una concreta voluntas aedificandi da parte del titolare della concessione edilizia. Deve trattarsi, in altre parole, di un inizio serio e significativo dei lavori.
Di conseguenza, l'accertamento del tempestivo inizio dei lavori deve basarsi non solo sulla quantità e qualità delle opere realizzate, ma soprattutto sulla loro idoneità a dimostrare la reale volontà del concessionario di dare corso all'opera autorizzata.
In particolare, l'idoneità delle opere a costituire l'effettivo inizio dei lavori edilizi deve essere concretamente considerata in rapporto al contesto complessivo del progetto stesso.
L'inizio dei lavori, ai sensi del citato art. 15, comma 2, deve dunque intendersi riferito a concreti lavori edilizi; pertanto, i lavori debbono ritenersi "iniziati" quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nella compiuta organizzazione del cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio, per evitare che il termine di decadenza del permesso possa essere eluso con ricorso ad interventi fittizi e simbolici.

Per accertare se sussistono o meno i presupposti per la decadenza di un permesso di costruire o di una concessione edilizia l'effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edificatorio programmato ed autorizzato, all'evidente scopo di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici e non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione di procedere alla realizzazione dell'opera assentita (TAR Abruzzo Pescara, sez. I, 29.03.2011, n. 193).
In ordine alla decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio dei lavori nel termine prefissato, la qualificazione delle opere da ritenersi come valido inizio dei lavori presuppone infatti che le opere realizzate devono essere finalizzate alla realizzazione del manufatto oltreché avere una certa consistenza, dovendosi così escludere che possano costituire inizio dei lavori quelle opere solo fittiziamente eseguite e che, perciò stesso, non evidenziano l'esistenza di una concreta voluntas aedificandi da parte del titolare della concessione edilizia (TAR Toscana, sez. III, 17.11.2008, n. 2533).
Deve trattarsi, in altre parole, di un inizio serio e significativo dei lavori (cfr. Cons. Stato, sez. II, 28.04.2010, n. 4170; Cons. Stato, sez. V, 29.11.2004, n. 7748; Cons. Stato, sez. V, 29.11.2004, n. 7748).
Di conseguenza, l'accertamento del tempestivo inizio dei lavori deve basarsi non solo sulla quantità e qualità delle opere realizzate, ma soprattutto sulla loro idoneità a dimostrare la reale volontà del concessionario di dare corso all'opera autorizzata (TAR Puglia Bari, sez. II, 05.05.2010, n. 1731; Cons. Stato, sez. IV, 18.06.2008, n. 3030 ).
In particolare, l'idoneità delle opere a costituire l'effettivo inizio dei lavori edilizi deve essere concretamente considerata in rapporto al contesto complessivo del progetto stesso (Cons. Stato, sez. IV, 15.07.2008, n. 3527; TAR Lazio Latina, sez. I, 12.11.2008, n. 1587).
L'inizio dei lavori, ai sensi del citato art. 15, comma 2, deve dunque intendersi riferito a concreti lavori edilizi; pertanto, i lavori debbono ritenersi "iniziati" quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nella compiuta organizzazione del cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio, per evitare che il termine di decadenza del permesso possa essere eluso con ricorso ad interventi fittizi e simbolici (Cass. penale, sez. III, 27.01.2010, n. 7114)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 09.09.2011 n. 1582 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: VAS: sono soggetti anche i piani attuativi conformi allo strumento urbanistico (link a http://studiospallino.blogspot.com).
Le procedure di valutazione ambientale strategica e di verifica di esclusione vanno estese ai piani urbanistici di particolare complessità e impatto, anche se conformi alla strumentazione urbanistica comunale.
In tal senso si è espresso il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, nella sentenza 08.09.2011 n. 2194.
La previsione di sottoporre a procedura di v.a.s. e di verifica di esclusione anche i piani urbanistici di particolare complessità e impatto, pur se conformi alla strumentazione urbanistica comunale, è infatti conforme alla normativa in materia di valutazione ambientale strategica. Né la definizione di piani e programmi data dall’art. 5, d.lgs. n. 152/2006, né le previsioni di cui agli artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 152/2006, consentono infatti -afferma il TAR- "di affermare l’esclusione dalla valutazione ambientale strategica dei piani urbanistici che non comportino variante al piano regolatore generale, laddove possano avere significativi impatti sull’ambiente e sul patrimonio culturale".
Né l’esclusione dalla v.a.s. dei piani conformi allo strumento urbanistico può dedursi dall’art. 4, comma 2, l.reg. Lombardia n. 12/2005. La norma "si limita, difatti, a specificare l’obbligo di sottoposizione alla v.a.s. del piano territoriale regionale, dei piani territoriali regionali d'area e dei piani territoriali di coordinamento provinciali, del documento di piano di cui all'articolo 8, nonché le varianti agli stessi, senza però con ciò dettare un’elencazione tassativa delle tipologie di piano sottoposte a valutazione ambientale strategica, che, come previsto al comma 1, sono tutti ^i piani e programmi di cui alla direttiva 2001/42/CEE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27.06.2001^".
La sentenza merita di essere segnalata perché si discosta dall'orientamento espresso da questo stesso TAR nella sentenza 26.11.2009 n. 5171 (sentenza ^Citylife^), con cui la sezione aveva affermato la non necessità della valutazione ambientale strategica quando lo strumento attuativo non fosse in variante allo strumento urbanistico generale (link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'amministrazione comunale non ha un obbligo, a fronte del ritardato pagamento degli oneri concessori, di attivarsi nei confronti del garante per il recupero di quanto dovuto.
La fideiussione che accompagna la rateizzazione del pagamento degli oneri di urbanizzazione non ha, difatti, la finalità di agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì costituisce una garanzia personale prestata unicamente nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale non incombe, quindi, alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore; la garanzia sussidiaria serve a scongiurare che il Comune possa irrimediabilmente perdere una entrata di diritto pubblico, ma non alleggerisce affatto la posizione del soggetto tenuto al pagamento, né attenua i doveri di diligenza sullo stesso incombenti, né estingue di per sé l'obbligazione principale.
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Il diritto di credito dell'amministrazione comunale avente ad oggetto il pagamento del contributo dovuto per il rilascio della concessione edilizia èa soggetto all'ordinario termine decennale di prescrizione, decorrente dalla data di rilascio della concessione edilizia. Il "dies a quo" per la prescrizione dell'obbligo giuridico relativo al pagamento del costo di costruzione e degli oneri di urbanizzazione decorre dal giorno del rilascio del titolo edilizio.
Le sanzioni pecuniarie previste all’art. 42, d.P.R. n. 380/2001 per i casi di ritardato o omesso versamento del contributo di costruzione sono, invece, soggette -in mancanza di una diversa disciplina legale- al termine di prescrizione di 5 anni stabilito dall'art. 28 della legge 24.11.1981, n. 689. In caso di omesso pagamento del contributo, il dies a quo del termine di prescrizione quinquennale va individuato nella scadenza del termine di 240 giorni successivi alla data prevista per il pagamento del contributo.
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A norma dell’art. 42 del D.P.R. n. 380 del 2001, la sanzione massima, pari al 40% del contributo dovuto, trova applicazione quando l'omissione del pagamento del contributo si protrae fino a 240 giorni dalla scadenza. Decorso inutilmente tale termine il Comune può provvedere alla riscossione coattiva del complessivo credito.
Il termine di prescrizione inizia, dunque, a decorrere dal 241° giorno successivo alla scadenza prevista per il pagamento poiché, in caso di omesso versamento del contributo, il diritto alla riscossione della sanzione del 40% può essere fatto valere dal Comune solo da tale momento.
Nel caso in cui il privato abbia ottenuto la rateizzazione del pagamento e non abbia corrisposto l’intero contributo -e dunque non solo una singola rata- va preso a riferimento -quale termine di scadenza del pagamento- il termine di scadenza dell’ultima rata (e dunque non il termine di scadenza delle singole rate).
In tale ipotesi, invero, non viene applicata una sanzione su singole rate ma sull’intero contributo ed è solo con lo scadere del termine di pagamento dell’ultima rata che matura la sanzione sull’intero contributo.

Sono infondate le censure rivolte avverso il comportamento tenuto dal Comune di violazione dei doveri di correttezza, diligenza e buona fede, per avere omesso di rivolgersi al fideiussore al fine di esigere il pagamento delle rate del contributo non pagate, evitando così il maturare degli interessi e l’irrogazione delle sanzioni.
Il Collegio aderisce all’orientamento, già accolto in alcuni precedenti della Sezione, secondo cui l'amministrazione non ha un obbligo, a fronte del ritardato pagamento degli oneri concessori, di attivarsi nei confronti del garante per il recupero di quanto dovuto (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 21.07.2009, n. 4405; n. 4306/2009; Consiglio Stato, sez. IV, 10.08.2007, n. 4419; sez. V, 11.11.2005, n. 6345; 16.07.2007 n. 4025; sez. IV 13.03.2008 n. 1084; sez. II, 24.05.2006 n. 7683/2004; TAR Campania Salerno, sez. II, 16.06.2008, n. 1936).
La fideiussione che accompagna la rateizzazione del pagamento degli oneri di urbanizzazione non ha, difatti, la finalità di agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì costituisce una garanzia personale prestata unicamente nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale non incombe, quindi, alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore; la garanzia sussidiaria serve a scongiurare che il Comune possa irrimediabilmente perdere una entrata di diritto pubblico, ma non alleggerisce affatto la posizione del soggetto tenuto al pagamento, né attenua i doveri di diligenza sullo stesso incombenti, né estingue di per sé l'obbligazione principale (Cons. Stato, sez. V, 11.11.2005, n. 6345).
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La società ricorrente contesta, poi, l’intervenuta prescrizione della pretesa del pagamento del contributo e delle relative sanzioni.
Anche questa censura è infondata.
La giurisprudenza è concorde nel ritenere che il diritto di credito dell'amministrazione comunale avente ad oggetto il pagamento del contributo dovuto per il rilascio della concessione edilizia sia soggetto all'ordinario termine decennale di prescrizione, decorrente dalla data di rilascio della concessione edilizia (Consiglio Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2686; sez. V, 04.08.2000, n. 4302).
Nel caso di specie, il "dies a quo" per la prescrizione dell'obbligo giuridico relativo al pagamento del costo di costruzione e degli oneri di urbanizzazione decorre dal 18.04.2002, giorno del rilascio del titolo edilizio.
L'impugnata ingiunzione di pagamento è stata adottata il 10.02.2009, quando il diritto di credito del Comune non era, dunque, prescritto.
Le sanzioni pecuniarie previste all’art. 42, d.P.R. n. 380/2001 per i casi di ritardato o omesso versamento del contributo di costruzione sono, invece, soggette -in mancanza di una diversa disciplina legale- al termine di prescrizione di cinque anni stabilito dall'art. 28 della legge 24.11.1981, n. 689 (Cass., Sez. I, sent. n. 23633 del 06-11-2006; TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 30.01.2008, n. 70; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 22.04.2005 n. 647; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 08.10.2001 n. 1514; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 08.05.2006 n. 701).
In caso di omesso pagamento del contributo, il dies a quo del termine di prescrizione quinquennale va individuato nella scadenza del termine di 240 giorni successivi alla data prevista per il pagamento del contributo (cfr. TAR Basilicata Potenza, sez. I, 30.04.2008, n. 141).
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A norma dell’art. 42 del D.P.R. n. 380 del 2001, invero, la sanzione massima, pari al 40% del contributo dovuto trova applicazione quando l'omissione del pagamento del contributo si protrae fino a 240 giorni dalla scadenza. Decorso inutilmente tale termine il Comune può provvedere alla riscossione coattiva del complessivo credito.
Il termine di prescrizione inizia, dunque, a decorrere dal 241° giorno successivo alla scadenza prevista per il pagamento poiché, in caso di omesso versamento del contributo, il diritto alla riscossione della sanzione del 40% può essere fatto valere dal Comune solo da tale momento.
Nel caso in cui il privato abbia ottenuto la rateizzazione del pagamento e non abbia corrisposto l’intero contributo -e dunque non solo una singola rata- (come accade nella fattispecie oggetto del presente giudizio in cui la prima rata ha un importo pari a zero e le altre tre rate non sono state pagate) va preso a riferimento -quale termine di scadenza del pagamento- il termine di scadenza dell’ultima rata (e dunque non il termine di scadenza delle singole rate).
In tale ipotesi, invero, non viene applicata una sanzione su singole rate ma sull’intero contributo ed è solo con lo scadere del termine di pagamento dell’ultima rata che matura la sanzione sull’intero contributo.
Nel caso di specie, il termine di 240 giorni successivi alla data di scadenza del pagamento dell’ultima rata (18.10.2003) è il 14.06.2004: poiché l’ingiunzione di pagamento è del 10.02.2009, anche il diritto al pagamento delle sanzioni pecuniarie non si è prescritto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2189 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Gli aggetti (bow window) presenti sull’edificio in questione non possono considerarsi meri elementi decorativi; al contrario, estendendo il volume edificatorio, costituiscono corpo di fabbrica e vanno, pertanto, conteggiati nel calcolo della distanza.

Con la seconda censura il ricorrente lamenta la violazione della distanza di 10 metri dall’immobile di sua proprietà -situato sul mappale n. 4705, esterno al piano di lottizzazione– in quanto il p.d.l. ometterebbe di considerare la presenza in aggetto alla facciata nord-ovest dell’edificio, di un bow window.
Questa censura è fondata.
La tavola 3.1. non raffigura, invero, la presenza sulla facciata dell’edificio di proprietà del ricorrente, situato sul mappale n. 4705, di due bow window e non ne tiene, dunque, in considerazione nel conteggio della distanza prevista di 10 metri.
Per costante giurisprudenza, l'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
Gli aggetti presenti sull’edificio in questione non possono considerarsi meri elementi decorativi; al contrario, estendendo il volume edificatorio, costituiscono corpo di fabbrica e vanno, pertanto, conteggiati nel calcolo della distanza.
Le deliberazioni n. 24 del 28.05.2010 e n. 58 del 22.12.2009 sono pertanto illegittime nella parte in cui consentono l’edificazione ad una distanza inferiore ai 10 metri dall’immobile situato sul mappale 4705, per non avere tenuto conto degli aggetti presenti sulla facciata nord ovest dell’edificio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.09.2011 n. 2187 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Pensiline.
La sostanziale identità delle nozioni di tettoia e pensilina ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli agenti atmosferici, determina la necessità del permesso di costruire nei casi in cui sia da escludere la natura precaria o pertinenziale dell'intervento (Corte di Cassazione, Sez. feriale, sentenza 07.09.2011 n. 33267 - link a www.lexambiente.it).

APPALTI: E' legittimo il provvedimento di esclusione da una gara adottato da una stazione appaltante nei confronti di un concorrente, in relazione ad un decreto penale per un reato relativo alla violazione di norme sulla sicurezza dei lavoratori.
La gravità del reato, ai sensi dell'art 38, c. 1, lett. c), del d.lgs. n. 163/2006, non è esclusa dalla lieve pena edittale prevista nella fattispecie penale o dalla natura contravvenzionale del reato. La gravità del reato deve essere valutata in relazione alla incidenza del reato sulla moralità professionale; il contenuto del contratto oggetto della gara assume allora importanza fondamentale al fine di apprezzare il grado di "moralità professionale" del singolo concorrente.
Pertanto, è irrilevante, rispetto a siffatta valutazione della stazione appaltante, la gravità del reato sanzionato in sede penale in relazione alla pena edittale o al fatto che si tratti di contravvenzioni. Nel caso di specie, pertanto, si deve ritenere legittima la valutazione della stazione appaltante che abbia escluso una concorrente da una gara di appalto di lavori, in relazione ad un decreto penale per un reato relativo alla violazione di norme sulla sicurezza dei lavoratori (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 07.09.2011 n. 7143 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAIl permesso di costruire decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio. La regola generale -con la sola eccezione dell'ipotesi che i lavori precedentemente assentiti siano già cominciati- della decadenza del permesso di costruire in caso di contrasto con la pianificazione disciplinata dall'art. 15, comma 4, dpr 380/2001, trova infatti la sua ratio nell'esigenza di garantire indefettibile applicazione alle sopravvenute previsioni in quanto volte ad un più razionale assetto del territorio.
Nel caso di sopravvenienza di una nuova disciplina del territorio, la decadenza di cui all'art. 15 d.P.R. n. 380 del 2001 consegue infatti automaticamente dalla circostanza obiettiva del mancato inizio dei lavori alla data di entrata in vigore del nuovo piano e, quindi, all'inerzia dell'interessato. La pronuncia di decadenza di cui all'art. 15, comma 4, è espressione di un potere vincolato, avente natura ricognitiva con effetti "ex tunc", diretto ad accertare il venir meno degli effetti del titolo edilizio difforme dal piano urbanistico sopravvenuto.
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L'amministrazione non è tenuta a fornire specifiche motivazioni sulla adozione dell'atto di decadenza del permesso di costruire (ex art. 15, comma 4, dpr 380/2011), in quanto qui non si è in presenza di un provvedimento negativo o di autotutela e la pronuncia di decadenza, per il suo carattere dovuto, è sufficientemente motivata con la sola evidenziazione dell'effettiva sussistenza dei presupposti di fatto. Né è richiesta alcuna ulteriore specificazione, stante la immediata e diretta prevalenza dell'interesse pubblico all'attuazione della regolamentazione sopravvenuta che è imposta dalla norma in questione.
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L'istituto della decadenza del permesso di costruire dall'art. 15, comma 4, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, ha natura dichiarativa, e presuppone un atto di accertamento di un effetto che consegue "ex lege" e che è espressione di un potere vincolato, avente natura ricognitiva con effetti "ex tunc", diretto ad accertare il venir meno degli effetti del titolo edilizio difforme dal piano urbanistico sopravvenuto.
L’atto emanato per il solo verificarsi dell’evento indicato dalla legge, come tale, è sottratto alla disponibilità delle parti, per cui il privato, anche se fosse tempestivamente avvertito dell'avvio del relativo procedimento, non avrebbe alcuna possibilità d'influirvi a proprio vantaggio.
L'avviso d'avvio del procedimento ex. art. 7 l. 07.08.1990 n. 241 intende assicurare l'apporto partecipativo dei destinatari dell'atto conclusivo -affinché quest'ultimo realizzi un assetto ragionevole degli interessi, pubblici e privati, coinvolti e confliggenti, per cui tale possibilità non sussiste nel caso di decadenza dalla concessione edilizia, per mancato inizio dei lavori .
La violazione dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241 non può dunque essere ritenuta sussistente in caso di adozione del provvedimento di decadenza del permesso di costruire, essendo questo strettamente correlato al verificarsi delle condizioni che ne legittimano l'adozione; di talché, la partecipazione del privato al relativo procedimento risulterebbe inutile e defatigante.

Come esattamente rilevato dal TAR, nel caso di specie è, in ogni caso, risolvente ai fini del decidere il fatto che l’appellante non avesse iniziato i lavori di cui al permesso di costruzione dichiarato decaduto.
In tale ottica, doveva farsi applicazione del principio di cui all’art. 15, comma 4, del testo unico n. 380 del 2001, per cui “Il permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”. La regola generale -con la sola eccezione dell'ipotesi che i lavori precedentemente assentiti siano già cominciati- della decadenza del permesso di costruire in caso di contrasto con la pianificazione disciplinata dal cit. art. 15, comma 4, trova infatti la sua ratio nell'esigenza di garantire indefettibile applicazione alle sopravvenute previsioni in quanto volte ad un più razionale assetto del territorio (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 10.08.2007, n. 4423; Consiglio Stato, sez. IV, 08.02.2008, n. 434).
Nel caso di sopravvenienza di una nuova disciplina del territorio, la decadenza di cui all'art. 15 d.P.R. n. 380 del 2001 consegue infatti automaticamente dalla circostanza obiettiva del mancato inizio dei lavori alla data di entrata in vigore del nuovo piano e, quindi, all'inerzia dell'interessato (cfr. in tal senso: Consiglio Stato, sez. IV, 08.02.2008, n. 434). La pronuncia di decadenza di cui all'art. 15, comma 4, è espressione di un potere vincolato, avente natura ricognitiva con effetti "ex tunc", diretto ad accertare il venir meno degli effetti del titolo edilizio difforme dal piano urbanistico sopravvenuto (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 10.08.2007, n. 4423).
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L'amministrazione non è tenuta a fornire specifiche motivazioni sulla adozione dell'atto di decadenza del permesso di costruire (ex art. 15, comma 4, dpr 380/2011), in quanto qui non si è in presenza di un provvedimento negativo o di autotutela e la pronuncia di decadenza, per il suo carattere dovuto, è sufficientemente motivata con la sola evidenziazione dell'effettiva sussistenza dei presupposti di fatto. Né è richiesta alcuna ulteriore specificazione, stante la immediata e diretta prevalenza dell'interesse pubblico all'attuazione della regolamentazione sopravvenuta che è imposta dalla norma in questione (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 10.08.2007, n. 4423).
Quanto all’interesse pubblico appare prevalente quello alla tutela del paesaggio ed alla preservazione naturalistica della riserva protetta, che l’intervento dichiarato decaduto per mancato inizio lavori avrebbe del tutto vanificato.
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L'istituto della decadenza del permesso di costruire dall'art. 15, comma 4, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, ha natura dichiarativa, e presuppone un atto di accertamento di un effetto che consegue "ex lege" e che è espressione di un potere vincolato, avente natura ricognitiva con effetti "ex tunc", diretto ad accertare il venir meno degli effetti del titolo edilizio difforme dal piano urbanistico sopravvenuto (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, n. 4423 cit.).
L’atto emanato per il solo verificarsi dell’evento indicato dalla legge, come tale, è sottratto alla disponibilità delle parti, per cui il privato, anche se fosse tempestivamente avvertito dell'avvio del relativo procedimento, non avrebbe alcuna possibilità d'influirvi a proprio vantaggio.
L'avviso d'avvio del procedimento ex. art. 7 l. 07.08.1990 n. 241 intende assicurare l'apporto partecipativo dei destinatari dell'atto conclusivo -affinché quest'ultimo realizzi un assetto ragionevole degli interessi, pubblici e privati, coinvolti e confliggenti, per cui tale possibilità non sussiste nel caso di decadenza dalla concessione edilizia, per mancato inizio dei lavori .
La violazione dell'art. 7 l. 07.08.1990 n. 241 non può dunque essere ritenuta sussistente in caso di adozione del provvedimento di decadenza del permesso di costruire, essendo questo strettamente correlato al verificarsi delle condizioni che ne legittimano l'adozione; di talché, la partecipazione del privato al relativo procedimento risulterebbe inutile e defatigante (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 29.03.2002, n. 1785) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.09.2011 n. 5028 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'onere di verificare la veridicità delle preesistenti attestazioni incombe sul cessionario d'azienda.
Con sentenza 05.09.2011 n. 4997, il Consiglio di Stato, Sez. VI, ha precisato che incombe sull’imprenditore, acquirente di un ramo d’azienda, l’onere della verifica della veridicità delle preesistenti attestazioni relative al plesso aziendale da lui acquisito e di cui assume, oltre alle utilità, anche il rischio.
La decisione del Consiglio di Stato ha riformato la sentenza del TAR Roma, con la quale era stato annullato il provvedimento con cui l’Autorità di Vigilanza sui lavori pubblici aveva comunicato ad una società il suo inserimento nel casellario informatico, per accertate falsità nelle dichiarazioni rese sui requisiti e condizioni rilevanti per la partecipazione alle procedure di gara.
In particolare, il TAR Roma aveva motivato la sua decisione sulla circostanza che la falsa dichiarazione non fosse riconducibile direttamente alla società ricorrente, poiché la certificazione non veritiera seguiva l’acquisto di un ramo d’azienda da una società che, a sua volta, aveva acquistato la struttura aziendale, già fornita di attestazione di qualificazione, da un’altra società.
In riforma della sentenza di primo grado, il Consiglio di Stato ha chiarito che l’imputabilità di una falsa dichiarazione può essere ascritta anche all’imprenditore che ha tenuto una condotta non uniformata alla diligenza esigibile nel mercato dei pubblici appalti, come nel caso in cui abbia omesso di effettuare adeguati controlli in occasione dell’acquisto di un ramo di azienda.
Ed infatti ad avviso dei giudici “Dal principio generale di successione nei rapporti giuridici oggettivi dell’azienda ceduta (cfr. art. 2558 Cod. civ.) nel cui novero rientrano anche gli effetti di queste dichiarazioni circa l’affidabilità morale e professionale indistintamente valevoli verso le stazioni appaltanti pubbliche, consegue che, in caso di acquisto di ramo di azienda, incombe sull’imprenditore acquirente –che dal momento diviene attributario delle qualificazioni– l’onere della verifica della veridicità delle preesistenti attestazioni relative al plesso aziendale da lui acquisito e di cui assume, con le utilità, il rischio.
Al cessionario d’azienda possono dunque non essere, a questi fini, addebitate false dichiarazioni del cedente solo in caso di comprovata impossibilità di loro conoscenza, seppur in presenza di opportune verifiche effettuate in occasione della cessione, in relazione alle dimensioni dell’impresa e al settore di attività interessato (cfr. in senso conforme, Cons. Stato, II, parere n. 1661/2005 del 25.05.2005, per il quale rimane imputabile all’acquirente la falsità non difficilmente accertabile, ad es. mediante i certificati penali e dei carichi pendente dei gestori della cedente)
”.
In conclusione, secondo i giudici del Consiglio di Stato, l’imprenditore che acquista un ramo d’azienda deve adottare tutta la diligenza, esigibile nel mercato dei pubblici appalti, e necessaria per la tutela dell’affidamento delle amministrazioni pubbliche (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl certificato di agibilità non ha alcuna attinenza con fini di tutela urbanistico-edilizia e si limita quindi ad attestare una situazione oggettiva e, in particolare, la corrispondenza dell'opera realizzata al progetto assentito, nonché la mancanza di cause di insalubrità limitate alla costruzione in sé considerata.
Osserva in proposito la Sezione che l’art. 221, comma 1, del r.d. n. 1265/1934 stabiliva, che “Gli edifici o parti di essi indicati nell'articolo precedente non possono essere abitati senza autorizzazione del podestà, il quale la concede quando, previa ispezione dell'ufficiale sanitario o di un ingegnere a ciò delegato, risulti che la costruzione sia stata eseguita in conformità del progetto approvato, che i muri siano convenientemente prosciugati e che non sussistano altre cause di insalubrità”.
L’art. 4, comma 1, del d.P.R. n. 425/1994, il cui art. 5 ha abrogato detto art. 221, stabiliva, all’epoca della adozione del provvedimento impugnato, che “Affinché gli edifici, o parti di essi, indicati nell'art. 220 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265, possano essere utilizzati, è necessario che il proprietario richieda il certificato di abitabilità al sindaco, allegando alla richiesta il certificato di collaudo, la dichiarazione presentata per l'iscrizione al catasto dell'immobile, restituita dagli uffici catastali con l'attestazione dell'avvenuta presentazione, e una dichiarazione del direttore dei lavori che deve certificare, sotto la propria responsabilità, la conformità rispetto al progetto approvato, l'avvenuta prosciugatura dei muri e la salubrità degli ambienti”.
Il certificato di agibilità non ha, quindi, alcuna attinenza con fini di tutela urbanistico-edilizia e si limita quindi ad attestare una situazione oggettiva e, in particolare, la corrispondenza dell'opera realizzata al progetto assentito, nonché la mancanza di cause di insalubrità limitate alla costruzione in sé considerata
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2011 n. 4982 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARIMulte strada. Infrazioni contestabili in fotocopia.
In ipotesi di contestazione immediata di una infrazione stradale la polizia può consegnare al trasgressore anche una semplice fotocopia del verbale. In questo caso infatti il codice della strada non richiede copie autentiche o originali della multa.
Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. II civ., con sentenza 02.09.2011 n. 18047.
Un automobilista ha mancato la precedenza con un veicolo non assicurato e per questo è stato sanzionato dai carabinieri con contestazione immediata delle infrazioni. Il giudice di pace ha però accolto le doglianze dell'autista annullando tutte le multe evidenziando l'irregolarità del verbale consegnato all'interessato in semplice fotocopia.
La Cassazione è di contrario avviso. L'accertamento stradale che si concretizza con l'identificazione del trasgressore sul luogo dell'infrazione non richiede alcuna particolare formalità. Nel caso in cui la violazione deve essere portata a conoscenza del trasgressore, successivamente, l'art. 201 del codice stradale è invece particolarmente rigoroso. In buona sostanza solo in questa ipotesi la legge richiede la consegna al destinatario di copia autentica o originale della multa (articolo ItaliaOggi del 24.09.2011).

EDILIZIA PRIVATAVa sottolineata la prevalenza della disciplina imperativa delle distanze di cui all'art. 9 del DM 1444/1968 che, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione, per cui le distanze legali previste dagli standards urbanistici sono immediatamente applicabili ai rapporti privati, anche ove gli strumenti urbanistici prevedono distanze minori. Si tratta di una disposizione dettata in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
In merito poi alle modalità di calcolo di tale distanza, va ricordato come questa va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, e va computata in relazione a tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.

La censura proposta sottolinea come l’edifico progettato, che prevede la realizzazione di balconi per i tre piani previsti in elevazione, dell’ampiezza pari a ml. 1,5, non rispetterebbe le disposizioni sulle distanze tra edifici, posto che la distanza, nel caso di specie, tenuto conto dei balconi previsti e di quelli del frontistante fabbricato condominiale, sarebbe senz’altro inferiore a quella indicata in ml. 10.50, calcolata appunto senza tenere conto dei balconi. Ci sarebbe quindi violazione dell’art. 22 N.T.A. del P.R.G. che prevede che “il distacco minimo tra pareti che fronteggino edifici preesistenti deve essere pari ad almeno l’altezza dell’edificio da costruire e, comunque, mai inferiore a ml. 10”, dove il costruendo fabbricato è posto ad una distanza di ml. 10.50 rispetto alla parete del fabbricato antistante il condominio “Verde Sud”.
Il giudice di prime cure, evidenziando come l’art. 5, lett. A), IV comma della NTA, preveda che dal calcolo delle distanze “restano esclusi gli sporti dalle pareti quali cornicioni, balconi, pensiline, ecc.”, ha escluso l’illegittimità della previsione ed ha ritenuto che non fosse applicabile la normativa nazionale sui distacchi tra edifici, in quanto questa, avendo la funzione di evitare la produzione di intercapedini da dannose, riguarda espressamente le “pareti finestrate”.
Va tuttavia rimarcato come la giurisprudenza di questa Sezione (Consiglio di Stato, sez. IV, 02.11.2010, n. 7731) abbia già osservato come la questione debba essere diversamente valutata. In primo luogo, va sottolineata la prevalenza della disciplina imperativa delle distanze di cui all'art. 9 che, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione (Consiglio Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909), per cui le distanze legali previste dagli standards urbanistici sono immediatamente applicabili ai rapporti privati, anche ove gli strumenti urbanistici prevedono distanze minori. Si tratta di una disposizione dettata in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
In merito poi alle modalità di calcolo di tale distanza, va ricordato come questa va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, e va computata in relazione a tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene (Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.1996, n. 268).
Nel caso in specie, l’ampiezza dei balconi, pari a ml. 1,50, è tale da non poter essere inclusa nel concetto di modeste dimensioni, stante la loro funzione di estendere ed ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.09.2011 n. 4968 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn presenza di una lottizzazione scaduta per decorrenza del termine decennale, l'amministrazione non perde il potere di rilasciare provvedimenti funzionali al completamento del piano, ferma restando la disciplina urbanistico–edilizia dell’area da esso dettata che, anche per la parte rimasta inattuata, continua a trovare applicazione fino all’approvazione di un nuovo piano urbanistico. In sostanza, la scadenza del termine di validità di un piano di lottizzazione non consente all'amministrazione di procedere, "sic et simpliciter", alla declaratoria di intervenuta perdita di efficacia dello stesso, dovendo, invece, dar conto delle ragioni sottese alla necessità di rendere inoperanti le relative previsioni rimaste inattuate, dando altresì conto delle valutazioni effettuate circa il rapporto tra le opere ultimate e quelle non ancora eseguite.
La circostanza che il ricorrente non sia proprietario di aree ricomprese nel perimetro del piano di recupero, mentre non esclude ex se la legittimazione, radicata sul criterio della vicinitas, incide invece sulla configurabilità dell’interesse al ricorso, dovendosi fornire adeguata dimostrazione del pregiudizio in concreto risentito in conseguenza dei vizi dedotti.

In presenza di una lottizzazione scaduta per decorrenza del termine decennale, l'amministrazione non perde il potere di rilasciare provvedimenti funzionali al completamento del piano, ferma restando la disciplina urbanistico–edilizia dell’area da esso dettata che, anche per la parte rimasta inattuata, continua a trovare applicazione fino all’approvazione di un nuovo piano urbanistico (cfr. ex plurimis, Consiglio Stato, sez. V, 12.10.2004, n. 6527; sez. VI, 20.01.2003, n. 200; IV, 11.03.2003, n. 1315; id. 16.03.1999, n. 286; nonché sez. IV, 02.06.2000 n. 3172; TAR Calabria, Reggio Calabria, 01.10.2002, n. 1187, per cui: <<In sostanza, la scadenza del termine di validità di un piano di lottizzazione non consente all'amministrazione di procedere, "sic et simpliciter", alla declaratoria di intervenuta perdita di efficacia dello stesso, dovendo, invece, dar conto delle ragioni sottese alla necessità di rendere inoperanti le relative previsioni rimaste inattuate, dando altresì conto delle valutazioni effettuate circa il rapporto tra le opere ultimate e quelle non ancora eseguite>>).
Come affermato anche di recente dal Consiglio di Stato (cfr. la decisione della sez. IV, 29.12.2010, n. 9537), la circostanza che il ricorrente non sia proprietario di aree ricomprese nel perimetro del piano di recupero, mentre non esclude ex se la legittimazione, radicata sul criterio della vicinitas, incide invece sulla configurabilità dell’interesse al ricorso, dovendosi fornire adeguata dimostrazione del pregiudizio in concreto risentito in conseguenza dei vizi dedotti (cfr. la cit. sentenza, per cui:<<Il criterio della vicinitas, seppur idoneo a supportare la legittimazione al ricorso, non esaurisce certo gli ulteriori profili dell'interesse concreto all'impugnazione, costituito dalla lesione effettiva e documentata delle facoltà dominicali del ricorrente>>) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sì alla concessione edilizia in sanatoria se conforme alla normativa previgente alla presentazione della domanda.
Accertamento di conformità - Art. 16 Lr Sardegna n. 23 dell’11.10.1985, e art. 36 del Dpr n. 380 del 06.06.2001 - Doppia conformità - Normativa ostativa all’edificazione sopravvenuta alla domanda di accertamento di conformità.

Con la sentenza in rassegna il Tar si esprime sulle norme che regolano la concessione edilizia in sanatoria chiarendo la portata applicativa dell’art. 16 della legge regionale n. 23/1985 e dell’art. 36 del Dpr n. 380/2001.
Tali disposizioni, nella parte in cui richiedono per la sanatoria delle opere eseguite senza concessione e con varianti non autorizzate, che l’opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di accertamento di conformità, sono, secondo i giudici amministrativi, disposizioni che operano avverso l’inerzia dell’amministrazione. La verifica di tale doppia conformità, infatti, impedisce all’amministrazione di negare la concessione in sanatoria sulla base della modificazione della relativa normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda stessa.
Il Tar Sardegna inoltre, dichiarando illegittimo il diniego di autorizzazione in sanatoria per opere, quali chioschi bar e area tavolini e sedie, realizzate su aree demaniali marittime, chiarisce che “la modifica dell’assetto del territorio non richiede la concessione edilizia solo quando sia di minima entità ovvero di carattere precario, così intendendosi le opere, agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare un’esigenza oggettivamente temporanea (es. baracca o pista di cantiere, manufatto per una manifestazione…) destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza l’interesse finale”.
Peraltro il mancato rispetto (in parte) del posizionamento delle strutture nell’area demaniale, secondo le prescrizioni contenute nella concessione, e purché i manufatti siano ubicati all’interno dell’area in concessione, non rappresenta un ostacolo al rilascio dell’autorizzazione edilizia sia perché il richiedente è in possesso del titolo (concessione demaniale) legittimante la domanda edilizia, sia perché lievi modifiche rispetto al posizionamento delle strutture previsto nella concessione demaniale potranno essere valutate ad altri fini, ove ritenute rilevanti, dall’ente concedente (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 914 - tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 9/2011 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Legittimo il diniego a un’istanza di accesso generica.
Accesso atti amministrativi - Istanza - Specificità della domanda - Necessità.

Con la decisione in rassegna, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, richiamando la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia (Cons. Stato, sez. IV, n. 5360 del 22.09.2003; n. 8287 del 27.11.2010, e sez. VI, n. 116 del 12.01.2011), ha ribadito che non può essere accolta una domanda di accesso agli atti amministrativi che risulti caratterizzata da una formulazione generica, ossia riguardante non specifici atti o provvedimenti, bensì la documentazione di un’attività svoltasi attraverso un imprecisato numero di atti tanto che l’eventuale soddisfazione di una simile richiesta, siccome formulata, importerebbe un’opera di ricerca, catalogazione, sistemazione che, non rientra nei doveri posti all’amministrazione dalla normativa di cui al capo V della legge n. 241/1990.
Il Tar specifica inoltre che anche la risposta a una domanda di accesso agli atti, caratterizzata da un contenuto elusivo, debba essere considerata alla stregua del diniego di accesso e deve essere pertanto impugnata nel termine decadenziale di trenta giorni ex art. 116 c.p.a., pena l’improcedibilità del ricorso avverso il diniego ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a. (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 01.09.2011 n. 7107 - tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 9/2011 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl divieto di edificare entro il raggio di 200 metri dal perimetro cimiteriale non può riguardare anche gli impianti di telefonia mobile, sia perché la realizzazione di tali infrastrutture non appare in contrasto con nessuna delle tre finalità sottese alla disciplina posta dall’art. 338, comma 1, del R.D. n. 1265/1934 (assicurare condizioni di igiene e di salubrità mediante la conservazione di una “cintura sanitaria” intorno al cimitero, consentire futuri ampliamenti del cimitero, garantendo il rispetto della tranquillità ed il decoro dei luoghi di sepoltura), sia perché l’art. 86 del decreto legislativo n. 259/2003 assimila, ad ogni effetto, tali impianti alle opere di urbanizzazione primaria di cui all’articolo 16, comma 7, del D.P.R. n. 380/2001, e tale assimilazione rende gli impianti di cui trattasi compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica delle diverse zone del territorio comunale.
Si registrano orientamenti contrastanti in merito alla compatibilità degli impianti di telefonia mobile con il vincolo di inedificabilità posto dall’art. 338, comma 1, del R.D. n. 1265 del 27.07.1934, secondo il quale “i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”. In particolare:
- il primo orientamento (ex multis, TAR Lombardia Brescia, Sez. I, 01.12.2009, n. 2381; TAR Toscana Firenze, Sez. I, ordinanza 20.05.2009, n. 397), invocato dal Comune di Orta di Atella nella motivazione del provvedimento impugnato, si fonda sul seguente ragionamento:
a) il vincolo cimiteriale ha una triplice finalità -perché, oltre a soddisfare esigenze di carattere sanitarie ed a salvaguardare le possibilità di espansione del perimetro cimiteriale, tutela anche la c.d. pietas nei confronti dei defunti, garantendo il rispetto della tranquillità ed il decoro dei luoghi di sepoltura- e tali finalità vengono pregiudicate anche dalla realizzazione di una struttura ad elevato impatto sull’ambiente, quale è un traliccio per le telecomunicazioni;
b) il vincolo cimiteriale non è riferito soltanto agli immobili destinati alla stabile residenza di persone, perché l’art. 338 del R.D. n. 1265/1934 reca un divieto generalizzato di costruire nella fascia di rispetto cimiteriale, senza limitare tale divieto a specifiche tipologie di manufatti;
c) le valutazioni in fatto sulla concreta compatibilità di un manufatto con la fascia di rispetto cimiteriale sono quindi estranee alla disciplina del vincolo di cui trattasi, che si fonda su valutazioni astratte operate una volta per tutte dal legislatore;
- a fronte di tale orientamento, la giurisprudenza attualmente maggioritaria (in particolare, Cons. Stato, Sez. VI, ordinanza 16.07.2009, n. 3657, che riforma l’ordinanza del TAR Toscana Firenze, Sez. I, n. 397/2009; Cons. Stato, Sez. VI, ordinanza 24.02.2010, n. 877, che sospende la sentenza del TAR Lombardia Brescia, Sez. I, n. 2381/2009; TAR Toscana Firenze, Sez. I, 05.05.2010, n. 1239; TAR Lazio Roma, Sez. II-bis, 14.05.2007, n. 4367) afferma che gli impianti di telefonia mobile risultano compatibili con il vincolo di rispetto cimiteriale, la cui ratio non risulta in alcun modo compromessa da una scelta localizzativa degli stessi nella fascia di rispetto cimiteriale.
Sulla scorta del richiamato orientamento maggioritario, il Collegio ritiene di dover confermare in questa sede la decisione assunta in sede cautelare per le seguenti ragioni:
- innanzitutto deve ritenersi che il divieto di edificare entro il raggio di 200 metri dal perimetro cimiteriale non possa riguardare anche gli impianti di telefonia mobile, sia perché la realizzazione di tali infrastrutture non appare in contrasto con nessuna delle tre finalità sottese alla disciplina posta dall’art. 338, comma 1, del R.D. n. 1265/1934 (assicurare condizioni di igiene e di salubrità mediante la conservazione di una “cintura sanitaria” intorno al cimitero, consentire futuri ampliamenti del cimitero, garantendo il rispetto della tranquillità ed il decoro dei luoghi di sepoltura), sia perché l’art. 86 del decreto legislativo n. 259/2003 assimila, ad ogni effetto, tali impianti alle opere di urbanizzazione primaria di cui all’articolo 16, comma 7, del D.P.R. n. 380/2001, e tale assimilazione rende gli impianti di cui trattasi compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica delle diverse zone del territorio comunale (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 15.07.2010, n. 4557);
- inoltre -quand’anche si opinasse diversamente- si deve ribadire in questa sede che il Comune di Orta di Atella non ha operato un’adeguata ponderazione dell’interesse della società ricorrente ad evitare la rimozione di una stazione radio base già realizzata, così violando la disposizione generale in materia di autotutela decisoria posta dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990. In particolare l’Amministrazione comunale non ha tenuto conto del fatto che i lavori per la realizzazione dell’impianto risultano ultimati da oltre un anno (a seguito della decadenza -per effetto del decorso del termine di 45 giorni previsto dall’art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001- dell’ordine di sospensione dei lavori inizialmente adottato con l’ordinanza n. 66 del 04.11.2009, ritualmente notificata in pari data al sig. ..., in qualità dipendente della società ricorrente), né delle spese sostenute dalla società ricorrente per la realizzazione dell’impianto stesso, ma si è limitata ad evidenziare in motivazione che «l’impianto non è entrato in funzione in quanto sottoposto a sequestro probatorio e preventivo da parte della competente procura della Repubblica», sequestro peraltro revocato dal G.I.P. del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con provvedimento del 17.03.2010 (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 01.09.2011 n. 4261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sull'illegittimità di una delibera della giunta comunale che ha fissato la quota di partecipazione in misura unica ed eguale per tutti i fruitori del servizio del centro diurno per disabili (CDD).
E' illegittima la deliberazione della giunta comunale che ha stabilito che tutti i fruitori del centro diurno per disabili integrato (CDD) dovessero compartecipare in modo uguale e comunque senza alcun riferimento alla normativa ISEE al costo del servizio di trasporto da e per il CDD, a prescindere sia dalla fruizione del servizio, che dalla capacità reddituale degli utenti e dei loro nuclei familiari.
La partecipazione al costo dei servizi in maniera adeguata e proporzionata al reddito risponde al principio costituzionalmente codificato (art. 53) che collega il concorso alle spese pubbliche alla capacità contributiva di ciascuno, e si fonda sui canoni di equità e giustizia ai quali lo Stato e gli Enti territoriali sono tenuti ad ispirarsi e quindi "il criterio introdotto dal tavolo zonale urta contro i menzionati principi che ancorano il concorso agli oneri di funzionamento delle strutture (C.D.D.) alla situazione reddituale e patrimoniale dei richiedenti e delle loro famiglie.".
Conseguentemente, il provvedimento deve essere annullato in ragione della avvenuta fissazione della quota di partecipazione in misura unica ed eguale per tutti i fruitori del servizio, in quanto il totale disancoramento della quota di partecipazione imposta dalla particolare situazione della persona disabile che fruisce del servizio integra un comportamento discriminatorio e denota la totale assenza di quell'istruttoria la cui presenza si ritiene necessaria al fine di ammettere la considerazione del reddito dell'intero nucleo familiare in sede di quantificazione della contribuzione dovuta al costo del servizio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 01.09.2011 n. 1295 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ENTI LOCALI: Sull'incompatibilità dell'incarico di revisore dei conti comunale con quella di amministratore di una società comunale incaricata della gestione di servizi pubblici locali.
Sulla base della tumultuosa evoluzione del quadro normativo riguardante la gestione in house providing dei servizi pubblici locali si deve ormai ritenere che rientrino nelle funzioni del collegio dei revisori dei conti del Comune anche i compiti di collaborazione nell'esercizio del cosiddetto controllo analogo verso le società comunali che gestiscono servizi pubblici locali. E' del tutto plausibile, quindi, che un revisore dei conti del Comune sia chiamato, nella sua funzione, a occuparsi di fornire una consulenza in ordine al controllo analogo nei riguardi di una società comunale di servizi.
Poiché, nel caso di specie, il professionista controinteressato ha ricoperto l'incarico di amministratore della società comunale che gestisce i servizi ambientali, ciò sicuramente costituisce causa di incompatibilità assoluta alla carica di revisore comunale, non rimovibile con la semplice opzione, poiché rende sovrapponibili e non separabili, in un unico soggetto, le posizioni di controllore e di controllato, con palese violazione del principio di imparzialità amministrativa.
Tale situazione, peraltro, rientra pienamente nella previsione regolamentare dell'art. 39, c. 2 s, lett. c), del D.P.R. n. 99/1998 che attribuisce valenza di violazione disciplinare al fatto che il revisore abbia intrattenuto, nei due anni antecedenti, con il soggetto che conferisce l'incarico o con soggetti da esso controllati, rapporti continuativi aventi a oggetto prestazioni di consulenza o di collaborazione (TAR Molise, sentenza 04.08.2011 n. 529 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Veicoli fuori uso e pericolosità del rifiuto.
Non tutti i veicoli fuori uso sono solo per questo pericolosi. Invero, affinché un veicolo sia considerato pericoloso, è necessario non solo che esso sia fuori uso, ma anche che contenga liquidi o altre componenti pericolose, perché altrimenti rientra nella categoria 16.01.06 e non è qualificato come pericoloso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.08.2011 n. 30554 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Immobili interrati.
E' necessario il permesso di costruire per la realizzazione di immobili in tutto o in parte interrati, trattandosi di opere per le quali l'autorità comunale deve svolgere il suo controllo diretto ad assicurare sia l'ordinato sviluppo dell'aggregato urbano, sia il rispetto delle norme urbanistiche ed anche l'osservanza delle regole tecniche di costruzione prescritte dalla legge (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.07.2011 n. 30243 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi in aree sismiche.
L'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti previsto dall'art. 9 testo unico dell'edilizia e quello di preventiva autorizzazione previsto dall'articolo 94 riguardano tutte le opere realizzate nelle zone sismiche e precisamente, come prevede l'art. 83, «tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità, da realizzarsi in zone dichiarare sismiche››, a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture.
Infatti, la finalità perseguita dal legislatore è quella di rispettare le esigenze di una più rigorosa tutela dell'incolumità pubblica nelle zone dichiarate sismiche (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.07.2011 n. 30224 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi in totale difformità dal permesso di costruire.
La realizzazione di una maggiore superficie al piano terra di un fabbricato, con suddivisione in due vani non previsti in progetto e la creazione di un terzo locale mediante la chiusura di una veranda possono collocarsi tra gli interventi in difformità totale, in quanto aventi senza dubbio rilevanza urbanistica e recando gli stessi quel requisito di sostanziale autonomia rispetto al dato progettuale originario richiesto dalle disposizioni richiamate (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.07.2011 n. 30045 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi di restauro o di risanamento conservativo.
Nella categoria degli “interventi di restauro o di risanamento conservativo”, per i quali non occorre concessione, possono essere annoverate soltanto le opere di recupero abitativo, che mantengono in essere le preesistenti strutture, alle quali apportano o un consolidamento o un rinnovo di elementi costitutivi, anche attraverso l'inserimento di nuovi, sicché la demolizione dell'intero fabbricato non consente la sua ricostruzione, senza la necessaria verifica da parte dell'autorità amministrativa nell'ambito del procedimento concessorio e nel rispetto della normativa urbanistica vigente al momento del rilascio del provvedimento abilitativo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.07.2011 n. 30038 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia.
La ristrutturazione edilizia consiste nella trasformazione di un organismo edilizio mediante un insieme sistematico di opere che portino a un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente con interventi che comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi e impianti.
Tale attività di ristrutturazione può attuarsi attraverso una serie d'interventi che si caratterizzano per la connessione finalistica delle opere eseguite, che non devono essere riguardate analiticamente ma valutate nel loro complesso al fine di individuare se esse siano o meno rivolte al recupero edilizio dello spazio attraverso la realizzazione di un edificio in tutto o in parte nuovo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.07.2011 n. 30033 - link a www.lexambiente.it).

SICUREZZA LAVORO: Sicurezza: obblighi datore di lavoro, RSPP e capo cantiere. La Cassazione fa il punto sulle responsabilità ricadenti in capo a tutte le figure coinvolte dal decreto 81/2008.
L’obbligo dei titolari della posizione di sicurezza in materia di infortuni sul lavoro è articolato e comprende non solo l’istruzione dei lavoratori sui rischi connessi alle attività lavorative svolte e la necessità di adottare tutte le opportune misure di sicurezza, ma anche la effettiva predisposizione di queste, il controllo, continuo ed effettivo, circa la concreta osservanza delle misure predisposte per evitare che esse vengano trascurate o disapplicate nonché il controllo sul corretto utilizzo, in termini di sicurezza, degli strumenti di lavoro e sul processo stesso di lavorazione.
Questo l’importante principio con il quale la sentenza 19.07.2011 n. 28779 della Corte di cassazione, Sez. IV penale, ha fatto il punto sulle responsabilità in capo ai soggetti coinvolti nell’attuazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro.
La responsabilità del datore di lavoro non esclude peraltro la concorrente responsabilità del RSPP. Anche il RSPP, infatti, che pure è privo dei poteri decisionali e di spesa (e quindi non può direttamente intervenire per rimuovere le situazioni di rischio), può essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione.
Come il datore di lavoro ed il dirigente, anche il preposto (ed è tale il capo cantiere) è indubbiamente destinatario diretto delle norme antinfortunistiche, prescindendo da una eventuale «delega di funzioni» conferita dal datore di lavoro.
L’art. 19 D. Leg.vo 09.04.2008 n. 81 annovera, infatti, anche i preposti tra i soggetti obbligati ad «attuare le misure di sicurezza previste dal presente decreto». Vero è che tale obbligo incombe innanzitutto al datore di lavoro, ma il preposto non è soggetto estraneo al conseguimento dei risultati scaturenti dall’adempimento di quell’obbligo (commento tratto da www.legislazionetecnica.it).

APPALTI: Requisiti di partecipazione alla gara. Limiti del potere della stazione appaltante di introdurne ulteriori e maggiormente selettivi rispetto a quelli stabiliti dalle norme.
Il potere discrezionale dell'amministrazione appaltante di determinare le regole della gara e, in specie, di introdurre requisiti di partecipazione alla gara, oggettivi e/o soggettivi -ulteriori e maggiormente selettivi rispetto a quelli stabiliti dalle norme- incontra il limite del rispetto del principio di proporzionalità e di ragionevolezza; in tal modo i requisiti non devono restringere indebitamente l’accesso alla procedura e devono essere giustificati da specifiche esigenze imposte dal peculiare oggetto dell'appalto (1).
E’ illegittima, per violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, la clausola di un bando di gara per l’affidamento dell’appalto del servizio di mensa scolastica che, ai fini della partecipazione alla gara stessa, richieda, a pena di esclusione, il requisito del possesso di un pregresso fatturato nello specifico settore oggetto della gara (ristorazione scolastica) nove volte superiore a quello oggetto di gara; tale requisito, infatti, è eccessivo ed ingiustificato, per la mancata correlazione con l’interesse pubblico specifico ad una particolare qualificazione delle imprese partecipanti.
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(1) Cfr. TAR Sardegna, sez. I, 12.10.2010 n. 2293.
Ha osservato la sentenza in rassegna, che la peculiarità del servizio, e la giusta aspirazione ad elevati standard di qualità ed efficienza, non giustifica né la previsione di un livello di fatturato del tutto sproporzionato, né la sua limitazione allo specifico settore di gara (ristorazione scolastica), quando è noto che i medesimi requisiti di esperienza e professionalità possono essere maturati in settori del tutto affini o comunque sovrapponibili, come ad es. la ristorazione collettiva socio-sanitaria
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 15.07.2011 n. 1062 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALILe planimetrie presentate a corredo della richiesta di certificati ed autorizzazioni, redatte -secondo le vigenti disposizioni- dall'esercente una professione necessitante speciale abilitazione dello Stato, hanno natura di certificato, poiché assolvono la funzione di dare alla pubblica amministrazione un'esatta informazione intorno allo stato dei luoghi.
Risponde, pertanto, del delitto previsto dall'art. 481 c.p., il professionista che rediga relazioni grafiche (planimetrie) non conformi al predetto stato.

Con motivazione del tutto logica la Corte di appello di Genova, nel giudizio di rinvio, ha ritenuto la sussistenza della falsa attestazione addebitata all'imputato.
Allo stesso era stato contestato di aver attestato nella tavola inerente lo stato attuale del fabbricato che il medesimo presentava muri perimetrali aventi spessore di circa cm. 50, mentre invece il reale spessore dei muri variava da cm. 170 a cm. 130.
La Corte -disattendendo la tesi difensiva che al momento del sopralluogo effettuato dall'imputato non fossero stati ancora ispessiti i muri perimetrali del fabbricato- ha logicamente dedotto dalle dimensioni del perimetro complessivo del rustico riportate nella planimetria redatta dall'imputato che detto ispessimento era stato già operato al momento del sopralluogo effettuato dall'imputato, e quindi questi aveva falsamente attestato che i muri perimetrali avevano uno spessore di cm. 50.
Detta falsa attestazione era stata compiuta per consentire, nella ristrutturazione del fabbricato, di ricavare una superficie interna tre volte superiore a quella originaria.
Deve invece essere accolto il motivo di ricorso relativo alla qualificazione giuridica del fatto, poiché questa Corte, con giurisprudenza costante, ha stabilito che le planimetrie presentate a corredo della richiesta di certificati ed autorizzazioni, redatte -secondo le vigenti disposizioni- dall'esercente una professione necessitante speciale abilitazione dello Stato, hanno natura di certificato, poiché assolvono la funzione di dare alla pubblica amministrazione un'esatta informazione intorno allo stato dei luoghi.
Risponde, pertanto, del delitto previsto dall'art. 481 c.p., il professionista che rediga relazioni grafiche (planimetrie) non conformi al predetto stato (V. Sez. 5 sent. 5298 del 23.04.1993, Rv. 195375; Sez. 5 sent. 5098 dell'08.03.2000, Rv. 216056; Sez. 3 sent. 30401 del 23.06.2009, Rv. 244588; Sez. 5 sent. 35615 del 14.05.2010, Rv. 248878) (Corte di Cassazione, Sez. I penale, sentenza 05.07.2011 n. 26172).

URBANISTICAPer vincolo espropriativo o sostanzialmente espropriativo deve intendersi quel vincolo che incide su beni determinati in funzione della localizzazione puntuale di un'opera pubblica e che hanno portata e contenuto direttamente ablatori, come è agevole desumere dalla nota pronuncia della Corte Costituzionale (n. 179/1999) che ha originato l’emanazione della disposizione del T.U in materia di espropri, introdotta nell'ordinamento al dichiarato fine di indennizzare lo "svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà stessa, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati ... comportanti inedificabilità assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore dello Stato e delle Regioni": ossia allorquando non sia intervenuta l'espropriazione ovvero non sia iniziata neppure la procedura attuativa (preordinata all'esproprio) attraverso l'approvazione di piani particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di attuazione fissati dalla legge.
Viceversa "sono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene". A tale ultimo riguardo la Corte Cost. (sent. 179/1999) fa riferimento, a titolo esemplificativo, ai parcheggi, impianti sportivi, mercati e complessi per la distribuzione commerciale, edifici per iniziative di cura e sanitarie etc., che possono agevolmente essere ricompresi nei servizi di quartiere oggetto della precedente pianificazione e programmazione urbanistica della zona dove era ubicato il bene degli attori.

Come rappresentato da nell'atto introduttivo, secondo lo strumento urbanistico vigente dal 1974 l'area in questione era destinata a zona F sottozona F2, quindi a "costruzioni pubbliche d'importanza locale a servizio delle residenze quali: asili nido, scuole dell'obbligo, edifici per ti culto, mercati rionali, centri sociali, unità sanitarie locali, assistenziali, culturali, amministrative", con un indice di edificabilità pari a 2 mc/mq.
Il precedente vincolo non comportava, pertanto, l'inedificabilità assoluta, essendo l'area riservata a costruzioni di interesse pubblico a livello di servizi di quartiere; né, in difetto di specifica indicazione di un'opera pubblica da realizzare, tale destinazione poteva integrare gli estremi della fattispecie espropriativa in guisa tale da determinare, in caso di reiterazione del vincolo ablativo oltre i termini di normale tollerabilità fissati dalla legge (e senza corresponsione di indennizzo), una totale compressione del diritto di proprietà equiparabile pertanto ad una sostanziale espropriazione.
E' pur vero che l'attuale destinazione urbanistica dell'area a verde pubblico, adottata con la variante al P.R.G. in virtù della potestà pianificatoria che compete ai Comuni, può essere qualificata in termini di reiterazione atteso che (tenuto conto delle considerazioni svolte dalla Corte Cost. anche successivamente alla decisione n. 179/1999) è il perdurare del vincolo in sé a causare il danno alla proprietà anche in caso di introduzione di una destinazione differente (ritenuta "costituzionalmente legittima a condizione che l'esercizio di detta potestà non determini situazioni incompatibili con la garanzia della proprietà"'), essendo del tutto irrilevante (poiché l'obbligo dell'indennizzo è correlato alla mera lesività della previsione) che le ragioni sottese al reiterato vincolo si distacchino da quelle originarie.
Ma va tenuto presente che ai meri limiti di edificabilità imposti dal precedente strumento urbanistico fa attualmente riscontro un regime di inedificabilità derivante dalla legge, ricadendo l'area in questione nel Piano Territoriale Paesistico Regionale in quanto zona archeologica, come tale finalizzata all'interesse pubblico senza alcun vincolo (anche in questo caso) sostanzialmente espropriativo contabile alla precedente destinazione del terreno a servizi di quartiere che, peraltro, non aveva svuotato di contenuto il diritto degli attori. Il vincolo cosi come reiterato per effetto del nuovo assetto urbanistico attribuito all'area con la variante al P.R.G., non può che essere perciò qualificato come vincolo di tipo conformativo, con la conseguenza che esso non abbia fatto sorgere alcun diritto all'indennità prevista dall'art. 39 D.P.R. 327/2001.
A tale riguardo è infatti il caso di notare che per vincolo espropriativo o sostanzialmente espropriativo deve intendersi quel vincolo che incide su beni determinati in funzione della localizzazione puntuale di un'opera pubblica e che hanno portata e contenuto direttamente ablatori (v. Cass. S.U, 28051/2008), come è agevole desumere dalla nota pronuncia della Corte Costituzionale (n. 179/1999) che ha originato l’emanazione della disposizione del T.U in materia di espropri, introdotta nell'ordinamento al dichiarato fine di indennizzare lo "svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà stessa, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati,,., comportanti inedificabilità assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore dello Stato e delle Regioni": ossia allorquando non sia intervenuta l'espropriazione ovvero non sia iniziata neppure la procedura attuativa (preordinata all'esproprio) attraverso l'approvazione di piani particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di attuazione fissati dalla legge.
Viceversa "sono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene". A tale ultimo riguardo la Corte Cost. (sent. 179/1999) fa riferimento, a titolo esemplificativo, ai parcheggi, impianti sportivi, mercati e complessi per la distribuzione commerciale, edifici per iniziative di cura e sanitarie etc., che possono agevolmente essere ricompresi nei servizi di quartiere oggetto della precedente pianificazione e programmazione urbanistica della zona dove era ubicato il bene degli attori.
La stessa Corte Cost. ha peraltro precisato, richiamando i propri precedenti, "che non sono inquadrabili negli schemi dell'espropriazione, dei vincoli indennizzabili e dei termini di durata i beni immobili aventi valore paesistico-ambientale, in virtù della loro localizzazione o della loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge". Come nel caso specifico, in cui la nuova destinazione dell'area degli attori a verde pubblico risulta speculare air inclusione del bene nel Piano Territoriale Paesistico Regionale, trattandosi di zona di interesse archeologico ex L.R. 24/1998, il che risulta documentalmente comprovato.
Non ricorrendo quindi l’ipotesi della reiterazione di un vincolo espropriativo, e neppure sostanzialmente espropriativo, caratterizzato da inedificabilità assoluta, è evidente che il caso di specie è insuscettibile di essere inquadrato nell'ambito di applicazione della norma di cui all'art. 39 D.P.R. 327/2001, con la conseguenza che la domanda diretta ad ottenere una indennità "commisurata all'entità del danno effettivamente prodotto" dalla disposta reiterazione non possa che essere pertanto rigettata (CORTE DI APPELLO di Roma, Sez. I civile, sentenza 06.06.2011 n. 2521).

SICUREZZA LAVORO: Sicurezza, datore di lavoro: colpa in eligendo. La responsabilità penale diretta del datore di lavoro non è esclusa per la sola designazione di un responsabile per la sicurezza.
La responsabilità penale diretta del datore di lavoro e dei dirigenti ad esso assimilati non è affatto esclusa per la sola designazione di un responsabile per la sicurezza, in quanto essi rispondono anche della eventuale manchevolezza del piano stesso sotto forma di una colpa in eligendo.
Lo ha affermato la sentenza 24.05.2011 n. 20576 della Corte di Cassazione, Sez. IV penale.
A tale riguardo vale considerare che diviene anche irrilevante il comportamento della vittima che abbia eventualmente rotto il nesso di causalità fra il comportamento dell’imputato e l’evento, in quanto è motivatamente ritenuta decisiva l’inadeguatezza del piano di sicurezza, la valutazione dei rischi e la mancanza delle condizioni di sicurezza della macchina.
Nella fattispecie sussiste la responsabilità del datore di lavoro e dei dirigenti assimilati per l’infortunio mortale del lavoratore che, trovatosi nei pressi di una macchina, vi rimaneva impigliato con il braccio destro e poi schiacciato in parte del torace con conseguenti lesioni che ne procuravano il decesso. L’accusa consisteva nell’aver consentito, e comunque non impedito, che all’interno dello stabilimento fosse installato ed utilizzato un impianto di produzione composto da più macchine per la produzione di film trasparente (propilene ad uso alimentare), prodotto che viene raccolto da un “gruppo avvolgitore” privo dei dispositivi di sicurezza imposti dalla legge al fine di evitare contatti accidentali tra parti del corpo dei lavoratori addetti al macchinario e gli organi in movimento (commento tratto da www.legislazionetecnica.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contributo di costruzione è il corrispettivo del diritto di costruire e quando il diritto di costruire non è esercitato viene meno il titolo in forza del quale il Comune ha incassato il contributo di costruzione. Questo principio vale anche quando il titolo edilizio è stato utilizzato soltanto in parte, nel qual caso esso viene meno pro quota.
Il privato, sulle somme indebitamente riscosse dalla P.A., ha diritto agli interessi legali i quali, qualora non vi siano elementi che escludano la buona fede dell'Amministrazione, spettano dalla data della domanda.
Nel caso di restituzione del contributo di costruzione indebitamente versato, spetta anche la rivalutazione monetaria dalla quale va defalcata la somma percepita a titolo di interessi legali, in quanto –non trattandosi di credito di lavoro– non è consentito il cumulo tra interessi e rivalutazione.

Il contributo di costruzione è il corrispettivo del diritto di costruire e quando il diritto di costruire non è esercitato viene meno il titolo in forza del quale il Comune ha incassato il contributo di costruzione.
Questo principio vale anche quando il titolo edilizio è stato utilizzato soltanto in parte, nel qual caso esso viene meno pro quota (TAR Lombardia, Milano, sez. II, sentenza n. 728 del 24/03/2010: "il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato soltanto parzialmente, tenuto conto che sia la quota degli oneri di urbanizzazione che la quota relativa al costo di costruzione sono correlati, sia pure sotto profili differenti, all'oggetto della costruzione. L'avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie consentite da un permesso di costruire comporta dunque il sorgere, in capo al titolare, del diritto alla rideterminazione del contributo ed alla restituzione della quota di esso che è stata calcolata con riferimento alla porzione non realizzata").
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Secondo TAR Lombardia, Milano, sez. II, 728/2010: "il privato, sulle somme indebitamente riscosse dalla P.A., ha diritto agli interessi legali i quali, qualora non vi siano elementi che escludano la buona fede dell'Amministrazione, spettano dalla data della domanda".
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E’ vero che il credito di restituzione del contributo di costruzione pagato in misura maggiorata non è un credito di valore, ma un credito di valuta in cui la rivalutazione è possibile soltanto se si prova il maggior danno ex art. 1224 co. 2 c.c., qui del tutto pretermesso dall’esposizione dei ricorrenti.
Ma è anche vero che Cass. civ., sezioni unite, sentenza 18.07.2008 n. 19499 ha sostenuto che nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all'art. 1224 c.c., comma 2, rispetto a quello già coperto dagli interessi moratori è, in via generale, riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi dell'art. 1284 c.c., comma 1, salva la possibilità per il debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha subito in misura inferiore e per il creditore di provare il maggior danno effettivamente subito (in motivazione la Corte ha anche precisato che: non sussistono d'altro canto i paventati pericoli che i debiti di valuta ricevano in tal modo una disciplina identica a quella propria dei debiti di valore, con sostanziale pretermissione del principio nominalistico di cui all'art. 1277 cod. civ.; o che le conseguenze dell'inadempimento finiscano per divenire, per qualsiasi credito di denaro, identiche a quelle "speciali" che l'art. 429 c.p.c., comma 3, contempla per i crediti di lavoro; ovvero che sia sostanzialmente disapplicato il principio dell'onere della prova di cui all'art. 2697 cod. civ..
Sul primo punto va infatti osservato che il rispetto del principio nominalistico non è affatto incompatibile con la rilevanza delle variazioni del potere d'acquisto della moneta. Solo che, mentre nei debiti di valore la considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa della prestazione in quanto il denaro vale solo a misurare e ad esprimere un valore necessariamente attuale, nei debiti di valuta essa può invece rilevare esclusivamente sub specie damni (…) Neppure è possibile che si creino confusioni di sorta sul piano processuale, posto che nei debiti di valore (tipica l'obbligazione di risarcimento del danno) la rivalutazione non va neppure domandata, essendo il giudice tenuto d'ufficio alla liquidazione in valori monetari attuali; mentre nei debiti di valuta vanno chiesti sia gli interessi moratori sia il maggior danno (anche da svalutazione, secondo l'impreciso ma corrente lessico giudiziario; e tuttavia, più esattamente, da intervenuta impossibilità, per fatto del debitore, che il creditore si sottraesse agli effetti della svalutazione), risultando altrimenti inficiata da vizio di ultrapetizione la sentenza che riconoscesse gli uni o l'altro.
Quanto alla temuta possibilità che i crediti pecuniari ordinari e quelli di lavoro finiscano con l'essere trattati allo stesso modo, s'è già rilevato che per i crediti di cui all'art. 429 c.p.c., comma 3 interessi e svalutazione si cumulano, mentre nei debiti di valuta il maggior danno anche da svalutazione è dovuto, ex art. 1224 c.c., comma 2, solo per la parte che non sia già coperta dagli interessi moratori. Quanto alla pretesa disapplicazione dell'art. 2697 cod. civ. che deriverebbe dal ritenere presunta ma, rectius, normale una modalità di impiego del denaro tale da consentire al creditore di sottrarsi agli effetti della svalutazione, è stato da tempo chiarito come, in definitiva, è nel rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola ed eccezione che si rinviene il criterio teorico pratico della ripartizione dell'onere della prova, il quale non costituisce un istituto giuridico in sé concluso, ma un modo di osservare l'esperienza giuridica.
E la giurisprudenza ha quindi fatto ricorso, tutte le volte che il modello legale prefissato non risultava appagante in relazione alle posizioni delle parti riguardo ai singoli temi probatori, allo schema della presunzione in modo talora così tipico e costante da creare, in definitiva, vere e proprie regole di giudizio. Col risultato non già di invertire l'onere della prova, ma di distribuirlo in senso conforme alla realtà dell'esperienza positiva.
Ebbene, è senz'altro conforme alla realtà dell'esperienza positiva che il denaro sia speso in relazione alla sua primaria destinazione allo scambio, ovvero impiegato in rassicuranti forme remunerative tali da garantire un rendimento superiore al tasso di inflazione, qual è quello dei titoli di stato, costantemente eccedente l'incremento dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati rilevati dall'Istat).
Nel caso in esame, in cui nessuna delle parti in causa si è preoccupata di provare alcunché sulla esistenza o meno di un maggior danno va applicato pertanto il criterio presuntivo appena citato.
Per escludere la rivalutazione automatica non è sufficiente affermare (come aveva fatto in passato TAR Marche 296/2004) che si tratterebbe di indebito oggettivo, ai sensi dell'art. 2033 c.c., in quanto anche l’indebito oggettivo non è altro che “una obbligazione pecuniaria di fonte legale (art. 2033 c.c.) assoggettata alla disciplina propria di tali obbligazioni, in particolare alla disposizione dell'art. 1224 c.c. in tema di interessi moratori e risarcimento del maggior danno per il ritardo nell'adempimento” (Cass. civ, sez. lav., 4833/2009).
Dalle somme dovute a titolo di rivalutazione monetaria va defalcata la somma percepita a titolo di interessi legali, in quanto –non trattandosi di credito di lavoro– non è consentito il cumulo tra interessi e rivalutazione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 17.01.2011 n. 66 - link a www.giustizia-amministrativa.it.

EDILIZIA PRIVATA: E' corretto il calcolo del contributo di costruzione effettuato dall'Amministrazione comunale in base alle aliquote vigenti al momento del rilascio della concessione: ciò prescinde dalle eventuali responsabilità del Comune nel ritardo nel rilasciare il provvedimento amministrativo rispetto al termine legale entro cui doveva concludersi il procedimento.
Se vi sono state davvero responsabilità nel ritardo nel rilasciare il titolo edilizio, e se da questo ritardo è derivata l’applicazione di tariffe del contributo di costruzione più pesanti, ciò può essere fatto valere con una azione di responsabilità per danni, ma non pretendendo che il rilascio del titolo fosse affiancato da tariffe non più vigenti, e di cui mancano norme apposite per sostenerne la pretesa ultrattività.

Ogni provvedimento amministrativo deve essere emesso in base alle norme vigenti nel momento in cui viene emanato (TAR Lombardia, Milano, sez. II, sentenza n. 426 del 25/02/2008: “l'art. 11 della legge n. 10 del 28/01/1977 prevede espressamente che la quota di contributo per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria sia corrisposta al comune all'atto del rilascio della concessione e che la quota di contributo per il costo di costruzione sia determinata all'atto del rilascio della concessione. Tale norma è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza nel senso che l'obbligazione di pagamento sorge al momento della quantificazione della obbligazione stessa. Ne deriva che è corretto il calcolo della quota di tali contributi effettuato dall'Amministrazione in base alle aliquote vigenti al momento del rilascio della concessione”), ciò prescinde dalle eventuali responsabilità del Comune nel ritardo nel rilasciare il provvedimento amministrativo rispetto al termine legale entro cui doveva concludersi il procedimento (il Comune deduce che il rilascio del titolo edilizio è stato ritardato dalla necessità di procedere ad istruttoria, ipotesi che d’altronde è tipizzata dalla legge e che consente di sospendere il termine per il rilascio del provvedimento).
Se vi sono state davvero responsabilità nel ritardo nel rilasciare il titolo edilizio, e se da questo ritardo è derivata l’applicazione di tariffe del contributo di costruzione più pesanti, ciò può essere fatto valere con una azione di responsabilità per danni, ma non pretendendo che il rilascio del titolo fosse affiancato da tariffe non più vigenti, e di cui mancano norme apposite per sostenerne la pretesa ultrattività.
E’ il caso di rilevare che adesso una disposizione di questo tipo esiste, perché l’art. 38, co. 7-bis, l.r. 12/2005 (introdotto dalla l.r. 4/2008), stabilisce che “l’ammontare degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria dovuti è determinato con riferimento alla data di presentazione della richiesta del permesso di costruire, purché completa della documentazione prevista”, ma una disposizione derogatoria dei principi generali di tal fatta non esisteva nel momento (circa dieci anni prima) in cui venne rilasciata la concessione edilizia oggetto di giudizio e non può essere creata in via interpretativa.
Questo Tribunale, nella sede di Milano, si è d’altronde già pronunciato sulla norma dell’art. 38, co. 7-bis, ed ha ritenuto tale disposizione non applicabile a casi pregressi, in quanto “per effetto della modifica apportata dalla l.r. n. 4 del 2008, che ha introdotto nell'art. 38 il comma 7-bis , per il permesso di costruire, gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria vengono determinati alla data di presentazione della richiesta del permesso di costruire, purché vi sia la completezza documentale. Da ciò si deduce che prima della modifica legislativa gli oneri andassero determinati al momento del rilascio del titolo, mentre a seguito della modifica legislativa la determinazione è anticipata all'atto della presentazione della richiesta del permesso” (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 2029/2009)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 17.01.2011 n. 66 - link a www.giustizia-amministrativa.it.

EDILIZIA PRIVATA: Le modifiche di destinazione d’uso giuridicamente rilevanti sono tutte quelle che portano ad un aggravio del carico urbanistico, ed il passaggio da locali adibiti a stalla o magazzino a locali adibiti a residenza o uffici portano un incremento del carico urbanistico, posto che le persone che andranno a risiedere o lavorare in locali prima utilizzati per animali o merci abbisognano di più servizi (parcheggi nelle adiacenze, smaltimento rifiuti) e sottoservizi (più potente rete elettrica, dell’acqua, del gas e fognaria) di quelli di cui abbisognavano gli animali e le merci ivi depositate.
Si tratta di attività edilizie destinate ad incidere sugli standard urbanistici e, come tali, vanno ricomprese nel calcolo degli oneri dovuti.

Resta da esaminare soltanto la terza questione (se dovesse essere computata o meno la modifica di destinazione d’uso di alcuni locali, che secondo il ricorrente non vi è mai stata), su di essa non si è pronunciata la sospensiva è stata lasciata aperta dalla sospensiva ed è stata ridimensionata nel seguito del giudizio.
La questione va risolta nel senso che il passaggio da stalla o magazzino a residenza e uffici è una modifica di destinazione d’uso. Le modifiche di destinazione d’uso giuridicamente rilevanti sono tutte quelle che portano ad un aggravio del carico urbanistico, ed il passaggio da locali adibiti a stalla o magazzino a locali adibiti a residenza o uffici portano un incremento del carico urbanistico, posto che le persone che andranno a risiedere o lavorare in locali prima utilizzati per animali o merci abbisognano di più servizi (parcheggi nelle adiacenze, smaltimento rifiuti) e sottoservizi (più potente rete elettrica, dell’acqua, del gas e fognaria) di quelli di cui abbisognavano gli animali e le merci ivi depositate.
Si tratta di attività edilizie destinate ad incidere sugli standard urbanistici, e come tali andavano ricomprese nel calcolo degli oneri dovuti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 17.01.2011 n. 66 - link a www.giustizia-amministrativa.it.

EDILIZIA PRIVATAL'atto di volturazione non comporta la corresponsione di ulteriori contributi concessori che restano quelli fissati in occasione del rilascio del titolo originario ma tali oneri, per la parte non ancora adempiuta, si trasferiscono al subentrante, sia perché non rilevano sotto il profilo dell'intuitus personae, inerendo ad un atto che non ha carattere personale, sia perché connessi alla capacità di disporre del diritto di edificazione in concreto esercitato dal terzo.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che l'atto di volturazione non comporta la corresponsione di ulteriori contributi concessori che restano quelli fissati in occasione del rilascio del titolo originario ma tali oneri, per la parte non ancora adempiuta, si trasferiscono al subentrante, sia perché non rilevano sotto il profilo dell'intuitus personae, inerendo ad un atto che non ha carattere personale, sia perché connessi alla capacità di disporre del diritto di edificazione in concreto esercitato dal terzo (TAR Abruzzo, L'Aquila, 16.10.1998 n. 783) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 14.01.2011 n. 152 - link a www.giustizia-amministrativa.it.

EDILIZIA PRIVATAQuanto al regime prescrizionale degli oneri di urbanizzazione e dei contributi commisurati al costo di costruzione, in assenza di diversa disposizione normativa il termine è quello ordinario decennale.
Quanto al regime prescrizionale degli oneri di urbanizzazione e dei contributi commisurati al costo di costruzione, la giurisprudenza amministrativa ha precisato che, in assenza di diversa disposizione normativa, il termine è quello ordinario decennale (TAR Campania, Salerno, 30.12.2003 n. 2599) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 14.01.2011 n. 152 - link a www.giustizia-amministrativa.it.

ATTI AMMINISTRATIVILa giurisprudenza ha chiarito che, pur se il Sindaco agisca quale ufficiale di Governo, la notificazione dell’impugnazione di atti adottati dall’Amministrazione comunale va comunque effettuata presso la sede del Comune, anziché presso l’Avvocatura dello Stato. Ed invero, neanche l’esercizio, da parte del Sindaco, di funzioni di ufficiale di Governo, è sufficiente affinché risultino applicabili le norme del r.d. n. 1611/1933 sull’Avvocatura dello Stato, che attribuiscono a quest’ultima la rappresentanza in giudizio (con domiciliazione ex lege) delle Amministrazioni statali e delle altre Amministrazioni indicate specificamente da disposizioni di legge, poiché tra queste non rientra la figura del Sindaco, neppure quale ufficiale di Governo.
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Il potere di ordinanza del sindaco ex art. 54, comma 4, dlgs 267/2000 può essere esercitato qualora la violazione delle norme che tutelano i beni previsti dal d.m. 05.08.2008 (tra cui la tutela del patrimonio pubblico e della sua fruibilità, nonché l’incuria ed occupazione abusiva di immobili) non assuma rilevanza solo in sé considerata –perché in tale ipotesi soccorrono gli strumenti ordinari– ma costituisca la premessa per l’insorgere di fenomeni di criminalità capaci di minare la sicurezza pubblica: in questo caso, infatti, venendo in gioco interessi che vanno oltre le normali competenze di polizia amministrativa locale, il Sindaco, quale ufficiale di Governo, assume il compito di garante della sicurezza pubblica e può provvedere, sotto il controllo del Prefetto ed in conformità alle direttive ministeriali, alle misure necessarie a prevenire od eliminare i gravi pericoli che minaccino il predetto bene.

L’art. 54, comma 4, T.U.E.L., nel testo dell’art. 6 del d.l. n. 92/2008 (conv. con l. n. 125/2008), stabilisce che il Sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti anche contingibili ed urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, “al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’ìncolumità pubblica e la sicurezza urbana”. Il successivo comma 4-bis demanda ad un decreto del Ministro dell’Interno la disciplina dell’ambito applicativo dei precedenti commi, “anche con riferimento alle definizioni relative all’ìncolumità pubblica e alla sicurezza urbana”.
In attuazione di detta norma, il Ministro dell’Interno ha provveduto ad emanare il d.m. 05.08.2008, il cui art. 1 dispone che, ai fini dell’art. 54 cit., per incolumità pubblica deve intendersi l’integrità fisica della popolazione e per sicurezza urbana “un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale”. Il successivo art. 2 prevede, in proposito, l’intervento del Sindaco per prevenire e contrastare, tra le altre: (lett. b)) le situazioni in cui si verificano comportamenti quali il danneggiamento al patrimonio pubblico e privato, o che ne impediscono la fruibilità e provocano lo scadimento della qualità urbana; (lett. c )) l’incuria, il degrado e l’occupazione abusiva di immobili tali da favorire, tra l’altro, la situazione indicata alla precedente lett. b).
Questo essendo il contesto normativo di riferimento, vanno anzitutto superati eventuali dubbi di ammissibilità del ricorso in quanto notificato al Sindaco di Firenze nella sede del Comune, anziché nella competente sede dell’Avvocatura dello Stato. La giurisprudenza ha infatti chiarito che, pur se il Sindaco agisca (come nella fattispecie ora in esame) quale ufficiale di Governo, la notificazione dell’impugnazione di atti adottati dall’Amministrazione comunale va comunque effettuata presso la sede del Comune, anziché presso l’Avvocatura dello Stato. Ed invero, neanche l’esercizio, da parte del Sindaco, di funzioni di ufficiale di Governo, è sufficiente affinché risultino applicabili le norme del r.d. n. 1611/1933 sull’Avvocatura dello Stato, che attribuiscono a quest’ultima la rappresentanza in giudizio (con domiciliazione ex lege) delle Amministrazioni statali e delle altre Amministrazioni indicate specificamente da disposizioni di legge, poiché tra queste non rientra la figura del Sindaco, neppure quale ufficiale di Governo (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 11.07.2005, n. 5607).
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La giurisprudenza più avvertita (TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 06.04.2010, n. 981) ha chiarito come la principale innovazione apportata dal d.l. n. 92/2008, convertito con l. n. 125/2008, alla disciplina del potere del Sindaco (previsto dall’art. 54 T.U.E.L.) di adottare ordinanze, riguardi l’estensione di tale potere pure alla materia della sicurezza urbana; peraltro, si è aggiunto, la stessa natura del potere di ordinanza sembra essere stata modificata, nel senso della possibilità di emanare anche provvedimenti atipici in funzione della prevenzione e dell’eliminazione di gravi pericoli che minaccino detto bene, pur in assenza dei presupposti della contingibilità e dell’urgenza. La portata dei nuovi poteri del Sindaco è stata, poi, meglio definita dal già citato d.m. 05.08.2008.
Sulla questione dell’esatta portata delle innovazioni introdotte dall’art. 6 del d.l. n. 92/2008 con il dettare il nuovo testo dell’art. 54 T.U.E.L., si è pronunciata la Corte costituzionale nella sentenza 01.07.2009, n. 196. In particolare, ai fini che qui interessano la Consulta ha chiarito che il d.m. 05.08.2008 –recante la definizione dell’ambito del concetto di “sicurezza urbana”– ha ad oggetto solamente la tutela della sicurezza pubblica, da intendere come attività di prevenzione e repressione dei reati.
Ciò, sia perché la titolazione del d.l. n. 92/2008 si riferisce alla “sicurezza pubblica”, sia in quanto nelle premesse del decreto ministeriale de quo si fa espresso riferimento, quale fondamento giuridico dello stesso, all’art. 117, secondo comma, lett. h), Cost., che –sottolinea la Corte, citando la propria giurisprudenza in argomento ed in particolare le sentenze nn. 222 e 237 del 2006 e n. 383 del 2005– “attiene alla prevenzione dei reati e alla tutela dei primari interessi pubblici sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale”. Del resto, osservano ancora i giudici costituzionali, il decreto ministeriale in questione nelle premesse esclude espressamente dal proprio ambito di riferimento la polizia amministrativa locale.
Dalle parole ora riferite della Corte costituzionale la giurisprudenza, anche di questo Tribunale (TAR Toscana, Sez. II, 24.11.2010, n. 6600) ha tratto l’insegnamento per cui l’ampiezza e l’incisività dei nuovi poteri conferiti dall’art. 6 del d.l. n. 92/2008, convertito con la l. n. 125/2008, all’organo di vertice dell’Amministrazione comunale, esercitabili (ad una prima lettura) senza limiti di tempo ed a prescindere da situazioni di urgenza e pertanto tali da porre a rischio la gerarchia delle fonti prevista dalla Carta costituzionale (v. TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, ord. 01.10.2010, n. 700), postulano un’interpretazione particolarmente rigorosa della disposizione in esame, al fine di renderla conforme al dettato costituzionale (nello stesso senso TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 981/2010, cit.).
Applicando tale insegnamento alla vicenda ora in esame, se ne deduce l’esigenza di considerare la materia della sicurezza urbana di cui all’art. 54, comma 4, T.U.E.L. –indicata dal Sindaco di Firenze nell’ordinanza gravata, a giustificazione della stessa– come coincidente con la materia della sicurezza pubblica (intesa quale prevenzione dei fenomeni criminosi che minacciano i beni fondamentali dei cittadini).
Non può, invece, accogliersi una lettura in senso lato del concetto di “sicurezza urbana”, intesa quale strumento per l’eliminazione di taluni fenomeni di degrado che affliggono i centri urbani, non necessariamente correlati con esigenze di repressione della criminalità (TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 981/2010, cit.). D’altro lato –aggiunge la sentenza del TAR Lombardia ora citata, le cui argomentazioni sono pienamente condivise dal Collegio– se le ordinanze ex art. 54 T.U.E.L. si estendessero a materie diverse dalla sicurezza pubblica tradizionalmente intesa, sconfinando nella polizia amministrativa locale, tutta l’operazione attuata con il d.l. n. 92/2008 si presterebbe a forti sospetti di incostituzionalità per violazione delle garanzie di autonomia degli Enti locali. La materia della polizia amministrativa locale è, infatti, espressamente esclusa dalla riserva legislativa statale sulle materie dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica prevista dall’art. 117, secondo comma, lett. h), Cost.; anche a livello amministrativo, tale materia rientra attualmente nelle funzioni proprie dei Comuni previste dagli artt. 19, 20 e 21 del d.P.R. n. 616/1977 e dagli artt. 158–163 del d.lgs. n. 112/1998, e la relativa titolarità risulta rinforzata dal principio di sussidiarietà ex art. 118 Cost.. La sottoposizione dell’esercizio di poteri di polizia amministrativa locale ad un penetrante controllo del Prefetto ed alle direttive del Ministro dell’Interno, così come previsto dall’art. 54 T.U.E.L., darebbe luogo ad un’ingerenza dello Stato nelle competenze locali ben al di là del controllo sostitutivo di cui all’art. 120, secondo comma, Cost..
Per quanto concerne, poi, la possibilità di ammettere un potere atipico di ordinanza, sganciato dalla necessità di far fronte a specifiche situazioni contingibili di pericolo, la decisione in esame ha condivisibilmente rimarcato il contrasto di un simile potere con gli artt. 23, 97 e 113 Cost. e, più in generale, con tutte le disposizioni della Costituzione contenenti riserve di legge a garanzia di diritti fondamentali. Diversamente opinando –si nota– verrebbe ad attribuirsi ai Sindaci in via ordinaria il potere di incidere su diritti individuali in modo totalmente indeterminato e sulla base di presupposti molto lati, suscettibili di larghissimi margini di apprezzamento.
Per evitare un simile rischio, si può così valorizzare il d.m. 05.08.2008, lì dove aggancia la difesa della sicurezza pubblica al rispetto di preesistenti norme regolanti la vita civile, con il corollario che il potere di ordinanza del Sindaco ex art. 54 T.U.E.L., al di là dei casi in cui assuma carattere contingibile ed urgente, deve limitarsi a prevedere misure che assicurino il rispetto di norme ordinarie volte a tutelare l’ordinata convivenza civile, quando dalla loro violazione possano derivare gravi pericoli per la sicurezza pubblica (senza alcuna valenza “creativa”).
In altre parole –ed è la conclusione da tener ferma, secondo il Collegio, per valutare la legittimità o meno dell’ordinanza oggetto del ricorso in epigrafe– il potere in esame può essere esercitato qualora la violazione delle norme che tutelano i beni previsti dal d.m. 05.08.2008 (tra cui la tutela del patrimonio pubblico e della sua fruibilità, nonché l’incuria ed occupazione abusiva di immobili) non assuma rilevanza solo in sé considerata –perché in tale ipotesi soccorrono gli strumenti ordinari– ma costituisca la premessa per l’insorgere di fenomeni di criminalità capaci di minare la sicurezza pubblica: in questo caso, infatti, venendo in gioco interessi che vanno oltre le normali competenze di polizia amministrativa locale, il Sindaco, quale ufficiale di Governo, assume il compito di garante della sicurezza pubblica e può provvedere, sotto il controllo del Prefetto ed in conformità alle direttive ministeriali, alle misure necessarie a prevenire od eliminare i gravi pericoli che minaccino il predetto bene (TAR Lombardia, Milano, Sez. III, n. 981/2010, cit.) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 05.01.2011 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it.

INCARICHI PROGETTUALIIl contratto d’opera professionale va dichiarato nullo per contrarietà a norme imperative, in quanto l’edificio di cui trattasi non poteva certamente considerarsi una “modesta costruzione civile” e pertanto la sua progettazione esulava dalla competenza del geometra perimetrata dall’art. 16 del r.d. 11/02/1929 n. 274, come si desume all’evidenza dalla complessità e dalle caratteristiche tecnico-costruttive dell’edificio (un fabbricato di tre piani di mc. 3161 e mq. 355 con impiego di c.a.) e come confermato dal ctu nonché confessato dallo stesso attore il quale ha espressamente riconosciuto che il progetto, implicando una costruzione in c.a., eccedeva la propria competenza, affermando che proprio per questo aveva chiesto la collaborazione dell’ing. ... il quale aveva redatto e firmato gli elaborati progettuali.
Il contratto d’opera professionale va dichiarato nullo per contrarietà a norme imperative, in quanto l’edificio di cui trattasi non poteva certamente considerarsi una “modesta costruzione civile” e pertanto la sua progettazione esulava dalla competenza del geometra perimetrata dall’art. 16 del r.d. 11/02/1929 n. 274 (cfr. Cass. 12193/2007; 17028/2006; n. 3021, n. 6649, n. 7778 e n. 8545 del 2005), come si desume all’evidenza dalla complessità e dalle caratteristiche tecnico-costruttive dell’edificio (un fabbricato di tre piani di mc. 3161 e mq. 355 con impiego di c.a.) e come confermato dal ctu nonché confessato dallo stesso attore il quale ha espressamente riconosciuto che il progetto, implicando una costruzione in c.a., eccedeva la propria competenza, affermando che proprio per questo aveva chiesto la collaborazione dell’ing. ... il quale aveva redatto e firmato gli elaborati progettuali.
La nullità è rilevabile d’ufficio perché il geom. ... agisce per l’esecuzione del contratto nullo (peraltro la Corte condivide la tesi secondo la quale il giudice deve rilevare d’ufficio le nullità negoziali non solo nell’ipotesi in cui sia stata proposta l’azione di esatto adempimento, ma anche quando sia stata proposta azione di risoluzione, annullamento o rescissione del contratto: Cass. 22/03/2005 n. 6170; Cass. 15/09/2008 n. 23674) e la questione appartiene al contraddittorio già svolto, dal momento che l’attore ha ammesso che la progettazione in esame era riservata alla competenza di un ingegnere .
La nullità poi non è esclusa dalla circostanza che la prestazione di fatto sia stata compiuta, su richiesta del ..., da un ingegnere, poiché la validità del negozio dipende dal personale possesso del titolo abilitante da parte di chi ha ricevuto l’incarico dal committente (cfr. Cass. 1572/2005 n. 3021 e Cass. 13/01/1984 n. 286) e nella specie lo stesso attore ha sempre sostenuto che l’incarico fu conferito a lui personalmente né risulta che vi sia stato alcun rapporto diretto tra i convenuti e l’ingegnere che ha sottoscritto il progetto.
Per altro verso, ancora, è di tutto evidenza che la “collaborazione” di cui parla l’art. 2232 cod civ., dovendo avvenire sotto la direzione del professionista incaricato, non può riguardare la esecuzione di una prestazione professionale che ecceda l’abilitazione del professionista incaricato, il quale non può certamente dirigere l’esecuzione, da parte di altri, di una prestazione per la quale egli non sia abilitato (cfr. in termini Cass. 3108/1995).
Consegue da quanto sopra che nessun compenso può essere liquidato al geom. ... per l’attività di progettazione dell’edificio (sicché si palesa superflua l’istanza di assunzione di chiarimenti da parte del ctu avanzata dal difensore dei convenuti).
L’allegazione dell’attore di avere pagato l’onorario dell’ingegnere e di aver diritto a ripetere dai committenti la remunerazione corrisposta al “collaboratore” costituisce deduzione nuova inammissibile. L’attore infatti ha agito in giudizio chiedendo l’adempimento del contratto d’opera professionale concluso personalmente con i convenuti ed il pagamento del compenso dovutogli per le prestazioni professionali svolte, non già per far valere un diritto di regresso in relazione al pagamento di un debito dei propri committenti verso il professionista da lui incaricato della redazione del progetto, né per la verità ha mai provato di avere effettivamente eseguito tale pagamento e per l’importo richiesto in questa sede. D’altro canto è evidente che egli non è neppure legittimato a chiedere il compenso per conto dell’autore del progetto, sia perché le ipotesi di sostituzione processuale sono tassative , sia perché non ha richiesto che la condanna fosse emessa a favore dell’altro professionista, sia infine perché, nel merito, non c’è alcuna prova di un conferimento d’incarico da parte dei convenuti nei confronti dell’ingegner Orlandi.
Per ciò che concerne le prestazioni diverse dal progetto, si ritiene che nulla possa essere riconosciuto all’attore per l’attività relativa alle prestazioni preparatorie della progettazione e ad essa connesse di cui al punto 4.3 pag. 13 della relazione del ctu , atteso che la nullità del contratto si estende alle prestazioni strumentali connesse con la edificazione (Cass. 7778/2005 cit.) (CORTE D'APPELLO di Firenze, Sez. II, sentenza 12.01.2010 n. 12).

EDILIZIA PRIVATALe prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di 10 metri fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto d’impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
E ciò nella preminente considerazione che tale distanza “va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario (…); pertanto, le distanze fra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni d’igiene e di sicurezza”. Ed ancora: “Ai sensi dell’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 (…) è prescritta in tutti i casi, con disposizione tassativa e inderogabile, la distanza minima assoluta di dieci metri fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Tale disposizione, stante la sua assolutezza e inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali, comporta…”.
In tema di distanze fra costruzioni, l’art. 9, comma 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, ha efficacia di legge dello Stato (…); i comuni sono obbligati –in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici– a non discostarsi dalle regole fissate da tale norma, le quali comunque prevalgono, ove i regolamenti comunali siano con esse in contrasto” (Cass. 11.02.2008 n. 3199). “L’adozione da parte degli enti locali di strumenti urbanistici contrastanti con la norma, comporta l’obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata.

Per consolidata ed ormai costante giurisprudenza,” scrive il primo giudice, “l’art. 9 D.M. n. 1444/1968 che prescrive la distanza minima di 10 mt tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti impone, sì, limiti ai Comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei rapporti tra privati.”
L’assunto è inesatto, perché la giurisprudenza non è in questo senso, e non lo era già alla data della decisione, cioè nel 2005.
Ci fu, in effetti, intorno agli anni ’90, un disorientamento, sfociato nella sentenza della Cassazione a Sezioni Unite 01.07.1997 n. 5889, la quale, effettivamente, in un caso (riguardava il Comune di Vittoria, sprovvisto, allora, di piano regolatore) di totale assenza di strumento urbanistico generale, ritenne che le prescrizioni tecniche contenute nel D.M. del 1968, servissero solamente di direttiva per i comuni in vista della elaborazione dei loro strumenti urbanistici, e che perciò, “dato il carattere della norma, destinato a sopperire alla carenza di strumenti urbanistici e ad incentivarne la rapida formazione e approvazione”, in quanto diretta ai comuni, e non alla generalità dei soggetti, non fosse per questi ultimi fonte di diritti. Non recependo il comune la prescrizione ministeriale della distanza minima tra fabbricati, o perfino rifiutandola illegittimamente con l’adottarne una minore, il cittadino non avrebbe avuto azione diretta per imporre al vicino il rispetto di quella distanza.
Una tale interpretazione non ha avuto più seguito, né nella giurisprudenza della stessa Suprema Corte, né in quella del Consiglio di Stato. “Le prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di 10 metri fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto d’impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata” (Cons. Stato, sez. IV, 12.06.2007 n. 3094; non diversamente, Cons. Stato, sez. IV, 05.12.2005 n. 6909; Cons. Stato, sez. IV, 17.02.2002 n. 3229 ed altre).
E ciò nella preminente considerazione che tale distanza “va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario (…); pertanto, le distanze fra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni d’igiene e di sicurezza” (Cons. Stato 6909/2005 cit.). Ed ancora: “Ai sensi dell’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 (…) è prescritta in tutti i casi, con disposizione tassativa e inderogabile, la distanza minima assoluta di dieci metri fra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Tale disposizione, stante la sua assolutezza e inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali, comporta…” (Cass. 10.01.2006 n. 145).
In tema di distanze fra costruzioni, l’art. 9, comma 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, ha efficacia di legge dello Stato (…); i comuni sono obbligati –in caso di redazione o revisione dei propri strumenti urbanistici– a non discostarsi dalle regole fissate da tale norma, le quali comunque prevalgono, ove i regolamenti comunali siano con esse in contrasto” (Cass. 11.02.2008 n. 3199). “L’adozione da parte degli enti locali di strumenti urbanistici contrastanti con la norma, comporta l’obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata” (Cass. 19.11.2004 n. 21899).
Se lo stato della giurisprudenza è questo, come in effetti è, e cioè se le disposizioni dell’art. 9 del D.M. del 1968, tutt’altro che essere mero strumento a finalità provvisoria, d’incentivazione delle amministrazioni comunali nel loro obbligo di dotarsi di strumenti urbanistici (come affermano le Sezioni Unite della Cassazione nel 1997), sono norme assolute e inderogabili, dettate per esigenze collettive di igiene e sicurezza, tali da comportare la loro inserzione automatica negli strumenti urbanistici difettosi, al giudice non rimane che tenerne conto, come fonte diretta di diritti del cittadino, disapplicando le eventuali contrarie disposizioni della regolamentazione locale, siano esse antecedenti, che successive.
Né avrebbe senso, in relazione a tale ratio iuris della normativa, sottilizzare (è l’estrema risorsa, in definitiva, a cui si appiglia l’appellato) distinguendo fra strumenti urbanistici anteriori al 1968, ossia all’entrata in vigore delle prescrizioni contenute nel decreto ministeriale, e strumenti urbanistici sopravvenuti, in guisa da poter dire che la inserzione automatica delle prescrizioni del decreto ministeriale avrebbe luogo solo nei confronti degli strumenti urbanistici sopravvenuti, e non pure in quelli preesistenti, e che, conseguentemente, al giudice, adito dal privato per il rispetto della distanza legale fra costruzioni, sarebbe dato disapplicare, in quanto illegittima per contrasto con la norma dello Stato, la prescrizione del regolamento locale solo se sopravvenuta al decreto ministeriale.
Una tale interpretazione, tutt’altro che incentivare, come pensavano di poter dire le Sezioni Unite nel 1997, la volontà di adeguamento dei comuni alla mutate esigenze urbanistiche, avrebbe finito per sortire l’effetto contrario di premiare l’inerzia, la pigrizia, e perfino il preordinato disegno di sottrarsi deliberatamente alle più rigorose prescrizioni imposte dallo Stato nell’interesse dell’igiene e della sicurezza di tutti, rinunciando o ritardando di proposito l’adozione dello strumento urbanistico o la revisione di quello preesistente.
Completamente illogica, giuridicamente inspiegabile e incostituzionale, sarebbe poi l’idea di ammettere due differenti parametri di valutare le esigenze assolute d’igiene e di sicurezza, ed i diritti dei singoli ad esse connessi, a seconda che nel comune di residenza sia in vigore uno strumento urbanistico successivo al 1968 o antecedente o addirittura (è il caso di Vittoria, risolto in quel modo dalle Sezioni Unite) ne sia del tutto privo. D’altronde, se, per effetto del decreto ministeriale in questione (nonché, beninteso, per effetto della legge da cui esso traeva la sua forza normativa) è indubitabile che tutti i comuni fossero tenuti ad adeguare ad esso i propri strumenti urbanistici –segnatamente in punto di distanze fra costruzioni– non si vede come la posizione soggettiva del privato, tesa, cioè a vedere rispettata la distanza prevista dalla normativa nazionale, si atteggiasse come diritto soggettivo (di proprietà), tutelabile come tale, se il comune, pur continuando a violare quella distanza, si fosse nel frattempo provvisto di uno, o di un nuovo strumento urbanistico, e come interesse se il comune, rendendosi ancor più inadempiente, avesse omesso completamente qualsiasi revisione del suo apparato strumentale.
Ancora più difficile sarebbe giustificare il potere del giudice ordinario di disapplicare, per contrarietà alla distanza legale, contenuta, appunto, nell’art. 9 del decreto ministeriale, la regolamentazione locale sopravvenuta, e negare un tale potere se la disposizione difforme è antecedente alla legge, il che, in altri termini, si traduce nell’impossibilità di giustificare l’inserzione automatica della norma nazionale, assoluta e inderogabile, solo nelle regolamentazioni successive alla sua emanazione, e non anche in quelle preesistenti.
Per altro verso, lasciando, in pratica, ai comuni, la facoltà di ritardare, o omettere del tutto, il recepimento della distanza imposta a livello nazionale, si determina una situazione esattamente inversa a quella prevista dall’art. 873 c.c., laddove ai comuni è fatta salva la facoltà dei comuni di stabilire una distanza maggiore di quella legale, ma non inferiore. Qui, nel comune di Pisa e in quanti possono trovarsi in situazione analoga, varrebbe la regola contraria: che, per inerzia o volontà contraria dello stesso comune, non si applica la distanza prescritta dalla legge per tutto il territorio nazionale, ma la distanza regolamentare “minore”, illegittimamente mantenuta ferma dagli organi locali.
Alla luce di tali considerazioni, la denunciata costruzione appare illegittima, per violazione della distanza legale, e se ne deve ordinare l’arretramento.
La norma in questione, come è orientamento pacifico (Cass. 26.10.2007 n. 22495; Appello Firenze, 01.10.2005 n. 1386), si applica anche quando una sola delle due pareti frontiste sia provvista di finestre (CORTE DI APPELLO di Firenze, Sez. I, sentenza 09.2009 n. 1165).

AGGIORNAMENTO AL 21.09.2011

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NOVITA' NEL SITO

Inseriti nel sito i seguenti nuovi DOSSIER: bosco; industria insalubre.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: G.U. 20.09.2011 n. 219 "Meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni, a norma degli articoli 2, 17 e 26 della legge 05.05.2009, n. 42" (D.Lgs. 06.09.2011 n. 149).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Scia: stop alle impugnazioni dirette (link a http://studiospallino.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATA: F. Magnosi, La nuovissima procedura di autorizzazione paesaggistica semplificata introdotta dal DPR 139/2010 (link a www.filodiritto.com).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIAPiano di caratterizzazione.
Si chiede se debba ritenersi responsabile un amministratore di società per la mancata attuazione del piano di caratterizzazione da parte del precedente amministratore.

L'articolo 257 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, dispone che «chiunque cagiona l'inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio è punito con la pena dell'arresto da sei mesi a un anno o con l'ammenda da 2.600 euro a 26.000 euro, se non provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato dall'autorità competente nell'ambito del procedimento di cui agli articoli 242 e seguenti».
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza 06.10.2010 n. 35774, ha riconosciuto, in tema di omessa bonifica di siti inquinati, la responsabilità dell'amministratore subentrante anche per il fatto che esso «aveva persistito nel comportamento omissivo consistente nel no dare attuazione al piano di caratterizzazione ... la cui esecuzione era stata imposta anche con ordinanza del comune ... specificando inoltre che l'attuazione del piano avrebbe comunque consentito proprio di verificare la tesi dell'accumulazione del cromo nel sottosuolo e di approntare le relative soluzioni».
Per la Corte di cassazione, nel caso da essa esaminato, «si è verificata la condizione di punibilità a contenuto negativo dell'omessa bonifica prevista dall'articolo 257» e «il piano di caratterizzazione continuava a essere valido ed efficace e che quindi persisteva l'obbligo dell'attuale amministratore della società di darvi attuazione».
La Corte ha ritenuto, poi, configurabile «il reato in questione allorché il soggetto «non provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato dall'autorità competente nell'ambito del procedimento di cui agli artt. 242 e segg.», anche qualora il soggetto impedisce (come nel caso oggetto di giudizio) la stessa formazione del progetto di bonifica, e quindi la sua realizzazione, attraverso al mancata attuazione del piano di caratterizzazione, necessario per predisporre il progetto di bonifica».
«Non si tratta, per i supremi giudici, di non consentita interpretazione estensiva in malam partem o di applicazione analogica della norma penale incriminatrice, ma dell'unica interpretazione sistematica atta a rendere razionale e non in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.» (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2011).

UTILITA'

APPALTI SERVIZI: Il nuovo governo delle partecipate dopo l’adeguamento della disciplina al referendum e alle norme U.E. (D.L. 138/2011).
Nuovo ampliamento del ricorso alla libera concorrenza e forti limitazioni all’affidamento in house. Dopo l’abrogazione referendaria dell’art. 23-bis, il D.L. 138/2011 riscrive le regole sull’affidamento dei servizi pubblici locali.
La nuova disciplina prevede che gli enti analizzino il mercato di riferimento, definendo i servizi da privatizzare e i diritti di esclusiva, e formalizzare i piani strategici in una delibera quadro.
La maggiore parte degli enti non ha molto tempo, perché la delibera va adottata prima che scadano le gestioni esistenti.
L’affidamento dei servizi con rilevanza economica (ad eccezione del servizio idrico) deve avvenire con gara, nel rispetto dei principi comunitari, o con la costituzione di società miste, con il socio privato al 40% del capitale.
L’affidamento in house è limitato ai servizi di valore inferiore ai 900.000 euro annui.
La tabella di marcia:
31.03.2012 cessano gli affidamenti diretti relativi a servizi di valore economico superiore ai 900.000 euro annui, nonché tutti gli affidamenti diretti che non rientrano nei casi successivi;
30.06.2012 cessano le gestioni affidate direttamente a società a partecipazione mista, qualora la selezione del socio sia avvenuta mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, ma senza avere avuto ad oggetto la qualità di socio e l’attribuzione di compiti operativi connessi alla gestione del servizio;
30.06.2013 o il 31.12.2015 cessano gli affidamenti diretti già affidati alla data di inizio 2003, ove non siano rispettate le previste condizioni di riduzione della partecipazione pubblica alle scadenze previste (tratto dalla newsletter di www.autonomielocali.eu).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGOBabele di regole per i dirigenti a termine. Il Dlgs 141/2011 aumenta la flessibilità, la Corte stringe ma con «deroghe».
Quando la mano destra non sa quello che fa la sinistra: devono essere così sintetizzate le indicazioni contraddittorie dettate nei giorni scorsi in materia di assunzioni a tempo determinato di dirigenti. Viene aumentata dal Dlgs n. 141/ 2011 –pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 22 agosto– la possibilità di assumere dirigenti e responsabili a tempo determinato.
Ma poi, questa norma viene smentita di fatto dalle limitazioni imposte, ad appena una settimana di distanza, dalla deliberazione 29.08.2011 n. 46 delle Sezz. riunite di controllo della Corte dei Conti. Senza dimenticare che, al contrario, poche settimane prima, il 9 agosto, la sezione di controllo della magistratura contabile del Lazio aveva ampliato la possibilità di effettuare queste assunzioni.
Il fatto che dalle norme e dalle interpretazioni più autorevoli arrivino conclusioni opposte, crea ovviamente sconcerto negli operatori. Ma soprattutto si determinano condizioni di incertezza, di difficoltà spesso non sostenibili e, comunque, di stallo nelle attività amministrative.
Il Dlgs n. 141/2011, conosciuto come «correttivo della legge Brunetta», accogliendo parzialmente le richieste delle associazioni degli enti locali, ha portato, negli enti giudicati virtuosi in base alle disposizioni dettate dal Dl n. 98/2011, al 18% della dotazione organica le assunzioni a tempo determinato di dirigenti e responsabili per la copertura di posti vacanti. Una possibilità che tutte le altre Pa continua a essere limitata all'8%, cui nello Stato si deve aggiungere il 10% per i dirigenti generali.
Nella stessa direzione di ampliamento di queste possibilità va il parere 09.08.2011 n. 47 della magistratura contabile del Lazio, che esclude da questi limiti le assunzioni di dirigenti e responsabili a tempo determinato effettuate tramite concorso pubblico e che estende la base di calcolo su cui effettuare il conteggio delle assunzioni di queste figure per posti extra dotazione organica.
Il parere n. 46/2011 delle sezioni riunite di controllo della Corte dei conti, mutando parzialmente i propri orientamenti e smentendo le indicazioni del dipartimento della Funzione pubblica, ha incluso per gli enti locali soggetti al patto di stabilità gli oneri per tutte le assunzioni a tempo determinato entro il tetto della spesa consentita per finanziare le assunzioni a tempo indeterminato (si veda Il Sole 24 Ore del 6 e del 7 settembre). Cioè entro il 20% della spesa del personale cessato nell'anno precedente. Con il che per queste amministrazioni si applica un regime ben più duro di quello in vigore per lo Stato e per le regioni, nelle quali le assunzioni flessibili sono consentite entro il tetto del 50% della spesa sostenuta allo stesso titolo nel 2009.
Il parere ha escluso da tale vincolo solo le assunzioni necessarie all'erogazione di servizi essenziali e infungibili e le massime urgenze. E vanifica nei fatti, quanto meno per la gran parte dei Comuni e delle Province, la possibilità di dare corso ad assunzioni di dirigenti, visti i ridottissimi margini previsti per la copertura dei relativi oneri. Non vi sono dubbi sull'applicazione di questo vincolo alle assunzioni dei dirigenti e dei responsabili a tempo determinato ex articolo 110 del Dlgs n. 267/2000, così come sulla estensione anche agli uffici di staff degli organi politici. E ciò in quanto il nuovo tetto opera per tutte le assunzioni flessibili.
Sicuramente qualche incarico dirigenziale potrà rientrare nella necessità di consentire l'erogazione di servizi essenziali e infungibili, si pensi a quelli di ragioneria, alla polizia locale, ai servizi sociali eccetera.
Ma è evidente l'effetto di drastica limitazione della possibilità di dare corso alle assunzioni di figure essenziali per il buon funzionamento delle amministrazioni, non solo nella forma del tempo indeterminato ma anche con rapporti flessibili, il che determina in molti enti una condizione di non sostenibilità e probabilmente spingerà qualcuno a forzare oltre misura le deroghe che il parere consente (articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALILa gestione associata rifà i conti sul personale. Le spese di personale delle Unioni finiscono nei conti dei Comuni.
La Corte dei conti, Sezione autonomie, con la deliberazione 29.07.2011 n. 8/AUT/2011 stabilisce che le gestioni associate non hanno autonomia di calcolo, ma i costi vanno spalmati sui limiti dei singoli comuni.
Secondo la manovra, due delle sei funzioni fondamentali dei comuni tra 1.000 e 5mila abitanti dovranno essere gestite in forma associata entro il 31.12.2011. La Finanziaria 2007 disciplina le norme sul contenimento delle spese di personale degli enti locali non soggetti a patto di stabilità. E tra questi le Unioni di comuni.
Al momento della compilazione dei questionari da inviare alla Corte dei conti, i comuni si sono chiesti se e come inserire le spese di personale di tali gestioni. Nel tempo si sono sviluppati due indirizzi. Da una parte veniva affermato che i Comuni compilano le proprie spese di personale conteggiando i dipendenti; dall'altra si chiedeva di inserire tra le proprie spese anche quelle delle Unioni.
La Sezione autonomie ha concluso che il contenimento dei costi del personale dei Comuni debba essere valutato sotto il profilo sostanziale, sommando alla propria spesa di personale la quota sostenuta dall'Unione. In tale ottica emerge una considerazione complessiva della spesa di personale, secondo la quale la disciplina vincolistica in tale materia non può incidere solo per il personale alle dirette dipendenze dell'ente, ma anche per quello che svolge la propria attività al di fuori dello stesso e, comunque, per tutte le forme di esternalizzazione.
Si tratta quindi di un calcolo aggregato che va recepito da parte dei singoli enti. Le amministrazioni dovranno adottare criteri idonei per determinare la misura della spesa di personale del l'Unione che sia riferibile pro quota ai comuni partecipanti. Numero di abitanti, quantità di servizi garantiti, numero di ore di attività svolte sono solo alcuni dei possibili indicatori.
Una scelta non sempre agevole: gli enti che partecipano alle gestioni associate, hanno spesso vincoli assunzionali e di contenimento della spesa diversi. Partire da zero è forse l'unica strada. Rifare i calcoli e costruire una base certa e stabile nel tempo da prendere come riferimento è il difficile percorso che attende Unioni ed enti associati (articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI: Sulla differenza tra il "responsabile del procedimento" ex L. 241/1990 ed il “responsabile del procedimento” in materia di appalti pubblici ex L. 109/1994.
-- La nuova figura del “responsabile del procedimento” introdotta dall’art. 7, comma 2 e 3, della citata L. n. 109, è stata ispirata dall’intento del legislatore di unificare in un unico soggetto compiti di “progettazione, affidamento ed esecuzione” dei lavori, che prima erano di competenza di organi diversi. Tuttavia, nella sua formulazione originaria, i principi innovativi ivi contenuti che hanno trovato applicazione a prescindere dall’emanazione del successivo regolamento, hanno previsto compiti che non si discostavano di molto da quelli che già erano contemplati dall’omologa figura del “responsabile del procedimento” introdotta dalla legge sul procedimento amministrativo, essendo le funzioni di tale soggetto limitate a controlli di tipo formale sulla procedura di affidamento dei lavori e dei conseguenti impegni di spesa. Con la modifica introdotta dalla L. n. 415/1998, i compiti di tale nuova figura sono stati potenziati per quanto riguarda la “predisposizione del programma triennale delle opere pubbliche” (art. 7, comma 3, della L. n. 109), mentre la definizione delle singole funzioni sono state rinviate, ancora una volta, al regolamento di attuazione.
-- Nella configurazione della L. n. 241/1990, il responsabile del procedimento è il soggetto che, in primo luogo, valuta le condizioni d’ammissibilità e di legittimità per l’emanazione del provvedimento finale della quale può anche avere assunto la competenza; segue lo svolgersi dell’istruttoria, richiedendo eventuali dichiarazioni o sollecitando la correzione di quelle già presentate; cura le pubblicazioni previste da leggi o regolamenti; infine indice la conferenza dei servizi di cui all’art. 14 della medesima legge n. 241, nel caso in cui più enti siano coinvolti nel procedimento. Trattasi, invero, di un’elencazione a carattere tassativo, non essendo prevista alcuna competenza residuale.
-- Il responsabile del procedimento di cui al Regolamento della legge sui lavori pubblici, come ha affermato un’autorevole dottrina, dovrebbe più propriamente essere definito “responsabile dell’intervento”, giacché tale soggetto cumula tutti gli adempimenti necessari acciocché, dalla progettazione preliminare al collaudo dell’opera, tutte le fasi del procedimento si svolgano, non solo nel rispetto della legalità ma anche dei princìpi di economicità, efficienza e trasparenza dell’azione amministrativa. In altri termini, in tale nuova figura è possibile individuare funzioni di iniziativa procedimentale e di istruttoria tecnica, funzioni di verifica preventiva di legittimità, di vigilanza sulle procedure tese alla realizzazione dell’intervento, nonché di conduzione dei lavori e di rappresentanza negoziale.
Sotto tale ultimo profilo –per quel che qui rileva ai soli fini di un’ipotetica individuazione dei compiti specifici di tale figura al caso che qui occupa– il responsabile del procedimento configurato dal Regolamento n. 554/1999, provvede: all’acquisizione dell’attestazione da parte del direttore dei lavori in merito alla realizzabilità del progetto anche in relazione al terreno, al tracciamento, al sottosuolo ed a quanto altro occorre per l’esecuzione dei lavori (art. 71, comma 1, lett. c); al coordinamento dell’attività progettuale, secondo tre progressivi livelli di definizione: preliminare, definitivo ed esecutivo (art. 15); alla concessione di proroghe del termine di ultimazione dei lavori (art. 111); all’emissione di ordini di servizio (art. 128), agli ordini di sospensione e ripresa dei lavori (art. 133); all’approvazione delle perizie di variante (art. 134); alla risoluzione in via amministrativa delle controversie (art. 137).
Nessuna di dette competenze è invece ravvisabile in capo al responsabile del procedimento di cui alla L. n. 241/1990, la cui ratio è unicamente quella di assicurare la presenza di un unico soggetto che assicuri la sussistenza delle condizioni di legittimità dell’intervento, curi l’andamento del procedimento amministrativo e si ponga quale referente dell’Amministrazione nei confronti dei terzi.

Come è noto, la L. n. 109/1994, denominata Legge quadro in materia di lavori pubblici (così come modificata ed integrata dalla L. n. 216/1995, nonché dai decreti legislativi di recepimento delle direttive comunitarie degli appalti nei settori esclusi, D.lgs. n. 158/1995 e degli appalti dei servizi, D.lgs. n. 157/1995 ed alla legge n. 415/1998, nota come Merloni-ter) ha totalmente ridisegnato l’assetto normativo dell’appalto di opere pubbliche, il cui impianto originario risaliva alla L. n. 2248/1865 all. F, al regolamento sui lavori pubblici di cui al R.D. n. 350/1895 ed al capitolato generale delle opere pubbliche.
Tuttavia tale legge, come si evince dalla sua intitolazione, oltre che dalla lettura dell’art. 1, si è proposta l’individuazione dei soli principi fondamentali in materia di lavori pubblici, lasciando poi al potere regolamentare del Governo la concreta attuazione di tali principi.
Per quanto qui rileva ai fini della definizione della posizione dell’ing. Cocco, la nuova figura del “responsabile del procedimento” introdotta dall’art. 7, comma 2 e 3, della citata L. n. 109, è stata ispirata dall’intento del legislatore di unificare in un unico soggetto compiti di “progettazione, affidamento ed esecuzione” dei lavori, che prima erano di competenza di organi diversi. Tuttavia, nella sua formulazione originaria, i principi innovativi ivi contenuti che hanno trovato applicazione a prescindere dall’emanazione del successivo regolamento, hanno previsto compiti che non si discostavano di molto da quelli che già erano contemplati dall’omologa figura del “responsabile del procedimento” introdotta dalla legge sul procedimento amministrativo, essendo le funzioni di tale soggetto limitate a controlli di tipo formale sulla procedura di affidamento dei lavori e dei conseguenti impegni di spesa.
Con la modifica introdotta dalla L. n. 415/1998, i compiti di tale nuova figura sono stati potenziati per quanto riguarda la “predisposizione del programma triennale delle opere pubbliche” (art. 7, comma 3, della L. n. 109), mentre la definizione delle singole funzioni sono state rinviate, ancora una volta, al regolamento di attuazione.
Il regolamento che ne è seguito, e cioè il d.P.R. 21.12.1999 n. 554 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 28.04.2000, n. 98) è stato espressione del processo che è stato definito di delegificazione, che consiste nel trasferimento di intere materie, purché non coperte da riserva assoluta di legge, alla normazione secondaria del Governo, secondo il dettato dell’art. 17, comma 2, della L. 23.08.1988 n. 400, che disciplina siffatto processo ed il relativo riparto di competenze.
Proprio in attuazione di detto riparto di competenze, l’art. 3 della L. n. 109 ha individuato espressamente le materie affidate alla potestà regolamentare del Governo. Per quanto più specificamente attiene al caso all’esame, come più sopra detto, i lavori pubblici di che trattasi, per effetto di un differimento del termine finale di esecuzione, erano ancora in corso alla data di entrata in vigore del regolamento (28.07.2000); e poiché detto atto di normazione secondaria ha disciplinato aspetti che –come si vedrà meglio nel prosieguo della trattazione– attengono direttamente alla posizione del convenuto si pone il problema se esso abbia trovato applicazione per i contratti in corso di esecuzione.
Ebbene, la risposta al quesito è stata data dall’art. 232 del regolamento stesso, il quale ha stabilito che sono di immediata applicazione ai rapporti in corso di esecuzione le “disposizioni che disciplinano l’organizzazione ed il funzionamento della stazione appaltante (comma 1)” ed anche “le norme residue”, purché non incidano sul “modo o il contenuto delle obbligazioni del contratto”. Tale delimitazione trova spiegazione per il fatto che le disposizioni amministrative che attengono all’organizzazione del soggetto pubblico del rapporto contrattuale, e cioè la stazione appaltante, nel caso di un contratto d’appalto in corso, non possono incidere, né direttamente né mediatamente, sull’altro soggetto contrattuale, in applicazione del principio tempus regit actum. Ne deriva che, in materia di danno derivante da inadempimento contrattuale, le procedure di accertamento e di commisurazione dello stesso danno devono essere effettuate secondo le regole vigenti al momento della stipula del contratto (Cass, sez. I, n. 17906 del 04.09.2004; Consiglio di Stato, sez. I, parere n. 1235 del 17.01.2001).
Per contro, per quanto concerne l’assetto della stazione appaltante, la nuova normativa è di immediata applicazione: in particolare, per quel che qui precipuamente interessa, essa disciplina con immediatezza anche le figure professionali appartenenti all’amministrazione (in specie, il responsabile del procedimento, la cui posizione, più propriamente, deve essere riguardata nel presente giudizio di responsabilità amministrativa).
Tuttavia, come non ha mancato di osservare la circolare del Ministero dei lavori pubblici n. 1329 del 07.09.2000, l’immediata applicabilità di detta normativa agli appalti in corso d’essere alla data di entrata in vigore del Regolamento n. 554/1999 ha posto indubbi problemi operativi, dal momento che tutta l’attività preliminare alla stipula del contratto e parte di quella esecutiva sono state svolte nel vigore della previdente disciplina.
In particolare, ai sensi della L.R. n. 24/1987, in assenza di disposizioni di segno contrario impartite dal comune, il direttore dei lavori, all’atto della sua nomina, ha assommato anche le funzioni di ingegnere capo; mentre il responsabile del procedimento era tale unicamente in forza della previsione di cui all’art. 6 della L. n. 241/1990. E dal momento che ben diversi sono i compiti assegnati alla nuova figura del responsabile del procedimento ai sensi della citata legge n. 241 rispetto a quelle del Regolamento n. 554 (con conseguente contrazione delle funzioni del direttore dei lavori) non sembra né ragionevole né giuridicamente possibile che le funzioni originariamente assolte dai soggetti coinvolti nel presente giudizio potessero essere diversamente definite in assenza di uno specifico provvedimento dell’Amministrazione: in questo senso è, oltre alla circolare del Ministero dei Lavori pubblici citata, anche la determinazione dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici n. 54 del 07.12.2000, la quale ultima propone anche taluni criteri per l’individuazione del nuovo responsabile del procedimento.
E poiché risulta incontrovertibilmente dagli atti che nessun atto dell’Amministrazione ha mutato i compiti originariamente fissati in capo all’ing. Pisano ed all’ing. Cocco, le singole responsabilità devono essere definite alla luce della normativa applicabile antecedentemente all’avvento della L. n. 109/1994: per il direttore dei lavori, come si è visto in precedenza, il citato regolamento n. 350/1895 ed il capitolato generale d’appalto per le opere pubbliche (d.P.R.n. 1063/1962), che del resto, hanno trovato applicazione anche per la definizione del lodo arbitrale relativo alla controversia tra il comune di Assemini e l’appaltatore; per il responsabile del procedimento, l’art. 6 della L. n. 241/1990.
Le considerazioni più innanzi svolte inducono dunque ad avvalorare la tesi del patrono del convenuto secondo la quale l’ing. Cocco –oltre che le funzioni di responsabile del servizio dei lavori pubblici- ha assunto il compito di “responsabile del procedimento” ai sensi dell’art. 6 della L. 07.08.1990 n. 241, e non anche l’omologa funzione così come delineata dall’art. 8 del regolamento n. 554/1999. La differenza non è di poco momento, ove si consideri la differente disciplina che governa le due figure.
Ed invero, nella configurazione della L. n. 241/1990, il responsabile del procedimento è il soggetto che, in primo luogo, valuta le condizioni d’ammissibilità e di legittimità per l’emanazione del provvedimento finale della quale può anche avere assunto la competenza; segue lo svolgersi dell’istruttoria, richiedendo eventuali dichiarazioni o sollecitando la correzione di quelle già presentate; cura le pubblicazioni previste da leggi o regolamenti; infine indice la conferenza dei servizi di cui all’art. 14 della medesima legge n. 241, nel caso in cui più enti siano coinvolti nel procedimento. Trattasi, invero, di un’elencazione a carattere tassativo, non essendo prevista alcuna competenza residuale.
Per contro, il responsabile del procedimento di cui al Regolamento della legge sui lavori pubblici, come ha affermato un’autorevole dottrina, dovrebbe più propriamente essere definito “responsabile dell’intervento”, giacché tale soggetto cumula tutti gli adempimenti necessari acciocché, dalla progettazione preliminare al collaudo dell’opera, tutte le fasi del procedimento si svolgano, non solo nel rispetto della legalità ma anche dei princìpi di economicità, efficienza e trasparenza dell’azione amministrativa. In altri termini, in tale nuova figura è possibile individuare funzioni di iniziativa procedimentale e di istruttoria tecnica, funzioni di verifica preventiva di legittimità, di vigilanza sulle procedure tese alla realizzazione dell’intervento, nonché di conduzione dei lavori e di rappresentanza negoziale.
Sotto tale ultimo profilo –per quel che qui rileva ai soli fini di un’ipotetica individuazione dei compiti specifici di tale figura al caso che qui occupa– il responsabile del procedimento configurato dal Regolamento n. 554/1999, provvede: all’acquisizione dell’attestazione da parte del direttore dei lavori in merito alla realizzabilità del progetto anche in relazione al terreno, al tracciamento, al sottosuolo ed a quanto altro occorre per l’esecuzione dei lavori (art. 71, comma 1, lett. c); al coordinamento dell’attività progettuale, secondo tre progressivi livelli di definizione: preliminare, definitivo ed esecutivo (art. 15); alla concessione di proroghe del termine di ultimazione dei lavori (art. 111); all’emissione di ordini di servizio (art. 128), agli ordini di sospensione e ripresa dei lavori (art. 133); all’approvazione delle perizie di variante (art. 134); alla risoluzione in via amministrativa delle controversie (art. 137).
Nessuna di dette competenze è invece ravvisabile in capo al responsabile del procedimento di cui alla L. n. 241/1990, la cui ratio è unicamente quella di assicurare la presenza di un unico soggetto che assicuri la sussistenza delle condizioni di legittimità dell’intervento, curi l’andamento del procedimento amministrativo e si ponga quale referente dell’Amministrazione nei confronti dei terzi. Per le quali ragioni può senz’altro pervenirsi alla conclusione che, nell’ambito di tali più contenute funzioni, nessuna censura possa essere mossa all’ing. Cocco, tale da indurre ad una sua affermazione di responsabilità.
A ciò, tuttavia, deve aggiungersi che, ai sensi dell’art. 45 del Regolamento comunale concernente l’organizzazione degli uffici, l’ing. Cocco è stato preposto alla direzione del servizio dei lavori pubblici: pertanto su di lui incombevano certamente compiti di vigilanza ed impulso sulle opere pubbliche in corso. Tale conclusione discende certamente anche dalla forza precettiva dell’art. 7 della L. n. 109/1994 che ha disciplinato, per grandi linee, le nuove funzioni del responsabile del procedimento; ma poiché, come si è detto, tale precettività, in attesa dell’emanazione del regolamento attuativo, era assai limitata, deve ritenersi che detti compiti di vigilanza e di impulso dovessero (e debbano ora) essere desunti alla stregua degli ordinari principi che regolano l’assetto dell’apparato amministrativo dell’ente locale (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Sardegna, sentenza 20.03.2009 n. 593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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APPALTI SERVIZIMANOVRA BIS/ Partecipate al test sopravvivenza. Mantenimento della gestione dei servizi legato a efficienza e dimensioni. La strategia dei piccoli Comuni che entro il 2012 devono chiudere le società o trovare strade per tenerle in piedi.
Entro la fine del 2012 i piccoli comuni devono chiudere le loro società partecipate o definire scelte strategiche che consentano di mantenerle operative. Il Dl 138/2011 e la legge 148/2011 di conversione hanno modificato le regole su liquidazione delle società e cessione delle altre partecipazioni da parte dei comuni con popolazione sotto 30mila abitanti (articolo 14, comma 32, della legge 122/2010), fissando come nuova scadenza il 31.12.2012.
Agli enti restano tuttavia due possibilità per consentire alle controllate di proseguire nella gestione dei servizi affidati. La prima deroga si fonda sulla sussistenza di parametri di efficienza economico-finanziaria degli organismi partecipati, che devono avere, anche qui con scadenza anticipata al 31 dicembre 2012, il bilancio in utile negli ultimi tre esercizi e che non devono aver subito nei precedenti esercizi riduzioni di capitale conseguenti a perdite di bilancio o perdite che abbiano comportato ripiani da parte dei soci pubblici.
La seconda possibilità per evitare la liquidazione è legata a un parametro dimensionale: la società deve essere costituita da comuni la cui popolazione complessiva superi i 30mila abitanti e la partecipazione al capitale sociale deve essere paritaria o proporzionale al numero degli abitanti. Su questo punto le amministrazioni hanno un adeguato margine per verificare se i flussi demografici hanno elevato o diminuito il numero dei residenti (anche in forza del censimento di quest'anno), potendo elaborare strategie che consentano anche di aprire la compagine societaria ad altri comuni. Un percorso del genere, tuttavia, dovrebbe essere supportato da un adeguato piano industriale, tale da evidenziare il vantaggio per tutti i soci e per il potenziamento della stessa società.
Se la società può essere mantenuta in attività, i comuni devono in ogni caso verificare se essa può proseguire nella gestione dei servizi affidati, in base alle nuove norme sulla cessazione delle gestioni esistenti (articolo 4, comma 33, del Dl 138/2011), che risultano particolarmente restrittive e limitanti per gli organismi in house.
Il comma 32 dell'articolo 14 della legge 122/2010 ha subito numerosi interventi del legislatore, tanto che con il milleproroghe 2011 (legge 10/2011) la scadenza per le dismissioni era stata portata al 31.12.2013 e con il decreto sviluppo (legge 106/2011) è stata eliminata la parte della disposizione che rimetteva la sua attuazione a un decreto ministeriale.
Tuttavia nella parte della disposizione relativa alla razionalizzazione delle partecipazioni da parte dei comuni con popolazione tra 30mila e 50mila abitanti è rimasta la scadenza del 31 dicembre 2011. Tali enti, pertanto, entro fine anno potranno detenere la partecipazione a una sola società. La prossimità del termine obbliga le amministrazioni comunali interessate a definire in tempi molto rapidi una strategia, che può comportare soluzioni diverse, come ad esempio l'incorporazione per fusione o la costituzione di una holding. La rilevanza dei processi di dismissione e di razionalizzazione delle partecipazioni è ora rafforzata dalla previsione contenuta nel comma 28 dell'articolo 16 della manovra, nel quale è previsto che il prefetto accerti che gli enti territoriali interessati abbiano attuato, entro i termini stabiliti, le operazioni di liquidazione delle società con bacino di riferimento sotto i 30mila abitanti e la rimodulazione degli assetti di controllo in un'unica referenza per i comuni tra 30mila e 50mila abitanti.
Qualora le scadenze non siano rispettate, il prefetto potrà assegnare agli enti interessati un termine perentorio entro il quale provvedere, ma in caso di ulteriore inadempienza, scatteranno le procedure per la nomina di un commissario ad acta. Stessa procedura anche per la soppressione dei consorzi di funzioni tra gli enti locali, prevista dall'articolo 2 della legge 191/2009 anch'essa ricondotta al termine del 31.12.2011 (articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZIAffidamenti a miste da chiudere a giugno.
Piccoli comuni chiamati a elaborare entro pochi mesi una strategia complessiva per disegnare il futuro delle proprie società partecipate.
Il comma 32 dell'articolo 4 del Dl 138/2011 prevede che entro il 31.03.2012 cessino gli affidamenti diretti a società in house oltre i 900mila euro di valore e che entro il 30.06.2012 cessino gli affidamenti a società miste, nelle quali non ci sia stata la contestuale attribuzione al privato della qualità di socio e di specifici compiti operativi.
I due termini individuati per il periodo transitorio relativo alle gestioni in essere dei servizi pubblici con rilevanza economica sono antecedenti rispetto a quella individuata dal comma 32, il quale prevede la disciplina per la liquidazione delle società partecipate dai comuni con popolazione sotto i 30mila abitanti, con attuazione obbligatoria entro il 31.12.2012.
Accertata la rilevanza economica del servizio pubblico affidato e rilevato che non rientra tra quelli esclusi (ad esempio servizio idrico, farmacie, distribuzione del gas) dall'articolo 4 della manovra, i comuni dovranno definirne il dimensionamento economico annuo. Qualora, infatti, l'affidamento sia a una società con le caratteristiche dell'in house e il valore del singolo servizio su base annua non superi i 900mila euro, la gestione in essere potrà proseguire sino alla sua naturale scadenza.
Nell'ipotesi in cui una società risulti affidataria di più servizi, la valutazione rispetto al parametro economico dovrà essere fatta per ogni singola attività. Qualora invece l'ente locale abbia affidato il servizio a una società mista, nella quale al socio privato non siano state originariamente assegnate con la gara specifiche attività, la mancanza della combinazione è presupposto sufficiente per far venire meno l'affidamento in essere a metà 2012.
Il quadro normativo riconduce poi tutte le altre tipologie di affidamenti impropri di servizi pubblici con rilevanza economica alla scadenza prevista per quelli in house (31.03.2012).
Rientrano anzitutto in questa categoria gli affidamenti a società a capitale interamente pubblico da parte di enti non soci (quindi non in possesso di uno degli elementi necessari per l'esercizio del controllo analogo), così come quelli a società che non hanno le caratteristiche dell'in house (assenza di strumenti che garantiscano il controllo analogo, attività prevalentemente svolta dalla società a favore di soggetti non soci).
Tra le situazioni critiche si annoverano anche gli affidamenti a società miste nelle quali il socio privato non sia stato scelto con gara. Una volta vagliata la sostenibilità (o meno) di soluzioni che consentano il mantenimento delle gestioni in essere o che richiedano nuovi affidamenti, i comuni di minori dimensioni dovranno verificare se l'eventuale nuovo o trasformato modello societario soddisfi i parametri di efficienza economica o dimensionale previsti comma 32, potendo quindi proiettare il piano industriale del soggetto gestore oltre la fine del 2012 (articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZIL'«in house» cambia lo statuto.
La nuova disciplina di riferimento per i servizi pubblici locali con rilevanza economica presenta alcuni profili critici in relazione alla gestione degli affidamenti a società in house, date le regole molto più restrittive di quelle comunitarie. Rispetto all'articolo 23-bis della legge 133/2008, la disciplina contenuta nell'articolo 4 del Dl 138/2011 ha un'importante differenza: non prevede per le società affidatarie in house la possibilità di mantenere la gestione esistente sino alla scadenza naturale, cedendo almeno il 40% del capitale sociale a un socio privato operativo, scelto con gara.
Il nuovo dato normativo impone agli enti soci di sviluppare un percorso più complesso. Anzitutto le amministrazioni devono approvare la modificazione dello statuto della società, per la sua apertura a soggetti privati nei termini di partecipazione minima previsti dalla nuova disciplina. Il passaggio successivo è la scelta del socio privato, mediante una procedura di gara che avrà come oggetto l'assegnazione delle quote o azioni (per almeno il 40% del capitale sociale) e l'attribuzione di specifici compiti operativi.
In questo quadro, la società mista deve essere configurata come gestore del servizio pubblico locale sulla base di un nuovo affidamento, fondato su un piano industriale che valorizza la partnership con il socio privato.
Un simile percorso è facilmente gestibile per i servizi pubblici dei quali gli enti locali sono sia titolari sia affidanti (ad esempio illuminazione pubblica, servizi cimiteriali), mentre risulta più complesso quando il soggetto affidante sia l'autorità d'ambito (o l'organismo che alla stessa deve succedere in funzione della soppressione delle stesse autorità, obbligatoria entro il 31 dicembre di quest'anno). In tale seconda ipotesi, infatti, la scelta del modello gestionale deve essere definita dagli enti locali che appartengono all'ambito territoriale ottimale in accordo con il soggetto pubblico responsabile dell'affidamento.
Le norme contenute nell'articolo 4 della manovra limitano le prospettive per il mantenimento in operatività delle società in house ai casi in cui queste siano affidatarie di servizi pubblici con rilevanza economica di valore inferiore ai 900mila euro annui.
Tuttavia le affidatarie dirette hanno un'ultima chance, rappresentata dalla possibilità di concorrere, in deroga al divieto generale di affidamento di servizi ulteriori stabilito dal comma 33, concorrere su tutto il territorio nazionale alla prima gara successiva alla cessazione del servizio, svolta mediante procedura competitiva a evidenza pubblica, avente a oggetto i servizi da essi forniti (come stabilito dall'ultimo periodo dello stesso comma).
Questa opzione, tuttavia, è esercitabile solo qualora un ente locale affidante di un servizio pubblico rientrante nel panel di quello gestito dall'affidataria in house decida di indire (comunque in tempi compatibili con la scadenza delle gestioni esistenti) una gara aperta agli operatori di settore, con i quali l'affidataria diretta dovrebbe confrontarsi (articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIRevisori ok se nominati dalla Corte dei conti.
Nonostante sia un elemento chiave del sistema dei controlli, il ruolo dei revisori degli enti locali si segnala per alcuni punti di debolezza.
Il primo è il criterio di nomina: che i revisori vengano eletti dal consiglio non garantisce autonomia di giudizio. Anche il fatto che il mandato sia triennale e rinnovabile una volta condiziona l'operato dell'organo. Altrove il mandato dura 5 o 6 anni e non è immediatamente rinnovabile, mentre non vige peraltro la successiva esclusione in eterno, come qui.
Un secondo limite è relativo alla preparazione professionale: del resto, se si viene scelti perché amici del sindaco «è più importante essere preparati o fedeli?». A voi la risposta. Inoltre, dato il limite degli incarichi ottenibili per questa strada, e anche il modesto compenso, a cosa serve prepararsi? Si tratta di avere uno o due incarichi e per un periodo di tempo limitato: una prospettiva che non rende sostenibile un serio investimento in formazione.
Terzo nodo è il funzionamento dell'organo. L'ordinamento prevede pesanti compiti per i revisori, ma la normativa non garantisce loro un supporto adeguato e indipendente. In pratica, i dati e le informazioni provengono dagli uffici dell'ente (i quali dovrebbero essere il principale oggetto di controllo) e non vi è modo di fare altrimenti, visto che si è privi di una propria dotazione organica.
A queste problematiche il governo prova a trovare soluzione, prevedendo che i revisori non vengano più nominati dai consigli, bensì estratti a sorte da apposite liste su base regionale (per gli enti locali) e da una lista ad hoc (per le regioni).
La norma, inquadrata in una manovra in cui spicca un capitolo sulle liberalizzazioni, non difetta certo di originalità: mai nessuno, per garantire merito e professionalità, era arrivato a sostenere il criterio della estrazione a sorte.
Che dire? Ci auguriamo di cuore che, sull'onda del probabile successo di questa innovativa teoria liberista, la pratica non venga estesa ad altre categorie "protette", quale quella degli iscritti all'ordine dei medici («Ha un tumore? Mi spiace, è stato estratto un dentista...») o per la selezione dei calciatori della nazionale.
In linea con lo spirito delle liberalizzazioni, peraltro, è anche la scelta delle liste regionali. Il sottoscritto, fiorentino, in ossequio a questa innovativa frontiera della libertà economica, potrà continuare ad ambire a fare il revisore al comune di Londra o di Barcellona ma, ahimè, gli sarà preclusa, per legge, la possibilità di essere prescelto nel comune di La Spezia o di Bologna.
Interessanti anche i requisiti individuati per entrare negli elenchi, tra i quali spicca l'anzianità di iscrizione al registro dei revisori legali (per poter essere estratti nei comuni più grandi) e quello di avere già svolto la funzione di revisore in un ente locale per essere iscritto nell'elenco (così da fugare il rischio che un giovane possa ambire a tali incarichi). Bene, peraltro, che i revisori siano previsti anche per le Regioni, ma perché a questi elenchi hanno accesso solo i revisori legali dei conti e non anche gli iscritti all'ordine dei dottori commercialisti ed esperti contabili come negli enti locali?
Condividiamo l'idea che i revisori debbano avere una professionalità specifica e ritrovarsi in un apposito registro. È fondamentale, però, che siano scelti in base a criteri di merito e competenza, che ne assicurino l'indipendenza. Pertanto è necessario che siano nominati da un ente terzo, preferibilmente dalla Corte dei conti. L'estrazione a sorte è una opzione grottesca, mortifica la professionalità ed è destinata a squalificare una funzione di controllo essenziale (articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALIMANOVRA BIS/ Alleanze a ostacoli per 5mila Comuni costretti a «sposarsi». Entro sei mesi i Consigli dei mini-enti devono indicare alla Regione con chi vogliono unirsi.
«A Cerlongo si parla come a Guidizzolo o a Ceresara», più che come a Goito, informava l'anno scorso la Gazzetta di Mantova per spiegare una complicata vicenda (per chi non è del posto) di frazioni intenzionate a cambiare Comune, e di Comuni incerti sulla Provincia a cui appartenere «sul crinale fra Mantova e Brescia».
Con la crisi del debito sovrano e gli occhi del mondo puntati sui rendimenti dei nostri titoli di Stato, campanilismi come questi vanno consegnati alle tradizioni locali. La manovra-bis pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» di venerdì punta dritto sulla "semplificazione" della Pubblica amministrazione locale, imponendo un'articolata ricetta di quasi-fusioni fra i Comuni sotto i mille abitanti e di gestioni associate obbligatorie per quelli che superano i mille residenti ma non arrivano a 5mila.
Obiettivo dichiarato, tagliare il numero di amministratori locali, con un complesso di misure che cancella 32mila posti a partire dal prossimo turno amministrativo, e raggiungere economie di scala che facciano risparmiare nella gestione dei servizi pubblici. Ce la farà? A giudicare dalle prime reazioni, tra minacce di ricorsi alla Corte costituzionale e manifestazioni che praticamente in tutte le Regioni hanno visto sfilare i sindaci anche in pieno agosto, fino al centinaio di primi cittadini piemontesi che venerdì sono saliti a Pian del Re per "salutare" i vertici leghisti impegnati nel rito dell'ampolla.
A ostacolare il cammino delle nuove regole verso l'applicazione concreta, però, non sono tanto le questioni di Montecchi e Capuleti che popolano il territorio italiano, quanto piuttosto il fatto che la "semplificazione" è nell'obiettivo della legge ma non nel meccanismo pensato per attuarla.
Nella giostra di Unioni e associazioni obbligatorie entrano 5.683 Comuni, il 70,2% del totale, cui si aggiungono 1.192 enti fra 5mila e 10mila abitanti che perderanno due consiglieri. Se gli abitanti del Comune non arrivano a quota mille, il suo destino è quello di confluire in un'Unione di almeno 5mila abitanti, soglia che scende a 3mila quando l'ente è appartenuto a una Comunità montana. L'Unione, soggetta al Patto di stabilità dal 2014, deve gestire tutte le attività e i servizi pubblici locali, fare il bilancio e in pratica assorbire il ruolo prima svolto singolarmente dai Comuni partecipanti, i quali perdono la Giunta e tre consiglieri comunali e si limita ai poteri d'indirizzo nei confronti dell'Unione.
Il cambio di rotta rispetto alla gestione attuale è drastico, come dimostra la complessità della fase di passaggio: i Comuni devono decidere subito a quali vicini unirsi, e in sei mesi devono deliberare in consiglio e inviare alla propria Regione la proposta di aggregazione.
La Regione, dopo aver sciolto il probabile rebus di aggregazioni che le arriva dal territorio, istituisce l'ordinamento delle Unioni, che iniziano a scattare dalle prime elezioni successive al 13.08.2012: quando il primo Comune arriva al voto, con un effetto domino fa decadere le Giunte anche negli altri Comuni dell'Unione, dove quindi gli assessori si vedrebbero tagliare il mandato per le elezioni intervenute in un altro Comune. Un passaggio ad alto rischio, in cui il contenzioso è pressoché certo e gli esiti per nulla scontati. Ammesso che lo scoglio si superi, con le nuove Unioni a regime la legge dello Stato potrebbe decidere che alle elezioni successive si voti sia per il consiglio del Comune sia per quello dell'Unione, che in prima battuta è invece composto dai sindaci e da due consiglieri per ogni ente partecipante.
Un po' più semplice il percorso per i Comuni che superano i mille residenti ma non i 5mila. In questo caso bisogna avviare entro fine 2012 la gestione associata di tutte le «funzioni fondamentali», dalla burocrazia alla Polizia locale, dalla viabilità ai servizi sociali, creando alleanze che contino almeno 10mila amministrati. Anche in questo caso i punti interrogativi non mancano: a voler seguire la lettera della legge, per esempio, i Comuni dovrebbero associare il 70% dell'amministrazione generale, con una divisione che in termini pratici si fatica a comprendere.
L'esperienza, poi, mostra che le gestioni associate funzionano bene in alcuni settori, Polizia locale in primis, ma spesso zoppicano quando si tratta di mettere insieme l'amministrazione generale, dagli uffici tributi all'anagrafe. Dalle prossime elezioni, anche questi enti dovranno alleggerire Giunte e consigli (i dettagli nel grafico qui sopra), e lo stesso accadrà ai consigli dei Comuni fra 5mila e 10mila abitanti.
L'obiettivo di questo enorme giro di giostra, naturalmente, sono i risparmi. Quelli sui «costi della politica», in realtà, sono molto teorici, un po' perché gettoni e indennità nei piccoli Comuni sono ultraleggere (e spesso, soprattutto i consiglieri, vi rinunciano), un po' perché le nuove Unioni che sorgeranno determineranno nuovi posti e nuove buste paga, più "ricche" di quelle che vanno a sostituire.
Più seria è la questione della razionalizzazione per superare un'architettura amministrativa troppo frastagliata per essere efficiente. Il compito, però, non è semplice. Per svolgerlo occorre intervenire sulle strutture degli uffici e sui punti di erogazione dei servizi, ma sul punto la nuova norma non si dilunga, preferendo concentrarsi su consigli, giunte e regole politiche. Forse perché parlare di 32mila posti da "politico locale" tagliati è più efficace. Anche se non si risparmia un euro (articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIMANOVRA BIS/ Gestioni associate senza regole.
PROBLEMI IRRISOLTI - Se le dimensioni dei confinanti sono diverse non è chiaro come procedere Mancano le sanzioni in caso di inadempienza.

Assenza di indicazioni su quale forma di gestione associata devono realizzare i piccoli Comuni che confinano con altri di maggiore dimensione; mancata previsione di specifiche sanzioni per i municipi inadempienti; cessazione delle forme di gestione associata a cui i piccolissimi Comuni (quelli fino a 1.000 abitanti) attualmente partecipano; possibilità che il presidente dell'Unione sia un consigliere di minoranza: possono essere così sintetizzate le principali criticità delle nuove regole sulla gestione associata. Sicuramente alcune delle anomalie maggiori contenute nel testo iniziale sono state corrette: ma ne rimangono molte e di rilevanti.
I centri con meno di 1.000 abitanti devono dare vita alle Unioni o a convenzioni per la gestione di tutte le funzioni e i servizi. Il legislatore non ha però previsto che cosa fare nell'ipotesi in cui uno di questi non confini con altri che hanno la stessa ridotta dimensione e quelli limitrofi -con popolazione maggiore e che quindi non sono obbligati a dare vita alla gestione associata di tutte le proprie attività- non vogliano aderire a queste Unioni.
Lo stesso problema si pone per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti che confinano solo con enti più grandi. È sicuramente vero tutti questi potrebbero dare corso a convenzioni e che per esse non è previsto il vincolo di essere confinanti. Ma quanto possono essere efficienti queste gestioni?
Il testo finale della manovra non dispone, a differenza delle previsioni contenute nel decreto iniziale, la assai discutibile istituzione di un nuovo soggetto giuridico, quali dovevano essere le Unioni municipali. Ma introduce una serie di modifiche alle regole in vigore per le Unioni ordinarie. Ad esempio, in quelle costituite dai Comuni fino a 1.000 abitanti il presidente può non essere un sindaco, essendo sufficiente essere consigliere rappresentante del Comune nell'Unione, mentre questo vincolo sussiste per le Unioni ordinarie. Questa previsione risulta incomprensibile anche alla luce del vincolo che i componenti la giunta di queste Unioni devono necessariamente essere sindaci.
I centri con mano di 5.000 abitanti devono gestire in forma associata tutte le funzioni fondamentali. Il legislatore, mentre stabilisce l'obbligo, non irroga direttamente alcuna sanzione per le amministrazioni inadempienti. E non è prevista alcuna sanzione neppure per le Regioni che non istituiranno le Unioni dei piccolissimi Comuni.
La manovra di Ferragosto prevede che i municipi con meno di 1.000 abitanti cesseranno di fare parte di tutte le forme di gestione associata a cui oggi partecipano, come conseguenza automatica e immediata dell'avvio delle nuove Unioni. Il che risulta difficilmente comprensibile, oltre a sollevare numerosi problemi di applicazione e a limitare l'autonomia degli enti: tra questi, per segnalarne uno, i piccolissimi Comuni che hanno attualmente il segretario in convenzione con altri centri dovranno necessariamente mettersi insieme, anche per questa attività, con l'ente o gli enti con i quali danno vita all'Unione o alla convenzione (articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATANuovo piano casa, tutto pronto per non replicare il flop del primo. Ristrutturazioni al via dopo l'ultima finestra per modificare le disposizioni del dl sviluppo.
Traguardo più vicino per il rilancio dell'edilizia. L'ultima versione del piano casa, introdotta dal governo con il decreto sviluppo, sembra ormai pronta a decollare. I termini concessi alle amministrazioni locali per non far scattare le deroghe in materia di urbanistica, prg, ambiente ecc. previste dall'intesa stato-regioni sono ormai scaduti, e quindi i piani possono essere attuati.
L'ultima finestra per mettere in atto e/o modificare le disposizioni contenute nel dl 70/2011 si è chiusa l'11.09.2011, in seguito a quanto previsto dall'art. 5, commi da 9 a 14, del decreto, che ha introdotto una normativa nazionale quadro per la riqualificazione delle aree urbane degradate. Sostanzialmente la norma ha posto le basi per l'avvio del cd. «piano per la città» con la previsione, a regime, di disposizioni finalizzate a un concreto processo di riqualificazione urbana accompagnato da incentivi e dalla semplificazione di alcune procedure.
Le disposizioni per il rilancio dell'edilizia contenute nel dl 70/2011 fanno seguito al piano casa 2, il quale aveva previsto, attraverso un protocollo di intesa tra stato e regioni stilato lo scorso aprile 2009, l'intervento da parte delle regioni stesse al fine di regolamentare la disciplina introdotta dal governo. Tutto questo ha generato un vorticoso proliferare di leggi e regolamenti regionali che, in aggiunta alle ultime disposizioni introdotte dal dl 70/2011, ha creato non poca confusione circa l'individuazione dei corretti ambiti in cui è possibile operare all'interno delle amministrazioni locali per fruire delle agevolazioni previste dal governo.
Per esempio, Friuli-Venezia Giulia, Toscana e Umbria hanno subordinato la realizzazione degli interventi al miglioramento della sicurezza antisismica ovvero della sostenibilità energetico-ambientale. Altre regioni, come la Puglia, il Lazio e il Piemonte, hanno vietato gli ampliamenti in alcune zone di pregio, su immobili vincolati, in aree sottoposte a vincoli e fasce di rispetto costiere o ad alta pericolosità idraulica e geomorfologia.
Da altro punto di vista si può, inoltre, constatare che la maggior parte delle regioni ha provveduto a modificare la normativa emanata con una serie di provvedimenti attuativi (circolari interpretative e delibere), nonché con ulteriori leggi regionali, alcune delle quali hanno riscritto integralmente la disciplina introdotta (es. Piemonte) al fine di facilitarne l'applicabilità; altre (Marche, Campania, Umbria e Liguria) hanno invece «allargato le maglie» del piano casa 2 o accresciuto gli incentivi in modo da poterne rilanciare l'utilizzo; altre ancora hanno prorogato le scadenze del piano casa (Umbria, Campania, Marche, Sardegna, Toscana).
Il piano casa 2. Lo scorso aprile 2009, il governo aveva avviato alcune misure per il rilancio del settore edilizio (cd. piano casa 2).
In particolare, nell'intesa raggiunta in sede di Conferenza stato-regioni dell'01.04.2009 le amministrazioni locali si erano impegnate ad approvare proprie leggi volte:
- a regolamentare interventi per migliorare la qualità architettonica e/o energetica degli edifici entro il limite del 20% della volumetria esistente di edifici residenziali uni-bi familiari;
- a disciplinare interventi straordinari di demolizione e ricostruzione con ampliamento per edifici a destinazione residenziale entro il limite del 35% della volumetria esistente, con finalità di miglioramento della qualità architettonica e dell'efficienza energetica.
Nella stessa intesa, il governo si era impegnato a emanare un decreto-legge con l'obiettivo di semplificare alcune procedure di competenza esclusiva dello stato, al fine di rendere più rapida ed efficace l'azione amministrativa di disciplina dell'attività edilizia.
In base all'intesa, in pratica, le regioni si erano impegnate ad approvare entro e non oltre 90 giorni proprie leggi che dovevano prevedere alcune tipologie di interventi edilizi, con l'obiettivo di migliorare la qualità architettonica e/o energetica degli edifici.
Anche se con tempi diversi, pertanto, tutte le regioni (a eccezione della provincia autonoma di Trento) hanno disciplinato la materia, interpretando in vario modo l'intesa del 1° aprile 2009: alcune hanno ampliato i criteri definiti nell'intesa con il governo, prevedendo ulteriori fattispecie di edifici oltre a quelli residenziali, per esempio edifici agricoli o produttivi non utilizzati. Emblematici sono gli esempi sopra richiamati delle regioni Friuli-Venezia Giulia, Toscana, Umbria, Puglia, Lazio, Piemonte.
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Il governo mette in campo buoni propositi. È la risposta locale che tarda ad arrivare.
In aggiunta a quanto stabilito dal piano casa, il dl 70/2011, così come convertito in legge 12.07.2011 n. 106, all'art. 5, comma 9, ha previsto da parte delle regioni l'approvazione, entro 60 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione (avvenuta lo scorso 13.07.2011), di proprie leggi al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio, nonché di riqualificare le aree urbane degradate in cui siano presenti «funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare».
L'obiettivo era quello di fare in modo che le amministrazioni locali dovessero tener conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell'efficienza energetica e delle fonti rinnovabili. La normativa ha offerto al riguardo la possibilità che tali azioni potessero essere incentivate anche con interventi di ricostruzione e demolizione. Tali interventi dovrebbero prevedere:
- il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva come misura premiale;
- la possibilità di delocalizzare le volumetrie in area o aree diverse;
- l'ammissibilità di modifiche di destinazioni d'uso, purché compatibili o complementari;
- la possibilità di modificare la sagoma in caso di armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti.
La riqualificazione di aree urbane. La riqualificazione urbana di quartieri degradati e aree dismesse tramite premi di cubatura in deroga ai Prg è uno strumento operativo già ampiamente presente nella legislazione regionale attuativa del cd. piano casa 2, in quanto rappresentava uno dei punti per il rilancio del settore edilizio previsto nell'intesa raggiunta in sede di conferenza stato-regioni dell'01.04.2009.
In particolare, per la realizzazione degli interventi di riqualificazione il dl 70/2011 ha introdotto alcune norme volte a semplificare alcune procedure edilizie:
- decorso il termine di 60 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto e fino all'entrata in vigore della normativa regionale nelle regioni a statuto ordinario e speciale è possibile richiedere il permesso di costruire in deroga ai sensi dell'art. 14 del T.u. dell'edilizia (dpr n. 380/2001) anche per il mutamento delle destinazioni d'uso, fermo restando il rispetto degli standard urbanistici, delle altre normative di settore (sismica, sicurezza, antincedio, igenico-sanitaria, efficienza energetica, ambiente, beni culturali e paesaggio) (commi 11 e 12);
- decorso il termine di 120 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto e fino all'entrata in vigore della normativa regionale nelle regioni a statuto ordinario le disposizioni statali sono immediatamente applicabili. In tal caso il decreto prevede (comma 14) un minimo di premialità garantito fissato:
a) nel limite massimo del 20% del volume dell'edificio se a destinazione residenziale;
b) nel limite massimo del 10% della superficie coperta per gli edifici adibiti ad uso diverso.
Resta fermo che tali limiti volumetrici costituiscono un minimo garantito e non condizionano la successiva attività legislativa regionale.
Relativamente all'ambito di applicazione della normativa il decreto esclude gli edifici abusivi o siti nei centri storici o in aree soggette a inedificabilità assoluta. Gli interventi potranno, invece, essere realizzati su immobili per i quali sia stato rilasciato il titolo abilitativo edilizio in sanatoria (comma 10).
Le semplificazioni. Sempre nell'ambito del piano città, sono state introdotte anche una serie di semplificazioni procedurali, che, diversamente dalle altre, hanno valenza generale essendo rivolte a tutti gli interventi edilizi e non solo a quelli di riqualificazione.
In particolare, il dl 70/2011, all'art. 5, comma 13, prevede che, decorsi 60 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto (ovvero dall'11.09.2011) e sino all'emanazione delle leggi regionali, nelle regioni a statuto ordinario si applicano le seguenti disposizioni:
- ammissibilità del permesso di costruire in deroga ai sensi dell'art. 14, dpr n. 380/2001 (T.u. edilizia) anche per il mutamento di destinazione d'uso, purché si tratti di destinazioni d'uso tra loro compatibili o complementari;
- adozione e approvazione dei piani attuativi conformi allo strumento urbanistico generale in giunta comunale (in luogo del consiglio comunale).
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Poche le regioni puntuali.
L'11 settembre è scaduto il termine assegnato alle regioni per i nuovi piani casa, ma la maggioranza delle regioni non ha ancora provveduto a dotarsi di una normativa che adatti a livello territoriale i principi fissati dal nuovo provvedimento (ribattezzato piano città). Ed è difficile che possano farlo in un breve lasso di tempo.
La fotografia scattata attraverso la ricognizione di ItaliaOggi Sette sui lavori delle regioni non è, quindi, edificante e sembra aprire le porte a un nuovo fallimento del provvedimento ideato per rilanciare il mercato immobiliare.
Le novità. Il piano casa inserito nel «decreto sviluppo» (decreto legge 70/2011) allarga le maglie degli interventi per superare le rigidità emerse nelle precedenti edizioni. Così, tra le altre cose, viene introdotta una premialità di almeno il 20% sul volume dell'edificio, se a destinazione residenziale, e del 10% per gli edifici a uso diverso.
Come nelle prime versioni dei piani casa, sono esclusi dagli interventi gli immobili abusivi o situati nei centri storici, ma non quelli che hanno ottenuto il titolo abilitativo in sanatoria. Inoltre vengono incentivate le operazioni di abbattimento-ricostruzione dando inoltre più libertà architettonica.
Lo stesso provvedimento prevede che, entro 60 giorni dall'entrata in vigore della legge 106/2011 di conversione del decreto (avvenuta il 13.07.2011), le regioni possono emanare apposite leggi per interventi di riqualificazione, prevedendo che le demolizioni e ricostruzioni avvengano con una volumetria premiale aggiuntiva, la possibilità di delocalizzare le cubature in aree diverse, l'ammissibilità di modifiche alle sagome degli edifici. Se non lo fanno, intervengono le disposizioni nazionali.
Nuove regole nel Lazio. Tra le regioni che hanno legiferato dopo il decreto sviluppo, l'ultima in ordine di tempo è stata il Lazio. Il 3 agosto il consiglio regionale ha dato il via libera al disegno di legge che modifica la legge regionale n. 21/2009. Il provvedimento normativo si applica a tutti gli edifici realizzati legittimamente (anche quelli per i quali il titolo edilizio sia stato rilasciato in sanatoria, compresi il caso della formazione del silenzio assenso) e a quelli non ultimati ma che abbiano ricevuto il titolo abilitativo edilizio.
Tra le principali novità rispetto alla legge precedente c'è la sua validità anche nelle zone agricole e in quelle più urbanizzate delle aree naturali protette. Sono esclusi gli insediamenti urbani storici, come individuati dal piano territoriale paesistico regionale, le aree di rischio idrogeologico molto elevato, i casali e i complessi rurali realizzati in epoca anteriore al 1930, gli edifici costruiti nelle aree del demanio marittimo.
Per gli ampliamenti di edifici esistenti (ammessi in aderenza o adiacenza rispetto al fabbricato esistente, ma non in sopraelevazione) è prevista la possibilità di monetizzare il mancato rispetto degli standard urbanistici nel caso sia impossibile realizzare le opere di urbanizzazione secondaria necessarie, possibilità invece esclusa per i cambi di destinazione d'uso. I proprietari possono ampliare fino al 20% e fino a 70 metri quadri il proprio fabbricato, esclusi i centri storici e le aree tutelate. Se i lavori comportato l'impiego di fonti di energia rinnovabile non inferiore a un kilowatt, l'incremento di cubatura può arrivare fino al 30%.
In caso di adeguamento dell'intero edificio alla normativa antisismica, le percentuali di ampliamento variano a seconda della localizzazione degli edifici stessi, con incrementi che possono arrivare al 35%. Lo stesso limite del 20% è previsto per gli edifici non residenziali, per un massimo di 200 metri quadri per ogni edificio. Nel caso di edifici con destinazione ad attività produttive e artigianali il limite è del 25%, per un massimo di 500 metri quadri.
Puglia già a regime. Il nuovo piano casa è in vigore in Puglia già dal 2 agosto, data di pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della legge regionale n. 21/2011 che modifica e integra la n. 14/2009 «Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell'attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale». Il nuovo provvedimento fissa al 31.12.2012 la data limite per presentare la dia o la richiesta di permesso di costruire per realizzare gli interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione.
Per gli interventi di ampliamento degli edifici residenziali è confermato il limite del 20% della volumetria complessiva e dei 200 metri cubi. Sparisce, invece, il limite dei mille metri cubi per la volumetria preesistenti. Pertanto, anche gli edifici residenziali di volumetria superiore ai mille metri cubi potranno essere ampliati.
L'incremento volumetrico può raggiungere i 350 metri cubi a condizione che l'intero edificio, in seguito dell'ampliamento, raggiunga un punteggio minimo nei criteri di sostenibilità fissati con la legge regionale n. 13/2008. Fermo restando che sono computabili solo i volumi legittimamente realizzati, le volumetrie per le quali sia stata rilasciata la sanatoria edilizia straordinaria, sono ricomprese nella volumetria complessiva esistente. Scompare la condizione che prevedeva, nel caso in cui fossero stati sanati degli ampliamenti, lo scomputo della volumetria sanata, per cui le volumetrie regolarizzate con un condono concorrono al computo della volumetria complessiva e, in definitiva, dell'ampliamento.
Per gli interventi di demolizione e ricostruzione è confermato il limite del 35% di aumento di volumetria, ma sparisce l'obbligo di coinvolgere nell'intervento almeno il 75% del volume complessivo. La legge precedente richiedeva che gli edifici sui quali intervenire, dovessero risultare accatastati entro il 31.03.2009: la condizione resta ma il limite temporale viene cancellato.
La Toscana punta sulla semplificazione. Più limitati gli interventi in Toscana, che ha puntato soprattutto sulla semplificazione delle procedure e sulla rigenerazione urbana. Tra le altre cose, viene dettagliata la disciplina della Scia (Segnalazione certificata di inizio attività), che si affianca al permesso di costruire come titolo edilizio, in luogo dei tre (Scia, superDia e permesso a costruire) previsti dalla normativa nazionale.
La Regione ha deciso, inoltre, di specificare gli interventi finalizzati al riutilizzo e recupero degli edifici con destinazione d'uso produttiva (industriale o artigianale), per i quali sono i Comuni a stabilire incrementi massimi della superficie utile lorda a titolo di premialità, comunque da collegarsi ad aumenti della efficienza energetica e della sostenibilità ambientale.
Quanto agli obiettivi di rigenerazione urbana, i Comuni dotati di un Piano strutturale possono avviare la ricognizione delle aree corredandola di specifiche schede sulle condizioni di degrado presenti, sugli obiettivi di riqualificazione che si intendono conseguire, sui parametri di riferimento per gli interventi e sugli incrementi che non potranno superare comunque il 35% della superficie utile lorda esistente.
In Veneto sconti sui contributi di costruzione. La panoramica delle nuove leggi regionali si conclude con il Veneto, che ha prorogato al 30.11.2013 il termine per la presentazione delle domande di ampliamento, demolizione e ricostruzione. La nuova legge regionale prevede uno sconto sul contributo di costruzione per gli interventi effettuati su edifici destinati a prima abitazione e consente anche i lavori nei centri storici, a patto che lo strumento urbanistico non ponga vincoli di tutela e preveda la possibilità di ristrutturazione edilizia e urbanistica, nonché di demolizione e ricostruzione.
È ammesso il cambio di destinazione d'uso degli edifici, a condizione che la nuova destinazione sia consentita dalla disciplina di zona. La norma concede un ulteriore premio volumetrico del 15% per gli interventi che prevedono la riqualificazione energetica dell'intero edificio. Il bonus del 40% è ammesso anche per le demolizioni e ricostruzioni parziali. Anche in questo caso, i Comuni sono chiamati a dare il loro contributo: entro il prossimo 30 novembre possono deliberare se e con quali modalità consentire gli interventi. Dopo di che si potrà intervenire in tutto il centro storico limitatamente alla prima casa.
Valle d'Aosta in extremis. L'ultimo giorno disponibile è arrivata anche la legge della Valle d'Aosta. Pur in assenza di scadenze temporali nella vecchia normativa, la regione ha deciso di intervenire per attenuare alcune rigidità emerse. In linea con quanto previsto dal dl sviluppo, ora sono consentiti interventi di demolizione e ricostruzione con aumento volumetrico fino al 45%.
I cambi d'uso di unità immobiliari o parti di ampliamento sono ammessi solo per destinazioni previste dal piano regolatore. Nel primo caso è richiesta la concessione edilizia. La nuova legge regionale precisa inoltre che l'ampliamento dell'edificio può essere realizzato anche con più di un intervento a condizione che non si superi il limite del 20%
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Ristrutturazioni, incentivi a rischio tagli.
Chi ha intenzione di effettuare lavori in casa farebbe bene ad attivarsi subito. Infatti, tra le novità introdotte con l'ultima manovra economica c'è la prospettiva di un taglio lineare agli incentivi se non saranno realizzati risparmi di spesa su altre voci (in sostanza se entro il 30.09.2013 non verranno adottati provvedimenti legislativi in materia fiscale e assistenziale riguardanti il riordino della spesa in materia sociale).
Tra gli interventi interessati dagli taglio figurano gli incentivi del 36% per le ristrutturazioni e del 55% per la riqualificazione energetica degli edifici (articolo ItaliaOggi Sette del 19.09.2011).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: La sostanza dell’atto prevale sul nomen iuris che la P.A. abbia inteso utilizzare.
Secondo l’insegnamento della giurisprudenza di questo Consiglio, l’atto amministrativo va qualificato per il suo effettivo contenuto e non già per la sola qualificazione che l’autorità, nell’emanarlo, eventualmente ed espressamente gli conferisca: la sostanza dell’atto prevale dunque sul nomen iuris che la P.A. abbia inteso utilizzare (Cons. Stato, Sez. IV, 12/12/2005, n. 7039; Cons. Stato, Sez. IV, 22/11/2004, 7619; Cons. Stato, Sez. V, 28/05/2009, n. 3284) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.09.2011 n. 5211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Negato l’accesso a documenti di natura privatistica in assenza del pubblico interesse.
Non può garantirsi l’accesso a contratti stipulati con aziende private che non pongono in essere attività di pubblico interesse.
Il principio è stato chiarito dal TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, nella sentenza 15.09.2011 n. 7296.
Nel caso di specie il collegio, da una parte, richiama l’art. 22 L. 241/1990, nel testo attualmente vigente, evidenziando il punto in cui ammette il diritto di prendere visione di documenti amministrativi detenuti da una pubblica amministrazione intendendo per tale anche il soggetto privato che per la sua investitura abbia a svolgere attività di pubblico interesse.
Dall’altro, circoscrive la portata del diritto illustrandone i limiti distintivi già individuati in altra sede dalla giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. VI 09.03.2007, n. 1119), laddove è stato riconosciuto l’accesso ai documenti dei soggetti privati “solo in caso di svolgimento di attività di interesse pubblico e limitatamente agli atti funzionalmente inerenti alla gestione di interessi collettivi, per i quali sussiste l’esigenza di garantire il rispetto del principio di buon andamento, cui la trasparenza è funzionale”.
Per tali ragioni è stato considerato legittimo il diniego di accesso a documentazione detenuta dall’Ente EUR s.p.a. in quanto i contratti di cui la società ricorrente intendeva ottenere la esibizione inerivano ad accordi stipulati per la realizzazione di alcune iniziative (intrattenimenti musicali estivi) al di fuori di ogni collegamento con interessi di natura pubblicistica.
Infatti -il Collegio afferma- anche se alla stessa EUR s.p.a. non può negarsi la attribuzione di poteri di natura pubblica allorquando agisce in tale veste, non avviene altrettanto allorché il medesimo Ente pone in essere attività riconducibile a quella negoziale, a carattere imprenditoriale (commento tratto da www.diritto.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio rigetto alla domanda di condono per un’opera abusiva non esaurisce il procedimento.
La giurisprudenza è univoca nel ritenere che in presenza di un’istanza di accertamento di conformità o di condono, l'Amministrazione non può adottare provvedimenti repressivi, pena la violazione del principio di economicità e coerenza dell'azione amministrativa, non potendosi previamente sanzionare ciò che potrebbe essere sanato (Consiglio Stato, sez. IV, 06.07.2009 , n. 4335).
Anche la Sezione con recente sentenza ha ribadito che l'ordine di demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta di accertamento di conformità o di condono, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima, è illegittimo in quanto l'amministrazione ha l'obbligo di pronunciarsi su di essa prima di procedere all'irrogazione delle sanzioni definitive (TAR Sardegna, sez. II, 16.03.2011 n. 289).
Il silenzio-rigetto di cui all’articolo 16 della legge regionale 11.10.1985, n. 23, che si forma dopo il sessantesimo giorno dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità, non equivale a definizione della domanda di sanatoria, ma costituisce soltanto il presupposto per consentire all’interessato di chiedere tutela, attraverso l’impugnazione del silenzio rigetto così formatosi, al fine di ottenere un provvedimento espresso che accolga o motivatamente respinga la richiesta di sanatoria.
Non è conforme ai principi dell’ordinamento che impongono la leale collaborazione fra cittadino ed amministrazione che un’Amministrazione pretenda di eludere il dovere di pronunciarsi su una domanda del cittadino di accertamento di conformità, a fronte dell’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, come impone l’articolo 2 della legge 07.08.1990 n. 241.
Il cittadino ha il diritto di conoscere se le opere realizzate siano, in tutto o in parte, sanabili o meno e quali siano le specifiche ragioni giuridiche ostative al rilascio del titolo richiesto, anche al fine di poter esperire i mezzi di tutela
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 14.09.2011 n. 926 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste una pregiudiziale incompatibilità tra la destinazione agricola di un'area e la sua utilizzazione a parcheggio: la giurisprudenza amministrativa, infatti, ha avuto occasione di chiarire che la destinazione a zona agricola di un'area, salva la previsione di particolari vincoli ambientali o paesistici, non impone un obbligo specifico di utilizzazione effettiva in tal senso, avendo solo lo scopo di evitare insediamenti residenziali; essa, pertanto, non costituisce ostacolo alla installazione di opere che non riguardino l'edilizia residenziale e che, per contro, si rivelino per ovvi motivi incompatibili con zone abitate e quindi necessariamente da realizzare in aperta campagna.
Non è precluso al proprietario di un terreno agricolo la “possibilità di sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, ed in particolare avendo riguardo ad utilizzazioni intermedie rispetto all'uso agricolo e quello edificatorio quali, ad esempio, il parcheggio, la caccia, lo sport e l'agriturismo.
Quanto alla non utilizzabilità dell’area a fini diversi da quelli agricoli, la Sezione si è già pronunciata con la sentenza n. 178 del 2010, nella quale ha evidenziato che “non sussiste una pregiudiziale incompatibilità tra la destinazione agricola di un'area e la sua utilizzazione a parcheggio: la giurisprudenza amministrativa, infatti, ha avuto occasione di chiarire che la destinazione a zona agricola di un'area, salva la previsione di particolari vincoli ambientali o paesistici, non impone un obbligo specifico di utilizzazione effettiva in tal senso, avendo solo lo scopo di evitare insediamenti residenziali; essa, pertanto, non costituisce ostacolo alla installazione di opere che non riguardino l'edilizia residenziale e che, per contro, si rivelino per ovvi motivi incompatibili con zone abitate e quindi necessariamente da realizzare in aperta campagna (cfr., CdS, Sez. V, 15.06.2001 n. 3178; TAR Veneto, Sez. II, 31.10.2000 n. 1952 e Sez. III, 18.03.2002 n. 1108)”.
Anche la Corte di Cassazione è pacifica nel ritenere che non è precluso al proprietario di un terreno agricolo la “possibilità di sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, ed in particolare avendo riguardo ad utilizzazioni intermedie rispetto all'uso agricolo e quello edificatorio quali, ad esempio, il parcheggio, la caccia, lo sport e l'agriturismo" (cfr. Cass. SS.UU 10.11.2010 n. 22802, cass. n. 12862 del 2010; cass. n. 10280 del 2004)
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 14.09.2011 n. 926 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI – Abbandono – Ordine di rimozione e ripristino – Art. 192 d.lgs. n. 152/2006- Proprietari – Colpevolezza – Accertamento.
L’articolo 192 del d.lgs. 152/2006 legittima l’autorità amministrativa a ordinare la rimozione dei rifiuti e il ripristino dello stato dei luoghi nei confronti di chiunque viola il divieto di abbandono dei rifiuti medesimi e ciò, in solido con il proprietario e con i titolari dei diritti reali o personali di godimento dell’area, ai quali tale violazione sia imputabile “a titolo di dolo o colpa”.
La fattispecie di cui all’art. 192 è stata quindi strutturata dal legislatore in termini soggettivi, radicando solo sulla presenza di colpevolezza del proprietario e dei titolari dei diritti reali o personali di godimento dell’area la loro concorrente responsabilità: in difetto di accertamento di una condotta colpevole di tali soggetti, non è dato ricavare alcuna responsabilizzazione per la rimozione e l’avvio a smaltimento dei rifiuti (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 19.03.2009, n. 1612 e 25.08.2008, n. 40619) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 14.09.2011 n. 302 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Tassatività delle clausole di esclusione.
Era prevedibile attendersi che la giurisprudenza venisse chiamata a definire i contorni del principio di tassatività delle clausole di esclusione, come noto recentemente introdotto con il decreto-legge 13.05.2011, n. 70 (c.d. decreto sviluppo).
Il TAR Veneto, con sentenza 13.09.2011 n. 1376 infatti stabilito l’illegittimità dell’esclusione di una ditta nel caso in cui abbia presentato una cauzione provvisoria di importo insufficiente rispetto a quello richiesto dalla lex specialis, ovvero una cauzione incompleta, e non già assente, visto che tale ipotesi di esclusione non è contemplata dall’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs n. 163/2006.
A ben guardare, il principio sancito dai Giudici amministrativi, allo stato in linea con il dettato normativo recentemente innovato, probabilmente dovrà essere oggetto di conferma o di rivisitazione una volta attuato il disposto dell’art. 64, comma 4-bis, del D.lgs. 163/2006, secondo cui “I bandi sono predisposti dalle stazioni appaltanti sulla base di modelli (bandi-tipo) approvati dall'Autorità, previo parere del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e sentite le categorie professionali interessate, con l'indicazione delle cause tassative di esclusione di cui all'articolo 46, comma 1-bis. Le stazioni appaltanti nella delibera a contrarre motivano espressamente in ordine alle deroghe al bando-tipo.”
In definitiva, nonostante il tenore perentorio dell’art. 75 del D.lgs. 163/2006, il quale impone che l'offerta sia corredata da una garanzia, pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente, i Giudici veneti hanno ritenuto che, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 46, comma 1, del codice dei contratti, la violazione della predetta norma non determini l’esclusione del concorrente, ma l’obbligo della stazione appaltante di richiedere allo stesso di integrare la cauzione.
Tuttavia è verosimile ritenere che i bandi tipo, di cui all’art. 64, comma 4-bis, del D.lgs. 163/2006, una volta emanati, affronteranno la questione, facendo definitiva chiarezza sul punto (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In caso di discordanza dei dati del modulo di offerta per l’aggiudicazione di un’opera per prezzi unitari prevale il ribasso percentuale indicato in lettere.
La giurisprudenza ha avuto modo di evidenziare che nel procedimento di aggiudicazione di un appalto di opere pubbliche con il sistema di offerta per prezzi unitari, ai sensi dell’articolo 90 del D.P.R. 21.12.1999, n. 554, in caso di discordanza fra i dati indicati nel modulo di offerta e relativi sia al prezzo che alla percentuale di ribasso, si deve dare prevalenza al ribasso percentuale indicato in lettere (C.d.S., sez. V, 17.09.2008, n. 4445), che costituisce il dato decisivo di riferimento per la determinazione dei prezzi unitari, consentendo sia l’identificazione dell’offerta (art. 90, comma 6), sia la correzione delle eventuali discordanze (art.90, comma 79 (C.d.S., sez. V, 10.11.2003, n. 7134; 30.10.2003, n. 6767).
E’ stato anche evidenziato che le disposizioni contenute nell’articolo 90 del D.P.R. 21.12.1999, n. 554 delineano un sistema volto a risolvere, nel rispetto dei fondamentali canoni di certezza e trasparenza delle operazioni di affidamento degli appalti di lavori pubblici, ogni incertezza derivante da un’offerta articolata, qual è quella per prezzi unitari per prevenire eventuali contestazioni circa l’effettiva volontà della parte privata, nell’ipotesi di discordanze tra le diverse componenti dell’offerta (C.d.S., sez. VI, 11.07.2003, n. 4145) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.09.2011 n. 5095 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIPassword di diritto a tutti i consiglieri.
I consiglieri hanno diritto di ottenere la password per accedere alla visione del programma di contabilità del Comune, e gli uffici hanno il dovere di fornirla ai richiedenti.
Così ha deciso il Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.09.2011 n. 5058, che ha riformato la precedente sentenza del Tar Puglia-Bari, I, n. 3859/2010, e ha stabilito un importante principio sulle modalità del diritto di accesso dei consiglieri.
Il caso riguardava una consigliera di minoranza, che aveva chiesto la copia della password di accesso al sistema informatico del Comune relativo al programma di contabilità. Il Comune non aveva risposto, e la consigliera aveva proposto ricorso al Tar contro il silenzio-rigetto. Il Tar l'aveva però respinto, ritenendo persuasiva la tesi del Comune che quel sistema informatico poteva essere utilizzato solo per necessità operative, e non aveva un profilo di lettura.
La battagliera consigliera ha allora proposto appello, che è stato accolto dal Consiglio di Stato, per le seguenti concatenate ragioni:
1. l'articolo 43, comma 2, del Testo unico degli Enti locali stabilisce che: «I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici (...) tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato»;
2. in conseguenza, i consiglieri possono accedere a tutti gli atti e documenti e a tutte le notizie e informazioni ivi contenute, anche di tipo contabile, per un miglior svolgimento del loro mandato elettorale;
3. il programma di contabilità, anche se è di carattere informatico, rientra nell'ampia nozione di «documento», e a questo programma può essere applicato il «profilo di sola lettura»;
4. in conseguenza, i consiglieri hanno diritto di ottenere la password del Comune per accedere alla visione di un programma di contabilità.
I giudici hanno analizzato la lettera e le finalità della norma, e hanno puntualmente applicato alla nuova fattispecie della password il diritto dei consiglieri di ottenere dagli uffici tutte le notizie e tutte le informazioni in possesso dell'ente (articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: Fino all’aggiudicazione l’amministrazione può disporre la revoca del bando di gara per concreti motivi di interesse pubblico che ne rendano inopportuna la prosecuzione.
Dopo aver indetto una gara per l’appalto della manutenzione ordinaria delle aree a verde pubblico e pubblicato il relativo bando sulla Gazzetta Ufficiale pervenivano ai competenti uffici del comune in causa i plichi dei soggetti interessati alla gara. Tuttavia, essendo necessario, secondo l’amministrazione comunale, ampliare il raggio di intervento il bando veniva revocato. Gli appellanti contestano pertanto la revoca dell’originaria gara per l’affidamento della manutenzione ordinaria delle aree a verde pubblico.
Giova al riguardo, secondo i giudici del Consiglio di Stato, rilevare che il primo comma dell’art. 21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241, al primo periodo, stabilisce che per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge, aggiungendo al secondo periodo che la revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti.
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire, continuano i giudici di Palazzo Spada, che, secondo la predetta norma, tre sono i presupposti che in via alternativa legittimano l'adozione di un provvedimento di revoca di un provvedimento amministrativo ad efficacia durevole da parte dell'Autorità emanante ovvero da altro organo previsto dalla legge, cioè sopravvenuti motivi di pubblico interesse, mutamento della situazione di fatto e nuova valutazione dell'interesse pubblico originario (C.d.S., sez. V, 18.01.2011, n. 283) e che deve essere considerato legittimo il provvedimento di revoca di una gara di appalto, disposta in una fase non ancora definita della procedura concorsuale, ancora prima del consolidarsi delle posizioni delle parti e quando il contratto non è stato ancora concluso, motivato anche con riferimento al risparmio economico che deriverebbe dalla revoca stessa, ciò in quanto la ricordata disposizione ammette un ripensamento da parte della amministrazione a seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario (C.d.S., sez. III, 13.04.2011, n. 2291).
Sempre in tema di procedure ad evidenza pubblica è stato evidenziato che fino a quando non sia intervenuta l’aggiudicazione, rientra nel potere discrezionale dell’amministrazione disporre la revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara, puntualizzando che le ragioni tecniche nell’organizzazione del servizio attinenti le modalità di presenziamento, il riassetto societario, la volontà di provvedere in autoproduzione e non mediante esternalizzazione, la necessità di consentire attraverso tale scelta organizzativa un maggior assorbimento di personale in un quadro di attività concertate in sede sindacale mirante alla valorizzazione del personale interno, sono tutti profili attinenti al merito dell’azione amministrativa e di conseguenza insindacabili da parte del giudice, in assenza di palesi e manifesti indici di irragionevolezza (C.d.S., sez. V, 09.04.2010, n. 1997) (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.09.2011 n. 5050 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Non è necessario che i requisiti e mezzi di partecipazione alla gara siano già disponibili nel corso della procedura.
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Le prescrizioni contenute nella "lex specialis" della gara sono dirette ad assicurare la trasparenza e l'imparzialità dell'Amministrazione, nonché la parità di condizioni tra i concorrenti, e devono rispondere al comune canone di ragionevolezza, in stretta relazione con i richiamati principi.
Le clausole previste a pena di esclusione vanno quindi interpretate seguendo il criterio della stretta interpretazione, per non ledere il contrapposto interesse alla più ampia partecipazione dei concorrenti alla procedura di gara.
Pertanto, di esse clausole va evitata un'applicazione meccanica che contraddica, alla luce delle specifiche circostanze del caso concreto, la fondamentale ed immanente esigenza di ragionevolezza dell'attività amministrativa, finendo così per porsi in contrasto con le stesse finalità di tutela cui sono preordinati i generali canoni applicativi delle regole della contrattualistica pubblica.
Solo l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione può dunque considerarsi alla stregua di un'irregolarità insanabile e, quindi, non ne è permessa l'integrazione o la regolarizzazione postuma; pertanto, alla stazione appaltante è precluso sopperire, con l'integrazione, alla totale mancanza di un documento, mentre, ai sensi dell'art. 46, d.lgs. n. 163/2006, deve ritenersi consentita l'integrazione documentale riguardante semplici chiarimenti di un documento incompleto.

Una interpretazione finalistica e teleologica delle disposizioni in tema di requisiti di partecipazione alla gara, di cui è espressione anche il principio di avvalimento, porta a ritenere che, in sede di gara, possa essere fornita la dimostrazione in ordine al possesso, certo ed incondizionato, al momento della stipula del contratto e della successiva esecuzione, dei requisiti e dei mezzi all'uopo necessari.
Non è quindi necessario che i mezzi siano già disponibili all'epoca della procedura, mentre è invece necessario che nel corso della procedura si dimostri che essi saranno disponibili al momento dell'assunzione e dell'esecuzione degli impegni negoziali.
Una diversa interpretazione che preveda l'anticipazione al momento della procedura del possesso dei mezzi, non è da considerare effettuabile perché imporrebbe la dispendiosa acquisizione di dotazioni funzionali alla sola esecuzione dell'appalto prima ancora che vi sia certezza in ordine all'aggiudicazione, mentre l'interesse dell'Amministrazione a non prendere in considerazione offerte prive del crisma della necessaria serietà deve ritenersi soddisfatto dalla piena dimostrazione che detti requisiti saranno certamente disponibili al tempo all'uopo rilevante, ossia al momento dell'effettiva contrazione del vincolo negoziale (Consiglio Stato, sez. VI, 23.12.2005, n. 7376).
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Le prescrizioni contenute nella "lex specialis" della gara sono dirette ad assicurare la trasparenza e l'imparzialità dell'Amministrazione, nonché la parità di condizioni tra i concorrenti, e devono rispondere al comune canone di ragionevolezza, in stretta relazione con i richiamati principi.
Le clausole previste a pena di esclusione vanno quindi interpretate seguendo il criterio della stretta interpretazione, per non ledere il contrapposto interesse alla più ampia partecipazione dei concorrenti alla procedura di gara.
Pertanto, di esse clausole va evitata un'applicazione meccanica che contraddica, alla luce delle specifiche circostanze del caso concreto, la fondamentale ed immanente esigenza di ragionevolezza dell'attività amministrativa, finendo così per porsi in contrasto con le stesse finalità di tutela cui sono preordinati i generali canoni applicativi delle regole della contrattualistica pubblica.
Solo l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione può dunque considerarsi alla stregua di un'irregolarità insanabile e, quindi, non ne è permessa l'integrazione o la regolarizzazione postuma; pertanto, alla stazione appaltante è precluso sopperire, con l'integrazione, alla totale mancanza di un documento, mentre, ai sensi dell'art. 46, d.lgs. n. 163/2006, deve ritenersi consentita l'integrazione documentale riguardante semplici chiarimenti di un documento incompleto
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.09.2011 n. 5040 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Partecipazione alle gare, dichiarazione dell'amministratore di fatto ok.
Devono essere inclusi nel novero dei soggetti tenuti a rendere la dichiarazione sul possesso dei requisiti generali per la partecipazione alle gare di appalto quelle persone in grado di impegnare la società verso i terzi ed i procuratori ad negotia laddove, a dispetto del nomen, l'estensione dei loro poteri conduca a qualificarli come amministratori di fatto. L’art. 38 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, prevede che la dichiarazione sul possesso dei requisiti generali per la partecipazione alle gare di appalto debba essere resa dagli amministratori muniti di potere di rappresentanza.

In tale dizione, a parere del Collegio, devono essere ricompresi tutti i soggetti che possiedono poteri gestionali di ampiezza tale che le conseguenze dei loro personali comportamenti possano trasmettersi in capo all’impresa partecipante alla gara.
La ratio della previsione di cui al suddetto art. 38 é quella di evitare che alle gare per l’affidamento di contratti pubblici partecipino imprese la cui gestione possa essere inquinata da comportamenti antigiuridici da parte di coloro che concorrono ad assumerne le decisioni, di talché la suddetta partecipazione metta a rischio sia il rispetto delle regole fondamentali dell’evidenza pubblica, sia la corretta esecuzione del contratto una volta affidato.
E se tale è la ratio della norma in questione, non vi è ragione di escludere dal suo ambito di applicazione quei soggetti che, pur essendo qualificati come meri procuratori dell’impresa partecipante, tuttavia possiedano poteri gestori ampi al punto di poter influire sulle decisioni aziendali.
Così opinando non viene consentita un’integrazione postuma della legge di gara come la ricorrente denuncia, ma si assume un’interpretazione della stessa secondo un canone di buona fede che vincola non solo l’amministrazione ma anche il privato, e si impone alle parti quale obbligo di lealtà. Il rispetto di tale obbligo impone di evitare le interpretazioni cavillose o meramente letterali, per privilegiare invece lo spirito delle disposizioni oggetto dell'interpretazione.
La giurisprudenza dominante afferma infatti che l’obbligo di rendere le dichiarazioni sostitutive deve essere ricollegato all'oggettiva sussistenza di poteri gestori generali e continuativi ricavabili dalla procura (C.d.S. VI, 12.10.2006 n. 6089), e che l'identificazione delle persone fisiche munite del potere di rappresentanza della società partecipante alla gara pubblica e, per questo, tenute a presentare la dichiarazione medesima va effettuata non solo in base alle qualifiche formali rivestite, ma anche alla stregua dei poteri sostanziali ad essi attribuiti.
Ne segue che devono essere inclusi nel novero dei soggetti tenuti a rendere la dichiarazione quelle persone in grado di impegnare la società verso i terzi ed i procuratori ad negotia laddove, a dispetto del nomen, l'estensione dei loro poteri conduca a qualificarli come amministratori di fatto (C.d.S. V, 20.10.2010 n. 7578).
Come correttamente dedotto nel provvedimento impugnato, nel caso di specie i procuratori della ricorrente erano muniti non solo di poteri rappresentativi, ma anche gestori, in quanto entrambi dotati della capacità di intrattenere ogni tipo di rapporto giuridico con la stazione appaltante e di sottoscrivere contratti senza che fosse necessaria né in via preventiva, né in via di ratifica, l’adesione del legale rappresentante dell’impresa medesima.
Trattasi di una situazione in cui tali soggetti sono procuratori solo nominalmente, ma in via di fatto appaiono essere i veri gestori della partecipazione dell’impresa ricorrente alle gare di appalto.
Tale situazione non poteva non essere nota all’impresa stessa che, conseguentemente, avrebbe dovuto rendere la dichiarazione anche con riferimento ai suddetti soggetti o quantomeno chiedere in proposito chiarimenti alla stazione appaltante.
Questo non è stato fatto e pertanto ritiene il Collegio che legittimamente il Comune intimato abbia disposto l’esclusione della ricorrente dalla gara.
Il Collegio non ignora che una pronuncia del Consiglio di Stato (C.d.S. V, 25.01.2011 n. 513) ha affermato principi diversi sostenendo che, poiché l’art. 38 del d.lgs. 163/2006 richiede la compresenza della qualifica di amministratore e del potere di rappresentanza, la sua applicazione non potrebbe essere estesa ai soggetti, quali il procuratore, che amministratori non sono.
La normativa civilistica infatti riserva la gestione dell’impresa esclusivamente a questi ultimi mentre il procuratore ha solo la sua rappresentanza di diritto comune.
L’assunto è suffragato dalla considerazione che detta disposizione limita la partecipazione delle imprese alle gare di appalto e con essa la libertà di iniziativa economica, sicché assumerebbe carattere eccezionale e non sarebbe suscettibile di applicazione analogica.
È discutibile che l’art. 38 del d.lgs. 163/2006 sia norma eccezionale.
La normativa sull’evidenza pubblica pone infatti una serie di regole tendenti a garantire che le gare per l’affidamento dei pubblici contratti avvengano secondo criteri di trasparenza e parità di trattamento evitando che vi partecipino imprese le quali, a causa del comportamento dei loro amministratori, possono condizionarne negativamente lo svolgimento.
Sotto questo profilo l’art. 38 del d.lgs. 163/2006 non sembra che tenda a restringere la libertà d’impresa quanto invece a tutelarla, impedendo che la stessa possa essere incisa dal comportamento di imprese che non danno garanzie di affidabilità.
Le sue disposizioni quindi non limitano, ma anzi tutelano maggiormente la libertà economica perché garantiscono che la concorrenza, nell’ambito delle procedure per l’affidamento dei contratti pubblici, avvenga secondo regole certe e nel rispetto del principio di parità di trattamento al fine della costruzione di un mercato libero, aperto, concorrenziale ed efficiente.
Non trattasi quindi di norma eccezionale e pertanto nulla osta alla sua applicazione analogica.
Peraltro nel caso di specie non vi è necessità di ricorrere al procedimento analogico poiché l’interpretazione secondo buona fede della legge di gara, a parere del Collegio, non poteva che condurre a ricomprendere nel novero dei soggetti tenuti ad autodichiarare l’assenza di condizioni ostative alla partecipazione alla procedura de qua anche coloro che, se pure non muniti formalmente della qualifica di amministratore, fossero tuttavia concretamente dotati di poteri gestionali e decisori in ordine alla politica aziendale rispetto (quantomeno) alle gare per l’affidamento di contratti pubblici.
L’assunto secondo il quale l’art. 38 del d.lgs. 163/2006 non ricomprenderebbe i procuratori muniti di potere gestorio ma non qualificati come “amministratori” non appare convincente poiché è ancorato all’analisi formale dei poteri connessi alle cariche rivestite dai soggetti che agiscono in nome e per conto dell’impresa.
Le esigenze sottese alle previsioni di cui alle norme ostative alla partecipazione alle gare di appalto, consistenti nell’evitare che le stesse vengano inquinate da imprese che non diano garanzie di correttezza, possono essere soddisfatte solo ove se ne assuma un’interpretazione sostanzialistica centrata sull’esame dei poteri concretamente dispiegabili, caso per caso, da tali soggetti.
Laddove un procuratore, in base alla procura conferitagli, possieda come nel caso di specie anche poteri gestori non può non essere tenuto a rendere la dichiarazione sostitutiva ex art. 38, d.lgs. 163/2006.
Trattasi, si ripete, di interpretazione secondo buona fede della lex specialis alla quale sono tenuti anche i soggetti privati.
Deve infine essere rilevato che la stazione appaltante non avrebbe legittimamente potuto ammettere la ricorrente alla regolarizzazione, poiché questa può essere attivata per chiedere chiarimenti o integrare dichiarazioni esistenti e giammai per supplire alla mancanza di una dichiarazione che l’impresa avrebbe dovuto produrre entro un termine perentorio (C.d.S. IV, 10.05.2007 n. 2254; TAR Piemonte I, 08.06.2010 n. 2722) (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 07.09.2011 n. 1381 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALILa tesoreria non deve pagare senza ok.
La banca perde per inadempimento il contratto di tesoreria con il Comune se paga un creditore senza rispettare i vincoli imposti dall'ente. Non solo. L'istituto di credito è anche tenuto a risarcire il danno commisurato all'entità dell'esborso.
Lo ha affermato la III Sez. civile della Cassazione con la sentenza 05.09.2011 n. 18105 (tratta da www.entilocali.ilsole24ore.com) che ha respinto il ricorso presentato da un istituto di credito nei confronti di un Comune del Lazio.
Quest'ultimo si era rivolto al tribunale esponendo che un imprenditore aveva intentato una procedura di espropriazione presso terzi nei confronti del Comune e del suo tesoriere che si era conclusa con un'ordinanza di assegnazione nei confronti del richiedente di una somma considerevole.
La somma doveva essere versata a condizione che fossero rispettati i vincoli di indisponibilità che l'ente locale avesse imposto sui fondi a garanzia del pagamento degli stipendi dei dipendenti e delle rate di mutuo. La banca, però, non aveva rispettato il vincolo e aveva versato l'intera somma che non era stato più possibile recuperare per il fallimento dell'imprenditore. Per questo motivo l'ente locale ha chiesto la risoluzione per inadempimento del contratto di tesoreria e il risarcimento dei danni subiti.
L'istituto di credito si è difeso sostenendo di non essersi potuto sottrarre all'esecuzione coattiva e che il pagamento era perfettamente legittimo in quanto la delibera di apposizione del vincolo non era più operativa.
Il tribunale ha respinto la domanda, ma la Corte di appello ha riformato la decisione affermando che la delibera non aveva perso alcuna validità nonostante fossero trascorsi più di tre mesi e che era evidente l'inadempimento colposo della banca che non aveva seguito, prima di effettuare il versamento, le istruzioni imposte dal Comune. Per questo motivo ha condannato l'istituto di credito a risarcire il danno quantificato in misura pari al pagamento effettuato maggiorato della rivalutazione e degli interessi.
La questione si è quindi spostata in Cassazione dove i giudici hanno confermato la pronuncia di secondo grado rilevando che il tesoriere, di fronte alla specifica istruzione del Comune di non dar corso al pagamento, aveva l'obbligo di valutare l'operatività del vincolo e prendere una decisione, assumendosi però il rischio, e quindi la responsabilità, di sottrarsi volontariamente a una specifica e motivata istruzione dell'ente per il quale svolgeva servizio di tesoreria (articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

INCARICHI PROGETTUALI - PUBBLICO IMPIEGO: La progettazione esterna non può essere affidata ad un dipendente pubblico a tempo pieno.
L’art. 53 d.lgs. n. 163 del 2006 prevede che “quando il contratto ha per oggetto anche la progettazione, ai sensi del comma 2, gli operatori economici devono possedere i requisiti prescritti per i progettisti, ovvero avvalersi di progettisti qualificati, da individuare nell’offerta, o partecipare in raggruppamento con soggetti qualificati per la progettazione. Il bando indica i requisiti richiesti per i progettisti […]”.
L’art. 90, comma 1, lett. d) e ss., d.lgs. n 163 del 2006 a sua volta prevede che i soggetti esterni ai quali può essere affidata l’attività di progettazione sono –in sintesi- i liberi professionisti iscritti nel relativo albo professionale, le società di professionisti o le società di ingegneria.
Attesa la tassatività di un siffatto elenco –da raccordare alla diretta responsabilizzazione del soggetto della cui prestazione ci si avvale- il soggetto “esterno”, destinatario dell’incarico di progettazione esterna, non può essere un pubblico dipendente a tempo pieno. Quest’ultimo invero non può esercitare la libera professione e, quindi, non può assumere la qualifica professionale che l’art. 90 richiede per i progettisti esterni.
In senso contrario non rileva l’autorizzazione che l’Ing. ... aveva ricevuto dall’Amministrazione di appartenenza, perché tale autorizzazione non poteva rimuovere la circostanza che la prescrizione normativa da qui applicare richiede in capo ai progettisti esterni un vero e proprio status di libero professionista (con tanto di iscrizione nel relativo albo) e questo era precluso, nel caso concreto, dall’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno.
L’ing. ..., pertanto, non poteva essere un “progettista qualificato” ai sensi dell’art. 53, né un soggetto del quale la società incaricata della progettazione si poteva avvalere, anche solo come ausiliario, per integrare parte dei requisiti di progettazione richiesti dal bando di gara.
Inoltre, assume carattere assorbente l’ulteriore e dirimente considerazione che la pregressa attività svolta dall’Ing. ... in qualità di dipendente pubblico non poteva comunque essere utilizzata per integrare i requisiti di progettazione richiesti dal bando di gara.
La pregressa attività di progettazione svolta per l’Amministrazione di appartenenza è, infatti, esclusivamente riferibile a quest’ultima.
Nemmeno, per escludere tale riferibilità esclusiva, può valere la circostanza che i progetti sono il frutto di un’attività umana fondamentalmente intellettiva analoga all’esercizio delle professioni liberali, in quanto l’attività è svolta dal dipendente ratione officii e non intuitu personae e si risolve pertanto in una modalità di svolgimento del rapporto di pubblico impiego.
E’ da escludersi quindi che lo svolgimento di tale attività consenta al dipendente di acquisire in proprio un requisito di qualificazione e, a maggior ragione, che tale requisito di qualificazione possa poi essere “prestato” o “ceduto” a imprese private al fine di consentire la partecipazione di queste ultime a gare di appalto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.09.2011 n. 5003 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOBrunetta rimandato alla Consulta. Deve difendere i tagli di stipendio al dipendente che si ammala. La Corte dovrà giudicare se è legittimo sanzionare i lavoratori pubblici e non i privati.
Le trattenute previste dal decreto Brunetta che vengono applicate ai docenti e agli Ata in caso di assenze per malattia potrebbero essere incostituzionali.
Secondo il giudice del lavoro di Livorno, ridurre la retribuzione al dipendente pubblico è contro il principio di uguaglianza, perché non è previsto per il lavoratori del settore privato.
E in più viola il diritto alla salute, il principio di retribuzione sufficiente e il diritto di assistenza del lavoratore inabile. Insomma, ce n'è abbastanza per interrogare la Corte costituzionale. Che se dovesse dare ragione al giudice di Livorno potrebbe cancellare con un colpo di spugna l'articolo 71 del decreto Brunetta: una delle disposizioni più odiate dai dipendenti pubblici, perché riduce la retribuzione, anche se solo per la parte accessoria, quando il lavoratore si assenta per malattia. Una disposizione che interessa tutto il pubblico impiego e la scuola in particolare, che è il settore statale più corposo con il suo milione di dipendenti.
L'ordinanza 05.08.2011 n. 1330/2010 r.g. è motivata facendo riferimento a 4 norme costituzionali: gli articoli 3, 36, 32 e 38 della Carta.
Il principio di uguaglianza.
Il giudice di merito ha posto l'accento, anzi tutto, sul fatto che la decurtazione della retribuzione, che consiste nella mancata attribuzione del compenso accessorio per i primi 10 giorni di ogni episodio di assenza (poche decine di euro), è prevista solo per il personale della pubblica amministrazione e non per i dipendenti del settore privato.
Il tutto nonostante entrambe le tipologie di personale siano caratterizzate da un identico vincolo di subordinazione. E ciò, secondo il giudice rimettente, viola il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.
La retribuzione sufficiente.
Il giudice ha fatto presente inoltre che, per effetto dell'art. 71, il lavoratore legittimamente ammalato si trova privato di voci retributive che normalmente gli spetterebbero in funzione del suo lavoro, subendo pertanto una riduzione del corrispettivo in busta paga.
«Riduzione che, dati gli stipendi che percepiscono ad oggi i lavoratori del comparto pubblico», si legge nell'ordinanza «diventa tale da non garantire al lavoratore una vita dignitosa. Di fatto la malattia diventa un lusso che il lavoratore non potrà più permettersi, e ciò appare in contrasto con l'art. 36 della Costituzione che prevede che sia garantita una retribuzione proporzionata ed in ogni caso sufficiente a garantire un'esistenza libera e dignitosa».
Il diritto alla salute.
L'art. 71, inoltre, sempre secondo il Tribunale di Livorno, incidendo pesantemente sulla retribuzione del lavoratore malato, crea di fatto un abbassamento della tutela della salute del lavoratore che, spinto dalle necessità economiche, viene di fatto indotto a lavorare aggravando il proprio stato di malattia. Il tutto in violazione dell'art. 32 della Costituzione, che qualifica il diritto alla salute come diritto fondamentale.
Il diritto all'assistenza.
Il giudice rimettente, infine, ha fatto riferimento anche all'art. 38 della Costituzione. Che risulterebbe violato per effetto del trattamento deteriore previsto dal decreto Brunetta, perché la Costituzione garantisce i mezzi di sostentamento al lavoratore inabile al lavoro. La violazione deriverebbe, appunto, dalla decurtazione stipendiale, che priverebbe il lavoratore parzialmente inabile di parte della retribuzione utile al proprio sostentamento.
Sulla base di queste considerazioni il giudice ha sospeso il giudizio ed ha trasmesso gli atti alla Consulta. La palla passa dunque alla Corte costituzionale che, se dovesse dare ragione al giudice rimettente, potrebbe cancellare la norma che dispone le decurtazioni e tutto ritornerebbe come prima della riforma (articolo ItaliaOggi del 20.09.2011).
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Comunicato Stampa Unicobas 13.09.2011.
Il Giudice rinvia alla Corte Costituzionale il Decreto Brunetta ritenendo incostituzionali le decurtazioni di stipendio in caso di malattia.
Il Giudice del Lavoro Jacqueline Magi, su ricorso promosso dall’Unicobas e curato dall’avv. Claudio Altini, ha inviato alla Corte Costituzionale ed alle due Camere del Parlamento il Decreto Brunetta (D.L. 112/2008 convertito nella legge 133/2008) ritenendo illegittimo l’art. 71 riguardante le decurtazioni stipendiali in caso di malattia per i lavoratori della scuola e tutti i pubblici dipendenti.
L’ordinanza di trasmissione depositata ad agosto e che oggi rendiamo nota dichiara “la non manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale dell’art. 71 …. in relazione agli artt. 3, 32, 36 e 38 della Costituzione”.
Infatti detto articolo prevede che: “Per i periodi di assenza per malattia, di qualunque durata, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni nei primi 10 giorni di assenza è corrisposto il trattamento economico fondamentale con esclusione di ogni indennità o emolumento, comunque denominati, aventi carattere fisso e continuativo, nonché di ogni altro trattamento accessorio”.
Il Giudice ha osservato:
con riferimento all’art. 3 della Costituzione:
Il D.L. 112 risulta in palese contrasto con l’art. 3 della Costituzione il quale tutela la persona e la sua dignità, e stabilisce il principio generale di eguaglianza dei cittadini di fronte all’ordinamento.
L’art. 71 del citato decreto, applicabile ai soli lavoratori del settore pubblico ... determina un’illegittima disparità di trattamento nel rapporto di lavoro dei lavoratori del settore pubblico rispetto a quelli del settore privato. “Infatti nel settore privato non è prevista tale decurtazione dello stipendio in caso di malattia
".
con riferimento all’art. 36 della Costituzione:
Il lavoratore legittimamente ammalato, si trova privato di voci retributive che normalmente gli spetterebbero in funzione del suo lavoro, subendo pertanto ima riduzione dello stipendio in busta paga. Riduzione che, dati gli stipendi che percepiscono ad oggi i lavoratori del comparto pubblico, diventa tale da non garantire al lavoratore una vita dignitosa. Di fatto la malattia diventa un “lusso” che il lavoratore non potrà più permettersi, e ciò appare in contrasto con l’art. 36 della Costituzione che prevede che sia garantita una retribuzione proporzionata ed in ogni caso sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa”.
con riferimento all’art. 32 della Costituzione:
Detto articolo garantisce la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. “La norma in questione, incidendo pesantemente sulla retribuzione del lavoratore malato, crea di fatto un abbassamento della tutela della salute del lavoratore che, spinto dalle necessità economiche, viene di fatto indotto a lavorare aggravando il proprio stato di malattia…”.
con riferimento all’art. 38 della Costituzione:
L’assenza di garanzia al lavoratore malato di adeguati mezzi di mantenimento ed assistenza costituisce inoltre violazione dell’art. 38.
Questa ordinanza è una prima vittoria di quei lavoratori che, su indicazione dell’Unicobas, appena uscì questa norma liberticida, oltre a manifestare e scioperare si rivolsero al Tribunale di Livorno per ottenere giustizia.
Siamo coscienti di aver vinto per ora una battaglia e non ancora la guerra ma siamo sulla buona strada e non ci fermeremo finché vedremo calpestati i diritti dei lavoratori e dei cittadini, sia per quanto riguarda la malattia sia per tutto il resto. La lotta sindacale se condotta con coerenza e su tutti i fronti alla fine paga.

EDILIZIA PRIVATA - PRIVACY: Non è reato riprendere il vicino che realizzi un muretto di confine.
Con la sentenza 24.06.2011 n. 25453 la Corte di Cassazione, Sez. V penale,  interviene in materia di ripresa fotografica e video ribadendone il carattere lecito entro determinati limiti e condizioni.
Nel caso affrontato, padre e figlia sono stati ritenuti dai giudici di merito responsabili del reato di interferenze illecite nella vita privata di cui all’articolo 615-bis, in quanto hanno captato immagini della vita privata altrui, esteriorizzatasi nella specie attraverso la realizzazione di un muretto di confine.
I giudici di Piazza Cavour, nella sentenza n. 25453/2011, ribadiscono che per la configurazione del reato di cui all’art. 615-bis del c.p. occorre che l’acquisizione delle notizie o immagini attinenti alla vita privata avvenga indebitamente, riservando a quest’ultimo avverbio natura di parola chiave della fattispecie astratta.
Infatti, in un astratto bilanciamento di interessi, il legislatore, secondo i giudici della Corte, ha inteso privilegiare la privacy a condizione però che l’attività di intrusione mediante riprese fotografiche o filmate sia di per sé indebita. Ciò non si è verificato nel caso affrontato, in cui il titolare del domicilio non poteva vantare nessuna pretesa al rispetto della riservatezza data la condizione di agevole osservabilità dall’esterno di quanto compiuto anche in privata dimora (art. 614 cp).
Inoltre, nel caso specifico rileva un altro aspetto decisivo. Infatti, il carattere abusivo dell’attività interferenza è escluso dal mancato carattere di liceità dell’attività svolta in ambito privato, potendo diversamente, l’intrusione nell’altrui privacy ritenersi comunque consentita, tanto più in presenza di un diritto, il cui esercizio si intenda garantire o la cui violazione si voglia accertare o prevenire. L’innalzamento del muretto da parte del vicino, in prossimità di un confine prediale necessita il rispetto delle prescrizioni di carattere civilistico.
Da questo punto di vista, è pur vero che il privato, che ritenga di subire un pregiudizio dall’attività del vicino potrebbe adire l’autorità competente, ma, secondo i Giudici della Cassazione è pur vero che l’intervento della forza pubblica potrebbe rivelarsi del tutto vano, qualora quell’attività sia legittima sul piano amministrativo, per il possesso di titolo di autorizzazione e nondimeno illecita sul versante civilistico, per l’inosservanza delle anzidette prescrizioni.
In questo caso, al privato resterebbe solo l'esperimento delle azioni civili previste a tutela della proprietà ed anche del possesso, ma pure in questa prospettiva avrebbe innegabile diritto a documentare, con ogni mezzo (non esclusa appunto la ripresa fotografica o filmata), l'epoca dell'altrui costruzione, essendo, peraltro, risaputo che, ai fini dell'ordinaria azione di nunciazione (denuncia di nuova opera) di cui all'art. 1170 c.c., è necessario il rispetto del termine di un anno dall'inizio della nuova opera.
Pertanto, la Corte ha ritenuto che il reato di cui all’articolo 615-bis non sussista nel caso specifico, con il conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste (link a www.altalex.com).

SICUREZZA LAVORO: Ruolo del coordinatore per l’esecuzione.
Prevenzione infortuni Sicurezza in cantiere - Lavoro in quota Caduta a terra del lavoratore - Omessa predisposizione e dotazione di misure di protezione individuale e collettiva - Omesso controllo del CSE Responsabilità - Valutazione.
È responsabile L’azione di controllo del Coordinatore per l’esecuzione costituisce il contenuto tipico e specifico degli obblighi sullo stesso gravanti, e la ragione della creazione di tale figura, che non vuole essere, e non è, una duplicazione di quella del datore di lavoro o del responsabile delle imprese appaltatrici e dei lavoratori autonomi, trova la sua propria ragione d’essere ed un proprio ruolo nella specifica situazione della compresenza di più soggetti che operano nel medesimo cantiere, rendendo necessario quel coordinamento che è connaturale al ruolo del CSE.
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COMMENTO
L’infortunio di un lavoratore è avvenuto all’interno di uno stabilimento industriale, nel corso di lavori di ampliamento dello stesso.
Il responsabile dei lavori, coordinatore per la progettazione e coordinatore per l’esecuzione dei lavori nominato dal committente e il titolare dell’impresa esecutrice dei lavori erano stati condannati per l’infortunio occorso al dipendente. L’operaio era salito sulla copertura del capannone, costituita in parte da pannelli in vetroresina traslucidi non calpestabili, senza alcun mezzo di protezione, né individuale né collettivo, e, poggiando il proprio peso su uno di questi pannelli in vetroresina, ne aveva provocato lo sfondamento precipitando al suolo da un’altezza di circa dieci metri, con conseguente immediato decesso.
Prima dell’inizio dei lavori di ampliamento del capannone era stata tenuta una riunione tecnica di coordinamento durante la quale era stato stabilito che l’impresa esecutrice avrebbe dovuto prestare assistenza alla ditta incaricata della fornitura e del montaggio delle strutture prefabbricate del nuovo capannone, con particolare riferimento alla rimozione della scossalina che ricopriva il tetto del vecchio capannone. Quindi, erano lavori che dovevano essere eseguiti ”in quota” e il POS dell’impresa esecutrice aveva previsto la predisposizione di dispositivi di protezione individuali e collettivi, contro il rischio di caduta dall’alto, risultati del tutto assenti nel caso concreto.
L’impresa di prefabbricazione aveva comunicato che il capannone commissionato presentava lucernai a raso, ottenuti mediante distanziamento dei tegoli, non pedonabili; pertanto, aveva consigliato di collocare una rete anticaduta sotto le lastre traslucide, al di sotto delle quali non era presente alcuna struttura, e questo «al fine di scongiurare spiacevoli eventi».
Il CSE era assolutamente consapevole della natura dei lavori che dovevano essere eseguiti "in quota” nel vecchio capannone e della peculiare pericolosità degli stessi e non aveva provveduto a verificare l’applicazione delle disposizioni del POS, con opportune azioni di controllo effettivo, tanto più necessarie nella fase iniziale di questi lavori (che risultavano essere stati avviati appena due giorni prima del verificarsi dell’evento mortale nel cantiere).
Circa il nesso causale, la presenza di presidi di sicurezza individuali (cinture di sicurezza con bretelle collegate a dispositivi di trattenuta) ovvero di mezzi di protezione collettiva (come, per esempio, la predisposizione di reti di
protezione in corrispondenza delle lastre traslucide), avrebbe evitato l’evento mortale; quindi, se il CSE fosse intervenuto sui luoghi verificando l’assenza dei dispositivi di trattenuta, l’evento non sarebbe accaduto.
È vero che il CSE non aveva un obbligo di presenza costante in cantiere; tuttavia, era mancata una condotta di effettivo (anche se non necessariamente costante) controllo del cantiere sull’esecuzione dei lavori.
Con il ricorso per Cassazione:
● il CSE aveva dedotto, tra l’altro, l’inesistenza di un dovere di controllo costante, con una presenza continua e giornaliera in cantiere, nonché l’abnormità della condotta del lavoratore, il quale aveva deciso di salire improvvidamente e negligentemente sulla copertura del capannone, ponendosi al di fuori del cestello elevatore all’interno del quale avrebbe potuto lavorare in condizioni di massima sicurezza (consentendo, questo stesso mezzo, lo spostamento sul fronte del capannone e la rimozione della scossalina, oggetto della lavorazione al momento del sinistro);
● l’impresa esecutrice aveva sostenuto che all’interno del cantiere le fosse stata affidata solo l’esecuzione di lavori prettamente edili che dovevano essere svolti esclusivamente a terra e non in quota (tant’è che la collocazione dei lucernari sul tetto del nuovo capannone era stata oggetto di un formale contratto di appalto alcuni mesi dopo l’infortunio).
La Cassazione ha rigettato entrambi i ricorsi, così motivando:
● quanto alla posizione del CSE, ritenendo che questi era assolutamente consapevole della natura dei lavori che la ditta avrebbe dovuto eseguire ”in quota” nel vecchio capannone e della peculiare pericolosità degli stessi, ma non aveva provveduto a verificare l’applicazione delle disposizioni del POS, con opportune azioni di controllo effettivo, tanto più necessarie nella fase iniziale di questi lavori.
In effetti, i dispositivi di protezione individuali e collettivi contro il rischio di caduta dall’alto, la cui predisposizione era stata prevista nel POS e che, se esistenti, avrebbero impedito l’evento, erano risultati del tutto assenti. Dunque, anche ammesso che potesse esservi stata una imprudenza del lavoratore, restava il fatto oggettivo che la mancanza di una adeguata protezione aveva reso possibile il verificarsi dell’incidente.
Tra l’altro era emerso che la vittima avrebbe dovuto necessariamente portarsi sul tetto del capannone, quindi, uscendo dal cestello elevatore, per eseguire parte del compito lavorativo affidatogli, il che impediva di configurare l’eventuale imprudenza del lavoratore imprevedibile e abnorme, tale da interrompere il rapporto di causalità con l’evento infortunistico;
● quanto alla posizione del titolare dell’impresa esecutrice, ritenendo le doglianze espresse, come relative ad apprezzamenti di merito sul fatto, pertanto, non deducibili in sede di legittimità. In ogni caso la Suprema Corte ha puntualizzato che il compito del datore di lavoro è molteplice e articolato e va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di determinati lavori e dalla conseguente necessità di adottare certe misure di sicurezza alla predisposizione di queste misure e, soprattutto, al controllo continuo, pressante, per imporre che i lavoratori rispettino quelle norme, si adeguino alla misure previste nelle stesse e sfuggano alla superficiale tentazione di trascurarle.
Il datore di lavoro deve avere la cultura e la forma mentis del garante del bene costituzionalmente rilevante costituito dalla integrità del lavoratore e, quindi, non deve limitarsi a informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare, sino alla pedanteria, che queste norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro
(tratto da Ambiente & Sicurezza n. 17/2011 - Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 18.01.2011 n. 1225 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAIl concetto di “molestia”, cui si riferiva già l’originaria destinazione dell’area di proprietà di parte ricorrente, sulla quale si è richiesta l’autorizzazione all’apertura di un forno discontinuo a camera stitica per l’incenerimento di animali di piccola taglia e successiva consegna delle ceneri ai proprietari, è molto più ampio di quello di “insalubrità”, comprendendo qualunque situazione di fastidio, disagio o disturbo alle persone, determinato da qualsiasi tipo di emissione o immissione. In altre parole, un’industria insalubre è sicuramente un’impresa molesta, rientrante, quindi, nell’originario divieto.
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Le scelte dell'Amministrazione nell'adozione dello strumento urbanistico sono connotate da alta discrezionalità e non necessitano di specifica motivazione, e, a fronte di aspettative di mero fatto, le scelte di natura, tanto ambientale quanto urbanistica rimesse all'Amministrazione nell'interesse generale, sono di regola sufficientemente motivate con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che hanno sorretto la previsione in variante, senza necessità di una motivazione puntuale e mirata.
Le scelte urbanistiche in variante richiedono puntuale motivazione esclusivamente quando incidono su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative dei privati proprietari, in conseguenza di statuizioni giurisdizionali passate in giudicato, nonché di accordi con l'ente locale e di convenzioni di lottizzazione.
Peraltro, il principio secondo il quale in sede di pianificazione generale non è necessaria una specifica motivazione delle scelte urbanistiche, che non sia quella dei criteri posti a base del piano e desumibile dall'insieme dello stesso, non trova applicazione nel solo caso delle varianti limitate o ad oggetto specifico non coerenti con quella della pianificazione generale, come ad esempio nel caso in cui una specifica industria insalubre di prima classe, ai sensi dell'art. 216 r.d. n. 1265 del 1934 e del d.m. 02.03.1987, fosse obbligata a trasferirsi altrove.
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L'art. 216 t.u.l.s., approvato con r.d. 27.07.1934, n. 1265, che indica le manifatture o fabbriche che producono vapori, gas o altre lavorazioni insalubri o che possono riuscire in qualche modo pericolose alla salute degli abitanti, va letto tenendo conto delle modifiche legislative intervenute in materia di pianificazione del territorio, in base alle quali non risulta più possibile applicare la disposizione che impone alle industrie insalubri di prima classe di essere isolate nelle campagne, dato che non è più consentita la realizzazione di edifici anche industriali, al di fuori delle zone destinate dai piani regolatori alla edificazione; conseguentemente, quindi, le suindicate industrie insalubri possono essere realizzate soltanto nelle parti del territorio classificate da P.R.G., in sede di zonizzazione, quali aree omogenee destinate ad impianti industriali o ad essi assimilabili, alla cui categoria generale sono appunto riconducibili.
Si deve rilevare, preliminarmente, che il concetto di “molestia”, cui si riferiva già l’originaria destinazione dell’area di proprietà di parte ricorrente, sulla quale si è richiesta l’autorizzazione all’apertura di un forno discontinuo a camera stitica per l’incenerimento di animali di piccola taglia e successiva consegna delle ceneri ai proprietari, è molto più ampio di quello di “insalubrità”, comprendendo qualunque situazione di fastidio, disagio o disturbo alle persone, determinato da qualsiasi tipo di emissione o immissione (cfr., ad esempio, le ipotesi di cui agli artt. 674 c.p., 844 e 1170 c.c., come osserva correttamente parte resistente).
Pertanto, sulla base di tale definizione di “impresa molesta”, l’area in esame era già oggetto di un divieto ai sensi dell’originaria formulazione della norma di piano impugnata, divieto comprendente indubitabilmente anche tutte le attività che possono essere definite insalubri, tra cui quelle di cui all’art. 216, t.u.l.s. n. 1265 del 1934, che impone di tenere le industrie insalubri di prima classe lontane dalle abitazioni.
In altre parole, un’industria insalubre è sicuramente un’impresa molesta, rientrante, quindi, nell’originario divieto.
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Come è noto, le scelte dell'Amministrazione nell'adozione dello strumento urbanistico sono connotate da alta discrezionalità e non necessitano di specifica motivazione, e, a fronte di aspettative di mero fatto, le scelte di natura, tanto ambientale quanto urbanistica rimesse all'Amministrazione nell'interesse generale, sono di regola sufficientemente motivate con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che hanno sorretto la previsione in variante, senza necessità di una motivazione puntuale e mirata.
Le scelte urbanistiche in variante richiedono puntuale motivazione esclusivamente quando incidono su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative dei privati proprietari, in conseguenza di statuizioni giurisdizionali passate in giudicato, nonché di accordi con l'ente locale e di convenzioni di lottizzazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 21.12.2009, n. 8514), il che non si verifica nel caso di specie, atteso che parte ricorrente, come emerge in parte narrativa, non svolgeva alcuna attività di impresa di tipo insalubre e, dunque, non poteva vantare alcuna legittima aspettativa al mantenimento di tale attività che, come detto, non sussisteva.
Peraltro, il principio secondo il quale in sede di pianificazione generale non è necessaria una specifica motivazione delle scelte urbanistiche, che non sia quella dei criteri posti a base del piano e desumibile dall'insieme dello stesso, non trova applicazione nel solo caso delle varianti limitate o ad oggetto specifico non coerenti con quella della pianificazione generale, come ad esempio nel caso in cui una specifica industria insalubre di prima classe, ai sensi dell'art. 216 r.d. n. 1265 del 1934 e del d.m. 02.03.1987, fosse obbligata a trasferirsi altrove (cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, 24.09.2002, n. 632).
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Nel caso di specie (variante al vigente PRG) si vietano solo nuovi insediamenti, conservando preesistenti e consentendone, come detto, gli ampliamenti.
Tale norma appare coerente con il recente principio giurisprudenziale secondo cui l'art. 216 t.u.l.s., approvato con r.d. 27.07.1934, n. 1265, che indica le manifatture o fabbriche che producono vapori, gas o altre lavorazioni insalubri o che possono riuscire in qualche modo pericolose alla salute degli abitanti, va letto tenendo conto delle modifiche legislative intervenute in materia di pianificazione del territorio, in base alle quali non risulta più possibile applicare la disposizione che impone alle industrie insalubri di prima classe di essere isolate nelle campagne, dato che non è più consentita la realizzazione di edifici anche industriali, al di fuori delle zone destinate dai piani regolatori alla edificazione (cfr. TAR Toscana, sez. II, 13.09.2005, n. 4417); conseguentemente, quindi, le suindicate industrie insalubri possono essere realizzate soltanto nelle parti del territorio classificate da P.R.G., in sede di zonizzazione, quali aree omogenee destinate ad impianti industriali o ad essi assimilabili, alla cui categoria generale sono appunto riconducibili
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 15.02.2010 n. 944 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per la definizione di impresa artigiana non può che farsi ricorso alla specifica normativa di settore, cioè, più precisamente, agli artt. 2, 3 e 4 della legge-quadro per l’artigianato 08.08.1985 n. 443 che, nel qualificare come imprenditore artigiano “colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità … e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo”, stabiliscono che l’impresa è artigiana quando sia esercitata da un imprenditore artigiano, sia contenuta in determinati limiti dimensionali ed abbia per scopo la produzione di beni o servizi (indipendentemente, dunque, dall’entità dei risultati della produzione), consentendo che sia esercitata anche presso l’abitazione dell’imprenditore. Parametri, questi, la cui sussistenza nel caso in esame è certa e, peraltro, nemmeno è oggetto di contestazione.
Il fatto che si tratti di artigianato e non di industria esclude di per sé la qualificazione dell’attività ai fini della conformità urbanistica come “industria” insalubre di seconda classe di cui al n. 16 della lett. c) dell’apposito elenco previsto dall’art. 216 del testo unico delle leggi sanitarie approvato con r.d. 27.07.1934 n. 1265. Pertanto, giustamente il TAR ha escluso l’operatività del divieto e, nel contempo, la necessità che il Comune svolgesse istruttoria sul punto.

La Sezione è dell’avviso che il divieto di localizzazione di industrie e la limitazione dell’assentibilità alle sole attività artigianali poste dall’art. 32 delle richiamate N.T.A. non possano che essere letti in coerenza con il significato tecnico-giuridico delle dizioni utilizzate, senza che sia consentito all’interprete di estendere a queste ultime la preclusione dettata in ordine le prime sulla base di eventuali elementi non contemplati all’uopo.
In particolare, per la definizione di impresa artigiana non può che farsi ricorso alla specifica normativa di settore, cioè, più precisamente, agli artt. 2, 3 e 4 della legge-quadro per l’artigianato 08.08.1985 n. 443 che, nel qualificare come imprenditore artigiano “colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità … e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo”, stabiliscono che l’impresa è artigiana quando sia esercitata da un imprenditore artigiano, sia contenuta in determinati limiti dimensionali ed abbia per scopo la produzione di beni o servizi (indipendentemente, dunque, dall’entità dei risultati della produzione), consentendo che sia esercitata anche presso l’abitazione dell’imprenditore. Parametri, questi, la cui sussistenza nel caso in esame è certa e, peraltro, nemmeno è oggetto di contestazione.
Infine, il fatto che si tratti di artigianato e non di industria esclude di per sé la qualificazione dell’attività ai fini della conformità urbanistica come “industria” insalubre di seconda classe di cui al n. 16 della lett. c) dell’apposito elenco previsto dall’art. 216 del testo unico delle leggi sanitarie approvato con r.d. 27.07.1934 n. 1265. Pertanto, giustamente il TAR ha escluso l’operatività del divieto e, nel contempo, la necessità che il Comune svolgesse istruttoria sul punto.
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Sotto altro ed alternativo aspetto, l’appellante ribadisce che, anche ove l’attività tipografica in parola possa configurarsi come artigianale, ugualmente la norma urbanistica ne porrebbe il divieto laddove richiede che i relativi impianti non producano rumori od odori pur semplicemente “molesti” che, invece, caratterizzerebbero la stessa attività.
Ma a tal proposito soccorre l’istruttoria compiuta dal Comune mediante l’acquisizione del parere favorevole, condizionato all’installazione dei pannelli fonoassorbenti e dei serramenti isolanti descritti nella relazione tecnica, dell’Azienda Usl territorialmente e funzionalmente competente, che esclude l’automatica qualificazione come “moleste” (ossia percepibili sensorialmente) delle immissioni, il resto rilevando eventualmente a fini privatistici per il caso del superamento di fatto della “normale tollerabilità, anche avuto riguardo alla condizione dei luoghi” di cui all’art. 844 cod. civ..
Del resto, opinare diversamente significherebbe precludere pressoché totalmente in zona residenziale la localizzazione di laboratori artigiani, quali officine, lavanderie, gelaterie, panifici, pasticcerie, ecc.. Infine, quanto alla nocività (che è cosa ben diversa dalla “molestia”) delle stesse immissioni, è questione che esula dalla conformità dell’impugnata concessione alla rispettiva normativa locale e nazionale e, dunque, dalla competenza comunale, sicché al riguardo nulla può addebitarsi all’Ente concedente (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.12.2009 n. 8877 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo l'art. 216 r.d. 27.07.1934 n. 1265 le industrie insalubri di prima classe devono essere di regola isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni. Il d.m. del Ministero della Sanità 05.09.1994 classifica gli allevamenti di animali tra le industrie insalubri di prima classe e, quindi, legittima l’applicazione alle stalle della prescrizione del t.u. sanitario sopra citata.
La preesistenza di una stalla è situazione ostativa all’edificazione di un edificio residenziale, poiché “l'art. 216 r.d. 27.07.1934 n. 1265, nel prescrivere che le industrie insalubri di prima classe devono essere isolate dalle campagne e tenute lontane dall'abitazione, non fissa specifiche distanze; pertanto, se il titolare dimostra che, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, l'esercizio dell'attività non reca nocumento alla salute del vicinato, le distanze eventualmente prescritte dal p.r.g. possono essere derogate".
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Il d.m. 05.09.1994, che definisce le industrie insalubri, si limita ad indicare come tale sia l’allevamento di animali che la stalla di sosta per il bestiame senza fissare un numero minimo di animali perché si possa integrare la definizione in parola.
Né si può sostenere che questa limitazione si ricava dal linguaggio comune, atteso che in esso non si è formata alcuna accezione nel senso che tre animali non costituiscano stalla.
Le asprezze della normativa in parola sono state, in effetti, temperate dalla giurisprudenza che, per evitare di incorrere in situazioni aberranti, ha ritenuto che “la tenuta di pochi capi "da cortile" e "da compagnia" in un'area recintata a fianco dell'abitazione del ricorrente non costituisce violazione del locale regolamento di igiene che vieta di tenere animali che arrechino pregiudizio alla salubrità e alla tranquillità delle abitazioni e disturbo al vicinato quando gli animali siano in ottima salute, in numero trascurabile in rapporto all'entità e al tipo di area in cui vengono tenuti e a una distanza congrua dagli edifici ad uso abitativo della borgata, per cui risulta illegittima per carenza dei presupposti normativi l'ordinanza assessorile che ne impone l'allontanamento” .

Il secondo motivo di ricorso, in cui si afferma che la esistenza della stalla non è di ostacolo alla costruzione di un edificio destinato a residenza perché il regolamento d’igiene vieterebbe l’edificazione di nuove stalle vicine ad abitazioni preesistenti ma non (viceversa) di nuove abitazioni vicine a stalle preesistenti, non è fondato.
Il punto di partenza è la prescrizione contenuta nell'art. 216 r.d. 27.07.1934 n. 1265 secondo cui le industrie insalubri di prima classe devono essere di regola isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni.
Il d.m. del Ministero della Sanità 05.09.1994 classifica gli allevamenti di animali tra le industrie insalubri di prima classe, e quindi legittima l’applicazione alle stalle della prescrizione del t.u. sanitario sopra citata.
La norma del regolamento d’igiene del Comune di Selvino è quindi applicazione di un principio generale espresso dalla fonte normativa primaria.
Nella lettura che ne dà la ricorrente essa non recherebbe divieto di installazione di nuove abitazioni in prossimità ad una stalla preesistente. Ma tale lettura, che nega significato alla preesistenza di un edificio, comporterebbe come conseguenza che, una volta insediata la residenza ed effettuata la valutazione di compatibilità tra l’insediamento residenziale autorizzato e la stalla preesistente, qualora l’esito di tale accertamento sia negativo, sia la stalla a doversi allontanare in quanto industria insalubre.
In realtà, la preesistenza di una stalla è situazione ostativa all’edificazione di un edificio residenziale, poiché “l'art. 216 r.d. 27.07.1934 n. 1265, nel prescrivere che le industrie insalubri di prima classe devono essere isolate dalle campagne e tenute lontane dall'abitazione, non fissa specifiche distanze; pertanto, se il titolare dimostra che, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, l'esercizio dell'attività non reca nocumento alla salute del vicinato, le distanze eventualmente prescritte dal p.r.g. possono essere derogate” (CdS, IV, 6648/2004).
Ne consegue che, al più, il ricorrente, una volta ricevuto nei 30 gg. dalla presentazione della d.i.a. l’inibizione a svolgere l’attività, lungi dal poter contestare tout court il provvedimento impugnato, avrebbe dovuto dimostrare l’inesistenza di una situazione di incompatibilità ed attivare un dialogo con l’amministrazione che (in astratto) avrebbe potuto anche portare alla edificazione dei quattro edifici residenziali in progetto.
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Nel terzo motivo di ricorso si deduce che, in realtà, non vi sarebbe alcuna stalla nelle vicinanze ma solo la tenuta di un allevamento di pochi animali (segnatamente, 3 mucche) non classificabile peraltro come stalla.
In realtà, nella normativa non vi sono appigli utili per sostenere tale tesi. Il d.m. 05.09.1994, che definisce le industrie insalubri, si limita ad indicare come tale sia l’allevamento di animali che la stalla di sosta per il bestiame (allegato A, lettera C, numeri 1 e 2) senza fissare un numero minimo di animali perché si possa integrare la definizione in parola.
Né si può sostenere che questa limitazione si ricava dal linguaggio comune, atteso che in esso non si è formata alcuna accezione nel senso che tre animali non costituiscano stalla.
Le asprezze della normativa in parola sono state, in effetti, temperate dalla giurisprudenza che, per evitare di incorrere in situazioni aberranti, ha ritenuto che “la tenuta di pochi capi "da cortile" e "da compagnia" in un'area recintata a fianco dell'abitazione del ricorrente non costituisce violazione del locale regolamento di igiene che vieta di tenere animali che arrechino pregiudizio alla salubrità e alla tranquillità delle abitazioni e disturbo al vicinato quando gli animali siano in ottima salute, in numero trascurabile in rapporto all'entità e al tipo di area in cui vengono tenuti e a una distanza congrua dagli edifici ad uso abitativo della borgata, per cui risulta illegittima per carenza dei presupposti normativi l'ordinanza assessorile che ne impone l'allontanamento” (Tar Parma 02.07.1996, n. 215).
Nel caso in esame, peraltro, non si versa però nella situazione che la giurisprudenza amministrativa ha individuato come limite all’applicazione della normativa del testo unico delle leggi sanitarie in quanto non si può sostenere che tre mucche costituiscano capi “da cortile” e “da compagnia”.
Senza obliterare la circostanza che il numero di mucche tenute può anche cambiare nel corso degli anni, ciò che è decisivo è che vi siano –come nel caso in esame non è contestato- locali appositamente apprestati per ospitarle in modo stabile (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 19.11.2009 n. 2217 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 19.09.2011

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UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Linee di indirizzo per la progettazione delle opere di difesa del suolo in Regione Lombardia (Regione Lombardia, settembre 2011).

SICUREZZA LAVOROAddetti alle pulizie: guida alla valutazione dei rischi, liste di controlli.
Gli addetti alle pulizie prestano servizio in svariati settori, al chiuso e all’aperto, in aree pubbliche, spesso di notte o al mattino presto, talvolta da soli. Proprio per questo sono spesso soggetti a svariati tipologie di rischi e pericoli per la sicurezza sui luoghi di lavoro.
Disturbi muscolo-scheletrici, cadute dall’alto, inalazione di polveri pericolose e scosse elettriche sono solo alcuni dei rischi a cui vanno incontro i lavoratori impegnati nelle attività di pulizia.
L’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, OSHA, ha pubblicato una guida, con lo scopo di informare sia i datori di lavoro che i lavoratori del settore delle pulizie sui pericoli insiti in questa attività e di come è possibile prevenire i rischi.
Il documento, oltre alla parte generale relativa alla valutazione dei rischi, contiene due casi studio e una check list dei controlli da eseguire (15.09.2011 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATANorme tecniche per le costruzioni e responsabilità del direttore dei lavori e del collaudatore. La guida agli adempimenti.
Le Norme Tecniche per le Costruzioni (D.M. 14.01.2008) introducono importanti novità che richiedono alla Direzione Lavori e al Collaudatore, e più in generale a tutte le figure impegnate nella realizzazione delle opere, una maggiore consapevolezza nel controllo dei materiali e delle tecnologie connesse all’utilizzo del cemento armato.
In particolare, il Capitolo 11 delle NTC riguarda le procedure di qualificazione e di accettazione in cantiere; i materiali devono essere:
● identificati univocamente dal produttore (ad es. attraverso il cartellino identificativo o ddt);
● qualificati a cura del produttore (attraverso le prove sperimentali);
● accettati dal Direttore dei Lavori (attraverso verifica documentale e prove di accettazione).
Il Direttore dei Lavori ha l'obbligo di accettare tutti i materiali di uso strutturale con le procedure prescritte dalle norma attraverso la verifica documentale, prima del loro impiego, e i controlli sperimentali di accettazione, al momento della posa in opera.
Il Collaudatore statico ha, invece, l’obbligo di verificare che tutti i materiali per uso strutturale impiegati nell’esecuzione di un'opera siano stati correttamente identificati e qualificati sotto la responsabilità del produttore e accettati correttamente dal Direttore dei Lavori.
Ricordiamo brevemente i controlli di accettazione obbligatori sul calcestruzzo e sugli acciai ... (15.09.2011 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROValutazione dei rischi: cosa vuol dire AUTOCERTIFICAZIONE?
Autocertificare la valutazione dei rischi non significa che il datore di lavoro non debba provvedere a valutare i rischi, ma che, una volta effettuata tale valutazione, il datore di lavoro deve elaborare un documento dal contenuto sia pure meno analitico rispetto al DVR.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, rigettando un ricorso presentato dal datore di lavoro di un’azienda che era stato condannato dai Giudici di prime cure per non aver effettuato la valutazione dei rischi (secondo le disposizioni dell’art. 4 del D.Lgs. n. 626/1994).
In particolare, la Cassazione ha ribadito che l’obbligo di valutazione dei rischi e di elaborazione del relativo documento è ora confermato dal D.Lgs. n. 81/2008 con gli artt. 17, 28 ed art. 29 comma 5, e che il Decreto prevede modalità semplificate di adempimento di tale obbligo per i datori di lavoro che occupino fino a dieci dipendenti.
Pertanto, anche autocertificando la valutazione dei rischi, è sempre opportuno redigere un documento, seppur semplificato! (15.09.2011 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 16.09.2011 n. 216 "Testo del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, coordinato con la legge di conversione 14.09.2011, n. 148, recante: «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo»".
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Per comodità di lettura delle modifiche introdotte dalla legge di conversione del decreto-legge, si legga anche il seguente testo comparato (prima e dopo la conversione in legge).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI SERVIZI: M. Lombardo, La governance delle società a controllo pubblico: riflessioni a margine della nuova disciplina normativa dei servizi pubblici locali (link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: F. Scura, La "nuova" disciplina dei servizi pubblici locali nella "manovra di Ferragosto" (link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODanno indiretto, prescrizione dalla data del pagamento.
Il dies a quo della prescrizione dell'azione di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti per il risarcimento del danno indiretto va individuato nella data di emissione del titolo di pagamento al terzo danneggiato.
È questo l'importante principio espresso dalle Sezz. unite della Corte dei Conti con la recente sentenza 05.09.2011 n. 14.
È danno indiretto quello cagionato (generalmente da un dipendente o amministratore pubblico) non direttamente all'ente ma ad un terzo nei cui confronti la p.a. è tenuta al risarcimento. L'ipotesi più frequente di danno indiretto si verifica, quindi, quando la p.a. procede al risarcimento del danno nei confronti di un terzo per effetto di una sentenza civile o amministrativa.
Il danno indiretto può tuttavia scaturire anche da altre fattispecie quali, per esempio accordi transattivi, lodi arbitrali o riconoscimenti di debito. In tutti questi casi spetta alla Corte dei conti stabilire quanta parte dell'esborso subito dalla p.a. debba essere addebitata al dipendente o all'amministratore pubblico sempre che sussistano i presupposti di imputazione (per esempio, colpa grave).
Considerato che, ai sensi dell'art. 1, comma 2, della legge 20/1994, nell'ambito della giurisdizione contabile, il diritto al risarcimento del danno si prescrive in 5 anni decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, esiste da tempo un contrasto giurisprudenziale in relazione alla individuazione dell'inizio del termine prescrizionale in ipotesi di danno indiretto: secondo una prima tesi (finora prevalente in quanto espressa in passato dalle stesse sezioni riunite) la prescrizione decorre dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, secondo altra tesi è invece rilevante la data di effettivo pagamento al terzo danneggiato.
Con la sentenza in argomento la Corte dei conti, considerato che la prescrizione inizia a decorrere, per effetto della regola generale prevista dall'art. 2935 del codice civile, dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere e cioè da quando il danno è divenuto certo, concreto ed attuale e che non è pertanto sufficiente l'insorgere del semplice obbligo giuridico di pagare, afferma che è rilevante la diminuzione patrimoniale dell'ente e quindi l'effettivo pagamento.
Le sezioni riunite hanno infatti precisato che occorre distinguere tra il perfezionamento dell'obbligazione risarcitoria (che si verifica con il passaggio in giudicato della sentenza) e la concretizzazione del danno (che si verifica con il soddisfacimento del terzo) in quanto prima del pagamento sussiste solo una situazione di danno potenziale (articolo ItaliaOggi del 16.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPaletti alle assunzioni aggirabili. Direttiva di giunta per superare i vincoli ai contratti a termine. La decisione delle sezioni unite sul tetto del 20% lascia spazi di discrezionalità.
Una direttiva della giunta comunale e provinciale degli enti locali soggetti al patto di stabilità, per superare i vincoli alle assunzioni a tempo determinato scaturenti dalla delibera 29.08.2011 n. 46/2011 delle sezioni riunite di controllo della Corte dei conti.
L'interpretazione fornita dalla magistratura contabile agli effetti dell'articolo 14, comma 9, della legge 122/2010, secondo la quale il limite della spesa per nuove assunzioni, pari al 20% delle cessazioni dell'anno precedente, si applica anche ai rapporti di lavoro a tempo determinato, oltre a non risultare convincente, si presta ad applicazioni discrezionali difficilmente sanzionabili.
Tanto che la regola di rigorosità posta dalle sezioni riunite potrebbe risultare tamquam non esset.
Somma urgenza e servizi infungibili ed essenziali. La ricostruzione proposta dalle sezioni riunite è, infatti, inficiata dal tentativo di ammorbidire gli effetti eccessivamente restrittivi sull'autonomia organizzativa, derivanti dal comprendere nel limite del 20% anche le assunzioni a tempo determinato. Effetti restrittivi che le stesse sezioni riunite ammettono verificarsi, ritenendo, però, che spetti al legislatore correggere.
Tuttavia, la delibera n. 46/2011, preoccupata dell'eccessività della tesi proposta, ritiene che non rientrano nel vincolo del 20% le assunzioni a tempo determinato che si rendessero necessarie per assicurare interventi di somma urgenza e per assicurare servizi infungibili ed essenziali.
La delibera, tuttavia, non affronta, perché non potrebbe, il problema di individuare quali siano tali servizi «infungibili» ed «essenziali», dei quali manca totalmente nell'ordinamento non solo un'elencazione, ma anche una definizione. Si tratta, infatti, di una fattispecie di «diritto creativo», ripresa dalla circolare 18.11.2011, n. 10/122/CR6/C1 della Conferenza delle regioni e delle province autonome: un atto, cioè, privo in modo totale ed assoluto di qualsiasi carattere di fonte normativa ed interpretativa ufficiale e vincolante.
Direttive locali. Naturalmente, con questa interpretazione si aprono spazi immensi alla discrezionalità degli enti. Ai quali, soprattutto per l'innesto di diritto nuovo, nulla pare vietare di esercitare una piena funzione di direttiva organizzativa, individuando preventivamente con un provvedimento di giunta i servizi da ritenere infungibili ed essenziali, nell'ambito dei quali è possibile assumere dipendenti a tempo determinato, senza il limite finanziario del 20% della spesa complessiva delle cessazioni di personale dell'anno precedente.
In quanto ai servizi essenziali, è possibile fare riferimento all'elencazione dei servizi qualificati appunto come essenziali per comuni e province dalla legge delega sul federalismo fiscale, la 42/2009. Basta che nelle direttive generali della giunta si faccia riferimento alle previsioni contenute nell'articolo 21 della citata legge 42/2009, per individuare una gamma amplissima in cui, secondo le sezioni riunite, è in re ipsa consentita la deroga alla regola del 20%. La somma urgenza, al contrario, va ovviamente di volta in volta dimostrata con i singoli provvedimenti.
Forzatura. Il potere che la delibera 46/2011 dà alla discrezionalità delle amministrazioni è di per sé la dimostrazione della forzatura della tesi ivi sostenuta.
È piuttosto evidente che l'articolo 14, comma 9, della legge 122/2010, contrariamente a quanto forza a leggere la delibera 46/2011, riferisce il limite della spesa per cessazioni al 20% ai soli rapporti a tempo indeterminato, per una serie fin troppo lunga di ragioni. In primo luogo, si l'articolo 9, comma 28, della legge 122/2010 ha escluso le amministrazioni locali dall'obbligo di ridurre le spese per personale a tempo determinato del 50% rispetto al 2009. Per via interpretativa non è ammesso appesantire addirittura tale onere a carico degli enti locali, minando la loro autonomia organizzativa riconosciuta dalla Costituzione.
In secondo luogo, l'articolo 1, comma 557, della legge 296/2006 qualifica come principio il «contenimento della spesa per il lavoro flessibile»: trattandosi di un principio, non è evidentemente possibile che al tempo stesso l'ordinamento imponga la misura percentuale del contenimento della spesa per il lavoro flessibile (articolo ItaliaOggi del 16.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI FORNITURE E SERVIZIEfficienza energetica con gara. I comuni devono garantire la concorrenza nei bandi.  L'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici fissa i paletti per la correttezza degli affidamenti.
I contratti di efficienza energetica con finanziamento privato hanno natura di partenariato pubblico-privato e oggetto misto di progettazione, realizzazione dei lavori, fornitura e gestione dell'impianto energetico; le amministrazioni devono però definire accuratamente il contenuto dei bandi e dei disciplinari di gara per garantire una maggiore concorrenza e per tutelare gli interesse pubblici.
È quanto afferma l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con la deliberazione 06.07.2011 n. 71 in cui approfondisce gli elementi essenziali che caratterizzano i contratti di global service aventi ad oggetto l'efficienza energetica, realizzati con finanziamento tramite terzi.
Al di là del caso concreto esaminato, la delibera inquadra questa tipologia di contratti partendo dall'esame dell'istituto del finanziamento tramite terzi che sta prendendo piede nel settore energetico dopo che la Commissione europea nel 2005 ha adottato il Libro verde sull'efficienza energetica.
In concreto il contratto di efficienza energetica si configura come una modalità di partenariato pubblico-privato che consente ad alcuni soggetti qualificati di favorire gli interventi di razionalizzazione energetica senza fondi pubblici, ma con capitale privato. Questi contratti di norma hanno ad oggetto una fornitura globale di servizi (studio, progettazione, gestione) e la realizzazione di lavori. Le prestazioni del privato consistono infatti nel progettare, finanziare, realizzare, gestire e mantenere in efficienza l'impianto, per poi consegnarlo all'utente in buono stato di conservazione allo scadere del contratto, dopo che sia stato ripagato l'investimento e realizzato il profitto con il risparmio ottenuto.
L'amministrazione, invece, si impegna a garantire un utilizzo costante dell'energia prodotta dall'impianto, nei modi, forme e tempi in base ai quali è stato elaborato lo studio di fattibilità tecnico-economico, nonché a corrispondere alla società di servizi un canone mensile basato su una quota del valore dell'energia risparmiata, canone cui la società ha diritto in virtù del contratto. In questo settore l'Autorità ha notato come vi sia una «carente definizione dei bandi di gara e una conseguente difficile lettura da parte dei concorrenti dell'effettivo modello contrattuale» che finisce spesso per determinare «una scarsa partecipazione da parte delle potenziali ditte interessate, che spesso crea la condizione per l'aggiudicazione dell'appalto alla ditta precedentemente affidataria».
In ogni caso l'Autorità evidenzia la necessità che le amministrazioni prestino particolare attenzione alla «definizione dei consumi energetici storici (diagnosi energetica) e alla adeguata progettazione (studio di fattibilità o progetto preliminare) di un piano di ammortamento e di ripartizione dei programmati risparmi, in modo che il contratto chiarisca bene gli specifici ruoli dei contraenti stabilendo e regolamentando le reciproche responsabilità, la ripartizione dei benefici, dei rischi e definendo anche le garanzie».
In particolare è poi opportuno, dice l'Authority, individuare e concordare, a monte dell'appalto, la base di calcolo del canone e prevedere le ipotesi di integrazione, rimozione o sostituzione degli impianti. Infine per quel che riguarda la fase di esecuzione del contratto l'Autorità raccomanda agli enti pubblici di accertare che il fornitore installi gli impianti nei tempi stabiliti, che gli impianti siano installati correttamente e che funzionino come da progetto, di verificare il valore monetario dei risparmi energetici ottenuti e i rispettivi sistemi di calcolo, ma anche di effettuare il monitoraggio sui risultati e predisporre eventuali azioni correttive per ripristinare o mantenere la performance e effettuare report di confronto tra risparmio ottenuto e risparmio previsto (articolo ItaliaOggi del 16.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Poltrone, sì a tagli fai-da-te. Giunte ridotte solo modificando lo statuto.  Il Tuel prevede un numero massimo di assessori, ma non un numero minimo.
È possibile nominare un numero di assessori provinciali inferiore al minimo fissato dallo statuto?
Ai sensi del comma 2 dell'art. 47 del Tuel, «gli statuti, nel rispetto di quanto previsto dal comma 1, possono fissare il numero degli assessori ovvero il numero massimo degli stessi»; il comma 1 prevede il numero massimo nella misura di un terzo e comunque non superiore a 12 unità.
Nel demandare all'autonomia statutaria la determinazione numerica degli assessori, il legislatore statale ha legittimato la possibilità di prevedere un numero fisso ovvero flessibile, senza fissare il numero minimo, ma stabilendo un limite massimo inderogabile.
Prevedendo «che lo statuto possa stabilire il numero effettivo degli assessori nominabili», lo stesso legislatore impone «una verifica in sede locale dell'individuazione del numero ottimale di componenti della giunta» (Consiglio di stato. V, 31/12/2003, n. 9315) che, presupponendo una ponderata valutazione politico-amministrativa delle esigenze dell'ente, consente la nomina del numero di assessori reputato ottimale .
Nell'ambito del delineato criterio di riferimento definito nel citato art. 47, si deduce che la norma dello statuto che stabilisce il numero dei componenti della giunta diviene vincolante per l'ente locale e può essere derogata solo attraverso una modifica della medesima disposizione.
A tal fine giova il riferimento alla sentenza n. 3357/2009, con la quale il Consiglio di stato, pronunziatosi sul quorum di maggioranza necessario per modificare il regolamento per il funzionamento del consiglio comunale, ha affermato il principio che «una volta adottato il regolamento contenente una specifica previsione in ordine alle maggioranze occorrenti per le proprie modifiche, l'adozione di queste non può che trovare disciplina in quelle norme di cui il consiglio stesso si è dotato, alle quali l'ente deve attenersi essendo ben noto come una pubblica amministrazione non possa disapplicare le regole da essa poste, se non previo ritiro ed ancorché illegittime».
Ove quindi si delinei la volontà politica di ridurre la compagine degli assessori occorrerà procedere, preliminarmente, ad una apposita modifica della disposizione statutaria inerente la quantificazione degli stessi, nel senso ritenuto (articolo ItaliaOggi del 16.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Numero assessori comunali.
Un comune può nominare due assessori in più rispetto al numero massimo previsto dalla vigente normativa, se la norma statutaria tuttora vigente prevede un limite massimo superiore?

La determinazione numerica degli assessori rientra nella materia «organi di governo» dei comuni rimessa, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. p) della Costituzione, alla potestà legislativa esclusiva dello stato. Quest'ultima, invero, per il profilo considerato riconosce a comuni e province, quale unico spazio di autonomia, la possibilità di individuare nello statuto una misura fissa ovvero flessibile di assessori, purché, in entrambi i casi, entro il limite massimo prescritto, che non può mai essere superato.
La disposizione statutaria, essendo incompatibile con le intervenute modifiche normative, non può trovare applicazione, anche in relazione a quanto disposto dall'art. 1, comma 3, del dlgs n. 267, per il quale «l'entrata in vigore di nuove leggi che enunciano espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per l'autonomia normativa dei comuni e delle province abroga le norme statutarie con essi incompatibili. I consigli comunali e provinciali adeguano gli statuti entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore delle leggi suddette».
Inoltre, come ha evidenziato la circolare del ministero dell'interno prot. n. 2915 del 18.02.2011, a decorrere dal 2011, in occasione del successivo rinnovo elettorale, il numero dei consiglieri sarà ridotto del 20% e di conseguenza, nel caso dei comuni con più di 30 mila abitanti, il numero massimo degli assessori dovrà essere calcolato su 25 unità (24 consiglieri più il sindaco).
Nel caso di specie, pertanto, non è possibile la nomina di ulteriori assessori (articolo ItaliaOggi del 16.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALILe leggi della p.a. codificate. Sì al ddl.
Al via l'iter per la realizzazione di un Codice delle leggi amministrative e di quelle che regolano l'azione e l'organizzazione delle pubbliche amministrazioni e del pubblico impiego.
Dopo il senato della repubblica, ieri, la camera dei deputati ha infatti approvato (con 259 voti a favore, 200 voti contrari e 40 astenuti) il disegno di legge delega per la codificazione delle leggi in materia di pubblica amministrazione.
Con questa delega il governo può iniziare il lavoro di ricognizione, organizzazione e coordinamento delle disposizioni in materia ed è tenuto ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge, tutti i decreti legislativi necessari a provvedere alla raccolta in appositi codici o testi unici delle disposizioni vigenti in materia.
Le disposizioni interessate dalla delega, come spiega il primo comma dell'articolo unico che compone il ddl, sono quelle vigenti nelle materie di cui alla legge 07.08.1990, n. 241, che ha valore di legge di princìpi generali per le amministrazioni pubbliche; al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al dpr 28.12.2000, n. 445; al decreto legislativo 30.03.2001, n. 165; e al decreto legislativo 27.10.2009, n. 150.
I decreti legislativi di attuazione che saranno necessari, si legge al comma 3, dovranno essere emanati «su proposta del ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, di concerto con il ministro per la semplificazione normativa, previa acquisizione del parere della Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, e successive modificazioni, e, successivamente, del parere della Commissione parlamentare per la semplificazione, di cui all'articolo 14, comma 19, della legge 28.11.2005, n. 246, e successive modificazioni. Si applicano le disposizioni di cui al citato articolo 14, commi 22 e 23, della legge n. 246 del 2005, e successive modificazioni».
Il ddl è frutto dello stralcio di una quarantina di articoli in materia di semplificazione di cui si componeva il testo originario (articolo ItaliaOggi del 16.09.2011).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: MANOVRA BIS/ Chi più spende meno guadagna. Al dirigente il 30% in meno della retribuzione di risultato. L'imperativo è ridurre i costi. Dal taglio degli organici si risparmierà il 10% della massa salariale.
Molteplici le misure che interessano la pubblica amministrazione e gli enti locali contenute nel dl n. 138/2011 che ieri sera è stato definitivamente convertito in legge dalla camera.
Rispetto al testo di Ferragosto, per le amministrazioni statali che non conseguono gli obiettivi di risparmio non si toccherà più la tredicesima dei dipendenti, bensì si opererà un taglio del 30% della retribuzione di risultato del dirigente responsabile del mancato risparmio.
I dipendenti delle p.a., tranne il personale non contrattualizzato, potranno essere destinati ad effettuare la prestazione di lavoro in altra sede sulla base di motivate esigenze produttive. Un trasferimento solo in ambito regionale, tranne che per il personale del Viminale. Si prevede una riduzione del 10% degli statali.
In pratica, si dovrà operare un taglio degli organici che permetta un risparmio di spesa della massa salariale del 10%, rispetto a quella attuale. Restano festive le solennità civili del 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno e quella relativa al Santo Patrono di Roma. Anche gli enti tra 1.000 e 5.000 abitanti saranno soggetti al patto di stabilità. Inoltre, le regioni del meridione, potranno escludere dal Patto i finanziamenti del Fondo Fas.
Dal 2012, i sindaci potranno diversificare l'addizionale Irpef secondo scaglioni di reddito.
Avranno però l'obbligo di ricalcare le stesse fasce di reddito stabilite per l'Irpef. Prevista anche una soglia di esenzione. La manovra prevede che negli enti con meno di 15.000 abitanti, giunte, consigli e commissioni si svolgano in un arco temporale che non coincida con lo svolgimento dell'attività lavorativa dei suoi componenti.
Si prevede, poi, che i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, che siano amministratori locali, da oggi possono assentarsi dal posto di lavoro solo il tempo necessario per partecipare ai lavori dell'assemblea e per il tempo che occorre a raggiungere l'aula consiliare. Gli enti con meno di mille abitanti si salvano dalla soppressione, ma hanno l'obbligo di associarsi per svolgere tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti. Previste riduzioni anche nel numero degli amministratori. Salta, infine, la soppressione delle province, rinviata a un ddl costituzionale che l'esecutivo ha varato la scorsa settimana.
Il governo, poi, dovrà varare la riorganizzazione della spesa pubblica che, tra gli obiettivi, presenta l'accorpamento degli enti di previdenza (di fatto una «Super Inps») e l'integrazione operativa delle agenzie fiscali (articolo ItaliaOggi del 15.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Legittimazione a svolgere attività edilizia – Art. 11 d.P.R. n. 380/2001 – Titolo per richiedere il permesso di costruire – Diritto di proprietà, diritti reali e personali di godimento.
L'espressione legislativa "titolo per richiederlo" contenuta nell’art. 11 del d.P.R. n. 380/2001, in punto di legittimazione a svolgere attività edilizia è stata intesa dalla giurisprudenza nel senso di posizione che civilisticamente costituisca titolo per esercitare sul fondo un'attività costruttiva (Cons. Stato, sez. V, 15.03.2001, n. 1507).
Tale posizione soggettiva non coincide con il solo diritto di proprietà, ma anche con altri diritti reali o addirittura personali di godimento, purché attribuiscano al titolare la facoltà di attuare interventi sull'immobile (Cons. Stato, sez. V, 28.05.2001, n. 2882). Di conseguenza, la mancanza del diritto di proprietà o di altro titolo idoneo preclude il rilascio del titolo edilizio.
Legittimazione a svolgere attività edilizia – Comune – verifica del titolo sostanziale – Ricerca di fattori limitativi, preclusivi o estintivi – Necessità – Esclusione.
Al Comune spetta soltanto la verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a costituire la c.d. "posizione legittimante" a svolgere attività edilizia, senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità dell'immobile, allegata da chi presenta l’istanza (Cons. Stato, sez. V, 04.02.2004, n. 368; TAR Sicilia-Catania, sez. I, 12.10.2010, n. 4084; TAR Lombardia-Milano, sez. II, 31.03.2010, n. 842), salvo che, la sussistenza di detti fattori ostativi non emerga, con pari grado di certezza, dagli atti del procedimento eventualmente introdotti da chi ne abbia interesse (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 15.09.2011 n. 2220 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIE' pacifico in giurisprudenza il principio secondo il quale il concorrente in una gara d'appalto è titolare di un vero e proprio interesse sostanziale a non subire i pregiudizi derivanti dalla segnalazione all'Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture ed dalla successiva annotazione nel casellario informatico della sua esclusione, sempre che abbia assolto l'onere di impugnare il provvedimento di esclusione da cui sia evincibile la ragione a supporto della relativa adozione.
Tale segnalazione non ha natura provvedimentale e non risultia pertanto, direttamente e immediatamente lesiva per l'impresa coinvolta; si tratta in sostanza di una comunicazione circa fatti verificatisi o accertati in relazione ad una gara (e/o in corso di essa), rispetto alla quale potranno derivare effetti pregiudizievoli per l'impresa interessata solo a seguito dell'annotazione nel Casellario informatico”, per cui “ne deriva che l'impugnazione della segnalazione all'Autorità di Vigilanza deve ritenersi inammissibile per carenza di interesse, non avendo tale comunicazione alcuna immediata lesività per i ricorrenti.
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La giurisprudenza tende ad escludere la necessità, per la stazione appaltante, di assumere atti ulteriori (quali la segnalazione all'Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture) rispetto alla fisiologica esclusione dell'impresa dalla gara, tutte le volte in cui emerga la “buona fede” dell’impresa stessa.
Tuttavia, secondo TAR Trentino Alto Adige Trento, 09.02.2011, n. 34 si deve trattare di casi caratterizzati dalla palmare (corsivo dell’estensore) buona fede dell'impresa, che abbia errato in ordine alla interpretazione del bando o della normativa generale ed abbia ritenuto di possedere il requisito in realtà carente o contestato.

Il Collegio osserva in rito che “è pacifico in giurisprudenza il principio secondo il quale il concorrente in una gara d'appalto è titolare di un vero e proprio interesse sostanziale a non subire i pregiudizi derivanti dalla segnalazione all'Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture ed dalla successiva annotazione nel casellario informatico della sua esclusione, sempre che abbia assolto l'onere di impugnare il provvedimento di esclusione da cui sia evincibile la ragione a supporto della relativa adozione” (così, da ultimo, TAR Sicilia, Catania, sez. III, 13.06.2011, n. 1460, che richiama sul punto, per tutte, TAR Lazio Roma, sez. III, 21.09.2009, n. 9039); nello stesso senso e sempre di recente si è pronunciato il TAR Campania-Napoli (sez. VIII, 09.02.2011, n. 762), il quale -richiamando a sua volta TAR Toscana, sez. I, n. 2331 del 2008- ha espressamente ritenuto che “tale segnalazione non abbia natura provvedimentale e non risulti, pertanto, direttamente e immediatamente lesiva per l'impresa coinvolta; si tratta in sostanza di una comunicazione circa fatti verificatisi o accertati in relazione ad una gara (e/o in corso di essa), rispetto alla quale potranno derivare effetti pregiudizievoli per l'impresa interessata solo a seguito dell'annotazione nel Casellario informatico”, per cui “ne deriva che l'impugnazione della segnalazione all'Autorità di Vigilanza deve ritenersi inammissibile per carenza di interesse, non avendo tale comunicazione alcuna immediata lesività per i ricorrenti”.
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Il Collegio rileva che la giurisprudenza (si veda ancora lo stesso precedente sopra richiamato per primo: Tar Catania, n. 1460/2011, e le altre pronunce ivi menzionate) tende ad escludere la necessità, per la stazione appaltante, di assumere atti ulteriori (quali la segnalazione all'Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture) rispetto alla fisiologica esclusione dell'impresa dalla gara, tutte le volte in cui emerga la “buona fede” dell’impresa stessa.
Tuttavia, secondo TAR Trentino Alto Adige Trento, 09.02.2011, n. 34 –richiamata nella predetta sentenza del Tar Catania– si deve trattare di casi caratterizzati dalla palmare (corsivo dell’estensore) buona fede dell'impresa, che abbia errato in ordine alla interpretazione del bando o della normativa generale ed abbia ritenuto di possedere il requisito in realtà carente o contestato (cfr., altresì, in termini: TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.03.2009, n. 2341; TAR Piemonte, sez. I, 23.05.2009, n. 1482)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 15.09.2011 n. 1314 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCon riferimento agli enti locali, va ritenuto che decorre dall'01.01.2010 l'applicabilità dell'art. 62 d.lgs. 27.10.2009 n. 150, nella parte in cui stabilisce che le progressioni tra aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma la possibilità per l'amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l'accesso dall'esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50% di quelli messi a concorso. Ne segue che l'art. 91 t.u.e.l. nella parte in cui prevede concorsi interamente riservati al personale dipendente, deve ritenersi abrogato per incompatibilità con il d.lg. 27.10.2009 n. 150.
Pertanto, la previsione del concorso pubblico quale sistema di reclutamento del personale degli enti pubblici per la copertura dei posti disponibili nella dotazione organica è da ritenersi principio generale immediatamente applicabile, fatta salva la possibilità della riserva di un numero di posti non superiore al 50% dei posti a concorso a favore del personale interno, purché in possesso dei titoli di studio richiesti per l'accesso dall'esterno.

L’art. 52, comma 1-bis, del D.L.vo 165/2001, come introdotto dall’art. 62 del D.L.vo 27.10.2009 n. 150 (c.d. riforma Brunetta) prevede che “I dipendenti pubblici, con esclusione dei dirigenti e del personale docente della scuola, delle accademie, conservatori e istituti assimilati, sono inquadrati in almeno tre distinte aree funzionali. Le progressioni all'interno della stessa area avvengono secondo principi di selettività, in funzione delle qualità culturali e professionali, dell'attività svolta e dei risultati conseguiti, attraverso l'attribuzione di fasce di merito. Le progressioni fra le aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l'amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l'accesso dall'esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso. La valutazione positiva conseguita dal dipendente per almeno tre anni costituisce titolo rilevante ai fini della progressione economica e dell'attribuzione dei posti riservati nei concorsi per l'accesso all'area superiore”.
Sul punto, il Collegio condivide l’orientamento espresso dalla Corte dei Conti secondo il quale “Con riferimento agli enti locali, va ritenuto che decorre dall'01.01.2010 l'applicabilità dell'art. 62 d.lgs. 27.10.2009 n. 150, nella parte in cui stabilisce che le progressioni tra aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma la possibilità per l'amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l'accesso dall'esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50% di quelli messi a concorso. Ne segue che l'art. 91 t.u.e.l. nella parte in cui prevede concorsi interamente riservati al personale dipendente, deve ritenersi abrogato per incompatibilità con il d.lg. 27.10.2009 n. 150" (Corte Conti, sez. riun., 29.04.2010, n. 10).
Pertanto, la previsione del concorso pubblico quale sistema di reclutamento del personale degli enti pubblici per la copertura dei posti disponibili nella dotazione organica è da ritenersi principio generale immediatamente applicabile, fatta salva la possibilità della riserva di un numero di posti non superiore al 50% dei posti a concorso a favore del personale interno, purché in possesso dei titoli di studio richiesti per l'accesso dall'esterno.
Nel caso di specie, quindi, la determinazione n. 207 del 18.05.2010 del Responsabile del Settore Amministrativo del Comune di Monte San Giovanni Campano è illegittima perché prevede una procedura selettiva interna per la copertura di n. 1 posto di Comandante – Categoria D posizione giuridica D3, anziché quella normativamente imposta del concorso pubblico.
Né può ritenersi rispettata la norma con la previsione (con delibera di G. C. n. 118 del 15.09.2009) di una ulteriore assunzione nella categoria giuridica D3, sia perché tale seconda assunzione riguarda un posto part time, quindi non equiparabile a un posto a tempo pieno, sia perché il posto di Comandante (nella fattispecie della Polizia Municipale) rappresenta una posizione apicale, che non può prefigurare posizioni equivalenti a cui applicare la riserva del 50% dei posti a concorso a favore del personale interno (TAR Lazio-Latina, sentenza 15.09.2011 n. 689 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Pratiche edilizie, è peculato l'appropriazione del geometra.
Commette il reato di peculato il geometra del comune che si appropria del denaro che i cittadini hanno versato per la definizione di pratiche edilizie.

È quanto ribadito dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza 14.09.2011 n. 34086, ha confermato la condanna nei confronti di un geometra del comune di Genova che si era appropriato dei soldi versato dai cittadini per un condono edilizio.
In particolare la Corte d'appello del capoluogo ligure lo aveva condannato anche per truffa. Per aver incassato e tenuto per sé anche i soldi estorti agli utenti, non dovuti effettivamente.
Contro la doppia conforme di merito il professionista ha presentato ricorso in Cassazione ma al Palazzaccio ha perso definitivamente la causa. Ad avviso della difesa il reato di peculato non avrebbe potuto configurarsi in quanto l'attività illecita si svolgeva al di fuori della disciplina sulla riscossione dei crediti dell'ente locale. Attività, questa, che potrebbe essere svolta soltanto dai cassieri.
La tesi non ha convinto la sezione penale feriale che, nel rendere definitiva la condanna nei confronti del geometra, ha chiarito che «l'eventuale agire in violazione delle norme interne dell'ente sulla esazione dei crediti non può avere la conseguenza di elidere i presupposti del peculato, che si verifica tanto se il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio abbia la disponibilità giuridica quanto semplicemente quella materiale del denaro altrui. Il possesso di tale denaro per ragioni di ufficio, presupposto dei delitto in questione, si verifica sia se avvenga secondo le regole che disciplinano i pagamenti all'ente sia se si realizzi con violazione delle disposizioni organizzative dell'ufficio al riguardo, potendo tale violazione costituire un illecito disciplinare che si aggiunge al peculato».
E ciò perché è irrilevante per la consumazione del reato contestato che l'appropriazione derivi da un corretto e legittimo esercizio delle funzioni esercitate da parte del geometra o dall'esercizio di fatto e arbitrario di tali funzioni, «dovendosi escludere il peculato solo quando il possesso sia meramente occasionale, cioè dipendente da evento fortuito o legato al caso». Di certo, non può sussistere l'occasionalità quando l'affidamento riposto dal privato nella qualifica pubblica del soggetto ha favorito l'insorgere del presupposto del reato (articolo ItaliaOggi del 15.09.2011).

APPALTI: Cessione d'azienda: le dichiarazioni ex 38, lettere b) e c), gravano anche sui titolari delle cariche dell’azienda ceduta.
Gli obblighi dichiarativi previsti dal menzionato art. 38, lettere b) e c), gravano anche sui soggetti, titolari delle relative cariche, facenti parte della compagine dell’azienda ceduta.
Viene sottolineata, invero, la portata sostanziale, e non meramente formale, della disposizione in esame, in quanto finalizzata a garantire che le stazioni appaltanti siano messe in grado di verificare la sussistenza di tutti i requisiti di moralità in capo ai partecipanti alle procedure di affidamento di appalti pubblici, così da prevenire il rischio di influenza da parte di cedenti eventualmente privi di detti requisiti (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 14.09.2011 n. 1643 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Esami di abilitazione alla professione forense: è sufficiente l'attribuzione del punteggio numerico.
Il voto numerico attribuito dalle competenti commissioni alle prove scritte ed orali di un concorso pubblico, esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionale della commissione stessa, contenendo in sé la sua stessa motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti
Il TAR ha ritenuto in particolare che la motivazione espressa numericamente assicuri la necessaria spiegazione delle valutazioni di merito compiute dalla commissione e consenta il sindacato sul potere amministrativo esercitato, specie quando la commissione abbia predisposto -come nel caso che ci occupa- i criteri in base ai quali procederà alla valutazione delle prove; e che la sottocommissione, la quale ha proceduto alla correzione delle prove scritte, ha indicato, sia pure sinteticamente, il giudizio in calce ai due elaborati valutati negativamente
Detto orientamento è stato avallato, da ultimo, dalla Corte Costituzionale, che, con sentenza n. 175/2011 (sopra citata), ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale -sollevate in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 41, 97 e 117 della Costituzione- degli articoli 17-bis, comma 2, 23, quinto comma, 24, primo comma, del R.D. n. 37/1934 (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 14.09.2011 n. 1642 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In sede di partecipazione a gara d'appalto, la cauzione incompleta, non già assente, non comporta automaticamente l'estromissione dalla gara ma semplicemente che il partecipante sia previamente invitato ad integrare la cauzione, emendando così l’errore compiuto.
L’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006, aggiunto dall’art. 4, II comma, n. 2, lett. “d” del DL n. 70/2011, ha introdotto il principio di tassatività delle cause di esclusione dei concorrenti dalle procedure concorsuali, tra le quali non rientra la prestazione di una cauzione provvisoria di importo deficitario.
Nel caso di specie -ove peraltro la cauzione era incompleta, non già assente- l’odierna ricorrente non poteva essere automaticamente estromessa dalla gara, ma doveva essere previamente invitata ad integrare la cauzione, emendando così l’errore compiuto.
Ciò stante, va accolto il ricorso (per motivi aggiunti) dd. 21.07.2011 e, conseguentemente, annullato l’impugnato provvedimento 19.07.2011 n. 344409 di esclusione della ricorrente dal “prosieguo della gara d’appalto” (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 13.09.2011 n. 1376 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOA fronte di una graduatoria valida ed efficace, l’Amministrazione non può trascurare, con l’indizione di una nuova procedura concorsuale, le posizioni di soggetti già in precedenza selezionati come idonei, quanto meno in carenza di valide ragioni giustificatrici ed in presenza di una graduatoria ancora efficace, non potendo ritenersi il reclutamento degli idonei (giudicati tali con regolare procedura concorsuale, in rapporto all’esercizio di determinate funzioni) contrastante con il principio di cui all’art. 97, terzo comma, della Costituzione e rispondendo tale reclutamento al principio di economicità dell’azione amministrativa.
La questione da valutare è stata recentemente oggetto di ordinanza di remissione all’Adunanza Plenaria (Cons. St., sez. VI, ord. coll. n. 1839/2011 del 25.03.2011), al fine di porre in discussione l’orientamento prevalente del Consiglio di Stato, secondo cui la determinazione amministrativa di avviare nuove procedure concorsuali –in presenza di una graduatoria di idonei ancora valida ed efficace– costituirebbe espressione di un potere ampiamente discrezionale, non richiedente specifica motivazione in corrispondenza della prioritaria regola del concorso per l’assegnazione di funzioni pubbliche, a norma dell’art. 97 della Costituzione (Cons. St., sez. V, 19.11.2009, n. 7243 e 18.12.2009, n. 8369; Cons. St., sez. IV, 27.07.2010, n. 4911).
Si è ritenuto infatti che non potesse ignorarsi il diverso indirizzo –recepito con maggiore ampiezza dal Giudice Amministrativo di primo grado, nonché dalla Corte di Cassazione– secondo cui, a fronte di una graduatoria valida ed efficace, l’Amministrazione non potrebbe trascurare, con l’indizione di una nuova procedura concorsuale, le posizioni di soggetti già in precedenza selezionati come idonei, quanto meno in carenza di valide ragioni giustificatrici ed in presenza di una graduatoria ancora efficace, non potendo ritenersi il reclutamento degli idonei (giudicati tali con regolare procedura concorsuale, in rapporto all’esercizio di determinate funzioni) contrastante con il principio di cui all’art. 97, terzo comma, della Costituzione e rispondendo tale reclutamento al principio di economicità dell’azione amministrativa (cfr. in tal senso Cass. SS.UU. 29.09.2003, n. 14529 e 09.02.2009, n. 3055; TAR Sardegna, 19.10.1999, n. 1228; TAR Lazio, 30.01.2003, n. 536 e 15.09.2009, n. 8743; TAR Puglia, Lecce, 10.10.2005, n. 4452; TAR Lombardia, 15.09.2008, n. 4073).
La seconda posizione sopra indicata risulta comunque preferibile nel caso di specie, in presenza di una specifica previsione del bando –relativo al concorso, nell’ambito del quale le attuali appellate sono state classificate idonee– che ad avviso del Collegio rendeva più stringente l’obbligo dell’Amministrazione di motivare in modo rigoroso la scelta di avviare una nuova procedura concorsuale, senza procedere a scorrimento della graduatoria.
Si deve ritenere pacifico, in effetti, che a detto scorrimento non corrisponda un diritto, ma un interesse legittimo (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. III, 13.12.2010, n. 5205; Cons. St., sez. IV, 18.06.2009, n. 3998), ma va anche detto che tale interesse deve essere rapportato alla specificità delle norme attributive del potere, o al regime corrispondente a forme di autolimitazione dell’Amministrazione.
Di conseguenza, ove lo scorrimento di cui trattasi corrisponda ad una mera facoltà dell’Amministrazione, nei termini generalmente disciplinati dall’art. 8 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3, come integrato con legge 08.07.1975, n. 305, deve ritenersi che tale facoltà sia esercitabile, in via eccezionale, in funzione esclusiva della potestà di auto-organizzazione dell’Amministrazione stessa, ispirata a principi di economicità in rapporto alle più lunghe e costose procedure concorsuali, con possibile impugnativa solo per manifesta irragionevolezza o contraddittorietà (cfr. in tal senso, per il principio, Cons. St., sez. V, 16.10.2002, n. 5611 e 10.01.2007, n. 53; Cons. St., sez. IV, 12.09.2006, n. 5320; Cons. St., sez. VI, 11.10.2005, n. 5637).
In altri casi il legislatore ha, viceversa, prescritto il medesimo scorrimento come un vero e proprio obbligo, tale da configurare la natura vincolata del provvedimento autoritativo da emanare al riguardo (cfr. art. 23 L. 29.01.1986, n. 23; art. 13, comma 6, D.L. 25.03.1997, n. 67, convertito in legge 23.05.1997, n. 71; art. 9, comma 17, L. 18.11.1998, n. 415).
Nelle fattispecie sopra indicate non è richiesta con ogni evidenza –benché per ragioni opposte– una motivazione particolarmente stringente, mentre ad opposte conclusioni si deve pervenire quando, come nella situazione in esame, lo scorrimento sia previsto dal bando di concorso, non come modalità gestionale di auto-organizzazione (per inconferenza della “sedes materiae”), ma come esplicita “chance” occupazionale per gli idonei, in caso di disponibilità di posti in organico nel biennio successivo all’approvazione della graduatoria.
Nell’ultima ipotesi indicata deve ammettersi, ad avviso del Collegio, che in presenza di nuovi posti in organico, che l’Amministrazione intenda ricoprire –ed in presenza di una graduatoria di idonei ancora efficace– detti idonei abbiano titolo prioritario per l’immissione in ruolo, a meno di esigenze straordinarie, puntualmente motivate (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.09.2011 n. 5112 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: Via gli ambulanti. Lontani dal centro e dalla metro. Lecito il divieto del comune per tutelare monumenti.
Commercio ambulante fuori dal centro storico, ma solo per tutelare i siti di interesse archeologico e i monumenti a cielo aperto. Vittoria parziale per il Comune di Roma, che ottiene la conferma del divieto di attività di vendita itinerante nel Municipio I, quello che racchiude le più importanti vestigia della latinità antica.
E altrettanto vale per l'off-limits imposto alle aree a meno di 200 metri da tutte le stazioni della metropolitana e delle ferrovie cittadine. La disposizione non vale invece in altri quartieri che, pure storici e non periferici, sono portatori di valori urbani non omogenei e dunque non richiedono la stessa assoluta tutela.
È quanto emerge dalla sentenza 12.09.2011 n. 5087 della IV sezione del Consiglio di Stato.
Città d'arte. La necessità di difendere le aree archeologiche non è sentita soltanto nella Città Eterna, ma anche nel Nordest: ha di recente superato lo scrutino di costituzionalità, infatti, una legge veneta che introduce il divieto per gli ambulanti nei centri storici dei Comuni della Regione con più di 50 mila abitanti. E la soluzione prescelta costituisce un ragionevole bilanciamento fra la libertà dell'esercizio del commercio e la necessità di tutelare le grandi città d'arte.
L'illegittimità della delibera romana, dunque, è esclusa dal Cds con riferimento al Municipio I perché il divieto risulta in linea con il disposto dell'articolo 28, comma 16, del dlgs 114/1998, che impone la puntuale individuazione del singolo sito da proteggere: nella Capitale l'unico territorio off-limits corrisponde a quello racchiuso entro le Mura Aureliane, che ospita anche le più rilevanti sedi istituzionali.
Né si può legittimamente sostenere che le norme restrittive siano cadute con la liberalizzazione del commercio introdotta dal dl 223/2006 (convertito dalla legge 248/2006). È poi escluso che la delibera dell'amministrazione romana presenti profili discriminatori: lo stop vale per tutti gli operatori e non solo gli aspiranti nuovi entranti.
Stazioni sicure. Legittimo, infine, il divieto di aprire le bancarelle a meno di 200 metri dalle stazioni di metrò e ferrovia rientra nei poteri discrezionali dell'amministrazione: l'articolo 28, comma 16, del dlgs 114/1998 consente al Comune restrizioni motivate dalla tutela di un preciso interesse pubblico come quello alla sicurezza (articolo ItaliaOggi del 15.09.2011).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa mobilità volontaria prevista dal D.Lgs. 03.02.1993, n. 29, art. 33, come modificato dalla L. 28.11.2005, n. 246, art. 16, integra una modificazione soggettiva del rapporto di lavoro, con il consenso di tutte le parti, e quindi una cessione del contratto”.
Il Comune di Taranto con apposito avviso pubblico ha indetto una procedura di mobilità volontaria ai sensi dell’articolo 30 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, per la copertura a tempo pieno ed indeterminato di n. 4 posti di dirigente della propria dotazione organica, cui erano ammessi a partecipare (art. 1) i dirigenti di ruolo con rapporto di lavoro a tempo indeterminato presso le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, individuando i requisiti e precisando (art. 3) che i candidati ammessi sarebbero stati invitati ad un colloquio “finalizzato alla valutazione della professionalità e delle attitudini professionali” e che la valutazione del curriculum e del colloquio sarebbe stata affidata ad una apposita commissione (che disponeva di 100 punti, di cui 50 punti utilizzabili per la valutazione del curriculum e 50 punti attribuibili alla valutazione del colloquio)
L’art. 30, comma 1, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, stabilisce che “le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante cessione di contratto di lavoro dei dipendenti appartenenti alla stessa qualifica in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento”, aggiungendo che “le amministrazioni devono in ogni caso rendere pubbliche le disponibilità dei posti in organico da ricoprire attraverso passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, fissando preventivamente i criteri di scelta”;
La procedura indetta dal Comune di Taranto non comporta la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro con i soggetti selezionati, ma soltanto la cessione del contratto di lavoro già in essere con la originaria amministrazione di appartenenza, non potendosi condividere la tesi dell’appellante secondo cui la valutazione del curriculum e del colloquio integri una vera e propria procedura paraconcorsuale, trattandosi di strumenti atti semplicemente a verificare la concreta rispondenza dei candidati alle specifiche esigenze dell’amministrazione attraverso l’apprezzamento delle loro attitudini e professionalità.
Sussiste pertanto nel caso di specie, come rilevato dai primi giudici, la giurisdizione del giudice ordinario, come di recente ulteriormente confermato dalla Corte di Cassazione (SS.UU. 09.09.2010, n. 19251), secondo cui “la mobilità volontaria prevista dal D.Lgs. 03.02.1993, n. 29, art. 33, come modificato dalla L. 28.11.2005, n. 246, art. 16, integra una modificazione soggettiva del rapporto di lavoro, con il consenso di tutte le parti, e quindi una cessione del contratto”; infatti “in materia di riparto di giurisdizione nelle controversie relative al pubblico impiego contrattualizzato solo le procedure selettive di tipo concorsuale per l'attribuzione a dipendenti di p.a. della qualifica superiore, che comportino il passaggio da un'area ad un'altra, hanno una connotazione peculiare e diversa, assimilabile alle "procedure concorsuali per l'assunzione", e valgono a radicare -ed ampliare- la fattispecie eccettuata rimessa alla giurisdizione del giudice amministrativo di cui al comma 4, dell'art. 63 citato D.Lgs.; fuori da questa ipotesi non opera detta fattispecie eccettuata del comma 4, dell'art. 63 e conseguentemente si riespande la regola del primo comma della medesima disposizione, che predica in generale la giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie aventi ad oggetto il lavoro pubblico privatizzato”, con la conseguenza che “le procedure di mobilità volontaria interna, che comportino una mera modificazione soggettiva del rapporto di lavoro e non già la costituzione di un nuovo rapporto mediante una procedura selettiva concorsuale…” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.09.2011 n. 5085 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Trattamento economico nel pubblico impiego.
In materia di prescrizione dei crediti pecuniari dei dipendenti della Pubblica Amministrazione, solo nel caso in cui l'atto interruttivo derivi da una iniziativa del lavoratore creditore esso può considerarsi esteso anche al credito relativo agli accessori, mentre l’eventuale riconoscimento del debito da parte della pubblica amministrazione debitrice non è, in genere, idoneo ad interrompere la prescrizione dei crediti vantati dal dipendente a titolo di accessori (interessi legali e rivalutazione monetaria).
In tema di spettanze retributive al pubblico dipendente il termine di prescrizione decennale può trovare applicazione solo quando spetti all’amministrazione di riconoscere e determinare la sussistenza del diritto vantato, previo accertamento delle condizioni necessarie per la sua liquidazione, e non già allorché il credito (cui accede la richiesta di interessi legali e rivalutazione monetaria) derivi direttamente da disposizioni di legge o di contratti collettivi di lavoro.
Sempre in materia di prescrizione dei crediti pecuniari dei dipendenti della Pubblica Amministrazione, solo nel caso in cui l'atto interruttivo derivi da una iniziativa del lavoratore creditore esso può considerarsi esteso anche al credito relativo agli accessori, mentre l’eventuale riconoscimento del debito da parte della pubblica amministrazione debitrice non è, in genere, idoneo ad interrompere la prescrizione dei crediti vantati dal dipendente a titolo di accessori (interessi legali e rivalutazione monetaria); inoltre il pagamento della sola sorte capitale operato da una pubblica amministrazione creditrice ha solo un effetto estintivo del debito per il capitale, senza alcun significato univoco di riconoscimento del debito relativo agli accessori, salvo che all'atto del pagamento l'amministrazione espressamente indichi che si tratta di un pagamento parziale, in acconto o salvo conguaglio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.09.2011 n. 5077 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Il tratto distintivo della concessione dall’appalto di servizi.
È la modalità della remunerazione il tratto distintivo della concessione dall’appalto di servizi: si avrà concessione quando l’operatore si assuma in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull’utenza per mezzo della riscossione di un qualsiasi tipo di canone o tariffa, mentre si avrà appalto quando l’onere del servizio stesso venga a gravare sostanzialmente sull’amministrazione.
Le concessioni, nel quadro del diritto comunitario, si distinguono dagli appalti non per il titolo provvedimentale dell’attività, né per il fatto che ci si trovi di fronte ad una vicenda di trasferimento di pubblici poteri o di ampliamento della sfera giuridica del privato (che sarebbe un fenomeno tipico della concessione in una prospettiva coltivata da tradizionali orientamenti dottrinali), né per la loro natura autoritativa, o provvedimentale, rispetto alla natura contrattuale dell’appalto, ma per il fenomeno di traslazione dell’alea inerente una certa attività in capo al soggetto privato.
Quando l’operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, percependone il corrispettivo dall’utente mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone o tariffa, allora si ha concessione: è la modalità della remunerazione, quindi, il tratto distintivo della concessione dall’appalto di servizi.
Così, si avrà concessione quando l’operatore si assuma in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull’utenza per mezzo della riscossione di un qualsiasi tipo di canone o tariffa, mentre si avrà appalto quando l’onere del servizio stesso venga a gravare sostanzialmente sull’amministrazione.
Tale assunto, è stato più volte confermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia CE, la quale ha ribadito che si è in presenza di una concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest’ultimo assuma il rischio legato alla gestione dei servizi in questione (Corte Giustizia CE, Sez. III, 15.10.2009, C-196/08), mentre in caso di assenza di trasferimento al prestatore del rischio legato alla prestazione, l’operazione rappresenta un appalto di servizi (Corte Giustizia CE, Sez. III, 10.09.2009, C-206/08) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.09.2011 n. 5068 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sul criterio distintivo tra concessione di servizi e appalto di servizi.
Il servizio di trasporto scolastico deve essere inquadrato nella categoria degli appalti.

Le concessioni, nel quadro del diritto comunitario, si distinguono dagli appalti non per il titolo provvedimentale dell'attività, né per il fatto che ci si trovi di fronte ad una vicenda di trasferimento di pubblici poteri o di ampliamento della sfera giuridica del privato, né per la loro natura autoritativa o provvedimentale rispetto alla natura contrattuale dell'appalto, ma per il fenomeno di traslazione dell'alea inerente una certa attività in capo al soggetto privato. La giurisprudenza della Corte di Giustizia CE ha ribadito che si è in presenza di una concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest'ultimo assuma il rischio legato alla gestione dei servizi in questione, mentre in caso di assenza di trasferimento al prestatore del rischio legato alla prestazione, l'operazione rappresenta un appalto di servizi.
Il servizio di trasporto scolastico deve essere inquadrato nella categoria degli appalti e non già in quella dei servizi di trasporto pubblico locale. Pertanto, nel caso di specie, legittimamente l'amministrazione comunale ha esperito una procedura di gara invece di procedere all'affidamento diretto del servizio, atteso che i presupposti normativi non le consentivano tale scelta (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.09.2011 n. 5068 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla legittimità dell'incameramento della cauzione provvisoria prestata da un concorrente conseguente all'inadempimento dell'obbligo assunto con la sottoscrizione del patto d'integrità.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il patto d'integrità configura un sistema di condizioni (o requisiti) la cui accettazione è presupposto necessario e condizionante la partecipazione delle imprese alla specifica gara di cui trattasi. Con la sottoscrizione del patto d'integrità, al momento della presentazione della domanda, l'impresa concorrente accetta regole del bando che rafforzano comportamenti già doverosi per coloro che sono ammessi a partecipare alla gara e che prevedono, in caso di violazione di tali doveri, sanzioni di carattere patrimoniale, oltre alla conseguenza, ordinaria a tutte le procedure concorsuali, della estromissione della gara.
L'incameramento della cauzione non ha, quindi, carattere di sanzione amministrativa, come tale riservata alla legge, ma costituisce la conseguenza dell'accettazione di regole e doveri comportamentali, accompagnati dalla previsione di una responsabilità patrimoniale, aggiuntiva alla esclusione dalla gara, assunti su base pattizia, rinvenendosi la loro fonte nel Patto d'integrità accettato dal concorrente con la sottoscrizione. Pertanto, nel caso di specie è legittimo l'incameramento della polizza fideiussoria prestata dal concorrente, sul rilievo della sussistenza di un collegamento sostanziale tra quest'ultimo ed altra impresa partecipante alla gara, e quindi della violazione del patto di integrità debitamente accettato e sottoscritto. Infatti, il collegamento sostanziale rientra nel novero degli accordi finalizzati a limitare la concorrenza, che l'impresa aveva dichiarato insussistenti all'atto di partecipare alla gara (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.09.2011 n. 5066 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La trasmissione dei documenti via telefax.
I documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione tramite fax, o con altro mezzo telematico o informatico idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale.
Con riferimento alla possibilità dell’uso del fax quale strumento di comunicazione di un atto idoneo a determinarne la legale conoscenza da parte del destinatario si osserva che la tesi favorevole al suo impiego deriva non solo dalla universale accettazione del fax quale mezzo di comunicazione, ma anche dalle caratteristiche tecniche di detto strumento, non ultima delle quali la possibilità di munirsi di prova del buon fine della trasmissione tale dovendo considerarsi, invero, il c.d. “report” indicativo dello status del documento inviato.
Tutti questi elementi hanno portato, nell’art. 43, comma 6, del D.P.R. n. 445 del 28.12.2000, alla disposizione normativa che permette l’utilizzazione del fax per la trasmissione di documenti ad una pubblica amministrazione (invero, si è previsto che: “i documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione tramite fax, o con altro mezzo telematico o informatico idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale”) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 09.09.2011 n. 1569 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Solo l'omessa allegazione di un documento previsto a pena di esclusione è da ritenersi alla stregua di un'irregolarità insanabile e, quindi, non ne è consentita l'integrazione ovvero la regolarizzazione postuma.
Le prescrizioni contenute nella "lex specialis" di gara sono dirette ad assicurare la trasparenza e l'imparzialità dell'Amministrazione, nonché la parità di condizioni tra i concorrenti, e devono rispondere al comune canone di ragionevolezza, in stretta relazione con i richiamati principi.
Le clausole previste a pena di esclusione vanno quindi interpretate seguendo il criterio della stretta interpretazione, onde non ledere l'interesse alla più ampia partecipazione dei concorrenti alla procedura di gara. Pertanto, di esse va evitata un'applicazione meccanica che contraddica la primaria esigenza di ragionevolezza dell'attività amministrativa, finendo per porsi in contrasto con le stesse finalità di tutela cui sono preordinati i canoni applicativi delle regole concernenti la contrattualistica pubblica.
Solo l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione è da ritenersi alla stregua di un'irregolarità insanabile e, quindi, non ne è consentita l'integrazione ovvero la regolarizzazione postuma. Pertanto, alla stazione appaltante è precluso sopperire, con l'integrazione, alla totale mancanza di un documento, mentre, ai sensi dell'art. 46, d.lgs. n. 163/2006, la stessa deve ritenersi consentita, se riguardante semplici chiarimenti relativi ad un atto incompleto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.09.2011 n. 5040 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTILa segnalazione all’Autorità è una mera comunicazione circa fatti verificatisi o accertati in relazione ad una gara, rispetto alla quale potranno derivare effetti pregiudizievoli per l'impresa interessata solo a seguito di annotazione nel Casellario informatico.
La segnalazione nel casellario informatico non produce alcun effetto, che non sia l’avvio del procedimento presso l’Autorità di Vigilanza. L’unico atto conclusivo con valenza provvedimentale è rappresentato dalla eventuale annotazione disposta dall’Autorità di Vigilanza.
La segnalazione all’Autorità è una mera comunicazione circa fatti verificatisi o accertati in relazione ad una gara, rispetto alla quale potranno derivare effetti pregiudizievoli per l'impresa interessata solo a seguito di annotazione nel Casellario informatico (cfr. di recente Tar Campania, sez. VIII, 09.02.2011, n. 762)
(TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 07.09.2011 n. 7143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl requisito della moralità professionale richiesto per la partecipazione alle gare pubbliche di appalto risulta mancante nell'ipotesi di commissione di un reato specifico connesso al tipo di attività che il soggetto deve svolgere.
La nozione di gravità del reato deve essere valutata non in relazione alla considerazione penalistica del reato, ma all’interesse dell’Amministrazione al corretto adempimento delle obbligazioni oggetto del contratto. Ne deriva che la gravità del reato, ai sensi dell’art. 38, non è esclusa dalla lieve pena edittale prevista nella fattispecie penale o dalla natura contravvenzionale del reato. La gravità del reato anche deve essere valutata in relazione alla incidenza del reato sulla moralità professionale; il contenuto del contratto oggetto della gara assume allora importanza fondamentale al fine di apprezzare il grado di "moralità professionale" del singolo concorrente. Di conseguenza, è irrilevante rispetto a tale valutazione della stazione appaltante la gravità del reato sanzionato in sede penale in relazione alla pena edittale o al fatto che si tratti di contravvenzioni.
L'art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006, nel testo applicabile al momento dello svolgimento della gara, prevedeva alla lettera c) la esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi dei soggetti: “nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale”.
La giurisprudenza ha interpretato la incidenza sulla moralità professionale, nel senso della rilevanza dell'interesse dell'Amministrazione a non contrarre obbligazioni con soggetti che non garantiscano adeguata moralità professionale in relazione al tipo di contratto oggetto della gara.
Il requisito della moralità professionale richiesto per la partecipazione alle gare pubbliche di appalto è stato considerato mancante nell'ipotesi di commissione di un reato specifico connesso al tipo di attività che il soggetto deve svolgere (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 12.04.2007, n. 1723, proprio rispetto alla condanna per violazione della normativa antinfortunistica in una gara di appalto di lavori).
Anche la nozione di gravità del reato deve essere valutata non in relazione alla considerazione penalistica del reato, ma all’interesse dell’Amministrazione al corretto adempimento delle obbligazioni oggetto del contratto.
Ne deriva che la gravità del reato, ai sensi dell’art. 38, non è esclusa dalla lieve pena edittale prevista nella fattispecie penale o dalla natura contravvenzionale del reato.
La gravità del reato anche deve essere valutata in relazione alla incidenza del reato sulla moralità professionale; il contenuto del contratto oggetto della gara assume allora importanza fondamentale al fine di apprezzare il grado di "moralità professionale" del singolo concorrente. Di conseguenza, è irrilevante rispetto a tale valutazione della stazione appaltante la gravità del reato sanzionato in sede penale in relazione alla pena edittale o al fatto che si tratti di contravvenzioni (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 04.06.2010, n. 3560 rispetto alla condanna per violazione delle norme sulla disciplina igienica della produzione e della vendita di sostanze alimentari rispetto alla gara per un servizio di ristorazione).
Nel caso di specie, si deve, quindi, ritenere legittima la valutazione della stazione appaltante che ha escluso la impresa ricorrente da una gara di appalto di lavori di manutenzione stradale, in relazione ad un decreto penale per un reato relativo alla violazione di norme sulla sicurezza dei lavoratori.
La norma dell’art. 38 fa salva l'applicazione dell'art. 178 del codice penale.
La giurisprudenza, anche di questa sezione, ha, dunque, considerato rilevante, sotto tale profilo, la pronuncia di riabilitazione, per escludere che una pronuncia di condanna continui ad incidere sulla moralità professionale di una impresa (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 25.01.2011, n. 513; TAR Lazio Roma, sez. III, 22.05.2009, n. 5194).
Come è noto, l’orientamento giurisprudenziale ritiene, altresì, che la riabilitazione (o l'estinzione del reato per cui è stata applicata la pena su richiesta, per decorso del termine di legge) debba essere giudizialmente dichiarata, poiché il giudice dell'esecuzione è l'unico soggetto, al quale l'ordinamento conferisce la competenza a verificare che siano venuti in essere tutti i presupposti e sussistano tutte le condizioni per la relativa declaratoria (Consiglio Stato, sez. V, 20.10.2010, n. 7581)
(TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 07.09.2011 n. 7143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAlla Pa richiesta del danno in tempi brevi. Rinviato alla Corte costituzionale il termine per domandare il risarcimento relativo a un atto illegittimo.
A un anno di distanza dal nuovo Codice del processo amministrativo, si riapre la partita sulle azioni di risarcimento del danno causato da un atto amministrativo illegittimo. Infatti il TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, ordinanza 07.09.2011 n. 1628, ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di costituzionalità del termine di 120 giorni per proporre davanti al giudice amministrativo l'azione risarcitoria dopo che l'atto è stato annullato con sentenza passata in giudicato (articolo 30, comma 5).
La controversia riguarda il caso di un sindaco di un'azienda ospedaliera designato dal ministero della Salute e poi illegittimamente revocato. Ottenuto l'annullamento con sentenza definitiva, l'interessato richiede i danni per i compensi non percepiti. Se non che questa azione è proposta ben oltre 120 giorni. Da qui la questione di costituzionalità di un termine di decadenza molto più breve rispetto a quello di prescrizione di cinque anni previsto per le azioni risarcitorie ordinarie.
Per inquadrare la questione bisogna partire dallo scontro tra il giudice amministrativo e il giudice ordinario in tema di azioni risarcitorie. Quest'ultimo riteneva questa particolare azione collegata a provvedimenti illegittimi come una normale azione di risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi. Da qui due conseguenze: la possibilità di proporre in via autonoma l'azione risarcitoria, senza cioè necessità di proporre in parallelo l'azione di annullamento; il termine di prescrizione quinquennale.
Il giudice amministrativo, invece, considerava l'azione risarcitoria come un mero complemento dell'azione di annullamento che resta il rimedio principale. Da qui due conseguenze: pregiudizialità tra azione di annullamento e azione di risarcimento, nel senso che la seconda non è ammessa se non è stata proposta la prima; termine di decadenza di 60 giorni stabilito per l'azione di annullamento.
Il Codice ha optato per una soluzione compromissoria. Da un lato ha ammesso l'azione risarcitoria autonoma; dall'altro la comprime entro il termine di 120 giorni (articolo 30, comma 3).
Il Tar Palermo dubita della costituzionalità del termine di decadenza: ha una ragion d'essere per l'azione di annullamento perché c'è l'esigenza di certezza e stabilità dei rapporti di diritto pubblico regolati da un atto amministrativo. L'azione di risarcimento, invece, non incide su di essi, ma riguarda, secondo il Tar, solo uno «spostamento di ricchezza conseguente all'illecito». Inoltre, come ha chiarito la Corte Costituzionale (sentenze 204/2004 e 191/2006), l'azione risarcitoria nei confronti degli atti illegittimi è ormai costituzionalmente necessaria. Ma la sua attribuzione al giudice amministrativo per esigenze di concentrazione dei giudizi non può essere assoggettata a «condizioni di accesso alla tutela assolutamente (e senza ragione) restrittive».
Il Tar distingue tra il termine di 120 giorni per proporre l'azione dopo il giudicato di annullamento (comma 5), ritenuto incostituzionale, e quello, sempre di 120 giorni, per l'azione risarcitoria autonoma (comma 3). Quest'ultimo potrebbe giustificarsi per il fatto che questa azione, al pari di quella di annullamento, mira ad accertare, sia pur in via incidentale, l'illegittimità dell'atto causa del danno. Nel caso del comma 5, invece, l'illegittimità è già accertata dalla sentenza di annullamento e restano profili solo patrimoniali.
Non è detto che questa distinzione sia accolta dalla Corte Costituzionale che ben potrebbe sollevare d'ufficio la questione di costituzionalità del comma 5 e riaprire per intero la partita (articolo Il Sole 24 Ore del 18.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIE' perentorio il termine sul controllo dei requisiti ex art. 48, co. 2, D.Lgs. 163/2006.
La giurisprudenza è pressoché uniformemente orientata ad affermare la perentorietà del termine di cui al primo comma dell’ art. 48 D.Lgs. 163/2006. Quanto al secondo comma, parte della giurisprudenza (confortata anche dalla determinazione dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici n. 5/2009) ritiene che esso non preveda un termine perentorio entro il quale la documentazione comprovante i requisiti deve essere fornita (in tal senso si è espresso anche questo Tribunale nella sentenza della sez. II 03.07.2009 n. 1171); mentre l'opposto orientamento è stato seguito, ad esempio, da TAR Palermo, sez. III, 08.10.2009 n. 1608; TAR Lazio, sez. III, 23.07.2009 n. 7493; TAR Bari, sez. I, 14.08.2008 n. 1971.
Il Collegio, nel confronto tra le opposte tesi, ritiene più convincente quella da ultimo richiamata, sulla base delle seguenti considerazioni: l'esigenza di assicurare tempi certi e celeri vale sia durante lo svolgimento della gara, sia dopo l'aggiudicazione provvisoria e in vista della conclusione del procedimento; confligge con tale esigenza la mancanza di un termine perentorio per la presentazione della documentazione comprovante i requisiti dell’aggiudicatario; sotto il profilo letterale il richiamo del comma 2 alla "richiesta di cui al comma 1" va riferito alla richiesta "di comprovare, entro dieci giorni dalla data della richiesta medesima, il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa" e dunque anche al termine di 10 giorni ivi indicato, pacificamente ritenuto perentorio; da ciò consegue che l'impugnata esclusione della ricorrente risulta legittimamente disposta (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 07.09.2011 n. 1380 - link a www.mediagraphic.it).

APPALTI: L'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 esclude una valutazione discrezionale da parte della P.A., in ordine alla gravità o meno della violazione concernente gli obblighi tributari.
Ai fini della configurabilità del requisito della regolarità fiscale, va escluso ogni rilievo alla modestia dell'entità del debito definitivamente accertato non essendo previsto, da parte della stazione appaltante, alcun apprezzamento discrezionale in merito alla gravità ed all'elemento psicologico della violazione, in quanto la formulazione dell'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 è riferita a qualsivoglia violazione, anche di importo esiguo, senza che sia consentito all'amministrazione procedente, né al concorrente, valutarne la rilevanza e la buona o mala fede del contribuente, giacché tale valutazione è stata effettuata dal legislatore al fine di garantire l'affidabilità dell'offerta e nell'esecuzione del contratto, nonché la correttezza e serietà del concorrente.
Un'interpretazione opposta del citato art. 38 comporterebbe il conferimento alla P.A. di un potere discrezionale in ordine alla gravità dell'infrazione, anche in settori in cui è positivamente esclusa. Pertanto, anche una violazione quantitativamente non ampia degli obblighi tributari risulta sufficiente per determinare l'esclusione del concorrente (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 07.09.2011 n. 1380 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: L'interdittiva antimafia non obbedisce a finalità di accertamento di responsabilità, bensì di massima anticipazione dell'azione di prevenzione, rispetto alla quale risultano rilevanti anche fatti e vicende solo sintomatiche ed indiziarie.
In materia di interdittiva antimafia prevista dall'art. 4 d.lgs. n. 490/1994, e art. 10 d.P.R. 03.06.1998 n. 252, è stato più volte ribadito dalla giurisprudenza amministrativa che l'interdittiva non obbedisce a finalità di accertamento di responsabilità, bensì di massima anticipazione dell'azione di prevenzione, rispetto alla quale risultano rilevanti anche fatti e vicende solo sintomatiche ed indiziarie.
Conseguentemente non occorre che sia provata l'esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, essendo invece sufficiente, secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale, la mera possibilità di interferenze della criminalità rivelate da fatti sintomatici o indiziari.
Inoltre, gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 06.09.2011 n. 5019 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIPer l'impugnazione degli atti delle procedure di affidamento, ivi comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività tecnico-amministrative ad esse connesse, relativi a pubblici lavori, servizi o forniture, il ricorso e i motivi aggiunti devono essere proposti nel termine di 30 giorni; tale termine normalmente decorre dalla ricezione della comunicazione di cui all'art. 79 d.lgs. 12.04.2006 n. 163, salva ovviamente l'ipotesi della piena conoscenza dell'atto, acquisita con altre modalità, come d'altronde ribadito dall'art. 41 del codice: fra queste ipotesi, rientra quella in cui all'atto dell'esclusione dalla gara sia presente un rappresentante della impresa esclusa.
Alla presenza in sede di gara ben può essere equiparata la consegna di copia del provvedimento ad un soggetto che, per la qualificazione spesa, ben poteva ritenersi legittimato al ricevimento, secondo il principio generalmente affermato con riferimento al dipendente dell’impresa che abbia ricevuto la notifica o la raccomandata inviata a mezzo posta (essendo sufficiente che esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l'atto ricevuto).

Il Collegio ritiene che la comunicazione dell’avvenuta aggiudicazione, effettuata a mani di una dipendente dell’impresa ricorrente e risalente all’11.10.2010, fosse idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione, atteso che il contenuto della stessa deve ritenersi sufficiente a garantire la piena conoscenza dell’atto lesivo, in specie con riferimento agli specifici elementi di lesività dedotti, chiaramente conoscibili addirittura sin dalla pubblicazione del bando di gara.
E’ pur vero, infatti, che nel caso di uso di modalità di comunicazione diverse da quelle espressamente previste dall’art. 79 del d.lgs. 163/2006, non vi è presunzione di piena conoscenza del contenuto dell’atto con cui è stata disposta l’aggiudicazione, ma ciò non esclude che sia comunque possibile dimostrare che la modalità utilizzata abbia consentito la piena conoscenza, così da far decorrere, da tale momento, il termine per l’impugnazione.
In tal senso si è già espressa la giurisprudenza, con la sentenza del TAR Puglia, Bari, I, 01.03.2011, n. 359, nella quale si afferma il principio, che questo Collegio ritiene di poter condividere, secondo cui “Per l'impugnazione degli atti delle procedure di affidamento, ivi comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività tecnico-amministrative ad esse connesse, relativi a pubblici lavori, servizi o forniture, il ricorso e i motivi aggiunti devono essere proposti nel termine di trenta giorni; tale termine normalmente decorre dalla ricezione della comunicazione di cui all'art. 79 d.lgs. 12.04.2006 n. 163, salva ovviamente l'ipotesi della piena conoscenza dell'atto, acquisita con altre modalità, come d'altronde ribadito dall'art. 41 del codice: fra queste ipotesi, rientra quella in cui all'atto dell'esclusione dalla gara sia presente un rappresentante della impresa esclusa”.
Alla presenza in sede di gara ben può essere equiparata la consegna di copia del provvedimento ad un soggetto che, per la qualificazione spesa, ben poteva ritenersi legittimato al ricevimento, secondo il principio generalmente affermato con riferimento al dipendente dell’impresa che abbia ricevuto la notifica o la raccomandata inviata a mezzo posta (essendo sufficiente che esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l'atto ricevuto, come chiarito da Cassazione civile, sez. lav., 10.01.2007, n. 239).
Ne consegue che, nel caso di specie, deve ritenersi raggiunta la piena conoscenza del provvedimento lesivo sin dalla consegna di copia del provvedimento di aggiudicazione alla dipendente dell’impresa che ne ha sottoscritto copia per ricevuta (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 01.09.2011 n. 1296 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Se la lex specialis induce in errore omissivo il concorrente, correttamente l'amministrazione deve ammettere quest'ultimo ad integrare successivamente la documentazione carente.
Nel caso di specie, risultava evidente dall’esame della modulistica allegata, che questa era carente in ordine alla dichiarazione da rendere, ai sensi dell’art. 38 del decreto legislativo n. 163 del 2006, relativamente ad alcune dichiarazioni prese in considerazione dall’articolo suddetto, per cui l’appellante, in presenza di un modello da seguirsi necessariamente, ma carente, ha voluto adeguarsi al modello medesimo, per non patire in concreto la comminatoria dell’esclusione dalla gara.
Il complesso degli atti predisposto dall’Amministrazione, avendo ingenerato l’equivoco, ha determinato l’errore omissivo dell’appellante; pertanto, correttamente la stessa amministrazione, prendendo atto dell’equivocità delle proprie determinazioni, ha considerato l’omissione in parola frutto della non coerenza del bando ed ha conseguentemente ammesso la stessa ricorrente ad integrare successivamente la dichiarazione carente, cosa che è stata fatta e da cui è risultata la inesistenza della sanzione.
In presenza di questa situazione, in cui la stessa amministrazione aveva determinato l’errore dell’appellante, si appalesa corretta la successiva integrazione, la quale non può ritenersi violativa del principio della “par condicio” fra i concorrenti, in quanto si è, al contrario, proprio con l’integrazione successiva, posto rimedio ad uno sbilanciamento iniziale e si è ripristinata proprio quella “par condicio” che il soggetto appellato ritiene violata, con il risultato di avere quella pluralità di candidati cui il principio di concorrenza tende nelle procedure concorsuali della pubblica amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.08.2011 n. 4861 - link a www.mediagraphic.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: I consiglieri comunali godono di un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del loro mandato.
Il diritto di accesso dei Consiglieri comunali non è soggetto ad alcun onere motivazionale.

I consiglieri comunali godono di un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del loro mandato; ciò al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale. Il diritto di accesso loro riconosciuto ha, infatti, una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso": è strettamente funzionale all'esercizio del mandato, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell'ente locale ai fini della tutela degli interessi pubblici ed è peculiare espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
Il diritto di accesso dei Consiglieri comunali non è soggetto ad alcun onere motivazionale giacché diversamente opinando sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengono, per un verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e, per altro verso, che non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri debba essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.08.2011 n. 4829 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sul procedimento di scelta da parte della P.A. del soggetto con cui concludere un contratto di appalto.
La scelta da parte della P.A. del soggetto con cui concludere un contratto di appalto si realizza attraverso una serie procedimentale, regolata da norme pubblicistiche, preordinate all'individuazione del miglior contraente, dal punto di vista soggettivo e oggettivo, e la serie procedimentale si impernia sui postulati di trasparenza ed imparzialità che, a loro volta, si concretizzano nel principio di par condicio tra tutti i concorrenti, realizzata attraverso la previa predisposizione del bando di gara, e nel principio di concorsualità, segretezza, completezza, serietà, autenticità e compiutezza delle offerte formulate rispetto alle prescrizioni ed alle previsioni delle lex specialis, nonché nella previa predisposizione, da parte dell'Amministrazione appaltante, dei criteri di valutazione delle offerte.
Tali principi, dunque, sono preordinati a finalità pubblicistiche tali da vincolare al loro rispetto non solo la P.A., ma anche coloro che intendono partecipare alla gara: su questi ultimi incombe, infatti, l'obbligo di presentare offerte che, al di là del loro profili tecnico-economico, devono avere le caratteristiche della compiutezza, della completezza, della serietà, della indipendenza e della segretezza, le quali soltanto assicurano quel gioco della libera concorrenza e del libero confronto attraverso cui giungere all'individuazione del miglior contraente possibile (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 25.08.2011 n. 4809 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Cantieri temporanei e mobili. Lavori in corso, senza segnalazione rischio responsabilità penale.
La segnalazione di lavori in corso di esecuzione e l'interdizione al pubblico dell'accesso alla zona dagli stessi interessata, non richiedendo alcuna autorizzazione, comporta la responsabilità penale per la violazione dell'art. 673 c.p. nel caso in cui un cantiere non sia delimitato in alcun modo con apposizione di reti o paletti, ciò in quanto l'omessa collocazione di segnali atti ad impedire pericoli alle persone in transito (o comunque l'adozione di idonee cautele volte a scongiurare qualsiasi vulnus all'incolumità pubblica) costituisce preciso obbligo spettante a coloro che abbiano la gestione dei lavori nel cantiere.
Interessante pronuncia della Corte di Cassazione sul tema della responsabilità penale per il reato previsto dall'art. 673 c.p. applicato alla normativa antinfortunistica. Il caso, come si vedrà, alquanto banale, riguardava il danneggiamento di un veicolo in sosta provocato dalla mancata apposizione della cartellonistica di sicurezza in un cantiere ove erano in corso lavori di manutenzione straordinaria in un centro commerciale.
La Corte, nel disattendere le doglianze difensive, ritiene invece responsabili coloro cui spettava la gestione del cantiere medesimo per i danni cagionati al veicolo in sosta, affermando l'importante principio di diritto secondo cui l'omessa collocazione di segnali atti ad impedire pericoli alle persone in transito (o comunque l'adozione di idonee cautele volte a scongiurare qualsiasi vulnus all'incolumità pubblica) costituisce preciso obbligo spettante a coloro che abbiano la gestione dei lavori nel cantiere.
Il caso.
Il caso La vicenda processuale, come già evidenziato, vedeva imputati il legale rappresentante di una s.r.l., impresa esecutrice dei lavori di manutenzione straordinaria in corso di svolgimento in un centro commerciale, unitamente al direttore dei suddetti lavori, ritenuti colpevoli della violazione dell'art. 673 c.p. ad essi contestato per avere, nelle rispettive qualità, omesso di collocare «segnali e/o ripari prescritti dalla legge e dall'Autorità per impedire pericoli alle persone in luogo di pubblico transito» e segnatamente di aver omesso di collocare segnaletica atta a delimitare l'area in cui svolgevano lavori con mezzi pesanti (sollevatore idraulico), che si ribaltava danneggiando un veicolo in sosta.
La responsabilità dei due imputati, in particolare, veniva fondata in sede di merito valorizzando in particolare le dichiarazioni rese da alcuni agenti della polizia municipale che, accorsi sul posto nell'immediatezza del fatto, avevano riferito che il cantiere di lavoro non era delimitato in alcun modo, da ciò desumendosi che i due imputati avevano omesso di collocare segnali o ripari (reti, paletti), atti a delimitare e comunque a segnalare, in orizzontale e in verticale, l'area interessata da una possibile caduta accidentale del mezzo meccanico impiegato (sollevatore), evento ritenuto prevedibile e prevenibile.
In particolare il Tribunale aveva escluso che gli imputati potessero utilmente invocare la buona fede in ragione della supposta inerzia dell'autorità amministrativa, ritenendo «ovvio che un'attività pericolosa come quella di sollevare bancali di guaine isolanti o mattonelle del peso anche di cinque o sei quintali richiedesse attenzioni particolari e misure di salvaguardia e di interdizione rigorose nei confronti di chiunque si trovasse a passare, tenuto conto che si trattava di operazioni temporalmente circoscritte (della durata complessiva di 20-30 minuti) e che dunque si risolvevano in tempo accettabile».
Il ricorso.
Resistevano alla condanna ambedue gli imputati. Per quanto di interesse in questa sede, il direttore dei lavori sosteneva, tenuto conto anche di quanto risultante dalle deposizioni di alcuni operai presenti in cantiere, che erano state adottate le dovute precauzioni, consistite nella collocazione di un nastro rosso e bianco lungo tutto il perimetro della superficie interessata alle operazioni di fissaggio di una guaina impermeabile sul tetto del centro commerciale, nastro che, essendosi rotto a seguito della caduta del mezzo meccanico, come riferito dai predetti testi, era stato immediatamente rimosso dopo il sinistro, per non intralciare le operazioni di soccorso dell'operaio che manovrava il sollevatore idraulico, rimasto bloccato al posto di comando.
Senza contare che, come pure riferito dall'imputato e dai summenzionati testi, il responsabile dei lavori aveva incaricato alcuni dipendenti dell'impresa di adoperarsi affinché nessun passante si avvicinasse o sostasse nell'area interessata alle operazioni di fissaggio e sollevamento del materiale utilizzato per l'esecuzione dei lavori, specificandosi nel ricorso, tra l'altro, che lo stesso direttore dei lavori aveva invitato anche il proprietario del veicolo poi danneggiato dal ribaltamento del sollevatore, a spostarlo, ricevendo un rifiuto a ragione del motivo che lo stesso sarebbe rimasto in sosta solo un attimo.
Soprattutto, però, la difesa del direttore dei lavori sosteneva che lo scopo perseguito dalla norma incriminatrice (art. 673 c.p.), imponendo l'adozione di segnalazioni e ripari, è quello di evitare un pericolo alle persone, sicché, posto che nel caso di specie, come emerso dall'istruttoria dibattimentale, erano stati adottati accorgimenti più che adeguati allo scopo, in quanto perfettamente idonei alla tutela del bene protetto (delimitazione del cantiere con un nastro rosso e bianco; presenza di dipendenti incaricati di impedire l'accesso ai passanti nell'area delimitata, non transennarle con delimitazioni fisse), l'evento accaduto non poteva assolutamente venire addebitato ad una condotta omissiva degli imputati, tanto più che lo stesso doveva ritenersi cagionato, come precisato dall'imputato, da un imprevisto ed imprevedibile «malfunzionamento» del macchinario di sollevamento, posto che il principale tipo di rischio staticamente connesso alla utilizzazione di tale mezzo meccanico è quello della caduta verticale del carico e non certo quello del ribaltamento del mezzo meccanico, specie ove si consideri che a fronte di una portata massima di venti quintali il carico sollevato il giorno del sinistro non superava i cinque o sei quintali.
In ordine al ricorso proposto dal titolare dell'impresa esecutrice dei lavori, in particolare, veniva sottolineata la non configurabilità a carico dell'esecutore del lavori, ma semmai a carico del committente, di un obbligo di osservanza delle prescrizioni in materia di sicurezza.
La decisione della Cassazione.
I giudici di legittimità, nel ritenere infondati i motivi di impugnazione, hanno rigettato ambedue i ricorsi proposti nell'interesse degli imputati. Come di consueto, è utile un inquadramento normativo della questione. Nella specie è stato contestato agli imputati il reato contravvenzionale previsto dall'art. 673 c.p., norma inserita nel Libro 3°, sez. II, del codice penale, dedicata alle contravvenzioni concernenti l'incolumità pubblica e, più specificamente, di quelle concernenti l'incolumità delle persone nei luoghi di pubblico transito o nelle abitazioni.
L'art. 673 c.p, in particolare, prevede -sotto la rubrica Omesso collocamento o rimozione di segnali o ripari- due diverse condotte, sanzionate penalmente con la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda: 1) quella di chiunque omette di collocare i segnali o i ripari prescritti dalla legge o dall'autorità per impedire pericoli alle persone in un luogo di pubblico transito, ovvero rimuove i segnali o i ripari suddetti, o spegne i fanali collocati come segnali; 2) quella di chi rimuove apparecchi o segnali diversi da quelli indicati nella disposizione precedente e destinati a un servizio pubblico o di pubblica necessità, ovvero spegne i fanali della pubblica illuminazione.
In merito ai profili di ricorso, in particolare, osservano gli Ermellini, quanto al profilo dell'esistenza di una posizione di garanzia tale da giustificare l'esistenza della responsabilità penale sotto il profilo causale, che indubbiamente la stessa grava sul legale rappresentante dell'impresa esecutrice dei lavori ed utilizzatrice del mezzo meccanico ribaltatosi, non rilevando la circostanza che questi non fosse il committente dei lavori.
Sul punto, evidenziano correttamente i giudici di Piazza Cavour, non osta all'affermazione della responsabilità penale dell'esecutore quella giurisprudenza in tema di infortuni sul lavoro in un cantiere edile (Cass. pen., sez. 3, 21.02.2007, n. 7209, imp. B., in Ced Cass. 235882), secondo cui il committente (dei lavori) rimane il soggetto obbligato in via principale all'osservanza degli obblighi imposti in materia di sicurezza, non escludendosi affatto, nell'eventualità -pacificamente verificatasi nel caso in esame- di nomina di un responsabile dei lavori -inteso come soggetto incaricato dell'esecuzione dei lavori- la sussistenza della responsabilità penale di quest'ultimo.
Quanto, poi, al secondo profilo inerente lo scopo della norma violata, sottolineano i giudici come fosse pacifico che il cantiere non risultasse delimitato in alcun modo con apposizione di reti o paletti: orbene, precisa la Corte, la segnalazione dei lavori e l'interdizione al pubblico dell'accesso alla zona interessata non richiedeva alcuna autorizzazione, e comunque -ove la si fosse ritenuta necessaria- l'asserita inerzia nel suo rilascio da parte delle autorità preposte non valeva in ogni caso ad escludere la responsabilità degli imputati.
Trattasi di principio, quest'ultimo, assolutamente condivisibile, che trova un suo specifico precedente in una remota decisione (Cass. pen., Sez. 1, 14.01.1998, n. 425, imp. C., in Ced. Cass. 209436) secondo cui rientra nella nozione di "riparo", prevista dall'art. 673 c.p., l'esecuzione di tutte quelle opere atte ad impedire pericoli alle persone in un luogo di pubblico transito: ne consegue che deve ritenersi sussistente il reato in questione ogniqualvolta il soggetto destinatario delle prescrizioni dettate dall'Autorità non esegua le suddette opere nei termini stabiliti o, in mancanza, in un termine ragionevole.
Né la responsabilità può ritenersi esclusa nel caso che le opere da eseguire siano soggette ad eventuali provvedimenti di autorizzazione da parte dell'Autorità, atteso che è compito del soggetto, destinatario dell'ordine, di adoperarsi sollecitamente per rimuovere gli eventuali ostacoli di natura burocratica che si frappongano alla rapida esecuzione delle opere.
Il principio, si noti, è stato recentemente ribadito da altra recentissima decisione (Cass. pen., Sez. 1, n. 5098 dell'11.02.2011, imp. V., in Ced Cass. 249798) che ha ritenuto sussistente il reato in questione ogniqualvolta il soggetto destinatario delle prescrizioni dettate dall'Autorità sulla sicurezza delle strade non esegua le opere necessarie allo scopo nei termini stabiliti, anche qualora tali opere siano soggette a provvedimenti autorizzativi di terzi, essendo compito del soggetto preposto di adoperarsi sollecitamente per rimuovere gli eventuali ostacoli che si frappongano all'attuazione dell'adempimento (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 21.07.2011 n. 29156 - link a http://olympus.uniurb.it).

LAVORI PUBBLICI: Sulla caduta massi è responsabile l'Anas... ma entro quali limiti?
Spetta all'ANAS impedire la caduta massi anche se non è tenuta a sigillare l'intera scarpata sottostante.
E' quanto ha stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 18.07.2011 n. 15720, con la quale si afferma che, se la frana ha avuto origine da un luogo diverso da quello in custodia dell'ANAS, l'evento deve considerarsi imprevedibile.
Il caso vedeva un automobilista essere travolto da grossi massi mentre era alla guida del proprio mezzo. In particolare, il materiale roccioso era franato da terreni di proprietà di terzi, a monte, per qualche centinaio di metri rispetto alla strada statale. Tra la strada e i suddetti terreni, sempre a monte, correva una linea ferroviaria con il relativo muro di contenimento, innalzato dalle ferrovie, rispetto all'originario muro, dopo la precedente caduta di massi i quali, provenienti dai terreni dei terzi suddetti, avevano spostato i binari e danneggiato il muro di contenimento.
Secondo l'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, richiamato dagli ermellini, la responsabilità ex art. 2051 c.c. sussiste in relazione a tutti i danni da essa cagionati, sia per la sua intrinseca natura, sia per l’insorgenza in essa di agenti dannosi, essendo esclusa solo dal caso fortuito, che può essere rappresentato -con effetto liberatorio totale o parziale- anche dal fatto del danneggiato, avente un'efficacia causale tale da interrompere del tutto il nesso eziologico tra la cosa e l'evento dannoso o da affiancarsi come ulteriore contributo utile nella produzione del danno.
In relazione alle strade aperte al pubblico transito si ritiene che la disciplina di cui all'art. 2051 c.c. sia applicabile in riferimento alle situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada, essendo configurabile il caso fortuito in relazione a quelle situazioni provocate dagli stessi utenti, ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa che, nonostante l'attività di controllo e la diligenza impiegata allo scopo di garantire un intervento tempestivo, non possa essere rimossa o segnalata, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere.
Ai fini del giudizio sulla prevedibilità o meno della repentina alterazione della cosa, occorre, secondo il giudice nomofilattico, aver riguardo, per quanto concerne pericoli derivanti da situazioni strutturali e dalle caratteristiche della cosa, al tipo di pericolosità che ha provocato l'evento di danno e che, ove si tratti di una strada, può atteggiarsi diversamente, in relazione ai caratteri specifici di ciascun tratto ed agli eventi analoghi che lo abbiano in precedenza interessato.
Nel caso di specie la Terza Sezione ha ritenuto imprevedibile la frana di maggiore consistenza, che ha determinato l'alterazione dello stato della cosa in custodia, sebbene abbia riconosciuto che negli anni precedenti si erano verificate frane, proprio provenienti dai terreni a monte, che la stessa ANAS, negli anni precedenti, aveva predisposto opere per far fronte allo stesso problema e che nella zona intermedia a monte, di spettanza delle Ferrovie, erano già state predisposte delle opere.
Tali circostanze, concludono gli ermellini, avrebbero dovuto condurre ad interrogarsi sul se l'alterazione della cosa per via della frana fosse, piuttosto, prevedibile e se da parte dell'ANAS erano state poste in essere le idonee misure di sicurezza sulla strada (link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: D.I.A. edilizia, se la relazione e' falsa scatta la responsabilità penale. La dichiarazione ha natura certificativa.
La relazione di accompagnamento alla D.I.A. edilizia (che costituisce parte integrante ed essenziale della dichiarazione stessa di inizio dell'attività) ha natura di "certificato" per quanto riguarda la descrizione dello stato attuale dei luoghi, la ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento e la rappresentazione delle opere che si intende realizzare e l'attestazione della conformità delle stesse agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio.
Interessante decisione quella di seguito commentata, affrontando la Corte di Cassazione un tema interessante costituito dalla natura giuridica della relazione tecnica di accompagnamento della D.I.A. edilizia.
La Corte, prendendo posizione rispetto ad un contrasto giurisprudenziale che da qualche tempo si affaccia nelle nostre aule giudiziarie, opta motivatamente per la natura di "certificato" di tale documento, con riferimento in particolare alla parte progettuale della relazione di accompagnamento ed alla dichiarazione di conformità alla pianificazione comunale delle opere da realizzarsi, giungendo quindi a ritenere configurabile l'illecito penale previsto dall'art. 481 c.p. a carico del professionista che rediga detta relazione inserendovi dati ideologicamente falsi.
Il fatto.
La vicenda processuale oggetto di esame da parte dei giudici di Piazza Cavour trae origine da una sentenza di condanna, confermata in grado d'Appello, emessa nei confronti di un architetto in qualità di direttore dei lavori, in relazione ad un intervento edilizio di totale demolizione di un manufatto preesistente ad unica elevazione e realizzazione di un nuovo fabbricato a tre piani completamente diverso per sagoma, tipologia, forma, struttura, superficie e volumetria complessive.
Questi, secondo l'accusa, aveva asseverato falsamente, in una perizia tecnica allegata ad una D.I.A., che i lavori da eseguirsi avrebbero riguardato il risanamento conservativo di un fabbricato esistente e che l'intervento sarebbe stato eseguito con la tecnica del "cuci-scuci" senza porsi in contrasto con la normativa urbanistica, il regolamento edilizio e lo strumento urbanistico.
Il professionista, inoltre, in altra perizia giurata conseguente a sospensione dei lavori disposti con ordinanza comunale, aveva attestato falsamente la regolarità dell'intervento eseguito.
Il ricorso.
Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione la difesa dell'imputato, deducendo, per quanto qui di interesse, l'inconfigurabilità del reato di cui all'art. 481 c.p., in quanto la relazione tecnica asseverata da allegarsi alla D.I.A. non avrebbe natura di "certificato", "riflettendo essa, per la parte progettuale, non una realtà oggettiva ma una semplice intenzione".
In relazione, poi, alla perizia giurata, la difesa sosteneva che il professionista non avrebbe attestato la regolarità dell'intervento, ma si sarebbe limitato ad affermare che l'originaria struttura muraria sarebbe stata ripristinata e le dimensioni in pianta dell'edificio e la sua sagoma sarebbero rimaste invariate, manifestando ancora una volta "una semplice intenzione o, comunque, la previsione di un fatto futuro". Quanto, infine, alle opere effettivamente realizzate, non vi sarebbe stata una totale "demolizione e ricostruzione della struttura preesistente", avendo tale attività riguardato, invece, "una piccola parte del fabbricato".
La decisione della Cassazione.
La terza sezione penale della Corte Suprema, investita del ricorso, ha rigettato il ricorso confermando la responsabilità penale del professionista. Sul punto, come anticipato, si registra un contrasto giurisprudenziale che la Corte supera agevolmente con un'analisi cui non può che convintamente aderirsi.
Come di consueto è utile prendere le mosse dall'inquadramento normativo della questione. L'art. 481 c.p. punisce la condotta di colui il quale ponga in essere una falsità ideologica in certificati commessa nell'esercizio di una professione forense, sanitaria o di altro servizio di pubblica necessità. In relazione a tale previsione sanzionatoria, l'art. 29, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 (c.d. Testo Unico dell'Edilizia) prevede che «Per le opere realizzate dietro presentazione di denuncia di inizio attività, il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli articoli 359 e 481 del codice penale. In caso di dichiarazioni non veritiere nella relazione di cui all'articolo 23, comma 1, l'amministrazione ne dà comunicazione al competente ordine professionale per l'irrogazione delle sanzioni disciplinari».
La giurisprudenza di legittimità afferma, senza contrasti, che il progettista o, comunque, il tecnico abilitato che predispone la relazione di accompagnamento, all'interno del procedimento che la legge prescrive per la presentazione della D.I.A. in materia edilizia, assume la qualifica di persona esercente un servizio di pubblica necessità ex art. 359 c.p.
L'art. 481 c.p. prevede, però, che la falsa attestazione dei fatti dei quali l'atto sia destinato a provare la verità sia contenuta all'interno di un "certificato" e da ciò discende la necessità di individuare se la relazione di accompagnamento alla D.I.A. edilizia abbia o meno natura di "certificato". Sul punto la giurisprudenza della Cassazione ha affermato, con consolidato orientamento, che costituisce "certificazione" la descrizione dello stato dei luoghi antecedente alle opere da realizzare (v., da ultimo: Cass. pen., Sez. 3, n. 27699 del 16.07.2010, imp. C. e altro, in Ced. Cass. 247927).
Tesi non convergenti sono state espresse, invece, quanto alla parte progettuale della relazione allegata alla DIA edilizia. In relazione a tale parte del documento si e' sostenuto, infatti, che essa rifletterebbe non una realtà oggettiva ma una semplice intenzione dell'interessato di realizzare le opere in essa descritte ed ancora inesistenti e, per quanto riguarda l'eventuale attestazione dell'assenza di vincoli, solamente un giudizio espresso dal dichiarante, come tale non necessariamente fondato su dati di fatto certi e sicuri vedi (v., sul punto, tra le più recenti: Cass. pen., Sez. 5, n. 7408 del 24.02.2010, imp. F., in Ced. Cass. 246094).
A divergenti conclusioni è pervenuta, invece, la terza Sezione della Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 1818 del 19/01/2009, imp. B., in Ced Cass. 242478) ritenendosi invece che, dalla lettura coordinata e sistematica della normativa di riferimento (d.P.R. n. 380/2001, art. 23, commi 1 e 6, e art. 29, comma 3), emergerebbe un "sostanziale affidamento" riposto dall'ordinamento sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che "quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell'intervento". In tale prospettiva, la relazione del tecnico abilitato costituisce un atto non solo idoneo ad integrare la dichiarazione di inizio dell'attività, ma anche dotato di piena autonomia e di valore pubblicistico, assumendo valore sostitutivo del titolo edilizio abilitante e quindi certificativo.
Quanto alla dichiarazione di conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, a fronte dell'orientamento secondo il quale si tratterebbe soltanto di un mero giudizio del dichiarante, la stessa è stata ricondotta, invece, da certa giurisprudenza, all'attività certificativa (v., la già cit., sez. 3, n. 27699/2010).
A fronte degli orientamenti giurisprudenziali dianzi delineati, con riferimento alla parte progettuale della relazione di accompagnamento alla DIA edilizia ed alla dichiarazione di conformità delle opere realizzande alla pianificazione comunale, ritiene la sentenza qui commentata di aderire alle argomentazioni ed alle conclusioni cui è pervenuto il più rigoroso orientamento sostenuto dalla già citata Sez. 3, n. 1818/2009.
In tale sentenza è stato, infatti, condivisibilmente evidenziato che la già richiamata norma dell'art. 29, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 dev'essere letta in necessaria correlazione con quella posta dal precedente art. 23, il quale prescrive che la D.I.A. dev'essere accompagnata da una relazione del progettista "che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti" (comma 1), precisando che il dirigente o responsabile dell'ufficio tecnico comunale, "in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di appartenenza" (comma 6) e che, ultimato l'intervento, "il progettista o un tecnico abilitato rilascia un certificato di collaudo finale ... con il quale si attesta la conformità dell'opera al progetto presentato con la denuncia di inizio attività" (comma 7).
Il progettista, dunque, sottolineano i giudici di Piazza Cavour, ha un duplice obbligo: a) redigere una relazione preventiva in cui si assume l'onere di "asseverare" tra l'altro la conformità delle opere agli strumenti urbanistici approvati e la mancanza di contrasto con quelli adottati e con i regolamenti edilizi; b) rilasciare al termine dei lavori (ove non lo faccia altro tecnico abilitato) un certificato di collaudo circa la conformità di quanto realizzato al progetto iniziale.
E, quanto al primo aspetto di detta condotta doverosa, è stato esattamente osservato che il termine "asseverare" ha il significato di "affermare con solennità", e cioè di porre in essere una dichiarazione di particolare rilevanza formale e di particolare valore nei confronti dei terzi quanto alla verità ed alla affidabilità del contenuto. Il progettista si pone come "persona esercente un servizio di pubblica necessità" proprio perché assume una posizione di particolare rilievo in un procedimento (quello di D.I.A.) che prevede la sostituzione con una dichiarazione del privato di ogni autorizzazione amministrativa comunque denominata.
La principale caratteristica della D.I.A., infatti, consiste nella sostituzione dei tradizionali modelli procedimentali in tema di autorizzazione con uno schema diverso ispirato alla liberalizzazione delle attività economiche private, con la conseguenza che per l'esercizio delle stesse non è più necessaria l'emanazione di un titolo provvedimentale di legittimazione.
A seguito della denuncia, il potere di verifica di cui dispone l'amministrazione -a differenza di quanto accade nel regime a previo atto amministrativo- non e' finalizzato all'emanazione di un provvedimento amministrativo di consenso all'esercizio dell'attività, ma al controllo, privo di discrezionalità, della corrispondenza di quanto dichiarato dall'interessato rispetto ai canoni normativi stabiliti per l'attività in questione. Con la D.I.A., quindi, al principio autoritativo si sostituisce il principio dell'autoresponsabilità dell'amministrato, che è legittimato ad agire in via autonoma, valutando l'esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in vigore.
Il ricorso al procedimento della D.I.A., conseguentemente, porta con sé una particolare assunzione di responsabilità, in relazione al particolare affidamento che l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell'intervento. Proprio in considerazione di questo affidamento la condotta del professionista abilitato assume una specifica rilevanza pubblicistica (d.P.R. n. 380/2001, art. 29, comma 3) che si connette alle previsioni del precedente art. 23, commi 1 e 6.
L'articolo 23, comma 6, in particolare, dispone che, in caso di "falsa attestazione" del professionista, il funzionario comunale ha l'obbligo di inoltrare segnalazione informativa all'autorità giudiziaria, sicché e' evidente che la "falsa attestazione" in parola, riferita dal comma 6 alla "assenza di una o più delle condizioni stabilite", risulta strettamente correlata alle prescrizioni poste dal medesimo art. 23, comma 1, ove la relazione del progettista integra la dichiarazione stessa di inizio attività, che e' atto dotato di piena autonomia.
Dalla delineata costruzione della D.I.A., come atto fidefacente  a prescindere dal controllo della P.A. e riconnesso alla delega di potestà pubblica ad un soggetto qualificato, discende che la relazione asseverativa del progettista, sulla quale si fonda l'eliminazione dell'intermediazione del potere autorizzatorio dell'attività del privato da parte della pubblica amministrazione, assume valore sostitutivo del provvedimento amministrativo e quindi "certificativo", con conseguente responsabilità penale del professionista che dichiari in essa il falso (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.07.2011 n. 23072 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Relazione di accompagnamento alla DIA - Natura e funzione - Principio dell'autoresponsabilità dell'amministrato - Violazione - Fattispecie - Art. 481 cod. pen. - Falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità.
La relazione di accompagnamento alla DIA edilizia (che costituisce parte integrante ed essenziale della dichiarazione stessa di inizio dell'attività) ha natura di "certificato" per quanto riguarda: sia la descrizione dello stato attuale dei luoghi, sia la ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, sia la rappresentazione delle opere che si intende realizzare e l'attestazione della conformità delle stesse agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio.
Con la DIA, quindi, al principio autoritativo si sostituisce il principio dell'autoresponsabilità dell'amministrato, che è legittimato ad agire in via autonoma, valutando l'esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in vigore. (Nella specie, l'imputato, non era soltanto progettista ma anche direttore dei lavori, sicché aveva il dovere di costante controllo della conformità delle opere che progressivamente venivano realizzate rispetto a quelle denunziate con la DIA).
DIA edilizia - Relazione di accompagnamento - Natura di "certificato" - Qualifica di persona esercente un servizio di pubblica necessità - Falsa attestazione dei fatti - Obbligo di comunicazioni all’autorità giudiziaria - Sanzioni disciplinari - Artt. 23, cc. 1 e 6, e 29, c. 3, D.P.R. n. 380/2001 - Artt. 359 e 481 cod. pen..
Ai sensi dell'art. 29, 3° comma, del D.P.R. n. 380/2001, il progettista o, comunque, il tecnico abilitato che predispone la relazione di accompagnamento, all'interno del procedimento che la legge prescrive per la presentazione della DIA in materia edilizia, assume la qualifica di persona esercente un servizio di pubblica necessità ex art. 359 cod. pen. [Cass. Sez. V, 04.10.2010, n. 35615, D'Anna; 24.02.2010, n. 7408, Frigé; Cass. sez. III. 16.07.2010, n. 27699, Coppola e altro; 19.01.2009, n. 1818, Baldessari]. Costituendo "certificazione", anche ai sensi dell'art. 481 cod. pen., la descrizione dello stato dei luoghi antecedente alle opere da realizzare [Cass.: sez. V, n. 35615/2010, D'Anna; sez. III, n. 27699/2010, Coppola e altro].
In conclusione, dalla lettura coordinata e sistematica della normativa di riferimento (art. 23, commi 1 e 6, e art. 29, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001), emergerebbe un "sostanziale affidamento" riposto dall'ordinamento sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che "quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell'intervento".
In tale prospettiva la relazione del tecnico abilitato costituisce un atto non solo idoneo ad integrare la dichiarazione di inizio dell'attività, ma anche dotato di piena autonomia e di valore pubblicistico, assumendo valore sostitutivo del titolo edilizio abilitante e quindi certificativo.
Il dirigente o responsabile dell'ufficio tecnico comunale, "in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di appartenenza" (comma 6); che, ultimato l'intervento, "il progettista o un tecnico abilitato rilascia un certificato di collaudo finale ... con il quale si attesta la conformità dell'opera al progetto presentato con la denuncia di inizio attività" (comma 7). (Fattispecie relativa al reato di cui all'articolo 481 c.p. commesso da architetto direttore dei lavori) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.07.2011 n. 23072 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Danno per lesione di interessi legittimi: è indipendente dall'invalidità dell’atto.
Nel caso in esame il ricorrente ha richiesto l’annullamento della variante al P.R.G. del Comune di Oristano, rilevando che l’area di sua proprietà era già stata vincolata a “Servizi Pubblici - Scuola Materna” con una precedente variante al P.R.G., e confutando i presupposti ed il contenuto della variante impugnata.
Il Comune resistente, in via preliminare, eccepisce l’improcedibilità del ricorso, e il TAR Sardegna accoglie la censura.
Il ricorrente in primo grado propone quindi appello, asserendo che il TAR non avrebbe considerato “i riflessi sulla tutela dell’interesse a proporre la domanda risarcitoria in via autonoma” e avanzando nuovamente le censure già spiegate in primo grado.
Il Consiglio di stato, in sede giurisdizionale, accoglie l’appello e per l’effetto dichiara l’illegittimità della impugnata variante al P.R.G. del Comune di Oristano, condividendo quanto dedotto dall’appellante circa l’interesse alla proposizione della domanda risarcitoria in via autonoma. Il collegio rammenta il proprio orientamento in materia (C.d.S., Sezione IV, 21.04.2009, n. 2435), confermato dal nuovo codice del processo amministrativo (art. 34, comma terzo, d.lgs. n. 104 del 2010) che autorizza il giudice all’accertamento dell’illegittimità dell’atto, pure nelle ipotesi in cui non sussista più alcuna utilità all’annullamento, a condizione che sussista comunque interesse al risarcimento.
Il Consiglio di Stato ritiene sussistente l’interesse al risarcimento in capo all’appellante, giustificato dai dinieghi del Comune nei confronti dell’istanza di rilascio della concessione edilizia, che lo stesso appellante aveva più volte avanzato. Infatti, per accertare l’illegittimità della variante impugnata, l’appellante contesta, a ragione, la mancanza dello sviluppo demografico, sulla base del quale il Comune aveva motivato l’adozione della variante, destinando l’area di proprietà dell’appellante stesso nella zona destinata a “servizi pubblici,scuola materna” da acquisire attraverso lo strumento dell’espropriazione.
Nei fatti non si era verificato l’incremento demografico che il Comune aveva ipotizzato. Pertanto l’istanza risarcitoria proposta per lesione di interessi legittimi deve ritenersi ammissibile pure in ipotesi di declaratoria di improcedibilità della domanda di annullamento dell’atto, alla quale dovrebbe ricondursi la lesione.
La distinzione tra pronuncia sulla legittimità dell’atto impugnato (improcedibilità anziché annullamento) e valutazione dell’istanza risarcitoria, non pregiudica la ragione sostanziale di un danno risarcibile per fatto “illegale” della Pubblica amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.07.2011 n. 4064 - link a www.altalex.com).

AGGIORNAMENTO AL 15.09.2011

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NOVITA' NEL SITO

Inserito nel sito il seguente nuovo DOSSIER: ● Segretari comunali.

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Performance governativa: l'odissea del contributo di solidarietà (CGIL-FP di Bergamo, nota 13.09.2011).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Performance governativa: misure di sostengo alla contrattazione "di prossimità" (CGIL-FP di Bergamo, nota 12.09.2011).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: C. Rapicavoli, Nuove disposizioni in materia di convenzioni CONSIP e DURC (link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Miele, Nota a TAR Campania, Sez. V, 19.05.2011, n. 2800 - Ordinanze comunali contingibili ed urgenti in materia di rimozione rifiuti (link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: R. Schiavone, Riordino di congedi, aspettative e permessi (link a www.ipsoa.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Ribasso dell'utile.
Domanda.
E' consentito nelle procedure di appalto il ribasso dell'utile?
Risposta.
La possibilità di ribassare la percentuale dell'utile è consentita, soprattutto in appalti pubblici di importo elevato, pur escludendosi che un'impresa possa proporre un'offerta economica sguarnita da qualsiasi previsione di utile, né è possibile fissare una quota di utile rigida al di sotto della quale la proposta dell'appaltatore debba considerarsi per definizione incongrua.
Assume invece rilievo la circostanza che l'offerta si appalesi seria e cioè non animata dall'intenzione di trarre lucro dal futuro inadempimento delle obbligazioni contrattuali dovendosi ritenere ingiustificabile solo l'utile pari a zero (13.09.2011 - tratto da www.ipsoa.it).

NOTE, CIRCOLARI E  COMUNICATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCertificati di malattia online. Da domani gestione telematizzata anche per i privati. Circolare Inps precisa le novità. Se l'infermità è lunga serve la firma del medico del Ssn.
Al via la gestione online della malattia. A partire da domani anche nel settore privato (cosa che già succede in quello pubblico) entra pienamente a regime la procedura telematica tra aziende e medici sullo scambio dei certificati di malattia dei lavoratori. Lavoratori che, di conseguenza, tali certificati non devono più consegnare né all'Inps né alle proprie aziende.
L'uniformità tra pubblico e privato è totale e vale pure in merito agli stessi certificati. Tanto che, se l'infermità è lunga (oltre dieci giorni) o se è la terza in un anno, deve ora essere certificata esclusivamente da un medico del Ssn anche quando riguarda lavoratori privati.

A precisarlo è l'Inps nella circolare 09.09.2011 n. 117.
Dal 14 settembre. A ricordare l'entrata a regime dalla procedura telematica è stato ieri pure il ministero della funzione pubblica, spiegando in un comunicato stampa che oggi è l'ultimo giorno in cui è possibile utilizzare la carta per i certificati medici di malattia dei dipendenti privati. Diversamente da quanto annunciato il 2 settembre, il comunicato spiega che scatta da mercoledì 14 (e non da oggi) l'applicazione al settore privato delle nuove regole.
A partire da domani, pertanto, il datore di lavoro non potrà più richiedere al proprio lavoratore l'invio della copia cartacea dell'attestazione di malattia, ma dovrà prenderne visione avvalendosi dei servizi resi disponibili dall'Inps.
Le altre novità.
E l'Inps è intervenuto ieri con la circolare n. 117/2011 per spiegare le altre novità dell'equiparazione tra pubblico e privato in ordine alla disciplina dei certificati di malattia. La legge n. 183/2010 (il collegato lavoro), spiega l'Inps, ha fatto rimando integrale ed esplicito all'articolo 55-septies del dlgs n. 165/2001 (tu pubblico impiego), così uniformando totalmente il regime dei dipendenti dei settori pubblico e privato, ivi compresi gli aspetti sanzionatori riferiti ai medici del Ssn o con esso convenzionati.
Successivamente, aggiunge l'Inps, con l'entrata in vigore (06.07.2011) del dl n. 98/2011 sono state introdotte delle innovazioni in materia di assenze per malattia dei pubblici dipendenti per cui «nel caso in cui l'assenza per malattia abbia luogo per l'espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche o esami diagnostici l'assenza è giustificata mediante la presentazione di attestazione rilasciata dal medico o dalla struttura, anche privati, che hanno svolto la visita o la prestazione».
Questa norma, spiega l'Inps, introduce un regime speciale, rispetto a quello generale dell'articolo 55-septies. Pertanto, nei casi di assenza per malattia superiori a dieci giorni e comunque nei casi di eventi successivi al secondo, nel corso dell'anno solare, anche per il lavoratore del settore privato vige l'obbligo di produrre idonea certificazione rilasciata unicamente dal medico del Ssn o con esso convenzionato, con esclusione delle assenze per malattia per l'espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche o diagnostiche per le quali la certificazione giustificativa può essere rilasciata anche da medico o struttura privata. Certificazione che, sino all'adeguamento del sistema di trasmissione telematica, potrà essere prodotta in forma cartacea.
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Visite fiscali tramite web.
Dal 1° ottobre le richieste di visita medica di controllo dei dipendenti in malattia (la «visita fiscale») dovranno essere inoltrate all'Inps mediante canale telematico. In fase di prima attuazione, tuttavia, vigerà un periodo transitorio, fino al 30 novembre, durante il quale le richieste inviate secondo i canali tradizionali saranno considerate utili agli effetti giuridici.
Lo rende noto l'Inps nella circolare 12.09.2011 n. 118.
La novità interessa tutti i datori di lavoro, sia pubblici che privati, inclusi quelli i cui dipendenti non pagano i contributi di malattia. Da ieri, 12 settembre (data di pubblicazione della circolare), tutti i soggetti già dotati di Pin sono stati automaticamente abilitati al nuovo servizio. I datori di lavoro che intendano affidarsi a un soggetto devono tempestivamente comunicarlo all'Inps, che provvederà a modificare i profili autorizzativi. La richiesta di visita medica di controllo può essere effettuata per un solo lavoratore e per una sola visita alla volta. È possibile richiedere anche una visita di controllo ambulatoriale Inps, per casi eccezionali e motivati.
Come accennato, in fase di prima attuazione del processo telematizzato è concesso un periodo transitorio fino al 30 novembre, durante il quale le richieste di visita medica di controllo inviate attraverso i canali tradizionali. Alla scadenza (dal 1° dicembre), dunque, il canale telematico diventa esclusivo (articolo ItaliaOggi del 13.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Controllo della malattia: al via la procedura telematica. Termine del periodo transitorio a novembre.
Dall'01.10.2011 le richieste di visita medica di controllo dovranno essere inoltrate attraverso il canale telematico, che diverrà lo strumento esclusivo con decorrenza 30.11.2011. Fino a tale ultima data saranno accettate le richieste anche tramite i canali tradizionali.
A decorrere dall'01.10.2011, viene attivata, per i datori di lavoro pubblici e privati (compresi quelli i cui dipendenti non sono tenuti al versamento della contribuzione di finanziamento dell’indennità economica di malattia all’Inps), la modalità di presentazione telematica della richiesta del servizio di controllo (domiciliare e/o ambulatoriale) dello stato di salute dei propri dipendenti in malattia, in ottemperanza del disposto di cui alla legge 30.07.2010, n. 122, art. 38, comma 5.
Il sistema fornirà una ricevuta (stampabile e recante il protocollo) e darà anche la possibilità di verificare l’esito della visita medica. La presentazione della richiesta dovrà essere effettuata attraverso il portale WEB dell’Istituto - servizio di “Richiesta Visita Medica di controllo”, con accesso tramite PIN e previa autorizzazione all’accesso al servizio.
Nel dettaglio:
- a partire dal 12.09.2011 tutti i soggetti già dotati di PIN ed attualmente in grado di consultare gli attestati di malattia saranno automaticamente abilitati al servizio;
- i datori di lavoro o loro incaricati, non ancora abilitati ai servizi di consultazione degli attestati di malattia, per poter acceder al servizio, devono presentare domanda presso una Sede Inps utilizzando il modulo a tale fine predisposto dall’Istituto;
- i datori di lavoro o loro incaricati che intendano affidare il servizio di “Richiesta Visita Medica di controllo” ad un soggetto diverso da quello attualmente dotato di abilitazione per la consultazione degli attestati di malattia, dovrà tempestivamente comunicarlo all’INPS, che provvederà a modificare i relativi profili autorizzativi.
Al verificarsi della cessazione dell’attività, della sospensione o del trasferimento in altra struttura dell’intestatario del PIN, i datori di lavoro o loro incaricati in possesso di PIN, sono tenuti a chiedere tempestivamente la revoca dell’autorizzazione.
L’INPS provvederà a cessare, con effetto immediato, l’abilitazione. Inoltre, viene specificato che:
- la richiesta di visita medica di controllo, che viene indirizzata in automatico alla Sede competente per residenza/domicilio o reperibilità del lavoratore, può essere effettuata per un solo lavoratore e per una sola visita alla volta.
- è possibile richiedere anche una visita di controllo ambulatoriale INPS, per casi eccezionali e motivati, cui fa seguito una verifica di fattibilità, da un punto di vista organizzativo-temporale, da parte della Sede INPS destinataria (commento tratto www.ipsoa.it - INPS, circolare 12.09.2011 n. 118).

NEWS

ENTI LOCALI: MANOVRA-BIS/ Lombardia, Per Nosate e gli altri «piccoli» la sopravvivenza è la fusione. Razionalizzazione in arrivo per 327 consigli comunali.
Con chi si allea Nosate? Come parteciperà l'unico mini-Comune che in provincia di Milano non raggiunge i mille abitanti alla girandola di novità previste dalla manovra-bis, che solo in Lombardia dovrebbe cancellare dagli ordinamenti locali 1.392 posti da consigliere o assessore comunale?
Per carità, non è solo un problema di ... (articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: MANOVRA BIS/ Fare causa costa caro.
Fare causa costa tanto, e più di prima della crisi. Le punte più alte si registrano nel settore del contenzioso amministrativo sugli appalti. Il contributo unificato si paga anche in settori prima esenti per le cause di lavoro e per separazioni e divorzi. E se negli atti gli avvocati non riportano il numero di fax e l'indirizzo di posta elettronica certificata, il conto diventa ancora più alto.
L'articolo 13 del Testo unico sulle spese di giustizia, dlgs 115/2002, è stato rivoluzionato dal decreto 98/2011 e anche dal decreto 138/2011: due interventi per fare cassa mediante l'aumento del balzello sulle cause, anche quelle tributarie. Ecco come cambia la normativa: per le cause di lavoro, è dovuto il contributo da chi ha un reddito superiore a 31.884,48 euro. Sotto questa soglia le cause rimangono esenti. Sopra soglia per iniziare la causa bisogna versare allo stato.
Le controversie di previdenza e assistenza obbligatorie, nonché quelle individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego le parti che sono titolari di un reddito imponibile ai fini dell'imposta personale sul reddito, risultante dall'ultima dichiarazione, superiore a tre volte l'importo previsto dalla soglia di ammissione al gratuito patrocinio, sono soggette al contributo unificato.
La soglia di ammissione al gratuito patrocinio è stabilita dall'articolo 76 del Testo unico delle spese di giustizia: reddito imponibile ai fini dell'imposta personale sul reddito, risultante dall'ultima dichiarazione, non superiore a 10.628,16 euro. Quindi la soglia per il contributo unificato è di 31.884,48 euro.
La dichiarazione di esenzione o di assoggettamento al contributo dovrà essere fatta dall'avvocato nelle conclusioni del ricorso: l'avvocato potrà cautelarsi facendosi rilasciare, nei casi dubbi, una dichiarazione liberatoria da parte del proprio cliente.
Nelle altre cause il contributo si paga in relazione al valore della causa e in alcune ipotesi in base al valore della causa.
Il contributo unificato è di 37 euro per i processi di valore fino a 1.100 euro; 85 euro per i processi di valore superiore a 1.100 euro e fino a 5.200 euro; di 206 euro per i processi di valore superiore a 5.200 euro e fino a 26 mila euro e per i processi contenziosi di valore indeterminabile di competenza esclusiva del giudice di pace; di 450 euro per i processi di valore superiore a 26 mila euro e fino a 52 mila euro e per i processi civili di valore indeterminabile; di 660 euro per i processi di valore superiore a 52 mila euro e fino a 260 mila euro; di 1.056 euro per i processi di valore superiore a 260 mila euro e fino a 520 mila euro; di 1.466 euro per i processi di valore superiore a 520 mila euro. Per i processi di esecuzione immobiliare il contributo dovuto è pari a 242 euro. Per gli altri processi esecutivi lo stesso importo è ridotto della metà. Per i processi esecutivi mobiliari di valore inferiore a 2.500 euro il contributo dovuto è pari a 37 euro. Per i processi di opposizione agli atti esecutivi il contributo dovuto è pari a 146 euro.
Il contributo è ridotto alla metà per i processi speciali sommari (ingiunzione, sfratti, cautelari), compreso il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento e per le controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego, con il limite reddituale di cui si è detto. Ai fini del contributo dovuto, il valore dei processi di sfratto per morosità si determina in base all'importo dei canoni non corrisposti alla data di notifica dell'atto di citazione per la convalida e quello dei processi di finita locazione si determina in base all'ammontare del canone per ogni anno.
Per la procedura fallimentare, che è la procedura dalla sentenza dichiarativa di fallimento alla chiusura, il contributo dovuto è pari a 740 euro. Se manca la dichiarazione di valore (che deve essere fatta nell'atto) si applica l'importo massimo di 1.466 euro.
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MANOVRA BIS/ Chi sbaglia paga. E tanto.
Se l'avvocato sbaglia il contributo lievita.
Questo l'effetto della manovra correttiva di luglio (decreto 98/2011) e dell'articolo 2, comma 35-ter del decreto 138/2011 (manovra di ferragosto), come modificato dal maxiemendamento del governo. La disposizione modifica in particolare l'articolo 125 del codice di procedura civile relativo alla compilazione degli atti giudiziari: ora il difensore è obbligato a indicare anche il proprio indirizzo di posta elettronica certificata e il proprio numero di fax. E se non lo fa può scattare una indiretta sanzione pecuniaria.
Questo vale anche per il processo tributario e per quello amministrativo.
L'importo del contributo unificato nel processo amministrativo, infatti, è aumentato della metà se il difensore omette la comunicazione della posta elettronica certificata e del fax.
La legge precisa che l'onere del contributo grava sulla parte soccombente anche nel caso di compensazione giudiziale delle spese e anche nel caso in cui la stessa non si sia costituita in giudizio. Per il processo tributario l'aumento è previsto nel caso in cui il legale non indica il proprio indirizzo di posta elettronica certificata oppure qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale nel ricorso.
La sanzione per l'omissione formale non riguarda alcun elemento relativo al contributo unificato. Il contributo aumenta, ma per la violazione di un adempimento che è finalizzato a consentire, non il recupero del gettito del contributo unificato stesso, ma una cosa del tutto diversa: si vuole realizzare di un sistema di comunicazione meno oneroso per gli uffici giudiziari. L'aumento del contributo unificato è il prezzo che i legali distratti saranno chiamati a pagare perché il servizio giustizia possa spendere di meno inviando comunicazioni telematiche e con fax (anziché con ufficiale giudiziario o con il servizio postale).
Il meccanismo di calcolo della sanzione (50% del contributo unificato) implica che una stessa violazione (omessa indicazione della Pec e del fax) può essere punita diversamente: con euro 18,50 (metà del contributo dovuto per lo scaglione più basso di valore della lite) o con 733 euro (scaglione più alto) o ancora con 2 mila euro (metà del contributo per i processi sugli appalti).
Il contributo unificato è dovuto dalla parte, che però può rivalersi sul proprio legale.
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MANOVRA BIS/ Ricorsi sugli appalti al raddoppio.
Per impugnare un appalto si deve versare il contributo unificato di 4 mila euro. E questo vale per il ricorso principale, ma anche per i ricorsi incidentali e in caso di proposizione di motivi aggiuntivi che introducono nuove domande. Quindi se si impugna un appalto si pagano 4 mila euro e se poi bisogna presentare motivi aggiunti con una nuova domanda si deve ripetere il pagamento.
Sul contributo unificato il testo dell'articolo 13 del testo Unico delle spese di giustizia, risultante dalle manovre d'estate, prevede che per i ricorsi sugli appalti (articolo 119, comma 1, lettere a) e b) del codice del processo amministrativo, dlgs 104/2010), il contributo dovuto è di 4 mila euro. La cifra è stata raddoppiata, rispetto all'originario importo di 2000 euro.
Anche le pubbliche amministrazioni dovranno fare molta attenzione al contenzioso. Una eventuale soccombenza comporterà per l'ente pubblico o comunque per la stazione appaltante il rischi di un potenziale rimborso di somme molto alte: anche il solo rimborso del contributo unificato può raggiungere cifre salate: si pensi al rimborso del contributo pagato per il ricorso e per un successivo atto di motivi aggiunti e la restituzione tocca già 8 mila euro. Ma è l'intero settore dei processi amministrativi che è stato rivisitato.
Grazie a una disposizione del decreto 138/2011 viene elevato da 450 a 600 euro l'importo del contributo unificato per i processi amministrativi di valore indeterminabile (articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2011).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Malattia, è giunta l'ora dell'online. Il datore non può più chiedere le certificazioni su carta. Termina il periodo transitorio. Dal 13 settembre le informazioni mediche disponibili sul sito Inps.
Al via la nuova disciplina sulle certificazioni mediche di malattia dei dipendenti pubblici e privati. A partire dal 13 settembre anche nel settore privato diventeranno definitivamente operative la gestione telematica (online) tra datori di lavoro e medici sullo scambio dei certificati medici dei lavoratori ammalati.
Da tale data, pertanto, anche il datore di lavoro privato (come già succede nel settore pubblico) non potrà più richiedere al lavoratore l'invio della copia cartacea dell'attestazione di malattia ma potrà/dovrà prendere visione avvalendosi dei servizi resi disponibili dall'Inps. Resta ferma per il datore di lavoro del settore privato la possibilità di chiedere ai propri dipendenti di comunicare il numero di protocollo identificativo del certificato inviato online dal medico. L'ok decisivo all'entrata a regime del sistema telematico è arrivato dal Comitato tecnico di monitoraggio, nella riunione dello scorso 2 settembre.
Stop alla carta. È dal 3 aprile dell'anno scorso che i medici dipendenti del sistema sanitario nazionale in regime di convenzione sono tenuti a trasmettere all'Inps, per il tramite del Sac (Sistema di accoglienza centrale), i certificati di malattia dei lavoratori rilasciandone copia cartacea agli interessati. Il certificato così trasmesso viene ricevuto dall'Inps che lo mette a disposizione del lavoratore, sul proprio sito internet (indirizzo www.inps.it) previa identificazione con pin, nonché (sempre su internet) al datore di lavoro, pubblico o privato.
Nel settore pubblico la telematizzazione delle certificazioni mediche ha avuto effetti più immediati; nel settore privato, invece, è stato vigente un periodo transitorio.
Infatti, il collegato lavoro ha posto l'estensione della disciplina pubblica al settore privato dall'01.01.2010; ma la legge n. 183/2010 è entrata in vigore il 24 novembre che rappresenta la data a partire dalla quale deve ritenersi uniformato il regime legale del rilascio e della trasmissione dei certificati di malattia per tutti i dipendenti, sia pubblici che privati. Con circolare ministeriale congiunta (funzione pubblica/lavoro) è stato previsto uno speciale regime transitorio per i datori di lavoro privati consentendo, per tre mesi successivi «alla data di pubblicazione» della stessa circolare, la possibilità di continuare a far valere le vecchie regole. Dunque, l'entrata a regime delle nuove regole scatta dal 13 settembre.
Niente più comunicazioni all'Inps. Prima dell'entrata in vigore della procedura telematica, i lavoratori che si ammalavano erano tenuti a due obblighi fondamentali (oltre a quello di avvisare l'azienda dell'assenza):
a) far pervenire una copia del certificato medico all'Inps, entro due giorni;
b) far pervenire una copia del certificato medico al proprio datore di lavoro, entro due giorni.
Entrambi gli adempimenti risultano modificati dalla legge n. 311/2004 che ha previsto la procedura telematica. In sostanza, i lavoratori dipendenti non hanno più l'obbligo di trasmettere una copia del certificato all'Inps (primo adempimento) e, dal 13 settembre, non devono nemmeno più consegnare al datore di lavoro (che non può più pretenderlo) una copia cartacea dell'attestazione di malattia.
La novità non fa venir meno il diritto delle aziende alle relative informazioni; ma i datori di lavoro dovranno prendere visione avvalendosi dei servizi telematici resi disponibili dall'Inps (in pratica possono decidere di prendere visione delle attestazioni di malattia dei propri dipendenti sul sito internet oppure di riceverle tramite posta elettronica). Rimane invece riconosciuta, per il datore di lavoro del settore privato, la possibilità di richiedere ai propri dipendenti di comunicare il numero di protocollo identificativo del certificato inviato online dal medico.
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Un sms per comunicare il protocollo.
La nuova disciplina sulle certificazioni di malattia implica l'aggiornamento delle regole contrattuali fra aziende e lavoratori attualmente previste dai vigenti contratti collettivi di lavoro. Ma l'operazione potrà avvenire soltanto in sede di rinnovo dei contratti. Pertanto, in vista dell'entrata a regime della nuova disciplina, alcune confederazioni di imprese hanno siglato con i sindacati accordi quadri al fine di coordinare le nuove regole con le discipline dei ccnl mediante disposizioni specifiche che resteranno operative fino a quando non saranno stati i singoli ccnl ad armonizzare le nuove modalità. È il caso, per esempio, di Confindustria, Confapi, Cgil, Cisl e Uil.
In pratica, dal 13 settembre il medico non potrà più rilasciare al lavoratore il certificato di malattia in forma cartacea (è la novità principale del nuovo sistema), che viene sostituito da un «numero identificativo» (il protocollo) che il medico è obbligato a consegnare al lavoratore. I recenti accordi stabiliscono che il lavoratore è tenuto a comunicare questo numero alla propria azienda entro i termini fissati dai vigenti ccnl per l'invio della certificazione di malattia su carta (praticamente c'è lo scambio tra certificato e numero), potendo utilizzare i mezzi tecnologici quali, per esempio, e-mail o sms.
L'obbligo di comunicazione del numero identificativo scatta in presenza di espressa richiesta da parte dell'azienda; se manca invece il lavoratore può astenersi. Resta fermo infine l'obbligo del lavoratore di comunicare tempestivamente al suo datore di lavoro l'assenza per malattia ed ogni eventuale variazione d'indirizzo per consentire la visita fiscale.
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Il cervellone si chiama Sac.
La procedura telematica gestita dall'Inps funziona in questo modo. Il medico curante, attraverso il collegamento internet, trasmette all'Inps le informazioni relative alla certificazione di malattia che ha rilasciato a un lavoratore, accedendo al Sistema di accoglienza centrale (Sac) del ministero dell'economia.
Le certificazioni telematiche si compongono di: a) un attestato di malattia per il datore di lavoro, privo di diagnosi; b) un certificato di malattia per l'assistito (cioè il lavoratore) con i dati della diagnosi e/o il codice nosologico. Completato l'invio, il Sac restituisce al medico un numero di protocollo attribuito all'operazione (al certificato); il medico procede, se possibile, alla stampa del certificato e dell'attestato da consegnare, entrambi, al lavoratore.
Se si trova impossibilitato ad effettuare la stampa della certificazione, il medico è tenuto soltanto a comunicare al lavoratore il numero di protocollo della certificazione affinché successivamente il lavoratore possa recuperare copia della certificazione su internet. L'Inps, ricevuto il certificato dal Sac, mette il relativo attestato di malattia a disposizione del datore di lavoro (privato e pubblico) sul proprio portale web.
Lo stesso fa anche per il lavoratore, il quale può accedere sempre dal sito web dell'Inps ai dati di tutti i certificati a lui intestati (accesso tramite codice Pin) o al singolo attestato di malattia (attraverso l'inserimento del codice fiscale personale e del numero identificativo del certificato). Imprese e lavoratori, inoltre, possono registrarsi all'Inps per ottenere una copia delle certificazioni mediche via Pec (Posta elettronica certificata) (articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2011).

VARI: Interventi edilizi in agrodolce. Detrazioni fiscali semplificate ma i tagli sono anticipati. Effetto congiunto di decreto sviluppo e manovra-bis. Al varo anche l'istituzione dell'Imu.
Settembre è il mese caldo dei lavori di ristrutturazione e ammodernamento per abitazioni ed edifici. Sia perché si effettuano quegli interventi, in programma da tempo, che si è preferito rimandare al rientro in città dopo le vacanze. Sia perché si devono ultimare entro fine anno tutte le pratiche burocratiche relative alle detrazioni fiscali da iscrivere nella dichiarazione dei redditi.
Nel corso dell'estate tuttavia si sono susseguite diverse novità normative e giurisprudenziali sui lavori domestici che riguardano sia le modalità di fruizione degli incentivi sia le procedure per la loro richiesta, che meritano di essere approfondite. Non ultimo il decreto correttivo –attualmente in fase di preparazione– sull'avvio dell'Imu (l'Imposta municipale unica), destinata a sostituire (riformandola) l'Ici. Ma vediamo nel dettaglio le principali novità e come attrezzarsi al meglio per cogliere tutte le opportunità.
Le detrazioni fiscali diventano più semplici. Il decreto legge 70/2011 (il cosiddetto decreto sviluppo) stabilisce che per usufruire dell'agevolazione relativa alle ristrutturazioni edilizie (bonus 36%) non è più necessaria la comunicazione preventiva dei lavori al Centro operativo di Pescara dell'Agenzia delle entrate. Occorre solo l'indicazione nella dichiarazione dei redditi. Il decreto inoltre elimina l'onere di indicare nelle fatture il costo della manodopera impiegata.
La nuova norma non si applica ai lavori iniziati e alle fatture emesse prima del 14.05.2011, data in cui è entrato in vigore l'articolo 7, comma 2, lettere r) e q), del decreto sviluppo. In riferimento poi all'indicazione del costo della manodopera in fattura, le Entrate hanno stabilito che la semplificazione viene applicata a tutte le fatture emesse a partire dal 14.05.2011. Anche nel caso in cui si riferiscano a lavori o interventi conclusi in data anteriore.
Per quel che invece concerne le comunicazioni dei lavori a cavallo d'anno da effettuare annualmente entro il 31 marzo, le Entrate hanno confermato che questa comunicazione non va inviata se i pagamenti sono effettuati interamente nell'anno della fine dei lavori. Nessuna comunicazione è dovuta anche nel caso in cui i lavori sono iniziati e terminati nello stesso anno e i pagamenti sono tutti effettuati nell'anno successivo.
L'Agenzia ha anche precisato che per gli interventi di riqualificazione globale degli edifici esistenti e per l'installazione di cappotti verticali o orizzontali è necessario acquisire la certificazione energetica dell'edificio, così come individuata ai sensi dell'articolo 6 del decreto legislativo n. 192/2005, dalla regione o dall'ente locale ovvero a livello nazionale. Ad esempio, in Lombardia i certificatori seguiranno la disciplina regionale, mentre in Veneto applicheranno quella nazionale.
Ridotta la ritenuta d'acconto sui bonifici. Un'ulteriore semplificazione è stata introdotta dall'art.23, comma 8 del decreto legge 98/2011. In questo caso si tratta di una riduzione dal 10 al 4% della ritenuta a titolo d'acconto trattenuta da banche e poste sui bonifici effettuati a favore dei soggetti esecutori dei lavori di ristrutturazione e risparmio energetico.
Banche e poste, quindi, applicheranno all'importo netto, scorporato dell'Iva al 20%, la ritenuta a titolo d'acconto del 4% se il beneficiario della detrazione è un soggetto privato. Nessuna ritenuta invece sarà applicata se il soggetto beneficiario è un'impresa. In quest'ultimo caso, infatti, per usufruire del beneficio non è obbligatorio il pagamento a mezzo bonifico.
Anticipati di un anno i tagli per le detrazioni fiscali. L'anticipo di un anno dei tagli alle detrazione fiscali è al centro della manovra bis (decreto legge n. 138 del 13.08.2011) in discussione in Parlamento per la conversione in legge. La manovra correttiva di luglio (legge 111/2011) aveva stabilito tagli lineari del 5% per il 2013 e del 20% dal 2014 per tutte le detrazioni fiscali vigenti in Italia, tra le quali anche le detrazioni Irpef del 36% per le ristrutturazioni edilizie. Ma l'ultima manovra economica ha modificato il comma 1, art. 40 della legge 111/2011, anticipando al 2012 i tagli del 5% e al 2013 quelli del 20%.
La Finanziaria di luglio non prevedeva inoltre l'attuazione di questi tagli nell'ipotesi in cui entro il 30.09.2013 si fossero applicati dei provvedimenti legislativi in materia di riforma fiscale e assistenziale, in grado di generare un risparmio per lo Stato non inferiore a 4 miliardi di euro per il 2013 (ora 2012) e di 20 miliardi di euro per il 2014 (ora 2013). Con la manovra bis il termine per il varo della riforma fiscale, che potrebbe salvare alcune detrazioni dai tagli, viene anticipato al 30.09.2012. I tagli anticipati andrebbero a colpire la detrazione fiscale del 36% sulle ristrutturazioni, che –se non ulteriormente prorogata– dovrebbe restare in vigore fino al 31.12.2012, mentre non riguarderebbe il bonus del 55% sulle riqualificazioni energetiche, in scadenza il 31 dicembre di quest'anno e la cui eventuale proroga non è sicura.
Non è chiaro, inoltre, se i tagli avranno effetto retroattivo per le quote di lavori già effettuati negli anni precedenti. Un'altra agevolazione sulla casa che potrebbe subire i tagli anticipati è la cedolare secca, appena introdotta. L'imposta sostitutiva sui canoni di locazione per gli immobili a uso abitativo è stata introdotta dal recente decreto sul federalismo fiscale municipale e prevede per i proprietari il pagamento di un'aliquota del 21%. Ma la percentuale dovrebbe aumentare prima al 22% nel 2012 e quindi al 25% a partire dal 2013.
Imu potenziata e anticipata al 2012. È infine in preparazione il decreto correttivo che dovrebbe anticipare l'istituzione dell'Imu a gennaio 2012 invece che al 2014, come previsto nel decreto sul federalismo fiscale. La tassa, che sostituirà l'Ici, comprenderà l'attuale Tarsu/Tia (tassa sulla spazzatura) e colpirà anche le prime case, ma solo per la parte relativa allo smaltimento dei rifiuti. Secondo alcuni calcoli, con l'Imu e l'aumento dell'Irpef locale ogni famiglia potrebbe pagare in media 1000 euro in più all'anno.
Con il federalismo municipale, infatti, già dal 2011 è possibile per i comuni aumentare l'aliquota Irpef fino allo 0,8% nel 2012. Un altro aumento può arrivare dalle regioni, dato che nel 2012 e 2013 l'addizionale può salire fino all'1,4% e dal 2014 fino al 2%. Peggio ancora nel 2015, quando potrà arrivare fino al 3% (articolo ItaliaOggi Sette del 12.09.2011).

PUBBLICO IMPIEGOUn freno per chi resta al lavoro. Sul «trattenimento» silenzio-diniego della Pa al dipendente.
LIBERA SCELTA - Confermata anche la possibilità di risoluzione unilaterale anticipata verso chi ha raggiunto 40 anni di anzianità contributiva.

La manovra di Ferragosto è intervenuta su due importanti istituti che attengono al collocamento a riposo dei lavoratori pubblici e che possono essere utilizzati discrezionalmente dalla Pa: il trattenimento in servizio del dipendente in età compresa tra i 65 e i 67 anni (articolo 16 del Dlgs 503/1992) e la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro a decorrere dal compimento dell'anzianità massima contributiva di 40 anni (articolo 72, comma 11 del 112/2008).
La disciplina di questi due istituti evidenzia un potere organizzativo e gestionale della Pa di realizzare politiche che incidono sul numero di personale in servizio e sembra andare in controtendenza rispetto a tutti gli interventi del legislatore volti ad ampliare la permanenza in attività lavorativa. Sul trattenimento in servizio dai 65 ai 67 anni (ora regolato dall'articolo 1, comma 17, del Dl 138/2011) era già intervenuto il Dl 112/2008, che aveva reso discrezionale l'accoglimento da parte della Pa della richiesta presentata dal lavoratore, accoglimento che era prima obbligatorio.
La manovra di agosto rafforza il potere datoriale in quanto tramuta la domanda di trattenimento presentata dal lavoratore in mera dichiarazione di disponibilità a essere trattenuto. A fronte di questa dichiarazione l'amministrazione ha facoltà, sulla base delle proprie esigenze organizzative e funzionali, di trattenere in servizio il dipendente, tenuto conto della particolare esperienza professionale acquisita in determinati o specifici ambiti e in funzione dell'efficiente andamento dei servizi.
La nuova formulazione letterale voluta dalla manovra di Ferragosto, modificando la richiesta del lavoratore in mera dichiarazione, non obbliga l'amministrazione a dare un riscontro alla sua richiesta se non intende trattenere in servizio il dipendente: in sostanza, si esprimerà soltanto laddove intenda avvalersi della sua disponibilità e vorrà trattenerlo. È utile ricordare che il Dl 78/2010 (articolo 9, comma 31) prevede che questi trattenimenti in servizio possono essere disposti esclusivamente nell'ambito delle facoltà assunzionali consentite dalla legislazione tenendo conto delle cessazioni del personale, destinando le risorse finanziarie necessarie alla stessa stregua di una nuova assunzione.
La Pa, di fronte alla disponibilità di un dipendente a essere trattenuto dai 65 ai 67 anni, ha la facoltà di decidere se avvalersi di una professionalità esperta e consolidata oppure di assumere un giovane disoccupato. Va sottolineato che, qualora l'amministrazione volesse trattenere il dipendente, dovrebbe finanziare un'assunzione per due anni, mentre se destinasse il finanziamento a una nuova assunzione potrebbe avvalersene, normalmente, per la vita lavorativa del nuovo assunto.
Inoltre, per chi matura il diritto al pensionamento di vecchiaia è prevista già la cosiddetta finestra mobile (articolo 12 del Dl 78/2010). Per come è regolata la materia, l'istituto del trattenimento non appare una scelta molto conveniente, data l'onerosità, e come ratio non è in linea con le disposizioni che tendono ad adeguare i requisiti di accesso al trattamento pensionistico agli incrementi della speranza di vita.
Analogo discorso,sotto quest'aspetto, si può fare per il secondo istituto, quello della risoluzione unilaterale anticipata dal rapporto di lavoro e dal contratto individuale con il personale che ha raggiunto l'anzianità massima contributiva di 40 anni, salvo il preavviso di sei mesi, a prescindere dall'età del lavoratore. Questo istituto era previsto per il triennio 2009-2011 e la manovra di agosto lo ripropone anche per il prossimo triennio 2012-2014 (articolo 1, comma 16, del Dl 138/2011).
È espressione di un forte potere datoriale e il legislatore si è preoccupato di precisare questa natura disponendo che non necessita di ulteriore motivazione laddove l'amministrazione abbia preventivamente determinato in via generale appositi criteri applicativi con atto di organizzazione interna, sottoposto agli organi di controllo competenti (articolo 16, comma 11, del Dl 98/2011). Anche in questo caso si applica la finestra mobile che fa slittare il collocamento a riposo.
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Punto per punto
01 | IL TRATTENIMENTO
In base all'articolo 1, comma 17, del decreto legge 138/2011, la pubblica amministrazione di appartenenza è tenuta a rispondere al dipendente che comunica la propria disponibilità a essere trattenuto in servizio nel periodo intercorrente fra i 65 e i 67 anni di età solamente nel caso in cui intenda avvalersi di tale disponibilità.
In caso di mancata risposta, pertanto, il dipendente non potrà essere trattenuto in servizio.
02 | IN ANTICIPO
In base all'articolo 1, comma 16, del decreto legge 138/2011, anche per il triennio 2012-2014 la pubblica amministrazione potrà optare per la risoluzione unilaterale anticipata del rapporto con il personale che ha raggiunto l'anzianità massima contributiva di 40 anni, salvo il preavviso di sei mesi, a prescindere dall'età del dipendente.
03 | LA MOBILITÀ
Secondo l'articolo 1, comma 29, del decreto legge 138/2011, «i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, esclusi i magistrati, su richiesta del datore di lavoro, sono tenuti a effettuare la prestazione in luogo di lavoro e sede diversi sulla base di motivate esigenze, tecniche, organizzative e produttive con riferimento ai piani della performance o ai piani di razionalizzazione, secondo criteri e ambiti regolati dalla contrattazione collettiva di comparto...» (articolo Il Sole 24 Ore del 12.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il comune paga i danni per il dosso non segnalato. Responsabilità anche se l'opera è realizzata da privati.
Il comune è responsabile dei danni riportati dal pedone che inciampa su un dosso non segnalato, anche se l'opera è stata compiuta da privati a sua insaputa.
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15389/2011.
La suprema Corte ha accolto il ricorso di un pedone che aveva riportato lesioni cadendo per la strada a causa della presenza di un dosso posizionato per rallentare la velocità delle auto. I giudici di merito avevano respinto ... (articolo Il Sole 24 Ore del 12.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: Dall’omissione della stazione appaltante di un elemento obbligatorio del disciplinare di gara non consegue l’esclusione del concorrente che non abbia formulato la dichiarazione prevista dalla legge.
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Sebbene l'allegazione di un documento di identità ad una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà non costituisca un vuoto formalismo, rappresentando un fondamentale elemento della fattispecie normativa diretta a comprovare, oltre alle generalità del dichiarante, l'imprescindibile nesso di imputabilità soggettiva della dichiarazione a una determinata persona fisica, è stato tuttavia osservato che detta prescrizione, pure essenziale, di carattere formale deve essere applicata verificando se nel contesto dei singoli casi lo scopo della normativa non sia comunque raggiunto, evitando interpretazioni che in concreto possano risultare di sproporzionato e perciò inutile rigore, venendo con ciò a ledere, per converso, l'altresì rilevante principio della massima partecipazione alle procedure competitive.

Quanto alla dedotta mancata dichiarazione di insussistenza delle cause ostative di cui alla lettera m)-ter, dell’art. 38 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, deve evidenziarsi che, indipendentemente da ogni questione in ordine alla dedotta assoluta vincolatività del modello di domanda (che non prevedeva la dichiarazioni in questione e che, d’altra parte, secondo la stazione appaltante appellata, doveva essere utilizzato a pena di esclusione, costituendo un completamento della lex specialis, neppure impugnata), se è pur vero, come sostenuto dall’appellante, che qualora la stazione appaltante ometta di inserire nella disciplina di gara un elemento previsto come obbligatorio dall'ordinamento giuridico, soccorre il meccanismo di integrazione automatica, analogamente a quanto avviene nel diritto civile ai sensi degli artt. 1374 e 1339 c.c., colmandosi in via suppletiva le eventuali lacune del provvedimento adottato dalla p.a., a ciò tuttavia non consegue in modo diretto ed automatico l’esclusione dalla gara del concorrente che, come nel caso di specie, non abbia formulato la dichiarazione espressamente prevista dalla legge, dovendo tenersi conto che, non solo fondamentali esigenze di certezza del diritto e tutela della par condicio dei concorrenti impediscono all'amministrazione di disattendere i precetti fissati nella normativa di gara dalla stessa formulata, ma soprattutto del principio di affidamento (formalmente elevato al rango di principio generale dell'azione amministrativa dall'art. 1, comma 1, della legge 07.08.1990, n. 241) che impedisce che sul cittadino possano ricadere gli errori dell'amministrazione (in termini, C.d.S., Sezione VI, 13.06.2008, n. 2959).
Di conseguenza, a tutto voler concedere, i componenti avrebbe dovuto essere invitati a integrare il requisito mancante non per loro colpa, ma per omissioni e lacune della lex specialis della gara addebitabili all’amministrazione pubblica; peraltro, come già rilevato in precedenza e come evidenziato dai primi giudici, non è stato provato dall’appellante che in capo ai componenti del R.T.I. aggiudicatario sussistessero le cause ostative indicate nella più volte ricordata lett. m-ter), dell’articolo 38 del D. Lgs. 12.04.2006, n. 163, così che anche sotto tale profilo la prospettata sanzione di esclusione che avrebbe dovuto ricollegarsi a tale omissione è da ritenersi illogica, irragionevole ed esorbitante.
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Quanto infine all’allegazione di un documento di identità scaduto alla dichiarazione resa da uno dei soggetti rilevanti (tale sig. David Selby), la Sezione osserva che, sebbene detta allegazione non costituisca un vuoto formalismo, rappresentando un fondamentale elemento della fattispecie normativa diretta a comprovare, oltre alle generalità del dichiarante, l'imprescindibile nesso di imputabilità soggettiva della dichiarazione a una determinata persona fisica (C.d.S., sez. V, 21.05.2009, n. 3165; 07.11.2007, n. 5761), è stato tuttavia osservato che detta prescrizione, pure essenziale, di carattere formale deve essere applicata verificando se nel contesto dei singoli casi lo scopo della normativa non sia comunque raggiunto, evitando interpretazioni che in concreto possano risultare di sproporzionato e perciò inutile rigore, venendo con ciò a ledere, per converso, l'altresì rilevante principio della massima partecipazione alle procedure competitive (C.d.S, sez. VI, 22.10.2010, n. 7608).
Nel caso di specie, ad avviso della Sezione, è decisivo rilevare che il documento di identità, ancorché di validità scaduta, era stato effettivamente allegato alla dichiarazione e che l’appellante neppure nel presente grado di appello ha messo in dubbio la riferibilità della dichiarazione in questione al soggetto che l’ha resa, essendo stato così raggiunto il fine stabilito dalla norma; così che, a tutto voler concedere, l’amministrazione avrebbe potuto chiedere la produzione di un documento di identità valido, ma giammai escludere dalla gara il raggruppamento per effetto di tale irregolarità (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.09.2011 n. 5073 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIAl servizio di trasporto scolastico deve essere applicata la normativa sugli appalti.
La vicenda in commento nasce dalla delibera con cui il Consiglio di un Comune veneto disponeva di vendere il ramo d’azienda “Trasporto scolastico” di proprietà di una propria controllata (100%) a un’altra società.
Con “Protocollo d’Intesa” si conveniva fra le parti che “allo spirare del succitato termine fissato per l’affidamento del servizio, il Comune procederà all’esperimento di idonea procedura di gara, garantendo alla società acquirente. il diritto di prelazione …..laddove i presupposti normativi lo consentissero, si procederà in luogo dell’esperimento della procedura di gara come sopra prevista, all’affidamento diretto del servizio alla predetta società per almeno un quinquennio (se consentito), in conformità alle disposizioni allora vigenti, fermo restando il perseguimento dei summenzionati obbiettivi e standard qualitativi”.
Alla scadenza dell’affidamento diretto del servizio di scuolabus, la società acquirente faceva presente al Comune che allo spirare del termine stabilito lo stesso avrebbe dovuto, per effetto degli obblighi negoziali, provvedere all’affidamento del servizio di trasporto scolastico direttamente alla società partecipata per almeno un quinquennio. Sennonché il Comune rigettava l’istanza ad ottemperare perché “l’attuale disciplina di cui all’art. 23-bis del D.L. 112/2008, convertito in L. 133/2008, nel testo modificato dall’art. 15 del D.L. 135/2009, non consente siffatta procedura di affidamento diretto”, e per il motivo che “detto servizio correttamente deve essere inquadrato nella categoria degli appalti e non già in quella dei servizi di trasporto pubblico locale”.
La società acquirente proponeva, pertanto, ricorso al Tar per il Veneto, che lo respingeva dando luogo all’appello in rassegna. Il Consiglio di Stato, in proposito, ha rilevato senza indugio come la questione non sia sussumibile nella categoria della concessione di servizio pubblico (diversamente da quanto ritenuto dall’appellante), ma piuttosto in quella dell’appalto.
Al riguardo, infatti, la giurisprudenza dello stesso Consiglio ha già avuto modo di precisare che le concessioni, nel quadro del diritto comunitario, si distinguono dagli appalti non per il titolo provvedimentale dell’attività, né per il fatto che ci si trovi di fronte ad una vicenda di trasferimento di pubblici poteri o di ampliamento della sfera giuridica del privato, (che sarebbe un fenomeno tipico della concessione in una prospettiva coltivata da tradizionali orientamenti dottrinali), né per la loro natura autoritativa o provvedimentale rispetto alla natura contrattuale dell’appalto, ma per il fenomeno di traslazione dell’alea inerente una certa attività in capo al soggetto privato (cfr. Sez. VI 15.05.2002, n. 2634).
Quando l’operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, spiegano i giudici di Palazzo Spada, percependone il corrispettivo dall’utente mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone o tariffa, allora si ha concessione: è la modalità della remunerazione, quindi, il tratto distintivo della concessione dall’appalto di servizi. Così, si avrà concessione quando l’operatore si assuma in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull’utenza per mezzo della riscossione di un qualsiasi tipo di canone o tariffa, mentre si avrà appalto quando l’onere del servizio stesso venga a gravare sostanzialmente sull’amministrazione.
E tale assunto, è stato più volte confermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia CE, la quale ha ribadito che si è in presenza di una concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest’ultimo assuma il rischio legato alla gestione dei servizi in questione (Corte Giustizia CE, Sez. III, 15.10.2009, C-196/08), mentre in caso di assenza di trasferimento al prestatore del rischio legato alla prestazione, l’operazione rappresenta un appalto di servizi (Corte Giustizia CE, Sez. III, 10.09.2009, C-206/08).
A ciò aggiungasi che l’art. 23 del D.Lgs n. 163/2006 esclude l’applicabilità della normativa sugli appalti nel caso in cui oggetto della gara sia il servizio al pubblico di trasporto mediante autobus, e tale non può ragionevolmente essere inteso il servizio di trasporto scolastico.
Una cosa, infatti, è il servizio pubblico degli autobus, offerto ad un pubblico indifferenziato che vi accede liberamente mediante il semplice pagamento del biglietto, altra è il servizio di trasporto scolastico che, viceversa, è dedicato esclusivamente agli alunni degli istituti considerati e comporta, quindi, ben precise e limitate modalità di accesso (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.09.2011 n. 5068 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La sottoscrizione del “Patto d’integrità” può comportare l’incameramento della cauzione a favore della stazione appaltante.
Il ricorrente della controversia in rassegna aveva partecipato a una gara indetta da un Comune lombardo per i lavori di integrazione e completamento di un progetto di riqualificazione urbana.
Il bando disponeva che le concorrenti alla gara erano tenute, a pena di esclusione, a sottoscrivere ed a presentare, unitamente all’offerta, il “Patto d’integrità” per il tramite del quale si impegnavano, tra l’altro, “a non accordarsi con altri partecipanti alla gara per limitare in alcun modo la concorrenza”. Per questa ragione, il Comune, escludeva la società ricorrente, avendo rilevato elementi tali da far presumere forme di collegamento sostanziale in violazione a quanto previsto dal bando di gara e dal Patto d’integrità. Il Comune, inoltre, stante “la gravità degli indizi”, comunicava che avrebbe provveduto ad applicare l’ulteriore sanzione dell’escussione della polizza fideiussoria, in conformità al Patto d’integrità sottoscritto dai partecipanti della gara.
La ditta ricorrente, nella pronuncia in commento, appella pertanto tanto l’escussione della polizza fideiussoria, quando l’esclusione dalla gara non avendo ricevuto soddisfazione dal Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia. Respingendo l’appello i giudici del Consiglio di Stato ricordano che secondo l’insegnamento ormai consolidato della stessa sezione il Patto d’integrità configura un sistema di condizioni (o requisiti) la cui accettazione è presupposto necessario e condizionante la partecipazione delle imprese alla specifica gara di cui trattasi.
Con la sottoscrizione del Patto d’integrità, al momento della presentazione della domanda, l’impresa concorrente accetta regole del bando che rafforzano comportamenti già doverosi per coloro che sono ammessi a partecipare alla gara e che prevedono, in caso di violazione di tali doveri, sanzioni di carattere patrimoniale, oltre alla conseguenza, ordinaria a tutte le procedure concorsuali, della estromissione della gara.
L’incameramento della cauzione non ha quindi carattere di sanzione amministrativa, come tale riservata alla legge, ma costituisce la conseguenza dell’accettazione di regole e doveri comportamentali, accompagnati dalla previsione di una responsabilità patrimoniale, aggiuntiva alla esclusione dalla gara, assunti su base pattizia, rinvenendosi la loro fonte nel Patto d’integrità accettato dal concorrente con la sottoscrizione. Legittimamente, pertanto, secondo i giudici di Palazzo Spada, il Comune ha escusso la polizza fideiussoria prestata dall’appellante sul rilievo (in questa sede incontestato ed ormai incontestabile) della sussistenza di un collegamento sostanziale tra quest’ultima ed altra impresa partecipante alla gara, e quindi della violazione del Patto di integrità debitamente accettato e sottoscritto dall’appellante stessa.
Diversamente ritenendo, il Patto si risolverebbe in una generica enunciazione di obblighi quasi tutti privi di qualsiasi conseguenza in caso di loro inosservanza, in palese ed insanabile contrasto con le finalità perseguite dal Patto stesso (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.09.2011 n. 5066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIl diritto d’accesso dei consiglieri si estende all’ottenimento di una password mediante la quale accedere alla visione di un programma di contabilità.
I consiglieri comunali possono accedere a tutti gli atti (pure di tipo contabile) la cui conoscenza si riveli utile (art. 43, d.lgs. n. 267/2000) per un migliore espletamento del loro mandato elettorale (cfr. C.S., sezione V, dec. n. 5264/2007 e dec. n. 5020/2007), per cui, nel loro caso, il titolo all’accesso si configura come corredato da un’ulteriore connotazione rispetto a quello riconosciuto alla generalità dei cittadini, potendo esso legittimamente sostenersi sull’esigenza di assumere anche solo semplici informazioni non contenute in formali documenti o di natura riservata (fermo restando il vincolo del segreto al quale sono tenuti i consiglieri comunali), nel rispetto dell’orientamento condivisibilmente seguito dalla Commissione per l’accesso incardinata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (v. risoluzioni 03.02.2009 e 16.03.2010).
E tanto deve dirsi pure per l’ottenimento di una password mediante la quale accedere alla visione di un programma di contabilità: vantaggioso sistema che permette di non aggravare l’ordinaria attività amministrativa e che, nella specie, avrebbe potuto trarre giovamento dall’esperito e fruttuoso tentativo della Giannoccaro di ottenere dal competente centro assistenza clienti dell’A.P. System ogni informazione utile per poter configurare la semplice procedura necessaria per esercitare il discusso accesso in sola lettura (come desiderato dall’originaria ricorrente ed attuale appellante), sanzionato anche penalmente per il caso di eventuali tentativi truffaldini di manomissione dei dati.
Al che deve aggiungersi che il documento c’è (approvato ed esistente, sebbene caducato per omessa pubblicazione) e non viene meno per il fatto che sia di carattere informatico, come tale rientrante nell’ampia nozione di “documento”, nel senso più ampio del termine, senza eccezioni.
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Nella controversia in commento un consigliere di minoranza presso un comune pugliese aveva proposto istanza per avere copia della password di accesso al sistema informatico dell’ente locale concernente il programma di contabilità, impugnando poi, dinanzi al Tar di Bari, il silenzio-rigetto formatosi su detta domanda per l’inutile decorso dei trenta giorni.
I giudici del Tribunale amministrativo di Bari respingevano il ricorso così che l’appellante, riproponendo le stesse censure già dedotte in prima istanza, deduceva l’errore di giudizio commesso nella pronuncia contestata, richiedendo l’intervento dell’impresa autrice del programma informatico-contabile usato dal Comune, per dimostrare l’assenza di un pericolo d’indebita quanto occultata alterazione dei dati eventualmente riscontrati da chi vi acceda.
L’ente intimato si costituiva in giudizio ed eccepiva l’impossibilità di evadere le numerosissime richieste di accesso, in pochi mesi formulate dal consigliere senza alcuna considerazione per le limitate risorse operative comunali e l’esigenza di non appesantirne eccessivamente la funzionalità, in relazione ad un sistema informatico adoperabile solo per necessità operative e non semplicemente informative, nonché privo di un (benché applicabile -per quanto non agevolmente- ma non applicato) profilo di sola lettura, contrariamente alle sommarie informazioni (tardivamente dedotte a titolo di censura d’appello), asseritamente ottenute dalla ditta interpellata.
Considerando l’appello fondato i giudici del Consiglio di Stato ricordano che i consiglieri comunali possono accedere a tutti gli atti (pure di tipo contabile) la cui conoscenza si riveli utile (art. 43, d.lgs. n. 267/2000) per un migliore espletamento del loro mandato elettorale (cfr. C.S., sezione V, dec. n. 5264/2007 e dec. n. 5020/2007), per cui, nel loro caso, il titolo all’accesso si configura come corredato da un’ulteriore connotazione rispetto a quello riconosciuto alla generalità dei cittadini, potendo esso legittimamente sostenersi sull’esigenza di assumere anche solo semplici informazioni non contenute in formali documenti o di natura riservata (fermo restando il vincolo del segreto al quale sono tenuti i consiglieri comunali), nel rispetto dell’orientamento condivisibilmente seguito dalla Commissione per l’accesso incardinata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (v. risoluzioni 03.02.2009 e 16.03.2010).
E lo stesso deve dirsi, secondo i giudici di Palazzo Spada, pure per l’ottenimento di una password mediante la quale accedere alla visione di un programma di contabilità: vantaggioso sistema che permette di non aggravare l’ordinaria attività amministrativa e che, nella specie, avrebbe potuto trarre giovamento dall’esperito e fruttuoso tentativo del consigliere di ottenere dal competente centro assistenza clienti dell’impresa autrice del programma ogni informazione utile per poter configurare la semplice procedura necessaria per esercitare il discusso accesso in sola lettura (come desiderato dall’originaria ricorrente ed attuale appellante), sanzionato anche penalmente per il caso di eventuali tentativi truffaldini di manomissione dei dati
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.09.2011 n. 5058 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOgni procedimento avviato ad istanza di parte deve concludersi con un provvedimento esplicito adottato nei termini di legge (art. 2, legge n. 241/1990), per cui, ove la p.a. rimanga inerte, avverso il suo silenzio si potranno proporre le stesse doglianze deducibili contro l’atto che avrebbe dovuto essere emanato.
Ogni procedimento avviato ad istanza di parte deve concludersi con un provvedimento esplicito adottato nei termini di legge (art. 2, legge n. 241/1990), per cui, ove la p.a. rimanga inerte, avverso il suo silenzio si potranno proporre le stesse doglianze deducibili contro l’atto che avrebbe dovuto essere emanato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.09.2011 n. 5058 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Raggruppamento orizzontale e raggruppamento verticale – Nozione – Differenze – Art. 37 d.lgs. n. 163/2006.
Nel raggruppamento orizzontale, di cui all’art. 37, c. 2, d.lgs. n. 163/2006, ciascuna delle imprese riunite è responsabile nei confronti dell’amministrazione committente dell’intera prestazione: in tal caso la distribuzione del lavoro per ciascuna impresa non rileva all’esterno (C.d.S., sez. V, 28.03.2007, n. 1440; 24.04.2002, n. 2208; 04.11.1999, n. 1805); nel raggruppamento verticale, invece, un’impresa, ordinariamente capace per la prestazione prevalente, si associa ad altre imprese provviste della capacità per le prestazioni scorporabili (Cd.S., sez. V, 28.03.2007, n. 1440).
Mentre nel raggruppamento di tipo orizzontale, in cui tutte le imprese sono in possesso di un’identica specializzazione rispetto all’oggetto dell’appalto, la suddivisione delle prestazioni è quindi meramente quantitativa, nel raggruppamento di tipo verticale la suddivisione delle prestazioni tra le varie imprese è di carattere qualitativo; a tale distinzione corrisponde poi anche una diversa articolazione della responsabilità tra amministrazione appaltante e l’A.T.I., nel senso che mentre nell’associazione di tipo orizzontale tutti gli operatori economici sono solidalmente responsabili nei confronti dell’amministrazione appaltante per tutte le obbligazioni nascenti dal contratto di appalto, nell’associazione di tipo verticale la sola mandataria resta responsabile dell’intero appalto, mentre le mandanti sono responsabili solo per le attività scorporabili da esse prestate.
Appalti di lavori - A.T.I. mista – Nozione.
In tema di appalto di lavori, è ammessa anche la figura di A.T.I. mista, che ricorre allorquando, in presenza di un appalto complesso, le opere della categoria prevalente siano assunte, invece che dalla sola impresa capogruppo, da un’associazione orizzontale composta da essa con taluna delle imprese mandanti ovvero allorquando le opere scorporabili siano assunte in tutto o in parte orizzontalmente dalle imprese mandanti.
A.T.I. mista – Esecuzione della prestazione principale – Riserva alla sola mandataria – Individuazione della prestazione principale - Scelta discrezionale dell’amministrazione – Specifiche finalità dell’affidamento.
La pur ampia flessibilità che deve essere riconosciuta allo strumento del raggruppamento temporaneo di imprese, con particolare riferimento all’ipotesi di A.T.I. mista, non può giungere al travolgimento e alla sostanziale abrogazione della espressa norma che riserva alla sola mandataria, nel caso di appalto di forniture e servizi, l’esecuzione della prestazione principale: si tratta di una previsione che affida alla scelta discrezionale dell’amministrazione, in rapporto alle specifiche finalità che essa intende perseguire con l’affidamento all’esterno del servizio oggetto di gara, l’individuazione della prestazione principale che deve essere eseguita dalla mandataria, consentendole quindi un pregnante controllo sull’affidabilità della stessa e sulle conseguenti responsabilità per le obbligazioni derivanti dal contratto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.09.2011 n. 5051 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RUMORE – INQUINAMENTO ACUSTICO - Attività di fornaio - Superamento dei limiti di emissioni sonore - Esercizio di professione o mestiere rumoroso - Superamento dei limiti massimi o differenziali di rumore - Art. 659 cod. pen. – L. n. 447/1995 - Art. 9 L. n. 689/1981.
Nell'ipotesi di esercizio di professione o mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell'Autorità, la carica di lesività del bene giuridico protetto è individuabile nell'art. 659, comma secondo, cod. pen., sia nell'art. 10, comma secondo, della legge 26.10.1995 n. 447 (legge quadro sull'Inquinamento acustico), consistente nella quiete e tranquillità pubblica, è presunta "ope legis" ed è racchiusa, per intero, nel precetto della disposizione codicistica, che tuttavia cede, di fronte alla configurazione dello speciale illecito amministrativo previsto dall'art. 10 citato, qualora l'inquinamento acustico si concretizzi nel mero superamento dei limiti massimi o differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia (Cass. Sez. l, n. 23866 del 09/06/2009, dep. 10/06/2009, Valvassore).
La contravvenzione di cui al secondo comma dell'art. 659 c.p., dunque, a differenza di quella prevista dal primo comma, deve intendersi parzialmente depenalizzata, in forza del principio di specialità di cui all'art. 9 della legge n. 689 del 1981, laddove si accerti, come nella specie, la perfetta identità fattuale della violazione contestata ai sensi della menzionata norma del codice penale e di quella sanzionata solo in via amministrativa (superamento dei limiti di emissioni sonore), a norma dell'art. 10, comma 2, legge n. 447/1955, cit. (Cass. Sez. l, n. 44167 del 27/10/2009, dep. 18/11/2009, Fiumara).
RUMORE – INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone - Esercizio di professione o mestiere rumoroso - Autonome fattispecie contravvenzionali - Art. 659 cod. pen..
L'art. 659 cod. pen. prevede due autonome fattispecie contravvenzionali: il reato di cui al primo comma -disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone- richiede l'accertamento che i rumori superino la normale tollerabilità ed investano un numero indeterminato di persone, disturbando le loro occupazioni o il riposo; mentre quello previsto dal secondo comma -esercizio di professione o mestiere rumoroso- prescinde dalla verificazione del disturbo, essendo tale evento presunto "iuris et de iure" ogni volta che l'esercizio del mestiere rumoroso si verifichi fuori dal limiti di tempo, di spazio e di modo imposti dalla legge, dai regolamenti o da altri provvedimenti adottati dalle competenti autorità (Cass., Sez. 1, n. 532 del 28/09/1994, dep. 20/01/1995, Amato; Cass. Sez. 1, n. 4820 del 17/12/1998, dep. 16/04/1999, Marinelli) (Corte di Cassazione, Sez. I penale, sentenza 05.09.2011 n. 33072 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Al fine di rendere rilevanti le mansioni superiori adempiute da un pubblico dipendente, non è invocabile l'art. 2126, c.c., il quale, oltre a non dare rilievo alle mansioni svolte in difformità dal titolo invalido, riguarda il fenomeno del tutto diverso (lo svolgimento di attività lavorativa da parte di chi non sia qualificabile come pubblico dipendente) ed afferma il principio della retribuibilità del lavoro prestato sulla base di un atto nullo o annullato. Esso, pertanto, non incide in alcun modo sui principi concernenti la portata dei provvedimenti che individuano il trattamento giuridico ed economico dei dipendenti pubblici e non consente di disapplicare gli atti di nomina o di inquadramento emanati in conformità a leggi e regolamenti.
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Le funzioni di cancelliere dell'ufficio di conciliazione del dipendente pubblico non giustificano inquadramenti automatici in qualifiche superiori.
La giurisprudenza (cfr. C.S., Ad. pl., dec. n. 22/1999) ha chiarito che, al fine di rendere rilevanti le mansioni superiori adempiute da un pubblico dipendente, non è invocabile l'art. 2126, c.c., il quale, oltre a non dare rilievo alle mansioni svolte in difformità dal titolo invalido, riguarda il fenomeno del tutto diverso (lo svolgimento di attività lavorativa da parte di chi non sia qualificabile come pubblico dipendente) ed afferma il principio della retribuibilità del lavoro prestato sulla base di un atto nullo o annullato. Esso, pertanto, non incide in alcun modo sui principi concernenti la portata dei provvedimenti che individuano il trattamento giuridico ed economico dei dipendenti pubblici e non consente di disapplicare gli atti di nomina o di inquadramento emanati in conformità a leggi e regolamenti.
Inoltre, è da tempo pacifico, nella giurisprudenza amministrativa, il carattere supplementare ed integrativo dell'art. 2103, c.c., come sostituito dall'art. 13, legge 20.05.1970 n. 300 (c.d. statuto dei lavoratori), per quanto riguarda l'obbligo di adeguare il trattamento economico alle mansioni esercitate (cfr. C.S., sez. V, dec. n. 274/1989), sicché tale norma può essere applicata soltanto nei limiti previsti da norme speciali (cfr. C.S., sez. IV, n. 113/2006).
È stato anche rilevato che la pretesa al riconoscimento di mansioni superiori non può trovare diretto fondamento nell'art. 36, Cost., che sancisce il principio di corrispondenza della retribuzione alla qualità ed alla quantità del lavoro prestato, non potendo la norma trovare incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo in detto ambito altri principi di pari rilevanza costituzionale (cfr. C.S. Ad. pl., dec. n. 22/1999, cit.; sez. V, dec. n. 1722/2007 e dec. n. 4236/2010).
Va anche richiamata la giurisprudenza che, in fattispecie analoghe a quella in esame, ha affermato che, in applicazione del principio d’irrilevanza delle mansioni espletate di fatto, ai fini dell'inquadramento di un pubblico dipendente, le funzioni di cancelliere dell'ufficio di conciliazione, conferite dal presidente del tribunale ad un operatore amministrativo dipendente comunale, non costituiscono un incarico formale, non interagiscono sulla posizione di lavoro già assegnata all'impiegato in seno all'organizzazione burocratica dell'ente e non danno titolo all'attribuzione di una qualifica funzionale superiore a quella rivestita, a ciò non ostando l'art. 34, d.P.R. 03.08.1990 n. 333, che ascrive alla VII qualifica funzionale la figura professionale del cancelliere, ma che può tornare utile solo se, nell'organizzazione dell'ente, esista già la formale istituzione di siffatta posizione di lavoro, non mai per giustificare inquadramenti automatici in qualifiche superiori (cfr. C.S., sez. V, dec. 06.02.2001 n. 476).
Anche volendo limitare la pretesa al mero inquadramento economico, si osserva che il citato art. 34 non consentiva neanche tale riconoscimento e la domanda diretta ad ottenere l'accertamento del diritto a percepire la pretesa retribuzione, consistente nelle differenze retributive corrispondenti alle superiori mansioni svolte, poteva essere accolta solo in presenza di una norma speciale, legittimante tale assegnazione e la connessa maggiorazione retributiva, senza che potesse assumere un rilievo diretto l'art. 36, Cost. (cfr. C.S., Ad. pl., dec. 18.11.1999 n. 22, sopra cit.). Nel caso di specie, mancava una norma speciale contemplante il diritto ad ottenere le differenze retributive, con correlativa infondatezza dell'invocata pretesa diretta a percepire il superiore trattamento economico (cfr. C.S., sez. V, dec. n. 5696/2010) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2011 n. 4986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Non sussiste contraddittorietà tra gli atti del procedimento quando i provvedimenti, pur riguardanti lo stesso oggetto, siano adottati all'esito di procedimenti indipendenti.
La contraddittorietà tra gli atti del procedimento, figura sintomatica dell'eccesso di potere, si può rinvenire solo allorquando sussista tra più atti successivi un contrasto inconciliabile tale da far sorgere dubbi su quale sia l'effettiva volontà dell'amministrazione (Consiglio Stato, sez. IV, 06.07.2004, n. 5013), mentre non sussiste quando si tratti di provvedimenti che, pur riguardanti lo stesso oggetto, siano adottati all'esito di procedimenti indipendenti
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2011 n. 4982 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore dell'art. 12, comma 2, della l. n. 47/1985, che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità del manufatto, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione della intera stabilità del manufatto.
L’applicazione della sanzione pecuniaria consentita dall’art. 12 della l. n. 47/1985 non ha valenza ripristinatoria dell’assetto edilizio violato: la norma è, quindi, derogatoria rispetto alla normativa generale al riguardo, con la conseguenza che deve essere interpretata in maniera restrittiva.
Pertanto, il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore dell'art. 12, comma 2, della l. n. 47/1985, che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità del manufatto (Consiglio Stato, sez. V, 12.11.1999, n. 1876), perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione della intera stabilità del manufatto
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2011 n. 4982 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’interpretazione del bando di gara soggiace alle stesse regole dettate dal codice civile per l’interpretazione dei contratti.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’interpretazione degli atti amministrativi (ivi compreso il bando di gara) soggiace alle stesse regole dettate dall’art. 1362 e ss. c.c. per l’interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale (in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo), dovendo in ogni caso il giudice ricostruire l’intento dell’amministrazione ed il potere che essa ha inteso esercitare in base al contenuto complessivo dell’atto e tenendo conto del rapporto tra le premesse ed il suo dispositivo (C.d.S., sez. V, 09.11.2010, n. 7966; 16.06.2009, n. 3880); occorre poi aggiungere, per un verso, che secondo il criterio di interpretazione di buona fede (ex art. 1366 c.c.) gli effetti degli atti amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere, anche in ragione del principio costituzionale di buon andamento che impone alla P.A. di operare in modo chiaro e lineare, in modo da fornire ai cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze negative (C.d.S., sez. V, 19.11.2010, n. 7260) e, per altro verso, che solo in caso di oscurità ed equivocità delle clausole del bando (e degli atti che regolano i rapporti tra cittadini e P.A.) può ammettersi una lettura idonea a tutela dell’affidamento degli interessati in buona fede, non potendo generalmente addebitarsi al cittadino un onere di ricostruzione dell’effettiva volontà dell’amministrazione attraverso complesse indagini ermeneutiche ed integrative (C.d.S., sez. V, 17.10.2008, n. 5064; 28.03.2007, n. 1141) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.09.2011 n. 4980 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALicenze edilizie senza costrizioni. Palazzo Spada dà ragione al proprietario.
Proprietario del fondo batte comune. E il bello è che la vittoria si consuma sul terreno della programmazione del territorio, dove invece gli enti locali la fanno da padroni. Il fatto è che attribuire all'insieme degli atti amministrativi a valenza urbanistica la possibilità di incidere sul diritto dominicale, senza che la legge lo preveda, è senz'altro fuor d'opera: quella del titolare del fondo è una prerogativa tutelata dalla Costituzione.

Lo precisa la sentenza 30.08.2011 n. 4870 pubblicata di recente dalla IV sezione del Consiglio di stato.
Palazzo Spada ha bocciato la tesi dell'amministrazione secondo cui l'inserimento dell'area nel Pur, il programma urbano di riqualificazione, legittimerebbe il rilascio della concessione edilizia contro il volere del proprietario del fondo. La sentenza del Tar non ha considerato il regime proprietario esistente al momento del rilascio della concessione edilizia, con il risultato di consentire di fatto la dislocazione dell'intera volumetria assentibile in una sola area del programma urbanistico, senza che fosse stata valutata la mutata situazione di fatto dell'area (c'era stato un trasferimento di proprietà).
Sbaglia il giudice di primo grado ad affermare che «il programma di riqualificazione ha assoggettato la particella in questione e ne ha conformato in maniera definitiva la valenza giuridica, asservendone le potenzialità edificatorie alla realizzazione del fabbricato ricadente su di un terreno contiguo»: ciò significa indicare nella convenzione a base del piano un titolo idoneo a privare il privato della disponibilità della volumetria che grava nell'area. E non si può invece riconoscere a ogni tipo di intervento pianificatorio un valore in un certo qual modo espropriativi che invece il legislatore ha ritenuto mantenere, giusta il canone di tassatività degli effetti degli atti amministrativi, in categorie ben indicate di provvedimenti.
Insomma: è illegittima la concessione edilizia assentita senza tenere conto del necessario raccordo tra diritto dominicale e possibilità edificatoria. E viene dunque risolta la vicenda del soggetto proprietario del fondo che ha visto attribuire il proprio diritto edificatorio a terzi in ragione di un pregresso atto amministrativo, seppur fondato su una base negoziale, che è stato ritenuto a questi opponibile dal tribunale amministrativo regionale (articolo ItaliaOggi del 14.09.2011).

APPALTI: Gare, insindacabili le valutazioni tecniche della commissione.
Nelle gare di appalto, le valutazioni tecniche espresse dalla Commissione di gara sono insindacabili in sede giurisdizionale ove non inficiate da profili di erroneità, illogicità e sviamento.

La segnalata decisione affronta la notoria tematica relativa alla censurabilità in sede giurisdizionale delle valutazioni tecniche espresse da una Commissione di valutazione in sede di celebrazione di una gara di appalto.
La ricorrente partecipava a una gara d’appalto mediante procedura aperta indetta da una civica amministrazione per l’esecuzione di alcuni lavori; il bando prevedeva l’aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa ex art. 83, D.Lgs 12.04.2006, n. 163, previa valutazione anche di eventuali proposte migliorative che, per espressa previsione della lex specialis, non dovevano integrare varianti o alternative progettuali, dovendosi conformare ai sub criteri fissati dal disciplinare di gara.
Poiché si classificava al secondo posto nella graduatoria finale, la deducente ha impugnato l’aggiudicazione definitiva dell’appalto in favore della controinteressata, avendo quest’ultima conseguito un maggior punteggio.
Ha formulato, oltre al resto, censure relative alle valutazioni rese dalla Commissione di gara all’offerta tecnica presentata dalla ditta aggiudicatrice, in quanto presuntivamente non conforme alle previsioni del bando, nonché l’omessa valutazione da parte del medesimo organo degli elementi migliorativi della propria offerta tecnica.
Con atto di motivi aggiunti, inoltre, la ditta interessata ha contestato che il procuratore speciale dell’aggiudicataria, avendo assunto -in virtù di apposita procura- amplissimi poteri decisionali, gestionali e di rappresentanza della società, avrebbe dovuto rendere le dichiarazioni ex art. 38, D.Lgs. n. 163/2006, pena l’esclusione dalla gara.
La controinteressata, da par sua, ha proposto ricorso incidentale con cui ha contestato l’ammissione alla gara della ricorrente principale.
Il TAR di Bari ha dapprima ritenuto il ricorso introduttivo manifestamente infondato e, pertanto, ha proceduto all’esame prioritario dello stesso, pur a fronte della proposizione del ricorso incidentale "paralizzante" (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 07.04.2011, n. 4).
Orbene, l’adito G.A., richiamando il principio in massima, ha precisato come le valutazioni tecniche espresse dalla Commissione di gara sono insindacabili in sede giurisdizionale ove non inficiate -come nella specie- da profili di erroneità, di illogicità e di sviamento.
Tanto, sulla scorta della considerazione per cui le scelte dell’amministrazione aggiudicatrice in materia di valutazione dell’offerta tecnica sono ampiamente discrezionali e, pertanto, si sottraggono al sindacato giurisdizionale qualora non manifestamente irragionevoli, arbitrarie, contraddittorie o sproporzionate.
Siffatta impostazione, ha osservato il Collegio, è stata del resto ampiamente recepita in giurisprudenza, la quale in argomento ha precisato che: "Nell’ambito di una procedura di appalto-concorso, condotta secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione in ordine all’idoneità ed alla qualità di un progetto costituisce espressione paradigmatica di lata discrezionalità tecnica, con conseguente insindacabilità del merito di dette valutazioni ove non inficiate da profili di erroneità, di illogicità e di sviamento" (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 21.01.2009, n. 282).
Di conseguenza, nella vicenda sottoposta alla sua delibazione, il giudicante ha osservato che le deficienze e gli aspetti tecnici del progetto dell’aggiudicataria su cui sono state incentrate le censure della ricorrente principale non erano supportate da idonei elementi di prova ai sensi dell’art. 64, comma 1 c.p.a., risolvendosi in mere affermazioni sull’inidoneità del progetto della controinteressata: indi, rispetto alle stesse non era configurabile un sindacato sostitutivo del Giudice amministrativo.
A non differente conclusione il G.A. barese è giunto anche per quel che attiene la censura relativa al tempo impiegato dalla Commissione (meno di un’ora e mezza) per l’esame delle offerte tecniche presentate dalle concorrenti; ha ritenuto, infatti, che l’elemento temporale, in sé considerato, non si manifesta affatto sintomatico di un’illegittimità dell’azione amministrativa (cfr. TAR Puglia, Bari, 06.04.2010, n. 1279).
Per quanto concerne le eccezioni portate dal ricorso per motivi aggiunti, i Giudici baresi le hanno rigettate, atteso che, come recentemente precisato dal Supremo Consesso amministrativo: "L’art. 38, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, nell’individuare i soggetti partecipanti a gare pubbliche e tenuti a rendere la dichiarazione di onorabilità, fa riferimento soltanto agli amministratori muniti di potere di rappresentanza, ossia a soggetti titolari di ampi e generali poteri di amministrazione, con la conseguenza che una valutazione ampliativa, e quindi non ancorata a precisi criteri prestabiliti per legge circa l’ampiezza dei poteri attribuiti con la procura, finirebbe per scalfire la garanzia di certezza del diritto sotto il profilo, di estrema rilevanza per la libertà di iniziativa economica delle imprese, della possibilità di partecipare ai pubblici appalti" (Cons. Stato, Sez. V, 24.03.2011, n. 1782; idem, 25.01.2011, n. 513, per cui: "I procuratori speciali della società muniti di poteri di rappresentanza non rientrano del novero dei soggetti di cui all’art. 38, D.Lgs. n. 163/2006 tenuti alle dichiarazioni sostitutive finalizzate alla verifica del possesso dei requisiti di moralità della società stessa"; e ancora, Cons. Stato, Sez. IV, 12.01.2011, n. 134).
Per tal ragione, si è pure precisato che nelle gare pubbliche indette per l’aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione, i c.d. “procuratori speciali” possono farsi rientrare fra gli amministratori muniti di potere di rappresentanza, sui quali incombe l’obbligo di dichiarazione ex art. 38 cit., solo ove titolari di poteri gestori generali e continuativi ricavabili dalla procura, e non per effetto del conferimento a essi del mero potere di rappresentanza negoziale della società, ivi compresa la facoltà di partecipare alle gare e stipulare contratti.
Sicché, nello specifico, il Tribunale amministrativo di Bari ha concluso come il procuratore speciale della controinteressata non fosse munito di poteri generali e continuativi di gestione tali da farlo assimilare a un amministratore della società, obbligato in quanto tale a rendere le dichiarazioni di cui al richiamato art. 38 e, da tanto, ne ha fatto derivare la reiezione del gravame principale e aggiuntivo (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Bari, sentenza 30.08.2011 n. 1244 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIATar Umbria: ammessi i controlli a sorpresa.
L'ordinanza del sindaco contro l'inquinamento acustico non richiede la preventiva comunicazione dell' avvio del procedimento.
Così ha stabilito il TAR Umbria, sentenza 26.08.2011 n. 271, che ha evidenziato un nuovo diritto della Pa nello svolgimento delle sue attività istituzionali.
Il caso riguardava una società di mangimi per animali, la cui lavorazione produceva forti rumori, che danneggiavano la salute degli abitanti di un edificio residenziale situato di fronte allo stabilimento. Il sindaco aveva emanato un'ordinanza ai sensi dell'articolo 50, comma 5 del Tuel e aveva ordinato alla società di adeguare le emissioni acustiche ai limiti normativi. La società aveva impugnato l' ordinanza, sostenendo, tra l'altro, che non vi era stata la preventiva comunicazione dell'avvio del procedimento e delle misurazioni programmate dall'Arpa.
Il Tar ha però respinto il ricorso, con queste motivazioni: 1) l'organo pubblico incaricato dei controlli ha il «diritto alla sorpresa» nello svolgimento delle attività istituzionali, per evitare che il preavviso consenta al controllato di «non farsi cogliere sul fatto»; 2) il controllato ha però il diritto di verificare e contestare, anche successivamente, la veridicità e l'idoneità degli accertamenti compiuti.
La sentenza è esatta. Il "diritto alla sorpresa" della Pa controllante è consentito dal l'articolo 7 della legge 241/1990, che stabilisce che non è necessario l'avvio del procedimento allorché «sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento».
Si potrebbe obiettare che il contraddittorio deve essere osservato "nel momento" in cui il controllo è effettuato, e non in momenti successivi. Ma l'obiezione non sarebbe persuasiva. Infatti, vi è qui una situazione vincolata, perché, se vi è l'avvio del procedimento, il controllato può sfuggire al controllo; se non vi è l'avvio del procedimento, il controllo si svolge senza contraddittorio.
I giudici hanno perciò esattamente stabilito che il contraddittorio è necessario, ma può avvenire anche in momenti successivi (articolo Il Sole 24 Ore del 12.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE – Comitati – Legittimazione ad agire – Insussistenza.
Deve essere esclusa la legittimazione ad agire dei comitati istituiti in forma associativa temporanea, con scopo specifico e limitato, costituenti una mera proiezione degli interessi dei soggetti che ne fanno parte, e che quindi non sono portatori in modo continuativo di interessi diffusi radicati nel territorio, in quanto, diversamente, si consentirebbe una sorta di azione popolare, non ammessa dal vigente ordinamento (cfr. Cons. Stato, VI, 20.05.2005, n. 2534; Cons. Stato, VI, 05.12. 2002, n. 6657; TAR Liguria, II, 27.03.2008, n. 439; TAR Veneto, I, 04.04.2005, n. 1261).
LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE – Associazioni diverse da quelle rientranti nella previsione di cui all’art. 13 della L. n. 349/1986 – Legittimazione ad agire – Possibile sussistenza – Esclusione.
Dopo l’entrata in vigore della legge n. 349/1986, non vi è più spazio per il riconoscimento della legittimazione processuale in capo ad associazioni diverse da quelle rientranti nella previsione dell’art. 13 della medesima legge, indipendentemente dalla sussistenza, in concreto o meno, dei requisiti che la giurisprudenza anteriore richiedeva ai soggetti che si qualificavano esponenziali di interessi “diffusi” (cfr. Cons. Stato, IV, 28.03.2011, n. 1876).
Una volta che il legislatore è intervenuto a disciplinare direttamente la materia attraverso la previsione di una speciale legittimazione ex lege, quest’ultima esaurisce l’ambito della tutela processuale riconosciuta dall’ordinamento, escludendo qualsiasi possibilità di ammettere la legittimazione in capo a soggetti ulteriori e diversi da quelli ai quali la legge ha espressamente inteso riferirsi (cfr. in termini Cons. Stato, IV, 28.03.2011, n. 1876).
LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE – Soggetto singolo – Impugnazione di provvedimenti esplicanti i propri effetti nell’ambiente in cui il soggetto vive – Legittimazione - Vicinitas – Sufficienza – Esclusione.
Il soggetto singolo che intenda insorgere in sede giurisdizionale contro un provvedimento amministrativo esplicante i suoi effetti nell'ambiente in cui vive ha l'obbligo di identificare, innanzitutto, il bene della vita che dalla iniziativa dei pubblici poteri potrebbe essere pregiudicato (il paesaggio, l'acqua, l'aria, il suolo, il proprio terreno) e, successivamente, dimostrare che non si tratta di un bene che pervenga identicamente ed indivisibilmente ad una pluralità più o meno vasta di soggetti, nessuno dei quali ne ha però la totale ed esclusiva disponibilità (la quale costituisce invece il connotato essenziale dell'interesse legittimo), ma che rispetto ad esso egli si trova in una posizione differenziata tale da legittimarlo ad insorgere "uti singulus" a sua difesa.
Ne discende che il requisito della vicinitas non è di per sé solo sufficiente a dimostrare l’esistenza dell’interesse ad agire (Cons. Stato, n. 1600/2003; TAR Liguria, II, 27.3.2008, n. 439; Cons. Stato, VI, 19.10.2007, n. 5453) (massima tratta da www.ambientediritto.it - TAR Veneto, Sez. II, sentenza 03.08.2011 n. 1343 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Manufatto in parte abusivo - Beneficio della sospensione condizionale della pena alla demolizione - Assenza di specifica impugnazione del P.M. - Violazione del principio del divieto della "reformatio in pejus" di cui all'art. 597 c.p.p., c. 3 – Art. 44, lett. b), 64, 65, 71, 72, 93, 94 e 95 D.P.R. n. 380/2001.
La realizzazione di un manufatto costituito da tre elevazioni fuori terra, di cui quella al primo piano ed al secondo piano erano abusive il tutto anche in violazione delle prescrizioni attinenti alla disciplina antisismica ed alle opere in conglomerato di cemento armato, configurano gli elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi, dei reati di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44, lettera b), articoli 64, 65, 71, 72, 93, 94 e 95.
Mentre, nella specie, la subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione del manufatto abusivo applicata dalla C.A. d’ufficio (in assenza di specifica impugnazione del PM) è illegittima perché in palese violazione del principio del divieto della "reformatio in pejus" di cui all'articolo 597 c.p.p., comma 3 (Corte di cassazione, Sez. 3 penale, sentenza 02.08.2011 n. 30557 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA RIFIUTI - Rifiuti abusivamente ammassati su un’area - Deposito incontrollato - Configurabilità del reato - Elementi - Art. 256, c. 2, D. L.vo n. 152/2006.
In tema di rifiuti, si integra il reato di deposito incontrollato quando venga accertata un'attività di stoccaggio e smaltimento di materiali, costituiti anche in parte da rifiuti, abusivamente ammassati su una determinata area, che rientri nella disponibilità dell'imputato (Cass. Sez. 3, n. 11802 del 29/01/2009, Berardi) e non e' necessario che tutti i rifiuti abbandonati siano pericolosi, essendo sufficiente l'accertamento dei tale qualità di almeno uno di essi (Cass. Sez. 3, n. 14750 dell'11/03/2008, Gardini e altro).
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Deposito di rifiuti - Mancanza dei requisiti fissati dalla legge - Configurabilità di: abbandono, deposito incontrollato, deposito preliminare, messa in riserva in attesa di recupero e mancanza di autorizzazione - Artt. 183, 255 e 256, D. L.vo n. 152/2006.
In tema di gestione dei rifiuti, quando il deposito di rifiuti non possiede i requisiti fissati dalla legge (Decreto Legislativo 03.04.2006, n. 152, articolo 183) per essere qualificato quale temporaneo, si realizza secondo i casi:
a) un abbandono ovvero un deposito incontrollato sanzionato, secondo i casi, dal Decreto Legislativo 152 del 2006, articolo 255, e articolo 256, comma 2);
b) un deposito preliminare, necessitante della prescritta autorizzazione in quanto configura una forma di gestione dei rifiuti;
c) una messa in riserva in attesa di recupero, anch'essa soggetta ad autorizzazione in quanto forma di gestione dei rifiuti (per le ipotesi b) e c) la mancanza di autorizzazione è sanzionata Decreto Legislativo n. 152 del 2006, ex articolo 256, comma 1) (Cass. Sez. 3, n. 39544 del 11/10/2006, Tresolat).
RIFIUTI - Smaltimento di rifiuti - Stoccaggio e deposito temporaneo - Definizione legislativa - Operazioni di deposito preliminare - Operazioni di messa in riserva di materiali - Art. 183, D. L.vo n. 152/2006.
A norma del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 183, lettera I), rappresentano stoccaggio quelle attività di smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di rifiuti (di cui al punto D15 dell'All. B alla parte 4 del Decreto), nonché le attività di recupero consistenti nelle operazioni di messa in riserva di materiali (di cui al punto R13 dell'All. C alla medesima parte quarta); in base alla lettera m) del citato articolo 183, rappresenta deposito temporaneo il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, alle specifiche condizioni elencate nella disposizione, tra le quali, per ciò che rileva nel caso di specie, che i rifiuti pericolosi vengano raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento secondo determinate modalità, da scegliersi in via alternativa, ma, quanto meno, con cadenza bimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito, mentre per i rifiuti non pericolosi, che ciò avvenga quanto meno con cadenza trimestrale; inoltre "il deposito temporaneo deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute" (punto 4) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.07.2011 n. 28890 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ARIA – INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Gestore dell’impianto o dell’attività - Emissioni in atmosfera - Inosservanza del progetto e delle prescrizioni in materia - Reato di cui all’art. 279, c. 2°, D.L.vo n. 152/2006 – Configurabilità - Art. 271, D.L.vo n. 152/2006.
Tra le prescrizioni di cui all’art. 279, comma 2, Decreto Legislativo n. 152/2006, la cui inosservanza dà luogo a sanzione penale, vanno ricomprese le disposizioni che impongono adempimenti prodromici alla messa in esercizio dell’impianto, tra le quali, rientrano, anche, quelle, come nel caso di specie, attinenti all'osservanza del progetto relativo all'esercizio delle emissioni in atmosfera dell’impianto di compostaggio biomasse e compost.
Inoltre, il gestore dell’impianto o della attività è tenuto a osservare le prescrizioni indicate direttamente nell’autorizzazione: quelle contenute nell’Allegato I del Codice dell’Ambiente; quelle indicate nei piani, nei programmi e nella normativa di cui all’art. 271, Decreto Legislativo n. 152/2006; nonché, qualunque altra prescrizione imposta dalla autorità competente ai sensi del Titolo I, Parte V, del Codice ambientale. Fattispecie: inosservanza delle prescrizioni in materia e mancata installazione all’interno dell’impianto del meccanismo (pressostato differenziale) atto a misurare la depressione che c’è a monte e a valle tra il biofiltro, che permette di garantire il passaggio di aria e l'abbattimento delle particelle di polvere, cosi che l’aria sia davvero pulita, con ciò violando quanto previsto dal progetto approvato con atto SUAP (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.07.2011 n. 29967 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: E' legittimo che il comune faccia "cassa" con le aree a standard ricevute gratuitamente nell'ambito di piani attuativi.
Un’area di proprietà pubblica destinata a “verde pubblico” non costituisce un’opera di urbanizzazione primaria, né un bene strumentale all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente proprietario, fino a quando su di essa non siano state realizzate concrete opere di trasformazione volte a rendere fruibile il verde pubblico da parte della collettività, imprimendo al bene una destinazione di fatto conforme a quella astrattamente prevista dal piano: solo in presenza di tali opere il bene acquista carattere strumentale rispetto ai fini dell’ente e rientra a far parte del patrimonio indisponibile dello stesso, ai sensi dell’art. 826, ultimo comma c.c., in quanto bene di proprietà pubblica concretamente destinato ad un pubblico servizio.
In altre parole, affinché un bene di proprietà pubblica possa definirsi strumentale al perseguimento degli scopi istituzionali dell’ente proprietario, con conseguente inclusione nel patrimonio indisponibile dell’ente medesimo, non è sufficiente la mera manifestazione di volontà dell’ente pubblico di destinarlo ad un pubblico servizio, ma è altresì necessario che a quella manifestazione di volontà abbiano fatto seguito concrete opere di trasformazione dirette ad imprimere al bene un’effettiva funzionalizzazione ad un pubblico servizio.
E’ stato affermato, a questo riguardo, che l'appartenenza di un bene al patrimonio indisponibile dello Stato, dei comuni o delle province, a meno che non si tratti di beni riservati, per loro natura, a tale patrimonio, dipende soprattutto dalle caratteristiche oggettive e funzionali del bene e presuppone, quindi, oltre che l'acquisto in proprietà del bene da parte dell'ente pubblico (cosiddetto requisito soggettivo), una concreta destinazione dello stesso ad un pubblico servizio (cosiddetto, requisito oggettivo) che, proprio per l'esigenza di un reale legame con le oggettive caratteristiche del bene, non può dipendere da un mero progetto di utilizzazione della p.a. o da una risoluzione che, ancorché espressa in un atto amministrativo, non incide, di per sé, sulle oggettive caratteristiche funzionali del bene. Pertanto, nei casi in cui il bene sia privo dei caratteri strutturali necessari per il servizio, occorre almeno che il provvedimento di destinazione sia seguito dalle opere di trasformazione che in qualche modo possano stabilire un reale collegamento di fatto, e non meramente intenzionale, del bene alla funzione pubblica).
Sulla scorta di tali principi, è stato affermato che i terreni destinati a verde pubblico dal piano regolatore acquistano la condizione di beni del patrimonio indisponibile dell'ente pubblico (e, quindi, di beni strumentali al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente stesso) solo dal momento in cui, essendo stati acquistati da questo in proprietà, sono trasformati ed in concreto utilizzati secondo la propria destinazione, non essendo all'uopo sufficiente né il piano regolatore generale, che ha solo funzione programmatoria e l'effetto di attribuire alla zona, o anche ai terreni in esso eventualmente indicati, una vocazione da realizzare attraverso gli strumenti urbanistici di secondo livello o ad essi equiparati, e la successiva attività di esecuzione di questi strumenti, né il provvedimento di approvazione del piano di lottizzazione, che individua solo il terreno specificamente interessato dal progetto di destinazione pubblica, né la convenzione di lottizzazione, che si inserisce nella fase organizzativa del processo di realizzazione del programma urbanistico e non nella fase della sua materiale esecuzione).
Anche nel caso in cui l’area fosse stata in concreto trasformata in senso conforme alle previsioni di piano (verde pubblico), il Comune avrebbe comunque conservato il potere di modificare tale destinazione, sia con un provvedimento amministrativo di carattere pianificatorio destinato ad incidere sulla destinazione urbanistica del bene, sia anche sulla base di atti o comportamenti concludenti incompatibili con la destinazione del bene a pubblico servizio, con il duplice limite rappresentato dalla necessità di rispettare i limiti minimi inderogabili in materia di standards urbanistici di cui al d.m. n. 1444 del 1968 e dall’impossibilità giuridica di incidere sulla destinazione pubblica dei beni facenti parte (ma non è questo il caso) del demanio c.d. necessario dell’ente pubblico, di cui all’art. 822, 1° comma c.c.. La stessa previsione di cui all’art. 58, comma 2, L. 133/2008, nella parte in cui stabilisce che “l’inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile”, è chiaramente sintomatica del potere dell’ente pubblico di far cessare la destinazione a pubblico servizio di beni del proprio patrimonio, e, unitamente ad essa, il rapporto di strumentalità di quei beni rispetto ai propri fini istituzionali.
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Il Comune rimane libero di dare una diversa destinazione urbanistica alle aree acquisite in sede di convenzioni urbanistiche al fine della realizzazione di opere di urbanizzazione.
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Le scelte urbanistiche, che di norma non comportano la necessità di specifica giustificazione oltre quella desumibile dai criteri generali di impostazione del piano o della sua variante, necessitano di congrua motivazione quando incidono su aspettative dei privati particolarmente qualificate, come quelle ingenerate da impegni già assunti dall'amministrazione mediante approvazione di piani attuativi o stipula di convenzioni; in tali evenienze, la completezza della motivazione costituisce, infatti, lo strumento dal quale deve emergere l'avvenuta comparazione tra il pubblico interesse cui si finalizza la nuova scelta e quello del privato, assistito appunto da una aspettativa giuridicamente tutelata.
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E’ la legge ad imporre ai Comuni di adottare una specifica variante dello strumento urbanistico generale per stabilire la destinazione urbanistica dei beni inclusi nel proprio piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari: ciò si evince dall’art. 58, comma 2, della L. 133/2008, nel testo risultante dopo la sentenza della Corte Costituzionale 16.12.2009, n. 340; quest’ultima ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma citata nella parte in cui originariamente prevedeva che l’approvazione del piano delle alienazioni e valorizzazioni costituiva essa stessa variante allo strumento urbanistico generale; per effetto della predetta decisione del giudice delle leggi, è venuto meno l’effetto di variante automatica originariamente associato alla delibera di approvazione del piano delle alienazioni, sicché, allo stato, i Comuni che approvino un piano di dismissione immobiliare, hanno l’onere di attivare un separato procedimento di variante del proprio strumento urbanistico (che salvaguardi, in tal modo, le competenze della Regione, pretermesse nella formulazione originaria della norma).

Con il primo motivo, i ricorrenti hanno dedotto vizi di eccesso di potere per difetto dei presupposti, travisamento, errore essenziale, contraddittorietà ed illogicità manifeste, nonché vizi di violazione di legge sotto plurimi profili: secondo i ricorrenti, la variante n. 10 del P.R.G.C. approvata dal consiglio comunale il 12.10.2010 sarebbe illegittima nella parte in cui ha modificato la destinazione urbanistica dell’area di via Asti da “verde pubblico” a “residenziale”; ciò in quanto la predetta variante sarebbe stata redatta al solo fine di declassare l’area a bene non strumentale all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente, consentendone in tal modo l’inclusione nel piano di dismissione; sennonché, osservano i ricorrenti, l’area in questione non poteva subire tale declassamento dal momento che essa costituisce un’opera di urbanizzazione primaria la quale, per sua natura, è necessariamente strumentale all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente comunale, tra le quali vanno ricomprese quelle di programmazione e di governo del territorio e, in particolare, quelle volte a garantire che l’edificazione avvenga di pari passo con la posa delle necessarie infrastrutture; pertanto, le opere di urbanizzazione non sono suscettibili di essere incluse nei piani di alienazione di cui all’art. 58 della L. n. 133/2008, in quanto beni necessariamente strumentali all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente civico.
La difesa del controinteressato -e, da ultimo, anche quella del Comune– hanno eccepito la tardività della predetta censura in quanto diretta a contestare l’inclusione dell’area di via Asti nel piano comunale di alienazioni e valorizzazioni immobiliari: inclusione già decisa dal Comune con la delibera consiliare n. 15 del 18.02.2010, non impugnata dai ricorrenti nel termine di legge.
Osserva il collegio che l’eccezione non può essere condivisa, dal momento che la lesione della posizione giuridica soggettiva dei ricorrenti è divenuta attuale solo in conseguenza dell’approvazione della variante n. 10 del P.R.G.C., per effetto della quale l’area in questione, già destinata a verde pubblico, è stata resa in gran parte edificabile: la semplice inclusione dell’area nel piano comunale di dismissioni immobiliari e la stessa vendita del bene a terzi (benché illegittimi, secondo la prospettazione dei ricorrenti, perché aventi ad oggetto un bene insuscettibile di dismissione in quanto strumentale all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente civico), non avrebbero comunque arrecato ai ricorrenti alcun pregiudizio concreto fintantoché il bene avesse conservato la propria destinazione a verde pubblico; è soltanto il mutamento di destinazione urbanistica ad aver reso attuale e concreto il pregiudizio per i ricorrenti, rendendo differenziata la loro posizione giuridica e facendo sorgere negli stessi la legittimazione e l’interesse a ricorrere.
Nel merito, peraltro, il motivo di gravame è infondato e va respinto.
I ricorrenti muovono dal presupposto che un’area di proprietà pubblica destinata a “verde pubblico” secondo le previsioni del piano regolatore generale o di uno strumento urbanistico di secondo livello, costituisca, per ciò stesso, un bene strumentale all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente proprietario, con la conseguenza che quest’ultimo non potrebbe far cessare la predetta destinazione né includere il bene in un piano di dismissioni immobiliari, avuto riguardo al fatto che la normativa di settore prevede che gli enti pubblici possono includere nei propri piani di alienazione soltanto beni “non strumentali all’esercizio delle proprie funzioni istituzionali”.
Osserva il collegio che tale presupposto è infondato.
Un’area di proprietà pubblica destinata a “verde pubblico” non costituisce un’opera di urbanizzazione primaria né un bene strumentale all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente proprietario, fino a quando su di essa non siano state realizzate concrete opere di trasformazione volte a rendere fruibile il verde pubblico da parte della collettività, imprimendo al bene una destinazione di fatto conforme a quella astrattamente prevista dal piano: solo in presenza di tali opere il bene acquista carattere strumentale rispetto ai fini dell’ente e rientra a far parte del patrimonio indisponibile dello stesso, ai sensi dell’art. 826, ultimo comma c.c., in quanto bene di proprietà pubblica concretamente destinato ad un pubblico servizio.
In altre parole, affinché un bene di proprietà pubblica possa definirsi strumentale al perseguimento degli scopi istituzionali dell’ente proprietario, con conseguente inclusione nel patrimonio indisponibile dell’ente medesimo, non è sufficiente la mera manifestazione di volontà dell’ente pubblico di destinarlo ad un pubblico servizio, ma è altresì necessario che a quella manifestazione di volontà abbiano fatto seguito concrete opere di trasformazione dirette ad imprimere al bene un’effettiva funzionalizzazione ad un pubblico servizio.
E’ stato affermato, a questo riguardo, che l'appartenenza di un bene al patrimonio indisponibile dello Stato, dei comuni o delle province, a meno che non si tratti di beni riservati, per loro natura, a tale patrimonio, dipende soprattutto dalle caratteristiche oggettive e funzionali del bene e presuppone, quindi, oltre che l'acquisto in proprietà del bene da parte dell'ente pubblico (cosiddetto requisito soggettivo), una concreta destinazione dello stesso ad un pubblico servizio (cosiddetto, requisito oggettivo) che, proprio per l'esigenza di un reale legame con le oggettive caratteristiche del bene, non può dipendere da un mero progetto di utilizzazione della p.a. o da una risoluzione che, ancorché espressa in un atto amministrativo, non incide, di per sé, sulle oggettive caratteristiche funzionali del bene.
Pertanto, nei casi in cui il bene sia privo dei caratteri strutturali necessari per il servizio, occorre almeno che il provvedimento di destinazione sia seguito dalle opere di trasformazione che in qualche modo possano stabilire un reale collegamento di fatto, e non meramente intenzionale, del bene alla funzione pubblica (Cass. civ., sez. II, 09.09.1997, n. 8743; in senso analogo, Cass. Civ. SS.UU. 28.06.2006, n. 14865).
Sulla scorta di tali principi, è stato affermato che i terreni destinati a verde pubblico dal piano regolatore acquistano la condizione di beni del patrimonio indisponibile dell'ente pubblico (e, quindi, di beni strumentali al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente stesso) solo dal momento in cui, essendo stati acquistati da questo in proprietà, sono trasformati ed in concreto utilizzati secondo la propria destinazione, non essendo all'uopo sufficiente né il piano regolatore generale, che ha solo funzione programmatoria e l'effetto di attribuire alla zona, o anche ai terreni in esso eventualmente indicati, una vocazione da realizzare attraverso gli strumenti urbanistici di secondo livello o ad essi equiparati, e la successiva attività di esecuzione di questi strumenti, né il provvedimento di approvazione del piano di lottizzazione, che individua solo il terreno specificamente interessato dal progetto di destinazione pubblica, né la convenzione di lottizzazione, che si inserisce nella fase organizzativa del processo di realizzazione del programma urbanistico e non nella fase della sua materiale esecuzione (Cassazione civile, sez. II, 09.09.1997, n. 8743).
Nel caso di specie, è pacifico tra le parti che l’area di via Asti, benché destinata dal piano regolatore generale a verde pubblico, non ha mai ricevuto, in concreto, tale destinazione: a tutt’oggi, si tratta di un’area allo stato di “prativo non attrezzato”.
In mancanza di una concreta destinazione a pubblico servizio, l’area di cui si discute ha continuato a far parte del patrimonio disponibile del Comune di San Mauro Torinese, che proprio in ragione di tale natura l’ha potuta includere nel proprio piano di dismissioni in quanto bene non strumentale all’esercizio delle proprie funzioni istituzionali.
Peraltro, va altresì osservato che anche nel caso in cui l’area fosse stata in concreto trasformata in senso conforme alle previsioni di piano, il Comune avrebbe comunque conservato il potere di modificare tale destinazione, sia con un provvedimento amministrativo di carattere pianificatorio destinato ad incidere sulla destinazione urbanistica del bene, sia anche sulla base di atti o comportamenti concludenti incompatibili con la destinazione del bene a pubblico servizio (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 05.11.2004, n. 7245), con il duplice limite rappresentato dalla necessità di rispettare i limiti minimi inderogabili in materia di standards urbanistici di cui al d.m. n. 1444 del 1968 e dall’impossibilità giuridica di incidere sulla destinazione pubblica dei beni facenti parte (ma non è questo il caso) del demanio c.d. necessario dell’ente pubblico, di cui all’art. 822, 1° comma c.c..
La stessa previsione di cui all’art. 58, comma 2, L. 133/2008, nella parte in cui stabilisce che “l’inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile”, è chiaramente sintomatica del potere dell’ente pubblico di far cessare la destinazione a pubblico servizio di beni del proprio patrimonio, e, unitamente ad essa, il rapporto di strumentalità di quei beni rispetto ai propri fini istituzionali.
Alla stregua di tali considerazioni, il primo motivo di ricorso è infondato e va disatteso.
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Con il secondo motivo, i ricorrenti hanno dedotto la violazione e l’errata applicazione degli artt. 39, 43 e 45 della L.R. n. 56/1977, nonché vizi di eccesso di potere per contraddittorietà, illogicità manifesta e difetto di motivazione: hanno lamentato, in particolare, la contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione comunale, la quale, mentre al momento dell’approvazione del P.E.C. del 1987 ha ritenuto che la realizzazione delle opere di urbanizzazione indicate nei progetti e in convenzione fosse assolutamente necessaria, ai sensi dell’art. 43 della L.R. n. 56/1977, per far fronte all’aumento del carico urbanistico derivante dalla collocazione sul sito di nuovi edifici residenziali, adesso, a distanza di diversi anni, ha adottato provvedimenti di senso contrario che, da un lato comporteranno l’aumento del carico antropico dell’area e dall’altro ridurranno in maniera consistente le aree a verde; né rileva, secondo i ricorrenti, la circostanza che le aree a verde presenti sull’intero territorio comunale siano eventualmente sovrabbondanti rispetto alla standard minimo di cui all’art. 21 della L.R. n. 56/1977, dal momento che la previsione contenuta nel P.E.C. del 1987 era volta ad assolvere ad esigenze proprie dell’area circostante alla via Asti, esigenze che negli anni successivi non sono certo venute meno.
La censura è infondata e va disattesa.
La giurisprudenza ha avuto più volte occasione di affermare che il Comune rimane libero di dare una diversa destinazione urbanistica alle aree acquisite in sede di convenzioni urbanistiche al fine della realizzazione di opere di urbanizzazione (Cassazione civile, sez. II, 14.08.2007, n. 17698; Cassazione civile, sez. II, 28.08.2000, n. 11208; Cassazione civile, sez. II, 09.03.1990 n. 1917; Cassazione civile, sez. II, 25.07.1980 n. 4833; TAR Abruzzo L'Aquila, 16.07.2004, n. 835).
Più in generale, la facoltà del Comune di modificare il regime delle aree a servizi è previsto dalla legge urbanistica regionale piemontese n. 56/1977 la quale, all’art. 17, comma 4, lett. b), attribuisce al Comune il potere di ridurre, mediante varianti strutturali, la quantità globale delle aree a servizi per più di 0,5 metri quadrati per abitante; l’unico limite è rappresentato dalla necessità di rispettare i cd. standards urbanistici che, nella pianificazione generale, attengono ai rapporti massimi tra spazi edificabili e spazi riservati all'utilizzazione per scopi pubblici e sociali: standards che, dovendo essere previsti in un limite minimo inderogabile dal d.m. 02.04.1968, assolvono ad una funzione di equilibrio dell'assetto territoriale e di salvaguardia dell'ambiente e della qualità della vita.
Nel caso di specie, non solo i ricorrenti non hanno contestato il mancato rispetto degli standards, ma è altresì documentato che il Comune, prima di adottare la variante n. 10 del PRGC, ha svolto una specifica istruttoria per accertare il rispetto di tali parametri inderogabili; detta verifica ha consentito al Comune di accertare che la dotazione complessiva di aree a verde nel distretto urbanistico “Oltrepo”, in cui si colloca l’area di via Asti, avrebbe conservato, dopo l’attuazione della variante, un rapporto di sostanziale equilibrio rispetto al fabbisogno (doc. 3 e 4.1. fascicolo Comune).
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Con il terzo motivo, i ricorrenti hanno dedotto il vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione: secondo i ricorrenti, la decisione dell’amministrazione di modificare la destinazione urbanistica dell’area avrebbe imposto alla stessa di motivare adeguatamente le ragioni di tale scelta, evidenziando, in particolare, da quali preminenti interessi pubblici essa fosse giustificata; e ciò in quanto la disciplina attuale dell’area era stata dettata nella convenzione edilizia del 1987, la quale aveva ingenerato nei privati una aspettativa qualificata al rispetto della destinazione pattuita; tale motivazione, tuttavia, è mancata del tutto, il che integra il vizio di illegittimità dedotto in rubrica.
La censura è infondata e va disattesa.
E’ noto che le scelte urbanistiche, che di norma non comportano la necessità di specifica giustificazione oltre quella desumibile dai criteri generali di impostazione del piano o della sua variante, necessitano di congrua motivazione quando incidono su aspettative dei privati particolarmente qualificate, come quelle ingenerate da impegni già assunti dall'amministrazione mediante approvazione di piani attuativi o stipula di convenzioni; in tali evenienze, la completezza della motivazione costituisce infatti lo strumento dal quale deve emergere l'avvenuta comparazione tra il pubblico interesse cui si finalizza la nuova scelta e quello del privato, assistito appunto da una aspettativa giuridicamente tutelata (Consiglio Stato, sez. IV, 09.06.2008, n. 2837).
Se ciò è vero, è anche vero, però, che nel caso di specie l’unica aspettativa tutelata sorta in capo ai ricorrenti con la sottoscrizione dalla convenzione Sicignano del 29.12.1987 attuativa del PEC, è stata quella avente ad oggetto la realizzazione dell’intervento edificatorio: ma tale aspettativa, allo stato, è già stata integralmente soddisfatta, dal momento che il PEC è stato attuato già da molti anni.
Per contro, dalla predetta convenzione non è sorta anche un’aspettativa qualificata dei ricorrenti a che il Comune realizzasse le opere di urbanizzazione primaria a fronte della cessione gratuita delle relative aree, dal momento che, come giustamente osservato dalla difesa comunale, nel contesto di quella convenzione edilizia la cessione gratuita delle aree non trovava il suo corrispettivo e la sua causa nella realizzazione delle opere di urbanizzazione, ma nel rilascio delle concessioni edilizie, fermo restando il potere del Comune, nell’esercizio dei propri insindacabili poteri di pianificazione e di gestione del territorio, di imprimere eventualmente a quelle aree una diversa destinazione urbanistica sulla base di una rinnovata o di una sopravvenuta diversa valutazione dell’interesse pubblico.
Pertanto, non incidendo la variante di piano su aspettative giuridicamente qualificate dei ricorrenti, non si imponeva la necessità di una specifica motivazione, oltre quella desumibile dai criteri generali di impostazione della variante medesima.
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Con il quarto motivo, i ricorrenti hanno dedotto il vizio di eccesso di potere per difetto dei presupposti e sviamento: secondo i ricorrenti, la variante del Piano Regolatore è uno strumento tipico che l’amministrazione comunale può utilizzare soltanto per perseguire finalità di carattere urbanistico; nel caso di specie, invece, esso sarebbe stato utilizzato al solo fine di alienare il bene, e quindi per perseguire finalità (“di cassa”) del tutto estranee a quelle tipiche in funzione delle quali la legge ha attribuito al Comune il relativo potere: la variante approvata sarebbe dunque viziata da sviamento di potere.
Anche tale censura è infondata.
E’ la legge ad imporre ai Comuni di adottare una specifica variante dello strumento urbanistico generale per stabilire la destinazione urbanistica dei beni inclusi nel proprio piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari: ciò si evince dall’art. 58, comma 2, della L. 133/2008, nel testo risultante dopo la sentenza della Corte Costituzionale 16.12.2009, n. 340; quest’ultima ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma citata nella parte in cui originariamente prevedeva che l’approvazione del piano delle alienazioni e valorizzazioni costituiva essa stessa variante allo strumento urbanistico generale; per effetto della predetta decisione del giudice delle leggi, è venuto meno l’effetto di variante automatica originariamente associato alla delibera di approvazione del piano delle alienazioni, sicché, allo stato, i Comuni che approvino un piano di dismissione immobiliare, hanno l’onere di attivare un separato procedimento di variante del proprio strumento urbanistico (che salvaguardi, in tal modo, le competenze della Regione, pretermesse nella formulazione originaria della norma).
Alla luce di tali considerazioni, nessuno sviamento di potere può essere attribuito nel caso in esame al Comune di San Mauro Torinese, avendo esso utilizzato il procedimento di variante urbanistica in doverosa attuazione di una norma di legge e per il perseguimento di finalità previste dalla legge
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.07.2011 n. 805 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi pubblici, arte e cultura senza autocertificazione.
I titoli artistico-culturali e professionali non possono essere oggetto di autocertificazione nei concorsi pubblici: tali titoli se non allegati non possono essere oggetto di integrazione successiva.
Il ricorrente in primo grado risultava escluso dalla graduatoria finale a seguito della mancata valutazione dei titoli artistico-culturali, che risultavano oggetto solo di dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà.
La sentenza di primo grado aveva riconosciuto l’illegittimità delle norme concorsuali che –nel prevedere la necessaria allegazione dei titoli– avrebbero violato le disposizioni del D.P.R. n. 445/2000, nonché la Direttiva Ministeriale n. 1672/2002, secondo cui avrebbe dovuto essere sufficiente la presentazione, da parte dei candidati alla selezione, di un curriculum in cui si specificassero i titoli posseduti.
Secondo la tesi fatta propria dal TAR, le certificazioni relative a “stati, qualità personali e fatti”, di cui all’art. 46 D.P.R. n. 445/2000, rientranti nella diretta conoscenza dell’interessato, potrebbero essere sostituite da dichiarazioni rese e sottoscritte dal medesimo, in base ai principi dell’autoresponsabilità del dichiarante e dell’equivalenza funzionale di dette dichiarazioni rispetto ai certificati e agli atti sostituiti.
Il Consiglio di Stato, pur riconoscendo che, anche nel caso in cui le norme in materia di autocertificazione non fossero richiamate dal bando dovrebbe sempre ammettersi la certificazione semplificata e sostitutiva prevista dal Testo Unico, ha affermato alcuni limiti a tale principio.
Secondo la sentenza in esame, l’autocertificazione costituisce, infatti, solo modalità di semplificazione procedimentale in rapporto a dimostrazioni che il privato sarebbe tenuto ad offrire tramite documenti pubblici, ma non può sostituire atti non riconducibili a mere attestazioni, la cui acquisizione sia prevista a fini di diretta valutazione di contenuto da parte dell’Amministrazione stessa.
Con riguardo ai titoli artistico-culturali e professionali risulta pertanto legittima la disposizione del bando di concorso che ne imponga l'allegazione da parte dei concorrenti al momento di presentazione della domanda, senza possibilità di ricorrere alla autocertificazione. Tale previsione, riferita ad esempio alle pubblicazioni scientifiche, consente infatti alla commissione di concorso di valutarle, escludendo la possibilità di una mera elencazione fornita dall’interessato (commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.07.2011 n. 4195 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi, immobili senza agibilità. Impossibile esercitarvi qualsiasi attività.
Il TAR ha messo in evidenza che gli abusi edilizi realizzati su un immobile sono condizione che non permette il rilascio del certificato di agibilità. Lo stesso TAR ha anche stabilito che in tale immobile non è possibile l'esercizio di alcuna attività. Sulla strega di tali considerazioni ha ritenuto legittima la sospensione di un'autorizzazione amministrativa per ristorazione-pizzeria, a suo tempo regolarmente rilasciata, in quanto l'attività si svolgeva in locale ove erano stati realizzati degli abusi edilizi non condonati.
E' interessante il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, con sentenza 09.07.2011 n. 1009 che ha stabilito un principio fondamentale sulla valenza e sinergia degli atti giuridici.
Nello specifico del governo dei fenomeni di abusivismo edilizio, non sanati, escludendo la possibilità di rilascio del certificato di agibilità per gli stessi immobili.
La vicenda dedotta in giudizio è quella di un titolare di autorizzazione amministrativa per attività di ristorazione-pizzeria che, con ordinanza del Comandante della Polizia Municipale, si è visto sospendere l'autorizzazione sine die, ovvero sino alla presentazione del certificato di agibilità dei locali nei quali l'esercente espletava la propria attività.
Elementi essenziale e decisionale della causa, per il Collegio, è stato individuato nella circostanza, dedotta dal Comune resistente e consistente nell'esistenza di un'ordinanza di demolizione di due corpi di fabbricati, nei quali era allocato l'esercizio di attività di ristorazione-pizzeria.
Precisa l'Ente che detta ordinanza non è stata opposta, di contro invece è stata oggetto di successiva richiesta di rilascio di permesso di costruire in sanatoria, così accettando pacificamente la realizzazione dell'abuso edilizio.
Il Giudicante ha sottolineato che gli artt. 24, comma 3, D.P.R. n. 380 del 06.06.2001 e 35, comma 20, L. n. 47 del 28.02.1965, il rilascio del certificato di agibilità non può avvenire per i fabbricati abusivi o per quelli che presentano abusi non condonati in quanto la regolarità urbanistica ed edilizia è un presupposto essenziale per il rilascio dello stesso certificato di agibilità.
A sostegno dell'assunto il Collegio ha richiamato la giurisprudenza costantemente assunta dal Consiglio di Stato e, da ultimo, con Quinta Sezione, Dec. n. 2760 del 30.04.2009.
Con tale configurazione, che celebra nel contesto fattuale giuridico che è scenario della vicenda processuale, l'essenzialità della conformità urbanistica dell'immobile viene meno qualsiasi ipotesi di silenzio assenso, invocata da parte ricorrente in ordine alla propria richiesta di rilascio del certificato di agibilità, risultata non evasa dal Comune.
Pari importanza ha l'accertamento dell'abuso edilizio per confermare la legittimità dell'atto impugnato da parte ricorrente e, non servono a porre in criticità la legittimità dello stesso atto, neppure gli accertamenti effettuati che possono anche attestare il rispetto e la conformità del locale alla normativa di igiene e sicurezza, ma che a nulla valgono per un locale abusivo.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria con la sentenza di cui discutiamo ha precisato che allorquando, come nel caso di specie, la Pubblica Amministrazione, dovesse rilasciare autorizzazione amministrativa all'esercizio di un'attività in un determinato locale non ha assentito altro che delle condizioni soggettive che legittimano all'esercizio dell'attività stessa.
Tuttavia, tale rilascio di autorizzazione amministrativa non può far sorgere l'affidamento dl privato sulla regolarità di fatti estranei ed esterni al rapporto autorizzativo come, nel nostro caso la regolarità dell'immobile.
Di contro è proprio la non regolarità dell'immobile, che è stato realizzato con la concretizzazioni di abusi edilizi, ad inibire la possibilità di utilizzo dello stesso in quanto privo di certificato di agibilità e ben ha operato la Polizia Municipale che non ha annullato o revocato l'autorizzazione amministrativa per attività di ristorazione-pizzeria, ma si è semplicemente limitata al sospendere e così operando ha dato la possibilità di sanare gli abusi edilizi perpetrati e presenti sull'immobile de qua (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della distanza minima di mt. 10,00 tra fabbricati solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò.
Le norme di cui al D.M. 1444/1968, emanate in forza dell’art. 17 della legge n. 765/1967, traggono da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o, secondo l’indirizzo prevalente, comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.

La giurisprudenza ha ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico dell’art. 9 del D.M. 1444/1968, che prescrive la distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381; TAR Lazio, 31.03.2010 n. 5319; TAR Liguria, Genova, sez. I, 10.07.2009 n. 1736).
E tale norma nel caso di specie non è rinvenibile.
Vi è, peraltro, una norma (art. 3, comma 6, delle N.T.A. del P.R.G.) che detta la definizione di “Distanza dai confini”, stabilendo che “è la distanza fra le proiezioni orizzontali dei fabbricati per la parte fuori terra e i confini escluse le terrazze e gli aggetti di carattere ornamentale e strutturale con sporgenze inferiori o uguali a mt. 2,00”.
Dunque, se la terrazza non supera i due metri di sporgenza non viene computata ai fini delle distanze dai confini.
E tale disposizione, ancorché non dettata ai fini del calcolo della distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, di cui al ripetuto art. 9 del D.M. 1444/1968, in assenza di una norma di piano ad hoc, può comunque fungere da utile parametro di riferimento per il computo della distanza in questione.
Ne consegue che nella fattispecie in esame le terrazze non sono computabili ai fini delle distanze fra edifici, in quanto hanno una sporgenza di ml. 1,76 e sono completamente aperte.
Le considerazioni sin qui svolte sono assorbenti di ogni altra e determinano la reiezione del ricorso principale, senza che occorra verificare la portata delle norme tecniche di attuazione operanti nel caso di specie, in quanto, per consolidata giurisprudenza, le norme di cui al ripetuto D.M. 1444/1968, emanate in forza dell’art. 17 della legge n. 765/1967, traggono da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o, secondo l’indirizzo prevalente, comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 12.06.2007 n. 3094) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 09.06.2011 n. 993 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Diffusione di polveri nell'atmosfera - Getto di cose ed emissione – Differenza - Reato di getto di cose pericolose art. 674 c.p. – Fattispecie: getto di particolato.
La diffusione di polveri nell'atmosfera rientra nella nozione di "versamento di cose" ai sensi della prima ipotesi dell'art. 674 cod. pen. e non in quella di "emissione di fumo" contemplata dalla seconda ipotesi, in quanto mentre il fumo è sempre prodotto della combustione, la polvere è prodotto di frantumazione e non di combustione. (Cass. Sez. 3^, sentenza n. 16286 del 2009, Del Balzo).
Tale principio opera a fortiori per il getto del particolato, della cui natura di "cosa" non può certo dubitarsi. Ciò significa che sia per il getto del particolato sia per l'emissione delle polveri che ricadevano sul terreno trova applicazione la prima parte dell'ipotesi prevista dall'art. 674 c.p. e non debbono essere presi in esame ai fini della responsabilità gli ulteriori requisiti fissati dalla seconda parte del medesimo articolo. Fattispecie: getto di particolato con conseguenze dannose con riferimento alle autovetture, alle colture, ai materiali plastici.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Emissioni autorizzate e contenute nei limiti - Molestie alle persone e cose – Accorgimenti tecnici utilizzabili per un loro ulteriore abbattimento – Omissione – Configurabilità del reato ex art. 674 c.p. - Emissioni anomale - Doveri di attenzione e di intervento del gestore dell'impianto industriale - Reato di danneggiamento aggravato - Art. 635 c.p. - D.P.R. n. 203/1988.
Il mantenimento delle emissioni entro i limiti consentiti non è di per sé sufficiente ad escludere l'esistenza della contravvenzione contestata ex art. 674 c.p., potendo assumere rilevanza l'omessa adozione delle misure tecniche in grado di impedire il verificarsi di molestie alle persone (Cass. sentenza n. 15734 del 2009, Bua).
Sicché, anche in presenza di emissioni autorizzate e contenute nei limiti "residuano doveri di attenzione e di intervento del gestore dell'impianto industriale, il quale, in presenza di ricadute ulteriori e diverse dalle emissioni sull'ambiente e sulle persone, è chiamato ad adottare quegli accorgimenti tecnici ragionevolmente utilizzabili per un loro ulteriore abbattimento” (Cass. sentenza n. 41582 del 2007, Saetti e altri).
Pertanto, per le ricadute oleose sussiste la violazione dell'art. 674 c.p. indipendentemente dal superamento delle soglie di emissione in atmosfera, posto che l'oggetto dell'art. 674 c.p. (e cioè la tutela di cose e persone da molestie e imbrattamento) differisce da quello previsto dal d.P.R. n. 203/2088 (tutela dell'atmosfera e dell'ambiente).
Inoltre, la frequenza delle emissioni anomale, la presenza di odori acri e di forti rumori comportino nel loro insieme quel turbamento della tranquillità e quelle molestie superiori alla normale tranquillità che la giurisprudenza considera sufficiente ad integrare la contravvenzione.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Emissioni - Molestie alle persone e cose - Responsabilità penale ex art. 40 dell'amministratore privo di delega – Riforma diritto societario - D.L.gs. n. 6/2003.
Pur nell'ambito dei più ristretti limiti di responsabilità fissati per l'amministratore privo di delega con la riforma societaria introdotta con il D.Lgs. n. 6 del 2003, afferma il principio secondo cui "l'amministratore (con o senza delega) è penalmente responsabile, ex art. 40, comma secondo, cod. pen., per la commissione dell'evento che viene a conoscere (anche al di, fuori dei prestabiliti mezzi informativi) e che, pur potendo, non provvede ad impedire (Cass. pen. Sez. 5^ sentenza n. 21581 del 2009, PM in proc. Mare). Pertanto, la responsabilità può derivare dalla dimostrazione della presenza di segnali significativi in relazione all'evento illecito nonché del grado di anormalità di questi sintomi, non in linea assoluta ma per l'amministratore privo di delega."
Tale principio, per quanto fissato con riferimento ad altra disciplina, appare decisivo nella parte in cui evidenzia come la responsabilità dell'amministratore residui comunque, indipendentemente dal regime delle deleghe, quando egli si sia sottratto ai propri doveri di controllo e di intervento in presenza di "anormalità" che egli era in grado di apprezzare e di affrontare. Fattispecie: omessa adozione delle misure tecniche in grado di impedire emissioni in atmosfera e il verificarsi di molestie alle persone (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.04.2011 n. 16422 - link a www.ambientediritto.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIl diritto di accesso riconosciuto ai rappresentanti del corpo elettorale comunale ha una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi che è riconosciuto a tutti i cittadini come pure, in termini più generali, a chiunque sia portatore di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”. Invero, la finalizzazione dell'accesso all'espletamento del mandato costituisce, al tempo stesso, il presupposto legittimante l'accesso ed il fattore che ne delimita la portata.
Le disposizioni richiamate, infatti, collegano l'accesso a tutto ciò che può essere effettivamente funzionale allo svolgimento dei compiti del singolo consigliere comunale e provinciale e alla sua partecipazione alla vita politico-amministrativa dell'ente, come confermato dalla giurisprudenza di legittimità che ha precisato che il consigliere può accedere non solo ai “documenti” formati dalla pubblica amministrazione di appartenenza ma, in genere, a qualsiasi “notizia” od “informazione” utili ai fini dell'esercizio delle funzioni consiliari.
Inoltre, a differenza dei soggetti privati, il consigliere non è tenuto a motivare la richiesta, né l'Ente ha titolo per sindacare il rapporto tra la richiesta di accesso e l'esercizio del mandato, altrimenti gli organi dell'amministrazione sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l'ambito del controllo sul proprio operato.

Il diritto di avere dall'ente tutte le informazioni che siano utili all'espletamento del mandato non incontra alcuna limitazione derivante dalla loro natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato all'osservanza del segreto.
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Anche a voler ritenere che le norme regolamentari comunali pongano limitazioni al diritto d’accesso dei consiglieri comunali, le stesse andrebbero disapplicate a prescindere da una formale impugnazione, ponendosi in contrasto con l’art. 43 del D.Lgs. n. 267/2000, e cioè una disposizione di rango superiore.
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Il diritto di accesso del consigliere comunale non riguarda soltanto le competenze attribuite al consiglio comunale ma, essendo riferito all'espletamento del mandato, investe l'esercizio del munus in tutte le sue potenziali implicazioni per consentire la valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale.
In proposito è stato altresì precisato che “Allorché una richiesta di accesso è avanzata per l'espletamento del mandato risulta, invero, insita nella stessa l'utilità degli atti richiesti al fine dell'espletamento del mandato. Il riferimento alle notizie ed alle informazioni "utili" contenuto nella norma in esame, non costituisce affatto una limitazione, se appena si considera l'intero contesto della disposizione. Il diritto di accesso è stato, infatti, attribuito ai consiglieri comunali per "tutte le notizie e le informazioni... utili all'espletamento del proprio mandato" e, quindi, per tutte le notizie ed informazioni ritenute utili, senza alcuna limitazione. Dal termine "utili" contenuto nella norma in oggetto non consegue, quindi, alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, bensì l'estensione di tale diritto a qualsiasi atto ravvisato utile all'espletamento del mandato”.

Ai fini di un compiuto esame dell’appello il Collegio ritiene opportuno richiamare alcune considerazioni sul diritto di accesso riconosciuto dall’ordinamento giuridico ai consiglieri comunali e provinciali, alla luce della più recente giurisprudenza della Sezione sull’argomento (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 20.10.2005 n. 5879).
In particolare, l’art. 43, comma 2, del Testo unico degli enti locali -D.L.vo 18.08.2000 n. 267- statuisce: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
La disposizione ha i suoi più immediati antecedenti nell’articolo 24 della L. n. 816/1985 -Esercizio delle funzioni consiliari- secondo cui “I consiglieri comunali, i consiglieri provinciali e i componenti delle assemblee delle unità sanitarie locali e delle comunità montane, per l'effettivo esercizio delle loro funzioni hanno diritto di prendere visione dei provvedimenti adottati dall'ente e degli atti preparatori in essi richiamati nonché di avere tutte le informazioni necessarie all'esercizio del mandato”, e nell’articolo 31, comma 5, L. n. 142/1990 -Consigli comunali e provinciali– secondo cui “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”.
Il diritto (soggettivo pubblico) codificato da tali disposizioni –come è possibile evincere dalla chiara littera legis- è espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività, ed in quanto tale è direttamente funzionale non tanto ad un interesse personale del consigliere comunale o provinciale, quanto alla cura di un interesse pubblico connesso al mandato conferito (cfr. la locuzione “ampia e qualificata posizione di pretesa all'informazione spettante ratione officii al consigliere comunale” in Cons. Stato, sez. V, 08/09/1994, n. 976).
Emerge chiaramente, infatti, che i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Il diritto di accesso riconosciuto ai rappresentanti del corpo elettorale comunale, pertanto, ha una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi che è riconosciuto a tutti i cittadini (articolo 10 -Diritto di accesso e di informazione- del D.L.vo n. 267/2000) come pure, in termini più generali, a chiunque sia portatore di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso” (cfr. gli art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241 come recentemente modificata dalla legge 11.02.2005, n. 15 - Modifiche ed integrazioni alla legge 07.08.1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione amministrativa). Invero, la finalizzazione dell'accesso all'espletamento del mandato costituisce, al tempo stesso, il presupposto legittimante l'accesso ed il fattore che ne delimita la portata.
Le disposizioni richiamate, infatti, collegano l'accesso a tutto ciò che può essere effettivamente funzionale allo svolgimento dei compiti del singolo consigliere comunale e provinciale e alla sua partecipazione alla vita politico-amministrativa dell'ente, come confermato dalla giurisprudenza di legittimità che ha precisato che il consigliere può accedere non solo ai “documenti” formati dalla pubblica amministrazione di appartenenza ma, in genere, a qualsiasi “notizia” od “informazione” utili ai fini dell'esercizio delle funzioni consiliari (cfr. Cass. Civ. Sez. III, sent. 03.08.1995 n. 8480, in materia di acquisizione della registrazione magnetofonica di una seduta consiliare).
Inoltre, a differenza dei soggetti privati, il consigliere non è tenuto a motivare la richiesta, né l'Ente ha titolo per sindacare il rapporto tra la richiesta di accesso e l'esercizio del mandato, altrimenti gli organi dell'amministrazione sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l'ambito del controllo sul proprio operato (Cons. Stato, V Sez. 07.05.1996 n. 528, Cons. Stato, V Sez. 22.02.2000 n. 940, Cons. Stato, V Sez. 26.09.2000 n. 5109).
Infine, il diritto di avere dall'ente tutte le informazioni che siano utili all'espletamento del mandato non incontra alcuna limitazione derivante dalla loro natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato all'osservanza del segreto (Cons. Stato, V Sez. 20.02.2000 n. 940 e Consiglio di Stato, Sezione V, 04.05.2004, n. 2716).
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Nel terzo motivo d’appello si assume che un pieno diritto di accesso del consigliere comunale sarebbe in ogni caso escluso dal regolamento comunale sul diritto all’accesso, il quale prevede all’art. 13, comma 7, che l’accesso a documenti riservati “può essere consentito ai consiglieri comunali, previa autorizzazione del sindaco, purché venga dimostrata l’utilità ai fini dell’espletamento del loro mandato” e dal regolamento comunale per la valutazione dei dirigenti, il quale prevede all’art, 1, comma 4 che ”è riconosciuta al dirigente il diritto alla riservatezza limitandosi la conoscibilità dell’esito della valutazione, sia con riferimento ai singoli profili sua con riferimento al giudizio sintetico finale, ai soli soggetti valutatori di prima e di seconda istanza, al Sindaco e alla Giunta”.
Va in primo luogo rilevato che alle suddette disposizioni può darsi un’interpretazione che tenga conto della disciplina legislativa concernente il diritto d’accesso dei consiglieri comunali, così come è stato fatto dal Tar con riferimento al regolamento comunale sul diritto di accesso ai documenti.
In ogni caso si deve considerare che, anche a voler ritenere che le suddette norme regolamentari pongano limitazioni al diritto d’accesso dei consiglieri comunali, le stesse andrebbero disapplicate a prescindere da una formale impugnazione, ponendosi in contrasto con l’art. 43 del D.Lgs. n. 267/2000, e cioè una disposizione di rango superiore (V. le decisioni di questo Consiglio, sez. IV n. 59 del 26.01.1999, sez. V n. 6293 del 13.11.2002 e sez. V n. 2966 dell’11.05.2004).
Tale disapplicazione può peraltro essere effettuata anche in grado d’appello, venendo in considerazione un giudizio in cui si tratta di accertare l’esistenza dei presupposti per riconoscere il diritto dell’attuale appellato all’accesso.
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Con il quarto motivo d’appello il Comune di Ancona contesta che la conoscenza della valutazione dei dirigenti possa avere una qualche utilità per l’espletamento dell’incarico di consigliere comunale.
Anche quest’ultima censura è infondata.
Va infatti considerato che il diritto di accesso del consigliere comunale non riguarda soltanto le competenze attribuite al consiglio comunale ma, essendo riferito all'espletamento del mandato, investe l'esercizio del munus in tutte le sue potenziali implicazioni per consentire la valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale (cfr.: Cons. Stato, V Sez. 21.02.1994 n. 119, Cons. Stato, V Sez. 26.09.2000 n. 5109, Cons. Stato, V Sez. 02.04.2001 n. 1893).
In proposito è stato altresì precisato (Cons. Stato, V Sez., 04.05.2004, n. 2716) che “Allorché una richiesta di accesso è avanzata per l'espletamento del mandato risulta, invero, insita nella stessa l'utilità degli atti richiesti al fine dell'espletamento del mandato. Il riferimento alle notizie ed alle informazioni "utili" contenuto nella norma in esame, non costituisce affatto una limitazione, se appena si considera l'intero contesto della disposizione. Il diritto di accesso è stato, infatti, attribuito ai consiglieri comunali per "tutte le notizie e le informazioni... utili all'espletamento del proprio mandato" e, quindi, per tutte le notizie ed informazioni ritenute utili, senza alcuna limitazione. Dal termine "utili" contenuto nella norma in oggetto non consegue, quindi, alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, bensì l'estensione di tale diritto a qualsiasi atto ravvisato utile all'espletamento del mandato” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.10.2007 n. 5264 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: I terreni acquisiti dal Comune, nell’ambito di un piano di lottizzazione, quale corrispettivo della concessione edilizia, per la esecuzione di opere di urbanizzazione, sono sempre suscettibili di subire le modificazioni di destinazione che il Comune ritiene ad essi di imprimere, per cui, per tale motivo, non può riconoscersi all’originario proprietario dei terreni ceduti il diritto alla retrocessione.
Per giurisprudenza costante, i terreni acquisiti dal Comune, nell’ambito di un piano di lottizzazione, quale corrispettivo della concessione edilizia, per la esecuzione di opere di urbanizzazione, sono sempre suscettibili di subire le modificazioni di destinazione che il Comune ritiene ad essi di imprimere (Corte di Cassazione civ., sez. II, 28.08.2000, n. 11208), per cui, per tale motivo, non può riconoscersi all’originario proprietario dei terreni ceduti il diritto alla retrocessione (nella specie, peraltro, si tratta pur sempre di destinazioni per interessi pubblici).
Se ciò vale per i lotti A e B ceduti al Comune in attuazione di convenzione di lottizzazione, per quanto riguarda i lotti C e D v’è da osservare che la situazione è diversa, ricadenti essi, come detto nel PIP.
Per quanto riguarda il lotto C, acquisito nell’ambito di procedura espropriativa e destinato a verde pubblico mai realizzato, il Comune lo ha escluso dall’impugnato atto di vendita, prevedendo la possibilità della sua retrocessione; per quanto riguarda, invece, il lotto D, esso faceva parte di un lotto più ampio assegnato ad un’industria insediatasi e destinato a parcheggio, ma poi riacquistato dal Comune a seguito di permuta con altra area, per cui, nella specie, non si è verificato il presupposto della retrocessione, consistente nella mancata esecuzione dell’opera pubblica.
Con l’atto impugnato, inoltre, il Comune procede all’assegnazione mediante vendita dei tre lotti di cui si chiede la retrocessione per consentire insediamenti produttivi, e, quindi, pur sempre per finalità di pubblico interesse, nella specie legittima e consentita in base alle nuove destinazioni urbanistiche impresse ai terreni in questione, non impugnate dai ricorrenti (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 16.07.2004 n. 835 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 12.09.2011

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DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L. Bellagamba, L’esecuzione dei lavori a scomputo di importo inferiore alla soglia comunitaria, fra terzo correttivo e decreto “sviluppo” (link a www.linobellagamba.it).

APPALTI SERVIZI:  A. Avino, Quale destino per le società miste alla luce dell’art. 4 del D.L. 138/2011? (link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: F. Gavioli, Gare, forme e termini per le offerte: come funziona la pubblicità legale (link a www.ipsoa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: N. Durante, Spoils system e dirigenza pubblica (link a www.giustizia-amministrativa.it).

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROGETTUALI: Se di importo superiore ai 5.000,00 euro, anche incarichi inerenti ai servizi di architettura e di ingegneria di cui al D.Lgs. n. 163/2006 debbano essere trasmessi alla Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti.
L’esclusione dall’obbligo di invio dei provvedimenti di conferimento di incarichi inerenti ai servizi di architettura e di ingegneria discendeva dall’art. 1, comma 42, della legge 30.12.2004, n. 311, che originariamente prevedeva la trasmissione alla Corte dei conti degli incarichi di studio o di ricerca, ovvero di consulenze a soggetti estranei all'amministrazione, espressamente escludendo gli incarichi di cui alla legge n. 109/1994 e successive modificazioni.
La Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, nelle linee guida approvate con deliberazione 02.03.2006 n. 4, ha evidenziato come la nuova disciplina di cui alla legge n. 266/2005 avesse sostituito ed abrogato, per evidenti motivi di incompatibilità, l’art. 1, commi 11 e 42, della legge n. 311 del 2004.
Conseguentemente, non contemplando le disposizioni di cui al comma 173 dell’art. 1 della legge n. 266/2005 alcuna eccezione per gli atti di cui alla richiesta di parere, si ritiene che, se di importo superiore ai 5.000,00 euro, anche incarichi inerenti ai servizi di architettura e di ingegneria di cui al D.Lgs. n. 163/2006 debbano essere trasmessi alla Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti (cfr.: parere 13.03.2009 n. 7 della Sez. regionale del controllo per l’Emilia Romagna; parere n. 3/Par/2007 e relazione approvata con delibera n. 13/2010/SRCPIE/VSGF del 23.02.2010 della Sezione regionale di controllo per il Piemonte) (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, parere 01.09.2011 n. 32).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Parere in materia di incentivi al personale per la progettazione interna (art. 92 del d.lgs 163/2006). Profili funzionali (rapporto con la progettazione interna ed esterna), modalità di individuazione della quota parte spettante al responsabile tecnico, computabilità o meno di tali incentivi tra le spese di personale.
L'incentivo di cui al comma 6, art. 92, D.Lgs. 163/2006 può essere attribuito al personale dipendente solo ed esclusivamente nel caso in cui l'atto di pianificazione sia stato redatto da personale interno?? Inoltre, tale incentivo può essere attribuito al responsabile del procedimento ed eventuali collaboratori interni anche nel caso di redazione dell'atto di pianificazione da parte di un professionista esterno??
L'art. 92, comma 6, del D.Lgs. 163/2006 recita che "Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.".
La genericità del riferimento del comma 6 a chi “abbia redatto” e non già a chi abbia “progettato” consente certamente di estendere la partecipazione all’incentivo anche a chi non sia specificamente progettista del “piano”, ma abbia partecipato comunque (con un ruolo qualificato) alla sua “redazione”: e ciò similmente a quanto stabilito dalla norma in esame per la partecipazione all’incentivo in materia di lavori pubblici quando il comma 5 richiede al dirigente “l’accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”.
Qual'è il rapporto tra il massimo dell'incentivo pari al 30% della tariffa professionale attribuibile al personale interno e la spesa sostenuta per il professionista esterno che ha redatto l'atto??

Spetta al regolamento comunale –in mancanza del quale “… è illegittimo il comportamento dell’amministrazione che proceda al pagamento dell’incentivo” Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici (ora Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture) deliberazioni 12.04.2001 n. 123 e 22.06.2005 n. 70- stabilire, con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata, la misura della quota parte spettante al responsabile del procedimento tecnico, senza che a questi possa essere liquidata, in caso di mancato svolgimento dell’attività da parte di questi, la quota relativa alla pianificazione esterna o che questa possa essere in essa assorbita.
Discende, invero, dal precetto normativo che la pianificazione, se affidata a privati professionisti (cd. esterna) o ad uffici di altre amministrazioni pubbliche di cui l’ente si possa avvalere (cd. interna), determina comunque economie di bilancio nell’applicazione dell’incentivo e presuppone l’utilizzo degli ulteriori fondi previsti (in termini, cfr. Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Campania, parere 07.05.2008 n. 7/2008). L’analogia col comma 5 in caso di lavori implica quindi il doveroso frazionamento dell’incentivo totale della “redazione di atti urbanistici” in quote di prestazioni parziali, sì da poter corrispondere l’incentivo -anche in caso di prestazioni parzialmente esternalizzate- limitatamente a quelle svolte da personale interno.
Tale somma per la redazione degli atti di pianificazione rientra nel più ampio concetto degli "incentivi per la progettazione interna" non computati ai fini dell'aggregato "spesa di personale" come indicato nella Delibera della Corte dei Conti in Sezione delle Autonomie n. 16/2009??
La qualificazione della spesa in questione deve tenere conto delle coordinate ermeneutiche di fondo in cui essa si inserisce, alla luce di quanto evidenziato dalla Sezione autonomie della Corte dei conti con delibera 13.11.2009 n. 16/2009: essa non deve, pertanto, essere computata come spesa del personale qualora vi sia una diversa natura degli incentivi de quibus rispetto alla generica spesa per il personale (come nel caso di cc.dd. "incentivi per la progettazione interna"); oppure si tratti di compensi pagati con fondi che si autoalimentano con i frutti dell'attività svolta dai dipendenti, e, di conseguenza, non comportano un effettivo aumento di spesa, come nel caso dei diritti di rogito e degli incentivi per il recupero dell'ICI.
Sotto il profilo considerato, l’assimilazione fatta in termini di appalto di servizi per gli incarichi esterni, e lo stesso richiamo fatto dal comma 6 dell’articolo al comma 5 dell’art. 92 del d.lgs. 163/2006, inducono a ritenere che l’ipotesi presenta marcate analogie con quella dei cc.dd. "incentivi per la progettazione interna", dal momento che si tratta di norme speciali e derogatorie alla disciplina generale del trattamento accessorio del personale.

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2. L’art. 92 del dlgs. 163/2006, rubricato dall'articolo 2, comma 1, lettera t), d.lgs. n. 152 del 2008, Corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti (artt. 17 e 18, legge n. 109/1994; art. 1, co. 207, legge n. 266/2005), cosi recita: (…) 5. Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. I soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri (comma così modificato dall'articolo 1, comma 10-quater, della legge n. 201 del 2008).
6. Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto (comma così modificato dall'articolo 3 del d.lgs. n. 6 del 2007) (…).

La scarna formulazione del comma 6, nel perseguire l’ottimale utilizzo delle professionalità interne in funzione di un risparmio di spesa sugli oneri per affidamenti esterni, può indurre a ritenere, nel suo riferimento testuale, che la remunerazione aggiuntiva possa essere corrisposta al solo personale dell’Ente che abbia materialmente redatto un atto di pianificazione .
3. Per un corretto inquadramento della questione, è peraltro necessario operare alcune valutazioni che attengono alla definizione dei contorni della fattispecie sottoposta all’esame.
La Sezione pone preliminarmente in evidenza al riguardo come nell’individuazione, scaturente dalla formulazione della norma, dei soggetti potenzialmente beneficiari dell’incentivo, puntualmente enumerati in materia di lavori pubblici, in materia urbanistica si ha invece un impreciso e generico riferimento ai “dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che …. abbiano redatto”… “un atto di pianificazione comunque denominato”.
3.1 Il richiamo fatto dal comma 6, in realtà, non sembra riferito solo alle modalità di liquidazione dell’incentivo, ma ha una valenza ben più ampia, esprimendo la qualificazione, operata dalla vigente normativa, dell’attività di pianificazione urbanistica e la similitudine con la progettazione di lavori pubblici: infatti, anche le prestazioni professionali relative alla redazione degli strumenti urbanistici rientrano, letteralmente, nella sfera degli appalti pubblici di servizi: essi infatti sono inclusi nei servizi di cui all’allegato II A del Codice dei contratti di cui al d.lgs. n. 163/2006 e s.m., ed in particolare nella categoria 12 (CPV n. 74250000-6, n. 74251000-3), dove sono enumerati i servizi assoggettati integralmente alla disciplina del Codice stesso (cfr. art. 20, comma 2, del Codice): né pare dirimente la natura imprenditoriale del prestatore di servizi che, di volta in volta, viene in rilievo. Invero, la definizione comunitaria di prestatore di servizi è ampia ed include ogni persona fisica o giuridica, privata o pubblica. Non è dunque coerente con i principi del diritto comunitario valorizzare, al fine di determinare l’ambito di applicazione della normativa sugli appalti pubblici, la natura anfibologica della prestazione (contratto d’opera se espletata da un professionista singolo, appalto se espletata da un’impresa) (Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture Deliberazione n. 296 - Adunanza del 25.10.2007).
Dalla disciplina sommariamente delineata emerge come il legislatore, nel configurare l'istituto dell’incarico esterno di pianificazione, consideri la relativa prestazione come inerente non già ad una attività professionale intellettuale di lavoro autonomo (con assunzione in proprio dei relativi rischi e diritto al corrispettivo calcolato sulla base di apposite tariffe professionali), bensì a un vero e proprio appalto di servizi: è infatti qualificante, per la definizione comunitaria di appalto, esclusivamente il carattere oneroso del contratto e la circostanza che l’oggetto del contratto stesso rientri negli elenchi di cui agli allegati II A e II B al Codice dei contratti: a questo riguardo, si veda sia l’art. 3, comma 10, sulla definizione di appalto di servizio, sia lo stesso art. 3, comma 22, che comprende nel genus degli operatori economici, l’imprenditore, il fornitore ed il prestatore di servizi, mentre la circostanza che l’art. 34 del Codice (soggetti a cui possono essere affidati i contratti pubblici) non contempli espressamente la figura del libero professionista, non appare decisiva, anche alla luce del fatto che il successivo art. 91, comma 1, lett. d), contempla i liberi professionisti nel novero degli operatori, conferitari dei (similari) servizi tecnici attinenti i lavori pubblici.
Ne consegue che anche per l’affidamento di tali servizi è necessario far riferimento alle disposizioni dettate dal Codice dei contratti pubblici (Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture Deliberazione n. 296 - Adunanza del 25.10.2007): in guisa che i predetti incarichi esterni dovranno essere conferiti, quindi, ai sensi dell’art. 91 del Codice, a mezzo di convenzione e nel rispetto delle specifiche procedure previste, nel caso di incarico di importo pari o superiore a 100.000 Euro, per gli appalti di servizi di rilevanza comunitaria e, per gli appalti di importo inferiore alla soglia comunitaria, dagli artt. 124 e 125 del Codice stesso (modificato ora dall’art. d.l. 70/2011 convertito in legge 106/2011).
3.2 La norma in esame, peraltro, esprime indiscutibilmente un favor per l'affidamento di detti incarichi a soggetti interni all’Ente: ne è riprova l’elencazione tassativa dei casi in cui il ricorso alla progettazione esterna è consentito (cfr. art. 90, comma 6, del Codice).
Invero, solo in presenza di una delle ipotesi indicate dal legislatore (carenza in organico di personale tecnico, difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei lavori o di svolgere le funzioni di istituto, lavori di particolare complessità, necessità dell'apporto di una pluralità di competenze specialistiche) è possibile, per l’Ente, avvalersi di collaborazioni esterne; né è peraltro inopportuno che l’ente si doti di una disciplina di dettaglio per gli incarichi in questione, sul presupposto che determinati elementi requisito della materia potrebbero trovare, in tal modo, una migliore specificazione: un regolamento dell’ente potrebbe disciplinare le modalità con le quali il responsabile del procedimento accerti e certifichi la sussistenza degli elementi richiesti dal comma 6 dell’art. 90 citato al fine di conferire l’incarico in questione a soggetto esterno; così come potrebbero essere regolate le concrete modalità di pubblicità del conferimento degli incarichi (Deliberazione Corte dei Conti - sez. regionale di controllo per la Toscana parere 22.07.2009 n. 198/2009).
Con riguardo, invece, agli incarichi interni, emerge in modo parimenti nitido la ratio della norma che condiziona la corresponsione di un compenso da ripartire tra i dipendenti più specificamente interessati alle esaminate attività a una finalità esclusivamente incentivante e premiale per l'espletamento di servizi propri dell'ufficio pubblico. Dal confronto tra le diverse misure delle incentivazioni, indicate rispettivamente al comma 5 e 6 dell’art. 92, si ricava altresì con chiarezza la maggiore complessità della specifica prestazione da svolgere nell’ambito della pianificazione urbanistica rispetto a quella di progettazione .
La predetta qualificazione in termini di appalto di servizi, con relativo outsourcing di prestazioni, assume peraltro diretta rilevanza ai fini della fattispecie sottoposta all’esame della Sezione. Se ne deduce, infatti, che, in caso di affidamento esterno, dovrà comunque farsi luogo alla nomina di un R.u.p. a cui affidare i compiti stabiliti dagli artt. 7 e segg. del D.Lgs.163/2006. L’art. 4 della l. n. 241/1990 fa, del resto, obbligo più in generale alle pubbliche amministrazioni di individuare l’unità organizzativa responsabile del procedimento: l’individuazione è di natura preventiva ed astratta, la cui ratio risiede nell’esigenza di <<individuazione di un’autorità che funga da guida per il procedimento […] gestisca le connessioni tra le fasi […] dialogando da un lato con i soggetti privati e dall’altro con gli uffici e organi coinvolti nell’iter>> ( Relazione della Commissione Cassese).
4. Alla luce della premesse, si può, ora, infatti, procedere alla disamina dei quesiti formulati con la nota anzidetta ed in particolare se l'incentivo di cui al comma 6, art. 92, D.Lgs. 163/2006 possa essere attribuito al personale dipendente solo ed esclusivamente nel caso in cui l'atto di pianificazione sia stato redatto da personale interno, e inoltre se tale incentivo possa essere attribuito al responsabile del procedimento ed eventuali collaboratori interni anche nel caso di redazione dell'atto di pianificazione da parte di un professionista esterno.
Preliminarmente, occorre puntualizzare che ogni Amministrazione è tenuta ad adottare, dopo apposita contrattazione decentrata, specifico Regolamento attuativo, conformandolo –in virtù dell’espresso rinvio che fa il comma 6– al sopra enunciato principio che impone di graduare la misura dell’incentivo in funzione dell’entità dell’opera, della sua complessità e delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere: complessità che appare, come detto, nella valutazione del legislatore, superiore nel caso di pianificazione urbanistica rispetto a quella di progettazione di opera pubblica.
Dall'insieme delle disposizioni testé esaminate è dato, inoltre, ravvisare una netta distinzione tra le ipotesi in cui le prestazioni richieste vengano riferite ad uffici (e per essi alle persone fisiche ivi addette) propri delle Amministrazioni aggiudicatrici ovvero di altre Amministrazioni pubbliche di cui le prime si possono avvalere (progettazione cosiddetta “interna”) e le ipotesi in cui le stesse Amministrazioni, sussistendo determinate condizioni specificamente individuate, si avvalgano dell'opera professionale di soggetti privati estranei al proprio apparato organizzativo o all'organizzazione amministrativa in generale (progettazione cosiddetta “esterna”).
Da tali premesse deriva altresì la conseguenza che (nel caso di progettazione interna) l'attività tecnica prestata dai dipendenti addetti ai competenti uffici, per essere riferita direttamente all’Ente di appartenenza, è da considerare svolta “ratione offici” e non “intuitu personae”, risolvendosi in una modalità di svolgimento del rapporto di pubblico impiego nel cui ambito vanno, pertanto, individuati e risolti i termini della relativa retribuzione, in conformità ai principi stabiliti in sede di contrattazione collettiva nazionale e decentrata (stipendio, straordinario, premi di produttività etc.).
Le premesse finora svolte consentono di fornire gli elementi su cui, nella autonomia costituzionalmente garantita, l’Ente potrà operare le proprie valutazioni, ai fini della corresponsione degli incentivi di che trattasi.
La Sezione non può esimersi dal sottolineare, infatti, come la qualificazione dell’attività di progettazione urbanistica come prestazione di servizi implica una complessa partecipazione multispecialistica che porta ad allargare necessariamente le figure professionali coinvolte (oltre a ingegneri, architetti, urbanisti non possono mancare geologi, economisti, esperti di mobilità e infrastrutture, ecc.). Ne è esplicita conferma in tal senso, del resto, la norma dell’art. 10 della L.R. 11/2004 che richiede un quadro conoscitivo, preliminare alla progettazione, inteso come “il sistema integrato delle informazioni e dei dati necessari alla comprensione delle tematiche svolte dagli strumenti di pianificazione territoriale ed urbanistica. Le basi informative che costituiscono il quadro conoscitivo sono parte del sistema informativo comunale, provinciale, regionale e dei soggetti pubblici e privati, ivi compresi i soggetti gestori di impianti di distribuzione di energia, che svolgono funzioni di raccolta, elaborazione e aggiornamento di dati conoscitivi e di informazioni relativi al territorio e all'ambiente; dette basi informative contengono dati ed informazioni finalizzati alla conoscenza sistematica degli aspetti fisici e socio-economici del territorio, della pianificazione territoriale e della programmazione regionale e locale”.
La realizzazione del quadro conoscitivo richiede, quindi, il coinvolgimento di molteplici figure professionali, per via dei temi da analizzare che riguardano la generalità delle caratteristiche del territorio comunale: alle “Analisi urbanistiche di rito” (edificazioni, urbanizzazioni primarie, servizi secondari, edilizia pubblica, presenza di aree e/o manufatti di interesse ambientale storico monumentali, archeologico, interessate da una puntuale schedatura), si aggiungono le analisi ambientali, idrogeologiche e sull’inquinamento; i due profili si integrano a vicenda per un idoneo risultato di analisi e di V.A.S. e si aggiungono alle professionalità afferenti alla gestione informatizzata di banche dati georeferenziate G.I.S. (ing. Informatico/ programmatore analista ecc… ) e le professionalità afferenti la rilevazione e l’aggiornamento cartografico topografico. Né va sottaciuto l’aspetto normativo di attuazione delle scelte di Piano per il quale è sempre più necessaria una verifica da parte di un esperto legale con specializzazione nelle materie urbanistiche.
Peraltro, agli uffici Comunali, anche nel caso non siano direttamente coinvolti nella specifica progettazione, è spesso affidato, oltre al compito istituzionale di “Verifica tecnica“ legata alla approvazione finale degli atti da parte del Consiglio Comunale, una attività di ricerca, organizzazione e trasmissione ai progettisti dei dati storici, dell’attività edilizia, urbanistica, ambientale dell’Ente: in particolare, quando le diverse “analisi” e “verifiche” sono affidate a professionisti e ditte specializzate con incarichi separati, molto spesso all’Ufficio compete una non trascurabile attività di coordinamento delle diverse attività.
Ne consegue, ad avviso della Sezione, che la genericità del riferimento del comma 6 a chi “abbia redatto” e non già a chi abbia “progettato” consente certamente di estendere la partecipazione all’incentivo anche a chi non sia specificamente progettista del “piano”, ma abbia partecipato comunque (con un ruolo qualificato) alla sua “redazione”: e ciò similmente a quanto stabilito dalla norma in esame per la partecipazione all’incentivo in materia di lavori pubblici quando il comma 5 richiede al dirigente “l’accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”.
La Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, in sede di risoluzione di questione di massima, con la deliberazione 08.05.2009 n. 7/SEZ/AUT/2009/QMIG ha, infatti, osservato al riguardo che “L’aver(…) legato la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara e aver previsto la ripartizione delle somme così determinata per ogni singola opera, evidenzia il chiaro intento di stabilire una diretta corrispondenza di natura sinallagmatica tra incentivo ed attività compensate.
Ed invero la Suprema Corte ha ritenuto che il diritto all’incentivo di cui si sta trattando, costituisce un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva (Cass. Sez. Lav., sent. N. 13384 del 19.07.2004) che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta l’erogazione del compenso (…).
In sostanza dal compimento dell’attività nasce il diritto al compenso (…). Ciò perché, ai fini della nascita del diritto quello che rileva è il compimento effettivo dell’attività; dovendosi, anzi, tenere conto, per questo specifico aspetto, che per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione temporale di attività compiuta (…)
".
Se, infatti, l'incentivo è liquidabile soltanto ai soggetti che hanno realmente e documentalmente svolto le attività per le quali lo stesso è previsto, appare evidente che l’attività del Responsabile unico del procedimento, ove non supportata da quella di altri suoi collaboratori, potrebbe essere maggiormente valorizzata in sede regolamentare, anche se non potrebbe, in nessun caso, assorbire l'incentivazione correlata all’apporto di liberi professionisti o di altre Amministrazioni pubbliche senza tradire il principio secondo il quale le prestazioni affidate a personale esterno all’organico dell’Ente determinano corrispondenti economie di bilancio (Corte Dei Conti, Sezione Regionale di Controllo per la Campania, parere 07.05.2008 n. 7/2008).
La giurisprudenza ha chiarito, del resto, sia pure nell’ambito della realizzazione di un'opera pubblica, che costituisce danno erariale la liquidazione integrale dell'incentivo ex art. 18, comma 1, legge n. 109 del 1994 (ora art. 92, comma 5, d.lgs. n. 193 del 2006) quando parte delle prestazioni progettuali sono affidate a tecnici esterni all'amministrazione (Corte dei conti, Sez. Calabria, sentenza 28.09.2007 n. 801).
5. Chiariti i su descritti profili funzionali, si possono illustrare gli ulteriori profili normativi dell’art. 92, comma 6, che consentono di circoscrivere l’ambito entro il quale l’Ente può esercitare correttamente il potere discrezionale di commisurazione del compenso incentivante spettante a propri dipendenti: e quindi rispondere al terzo quesito afferente quale sia il rapporto tra il massimo dell'incentivo pari al 30% della tariffa professionale attribuibile al personale interno e la spesa sostenuta per il professionista esterno che ha redatto l'atto.
Dalle premesse sin qui svolte, e in particolare dal fatto che il fondo incentivante per i dipendenti degli enti pubblici non può essere attribuito senza lo stretto riferimento alle concrete attività prestate dal funzionario (Corte dei conti, Sez. Calabria, sentenza 28.09.2007 n. 801), emerge con chiarezza che spetterà al Regolamento –in mancanza del quale “… è illegittimo il comportamento dell’amministrazione che proceda al pagamento dell’incentivo” Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici (ora Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture) deliberazioni 12.04.2001 n. 123 e 22.06.2005 n. 70- stabilire con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata la misura della quota parte spettante al responsabile del procedimento tecnico, senza che a questi possa essere liquidata, in caso di mancato svolgimento dell’attività da parte di questi, la quota relativa alla pianificazione esterna o che questa possa essere in essa assorbita.
Discende, invero, dal precetto normativo che la pianificazione, se affidata a privati professionisti (cd. esterna) o ad uffici di altre amministrazioni pubbliche di cui l’ente si possa avvalere (cd. interna), determina comunque economie di bilancio nell’applicazione dell’incentivo e presuppone l’utilizzo degli ulteriori fondi previsti (in termini, cfr. Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Campania, parere 07.05.2008 n. 7/2008). L’analogia col comma 5 in caso di lavori implica quindi il doveroso frazionamento dell’incentivo totale della “redazione di atti urbanistici” in quote di prestazioni parziali, sì da poter corrispondere l’incentivo -anche in caso di prestazioni parzialmente esternalizzate- limitatamente a quelle svolte da personale interno.
6. E’ quindi possibile procedere ora alla disamina del quarto quesito, inerente cioè la circostanza se tale somma per la redazione degli atti di pianificazione rientri nel più ampio concetto degli "incentivi per la progettazione interna" non computati ai fini dell'aggregato "spesa di personale" come indicato nella Delibera della Corte dei Conti in Sezione delle Autonomie n. 16/2009.
La qualificazione della spesa in questione deve tenere conto delle coordinate ermeneutiche di fondo in cui essa si inserisce, alla luce di quanto evidenziato dalla Sezione autonomie della Corte dei conti con delibera 13.11.2009 n. 16/2009: essa non deve pertanto essere computata come spesa del personale qualora vi sia una diversa natura degli incentivi de quibus rispetto alla generica spesa per il personale (come nel caso di cc.dd. "incentivi per la progettazione interna"); oppure si tratti di compensi pagati con fondi che si autoalimentano con i frutti dell'attività svolta dai dipendenti, e, di conseguenza, non comportano un effettivo aumento di spesa, come nel caso dei diritti di rogito e degli incentivi per il recupero dell'ICI.
Sotto il profilo considerato, l’assimilazione fatta in termini di appalto di servizi per gli incarichi esterni, e lo stesso richiamo fatto dal comma 6 dell’articolo al comma 5 dell’art. 92 del d.lgs. 163/2006, inducono a ritenere che l’ipotesi presenta marcate analogie con quella dei cc.dd. "incentivi per la progettazione interna", dal momento che si tratta di norme speciali e derogatorie alla disciplina generale del trattamento accessorio del personale (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 26.07.2011 n. 337).

PUBBLICO IMPIEGO: 1. Il conferimento di incarichi dirigenziali anche a soggetti esterni all’amministrazione, ex art. 19, commi 6 e 6-bis, del D. Lgs. n. 165/2001, impone che questi abbiano, oltre ai requisiti professionali richiesti, il titolo di studio della laurea previsto dall’art. 28 del D.Lgs. n. 165/2001.
2. Con riferimento all’ambito entro il quale deve essere verificata l’assenza di soggetti dotati di comprovata e particolare qualificazione professionale, onde poter procedere al conferimento dell’incarico a soggetti “esterni”, l’aver ammesso che tra questi soggetti vi possano essere coloro che, oltre a possedere il titolo di studio indicato, abbiano maturato concrete esperienze lavorative per almeno un quinquennio, anche presso la stessa amministrazione che conferisce l’incarico, in posizione funzionale prevista per l’accesso alla dirigenza, induce a ritenere che la locuzione “non rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione” sia da circoscrivere ai soli ruoli “dirigenziali” della stessa.

1. ... Le argomentazioni sopra riportate non possono essere condivise, né può essere condivisa la conclusione che l’incarico dirigenziale di cui tratta il comma 6 del’art. 19 del TUIP, nei termini in cui è ora applicabile anche agli Enti locali, possa essere conferito a soggetti privi di laurea che, tuttavia, "abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati o aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali”, così da acquisire una particolare e comprovata qualificazione professionale.
La tesi dell’Ente istante si fonda sulla interpretazione meramente testuale, se non addirittura lessicale, della “lettera” della disposizione. Tuttavia, un’esegesi fondata sul solo dato letterale della disposizione non appare appagante e le conclusioni cui, per questa via, si perviene restano incerte. Si consideri, in proposito, che la Sezione di controllo per la Lombardia, con la delibera 12.11.2009 n. 1001, è giunta alla conclusione che il dato “testualmente” ricavabile dalla lettera dell’art. 19, c. 6, del TUIP, come novellato dal D.Lgs. n. 150/2009, depone nel senso della necessaria compresenza di entrambi i requisiti, titolo di laurea ed esperienza lavorativa.
In verità la questione posta dalla Provincia di Potenza in sede consultiva, negli stessi termini ora prospettati, è già stata affrontata dalla Corte dei conti in sede di controllo preventivo di legittimità, ancora prima della estensione della disposizione alle Autonomie locali.
La Sezione del controllo di legittimità su atti del Governo, nell’adunanza congiunta del I e II Collegio del 09.01.2003, con la delibera 04.02.2003 n. 3/2003, ha ricusato il visto del provvedimento di nomina a dirigente di seconda fascia di un soggetto esterno al ruolo per mancanza del titolo adeguato di studio.
Osservava la Sezione che “il criterio secondo il quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali.
Tanto premesso, consegue da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6°, che la facoltà da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti, in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico.
Ne discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito.
Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un puntuale esame dei curricula degli incaricandi
”.
Le argomentazioni così svolte sono state condivise anche in sede consultiva, sia prima (Sezione di controllo Lombardia, parere 31.10.2006 n. 20) che successivamente alla parziale riscrittura dell’art. 19 del TUIP ad opera del D.Lgs. n. 150/2009 (Sezione regionale Veneto parere 24.11.2010 n. 275).
Ad analoghe conclusioni è giunto anche il Dipartimento per la funzione pubblica che, con parere 30.05.2008 n. 35, ha osservato che per gli Enti locali il requisito di studio richiesto dalla legge per il conferimento di incarico dirigenziale è lo stesso disposto, in generale, dall’art. 28 del D.Lgs. n. 165/2001, e consiste nel titolo di laurea. In precedenza, a proposito delle Camere di Commercio, si era espresso in termini identici lo stesso Dipartimento col parere 15.01.2003 n. 169/2003 di prot..
A conferma delle argomentazioni sostenute per ritenere la laurea titolo di studio necessario per il conferimento di incarichi dirigenziali anche presso gli Enti locali, giova osservare che proprio la Corte Costituzionale, con la decisione n. 324 del 2010, ricordata dall’Ente istante, ha ritenuto che la disciplina dettata dall’art. 19, commi 6 e 6-bis, del D.Lgs. n. 165/2001, riguardi tutte le amministrazioni pubbliche, anche quelle locali, e attiene (tra l’altro) ai requisiti soggettivi che devono essere posseduti dal contraente privato, requisiti che, dunque, non possono che essere identici per tutte le fattispecie in cui si dà luogo a un incarico dirigenziale.
Conclusivamente, ritiene la Sezione che il conferimento di incarichi dirigenziali anche a soggetti esterni all’amministrazione, impone che questi abbiano, oltre ai requisiti professionali richiesti, i titoli di studio previsti dall’art. 28 del D.Lgs. n. 165/2001.
2. ... Con riferimento all’ambito entro il quale deve essere verificata l’assenza di soggetti dotati di comprovata e particolare qualificazione professionale, onde poter procedere al conferimento dell’incarico a soggetti “esterni”, ritiene la Sezione che l’aver ammesso che tra questi soggetti vi possano essere coloro che, oltre a possedere il titolo di studio indicato, abbiano maturato concrete esperienze lavorative per almeno un quinquennio, anche presso la stessa amministrazione che conferisce l’incarico, in posizione funzionale prevista per l’accesso alla dirigenza, induce a ritenere che la locuzione “non rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione” sia da circoscrivere ai soli ruoli “dirigenziali”.
Del resto, la disposizione dettata dal comma 6 del citato art. 19 TUIP consente, entro limiti percentuali stretti, di conferire incarichi dirigenziali a soggetti che sono al di fuori del ruolo dei dirigenti di cui all’art. 23 TUIP. Ciò lascia ragionevolmente intendere che la limitazione del diritto del dirigente (di ruolo) all’ottenimento di un incarico presuppone che, per esso, non vi siano professionalità rinvenibili tra i dirigenti di ruolo dell’amministrazione. Diversamente, se si dovesse ritenere che i “ruoli” dell’amministrazione, mancanti della particolare qualificazione professionale, siano quelli in cui è inquadrato tutto il personale della amministrazione, verrebbe meno la possibilità stessa di rendere applicabile quella parte della disposizione sopra citata.
Argomenti in questo senso possono essere tratti dalla delibera n. 13/2004 della Sezione centrale di controllo di legittimità, resa nell’adunanza del 25.11.2004 (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, parere 21.06.2011 n. 29).

UTILITA'

ENTI LOCALI - VARI: ddl AC 4612 "Disegno di legge: S. 2887 - "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 13.08.2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari" (dossier centro studi 535 - link a www.camera.it).
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Schede di lettura per comprendere al meglio la portata di ogni singolo articolo e comma del testo siccome approvato da Senato.
Verosimilmente, il testo sarà approvato tal quale dalla Camera questa settimana poiché il Governo porrà l'ennesima questione di fiducia.
Per comodità di lettura, si legga anche il testo originario e il nuovo testo a confronto cliccando qui (link a www.leggioggi.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIDocumentazione da tenere in cantiere. Ecco il quadro completo.
Conservare la documentazione in cantiere rappresenta uno degli adempimenti più importanti e delicati per la gestione della sicurezza.
La documentazione risulta molto spesso cospicua: si va dai documenti a carattere generale (notifica preliminare, piani di sicurezza, piani di lavoro, tesserini di riconoscimento, etc.) fino alla documentazione specifica relativa ai macchinari e alle attrezzature (dichiarazioni CE delle attrezzature, registri di controllo, etc.).
Il Coordinamento dei CPT della Lombardia, al fine di garantire la sicurezza per i lavoratori dei cantieri edili, ha pubblicato un documento contenente il quadro sinottico della principale documentazione che deve essere tenuta in cantiere.
Il documento, chiaro e sintetico, fornisce indicazioni su tutta la documentazione con indicazioni su chi deve emetterla, chi è il destinatario e il punto normativo di riferimento, oltre alle note (08.09.2011 - link a www.acca.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIControllo preventivo per gli atti della p.a.. Pubblicata la circolare delle Ragioneria generale dello stato.
Atti della p.a. passati ai raggi X. Tutti gli atti che hanno riflesso sui bilanci dello stato, delle altre amministrazioni pubbliche e degli organismi pubblici, devono passare il vaglio del controllo preventivo. In casi di irregolarità, l'ufficio che esamina il documento deve restituirlo all'amministrazione procedente che ha 30 giorni di tempo per rimuoverle e contemporaneamente notiziare l'ufficio di controllo della Corte dei conti dei rilievi sollevati.
Sono alcune delle precisazioni contenute nella circolare 07.09.2011 n. 25 della Ragioneria generale dello stato con cui si forniscono le prime indicazioni applicative delle disposizioni contenute nel dlgs n. 123/2011, (si veda ItaliaOggi del 05.07.2011), entrato in vigore lo scorso 18 agosto. E che ha operato un riordino delle norme di controllo e regolarità amministrativa e contabile per gli atti della p.a.
La sottoposizione al controllo preventivo riguarda tutti gli atti delle p.a. dai quali derivino effetti finanziari per le casse erariali. Alcune amministrazioni sono espressamente esentate da questa procedura. Si tratta degli organi costituzionali e di quelli a rilevanza costituzionale (per esempio, Camera, Senato, Consiglio di stato e Corte dei conti). Gli uffici deputati al controllo preventivo sono quelli della stessa Ragioneria generale dello stato per quanto riguarda le amministrazioni centrali, per il tramite degli uffici centrali del bilancio e le ragionerie territoriali dislocate sul territorio. Queste ultime eserciteranno la vigilanza sugli atti emanati dalle amministrazioni periferiche. Le fasi del controllo interessano sia quello amministrativo che contabile, in un contesto comunque unico.
Di particolare importanza il controllo contabile, afferente alla fase dell'impegno di spesa, nell'ottica del potenziamento degli strumenti di controllo e di monitoraggio già in essere presso la Ragioneria generale dello Stato. In particolare, qualora l'atto violi disposizioni che prevedono limiti a talune tipologie di spesa (per esempio, i tetti di spesa) l'iter si blocca e l'ufficio di controllo li deve restituire all'amministrazione, senza che operi la regola del cosiddetto silenzio-assenso.
La fase del controllo amministrativo è quella che verifica la concordanza degli atti con la normativa vigente, al termine della quale, in caso di esito positivo, si appone il visto di regolarità amministrativa e contabile. Se sussistono rilievi, l'ufficio muove una formale osservazione, indicando le violazioni e richiedendo la risposta del dirigente della p.a. entro 30 giorni. In caso di inerzia il provvedimento viene restituito senza alcun visto. L'osservazione non resta fine a se stessa. Infatti, tra le previsioni vi è quella di trasmettere all'ufficio di controllo della Corte dei conti, gli atti di spesa sotto «inchiesta».
Non viene lesa, poi, la possibilità di procedere a un controllo «successivo». Il dlgs n. 123/2011 infatti prevede la possibilità di procedere al riscontro di regolarità, secondo un programma sulla scorta di criteri che saranno definiti con apposito decreto ministeriale. Il controllo sui rendiconti si conclude con il discarico del contabile, se il rendiconto è regolare, ovvero con l'invio di una nota di osservazione al contabile, in caso di irregolarità, cui lo stesso dovrà rispondere con «controdeduzioni». Senza dimenticare che il rendiconto «traballante» dovrà essere trasmesso alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti (articolo ItaliaOggi del 09.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGOMANOVRA BIS/ Dirigenti sulla graticola (ma non tutti). Chi è a tempo determinato dribbla i vincoli alle assunzioni posti alle p.a..
Dirigenti sulla graticola, ma quelli a tempo determinato dribblano i vincoli alle assunzioni posti alle amministrazioni statali.
Non c'è, ormai, manovra finanziaria che non intervenga sulla retribuzione dei dirigenti e sul reclutamento di quelli a contratto. Il dl 138/2011, come integrato dal maxiemendamento, non fa eccezione.
Mancato rispetto degli obiettivi di risparmio. Nel caso in cui i ministeri manchino il raggiungimento degli obiettivi di risparmio, ai sensi del secondo periodo del comma 12 dell'articolo 10 del dl 98/2011, convertito in legge 111/2011, sarà applicata una riduzione della retribuzione di risultato dei dirigenti responsabili nella misura del 30%.
Secondo il Servizio studi del senato la norma, contenuta nell'articolo 1, comma 7, del dl 138/2011 si sarebbe dovuta applicare a tutte le pubbliche amministrazioni. Il nuovo testo derivante dal maxiemendamento, che elimina il riferimento all'articolo 1, comma 2, del dlgs 165/2001, convince, invece, il Servizio studi della camera che la disposizione valga solo per le amministrazioni dello stato. I cui dirigenti, dunque, dovranno prestare particolare occhio agli obiettivi indicati per l'anno considerato dal Documento di economia e finanza (Def) e da eventuali aggiornamenti, come approvati dalle relative risoluzioni parlamentari, nonché agli obiettivi di risparmio in termini di saldo netto da finanziare e indebitamento netto per i ministeri.
La norma, tuttavia, non chiarisce se e come la sanzione per i dirigenti possa essere scongiurata, laddove lo scostamento dagli obiettivi possa essere conseguenza dell'applicazione di direttive imposte dai ministri stessi, causa non secondaria del mancato conseguimento di risparmi. Il che potrebbe portare a pensare che si tratti o di una norma «di facciata», in effetti inapplicabile, oppure di uno scudo di responsabilità: pagheranno comunque i dirigenti, anche per scelte dei ministri non proprio in linea con la programmazione economica.
Dirigenti a tempo determinato. Chi, invece, resta accuratamente fuori da tagli e vincoli è la dirigenza a tempo determinato. L'articolo 1, comma 4, del dl 138/2011 impone alle amministrazioni statali un ulteriore taglio alla dotazione organica dei dirigenti e dei dipendenti delle altre qualifiche, comminando alle amministrazioni inadempienti la sanzione del divieto di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsiasi contratto. Ma, da tale divieto saranno esclusi gli incarichi dirigenziali conferiti a soggetti esterni all'amministrazione di riferimento, ai sensi dell'art. 19, commi 5-bis e 6, del dlgs 165/2001.
Insomma, nonostante le ristrettezze economiche, i contributi di solidarietà e la contrazione delle dotazioni, allo spoil system, del quale gli incarichi a contratto costituiscono uno strumento attuativo fondamentale, proprio non si rinuncia. Anche quando un'amministrazione risulti poco virtuosa nel tagliare le dotazioni organiche.
Si fanno salvi gli incarichi a contratto nonostante la Corte costituzionale abbia considerato contrari alla Costituzione incarichi dirigenziali sorretti da un rapporto fiduciario e nonostante recentissimamente il Tar Lazio abbia pesantemente censurato l'abuso dell'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001 per assegnare incarichi dirigenziali a funzionari interni, precludendo del tutto una selezione seria di nuove competenze, mediante concorsi (articolo ItaliaOggi del 10.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZIMANOVRA BIS/ Utility, liberalizzazioni spuntate. La soglia di 900 mila euro per l'in house è troppo elevata. I rilievi della camera. A rischio l'apertura alla concorrenza a causa di comportamenti elusivi.
Altro che liberalizzazioni delle utility. L'ammissibilità degli affidamenti in house per contratti di valore pari o inferiore a 900 mila euro annui rischia di non centrare l'obiettivo di aprire alla concorrenza i servizi pubblici locali. Tale soglia, infatti, «è oggettivamente troppo elevata» e si presta «facilmente a comportamenti elusivi da parte delle amministrazioni che non intendono procedere agli affidamenti tramite gara».
Ad affermarlo è il servizio bilancio della camera che ha passato al setaccio le norme della manovra bis appena arrivate a Montecitorio per il varo definitivo.
Ed è proprio la parte relativa alle liberalizzazioni quella che maggiormente non convince i Fini-boys. L'art. 4 del dl 138, solo in minima parte modificato dal maxiemendamento del governo, riscrive la disciplina spazzata via dai referendum di giugno.
L'affidamento tramite gara non è più un obbligo ma viene chiesto agli enti locali di limitare l'attribuzione di diritti di esclusiva alle «ipotesi in cui, in base a una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità». Ragion per cui i motivi che inducono gli enti a decidere di sottrarre un servizio alla liberalizzazione dovranno essere esplicitati chiaramente in una delibera quadro.
La manovra non cancella gli affidamenti in house ma stabilisce un limite di valore al di sotto del quale possono essere disposti a favore di società a capitale interamente pubblico che abbiano i requisiti richiesti dall'ordinamento europeo. Ma è proprio l'aver fissato l'asticella a 900 mila euro a non convincere i tecnici della Camera. E non solo. Perché sul punto si è già espressa a fine agosto, con analoghe argomentazioni, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato.
In entrambi i casi i dubbi vertono sull'ammontare della soglia, considerato da un lato troppo alto («tale da poter determinare, per alcuni settori di attività economica, una sottrazione quasi integrale dai necessari meccanismi di concorrenza per il mercato») e dall'altro non sufficiente a evitare condotte elusive.
Basterebbe infatti frazionare gli affidamenti in tante tranche, ciascuna di valore inferiore a 900.000 euro annui, per poterle poi attribuire tutte direttamente a controllate in house. Una considerazione che ha portato l'Antitrust a ritenere il sistema introdotto meno efficace di quello previgente, ma al tempo stesso non migliorabile con modifiche al ribasso della soglia «data l'arbitrarietà con cui qualsiasi valore verrebbe eventualmente determinato».
Non convince anche il regime transitorio per gli affidamenti diretti. Il comma 32 dell'articolo 4 prevede che gli affidamenti diretti, relativi a servizi il cui valore economico superi i 900.000 euro annui, cessano improrogabilmente al 31.03.2012; per i servizi di valore inferiore a 900.000 annui vale la scadenza originaria dell'affidamento. Perché allora fissare una soglia di valore? Se lo chiede anche l'Autorità garante presieduta da Antonio Catricalà.
«Appare del tutto inconferente un valore predeterminato del servizio quale criterio per giustificare la prosecuzione degli affidamenti, effettuati in house, sino alla loro scadenza naturale». «Inoltre», prosegue, «la norma, per come formulata, stabilisce l'esenzione dalla scadenza anticipata per tutti gli affidamenti diretti, non solamente per quelli in house, ampliando ulteriormente, rispetto a quanto previsto dal comma 13 per i nuovi affidamenti, la platea dei soggetti che possono continuare a gestire servizi pubblici locali senza aver vinto alcuna gara» (articolo ItaliaOggi del 10.09.2011).

PUBBLICO IMPIEGOMANOVRA BIS/ Festività, dubbi sulla sorte di Santo Stefano e Pasquetta.
Salvate dall'oblio le festività civili più rappresentative dell'Unità e della storia d'Italia, 25 aprile, 1° maggio e 2 giugno, resta da capire quali potranno essere, allora, le giornate di festa che un decreto del presidente del consiglio da adottare entro il 30 novembre di ogni anno avrà il potere di far cadere il venerdì precedente o il lunedì seguente la prima domenica successiva, ovvero la domenica successiva stessa, ai sensi dell'articolo 1, comma 24, della manovra finanziaria.
La possibilità di accorpare le festività per evitare i ponti lunghi e assicurare un incremento di produttività del lavoro e del pil esclude le feste introdotte con legge dello stato conseguenti ad accordi con la Santa sede, in altre parole le «feste religiose», che sono la maggioranza.
Ad elencarle è l'articolo 2 del dpr 792/1985, ai sensi del quale sono festività religiose tutte le domeniche, il 1° gennaio (Maria Santissima Madre di Dio), il 6 gennaio (Epifania del Signore), il 15 agosto (Assunzione della Beata Vergine Maria), il 1° novembre (tutti i Santi), l'8 dicembre (Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria), il 25 dicembre (Natale del Signore) e, solo per il comune di Roma il 29 giugno (SS. Pietro e Paolo).
Non sono, dunque, festività scaturenti da accordi con la Santa Sede oltre alle festività «civili» che il maxiemendamento ha salvato, il giorno di lunedì dopo Pasqua e il 26 dicembre. Dunque, il decreto del Presidente del consiglio si dovrebbe limitare a spostare solo queste due feste, oltre a quelle dei santi patroni.
Tanto rumore per nulla, o quasi, si potrebbe dire. Accorpare, infatti, il lunedì di Pasqua al lunedì non ha oggettivamente molto senso. Rendere festivo il venerdì precedente, legato alla Passione di Cristo è impensabile. Accorpare il lunedì di Pasqua alla domenica servirebbe solo a mettere in forte difficoltà le famiglie, che si vedrebbero costrette a sacrificare un giorno di ferie per stare a casa con i figli studenti, visto che le vacanze pasquali scolastiche non le tocca nessuno. Lo stesso avverrebbe per il 26 dicembre. Eliminando, per altro, questa festa, solitamente legata al «recupero» psicofisico dal cenone natalizio servirebbe proprio poco alla causa dell'incremento del pil.
Probabilmente, visto la limitata portata dell'intervento del dpcm sulle festività e la ancor minore influenza sul pil, sarebbe stato meglio eliminare del tutto il comma 24. La cui unica maggiore produttività appare, oggettivamente, la sola attività burocratica necessaria per emanare un decreto del Presidente del consiglio, fonte giuridica che meriterebbe miglior spolvero (articolo ItaliaOggi del 10.09.2011).

APPALTIAppalti pubblici: arrivano i bandi-tipo.
Al via i bandi-tipo per gli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi e la messa a punto dei costi standard per il settore della sanità. Il passaggio alla definizione concreta dei bandi-tipo per gli appalti pubblici è stato deciso ieri dal Consiglio dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici presieduta da Sergio Santoro.

Ora l'iter prevede il passaggio per l'audizione che si terrà il 29 settembre, quando saranno sentiti gli operatori del settore e i rappresentanti delle principali stazioni appaltanti che porteranno le loro osservazioni sul documento di consultazione diffuso sul sito dell'Authority (www.avcp.it). Gli aspetti di maggiore rilievo oggetto della consultazione riguarderanno la tassatività delle clausole a pena di esclusione al fine di ridurre i costi degli adempimenti amministrativi e del contenzioso; il peso del costo del lavoro nella valutazione delle offerte per garantire in ogni caso il rispetto dei minimi salariali, con particolare attenzione alla fase di esecuzione delle commesse nella quale si può sviluppare una efficace e reale azione di contrasto al lavoro nero e al lavoro sottopagato.
Scopo del lavoro dell'Autorità è quello di ridurre sensibilmente i costi finanziari e gli oneri amministrativi a carico delle stazioni appaltanti e delle imprese, generati dai meccanismi delle attuali procedure di affidamento e gestione dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Per realizzare questo scopo l'Autorità ritiene necessario costruire un efficace sistema di controllo della gestione e della esecuzione dei singoli contratti, funzionale all'avvio dei cicli di spending review, in modo da ottimizzare l'impiego delle risorse finanziarie pubbliche, evidenziando quelle allocate su progetti non operativi e dando così certezze sia dei tempi di pagamento, che del finanziamento di nuovi progetti di sviluppo.
L'Autorità ha altresì in corso, in collaborazione con le altre pubbliche amministrazione interessate, le attività per l'elaborazione dei costi standard, così come prescritto per il settore della sanità dal dl 98/2011 che prevede debbano essere operativi a partire dal primo luglio 2012 (articolo ItaliaOggi del 09.09.2011).

PUBBLICO IMPIEGOConcorsi pubblici, vale tutto il servizio. Sentenza della Corte di giustizia Ue.
L'esclusione del servizio a termine dai requisiti di un concorso pubblico costituisce discriminazione vietata dal diritto comunitario.
Lo stabilisce la Corte di giustizia Ue nella sentenza n. C/177 emessa ieri in relazione alla Direttiva 1999/70 sul lavoro a tempo determinato.
In particolare, la pronuncia stabilisce che non è possibile subordinare il diritto alla promozione interna nel pubblico impiego, aperta ai dipendenti di ruolo, alla condizione che i candidati abbiano prestato servizio per un certo periodo in qualità di dipendenti di ruolo ma escludendo di prendere in considerazione quei periodi compiuti, invece, come dipendenti a tempo determinato. La questione verte, fondamentalmente, sul divieto di discriminazione previsto dalla direttiva Ue tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato.
In primo luogo, la Corte di giustizia ricorda che la direttiva 1999/70 si applica pure ai contratti e ai rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi nel settore pubblico. Quindi aggiunge che l'accordo esige che sia esclusa ogni disparità di trattamento tra dipendenti di ruolo e dipendenti temporanei, a meno che un trattamento diverso sia giustificato da ragioni oggettive (spetta stabilirlo al giudice nazionale). Al fine di determinare se, in un caso concreto, l'eventuale mancato riconoscimento dei periodi di lavoro compiuti dal lavoratore in qualità di dipendente a termine costituisca discriminazione, la Corte rinvia al giudice di stabilire, in primo luogo, se il lavoratore si trovava, nel momento in cui esercitava le sue funzioni in qualità di dipendente temporaneo, in una situazione paragonabile a quella dei dipendenti di ruolo ammessi al concorso.
In tale verifica, il giudice deve prendere in particolare considerazione la natura delle funzioni svolte dal lavoratore come dipendente temporaneo e la qualità dell'esperienza che egli ha a questo titolo acquisito. Solo se le funzioni corrispondono è possibile che il lavoratore abbia subito o sia esposto a discriminazioni (articolo ItaliaOggi del 09.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALIMANOVRA BIS/ Mini-enti, bilanci in compagnia. Approvazione dei conti tramite unioni o convenzioni. I comuni sotto i 1.000 abitanti devono svolgere in forma associata funzioni amministrative e servizi.
Tutte le funzioni amministrative, ivi compresa l'approvazione del bilancio, devono essere gestite da parte dei comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti tramite unioni dei comuni ovvero tramite convenzioni a partire dal prossimo 2013. L'ambito di tali unioni è fissato dalle regioni su proposta dei comuni e ad esse sono trasferiti i dipendenti ed i rapporti giuridici dei municipi. In questi centri viene abolita la giunta, per cui gli organi di governo sono solo il sindaco ed il consiglio.
Possono essere così riassunte le principali disposizioni dettate dal nuovo testo dell'articolo 16 del dl n. 138/2011 approvato dal senato e che dovrebbe diventare legge nei prossimi giorni. Vi sono significative novità rispetto al testo iniziale del provvedimento; si deve sottolineare che vengono chiariti buona parte dei tanti dubbi sollevati dal testo iniziale. Ma si deve anche sottolineare che rimangono numerosi aspetti poco chiari, come la possibilità che le superstiti comunità montane possano gestire funzioni associate delegate dai comuni e quali funzioni permangano in capo ai piccolissimi comuni, e pesa non poco il fatto che il testo non sia inserito in una norma di riassetto istituzionale.
Il provvedimento conferma invece le scelte dettate per i comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5 mila abitanti: l'obbligo della gestione associata di tutte le funzioni fondamentali scatta dal 31.12.2012 e la soglia minima di abitanti che deve essere in tal caso raggiunta è fissata in 10 mila abitanti, soglia che la regione può modificare entro i due mesi successivi alla conversione del decreto. Tutte queste disposizioni si applicheranno anche ai comuni delle regioni a statuto speciale con le stesse modalità previste per il federalismo fiscale, cioè con norme di attuazione da dettare entro i due anni successivi alla scadenza del termine per l'adozione dei decreti attuativi previsti dalla legge n. 42/2009.
I comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti devono necessariamente gestire in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti. Per cui in capo ai singoli comuni non dovrebbe residuare alcun tipo di compiti e non si capisce quindi perché il testo adombri tale possibilità. La forma indicata dal legislatore per la gestione associata è l'unione dei comuni disciplinata dall'articolo 32 del dlgs n. 267/2000 (per cui viene superata la indicazione del testo iniziale di dare vita ad una nuova istituzione, l'unione municipale).
Questa unione ha una serie di peculiarità che la differenziano dalle altre: non si applicano tutte le regole dettate dal legislatore, in particolare la loro autonomia statutarie è rigidamente vincolata nella composizione del consiglio (il sindaco e due consiglieri per ogni comune aderente), il legislatore potrà stabilire l'elezione diretta dei suoi organi, il presidente deve essere uno dei componenti il consiglio (e non necessariamente un sindaco) e dura per due anni e mezzo rinnovabili, la giunta è nominata da parte del presidente ed i suoi componenti devono essere necessariamente sindaci. Ed ancora lo statuto è approvato dal consiglio dell'unione e non dai consigli comunali.
Altra peculiarità assai rilevante è che esse sono istituite dalla regione entro la fine del 2012, sulla base della proposta avanzata dai consigli comunali entro i sei mesi successivi alla entrata in vigore della legge di conversione. A queste unioni possono aderire anche i comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti, scegliendo se delegare ad esse solamente la gestione delle funzioni fondamentali o di tutte le funzioni ed i servizi pubblici. Esse devono avere la soglia minima di 5 mila abitanti, che scende a 3 mila nelle zone montane, fatte salve diverse deliberazioni delle regioni.
Queste nuove unioni dovranno nascere non prima del 2013, cioè della prima elezione successiva al 13.08.2012 nel primo comune interessato dal rinnovo del consiglio comunale. Da tale data decadranno automaticamente tutte le giunte dei comuni aderenti alla unione, ivi comprese quelle dei comuni che avranno delegato alla unione tutte le proprie funzioni amministrative. I consigli avranno solo poteri di indirizzo rispetto alla unione, che approverà l'unico bilancio, mentre i consigli dei comuni si dovranno limitare ad approvare un documento programmatico di indirizzo. Alla unione passeranno per le funzioni trasferite tutti i dipendenti e tutti i rapporti giuridici. A decorrere da tale data le unioni a cui partecipano comuni al di sotto di 1.000 abitanti dovranno applicare le nuove regole e cesserà automaticamente la partecipazione dei piccolissimi comuni a convenzioni e consorzi.
I comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti possono sottrarsi a questo vincolo se alla data del 30.09.2012 tutte le loro funzioni amministrative e i servizi saranno gestiti in modo associato tramite convenzioni, il che dovrà essere dai singoli comuni dimostrato tramite una attestazione da trasmettere al Ministero dell'interno. Per i comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti ed inferiore a 5 mila viene fissato l'obbligo della gestione associata tramite unione o tramite convenzione di tutte le sei funzioni fondamentali entro la fine del 2012 e di almeno due entro la fine del 2011. Le gestioni associate, salvo diversa decisione delle regioni, devono avere la soglia minima di 10 mila abitanti (articolo ItaliaOggi del 09.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZIMANOVRA BIS/ Cessano gli affidamenti diretti superiori a 900 mila euro. Vincoli per le società in house. Esclusi tpl, acqua, energia, gas e farmacie comunali. Utility, liberalizzazioni dal 2012.
Entro metà 2012 e il 2015 dovranno essere riviste le modalità di affidamento delle gestioni dei servizi pubblici locali. Previste le condizioni per la liberalizzazione dei servizi. Ammesse le gestioni in esclusiva ma con scelta del gestore in gara. Vincoli per le società in house; escluso il servizio idrico, l'energia, il trasporto locale, le farmacie e il gas naturale.
Sono questi alcuni dei punti principali della disciplina in materia di servizi pubblici locali dettata dall'articolo 4 della manovra approvata dal senato. Un primo dato di rilievo riguarda le modalità con le quali si deve perseguire il processo di liberalizzazione dei servizi; la disposizione, fatta salva la proprietà pubblica delle reti, invita infatti ad attuare una gestione concorrenziale che deve però essere realizzata «compatibilmente con le caratteristiche di universalità e accessibilità del servizi».
Nei casi in cui si dovesse mantenere un regime di esclusiva, ciò dovrà avvenire in base ad una analisi di mercato (da effettuare entro un anno dall'entrata in vigore della legge e ogni volta che si intende conferire o rinnovare una gestione) da cui si desuma che l'inidoneità della «libera iniziativa economica privata» a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità.
In ogni caso l'attribuzione di diritti speciali di esclusiva al gestore deve avvenire a seguito di procedure competitive ad evidenza pubblica cui possono partecipare anche società interamente pubbliche o straniere, a condizione di reciprocità. La legge definisce anche specifici contenuti (in gran parte cogenti) per i bandi di gara ed alle lettere di invito relative le procedure competitive ad evidenza pubblica, con prescrizioni ulteriori quando i bandi di gara e le lettere di invito hanno ad oggetto la qualità di socio, cui conferire una partecipazione non inferiore al 40%, unitamente all'attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio.
Queste ultime disposizioni potranno essere derogate laddove il valore economico del servizio oggetto dell'affidamento sia pari o inferiore alla somma complessiva di 900 mila euro annui, consentendo l'affidamento (non si tratta di «gara») a favore di società a capitale interamente pubblico che abbiano i requisiti richiesti dall'ordinamento europeo per la gestione cosiddetta «in house» (c.d. controllo analogo). Dopo avere dettato diversi divieti ed incompatibilità per nomine e gli incarichi da conferire, l'articolo 4 prevede un articolato regime transitorio degli affidamenti non conformi a quanto stabilito dalla norma stessa.
Il 31.03.2012 cessano gli affidamenti diretti relativi a servizi di valore economico superiore a 900 mila euro annui, nonché tutti gli affidamenti diretti che non rientrano nei casi successivi.
Il 30.06.2012 cessano le gestioni affidate direttamente a società a partecipazione mista, qualora la selezione del socio sia avvenuta mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, ma senza aver avuto ad oggetto la qualità di socio e l'attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio.
Alla scadenza prevista nel contratto di servizio, cessano invece le ipotesi di cui ai casi precedente, quando le relative procedure competitive abbiano avuto ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l'attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio. Alla scadenza prevista nel contratto di servizio cessano anche gli affidamenti diretti assentiti alla data dell'01.10.2003 a società a partecipazione pubblica già quotate in borsa a tale data e a quelle da esse controllate, a condizione che la partecipazione pubblica si riduca anche progressivamente.
Il 30.06.2013 o il 31.12.2015 cessano gli affidamenti diretti già affidati alla data di inizio 2003, ove non siano rispettate le previste condizioni di riduzione della partecipazione pubblica alle scadenze previste (articolo ItaliaOggi del 09.09.2011).

ENTI LOCALIPatto orizzontale, ultima chance. Il ritardo del dm attuativo rischia di precluderne gli effetti. Se il testo non sarà approvato in Unificata gli enti potranno applicare solo il patto verticale.
Il ritardo nell'emanazione del decreto ministeriale attuativo rischia di precludere, per il 2011, l'applicazione del patto regionale orizzontale; in tal caso, per vedersi allentare i vincoli di finanza pubblica, comuni e province potrebbero contare solo su quello verticale.
Per alleggerire il patto di stabilità interno degli enti locali le regioni possono avvalersi di due strumenti:
1) il patto regionale «verticale», che consente loro di autorizzare un peggioramento del saldo programmatico di comuni e province, via aumento dei pagamenti in conto capitale, compensandolo con una riduzione di pari importo dell'obiettivo regionale di cassa o di competenza;
2) il patto regionale «orizzontale», attraverso cui le stesse regioni possono operare compensazioni fra gli obiettivi di comuni e province, fermo restando l'importo dell'obiettivo complessivamente determinato per gli enti locali di ciascuna regione.
Per ognuno di questi due strumenti, la legge di stabilità 2011 (legge 220/2010 e s.m.i.) ha previsto meccanismi applicativi parzialmente differenti.
Per il patto regionale verticale si è previsto che siano gli enti locali a doversi attivare, comunicando alla propria regione l'entità dei pagamenti da sbloccare. Ciò entro il 15 settembre (giovedì prossimo), anche se alcune regioni hanno anticipato la tempistica, avvalendosi delle proprie prerogative normative in materia.
In effetti, l'art. 1, c. 138-bis, della legge 220/2010 (come modificata, sul punto, dalla legge 10/2011) prevede che ciascuna regione possa disciplinare autonomamente i criteri di intervento e le modalità operative, previo confronto in sede di Consiglio delle autonomie locali e, ove non istituito, con i rappresentanti regionali delle stesse.
Per il patto regionale orizzontale, viceversa, il successivo comma 141 ha previsto che i criteri attuativi debbano essere stabiliti con decreto del ministero dell'economia e delle finanze, d'intesa con la Conferenza unificata. Sui contenuti di tale provvedimento, nei mesi scorsi si è aperto un dibattito piuttosto acceso, che ha visto contrapporsi dapprima comuni e province (con i primi fermamente contrari al riconoscimento di un ruolo di coordinamento a favore delle seconde) e successivamente Mef e regioni speciali (con queste ultime a rivendicare il rispetto della maggiore autonomia loro concessa dai rispettivi statuti).
Il varo del decreto, quindi, è stato più volte rimandato e tale ritardo rischia di compromettere, almeno per quest'anno, l'applicazione dello strumento.
Per espressa previsione dell'art. 1, comma 142 della legge 220/2010, infatti, gli interventi regionali devo essere definiti prima del 31 ottobre. Entro tale termine, espressamente qualificato come perentorio, le regioni sono chiamate a numerosi adempimenti: ricevere le segnalazioni degli enti locali (sia quelli disposti a cedere quote del proprio obiettivo, sia quelli, prevedibilmente più numerosi, che richiedano un sostegno), concordare con le autonomie locali le modalità di azione, rimodulare, con proprio provvedimento, gli obiettivi dei comuni e delle province interessati e, infine, comunicare al Mef gli elementi informativi occorrenti per la verifica del mantenimento dell'equilibrio dei saldi di finanza pubblica.
Il tempo, quindi, sta per scadere, anche perché, come chiarito nei giorni scorsi dal Mef in risposta a un quesito, in mancanza del decreto attuativo le regioni non possono agire, neppure quelle che (come la Toscana o l'Emilia Romagna) abbiano adottato una legge che disciplina dettagliatamente la materia. Il punto, invero, è un po' delicato, considerato che, per consolidata giurisprudenza costituzionale, il patto afferisce al coordinamento della finanza pubblica, ovvero ad un ambito di competenza legislativa concorrente. Ma via XX Settembre non sembra intenzionata a fare sconti.
Verosimilmente, la prossima Conferenza unificata, calendarizzata per il 22 settembre, rappresenta l'ultima chiamata possibile, anche perché la successiva seduta è fissata per il 13 ottobre, decisamente troppo in là.
Senza le compensazioni orizzontali, gli unici sconti sul patto 2011 saranno quelli concessi verticalmente dalle regioni, anche perché non sembrano esservi margini, malgrado le pressioni in tal senso di Anci e Upi, per lo sblocco di una quota dei residui passivi in conto capitale (articolo ItaliaOggi del 09.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Unioni libere di gestirsi. L'ente decide autonomamente sul recesso. Non rappresenta un ostacolo il fatto che lo statuto disponga diversamente.
Lo statuto di un'Unione di comuni, per la gestione del servizio di polizia locale, prevede che gli enti locali aderenti possano recedere dall'Unione impegnandosi ad individuare, entro i termini di legge, un'altra forma associativa cui affidare tale servizio. Nel caso in cui, successivamente al recesso, gli enti aderenti abbiano espresso diverso intendimento, manifestando la volontà di differirne gli effetti, l'Unione dei comuni può recepire con propria decisione tale volontà e derogare alla disciplina statutaria e alle relative convenzioni?
L'Unione dei comuni si configura, con la previsione dell'art. 32 del Testo unico per gli enti locali, come una forma di associazione volontaria tra comuni, la quale dà vita ad un ente locale a tutti gli effetti, distinto dai comuni che la compongono, attraverso l'adozione dell'atto costitutivo e dello statuto, sottoposto all'approvazione di tutti i consigli comunali. Tale ente gode di un'ampia potestà organizzativa e funzionale, posto che il legislatore ha delineato solo gli elementi essenziali, inderogabili dell'istituto, demandando all'autonomia statutaria e regolamentare la disciplina degli organi e della propria organizzazione.
Nel caso di specie, le modalità di recesso dall'Unione sono state puntualmente disciplinate dallo statuto, nonché dalla convenzione per la gestione del servizio di polizia locale, ma i comuni aderenti, inizialmente uniformatisi a tali previsioni, hanno successivamente deliberato su un aspetto non previsto né disciplinato, ossia il differimento del termine recesso; in tal caso, qualora l'Unione prenda atto della nuova, diversa volontà degli enti, deve recepire tale intendimento e decidere di prorogare gli effetti del recesso dei comuni con propria deliberazione, in quanto le decisioni adottate su aspetti organizzativi e funzionali, per i quali l'ente gode di potestà decisionale, seppure assunte, come nella fattispecie, non in conformità a quanto previsto dalla disciplina statutaria e, pertanto, suscettibili di eventuali contestazioni, devono essere necessariamente ricondotte alla autonoma volontà dell'Unione (articolo ItaliaOggi del 09.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Indennità.
Come va rideterminata l'indennità di funzione da corrispondere agli amministratori comunali?

Con l'art. 1, comma 54, della legge finanziaria 2006 è stata introdotta una disposizione che, di fatto, ha prodotto un effetto di «sterilizzazione permanente» del sistema di determinazione delle indennità e dei gettoni di presenza. Tale sistema, ha successivamente trovato una decisiva conferma negli artt. 61, comma 10, secondo periodo, e 76, comma 3, del decreto legge 25.06.2008, n. 112.
L'amministrazione finanziaria, con il parere espresso in data 17.12.2009, ha confermato la vigenza di tale norma. Anche la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, con il parere n. 1042/2010, ha evidenziato che, con il citato dl 112/2008, è stata cancellata la possibilità di incrementare, con delibera di giunta e di consiglio, le indennità di funzione degli amministratori locali, anche se al limitato scopo di allinearle al limite massimo previsto dal dm 119/2000.
In ogni caso, il decreto legge 31.05.2010, n. 78, concernente misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, dispone, all'art. 5, comma 7, che, con decreto del ministro dell'interno, di prossima adozione, vengano rideterminati in diminuzione, ai sensi dell'articolo 82, comma 8, del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n, 267, gli importi delle indennità degli amministratori locali già determinate ai sensi dello stesso articolo 82, comma 8.
Gli enti locali che corrispondono attualmente ai propri amministratori importi inferiori a quelli previsti dal citato decreto ministeriale, potranno, successivamente all'entrata in vigore dell'emanando provvedimento, rideterminare l'indennità mensile di funzione del sindaco fino a concorrenza dell'importo massimo stabilito nel provvedimento medesimo (articolo ItaliaOggi del 09.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZIServizi pubblici locali, torna l'affidamento con gara. La manovra-bis ha riscritto la disciplina dopo i referendum di giugno.
Passo in avanti nella riforma dei servizi pubblici locali a rilevanza economica: dopo il referendum abrogativo dell'art. 23-bis del dl 112/2008 il governo riscrive con la manovra bis la disciplina dei servizi pubblici locali.
L'art. 4 del dl 13/08/2011 n. 138, passato all'esame della camera dei deputati dopo l'approvazione del disegno di legge di conversione da parte del senato, detta le nuove regole in materia di liberalizzazione dei servizi pubblici locali riproponendo il principio generale previsto nel precedente art. 23-bis dell'affidamento con gara.
Tra i numerosi punti affrontati dal provvedimento si riportano di seguito gli aspetti generali relativi alle modalità di affidamento e al regime transitorio.
Il comma 1 dell'articolo in esame prescrive che gli enti locali affidanti debbano procedere «nel rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi» a una verifica circa la possibilità di realizzare una «gestione concorrenziale» dei servizi pubblici locali a rilevanza economica «liberalizzando tutte le attività economiche compatibilmente con le caratteristiche di universalità e accessibilità del servizio» e limitando l'attribuzione dei diritti di esclusiva soltanto nei casi in cui, attraverso un'analisi di mercato, si riscontri che «la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità». Come disposto dai successivi commi 2, 3 e 4 tale verifica, da adottare con delibera degli enti e da trasmettere all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, dovrà essere espletata entro 12 mesi dall'entrata in vigore del decreto in esame e, comunque, al momento del conferimento o del rinnovo della gestione del servizio.
Il comma 8 sancisce il principio generale dell'affidamento con gara disponendo che il conferimento della gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica «avviene in favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive a evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità».
Accanto al modello dell'affidamento con gara l'art. 4, dopo avere fornito alcuni principi generali da adottarsi nei bandi di gara o nelle lettere di invito alla base delle procedure ad evidenza pubblica, ripropone per l'affidamento del servizio anche il modello di gestione delle società a capitale misto pubblico–privato.
Al comma 12, infatti, a integrazione delle disposizioni contenute nei commi 8, 9, 10 e 11, menziona l'ipotesi del socio privato selezionato con gara al quale deve essere riconosciuta una partecipazione al capitale non inferiore al 40% e devono essere attribuiti specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio.
Il successivo comma 13, in aggiunta, in deroga alla modalità ordinaria di affidamento con gara riconosce agli enti locali la possibilità di procedere ad affidamenti diretti. Dispone, infatti, che laddove il valore economico del servizio oggetto dell'affidamento sia pari o inferiore alla somma complessiva di euro 900 mila annui gli enti locali possono affidare direttamente il servizio a società a totale partecipazione pubblica in possesso dei requisiti, ormai consolidati nella normativa comunitaria e nazionale, richiesti per la qualificazione delle cosiddette gestioni «in house» («controllo analogo da parte degli enti titolari a quello esercitato sui propri servizi» e «esercizio della parte più importante della attività con gli enti titolari» oltre al capitale detenuto dagli enti affidanti).
Si riportano infine le nuove indicazioni contenute nel comma 32 relative al regime transitorio per gli affidamenti in essere non conformi alla nuova disciplina.
Per gli affidamenti diretti relativi a servizi di valore superiore alla predetta soglia di 900 mila euro annui se ne prevede improrogabilmente la scadenza entro la data del 31/03/2012; analoga scadenza è prevista per tutti gli altri affidamenti diretti non rientranti nei casi successivamente illustrati.
È previsto, invece, il maggior termine del 30/06/2012 per la cessazione degli affidamenti a favore delle società miste pubblico–privato in cui il privato sia stato selezionato con procedure ad evidenza pubblica espletate nel rispetto dei principi generali della gara di cui al comma 8 ma che non abbiano avuto ad oggetto anche la qualità di socio e l'attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio; diversamente per i casi in cui la selezione del partner privato risulti conforme ai principi generali di cui al comma 8 e questa abbia avuto ad oggetto anche la qualità del socio e l'attribuzione dei compiti operativi è previsto il mantenimento della scadenza originaria dell'affidamento.
Per gli affidamenti diretti assentiti alla data dell'01/10/2003 a società a partecipazione pubblica già quotate in borsa a tale data e a quelle da esse controllate ai sensi dell'art. 2359 del codice civile, è prevista la possibilità di mantenimento della scadenza del contratto di servizio a condizione che la partecipazione pubblica si riduca anche progressivamente, attraverso procedure ad evidenza pubblica ovvero forme di collocamento privato presso investitori qualificati e operatori industriali, a una quota non superiore al 40% entro il 30/6/2013 e non superiore al 30% entro il 31/12/2015. Tali affidamenti cessano improrogabilmente alle date del 30/6/2013 o del 31/12/2015 nel caso di mancato rispetto delle predette condizioni.
Si ricorda, infine, come riportato nel comma 34, che sono esclusi dall'applicazione della nuova disciplina il servizio idrico integrato (salvo le disposizioni contenute nei commi da 19 a 27), il servizio di distribuzione del gas naturale, il servizio di distribuzione dell'energia elettrica, il servizio di trasporto ferroviario regionale e la gestione delle farmacie comunali.
Restano salve, inoltre, le procedure di affidamento avviate alla data di entrata in vigore del decreto in esame (articolo ItaliaOggi del 09.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMANOVRA BIS/ Collocamento obbligatorio più facile. Via libera alla compensazione automatica.
Via libera alle compensazione delle assunzioni obbligatorie anche nel settore pubblico. Infatti, le pa possono essere autorizzate, su loro motivata richiesta, ad assumere in un'unità produttiva una quota di lavoratori aventi diritto al collocamento obbligatorio superiore a quella prescritta dalla legge e a portare le eccedenze a compenso del minor numero di lavoratori assunti in altre unità produttive.
A prevederlo è la manovra-bis (articolo 9 del dl n. 138/2011), che modifica la legge n. 68/1999 (norme per il diritto al lavoro dei disabili).
Collocamento obbligatorio. La manovra bis interviene sulla richiamata legge n. 68/1999 per modificare, in parte, gli obblighi a carico dei datori di lavoro alle assunzioni di soggetti disabili. La citata legge, in particolare, prevede che tutti i datori di lavoro, pubblici e privati, che occupano almeno 15 dipendenti sono obbligati ad assumere un numero di soggetti appartenenti alle cosiddette categorie protette, variabile in funzione del numero di lavoratori occupati (che costituisce la forza lavoro):
● un solo soggetto protetto, se la forza lavoro è compresa da 15 a 35 lavoratori;
● due soggetti protetti, se la forza lavoro è compresa da 36 a 50 lavoratori;
● soggetti protetti pari al 7% dei lavoratori occupati quando la forza lavoro supera il numero di 50 lavoratori.
La compensazione territoriale. Una prima modifica riguarda l'istituto della cosiddetta compensazione territoriale, in virtù del quale le imprese aventi aziende o unità locali dislocate in diverse sedi provinciali possono effettuare una (appunto) compensazione territoriale dell'obbligo di assunzione di soggetti protetti. Con questa compensazione, in altre parole, in una o più sedi possono effettuare assunzioni di disabili in numero superiore a quello previsto dalla legge per portare la quota eccedente (le assunzioni in eccesso dei soggetti protetti) a compenso del minor numero di assunzioni obbligatorie effettuate nelle altre sedi. Fino al 12 agosto le imprese con un numero di dipendenti fino a 50 potevano valutare liberamente in quale sede effettuare le assunzioni in quota eccedente da compensare; quelle con un numero di dipendenti inferiore a 50, invece, erano prima tenute a richiedere, e quindi a ottenere, una specifica autorizzazione.
È su questa disciplina che interviene la manovra-bis.
La novità è una: la previsione dell'automaticità delle compensazioni per tutte le aziende e con riferimento a tutto il territorio nazionale. In particolare, la nuova norma del comma 8, dell'articolo 5, della legge n. 68/1999 stabilisce che l'obbligo di assunzione di disabili va rispettato a livello nazionale e che, ai fini del rispetto di tale obbligo, i datori di lavoro privati che occupano personale in diverse unità produttive, nonché i datori di lavoro privati di imprese che sono parte di un gruppo possono assumere in un'unità produttiva o in un'impresa del gruppo avente sede in Italia, un numero di lavoratori disabili (aventi cioè diritto al collocamento mirato) superiore a quello prescritto portando in via automatica l'eccedenza a compenso del minor numero di lavoratori (disabili) assunti nelle altre unità produttive o nelle altre imprese del gruppo aventi sede in Italia.
In sostanza, dal 13 agosto non è più necessario richiedere né ottenere l'autorizzazione, perché la compensazione opera in via automatica a livello nazionale e opera, non solo nei confronti delle imprese, ma anche dei gruppi di imprese. Vale la pena ricordare che, anche in caso di utilizzo della nuova compensazione, c'è un unico adempimento da osservare, in caso di utilizzo della nuova compensazione automatica. E cioè la trasmissione, in via telematica, del «prospetto informativo» a ciascuno dei servizi competenti delle province in cui sono presenti le unità produttive dell'impresa o le sedi delle diverse imprese facenti parte del gruppo.
Da tale prospetto dovrà risultare che è stato osservato l'adempimento dell'obbligo a livello nazionale sulla base dei dati riferiti a ciascuna unità produttiva o a ciascuna impresa appartenente al gruppo. Il termine per la trasmissione del prospetto è fissato al 31 gennaio dell'anno seguente quello per il quale ci sono state modifiche all'obbligo o alla quota di riserva.
Compensazione anche nel pubblico. L'altra modifica della manovra bis è un'assoluta novità: l'estensione dell'istituto di compensazione al settore del lavoro pubblico, previa autorizzazione e su base regionale (e non automatica e su base nazionale, come nel privato).
Infatti, il nuovo comma 8-ter introdotto all'articolo 5 della legge n. 68/1999, prevede che i datori di lavoro pubblici possano essere autorizzati su loro motivata richiesta ad assumere in unità produttiva un numero di lavoratori protetti superiore a quello prescritto, portando le eccedenze a compenso del minor numero di lavoratori assunti in altre unità produttive della medesima regione (articolo ItaliaOggi del 09.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

VARINuove regole d'autunno per l'autovelox.
Arriverà a giorni il decreto interministeriale che dovrà ridefinire compiutamente le modalità di impiego dei sistemi elettronici per il controllo della velocità dei veicoli. Ma solo dopo il via libera della Conferenza stato–città e con il possibile stralcio della norma che avrebbe dovuto dare il via libera definitivo alla divisione dei proventi autovelox tra i controllori e i gestori delle strade.
Sono queste le annunciate novità autunnali in materia di controllo della velocità, tutor, laser o autovelox. La riforma dell'autovelox introdotta con la legge 120/2010 richiede un decreto ad hoc per disciplinare la ripartizione dei proventi e per ridefinire nel dettaglio le modalità di collocazione ed uso dei temuti sistemi elettronici.
In pratica il governo in questi giorni è chiamato a sciogliere definitivamente la vicenda dell'impossibilità tecnica di attivare uno dei punti più qualificanti della riforma ovvero la divisione dei proventi autovelox tra organo accertatore ed ente proprietario della strada. Oltre a oggettive difficoltà tecniche di contabilità pubblica l'ostacolo maggiore è rappresentato in questo caso dal fatto che la riforma non avrebbe trovato applicazione sulla rete stradale Anas, in quanto strada in concessione. Ma anche le forti resistenze politiche delle autonomie locali all'attivazione della stringente riforma hanno giocato il loro peso.
Il ministero dei trasporti e quello dell'interno nel frattempo hanno già predisposto la bozza della nuova circolare. A quanto risulta ad ItaliaOggi non sono previste però modifiche sostanziali all'attuale disciplina sull'uso degli strumenti elettronici di controllo. La questione più discussa resta quella degli strumenti automatici in sede fissa che dopo la modifica introdotto con l'art. 25 della legge 120/2010 possono essere attivati, fuori dai centri abitati, a una distanza di almeno un chilometro dal segnale che impone il limite di velocità.
In particolare è stata la circolare del ministero dell'interno del 29.12.2010 a creare maggior sconcerto. Questa distanza, ha spiegato l'organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale, deve essere osservata anche a ogni incrocio. Quindi se il box fisso è troppo vicino a una intersezione non si possono elevare più sanzioni in automatico. Sembra che sia allo studio qualche miglioria al riguardo che possa permettere la riaccensione di alcuni sistemi automatici, nel frattempo spenti. Solo i Tutor autostradali infatti non hanno subito l'effetto della legge 120/2010 e continuano a funzionare a pieno regime. La stragrande maggioranza dei box autovelox posizionati sulle strade ordinarie ora invece sono spenti oppure utilizzati con la presenza costante degli operatori di polizia (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2011).

VARIL'automobilista può evitare la delazione.
L'automobilista che propone ricorso contro una multa contenente anche l'invito alla comunicazione dei dati del trasgressore non è tenuto a rispondere positivamente alla richiesta della polizia. Ovvero è sufficiente che l'interessato specifichi di aver proposto censure all'autorità competente per non incorrere in ulteriori penalità almeno fino alla conclusione dei rimedi difensivi previsti dalla legge. In ogni caso l'invito alla delazione andrà rinnovato in ipotesi di rigetto del ricorso oppure meglio dettagliato nel verbale per essere efficace.

Lo ha ribadito il Ministero dell'interno con la circolare 05.09.2011 n. 300/a/7157/11/109/16.
L'organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale ha fornito una prima interpretazione sulla questione con una circolare del 29.04.2011. In pratica si trattava di chiarire se l'utente che propone ricorso contro una multa notificata per posta con invito a dichiarare i dati dell'effettivo conducente può attendere l'esito della vertenza o deve adempiere tempestivamente alla richiesta. Il ministero non ha dubbi in proposito. Si ritiene, specifica infatti la nota di aprile «che la presentazione di un ricorso avverso il verbale di contestazione costituisca un giustificato e documentato motivo di omissione dell'indicazione delle generalità del conducente».
In buona sostanza la polizia stradale in questo caso non può procedere a notificare la seconda multa di 269 euro per omessa delazione ma deve attendere l'esito della vertenza. Operativamente questa disposizione ha suscitato parecchie difficoltà e per questo motivo il ministero è dovuto tornare sull'argomento con la circolare settembrina. Con l'inserimento nel corpo del verbale dell'invito alla delazione «entro 60 giorni dalla notifica del verbale stesso ovvero del provvedimento con cui si sono conclusi i rimedi giurisdizionali o amministrativi previsti dalla legge» risulta superata ogni perplessità procedurale connessa alla difficoltà di monitorare costantemente i procedimenti sanzionatori.
Circa la supposta autonomia del procedimento di comunicazione dei dati rispetto all'illecito principale il ministero mantiene un orientamento favorevole all'automobilista.
Non si può gravare con una seconda multa il cittadino che comunica alla polizia di aver proposto ricorso contro il verbale contenente l'intimazione alla delazione (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2011).

VARIMULTE STRADALI/ Dimezzati i tempi per i ricorsi. Infrazioni annullate se la p.a. non deposita copia degli atti. Le disposizioni frutto dello schema di decreto sui procedimenti civili.
Dimezzati i termini per proporre ricorso al giudice di pace contro le multe stradali che seguiranno lo schema processuale del rito del lavoro. Si profilano però nuove ipotesi di annullamento delle infrazioni quando la pubblica amministrazione omette di depositare copia degli atti di accertamento prima della data dell'udienza.
Sono queste alcune delle conseguenze derivanti dalla definitiva approvazione parte del consiglio dei ministri dell'01.09.2011 dello schema di decreto legislativo recante disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'art. 54 della legge 18.06.2009, n. 69 (si veda ItaliaOggi del 02/09/2011).
L'importante provvedimento, in corso di pubblicazione, razionalizza la normativa speciale in materia civile riconducendo i riti ai tre principali modelli procedimentali ovvero il rito del lavoro, quello sommario e quello ordinario. In realtà la riforma non modificherà sostanzialmente il rito stradale che di fatto è già molto assimilato a quello speciale del lavoro e particolarmente semplificato. Ma non mancano le novità formali degne di essere considerate. Innanzitutto la novella sgombera il campo dagli intrecci troppo complessi tra la legge 689/1981 e il codice stradale. Almeno per quanto riguarda lo schema processuale di riferimento.
Con l'entrata in vigore del dlgs, infatti, si chiarirà definitivamente che la procedura di opposizione all'ordinanza ingiunzione (sia stradale che non stradale), troverà compiuta disciplina nel nuovo articolo 6 del decreto legislativo e non più negli artt. 22 e seguenti della legge 689/1981. Diversamente, per quanto riguarda il ricorso in sede giurisdizionale contro una multa stradale il nuovo articolo 204-bis del codice della strada rinvierà all'articolato previsto dall'art. 7 del dlgs in corso di pubblicazione. Come specificato anche nella relazione illustrativa, si è reso necessario evitare dubbi interpretativi di sorta e per questo le due procedure, per quanto simili, sono state differenziate e specificate.
Per quanto riguarda innanzitutto il ricorso contro le multe al giudice di pace non sono poi così tante le modifiche. A parte il dimezzamento dei termini per proporre censure che scenderanno a 30 giorni. Per il resto, eccetto il richiamo al rito del lavoro, «ove non diversamente stabilito», una delle novità favorevoli alla linea difensiva è riscontrabile nel nono comma del nuovo art. 7 del dlgs. Se l'opponente o il suo difensore non si presentano all'udienza senza giustificati motivi il giudice convaliderà la multa «salvo che la illegittimità del provvedimento risulti dalla documentazione allegata dall'opponente, ovvero l'autorità che ha emesso il provvedimento impugnato abbia omesso il deposito dei documenti».
In buona sostanza si apre la possibilità di ottenere vittoria anche solo sulla base della negligenza della pubblica amministrazione che non ha depositato gli atti oppure se la vicenda è palesemente a favore del trasgressore. Letteralmente questa opzione sembra potersi esercitare solo se la pa non si presenta ma sul punto sono già sorti dubbi interpretativi.
Novità anche sul fronte della sospensione dell'efficacia del provvedimento impugnato. Dopo la stretta introdotta con la legge 120/2010 nell'agosto scorso le cose si complicano ulteriormente e il rinvio all'art. 5 del dlgs evidenzia l'intenzione del legislatore per una maggior severità nella concessione del beneficio. Sul fronte del ricorso al prefetto, esperite inutilmente (entro 60 giorni) censure contro una sanzione stradale, il trasgressore manterrà sempre la possibilità di presentarsi al giudice per contestare la decisione del prefetto.
Con la novella anche questo rito, individuato dall'art. 205 cds, verrà semplificato e rielaborato, con esplicito rinvio al nuovo articolo 6 del decreto legislativo specificamente dedicato alle opposizioni contro tutte le ordinanze ingiunzione. Ma in questo caso la riforma non tratta solo di multe stradali, ma di qualsiasi infrazione amministrativa disciplinata dalla legge di depenalizzazione che ormai da 30 anni continua a rappresentare un riferimento importante nell'attività di polizia (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIFabbricati rurali, scadenze inutili. Impossibile definire l'accatastamento entro il 30 settembre. Circolare dei geometri sul decreto sviluppo: manca il decreto sulle modalità applicative.
Nessuna modalità operativa e numerose perplessità sul tema dell'accampionamento, vale a dire l'accatastamento, dei fabbricati rurali nelle categorie A/6 e D/10, imposto dal decreto cosiddetto «Sviluppo», stante la mancata emanazione del decreto attuativo prescritto, rendono impraticabile il rispetto della scadenza del prossimo 30 settembre.
Questo il grido di allarme che si è alzato dalle categorie professionali e riassunte, dal Consiglio nazionale dei geometri e dei geometri laureati, nella circolare 06.09.2011 n. 8600 di prot., avente a oggetto l'esenzione da imposte dei fabbricati rurali, di cui al comma 3 e 3-bis, dell'art. 9, dl n. 557/1993 e successive modificazioni e integrazioni. Ma ieri rispondendo a un'interrogazione in Commissione finanze alla Camera, il sottosegretario all'Economia Bruno Cesario ha reso noto che il decreto previsto dal dl 70/2011 risulta essere stato predisposto proprio in questi giorni ed è ora all'esame dei diversi uffici competenti dell'amministrazione finanziaria: sarà emanato, ha spiegato Cesario, tenendo conto dei termini di cui al comma 2-bis dell'art. 7 del dl 70/2011.
Con i commi 2-bis, ter e quater dell'art. 7, dl n. 70/2011, convertito nella legge n. 106/2011, il legislatore tributario ha accolto la tesi della Suprema Corte di Cassazione (tra le altre, sentenze n. 18565 e 18570 del 2010) che ha affermato la necessità, al fine di poter ottenere l'esenzione da tributi (Irpef e Ici, in particolare), di accatastare i fabbricati rurali, abitativi e strumentali, rispettivamente nelle categorie A/6 e D/10, nonostante il sistematico diniego dell'Agenzia del Territorio.
Tale diniego è stato ritenuto corretto dalla stessa dottrina e dalla categoria dei professionisti tecnici, poiché la categoria A/6, destinata agli abitativi, risulta superata ed effettivamente soppressa dalla stessa agenzia (1993) che l'aveva dichiarata inesistente sul territorio, mentre la categoria D/10, destinata ai fabbricati strumentali, non permette un'estensiva applicazione, poiché le caratteristiche richieste sono tali da non consentire destinazioni d'uso diverse da quelle per cui sono state edificate.
Il comma 2-bis, dell'art. 7 del decreto sviluppo permette (in sanatoria) di presentare un'istanza da parte dell'interessato (proprietario e/o titolare di diritti reali) al fine di variare la categoria attribuita alla costruzione, con l'ottenimento del classamento appena indicato, nel rispetto dei requisiti di ruralità, di cui all'art. 9, dl n. 557/1994; a detta domanda, però, deve essere allegata un'autocertificazione dei soggetti interessati che attestino, con ripercussioni di ordine penale in caso di mendacità, la sussistenza dei requisiti indicati dal citato art. 9, dl 557/1993 per «almeno cinque anni continuativi».
Inoltre, il successivo comma (2-quater) del decreto richiamato dispone che le modalità operative e applicative saranno chiarite da un apposito decreto ministeriale, alla data odierna ancora da emanare, soprattutto per gli accertamenti dell'agenzia e del comune; la conseguenza è che i proprietari e, naturalmente, i professionisti delegati, allo stato attuale non sono ancora in condizione di predisporre alcunché, in quanto non è stato definito se l'aggiornamento dovrà essere effettuato con la procedura tradizionale (DOCFA) o con una procedura semplificata, stante il fatto che la disposizione parla esclusivamente di «domanda» e non di denuncia o dichiarazione, con la possibile previsione (tesi dei geometri) che detto aggiornamento possa essere sviluppato con la presentazione di una mera istanza «generica», allegando l'autocertificazione indicata, stante l'obbligo destinato ai soli fini fiscali.
Sul punto, peraltro, una serie di perplessità sono state individuate anche dalla circolare in commento (si veda anche Italia Oggi del 16-17/06/2011 e 01/08/2011) con particolare riferimento alla necessità di accampionare anche quei fabbricati ancora censiti nel catasto terreni in quanto non hanno subito variazioni sostanziali (circ. 96/T/2008), per quelli ancora in costruzione, ma si aggiunge anche per quanto concerne il requisito da attestare la continuità di possesso «quinquennale» e «non discontinuo» dei requisiti di ruralità e per quanto concerne la fine dei contenziosi ancora aperti.
Sul possibile accampionamento dei fabbricati rurali non ancora trasferiti al catasto fabbricati e di quelli ancora da accatastare o in corso di accampionamento, proprio per l'ottenimento dei benefici fiscali, i geometri ritengono che, allo stato attuale, una possibile soluzione sia quella di produrre un apposito modello DOCFA «semplificato», ancorché nutrano giustificate perplessità sulla possibilità che il Territorio respinga le domande presentate, mentre per quelli già censiti ma in altre categorie lo stesso consiglio nazionale suggerisce la presentazione di un'istanza «generica» al Territorio e al Comune interessato (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2011).

ENTI LOCALIMANOVRA BIS/ La Scia per aprire. L'attività inizia con una segnalazione. Liberalizzata anche la vendita di tabacchi e giornali.
Per la vendita di quotidiani, periodici e tabacchi, per l'apertura di una sala giochi, una discoteca o un'agenzia di affari non sarà più necessaria l'autorizzazione formale da parte del comune o del questore. Sarà, infatti, sufficiente presentare una Scia, ovvero la segnalazione certificata di inizio attività che dal luglio 2010 ha sostituito la Dia introdotta nell'ordinamento con la legge 241/1990, con il fine di liberalizzare l'esercizio delle attività economiche.
La navetta. Il Senato, con l'approvazione ieri della legge di conversione del dl 138 licenziato dal Governo due giorni prima di ferragosto e per la quale ha richiesto all'aula il voto di fiducia, ha fatto da apripista alla ormai prossima seduta dell'altro ramo del Parlamento, licenziando il testo contenente sia il maxi-emendamento del Governo che le modifiche approvate dalla Commissione bilancio del Senato.
La libertà d'impresa. Al di là di quello che sarà effettivamente l'ambito di applicazione della legge e che soltanto il Giudice potrà legittimamente delimitare, è possibile, fin da ora, da una prima lettura delle nuove disposizioni rilevare che nell'immediato futuro il tradizionale rapporto tra il futuro imprenditore e la pubblica amministrazione sarà destinato ad essere complessivamente rivoluzionato.
Infatti, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto 138/2011 ed in corso di approvazione, Stato, regioni, comuni e province devono adeguare i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge.
I vincoli. Uniche eccezioni, tra le diverse individuate dall'articolo 3 del dl in corso di conversione, i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario, i principi fondamentali della Costituzione; il danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, il contrasto con l'utilità sociale.
Insomma, un campo che sembra ben più delimitato rispetto quello attualmente previsto dall'articolo 41 della Costituzione il quale prevede, più genericamente, che «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
Decolla la Scia. In pratica, fermo restando che la disciplina delle attività economiche è oggi di competenza esclusiva delle regioni, entro un anno Stato ed enti locali dovranno fare la loro parte per adeguare i rispettivi ordinamenti ai principi contenuti al comma 1 dell'articolo 3 del dl 138/2011.
Dopo di che le autorizzazioni saranno sostituite da una Scia, ovvero da un mero adempimento attraverso il quale l'imprenditore dimostrando di possedere i requisiti ed i presupposti previsti dalla disciplina di riferimento, potrà aprire immediatamente la propria bottega.
I regolamenti del Governo. Nel maxi-emendamento è stata proposta anche l'introduzione, all'articolo 3, comma 3, di un ulteriore inciso il quale prevede la delega al Governo per la redazione di regolamenti di delegificazione che contengano anche l'elenco delle disposizioni abrogate. Tuttavia, se il fine consentirebbe di accelerare il processo di liberalizzazione e di certezza del diritto, d'altro canto la norma non tiene conto che la Consulta, con diverse sentenze (333/95; 482/95; 376/2002), ha affermato che i regolamenti di delegificazione non possono incidere sulle materie di competenza regionale.
Ciò in quanto tale strumento, che ha il solo fine di semplificare ciò che era già disciplinato dalle leggi statali e che dunque solo su queste può incidere, può operare su fonti di diversa natura, tra le quali vi è un rapporto di competenza e non di gerarchia. E quindi non può essere delegificato ciò che appartiene all'ambito legislativo regionale, a meno che lo Stato non decida di vietare determinati limiti come del resto è stato fatto con i commi 8 e 9 del medesimo articolo 3 del dl 138/2011 che ha individuato le restrizioni vietate, integrando l'elenco dei divieti già fissati con il dlgs 59/2010 di recepimento della direttiva Servizi (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2011).

ENTI LOCALIMANOVRA BIS/ Revisori longa manus della Corte conti. Revisori come longa manus delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti.
L'articolo 14 del dl 138/2011, come riscritto dal maxi-emendamento passato ieri al senato incide profondamente sulle funzioni dell'organo di revisione contabile degli enti locali. Infatti, stabilisce per la prima volta un contatto diretto tra i componenti dell'organo e le sezioni regionali di controllo della magistratura contabile, prevedendo che «il collegio, ai fini del coordinamento della finanza pubblica, opera in raccordo con le sezioni regionali di controllo della corte dei conti», creando un collegamento molto chiaro tra i controlli interni di natura preventiva e relativi alla gestione durante il suo evolversi ed i controlli esterni, successivi alla conclusione della gestione medesima.
È il tentativo, da parte del legislatore, di rinvigorire il sistema dei controlli negli enti locali, pesantemente svuotato e messo in discussione dalle leggi Bassanini, trasformando in maniera molto forte il ruolo dei revisori dei conti, che da garanti del corretto operare dell'organo di governo e, in particolare del consiglio, si trasformano in veri e propri controllori della legittimità della spesa, in ossequio alle indicazioni della Corte dei conti, che finisce per avvalersi dei revisori per svolgere le proprie funzioni di controllo. Che da successivo e collaborativo, si trasformano sempre più in attività di controllo interno e piena ingerenza su tutte le questioni connesse alla gestione contabile e al patto di stabilità, tra cui non solo le regole di bilancio, ma anche le verifiche sulla correttezza di voci di spesa rilevanti, quali quelle connesse al personale.
In conseguenza di questo nuovo ruolo, cambia il sistema di reclutamento dei revisori. Potranno essere nominati solo soggetti in possesso dei requisiti previsti dai principi contabili internazionali, della qualifica di revisori legali come disciplinata dal dlgs 39/2010 e di specifica qualificazione professionale (da dimostrare evidentemente col curriculum) in materia di contabilità e finanza pubblica locale, sulla base di criteri di professionalità che saranno stabiliti dalla Corte dei conti, ad ulteriore conferma dello strettissimo collegamento tra la magistratura contabile e il nuovo corso degli organi di revisione.
Il sistema di nomina viene in parte modificato: infatti, i componenti dell'organo di revisione non potranno essere più scelti sulla base della mera iscrizione al registro professionale ed alla candidatura presentata al consiglio, ma estratti da un elenco composto da tutti i soggetti in possesso dei requisiti di cui sopra.
Di estrazione parlava anche il precedente testo della norma. La gran parte dei primi interpreti ha letto la previsione nel senso che i revisori debbano essere estratti a sorte. Il che, in effetti, consentirebbe di evidenziare l'indipendenza dalla compagine di governo dell'ente locale.
Tuttavia, tale chiave di lettura, per quanto non esclusa dalla norma, non appare del tutto convincente. Infatti, la legge si limita a parlare di estrazione, non fa riferimento ad un'estrazione a sorte, né vi è alcuna modifica, espressa o tacita, alla procedura di nomina prevista dall'articolo 234 del dlgs 267/2000, che assegna ai consigli il compito di individuare i revisori.
Probabilmente, la norma deve essere più correttamente intesa nel senso che i consigli potranno incaricare solo i revisori in possesso dei requisiti indicati prima ed inseriti negli elenchi appositamente predisposti.
L'indipendenza del loro operato, a questo punto, non risiederà tanto sul meccanismo della nomina. Tra l'altro, l'estrazione a sorte lascia parecchie perplessità, considerando che un revisore iscritto potrebbe non gradire per una serie di ragioni l'incarico toccatogli per ventura in una sede magari lontana o poco nota.
È, invece, il raccordo con la Corte dei conti la vera novità, lo strumento per trasformare definitivamente il collegio dei revisori in un organo del tutto autonomo dalla politica, visto che i revisori dei conti risponderanno per primi davanti alla magistratura contabile delle responsabilità per il loro operato contrario alle regole tecniche contabili (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2011).

ENTI LOCALI - CONSIGLIERI COMUNALI:  MANOVRA BIS/ In consiglio si va nel tempo libero. Riunioni da tenere preferibilmente fuori dall'orario di lavoro. Gli enti sotto i 1.000 abitanti sopravvivono. Ma dovranno esercitare le funzioni in forma associata.
Nei comuni con meno di 15.000 abitanti, le sedute di giunta, consiglio e lo svolgimento di commissioni non saranno più previste obbligatoriamente nelle ore serali, ma preferibilmente in orario che non coincida con l'attività lavorativa dei rispettivi componenti.
Dal prossimo rinnovo dei consigli comunali, negli enti con meno di 1.000 abitanti, la forma di governo della comunità locale è prevista da solo sei consiglieri, oltre al sindaco. Negli enti da 1.000 a 3.000 abitanti, invece, oltre al sindaco e sei consiglieri è previsto un numero massimo di due assessori. Numeri che passano a sette consiglieri e tre assessori, negli enti da 3.000 a 5.000 abitanti, mentre da 5.000 a 10.000 abitanti, gli enti saranno governati da un sindaco, dieci consiglieri e quattro assessori. Infine, scampano la soppressione gli enti con meno di mille abitanti, i quali, però dovranno obbligatoriamente esercitare, in forma associata, tutte le funzioni amministrative e i servizi pubblici loro spettanti. Alle neo unioni, pertanto, saranno trasferite tutte le risorse umane e strumentali relative alle funzioni ed ai servizi loro affidati, nonché i relativi rapporti finanziari risultanti dal bilancio.

Queste alcune delle disposizioni contenute nel testo del maxi-emendamento che il governo ha presentato in senato alla manovra di Ferragosto (dl 138/2011). Entriamo nel dettaglio delle previsioni che riguardano molti enti locali.
Consigli e giunte dopo il lavoro.
È durata pochi giorni l'originaria previsione formulata nel testo del relatore in commissione bilancio che prevedeva, nei comuni con meno di 15.000 abitanti, che lo svolgimento delle sedute di consiglio comunale, giunta e delle commissioni consiliari dovessero svolgersi nelle ore serali (si veda ItaliaOggi del 03/09/2011). Con un emendamento posto dai senatori della Lega Nord, Massimo Garavaglia e Gianvittore Vaccari, approvato dalla commissione bilancio al termine della seduta-fiume di domenica scorsa e ripreso dal governo nel maxi-emendamento, adesso le sedute dovranno «preferibilmente» svolgersi in un arco temporale non coincidente con l'orario di lavoro dei partecipanti.
Trova fondamento, pertanto, l'ipotesi formulata da ItaliaOggi che la ratio di tale disposizione si fondasse nella previsione di non far cadere la produttività per quei datori di lavoro, pubblici e privati, che abbiano alle loro dipendenze lavoratori che espletano il mandato elettivo. Quello che emerge dalla nuova formulazione, però, è l'uso dell'avverbio «preferibilmente».
Quindi, a rigor di logica, non vi è l'obbligo di convocare le sedute in orari incompatibili con l'attività lavorativa degli amministratori, senza dimenticare che, stante le diverse professioni (lavoratori dipendenti o autonomi) rappresentate all'interno dei consigli comunali o delle giunte, trovare un orario che possa soddisfare tutti i suoi componenti è, a prima vista, molto difficile. Non è stata invece modificata la disposizione contenuta nel testo uscito dalla commissione bilancio, che prevede il permesso retribuito per i consiglieri che siano dipendenti di assentarsi per la sola durata della seduta e per il tempo strettamente necessario per raggiungere il luogo di svolgimento.
Cessa, pertanto, dall'entrata in vigore della legge di conversione del dl n. 138/2011, la concessione del permesso retribuito per l'intera giornata di svolgimento del consiglio comunale e la previsione di un ulteriore giorno di assenza dal lavoro (retribuito) qualora la seduta di consiglio dovesse protrarsi oltre la mezzanotte.
Consigli a dieta.
L'articolo 16 del maxi-emendamento rinnova altresì le disposizioni in materia di numero di amministratori, nell'ottica di un deciso contenimento dei costi della politica a carico della collettività amministrata. Si prevede che a decorrere dal primo rinnovo di ciascun consiglio comunale successivo alla data di entrata in vigore della manovra di ferragosto, per i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, il consiglio comunale è composto, oltre che dal sindaco, da sei consiglieri.
Nei comuni con popolazione superiore a 1.000 e fino a 3.000 abitanti, invece, il consiglio comunale sarà composto, oltre che dal sindaco, da sei consiglieri ed il numero massimo degli assessori è stabilito in due. Negli enti locali tra 3.000 e 5.000 abitanti, il consiglio comunale è composto, oltre che dal sindaco, da sette consiglieri ed un numero massimo di tre assessori. Infine, nei comuni tra 5.000 e fino a 10.000 abitanti, il consiglio comunale sarà composto, oltre che dal sindaco, da dieci consiglieri ed un numero massimo di quattro assessori.
Piccoli comuni, uniti si risparmia.
Sempre nell'ottica di contenere i costi, l'articolo 16 prevede, salvandoli dall'originaria soppressione, che i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti avranno l'obbligo di esercitare in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti, mediante un'unione di comuni la cui popolazione residente, di norma, sia superiore a 5.000 abitanti. Detto limite scende a 3.000 se i comuni che ne faranno parte appartengono o siano appartenuti a comunità montane. A detta unione, la norma prevede la facoltà di aderire anche da parte di comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti. Da queste disposizioni, ne restano escluse le isole minori e l'enclave di Campione d'Italia.
Tra i compiti che dovrà svolgere l'unione, quella della programmazione economico-finanziaria e la gestione contabile. I comuni che ne fanno parte, concorrono alla predisposizione del bilancio di previsione dell'unione per l'anno successivo mediante la deliberazione di consiglio, da adottarsi entro il 30 novembre, di un documento programmatico, nell'ambito del piano generale di indirizzo deliberato dall'unione entro il precedente 15 ottobre.
L'unione, poi, succede a tutti gli effetti nei rapporti giuridici in essere che siano inerenti alle funzioni ed ai servizi ad essa affidati. Per le predette attività, la norma prevede anche il trasferimento di tutte le risorse umane e strumentali. Inoltre, dal 2014, le unioni dei mini enti saranno soggette al patto di stabilità interno per gli enti locali, nella formulazione prevista «per i comuni aventi corrispondente popolazione».
Gli organi dell'unione saranno il consiglio, il presidente e la giunta. Il consiglio sarà composto da tutti i sindaci membri dei comuni costituenti e, in prima battuta, da due consiglieri comunali per ogni comune che ne fa parte, con l'obbligo che uno dei due appartenga alle opposizioni. Inoltre, fino all'elezione del presidente dell'unione (il cui mandato dura due anni e mezzo ed è rinnovabile), il sindaco del comune che ha il maggior numero di abitanti tra quelli che sono membri dell'unione, esercita tutte le funzioni di competenza dell'unione.
Infine, la giunta, composta dal presidente e dagli assessori, nominati dallo stesso fra i sindaci componenti il consiglio e che non dovranno essere più di quelli previsti per i comuni aventi corrispondente popolazione.
Spese di rappresentanza più trasparenti.
Saranno più trasparenti le spese di rappresentanza sostenute dagli organi di governo degli enti locali. Scatta, infatti, l'obbligo di elencarle, per ciascun anno, in un apposito prospetto allegato al rendiconto di gestione. Il predetto prospetto, poi, dovrà essere trasmesso alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti ed è pubblicato, entro dieci giorni dall'approvazione del rendiconto, sul sito internet dell'ente locale.
Sarà un provvedimento interministeriale Interno-Economia, che sarà emanato entro novanta giorni dalla conversione in legge del dl n.138/2011, ad adottare uno schema tipo del prospetto relativo alle spese di rappresentanza (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2011).

PUBBLICO IMPIEGOMANOVRA BIS/ Statali, salva la tredicesima di lavoratori e dirigenti.
Tredicesima salva per i dipendenti statali, nel caso in cui le amministrazioni non conseguano gli obiettivi di risparmio fissati annualmente dall'articolo 10, comma 12, del dl 8/2011 convertivo in legge 111/2011.
Il maxi-emendamento riscrive l'articolo 1, comma 7, del dl 138/2011, cancellando la penalizzazione che avrebbe coinvolto tutti i dipendenti delle amministrazioni, nel caso di mancato raggiungimento di obiettivi gestionali, per altro non imputabile ai dipendenti, ma semmai agli organi di governo ed alla dirigenza.
Il nuovo articolo 1, comma 7, salva dalla posticipazione della tredicesima anche i dirigenti, ma modifica la norma ripensandola in maniera più corretta e coercitiva proprio nei confronti dei vertici delle amministrazioni. Il testo, infatti, prevede che nel caso l'amministrazione competente manchi gli obiettivi di risparmio previsti, in base ad una comunicazione del ministero dell'economia e delle finanze, dovrà essere prevista «la riduzione della retribuzione di risultato dei dirigenti responsabili, nella misura del 30 per cento».
Si passa, dunque, da una misura che colpiva indiscriminatamente tutti i lavoratori incidendo, per altro, sulla retribuzione fissa, della quale la tredicesima mensilità è parte integrante, ad un sistema sanzionatorio, posto a colpire esclusivamente i dirigenti direttamente responsabili del mancato ottenimento dei risparmi previsti, incidendo, come è corretto che sia, non sullo stipendio tabellare, ma sulla retribuzione di risultato. Quella, cioè, direttamente connessa alla capacità dimostrata dal dirigente di conseguire gli obiettivi posti dalla legge e dall'amministrazione. Appare certamente più corretto agire in via sanzionatoria sul salario accessorio e non su quello fisso, oltre che incidere in modo selettivo solo sui dipendenti effettivamente responsabili dei mancati risultati.
Resta la questione dell'ambito di applicazione della norma. Il servizio studi del senato, sulla base della stesura originaria dell'articolo 1, comma 7, che conteneva un espresso riferimento alla possibilità di differire la tredicesima ai «dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1 comma 2 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165», ha sostenuto che esso si applichi anche a regioni ed enti locali.
Ora che l'articolo 1, comma 7, del dl 138/2011 viene del tutto riscritto dal maxi-emendamento che cancella sia il differimento della tredicesima, sia il riferimento alle amministrazioni pubbliche elencate dall'articolo 1, comma 2, del dlgs 165/2001, dovrebbe risultare indubbio che esso non trova applicazione per regioni ed enti locali (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAAntincendio. Gli estintori ovunque in azienda.
Rischia la condanna penale il datore di lavoro che non mette gli estintori in tutta l'azienda, incluse le zone che non sono a rischio incendio.
Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza 07.09.2011 n. 33294, ha confermato la condanna nei confronti di un imprenditore di Catanzaro che non aveva messo gli estintori nell'area esterna della sua autofficina destinata al lavaggio degli automezzi. L'imprenditore si è difeso sostenendo che i dispositivi, presenti in tutta l'azienda, mancavano soltanto nel cortile esterno, destinato al lavaggio delle auto e dunque sempre a contatto con l'acqua. Ma la tesi non ha convinto il Tribunale e la Corte d'appello di Catanzaro che hanno confermato quel capo della sentenza.
Ora la quarta sezione penale lo ha reso definitivo precisando che «in materia di omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro (art. 451 c.p.) -mirando la norma a limitare i danni derivanti da incendio, disastro o infortuni sul lavoro nelle ipotesi in cui detti eventi si dovessero verificare- la condotta punibile è quella soltanto che consiste nella omessa collocazione ovvero nella rimozione, ovvero ancora nella resa inidoneità allo scopo degli apparecchi e degli altri mezzi predisposti alla estinzione dell'incendio nonché al salvataggio o al soccorso delle persone. Ne consegue che non si richiede anche che si verifichi in concreto uno degli eventi, i cui ulteriori danni la norma mira ad impedire o, comunque, a limitare».
La deduzione di fatto circa la mancata adozione dei presidi antincendio in una zona in cui non sussisterebbe pericolo di incendio non è stata considerata dalla Corte distrettuale. Se per l'esercizio di una certa attività come questa, la legge prescrive l'adozione di determinate misure antinfortunistiche in tutti i luoghi dell'azienda e ovunque venga svolta l'attività, «non può essere rimessa alla discrezionale volontà del gestore individuare le zone ove il pericolo di incendio sussiste e quelle ove non sussiste». Infatti, è opinabile dire che, «laddove sussiste una situazione di umidità o di bagnato, l'incendio non potrebbe mai verificarsi e che, quindi, manca l'elemento del pericolo richiesto dalla norma incriminatrice» (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2011).

PUBBLICO IMPIEGO: Politica sociale - Direttiva 77/187/CEE- Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese.
Il diritto dell'UE osta a che i lavoratori trasferiti, compresi quelli che si trovano alle dipendenze di una pubblica autorità di uno Stato membro e che sono riassunti da un'altra pubblica autorità, subiscano, per il solo fatto del trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale.
La riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un'altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14.02.1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell'ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro.
Quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187 porta all'applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all'anzianità lavorativa, l'art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell'anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all'atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza presso quest'ultimo. È compito del giudice del rinvio esaminare se, all'atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo (Corte di giustizia europea, Grande Sezione, sentenza 06.09.2011 n. C-108/10 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Cause di esclusione.
La disciplina di cui all'art. 38, comma primo, lett. m-ter del Codice dei Contratti Pubblici, introdotta dall'art. 2 della legge n. 94 del 2009, introduce una nuova autonoma causa di esclusione dalle procedure di aggiudicazione, ma non fa venire meno la vigente disciplina in materia di informazioni antimafia. Ciò rilevato, pertanto, la circostanza che un determinato accadimento possa risultare, in concreto, inidoneo ad integrare la fattispecie di cui al menzionato art. 38, non impedisce affatto che esso possa essere considerato quale univoco elemento indiziario ai fini dell'adozione dell'informativa antimafia.
L'intervenuto annullamento giurisdizionale di una informativa antimafia per difetto di istruttoria e di motivazione, non preclude alla competente Amministrazione di svolgere un nuovo procedimento, che conduca ad un completo ed approfondito rinnovo della valutazione dei fatti. In tale contesto deve, pertanto, escludersi qualsiasi intento elusivo del giudicato, da parte dell'Amministrazione, in quanto certamente titolare, in seguito all'annullamento dell'originaria informativa, del potere di svolgere un nuovo procedimento valutativo, correlato alla acquisizione di ulteriori elementi istruttori.
Il rinnovo del procedimento, semmai, costituisce proprio uno degli effetti conformativi della pronuncia di annullamento, ferma restando la eventuale sindacabilità della nuova determinazione, anche alla luce dei vincoli derivanti dal giudicato (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.09.2011 n. 5014 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In sede di applicazione sinergica della norma igienico-sanitaria di cui all'art. 216, R.D. n. 1265 del 1934 e della norma urbanistica demandata al Comune, ciò che rileva è la dimostrazione da parte dell'imprenditore che l'esercizio dell'industria insalubre, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, non arrechi nocumento alla salute del vicinato e non tanto la formale osservanza di una determinata distanza imposta dalla medesima norma urbanistica.
È legittimo il provvedimento di concessione edilizia rilasciato dal Comune ad un insediamento di un complesso artigianale esercente attività di industria insalubre di prima classe avente ad oggetto il collocamento dello stesso ad una distanza inferiore ai 150 metri dagli insediamenti abitativi qualora non recante alcun pregiudizio agli abitanti della zona, preso atto delle tecniche di lavorazione all'interno del complesso. La circostanza ricorre, in particolare, nella fattispecie concreta, laddove la competente ASL ha ritenuto che le attività di cui alla concessione edilizia contestata (ossia rifinitura di lastre di marmo e deposito delle stesse) sono ammissibili da un punto di vista igienico-sanitario, stante l'intervenuta prova da parte dell'interessato, che l'esercizio dell'attività, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, non reca nocumento alla salute del vicinato.
Come avvertito dalla più recente giurisprudenza, l'installazione nell'abitato di una industria insalubre non è di per sé vietata in assoluto, dal momento che l'art. 216 T.U.LL.SS. n. 1265 del 1934 lo consente se la stessa installazione è accompagnata dall'introduzione di particolari metodi produttivi o cautele in grado di escludere qualsiasi rischio di compromissione della salute del vicinato (cfr. TAR Umbria Perugia, sez. I, 04.09.2007, n. 661), tenuto conto che l'inclusione di un'attività nell'elenco delle industrie insalubri non comporta automaticamente il diniego dell'autorizzazione richiesta, atteso che la pericolosità per la salute di talune attività produttive deve essere considerata non già in astratto, bensì in concreto, avendo riguardo alle misure e alle cautele suggerite dal progresso tecnico -e concretamente dispiegate dall'imprenditore- che possono essere tali da rendere innocua, grazie ad opportuni accorgimenti, anche un'attività potenzialmente nociva (cfr. TAR Trentino Alto Adige, Sezione di Trento, n. 241 dell'08.07.2006).
Peraltro, induce il Collegio a confermarsi nel convincimento sin qui espresso l’avviso ricavabile sempre dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. sez. V, n. 1794 del 19.04.2005) alla stregua del quale gli art. 216 e 217 del T.U.LL.SS., che non fissano una determinata distanza da osservare, conferiscono al Comune, ben vero, ampi poteri in materia di industrie insalubri, anche prescindendo da situazioni di emergenza, a condizione però che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienico-sanitari che eventualmente impediscano l’installazione di un tale tipo di industria.
Nel caso in esame, l’attività industriale esercitata dall’appellante Società può ritenersi correttamente autorizzata in quanto, allo stato, essa è supportata dal parere positivo espresso dalla competente Autorità sanitaria, avendo preordinato l’imprenditore specifiche cautele tecniche (cfr. parere citato) e, quindi, della sussistenza delle condizioni individuate, a ben vedere, non solo dalla norma statuale citata, ma anche da quella urbanistica, se sinergicamente interpretate per il comune scopo perseguito.
In conclusione, come già osservato da ulteriore condivisibile giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Sez. V, 13.10.2004, n. 6648), ciò che rileva in sede di applicazione sinergica della norma urbanistica e della norma igienico-sanitaria di legge è proprio la dimostrazione da parte dell'imprenditore che l'esercizio dell'industria insalubre, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, non arrechi nocumento alla salute del vicinato e non tanto la formale osservanza di una determinata distanza
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.09.2011 n. 4952 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Differimento dell'accesso agli atti di gara.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con sentenza 01.09.2011 n. 4905 ha precisato che in un appalto pubblico l’accesso al contenuto delle valutazioni della commissione, in merito alla verifica delle anomalie, deve essere differito fino al momento dell’aggiudicazione definitiva.
Per una migliore comprensione della decisione si precisa che l’articolo 13 (Accesso agli atti e divieti di divulgazione) del d.lgs. 163/2006 nel suo comma 2 prevede, in particolare, il differimento del diritto di accesso: “…c) in relazione alle offerte, fino all'approvazione dell'aggiudicazione; c-bis) in relazione al procedimento di verifica della anomalia dell'offerta, fino all'aggiudicazione definitiva”.
La sentenza in commento è stata pronunciata in seguito ad un ricorso in materia di accesso presentato da una società che, non avendo positivamente superato la valutazione di congruità dell’offerta, aveva chiesto il rilascio della copia dei verbali relativi alle valutazioni effettuate dalla commissione di gara.
Questa istanza veniva differita dalla stazione appaltante, ai sensi dell’articolo 13, comma 2, lett. c-bis, fino all’aggiudicazione definitiva.
Avverso questa decisione la società presentava ricorso dinanzi al TAR Sardegna, il quale accoglieva il gravame sul presupposto che il differimento contenuto nell’articolo 13 del codice dei contratti pubblici non trovasse applicazione alle offerte presentate dallo stesso ricorrente.
In seguito all’appello presentato dalla stazione appaltante, e in riforma della decisione del giudice di prime cure, il Consiglio di Stato ha chiarito come le previsioni dell’articolo 13 hanno “…un contenuto precettivo generale e non derogabile, come si deduce anche dal fatto che il cit. art 13, al co. 3, dispone che gli atti richiamati non possono essere resi "in qualsiasi altro modo noti", mentre le possibilità di deroga alle prescrizioni in esso contenute (v. co. riferimento al co. 5, lett. a) e b)) sono specificamente individuate.
Del resto, le disposizioni trovano logica giustificazione nell’esigenza che proceda alla valutazione delle offerte senza possibili turbative, che potrebbero derivare dalla conoscenza, all’esterno, delle valutazioni adottate prima della conclusione del procedimento; il differimento, poi, non comprime la tutela degli interessati, perché riguarda atti endoprocedimentali, non autonomamente impugnabili
”.
sezione ha ulteriormente sottolineato come il differimento sia del tutto in linea con le disposizioni contenute nell’articolo 79 (informazioni circa i mancati inviti, le esclusioni e le aggiudicazioni) il quale nel suo comma 5-quater fa salvi i provvedimenti di differimento dell’accesso adottati ai sensi dell’articolo 13.
In conclusione i giudici della V sezione hanno chiarito come sia legittima la decisione di una stazione appaltante che decida di differire l’accesso al contenuto delle valutazioni della commissione, in merito alla verifica delle anomalie, sino al momento dell’aggiudicazione definitiva (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In caso di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti, il destinatario dell'ordinanza sindacale di rispristino è colui cui è riconducibile il fatto. Conseguentemente, l'ordinanza in parola non può essere adottata laddove risulti del tutto indimostrata la circostanza di cui sopra, specie se permangono difficoltà nell'individuare competenze e imputazioni.
L'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006 richiede che il destinatario dell'ordinanza sia colui cui è riconducibile l'abbandono o il deposito incontrollato del rifiuto. Ne consegue che l'ordinanza in parola non può essere adottata laddove, come accaduto nella fattispecie in esame, risulti del tutto indimostrata la circostanza di cui sopra, specie se permangono difficoltà nell'individuare competenze e imputazioni.
Deve pronunciarsi dichiarazione di inammissibilità dei motivi aggiunti qualora, a seguito dell'impugnazione di un dato provvedimento, ci siano stati solo degli accertamenti successivi non sfociati in altri provvedimenti definitivi, bensì in meri atti interprocedimentali e, dunque, non lesivi (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 01.09.2011 n. 1375 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il provvedimento di esclusione dell'impresa dalla gara pubblica deve essere sottoposto ad impugnazione entro 30 giorni dall'acquisita conoscenza del medesimo, configurandosi, in caso contrario, una impugnazione tardiva.
Il provvedimento di esclusione dell'impresa dalla gara pubblica, in quanto atto della procedura, deve essere sottoposto ad impugnazione, a norma dell'art. 120, comma quinto, D.Lgs. n. 104 del 2010, entro trenta giorni dall'acquisita conoscenza del medesimo, configurandosi, in caso contrario, una impugnazione tardiva.
La tardiva impugnazione del provvedimento di esclusione dalla gara pubblica determina il consolidamento e la definitiva inoppugnabilità del medesimo, nonché, da un lato, il sopravvenuto difetto di interesse in capo all'escluso riguardo alla gara di riferimento e, dall'altro, la insussistenza di ogni obbligo dell'Amministrazione procedente in merito all'esame della domanda di autotutela formulata, in relazione alla quale deve, pertanto, ritenersi legittimo il silenzio serbato (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 30.08.2011 n. 1264 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Devono svolgersi in seduta pubblica gli adempimenti concernenti la verifica dell'integrità dei plichi contenenti l'offerta.
E' principio inderogabile in qualunque tipo di gara quello secondo cui devono svolgersi in seduta pubblica gli adempimenti concernenti la verifica dell'integrità dei plichi contenenti l'offerta, sia che si tratti di documentazione amministrativa che di documentazione riguardante l'offerta tecnica ovvero l'offerta economica, e conseguentemente è da valutare illegittima l'apertura in segreto di plichi.
Il mancato rispetto del principio di pubblicità delle sedute della Commissione, con riguardo alla fase dell'apertura dei plichi contenenti le offerte e delle buste contenenti le offerte economiche dei partecipanti, integra quindi un vizio del procedimento che comporta l'invalidità derivata di tutti gli atti di gara, giacché la pubblicità delle sedute risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali dev'essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi in mancanza di un riscontro immediato, senza che rilievi l'assenza di prova dell'effettiva lesione sofferta dai concorrenti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.08.2011 n. 4806 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

CONDOMINIOStop ai danni immaginari. Lavori in casa, la tranquillità non è un diritto. La Cassazione dichiara non meritevoli di risarcimento disagi, fastidi e ansie.
La tranquillità in casa è «sacrosanta». Ma secondo la Cassazione è un diritto «immaginario», perciò non risarcibile. In particolare se nel condomino si intraprendono lavori lunghi e fastidiosi, disturbando con immissioni sonore continue le altre famiglie, non si è tenuti a risarcire loro il danno non patrimoniale.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza 19.08.2011 n. 17427, ha accolto il ricorso di una coppia di Milano che ha impiegato molti mesi per ristrutturare il suo appartamento, provocando così fastidiose immissioni sonore e di polveri. Per questo motivo i dirimpettai hanno citato in causa la coppia chiedendo, oltre ai danni patrimoniali, anche quelli morali, biologici ed esistenziali. I lavori inoltre hanno causato anche gravi danni al piano di calpestio dell'intero locale prospiciente il cortile del fabbricato.
Il Tribunale meneghino ha accolto l'istanza sia sul fronte del danno morale sia sul fronte di quello patrimoniale, liquidando 35 mila euro. La Corte d'appello ha confermato il verdetto, riducendo tuttavia la misura del risarcimento a 23 mila euro, fra danni morali, alla serenità familiare e biologici. Ma il verdetto è stato ribaltato dalla terza sezione civile della Cassazione. La Suprema corte infatti, seguendo quel filone giurisprudenziale che ha cancellato il danno esistenziale come figura autonoma, ha bocciato i cosiddetti danni «immaginari», come quello alla serenità familiare.
Il danno non patrimoniale, motivano i Consiglieri, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza, che deve essere allegato e provato. In tal caso non si può parlare di danno evento nel senso che il pregiudizio non si verifica per il solo fatto che i lavori siano stati fastidiosi ma vanno accertate le effettive sofferenze patite dagli altri condomini.
Insomma, spiega la Corte, «il danno biologico ha portata tendenzialmente onnicomprensiva, in quanto il cosiddetto danno alla vita di relazione ed i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell'integrità psicofisica, possono costituire solo voci del danno biologico, mentre sono da ritenersi non meritevoli dalla tutela risarcitoria, quei pregiudizi che consistono in disagi, fastidi, disappunti, ansie e in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana né possono qualificarsi come diritti risarcibili diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità. Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale».
Nell'udienza, tenutasi lo scorso 12 maggio, la Procura generale aveva sollecitato una soluzione opposta e cioè la conferma del risarcimento di tutti i danni (articolo ItaliaOggi dell'08.09.2011).

EDILIZIA PRIVATAOrdinariamente, non sussistono ragioni tecniche perché una sopraelevazione abusiva non possa essere demolita senza pregiudizio della parte inferiore.
Ricorre il sig. ... per avversare il provvedimento con cui il Comune di Reggio Calabria gli ha intimato di demolire le opere abusive meglio descritte in epigrafe.
Va respinta l’argomentazione difensiva secondo la quale la demolizione sarebbe di pregiudizio per la parte conforme del fabbricato e dunque andrebbe irrogata una pena pecuniaria: anche in tal caso, avrebbe dovuto la parte ricorrente supportare, con gli opportuni mezzi di prova, l’affermazione (che, in difetto rimane meramente generica) circa il rischio di una compromissione della parte non abusiva dell’immobile (a tacere della circostanza che, ordinariamente, non sussistono ragioni tecniche perché una sopraelevazione non possa essere demolita senza pregiudizio della parte inferiore: cfr. in ordine agli aspetti appena indicati, TAR Reggio Calabria, 25.05.2011, nr. 451).
Quanto al vizio dell’atto costituito dalla erronea fissazione di un termine di 30 giorni in luogo dei sessanta giorni, la censura, meramente formale, non sorregge l’annullamento, in quanto l’interessato conserva il termine di legge per provvedere, termine che, essendo elemento essenziale dell’atto, si sostituisce di diritto a quello inferiore erroneamente stabilito dall’Autorità (TAR Lazio, Roma, II, 10.05.2010, nr. 516, richiamata dalla difesa del Comune) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 12.08.2011 n. 668 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In materia di procedure selettive, le clausole di esclusione sono di stretta interpretazione, in forza del preminente interesse alla massima partecipazione, tanto più al cospetto di previsioni non del tutto chiare.
In materia di procedure selettive, le clausole di esclusione sono di stretta interpretazione, in forza del preminente interesse alla massima partecipazione, tanto più al cospetto di previsioni non del tutto chiare e non prive di margini di ragionevole incertezza. Pertanto, nel caso di specie, sulla base del dato testuale della disciplina di gara e muovendo dalla premessa che la procedura aveva ad oggetto l'affidamento del servizio di vigilanza e prevenzione armata e che il servizio di portierato costituiva solamente un'opzione eventuale, è illegittima l'esclusione dalla gara di una società per non essere iscritta alla camera di commercio per il servizio di portierato.
L'inciso racchiuso nell'art. 3 del capitolato -secondo cui i candidati avrebbero dovuto dichiarare ai sensi dell'art. 39 del D.Lgs. 163/2006 di essere iscritti al Registro della camera di commercio- deve infatti essere interpretato per coerenza sistematica, nella sua indubbia genericità, come riferito alla sola attività principale oggetto dell'appalto, concernente la vigilanza armata (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 04.08.2011 n. 4665 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla definizione di c.d. società di terzo grado e applicabilità alle medesime dell'art. 13 del D.L. n. 223 del 2006: limiti.
Le c.d. società di terzo grado sono quelle società caratterizzate da forme di partecipazione indiretta o mediata, che non sono state costituite da amministrazioni pubbliche e non sono finalizzate a soddisfare esigenze strumentali delle medesime.

Il presupposto per l'eventuale applicazione del divieto contenuto nell'art. 13 del d.l. n. 223 del 2006, anche nei confronti delle società di terza generazione o cd società di terzo grado è che la società costituita o posseduta dall'ente locale svolga servizi strumentali per lo stesso. In presenza di tale circostanza la finalità del d.l. n. 223, di evitare effetti distorsivi della libera concorrenza, si persegue non solo vietando le attività diverse da quelle classificabili come strumentali rispetto alle finalità dell'ente pubblico, ma anche vietando la partecipazione delle società strumentali ad altre società.
In effetti, l'alterazione della libera concorrenza può realizzarsi anche in via mediata, ossia fruendo dei vantaggi derivanti dall'investimento del capitale di una società strumentale in altro soggetto societario costituito con finalità neppure indirettamente strumentali, ma anzi intrinsecamente imprenditoriali. Tale principio si evince in particolare dalla decisione n. 326 del 2008 della Corte costituzionale, che ha ritenuto il divieto imposto alle società strumentali di detenere partecipazioni in altre società volto ad evitare che le società in questione svolgano indirettamente, attraverso proprie partecipazioni o articolazioni, attività loro precluse.
Divieto, peraltro, che la Corte ha ritenuto non esteso alla detenzione di qualsiasi partecipazione o alla adesione a qualsiasi ente, bensì circoscritto alla detenzione di partecipazioni in società o enti che operino in settori preclusi alle società stesse.
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Sono applicabili alle società controllate da società strumentali e costituite con capitale di queste gli stessi limiti che valgono per le società controllanti, ove si tratti di attività inerenti a settori precluse a queste ultime. Infatti, l'utilizzazione di capitali di una società strumentale per partecipare, attraverso la creazione di una società di terzo grado, a gare ad evidenza pubblica comporterebbe, sia pure indirettamente, l'elusione del divieto di svolgere attività diverse da quelle consentite a soggetti che godano di una posizione di mercato avvantaggiata.
Né può costituire valido argomento a contrario la previsione dello scorporo di attività non più consentite alle società strumentali di cui al c. 3 dell'art. 13 del "Decreto Bersani", dovendosi tale disposizione intendere nell'unico senso compatibile con il divieto imposto alle società strumentali di partecipare ad enti, sancito dal comma 1 del medesimo articolo e cioè come volta a costituire un nuovo soggetto societario, destinato a concorrere in pubbliche gare per lo svolgimento di un servizio di interesse generale, che non comporti l'intervento finanziario dell'ente strumentale.
Tale interpretazione trova del resto conferma nella circostanza che l'obbligo di cessione a terzi delle società e delle partecipazioni vietate, abrogato dalla l. finanziaria 2007 (art. 1, c. 720, l. 27.12.2006, n. 296), è stato poi ripristinato dalla l. finanziaria 2008 (l. 24.12.2007, n. 244, art. 3, c. 29), con la previsione di un termine di adempimento più volte prorogato, da ultimo con l'art. 71, co. 1, lett. e) della l. 18.06.2009, n. 69 (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 04.08.2011 n. 17 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

SICUREZZA LAVOROIl datore di lavoro può licenziare il lavoratore impossibilitato ad indossare le scarpe antinfortunio?
In linea generale, il licenziamento di un lavoratore impossibilitato ad utilizzare i dispositivi individuali di sicurezza per malformazioni fisiche è legittimo solo se il datore dimostri la non reperibilità sul mercato di altri DPI idonei e compatibili con la disabilità del dipendente.
Nella questione in esame, un datore di lavoro ha licenziato un lavoratore che non riusciva ad indossare le scarpe antinfortunistiche per una malformazione al piede che è stata dimostrata in sede processuale.
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 25.07.2011 n. 16195, ha ritenuto illegittimo il licenziamento perché il datore di lavoro avrebbe dovuto provare la non reperibilità sul mercato di scarpe antinfortunistiche adatte a consentire in sicurezza l'espletamento del lavoro.
In definitiva, prima di licenziare un lavoratore perché impossibilitato ad usare Dispositivi di Protezione Individuale per un qualsiasi impedimento fisico, il datore di lavoro deve adoperarsi a reperire sul mercato altri DPI utilizzabili dal dipendente che possano comunque garantire la sicurezza richiesta dalla legge.
Solo se tali DPI dovessero risultare non esistenti sul mercato, il datore di lavoro sarà in grado di fornire la prova richiesta per giustificare il licenziamento del proprio dipendente (link a www.acca.it).

APPALTI SERVIZI: E' illegittima la clausola di un bando per l'affidamento del servizio di refezione scolastica, che impone ai partecipanti l'effettiva disponibilità di un centro di cottura nel territorio comunale o di allestirlo esclusivamente in una data area.
L'autorizzazione sanitaria per la gestione di un centro cottura deve risultare necessariamente intestata direttamente al soggetto che svolge il servizio.

In caso di appalto del servizio di refezione scolastica, il richiedere l'effettiva disponibilità di un centro di cottura nel territorio comunale alla data di presentazione della domanda, senza consentire all'impresa di organizzarsi all'esito della vittoriosa partecipazione, equivarrebbe a riservare la gara stessa alla sole imprese che già operano nel territorio, in palese violazione delle disposizioni comunitarie e che, peraltro, è illegittima per irragionevolezza e contrasto con i principi comunitari di massima tutela della concorrenza tra imprese, il bando per l'affidamento del servizio di refezione scolastica, che impone ai partecipanti di allestire un centro per la cottura e la preparazione dei pasti esclusivamente in una data area, tutte le volte in cui tale prescrizione non sia utile ai fini della individuazione del miglior contraente e non sia giustificabile con addotte finalità di controllo dell'attività di confezionamento, dal momento che contrasta con i principi di economicità e di risparmio su scala aziendale, in quanto si determina un indubbio favoritismo per i pochi (o unici) soggetti che già sono presenti in quel preciso ambito territoriale, dovendo considerarsi sufficiente, per le specifiche finalità dell'amministrazione, solo una clausola che stabilisca i tempi massimi di trasporto dei pasti e la possibilità, da parte dell'Amministrazione, di verificare il loro rispetto.
L'autorizzazione sanitaria per la gestione di un centro cottura deve risultare necessariamente intestata direttamente al soggetto che svolge il servizio, poiché la responsabilità del titolare dell'autorizzazione sanitaria (che viene rilasciata intuitu personae e sulla base dei requisiti del solo soggetto richiedente) è personale e l'Amministrazione non può consentire che tale autorizzazione sia intestata a soggetti terzi (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 22.07.2011 n. 476 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Istituzione della Commissione edilizia comunale e suoi poteri.
L’art. 4 del d.P.R. n. 380/2001 (T.U.E.L.), nel delineare i contenuti dei regolamenti edilizi comunali adottati ai sensi dell'articolo 2, comma 4, prevede che, nel caso in cui il Comune intenda istituire la commissione edilizia, il regolamento indica gli interventi sottoposti al preventivo parere di tale organo consultivo. In base a tale disposizione, pertanto, non vi è alcun limite imposto agli enti locali in ordine al’obbligatorietà della istituzione della Commissione in discorso né, tampoco, in ordine ai casi in cui può essere richiesto il parere dell’organo tecnico, che vanno previsti dal regolamento edilizio comunale.
Il T.U. 380/2001 prevede la facoltà del Comune di individuare, a mezzo del regolamento edilizio comunale, i casi di rimessione alla Commissione per la qualità architettonica e il paesaggio affinché essa renda pareri facoltativi, in aggiunta alle ipotesi in cui l’organismo tecnico è tenuto a rendere i pareri obbligatoriamente; ciò purché si tratti di attività edilizia che richiede il rilascio di un titolo edilizio. Inoltre, nulla vieta che l’Amministrazione comunale, in casi particolarmente delicati, possa interpellare la Commissione anche su casi diversi da quelli espressamente previsti, su segnalazione dell’ufficio competente per materia (1).
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(1) Alla stregua del principio nella specie è stata respinta la censura con la quale si era sostenuto che era illegittimo il parere espresso (su di una domanda di permesso di costruire) dalla Commissione per la qualità architettonica e il paesaggio, nella cui competenza consultiva non rientrerebbero, ai sensi del d.P.R. 380/2001, tutti gli interventi che invece il Comune ha inteso attribuirgli, in tal modo tutelando il territorio "a posteriori", caso per caso, esaminando le singole domande di titoli edilizi (massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 12.07.2011 n. 252 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento che ingiunge la demolizione è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati. Presupposto per la sua adozione è, infatti, soltanto la constatata esecuzione dell'opera in difformità dalla concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione né, trattandosi di atti del tutto vincolati, è necessaria una comparazione di interessi e una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione. Trattandosi, poi, di atti dovuti a contenuto sostanzialmente vincolato, secondo la giurisprudenza prevalente, non necessitano di preventiva comunicazione di avvio del procedimento.
Come è ampiamente noto, il provvedimento che ingiunge la demolizione è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati. Presupposto per la sua adozione è, infatti, soltanto la constatata esecuzione dell'opera in difformità dalla concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione né, trattandosi di atti del tutto vincolati, è necessaria una comparazione di interessi e una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (vd. Tar Lazio, I, 06.04.2011 n. 3047; Cons. St., V, 07.09.2009 n. 5229). Trattandosi, poi, di atti dovuti a contenuto sostanzialmente vincolato, secondo la giurisprudenza prevalente, non necessitano di preventiva comunicazione di avvio del procedimento (vd., da ult., Tar Salerno, II, 13.04.2011 n. 702)
(TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 11.08.2011 n. 647 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl posizionamento di un cancello non concreta un "abuso edilizio" della specie di quelli soggetti a demolizione: nessuna norma prescrive, infatti, che per realizzare l'opera in questione (un cancello con funzione di apertura e chiusura del varco di accesso ad una proprietà privata, opera che per sua stessa conformazione non determina volumetria) occorra preventivamente munirsi del permesso di costruire.
Secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, il posizionamento del cancello non concreta un "abuso edilizio" della specie di quelli soggetti a demolizione: nessuna norma prescrive, infatti, che per realizzare l'opera in questione -un cancello con funzione di apertura e chiusura del varco di accesso ad una proprietà privata, opera che per sua stessa conformazione non determina volumetria- occorra preventivamente munirsi del permesso di costruire (cfr., tra le tante, Tar Brescia, I, 18.04.2011 n. 574; Tar Lazio, II, 06.10.2008 n. 8777).
Il Tribunale ritiene, inoltre, che la parte abbia sufficientemente provato come la chiusura a mezzo di cancello posto al confine della proprietà condominiale lato Vico La Russa non sia un fatto nuovo, ma si sia concretizzata nella sostituzione di un preesistente cancello.
Ne consegue che ai sensi dell’art. 5 D.l. 25.03.2010 n. 40, conv. con modif. in l. 20.06.2010 n. 73, la sostituzione del cancello, quale intervento di manutenzione ordinaria, è ascrivibile nell’attività edilizia libera, come sostenuto nel motivo 5. di ricorso.
Come già affermato dalla giurisprudenza, infatti, "la sostituzione o il rinnovamento di serramenti e, quindi, di infissi, serrande, finestre e abbaini, rientra nel concetto di finiture di edifici, come tale configurabile in termini di manutenzione ordinaria ai sensi dell'art. 3 lett. a) T.U. 06.06.2001, n. 380 e, cioè, di attività libera e non soggetta a denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 6, lett. a), dello stesso decreto, e ciò sia che vengano impiegati gli stessi materiali componenti, sia che la sostituzione o il rinnovamento venga effettuata con materiali diversi" (Tar Piemonte, I, 02.03.2009 n. 620; Id, 12.04.2010 n. 1761 e Tar Catanzaro, 01.07.2008 n. 1027 con specifico riferimento alla sostituzione di un cancello)
(TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 11.08.2011 n. 647 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Tassa sulle gare, versamento senza esclusioni.
L'unica prescrizione imposta dalla legge ai fini dell'ammissibilità dell'offerta, è l'effettivo versamento del contributo, restando del tutto irrilevante le modalità attraverso le quali tale versamento viene di fatto eseguito.
Con la sentenza che si presenta, il giudice amministrativo si pronuncia in ordine alla disciplina, in sede di bando di gara, delle modalità di versamento della cosiddetta "tassa sulle gare", ovvero il contributo dovuto all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ex art. 1, comma 67, L. 23.12.2005, n. 266.
Invero, tale contributo è dovuto per la partecipazione agli appalti pubblici, e va versato secondo le modalità, nell'ammontare e nei termini indicati dalla stessa Autorithy, con apposita delibera e relative istruzioni operative.
In particolare, va fatto osservare che le sopra richiamate modalità sono fissate in un atto di normazione secondaria (la suddetta deliberazione).
I soggetti vigilati, infatti, nell'adempiere all'onere di effettuare il versamento delle contribuzioni, debbono attenersi alle istruzioni operative pubblicate sul sito dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
Inoltre, esse sono generalmente ribadite nel bando di gara predisposto dalla stazione appaltante.
E' jus receptum che il versamento della predetta tassa è condizione d'ammissibilità alla procedura di selezione del contraente, e che la mancata/insufficiente effettuazione del citato versamento costituisce ope legis legittima causa d'estromissione dalla gara d'appalto.
Infatti, il dibattito giurisprudenziale si è più di recente orientato sui vizi relativi alle modalità del versamento per opera dei partecipanti, piuttosto che alla relativa disciplina da parte della stazione appaltante.
S'inserisce in tale dibattito la sentenza 08.07.2011 n. 591, pronunciata dal TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, nella quale si afferma che il versamento della tassa sulle gare effettuato con modalità diverse da quelle impartite nel bando di gara può rappresentare una mera irregolarità, ma non una violazione di gravità tale da esigere un'apposita norma di esclusione del concorrente dalla procedura concorsuale.
Secondo il giudice emiliano, infatti, l'unica prescrizione imposta dalla legge ai fini dell'ammissibilità dell'offerta, è l'effettivo versamento del contributo, restando del tutto irrilevante le modalità attraverso le quali tale versamento viene di fatto eseguito e, conseguentemente, deve ritenersi illegittima la clausola del disciplinare di gara che impone, a pena d'esclusione, l'osservanza di specifiche modalità del versamento anzidetto, così attribuendo rilievo a condotte non espressamente previste dalla legge e oltretutto violando il generale principio del favor partecipationis.
In altri termini: è illegittima la clausola di un bando che disponga l'esclusione da una gara d'appalto per versamento del contributo all'AVCP effettuato con modalità differenti rispetto a quelle richieste dalla lex specialis.
Dalla statuizione deriva l'inefficacia ex tunc del contratto stipulato con la ditta risultata aggiudicataria dell'appalto, stante l'annullamento degli atti presupposti e conseguenti allo svolgimento della gara medesima, con obbligo di riammissione del ricorrente alla selezione, prima ingiustamente pretermesso, per il riesercizio, da parte dell'Amministrazione, dell'attività tecnico-valutativa concernente le offerte presentate e la conseguente nuova aggiudicazione (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Pareti finestrate, distanze legali da interpretare.
La Corte di legittimità ritorna sulle insidiose problematiche delle distanze legali e sui criteri interpretativi al riguardo delle norme regolamentari locali.
Ai fini dell'osservanza delle distanze legali, ove sia applicabile il d.m. n. 1444/1968 in quanto recepito negli strumenti urbanistici, l'obbligo del rispetto della distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, deve essere applicato anche nel caso in cui una sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata, mentre l'altra risulti parzialmente composta da un avancorpo cieco di altezza inferiore all'edificio finestrato, atteso che la norma in esame è finalizzata alla salvaguardia dell'interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che si fronteggiano quando uno dei due abbia una parete finestrata e non, quindi, a salvaguardare l'interesse privato del frontista alla riservatezza.
In altri termini, il citato d.m. n. 1444 del 1968, che, in applicazione dell'art. 41-quinquies della legge urbanistica, come modificato dall'art. 17 della cosiddetta legge ponte, detta i limiti di densità, altezza, distanza tra i fabbricati, pone all'art. 9, secondo comma, una prescrizione tassativa ed inderogabile, e cioè che negli edifici ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona "A" debba essere rispettata in tutti i casi una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra.
E’ stato, in proposito, precisato che l'indicato art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 in materia di distanze fra fabbricati va interpretato nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente, essendo sufficiente per l'applicazione di tale distanza che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta.
Infine la giurisprudenza di legittimità ha puntualizzato che la distanza minima di dieci metri tra le costruzioni stabilita dall'articolo 9, n. 2, del d.m. 02.04.1968 n. 1444, traente la sua efficacia precettiva inderogabile dall'articolo 41-quinquies della legge 17.08.1942 n. 1150 (come modificato dall'articolo 17 della legge 06.08.1967 n. 765) -"ratione temporis" applicabile-, deve osservarsi in modo assoluto e che, pertanto essa va applicata indipendentemente dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle pareti di questi, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento.
Per utili riferimenti sul principio essenziale affermato dalla S.C. cfr. Cass. n. 1984 del 1999; Cass. n. 1108 del 2001 e, da ultimo, Cass. n. 20574 del 2007 (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione civile, sentenza 20.06.2011 n. 13547).

APPALTI: La tesi secondo cui dopo 30 giorni dall’aggiudicazione provvisoria, in assenza di un provvedimento espresso, si determinerebbe l’aggiudicazione definitiva per implicito, pur sostenuta da un’isolata pronuncia giurisprudenziale, appare peraltro poco condivisibile anche alla stregua di quanto disposto dall’art. 11 dello stesso codice dei contratti pubblici, che, proprio nel disciplinare le fasi delle procedure di affidamento, sancisce, al quinto comma, che «la stazione appaltante, previa verifica dell’aggiudicazione provvisoria ai sensi dell’art. 12, comma 1, provvede all’aggiudicazione definitiva».
La norma distingue dunque nettamente l’aggiudicazione provvisoria (con l’appendice dell’approvazione) da quella definitiva, in conformità del costante insegnamento, alla stregua del quale la seconda si pone in rapporto di autonomia con la prima, tanto che viene ritenuto evento del tutto fisiologico quello per cui ad un’aggiudicazione provvisoria può non fare seguito quella definitiva, inidoneo di per sé ad ingenerare qualsiasi affidamento meritevole di tutela.
Ne consegue che la mancata approvazione espressa dell’aggiudicazione provvisoria ai sensi e nei termini dell’art. 12, comma 1, del codice dei contratti pubblici comporta come effetto solamente quello dell’approvazione automatica della stessa aggiudicazione provvisoria, senza produrre un “salto procedimentale”, con perfezionamento dell’aggiudicazione definitiva.
In altri termini, il meccanismo del “silenzio assenso” prefigurato dall’art. 12, comma 1, riguarda solo l’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria, mentre l’aggiudicazione definitiva richiede una manifestazione di volontà espressa dell’Amministrazione, implicante, da parte dell’organo amministrativo dotato di competenza esterna, il rinnovato esame delle valutazioni già compiute dall’organo tecnico in sede di selezione della migliore offerta.
Anche a fronte di un’approvazione tacita dell’aggiudicazione provvisoria la Stazione appaltante conserva il potere discrezionale di procedere o meno all’aggiudicazione definitiva; e si tratta di un provvedimento adottato da Autorità diversa (da quella che ha disposto l’aggiudicazione provvisoria), nell’esercizio di un potere e sulla base di presupposti non assimilabili a quelli relativi all’aggiudicazione provvisoria.
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Il diniego di aggiudicazione definitiva, intervenuto dopo più di un anno dall’aggiudicazione provvisoria, non viola di per sé i principi di buona amministrazione.
Come evidenziato dalla giurisprudenza formatasi sull’art. 2 della legge n. 241 del 1990, il mancato rispetto del termine finale del procedimento non determina di per sé l’illegittimità del provvedimento, trattandosi di termine acceleratorio, o, meglio, ordinatorio (pur con taluni profili comminatori, evincibili ad esempio nell’ultimo comma del predetto art. 2) per la definizione del procedimento.
Peraltro, occorre precisare che il codice dei contratti pubblici non enuclea uno specifico termine per l’aggiudicazione definitiva (l’art. 12, come visto, riguardando l’aggiudicazione provvisoria). Il fondamento di razionalità dell’omessa previsione di un termine per l’aggiudicazione definitiva va verosimilmente rinvenuto nella non prevedibilità a priori degli adempimenti necessari, pur non potendosi tale termine verosimilmente disancorare dal tempo di efficacia dell’offerta, che è quella indicata dal bando, ovvero di 180 giorni dalla scadenza del termine per la sua presentazione, prendendo a riferimento l’ultima richiesta e l’ultimo adempimento.
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La definitiva individuazione del concorrente cui affidare l’appalto risulta consacrata solamente con l’aggiudicazione definitiva; può anzi dirsi che le fasi procedimentali di passaggio fra l’aggiudicazione provvisoria e quella definitiva sono preordinate proprio alla verificazione della prima. Ciò viene sovente tradotto nell’affermazione secondo cui l’aggiudicazione provvisoria ha natura di atto endoprocedimentale, ad effetti ancora instabili ed interinali, e l’aggiudicazione definitiva non costituisce atto meramente confermativo della prima.
Spetta all’aggiudicazione definitiva, in quanto epilogo del procedimento di gara, procedere al controllo ed alla verifica di regolarità delle operazioni di gara.
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L’aggiudicazione provvisoria di un contratto con l’Amministrazione non genera alcun affidamento qualificato e risulta esposta a revisioni che possono anche condurre al suo annullamento, che non trova ostacoli insuperabili, salvo l’obbligo di motivazione. L’aggiudicazione provvisoria fa sorgere, in capo all’aggiudicatario provvisorio, solamente un’aspettativa alla conclusione del procedimento.
L’attualità e la specificità dell’interesse pubblico che sorregge il potere di autotutela devono essere calibrate in funzione della fase procedimentale in cui lo stesso interviene, ed, in definitiva, dell’affidamento ingenerato nel privato avvantaggiato dal provvedimento; è, dunque, anche diverso l’onere motivazionale richiesto dalla giurisprudenza per procedere all’annullamento degli atti di gara, a seconda della circostanza che sia intervenuta l’aggiudicazione definitiva od addirittura la stipula del contratto, ovvero che il procedimento di valutazione comparativa concorrenziale non sia giunto completamente a termine.
A prescindere dal fatto che, in astratto, la revoca priva di indennizzo non sarebbe illegittima, salva la possibilità di azionare la pretesa patrimoniale, occorre comunque considerare che l’indennizzo spetta sempre che la revoca (legittima) incida su di un provvedimento amministrativo ad efficacia durevole, od anche istantanea, ma comunque definitivo, ed in quanto tale idoneo ad esprimere la propria effettualità. Tale non è il caso dell’aggiudicazione provvisoria, la quale è, come più volte ripetuto, atto endoprocedimentale, con effetti ancora instabili e del tutto interinali; ciò comporta che, quand’anche al provvedimento gravato di diniego dell’aggiudicazione definitiva volesse attribuirsi una portata revocatoria, non sarebbe dovuto l’indennizzo.
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L’aggiudicazione provvisoria è inidonea ad ingenerare un qualunque affidamento tutelabile con conseguente obbligo risarcitorio, qualora non sussista un’illegittimità nell’operato dell’Amministrazione.
Se l’aggiudicazione provvisoria, naturalmente temporanea, è inidonea ad ingenerare un qualunque affidamento tutelabile, bene si comprende come il ritardo, ove per ipotesi configurabile, nell’adozione del diniego del provvedimento di aggiudicazione definitiva difficilmente può produrre un danno ingiusto, e dunque risarcibile.

Occorre preliminarmente enucleare l’esatta natura giuridica del provvedimento impugnato, formalmente recante il diniego di approvazione dell’aggiudicazione provvisoria, precedentemente disposta in favore della società ricorrente, ma che, ad avviso di quest’ultima, deve essere inteso come annullamento di un’aggiudicazione definitiva tacitamente formatasi.
Dall’art. 12, comma 1, del codice dei contratti pubblici, si evince che l’aggiudicazione provvisoria è soggetta ad approvazione dell’organo competente nel rispetto dei termini previsti dai singoli ordinamenti, ed, in mancanza, entro trenta giorni; il termine è interrotto dalla richiesta di chiarimenti e documenti, ed inizia nuovamente a decorrere allorché tali chiarimenti o documenti pervengano all’organo richiedente; decorso il termine, l’aggiudicazione si intende approvata.
Anche se la disposizione da ultimo indicata non specifica chiaramente quale aggiudicazione debba intendersi approvata con l’inutile decorso del termine entro il quale va esercitato il potere di controllo, non può comunque trascurarsi di considerare che il comma entro cui la disposizione è inserita concerne l’aggiudicazione provvisoria.
Va altresì aggiunto che l’art. 12 del d.lgs. n. 163 del 2006, nel disciplinare i “controlli sugli atti delle procedure di affidamento”, ha riguardo all’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria e poi del contratto (per il quale è prevista anche un’ulteriore fase di controllo dell’approvazione), e non si occupa mai dell’aggiudicazione definitiva.
La tesi secondo cui dopo trenta giorni dall’aggiudicazione provvisoria, in assenza di un provvedimento espresso, si determinerebbe l’aggiudicazione definitiva per implicito, pur sostenuta da un’isolata pronuncia giurisprudenziale (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2010, n. 2554), appare peraltro poco condivisibile anche alla stregua di quanto disposto dall’art. 11 dello stesso codice dei contratti pubblici, che, proprio nel disciplinare le fasi delle procedure di affidamento, sancisce, al quinto comma, che «la stazione appaltante, previa verifica dell’aggiudicazione provvisoria ai sensi dell’art. 12, comma 1, provvede all’aggiudicazione definitiva».
La norma distingue dunque nettamente l’aggiudicazione provvisoria (con l’appendice dell’approvazione) da quella definitiva, in conformità del costante insegnamento, alla stregua del quale la seconda si pone in rapporto di autonomia con la prima, tanto che viene ritenuto evento del tutto fisiologico quello per cui ad un’aggiudicazione provvisoria può non fare seguito quella definitiva, inidoneo di per sé ad ingenerare qualsiasi affidamento meritevole di tutela (tra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 27.07.2010, n. 4902; Sez. VI, 06.04.2010, n. 1907; Sez. V, 15.02.2010, n. 808).
Ne consegue che la mancata approvazione espressa dell’aggiudicazione provvisoria ai sensi e nei termini dell’art. 12, comma 1, del codice dei contratti pubblici comporta come effetto solamente quello dell’approvazione automatica della stessa aggiudicazione provvisoria (Cons. Stato, Sez. V, 12.07.2010, n. 4483; Sez. V, 07.05.2008, n. 2089), senza produrre un “salto procedimentale”, con perfezionamento dell’aggiudicazione definitiva.
In altri termini, il meccanismo del “silenzio assenso” prefigurato dall’art. 12, comma 1, riguarda solo l’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria, mentre l’aggiudicazione definitiva richiede una manifestazione di volontà espressa dell’Amministrazione, implicante, da parte dell’organo amministrativo dotato di competenza esterna, il rinnovato esame delle valutazioni già compiute dall’organo tecnico in sede di selezione della migliore offerta.
Resta da aggiungere come anche a fronte di un’approvazione tacita dell’aggiudicazione provvisoria la Stazione appaltante conserva il potere discrezionale di procedere o meno all’aggiudicazione definitiva; e si tratta di un provvedimento adottato da Autorità diversa (da quella che ha disposto l’aggiudicazione provvisoria), nell’esercizio di un potere e sulla base di presupposti non assimilabili a quelli relativi all’aggiudicazione provvisoria (così, da ultimo, TAR Lazio, Sez. I, 28.02.2011, n. 1809).
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Con riguardo alla violazione del principio di buon andamento e dei canoni di efficacia ed efficienza, compendiati nell’art. 1 della legge n. 241 del 1990, è indubbio che sia passato un termine piuttosto ampio tra l’aggiudicazione provvisoria, risalente al 25.11.2009, ed il diniego di aggiudicazione definitiva, intervenuto il 25.01.2011, ma, ragionando in astratto, come evidenziato dalla giurisprudenza formatasi sull’art. 2 della legge n. 241 del 1990, il mancato rispetto del termine finale del procedimento non determina di per sé l’illegittimità del provvedimento, trattandosi di termine acceleratorio, o, meglio, ordinatorio (pur con taluni profili comminatori, evincibili ad esempio nell’ultimo comma del predetto art. 2) per la definizione del procedimento (tra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 01.12.2010, n. 8371; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 27.12.2010, n. 28062).
Occorre peraltro precisare che il codice dei contratti pubblici non enuclea uno specifico termine per l’aggiudicazione definitiva (l’art. 12, come visto, riguardando l’aggiudicazione provvisoria); ciò trova conferma indiretta nel fatto che il successivo art. 79, comma 5, prevede la comunicazione ex officio dell’aggiudicazione definitiva, e tale disposizione è particolarmente significativa perché la comunicazione individua il dies a quo per la proposizione del ricorso giurisdizionale (cfr. art. 120, comma 5, del cod. proc. amm.), e da tale comunicazione decorre pure il termine di sospensione sostanziale (di 35 giorni) per la stipulazione del contratto (art. 11, comma 10, del d.lgs. n. 163 del 2006).
Il fondamento di razionalità dell’omessa previsione di un termine per l’aggiudicazione definitiva va verosimilmente rinvenuto nella non prevedibilità a priori degli adempimenti necessari, pur non potendosi tale termine verosimilmente disancorare dal tempo di efficacia dell’offerta, che è quella indicata dal bando, ovvero di centottanta giorni dalla scadenza del termine per la sua presentazione (cfr. art. 11, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006).
Se così è, prendendo a riferimento l’ultima richiesta e l’ultimo adempimento del settembre 2010, il termine non risulta ancora spirato al momento dell’adozione del provvedimento gravato.
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Quanto all’asserita violazione dei principi di trasparenza ed imparzialità, nella prospettiva che spetti solamente alla Commissione giudicatrice, nel rispetto della sequenza procedimentale che impone di esaminare l’offerta tecnica prima di quella economica, valutare se l’offerta della ricorrente costituisse un’ammissibile “proposta tecnica migliorativa ed integrativa”, ovvero si traducesse in una non consentita difformità dal bando di gara, si tratta di doglianza sostanzialmente infondata, atteso che la definitiva individuazione del concorrente cui affidare l’appalto risulta consacrata solamente con l’aggiudicazione definitiva (in termini, tra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 08.03.2011, n. 1446); può anzi dirsi che le fasi procedimentali di passaggio fra l’aggiudicazione provvisoria e quella definitiva sono preordinate proprio alla verificazione della prima (così Cons. Stato, Sez. V, 27.04.2011, n. 2479). Ciò viene sovente tradotto nell’affermazione secondo cui l’aggiudicazione provvisoria ha natura di atto endoprocedimentale, ad effetti ancora instabili ed interinali, e l’aggiudicazione definitiva non costituisce atto meramente confermativo della prima.
Spetta all’aggiudicazione definitiva, in quanto epilogo del procedimento di gara, procedere al controllo ed alla verifica di regolarità delle operazioni di gara (TAR Veneto, Sez. I, 04.08.2010, n. 3447).
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L’aggiudicazione provvisoria di un contratto con l’Amministrazione non genera alcun affidamento qualificato e risulta esposta a revisioni che possono anche condurre al suo annullamento, che non trova ostacoli insuperabili, salvo l’obbligo di motivazione (Cons. Stato, Sez. V, 27.04.2011, n. 2479). L’aggiudicazione provvisoria fa sorgere, in capo all’aggiudicatario provvisorio, solamente un’aspettativa alla conclusione del procedimento.
L’attualità e la specificità dell’interesse pubblico che sorregge il potere di autotutela devono essere calibrate in funzione della fase procedimentale in cui lo stesso interviene, ed, in definitiva, dell’affidamento ingenerato nel privato avvantaggiato dal provvedimento; è, dunque, anche diverso l’onere motivazionale richiesto dalla giurisprudenza per procedere all’annullamento degli atti di gara, a seconda della circostanza che sia intervenuta l’aggiudicazione definitiva od addirittura la stipula del contratto, ovvero che il procedimento di valutazione comparativa concorrenziale non sia giunto completamente a termine.
Nel caso di specie il provvedimento è adeguatamente motivato, in proporzione al livello di affidamento ingenerato dall’aggiudicazione provvisoria, che è atto intermedio del procedimento di gara, e non richiede quindi un’approfondita comparazione tra l’interesse pubblico e l’interesse privato.
Come già esposto, in corso di procedura è più ampio e libero lo spazio di riesame da parte dell’Amministrazione, non essendovi ancora titolari di posizioni consolidate (così anche TAR Sardegna, Sez. I, 11.11.2010, n. 2582).
A questo riguardo, occorre precisare che tanto l’art. 21-nonies, quanto l’art. 21-quinquies hanno riguardo, essenzialmente, al provvedimento “definitivo”, e solo marginalmente agli atti intermedi; ciò lo si evidenzia anche con riferimento all’assunto di parte ricorrente, secondo cui si verterebbe al cospetto di una revoca, mancante però del prescritto indennizzo.
In realtà, ad avviso del Collegio, a prescindere dal fatto che, in astratto, la revoca priva di indennizzo non sarebbe illegittima, salva la possibilità di azionare la pretesa patrimoniale, occorre comunque considerare che l’indennizzo spetta sempre che la revoca (legittima) incida su di un provvedimento amministrativo ad efficacia durevole, od anche istantanea, ma comunque definitivo, ed in quanto tale idoneo ad esprimere la propria effettualità (Cons. Stato, Sez. VI, 17.03.2010, n. 1554; TAR Sardegna, Sez. I, 11.11.2010, n. 2582; Sez. I, 12.06.2009, n. 976).
Tale non è il caso dell’aggiudicazione provvisoria, la quale è, come più volte ripetuto, atto endoprocedimentale, con effetti ancora instabili e del tutto interinali; ciò comporta che, quand’anche al provvedimento gravato di diniego dell’aggiudicazione definitiva volesse attribuirsi una portata revocatoria, non sarebbe dovuto l’indennizzo.
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Viene anche in rilievo, seppure con qualche specificità, il problema, ancora irrisolto, della natura giuridica del danno da ritardo, se cioè lo stesso sia configurabile per il fatto del mero superamento del termine finale del procedimento (c.d. danno da mero ritardo), o si richieda un quid pluris, come ritenuto, in passato, da Cons. Stato, Ad. Plen., 15.09.2005, n. 7, e cioè il sopraggiungere di un provvedimento di accoglimento dell’istanza, vale a dire satisfattivo dell’interesse pretensivo azionato in giudizio.
Peraltro, nella fattispecie in esame, anche a voler ritenere che il tempo sia di per sé un bene della vita per il soggetto privato (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 28.02.2011, n. 1271), non può trascurarsi di considerare che l’aggiudicazione provvisoria è inidonea ad ingenerare un qualunque affidamento tutelabile con conseguente obbligo risarcitorio, qualora non sussista un’illegittimità nell’operato dell’Amministrazione (così Cons. Stato, Sez. VI, 27.07.2010, n. 4902; Sez. VI, 06.04.2010, n. 1907; Sez. V, 15.02.2010, n. 808).
Se l’aggiudicazione provvisoria, naturalmente temporanea, è inidonea ad ingenerare un qualunque affidamento tutelabile, bene si comprende come il ritardo, ove per ipotesi configurabile, nell’adozione del diniego del provvedimento di aggiudicazione definitiva difficilmente può produrre un danno ingiusto, e dunque risarcibile (TAR Umbria, sentenza 16.06.2011 n. 172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAnche con riferimento al disposto di cui all’art. 146 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, il termine per rendere il parere (come già quello perentorio di sessanta giorni di cui all'art. 159, comma 3, del d.Lgs. n. 42/2004, previsto per l'esercizio del potere di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica) decorre dalla completa ricezione, da parte della Soprintendenza, dell'autorizzazione rilasciata e della documentazione tecnico-amministrativa, sulla cui base il provvedimento è stato adottato.
Ove la documentazione sia incompleta, la Soprintendenza ha il potere ed anche il dovere di chiederne l’integrazione, ma non può per tale ragione limitarsi ad annullare l’atto sottoposto al suo esame dalla autorità subdelegata.

L'art. 6, comma 6-bis, del d.m. 13.06.1994, n. 495, e l'art. 159, comma 2, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, possono ritenersi ricognitivi del principio generale secondo cui la Soprintendenza può effettuare richieste istruttorie, idonee ad incidere sul termine perentorio di sessanta giorni: oltre all'ipotesi di documentazione non trasmessa ed utilizzata in sede di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, tali richieste possono riguardare anche accertamenti, chiarimenti ed elementi integrativi di giudizio.
I rischi di elusione del termine perentorio e di attribuzione alla Soprintendenza del potere di annullamento, altrimenti esercitabile senza termine certo, vengono evitati attraverso il contenimento temporale, risultante dalla lettura combinata delle due disposizioni.
Ciò non significa che ogni richiesta istruttoria sia idonea ad interrompere il termine perentorio, in quanto resta anche ferma la possibilità di dedurre in giudizio la manifesta insussistenza dei descritti presupposti, in base ai quali la richiesta può essere ritenuta legittima (Sez. VI, 26.11.2007, n. 6032).
La tesi di fondo, secondo cui alla Soprintendenza sarebbe preclusa ogni richiesta di integrazione anche istruttoria. e che la stessa, ogni qualvolta riscontri una sia pure modesta insufficienza documentale debba rendere parere sfavorevole, appare non aderente al dato normativo (e alla regola generale contenuta nell’art. 6 della legge n. 241 del 1990) e comunque si manifesta illogica, in quanto foriera di un continuo proliferare di richieste di riesame, oltre che in contrasto col principio di leale collaborazione tra le Autorità preposte alla gestione del vincolo paesaggistico.
In conclusione, conserva attualità anche con riferimento al disposto di cui all’art. 146 del d.Lgs. n. 42 del 2004 il principio secondo cui il termine per rendere il parere (come già quello perentorio di sessanta giorni di cui all'art. 159, comma 3, del d.Lgs. n. 42 del 2004, previsto per l'esercizio del potere di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica) decorre dalla completa ricezione, da parte della Soprintendenza, dell'autorizzazione rilasciata e della documentazione tecnico-amministrativa, sulla cui base il provvedimento è stato adottato (tra le tante,Consiglio Stato, Sez. VI, 04.09.2007, n. 4632).
Ove la documentazione sia incompleta, la Soprintendenza ha il potere ed anche il dovere di chiederne l’integrazione, ma non può per tale ragione limitarsi ad annullare l’atto sottoposto al suo esame dalla autorità subdelegata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.05.2011 n. 2611 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa puntuale indicazione degli elementi ostativi all’accoglimento della richiesta di sanatoria esclude innanzitutto la sussistenza del dedotto vizio di difetto di motivazione, risultando in concreto assicurata la conoscenza delle ragioni di fatto e di diritto che hanno determinato le scelte dell’amministrazione e garantita quindi la loro sindacabilità attraverso la ricostruzione dell’iter logico–giuridico ad esse sotteso.
Il diniego di sanatoria delle opere abusive per incompatibilità ambientale è espressione di una valutazione tecnica ampiamente discrezionale, tipica manifestazione del potere autoritativo dell’amministrazione, che come tale si sottrae al sindacato di legittimità, tranne le ipotesi di manifesta illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità ovvero di macroscopico travisamento dei fatti.
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Per un verso, lo stato di degrado e disordine ambientale (riferito nell’impugnato parere della competente Commissione per la tutela dei beni ambientali e peraltro neppure contestato, anzi sostanzialmente confermato, dagli appellanti) non può costituire motivo di giustificazione della costruzione abusiva (atteso che diversamente opinando non avrebbe senso neppure l’imposizione del relativo vincolo, finalizzato proprio a prevenire l’aggravamento della situazione e di perseguire il possibile recupero, mentre per altro verso, è sufficiente ricordare che, in tema di rilascio di nulla-osta paesaggistico, l’attività di verifica della correttezza del giudizio espresso dall’amministrazione preposta alla tutela del vincolo e del conseguente provvedimento comunale non implica necessariamente il compimento di un effettivo sopralluogo, ben potendo limitarsi alla valutazione documentale della condotta tenuta dalle amministrazioni interessate.
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L'ordinanza di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Ciò esclude qualsiasi rilevanza del vizio di eccesso di potere per asserita sproporzione tra l’abuso commesso e la sanzione, anche in ragione del tempo trascorso tra il primo ed il diniego di sanatoria.

Occorre premettere che il parere negativo (decisione n. 604 del 05.06.1990) reso dalla Commissione per la tutela dei beni ambientali sulla domanda di condono edilizio, è motivato sulla circostanza che “…i manufatti e le opere riguardano un punto di elevatissimo interesse ambientale e paesistico, nei confronti del quale costituiscono una presenza di degrado estetico per la natura e la forma dei manufatti, e costituiscono altresì una presenza preoccupante per i rischi derivanti all’ambiente da un incontrollato aumento del carico antropico”.
La puntuale indicazione degli elementi ostativi all’accoglimento della richiesta sanatoria esclude innanzitutto la sussistenza del dedotto vizio di difetto di motivazione, risultando in concreto assicurata la conoscenza delle ragioni di fatto e di diritto che hanno determinato le scelte dell’amministrazione e garantita quindi la loro sindacabilità attraverso la ricostruzione dell’iter logico–giuridico ad esse sotteso.
Né può condividesi la pur suggestiva tesi, secondo cui l’onere motivazionale incombente sull’amministrazione sarebbe stato rispettato solo formalmente, e non già sostanzialmente, a causa della concreta inidoneità e genericità delle ragioni esposte (anche al fine di consentire l’adeguato sindacato giurisdizionale sulle contestata scelte amministrative): una simile ricostruzione è frutto di un evidente equivoco sulla natura giuridica della valutazione di compatibilità ambientale delle opere abusive e sui limiti del relativo sindacato giurisdizionale.
Invero, il diniego di sanatoria delle opere abusive per incompatibilità ambientale è espressione di una valutazione tecnica ampiamente discrezionale, tipica manifestazione del potere autoritativo dell’amministrazione, che come tale si sottrae al sindacato di legittimità, tranne le ipotesi di manifesta illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità ovvero di macroscopico travisamento dei fatti (C.d.S., sez. VI, 07.10.2008, n. 4823), che non si rinvengono nel caso di specie e che peraltro non sono state neppure dedotte e provate dagli appellanti.
Le contestazioni di genericità del parere della Commissione per la tutela dei beni ambientali, fatto proprio dall’amministrazione comunale di Orbetello, in ordine alla forma ed ai materiali delle opere realizzate (degrado estetico), nonché sullo stato di degrado della zona, sull’insanabile contrasto con la bellezza dell’ambiente e sull’incontrollato aumento del carico antropico pertanto, lungi dall’evidenziare eventuali effettivi vizi di formazione del giudizio dell’amministrazione, si atteggiano a mere opinioni dissenzienti, volte a sovrapporre e/o sostituire alle valutazioni dell’amministrazione competente le proprie soggettive considerazioni, cosa che le rende gratuite ed apodittiche, prive di qualsiasi elemento obiettivo di riscontro.
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Quanto al dedotto vizio di istruttoria per la denunciata circostanza che il parere negativo espresso dall’amministrazione preposta al vincolo ed il successivo diniego dell’amministrazione comunale, che non sarebbero stati supportati da un’ispezione dello stato dei luoghi ovvero da un apposito sopralluogo, volto ad appurare l’effettiva consistenza delle opere realizzate e il loro inserimento nell’ambiente specifico della zona interessata, peraltro già antropizzata ed urbanizzata e già segnata dall’insediamento di una struttura ricettivo–turistica, esso è privo di qualsiasi fondamento.
Deve essere infatti rilevato, per un verso, che lo stato di degrado e disordine ambientale (riferito nell’impugnato parere della competente Commissione per la tutela dei beni ambientali e peraltro neppure contestato, anzi sostanzialmente confermato, dagli appellanti) non può costituire motivo di giustificazione della costruzione abusiva (atteso che diversamente opinando non avrebbe senso neppure l’imposizione del relativo vincolo, finalizzato proprio a prevenire l’aggravamento della situazione e di perseguire il possibile recupero, C.d.S., sez. V, 27.03.2000, n. 1761; 27.04.2010, n. 2377), mentre per altro verso, è sufficiente ricordare che, in tema di rilascio di nulla-osta paesaggistico, l’attività di verifica della correttezza del giudizio espresso dall’amministrazione preposta alla tutela del vincolo e del conseguente provvedimento comunale non implica necessariamente il compimento di un effettivo sopralluogo, ben potendo limitarsi alla valutazione documentale della condotta tenuta dalle amministrazioni interessate (C.d.S., sez. VI, 27.04.2010, n. 2377).
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Quanto alla legittimità del provvedimento di demolizione, la Sezione osserva che esso, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (C.d.S., sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; 10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 07.09.2009, n. 5229).
Ciò esclude qualsiasi rilevanza del vizio di eccesso di potere per asserita sproporzione tra l’abuso commesso e la sanzione, anche in ragione del tempo trascorso tra il primo ed il diniego di sanatoria
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2011 n. 2511 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROGETTUALIAnche il professionista tecnico, al pari di tutte le altre figure professionali, incorre in responsabilità contrattuale, qualora nello svolgimento dell’incarico ricevuto non tenga una condotta conforme alla diligenza prevista dall’art. 1176, 2° co. C.C.. Punto di partenza è necessariamente la nozione di “diligenza professionale”; attraverso tale criterio, infatti, è possibile misurare in concreto il contenuto delle obbligazioni che derivano dal contratto d’opera intellettuale e, quindi, valutare i presupposti in presenza dei quali si verifica l’inadempimento del professionista. Il progettista è tenuto a realizzare disegni rappresentativi ed elaborati accessori al progetto. Qualora l’attività svolta presenti vizi tali da non consentire un’esatta esecuzione dell’opera progettata, il professionista risponde ai sensi dell’art. 1218 C.C..
L’obbligo cui è tenuto l’incaricato della redazione del progetto di costruzione di un edificio, consistente nell’accertare preventivamente e con assoluta precisione le dimensioni, i confini e le altre caratteristiche, anche sotto il profilo delle limitazioni urbanistiche, dell’area sulla quale debba eseguirsi la costruzione medesima, sussiste come dato prodromico essenziale per il corretto espletamento del mandato professionale, ancorché tali prestazioni non abbiano formato oggetto di uno specifico incarico del cliente. Tale responsabilità non richiede la colpa grave, non implicando l’individuazione dei confini o l’acquisizione e l’osservanza di norme regolamentari pubbliche la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, tanto da essere detta attività ricompresa anche nella competenza delle professioni tecniche minori.
Se dall’edificazione di una costruzione in violazione delle norme sulle distanze legali sia derivato l’obbligo del committente della riduzione in pristino, sussiste il diritto di rivalsa del committente nei confronti del progettista qualora l’irregolare ubicazione della costruzione sia conforme al progetto e non sia stata impedita dal professionista medesimo in sede di esecuzione dei lavori.

Anche il professionista tecnico, al pari di tutte le altre figure professionali, incorre in responsabilità contrattuale, qualora nello svolgimento dell’incarico ricevuto non tenga una condotta conforme alla diligenza prevista dall’art. 1176, 2° co. C.C.
Punto di partenza è necessariamente la nozione di “diligenza professionale”; attraverso tale criterio, infatti, è possibile misurare in concreto il contenuto delle obbligazioni che derivano dal contratto d’opera intellettuale e, quindi, valutare i presupposti in presenza dei quali si verifica l’inadempimento del professionista.
Il progettista è tenuto a realizzare disegni rappresentativi ed elaborati accessori al progetto. Qualora l’attività svolta presenti vizi tali da non consentire un’esatta esecuzione dell’opera progettata, il professionista risponde ai sensi dell’art. 1218 C.C.
Nel caso concreto non vi è dubbio che nella condotta del ... sia ravvisabile la colpa (come incidentalmente riconosciuto dallo stesso Tribunale e non contestato dall’appellante incidentale e dall’assicuratore).
Trattandosi di responsabilità contrattuale, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore deve limitarsi a provare il contratto ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.
Nella specie la società committente ha dedotto che il professionista era incorso in errore non scusabile nell’individuazione delle distanze della costruzione rispetto al confine e che tale errore era stato determinato dall’omesso rispetto del regolamento edilizio comunale. A tale allegazione il convenuto non ha replicato in modo specifico, limitandosi a contestare (genericamente) “…in ogni caso la fondatezza della domanda…” e a concentrare le proprie difese sulla inopponibilità della transazione conclusa dalla F.lli Rossi con i confinanti e sulla non giustificabilità di certe spese, di cui si chiedeva il rimborso.
Deve ritenersi che l’ingegnere progettista sia responsabile dello sconfinamento della costruzione progettata. Ed invero, l’obbligo cui è tenuto l’ingegnere incaricato della redazione del progetto di costruzione di un edificio, consistente nell’accertare preventivamente e con assoluta precisione le dimensioni, i confini e le altre caratteristiche, anche sotto il profilo delle limitazioni urbanistiche, dell’area sulla quale debba eseguirsi la costruzione medesima, sussiste come dato prodromico essenziale per il corretto espletamento del mandato professionale, ancorché tali prestazioni non abbiano formato oggetto di uno specifico incarico del cliente (C. 89/3476).
E’ inoltre certo che tale responsabilità non richiede la colpa grave, non implicando l’individuazione dei confini o l’acquisizione e l’osservanza di norme regolamentari pubbliche la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, tanto da essere detta attività ricompresa anche nella competenza delle professioni tecniche minori.
In base a indagine tecnica (svolta nel giudizio possessorio) è emerso che la porzione di edificio destinata a cantine, autorimesse e relativa area di manovra per le autovetture, fuoriuscendo parzialmente dal piano di campagna, avrebbe dovuto essere presa in considerazione ai fini del rispetto delle distanze dal confine, come imposto dagli artt. 58 e 59 del regolamento edilizio del Comune di Rignano sull’Arno, e che, conseguentemente, risultando edificata in violazione di tali disposizioni, fondata era la pretesa della sua demolizione e/o arretramento. Come detto, tali risultanze non sono state oggetto di contestazione ad opera delle altre due parti in causa.
Se dall’edificazione di una costruzione in violazione delle norme sulle distanze legali sia derivato l’obbligo del committente della riduzione in pristino, sussiste il diritto di rivalsa del committente nei confronti del progettista qualora l’irregolare ubicazione della costruzione sia, come nella specie, conforme al progetto e non sia stata impedita dal professionista medesimo in sede di esecuzione dei lavori (Corte d'Appello-Firenze, Sez. II, sentenza 25.02.2010 n. 93).

AGGIORNAMENTO ALL'08.09.2011

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NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

URBANISTICA: Approvazione dei piani attuativi conformi.
Secondo quanto disposto dall’art. 5, comma 13, del D.L. n. 70/2011, convertito in legge 12.07.2011, n. 106, a decorrere dall’11.09.2011 e “sino all’entrata in vigore della normativa regionale, … i piani attuativi … conformi allo strumento urbanistico generale vigente, sono approvati dalla giunta comunale”.
Va chiarito preliminarmente che il termine “approvati”, in coerenza con gli obiettivi di semplificazione perseguiti dal legislatore statale, è da intendersi comprensivo anche della fase di adozione del piano attuativo. Per effetto della disposizione statale sopra riportata, irrompe nell’ordinamento urbanistico regionale un riparto di competenze diverso rispetto a quanto previsto dalla vigente legislazione regionale in materia di approvazione dei piani attuativi conformi.
Come noto, infatti, la L.R. n. 12/2005 prevede, salvo puntuali eccezioni, la competenza del Consiglio comunale, sia per i Comuni che versano tuttora in fase transitoria (art. 25, comma 8-bis), sia per i Comuni già dotati di PGT (art. 14, commi 1, 4 e 4-bis). Per come è formulata, la sopraggiunta disposizione statale prevale sulla disciplina regionale vigente, quantomeno fino al perfezionamento di un nuovo intervento legislativo regionale.
Pertanto, a far tempo dall’11.09.2011, spetta alla Giunta comunale l’adozione dei piani attuativi conformi al PRG o al PGT, come pure l’approvazione definitiva degli stessi, quand’anche fossero stati precedentemente adottati dal Consiglio comunale in ossequio a quanto previsto dalla L.R. n. 12/2005.
Milano, 07.09.2011.
L’Assessore al Territorio e Urbanistica, Daniele Belotti - Il Direttore Generale, Bruno Mori (link a www.territorio.regione.lombardia.it).
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Al riguardo, si legga un primo commento di Alice Galbiati: Piani Attuativi: di chi è la competenza dopo il Decreto Sviluppo? (link a http://studiospallino.blogspot.com).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: La manovra-bis di ferragosto: lavoratori a rischio licenziamento. Qual'è il principale pericolo nascosto? (CSA Lombardia, nota settembre 2011).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: G. Bertagna e M. G. Galgani, Il blocco della retribuzione del singolo dipendente (tratto dalla newsletter di www.publika.it n. 44 - settembre 2011).

EDILIZIA PRIVATA: A. Frigo, La riqualificazione urbana nel decreto sviluppo. Semplificazione o complicazione del procedimento? (link a http://venetoius.myblog.it).

URBANISTICA: L. Spallino, La pubblicazione on-line degli elaborati tecnici degli strumenti urbanistici (link a www.webimpossibile.net).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni con vincolo ampio. Il limite del 20% vale per ogni tipologia contrattuale. Delibera della Corte dei conti a sezioni riunite precisa l'applicazione per gli enti locali.
Negli enti locali sottoposti al patto di stabilità, nei quali l'incidenza delle spese di assunzione non è superiore al 40% delle spese di personale, il vincolo di spesa per assunzioni del 20 per cento, imposto dall'articolo 14, comma 9, della manovra correttiva dei conti pubblici del 2010, si intende riferito alle assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsiasi tipologia contrattuale, in quanto, nell'ordinamento vigente, non esiste un principio di «favor» nei confronti delle assunzioni temporanee o precarie rispetto a quelle a tempo indeterminato.
Lo hanno precisato le Sezioni riunite della Corte dei conti, in sede di controllo, nel testo della deliberazione 29.08.2011 n. 46, che hanno così risolto alcune difformità di interpretazione delle disposizioni contenute al citato articolo 14, comma 9 del dl n. 78/2010.
Tale norma prevede, a decorrere dall'01/01/2011 con riferimento alle cessazioni intervenute nel 2010, che è fatto divieto agli enti nei quali l'incidenza delle spese di assunzione è pari o superiore al 40% delle spese correnti di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale, mentre i restanti enti possono procedere ad assunzioni di personale nel limite del 20% della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente.
Sul punto sono intervenute alcune sezioni della stessa magistratura contabile, per dirimere la questione se il via libera alle assunzioni (per la quota parte del 20%), fossa da intendere esclusivamente a tipologie di contratto a tempo indeterminato, ovvero all'instaurazione di altre tipologie di lavoro e, visto che sono stati registrati differenti orientamenti, la sezione lombarda della Corte ha chiesto alle Sezioni riunite un intervento di massima.
È pacifico, hanno rilevato le Ss.rr., che la norma in osservazione è finalizzata a contenere la spesa di personale senza incidere sulle modalità organizzative degli enti interessati. Pertanto il vincolo di spesa del 20% deve essere riferito alle assunzioni di personale avvenute a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale. Ne è prova la sua collocazione (all'interno della disciplina del patto di stabilità), che induce a ritenere che la percentuale del 20% sia di natura strutturale e riferita all'intero complesso delle spese di personale.
Quindi, ammettono le Ss.rr., appare indifferente la tipologia contrattuale, rilevando esclusivamente il risultato in termini di saldi economici e finanziari. Peraltro, nell'ordinamento vigente non esiste un principio di favor nei confronti delle assunzioni temporanee o precarie rispetto a quelle a tempo indeterminato. Ma, nella predetta percentuale non devono essere incluse le assunzioni obbligatorie per legge, gli interventi caratterizzati da somma urgenza e lo svolgimento di servizi «infungibili ed essenziali». Tuttavia, la norma appare «rigida» nella presunzione assoluta che si possa fronteggiare adeguatamente la riduzione dell'80% della spesa afferente al turnover complessivo negli enti soggetti al patto di stabilità.
Sussiste, quindi, l'esigenza e l'opportunità di una migliore graduazione. Infine, nel complesso della spesa presa a riferimento per quantificare la percentuale del 20% vanno inclusi anche stanziamenti non utilizzati inerenti al personale a tempo indeterminato cessato e non sostituito nel 2010 (articolo ItaliaOggi del 06.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti: dopo il Dlgs 141/2011 - Tre vie d'uscita per gli incarichi a contratto.
Per la Corte dei Conti del Lazio sono fuori dalle limitazioni dell'articolo 19, comma 6, le assunzioni di dirigenti a contratto effettuate "a monte" con procedure selettive.

Il parere 09.08.2011 n. 47 giunge pochi giorni prima dell'adozione definitiva del Dlgs 141/2011, ovvero il correttivo alla riforma Brunetta, e rischia di creare non poca confusione.
La questione degli incarichi dirigenziali riguarda l'applicabilità del contingente dell'8% previsto dall'articolo 19 del Dlgs 165/2001 anche agli incarichi a contratto di cui all'articolo 110 del Testo unico degli enti locali (Tuel). Le sezioni riunite hanno creato un netto spartiacque: gli incarichi dirigenziali in dotazione organica, disciplinati dal comma 1, sono di fatto limitati all'8%, mentre rimane in vita la possibilità, prevista al comma 2, di affidare incarichi extra-dotazione organica, ma nel limite del 5% della stessa.
Per la Corte dei conti del Lazio le cose stanno un po' diversamente. I magistrati affermano che l'orientamento delle sezioni riunite è riferibile solo agli incarichi conferibili ex articolo 110, comma 1, in via residuale mediante «contratti di diritto privato».
Quindi, per il conferimento di incarichi «con provvedimento fiduciario» oppure «intuitu personae», indipendentemente dai soggetti che ne sono destinatari, vanno rispettati i rigorosi limiti di cui all'articolo 19, comma 6; qualora invece vi sia una selezione "a monte", tali limiti scompaiono in virtù dell'autonomia dell'ente locale.
L'amministrazione potrebbe quindi disciplinare la necessità di una selezione/concorso per l'accesso all'incarico dirigenziale ex articolo 110, comma 1, e in questo caso superare ogni contingente di legge.
La tesi lascia certamente qualche dubbio. Non va infatti dimenticato che tutte le ultime disposizioni normative puntano a una riduzione della dirigenza a contratto, e certamente non a un suo ampliamento, come potrebbe accadere con disposizioni regolamentari appropriate. Una procedura selettiva garantisce imparzialità, ma il legislatore sembra aver puntato a un secco contingentamento piuttosto che a individuare modalità diverse di accesso al pubblico impiego. La prova è anche nel riscritto comma 557 della Finanziaria 2007, che individua proprio nella riduzione delle aree dirigenziali una forte azione per il contenimento della spesa di personale.
A chiudere la vicenda ha comunque pensato il Dlgs 141/2011. Il decreto correttivo permette agli enti locali virtuosi nel rispetto del patto di stabilità di innalzare la percentuale per cui possono avvalersi di dirigenti a tempo determinato fino al 18%, precisando espressamente «ai sensi dell'articolo 110, comma 1» del Tuel.
Un secondo intervento fa invece salvi i contratti dirigenziali a termine stipulati prima del 09.03.2011 anche oltre la limitazione vigente, purché realizzati nel rispetto delle norme sulle spese di personale e delle assunzioni a tempo determinato.
Vi sono quindi scaglioni temporali ben chiari che si possono così riassumere:
- gli incarichi affidati entro il 9 marzo, anche se superiori all'8%, sono validi fino a scadenza;
- gli incarichi affidati dopo il 9 marzo superiori all'8% non rispettano le norme vigenti (potrebbero rientrare nella casistica gli incarichi affidati dalle amministrazioni che sono andate al voto quest'anno);
- solamente quando usciranno i decreti per stabilire gli enti virtuosi, si potrà passare dall'8% al 18 per cento.
Vi è poi un altro punto critico. Possono infatti beneficiare del 18% esclusivamente gli enti collocati nelle fasce di virtuosità, previste, però, solo per gli enti soggetti a patto di stabilità. Ma cosa accade agli incarichi dirigenziali a termine nelle amministrazioni non soggette a patto? (articolo Il Sole 24 Ore del 05.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

AMBIENTE-ECOLOGIAMANOVRA BIS/ Il Sistri resuscita, ma da febbraio. L'obbligo dal 2012. Con deroghe per i rifiuti non pericolosi. La commissione bilancio al Senato reintroduce il sistema di tracciabilità, ma ordina un check up.
Obbligatorietà del Sistri a partire dal febbraio 2012, con deroghe per gestori di rifiuti non pericolosi a bassa criticità ambientale e semplificazioni per operatori che conferiscono coattivamente i beni a fine vita a consorzi di recupero. Il tutto previa verifica tecnica del sotteso sistema informatico e sua eventuale modifica.
Ad aprire la strada per il ripristino del sistema di tracciamento telematico dei rifiuti cancellato il precedente 13 agosto alla vigilia del suo esordio dal Dl 138/2011 è un emendamento allo stesso decreto d'urgenza approvato all'unanimità dalla Commissione bilancio del Senato il 05.09.2011 in sede d'esame (referente) nell'iter di conversione del provvedimento.
Il ripristino del Sistri. La richiesta della Commissione permanente, accolta con soddisfazione nella stessa giornata dal ministro dell'ambiente, fissa nella secca data del 09.02.2012 l'inizio dell'operatività del sistema di tracciamento dei rifiuti, prevedendo così un unico termine iniziale per tutti gli operatori coinvolti, e ciò in luogo delle precedenti (ed abrogate) norme Sistri che ne diluivano invece la partenza tra il 1° settembre ed il 02.01.2012.
Le deroghe e le semplificazioni. Parallelamente alla reviviscenza del sistema, l'emendamento della Commissione del Senato prevede un (doppio) ammorbidimento delle regole Sistri.
In primo luogo la proposta di modifica al Dl 138/2011 impegna il MinAmbiente ad individuare con proprio decreto specifiche tipologie di rifiuti alle quali, in considerazione della quantità e dell'assenza di specifiche caratteristiche di criticità ambientale potranno essere applicate le procedure (Sistri) previste per i rifiuti speciali non pericolosi; con ciò chiedendo (in sostanza) di rendere per gli operatori che gestiscono tali rifiuti facoltativa e non obbligatoria l'adozione del sistema di tracciamento telematico.
In secondo luogo, l'emendamento della Commissione prevede per gli operatori che producono esclusivamente rifiuti soggetti a ritiro obbligatorio da parte di sistemi di filiera ex lege la possibilità di delegare ai consorzi di recupero (secondo le modalità previste per le associazioni di categoria) i propri adempimenti Sistri.
L'implementazione del sistema. A corredo del ripristino del Sistri e dell'alleggerimento delle relative regole la Commissione Bilancio prevede infine anche un «check» tecnico delle componenti hardware e software necessarie al funzionamento del sistema, obbligando il dicastero dell'Ambiente ad un test di funzionamento da effettuare in collaborazione con le associazioni di categoria maggiormente rappresentative.
Il tutto (anche) per una eventuale semplificazione tecnologica delle procedure informatiche che gli operatori dovranno osservare per il tracciamento dei rifiuti.
L'iter dell'emendamento «pro Sistri». Le richieste della Commissione del Senato dovranno trovare accoglimento in sede di Assemblea plenaria sia dell'una che dell'altra Camera entro il prossimo 12.10.2011 (deadline per la conversione del decreto d'urgenza) ma dovranno soprattutto essere tradotte in una formulazione tecnica che permetta di ripristinare giuridicamente l'ablazione operata dal dl 138/2011 di tutte le principali norme «di sistema» del Sistri.
Il provvedimento in questione ha infatti dallo scorso 13.08.2011 stabilito l'abrogazione delle seguenti disposizioni: comma 2, lettera a), dell'articolo 188-bis, articoli 188-ter e 260-bis del dlgs 152/2006 (cd. «Codice ambientale»); dm Ambiente 17.12.2009 (primo provvedimento regolamentare Sistri); Dm Ambiente 18.02.2011 n. 52 (cd. «testo unico Sistri»).
Fino al futuro e nuovo assetto del Dl 138/2011, lo ricordiamo, continueranno ad applicarsi le (tradizionali) norme sulla gestione dei rifiuti previste dall'ordinamento giuridico nella loro versione «pre Sistri», obbligando dunque gli operatori a tenuta dei registri di carico e scarico, formulario di identificazione del trasporto dei beni a fine vita, denuncia Mud (articolo ItaliaOggi del 06.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASISTRI, ok anche dalla Commissione Bilancio.
Dopo il parere favorevole espresso dalla Commissione Ambiente sull'ipotesi di ripristino del SISTRI (abrogato dai commi 2 e 3 dell'art. 6 del D.L. n. 138/2011), è stata la volta della Commissione Bilancio, la quale, nel votare le proposte emendative riferite all'art. 6, ha approvato l'emendamento 6.15 (testo 3), che prevede l'avvio dell'operatività del SISTRI dal 09.02.2012, nonché la programmazione di una fase di verifica tecnica di software e hardware e test di funzionamento ad ampia partecipazione degli utenti, da effettuarsi tra l'entrata in vigore della legge di conversione della Manovra di ferragosto e il 15.12.2011.
Il partito del SISTRI segna un altro punto a favore: alla Commissione Bilancio, uno degli emendamenti al DDL di conversione del D.L. n. 138/2011 (A.S. n. 2887) presentati sul SISTRI riesce a passare, prefigurando un “ripristino” del nuovo Sistema informatico di controllo della tracciabilità dei rifiuti. L’emendamento è il n. 6.15 col quale si propone di sostituire i due commi della Manovra che hanno decretato la soppressione del SISTRI.
Di seguito ne riportiamo il testo: Proposta di modifica n. 6.15 al DDL n. 2887 6.15 (testo 3) FLERES, D'ALÌ, ORSI, MASCITELLI, DE ANGELIS, MERCATALI, BONFRISCO, AGOSTINI, CARLONI, GIARETTA, LEGNINI, LUMIA, LUSI I commi 2 e 3, ferma restando la vigenza delle norme indicate nel medesimo comma 2, sono sostituiti dai seguenti: «2. Al fine di garantire un adeguato periodo transitorio per consentire la progressiva entrata in operatività del Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti, nonché l'efficacia del funzionamento delle tecnologie connesse al SISTRI, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, attraverso il concessionario SISTRI, assicura, a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge e sino al 15.12.2011, la verifica tecnica delle componenti software e hardware, anche ai fini dell'eventuale implementazione di tecnologie di utilizzo più semplice rispetto a quelle attualmente previste, organizzando, in collaborazione con le associazioni di categoria maggiormente rappresentative, test di funzionamento con l'obiettivo della più ampia partecipazione degli utenti. Conseguentemente, fermo quanto previsto dall'articolo 6, comma 2, lettera f-octies del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12.07.2011, n. 106 per i soggetti di cui all'articolo 1, comma 5, del decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 26.05.2011, per gli altri soggetti di cui all'articolo 1 del predetto decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 26.05.2011, il termine di entrata in operatività del SISTRI è il 09.02.2012. Dall'attuazione della presente disposizione non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
3. Con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del Mare, di concerto con il Ministro per la semplificazione normativa, sentite le categorie interessate, entro novanta giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono individuate specifiche tipologie di rifiuti, alle quali, in considerazione della quantità e dell'assenza di specifiche caratteristiche di criticità ambientale, sono applicate, ai fini del sistema di controllo di tracciabilità dei rifiuti, le procedure previste per i rifiuti speciali non pericolosi». 3-bis. Gli operatori che producono esclusivamente rifiuti soggetti a ritiro obbligatorio da parte di sistemi di gestione regolati per legge, possono delegare la realizzazione dei propri adempimenti relativi al SISTRI ai consorzi di recupero, secondo le modalità già previste per le associazioni di categoria.»
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Le novità rispetto al testo originario della Manovra sono dirompenti.
Innanzitutto, il testo implica una netta marcia indietro del Governo sulla decisione di sopprimer il SISTRI e tutte le norme ad esso relative. Poi, si prevede la necessità di una “verifica tecnica delle componenti software e hardware, anche ai fini dell'eventuale implementazione di tecnologie di utilizzo più semplice rispetto a quelle attualmente previste, organizzando, in collaborazione con le associazioni di categoria maggiormente rappresentative, test di funzionamento con l'obiettivo della più ampia partecipazione degli utenti”.
In altre parole, semplificazione del sistema previo utilizzo di tecnologie “di utilizzo più semplice” e nuovi test da condurre con la collaborazione delle maggiori associazioni di categoria.
Infine, la proroga dell’avvio del SISTRI al 09.02.2012, mantenendo ferma la previsione del decreto Sviluppo (D.L. n. 70/2011, art. 6, comma 2, lettera f-octies) che aveva stabilito che per i soggetti di cui all'art. 1, comma 5, D.M. 26.05.2011 (ossia i produttori di rifiuti con max 10 dipendenti), la data di partenza dovesse essere stabilita con successivo d.m. ma comunque non potesse essere antecedente all'01.06.2012.
Come è noto, però, l’iter di conversione in legge della Manovra è ancora “lungo” –anche se il Presidente della Repubblica ne ha sollecitato una velocizzazione– ed il testo, dopo il passaggio alla Commissione Bilancio, passerà prima all’aula del Senato e poi alla Camera (06.09.2011 - tratto da www.ipsoa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIPa, contratti con i legali al ribasso. Parcelle da contrattare, forfetarie e anche sotto i minimi. La manovra di ferragosto spinge gli enti locali a risparmiare dovunque, pure sulle spese.
Tariffari calmierati per i legali delle amministrazioni locali. Ai professionisti si chiede di tenere basse le parcelle. La manovra-bis (decreto legge 138/2011) spinge gli enti pubblici, sempre alla ricerca di un difficile equilibrio tra bisogno di consulenza e assistenza legale e vincoli di finanza pubblica, a preferire risparmi di spesa.
L'articolo 5, comma 5, lettera d), del decreto legge 138/2011, infatti, assoggetta al tariffario forense le prestazioni legali a favore di un ente pubblico, ma solo se l'ente non abbia pattuito con il professionista deroghe al tariffario stesso, anche nei minimi. Quindi all'ente conviene stipulare un contratto con tariffe derogate.
Al comune e all'ente locale rimane sempre un'altra possibilità e cioè la gestione associata di un ufficio avvocatura: è la strada preferita dai piccoli enti.
Peraltro, anche prima del decreto 138/2011, si è, ormai, affermata la procedura della selezione tra professionisti per l'affidamento di incarichi legali. E proprio nei bandi di selezione saltavano fuori alcune sorprese per gli avvocati. Soprattutto quanto al riconoscimento economico.
Estrapolando dai bandi per l'affidamento di incarichi (ad hoc oppure per la formazione di un elenco di professionisti, cui affidare di volta in volta gli incarichi), pubblicati e reperibili su internet, di regola, si chiede all'avvocato di impegnarsi ad applicare e a percepire i minimi tariffari per diritti, onorari e spese.
Talvolta questa richiesta è accompagnata anche alla riduzione percentuale del livello minino. Con ciò l'avvocato si impegna contrattualmente ad andare sotto i minimi di tariffa.
Tra l'altro il compenso assume sempre più la natura forfetaria.
Molto spesso i bandi impegnano l'avvocato, al momento dell'affidamento del singolo incarico, a fare pervenire all'amministrazione il preventivo di spesa in forma forfetaria. In sostanza si chiede al professionista di formulare un preventivo, immaginando le possibili fasi processuali future. Anche se il giudizio potrà avere svolte difficilmente prevedibili.
Ma se, come previsto nei bandi, nulla verrà versato dall'ente per qualunque tipo di attività suppletiva che il legale incaricato non avesse prima comunicato e concordato con l'amministrazione, allora si tenderà a formulare un preventivo con tutte le attività in astratto possibili, gonfiando così il preventivo e rischiando di non prendere l'incarico. A meno che il legale non si accontenti, pur di prendere l'incarico, di compensi sottostimati.
Del tutto penalizzanti per l'avvocato sono, poi, alcune clausole che consentono all'ente locale di non pagare o pagare parzialmente il compenso stabilito contrattualmente.
Per esempio si può leggere in alcuni bandi che, in caso di soccombenza della controparte con contestuale e conseguente condanna alle spese di lite, il legale nominato deve procedere in primo luogo a recuperare presso la parte soccombente le sue spettanze e solo in caso di insolvenza di quest'ultima avrà diritto a essere soddisfatto dall'ente suo cliente.
Con regole di questo tipo, quindi, si inserisce una clausola di preventiva escussione del soccombente, prima di poter chiedere il saldo all'ente. Peraltro, anche nell'interesse dell'ente, sarebbe opportuno che di volta in volta si valutasse la possibilità effettiva di recupero. In caso di soggetto inesigibile, ad esempio perché irreperibile, sarebbe meglio, anche per l'ente, evitare costose procedure esecutive. Anche perché in questi casi all'ente verranno alla fine comunque addebitate sia le spese per il procedimento di cognizione sia per quello esecutivo (necessario a fronte dell'obbligo di preventiva escussione del soccombente): insomma, l'ente pagherà le spese legali del processo terminato e pagherà gli onorari del processo di esecuzione terminato senza recupero dal soggetto inesigibile.
All'obbligo di preventiva escussione si aggiunge, talvolta, la riduzione del compenso pattuito a quello liquidato dal giudice: per esempio si stabilisce che il legale incaricato dall'ente potrà esigere dall'ente stesso il compenso nella cifra minore tra quella liquidata dal giudice e quella definita in contratto e non potrà pretendere ulteriori somme dall'ente a qualsiasi titolo.
Una tale riduzione assume criteri di illogica sottostima dell'attività del legale nel caso in cui il giudice compensi parzialmente le spese. Si prenda il caso in cui il giudice valuti una soccombenza parziale dell'ente a causa della illegittimità degli atti o delle condotte dei pubblici funzionari e quindi l'ipotesi in cui il giudice stabilisca che l'ente possa recuperare solo una percentuale delle spese sostenute per la difesa, liquidando conseguentemente le cifre dovute per l'intervento del legale: sarebbe paradossale che l'avvocato incassasse di meno a causa delle negligenze dell'amministrazione o dei propri funzionari, che hanno determinato la soccombenza parziale.
Più in generale non corrisponde a un corretto equilibrio contrattuale che il valore del compenso dovuto all'avvocato sia determinato dal giudice (nella liquidazione delle spese ripetibili dal soccombente) e che, quindi, l'accordo contrattuale diventi carta straccia.
Non a caso in altri bandi più correttamente si prevede che il compenso stabilito contrattualmente rimane fermo e che lo stesso può essere aumentato nella più alta misura della liquidazione contenuta nel provvedimento giurisdizionale definitivo e non più impugnabile. Tra l'altro, in quest'ultima ipotesi, l'ente non potrebbe pretendere di tenere per sé la maggiore cifra liquidata dal giudice, visto che la stessa è determinata per remunerare l'attività di rappresentanza in giudizio.
In altri bandi lo scopo di abbassare la parcella dell'avvocato si ottiene chiedendo al legale di rinunciare ad alcune poste previste dal Tariffario forense, ad esempio il rimborso forfetario delle spese generali (calcolato al 12,5% di diritti e onorari).
Altre tecniche usate tendono ad agganciare il compenso al risultato: un collegamento di questo tipo risponde a un criterio di applicazione del Tariffario (si deve tenere conto dell'esito del giudizio). Bisognerebbe, comunque, capire se tale regola sia in grado di legittimare riduzioni del compenso sotto i minimi tariffari in relazione a esiti di parziale o totale soccombenza dell'ente: a questo scopo bisogna tenere conto della possibilità di derogare ai livelli minimi di tariffa (dl n. 223/2006 , «Decreto Bersani»).
Una possibilità ampiamente confermata dal decreto dall'articolo 3 del decreto 138/2011. Questa disposizione impone un contratto scritto tra ente pubblico e avvocato (e fin qui niente di nuovo) e ammette pattuizione di compensi in deroga alle tariffe. Se non c'è pattuizione espressa si applica il tariffario forense (con minimi e massimi). Peraltro proprio il richiamo ai minimi tariffari, in caso di mancata pattuizione, porterà le amministrazioni a trattare al ribasso con il professionista.
Anzi vi è da chiedersi se l'ente non sia obbligata a trattare al ribasso, in quanto altrimenti si troverebbe esposta al rischio di responsabilità erariale per avere scelto un professionista più caro di altri. Anche se così facendo sarebbe completamente azzerato il principio della fiduciarietà del rapporto tra cliente (anche se ente pubblico) e avvocato. Rapporto fiduciario che ha, comunque, una chance: l'ente pubblico può determinarsi, con apposita motivazione, a scegliere il professionista (non solo in base al fattore prezzo), ma anche in base alla professionalità e alla specializzazione, mediante valutazione del curriculum e delle esperienze (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIBandi di gara senza pretese inutili. Negli appalti niente clausole a pena di esclusione oltre i presupposti di riferimento. Dl sviluppo. Cambia anche la valutazione delle offerte da parte dell'ente che dovrà avvenire sottraendo al ribasso i costi del lavoro.
Le stazioni appaltanti non possono inserire clausole a pena di esclusione che non rispettino i presupposti di riferimento indicati dalla normativa in materia di appalti e devono valutare le offerte sottraendo al ribasso i costi del lavoro.
In base alle novità introdotte nel Codice dei contratti pubblici dal decreto Sviluppo (Dl 70/2011) e dalla sua legge di conversione (106/2011), le amministrazioni devono impostare gli atti di gara con regole che non prevedano adempimenti inutili, tali da ostacolare gli operatori economici, mentre questi ultimi sono tenuti a formulare le loro proposte con valori che non possono andare al di sotto dei minimi salariali.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (Avcp) ha aperto una consultazione su questi temi (sul sito www.avcp.it, alla voce «Consultazioni online»), che si chiuderà il 10 settembre: le imprese e le Pa possono produrre le loro osservazioni in merito.
I limiti.
Il primo profilo di attenzione è determinato dal neo-introdotto comma 1-bis dell'articolo 46, il quale stabilisce che nei bandi di gara e nelle lettere di invito possono essere inserite clausole a pena di esclusione solo se collegate a obblighi previsti da norme del Codice, del regolamento attuativo o di altre leggi, oppure se volte a garantire il corretto sviluppo delle operazioni di gara (con riferimento alla certezza della provenienza e del contenuto dell'offerta, all'integrità dei plichi, alla segretezza e alla completezza delle offerte). Le stazioni appaltanti non possono inserire altre clausole escludenti, poiché sono nulle, in quanto non sostenute da un presupposto normativo.
L'Avcp sta predisponendo i bandi-tipo (previsti dall'articolo 64, comma 4-bis del Codice), che conterranno le clausole tassative a pena di esclusione, ma nel documento di consultazione chiede la collaborazione dei soggetti pubblici e privati impegnati negli appalti per risolvere alcuni aspetti critici (come l'esclusione in caso di mancata effettuazione del sopralluogo, per il quale la normativa non prevede un obbligo specifico).
L'Autorità ha peraltro già definito alcune clausole tipo, relative a specifici obblighi previsti dal Codice, con riferimento particolare a quelle inerenti al termine di ricezione delle offerte e alla cauzione provvisoria: tali elementi possono già essere assunti dalle stazioni appaltanti per l'elaborazione dei bandi di gara in questa fase transitoria.
Nuovo criterio.
La seconda grande novità introdotta nell'articolo 81 del Codice riguarda la previsione (comma 3-bis) che le amministrazioni devono determinare l'offerta migliore al netto delle spese relative al costo del personale, valutato sulla base dei minimi salariali definiti dalla contrattazione collettiva nazionale di settore, e delle misure di adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Su questo dato normativo si sono formate due linee interpretative.
La prima, elaborata dal gruppo di lavoro degli esperti delle Regioni (www.itaca.org), sostiene che la stazione appaltante dovrebbe indicare "ex ante" nel bando di gara l'importo del costo del lavoro. Di conseguenza, l'importo complessivo posto a base di gara dovrebbe essere suddiviso in tre parti: una parte pari al costo del lavoro (tempo previsto per esecuzione del lavoro moltiplicato per i minimi salariali), una parte pari al costo della sicurezza e una parte pari al costo dei materiali, dei noli a caldo e a freddo, delle attrezzature e delle spese generali, nonché all'utile delle imprese.
Il secondo orientamento è invece quello elaborato dall'Avcp nel documento di consultazione, nel quale l'Autorità afferma che l'obiettivo della disposizione (contrastare il lavoro nero e il lavoro sottopagato) verrebbe perseguito in modo più efficace verificando il rispetto della normativa sulla manodopera, nella fase di esecuzione delle commesse (articolo Il Sole 24 Ore del 05.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGOStipendi pubblici solo al rialzo. La busta paga non può peggiorare nel passaggio ad altre p.a. La Corte di giustizia europea annulla l'interpretazione autentica della Finanziaria 2006.
La busta paga del dipendente pubblico non può peggiorare nel passaggio di ruolo da una p.a. ad altra, perché questa riassunzione costituisce trasferimento d'impresa per il quale è salvaguardato il diritto dei lavoratori a conservare presso il nuovo datore di lavoro la posizione acquisita presso il vecchio datore di lavoro. Così, il bidello di un comune che, dopo un tot numero di anni, ottiene il passaggio nella scuola, conserva un salario non inferiore a quello già goduto presso l'ente locale.
Lo stabilisce la corte di giustizia europea nella sentenza 06.09.2011 n. C-108/10 emessa ieri.
La pronuncia annulla, di fatto, l'interpretazione autentica fornita dalla legge 266/2005 (Finanziaria 2006) sul trattamento salariale dei dipendenti nel trasferimento.
La vicenda. La vicenda riguarda una dipendente di un comune trasferita anni fa nei ruoli del personale Ata dello Stato. Con il trasferimento, la lavoratrice è stata inquadrata in una fascia retributiva corrispondente a nove anni di anzianità, in misura inferiore rispetto ai 20 anni maturati presso l'ente locale da cui proveniva. In questo modo la lavoratrice ha sofferto una riduzione della sua retribuzione, per cui si è rivolta al Tribunale per ottenere il riconoscimento integrale dell'anzianità.
Il Tribunale ha rimesso la questione alla Corte di giustizia europea con due richieste: 1) se l'ipotesi della lavoratrice sia assimilabile al «trasferimento di impresa»; 2) se ai fini del calcolo del salario dei lavoratori trasferiti il nuovo datore di lavoro (cessionario) deve tener conto dell'anzianità lavorativa maturata dai lavoratore presso il vecchio datore di lavoro (cedente).
La sentenza. In buona sostanza, il Tribunale ha chiesto di sapere se il «passaggio del dipendente da una pubblica amministrazione a un'altra» sia assimilabile all'ipotesi del trasferimento di impresa. Ipotesi per la quale (vigente nel settore privato) è previsto il diritto del lavoratore a mantenere con il nuovo datore di lavoro (cessionario) la posizione acquisita presso il vecchio datore di lavoro (cedente) nonostante il lavoratore sia assoggettato, nella nuova impresa, al relativo ccnl da questa applicato. La corte di giustizia sentenzia positivamente su entrambe le questioni.
Secondo la corte Ue la riassunzione da parte di una pa del personale dipendente di un'altra pa costituisce un «trasferimento d'impresa» se detto personale è costituito dal complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell'ordinamento giuridico nazionale dello stato. Di conseguenza (la seconda risposta) ne deriva che in virtù del trasferimento, e dell'applicazione del nuovo contratto collettivo, il lavoratore non può soffrire una posizione (retributiva) meno favorevole rispetto a quella di cui godeva in precedenza.
Infine, la corte precisa che è compito del giudice nazionale esaminare se, all'atto del trasferimento, si sia verificato un peggioramento retributivo (articolo ItaliaOggi del 07.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: La destinazione urbanistica della zona non rileva ai fini del cambio di destinazione d'uso dell’immobile ivi localizzato, che ha assunto una utilizzazione economica diversa (quella commerciale), che giustifica il pagamento delle spese di urbanizzazione ai sensi dell'art. 9, lett. b), della L. n. 10/1977.
Con il secondo motivo si sostiene che il cambio di destinazione d'uso dell'immobile, da magazzino ad attività commerciale, non avrebbe giustificato il pagamento delle spese di urbanizzazione per la nuova destinazione perché l'immobile ricadrebbe in zona M/2 destinata ad attrezzature di servizi generali e locali, e quindi, il mutamento di destinazione non era soggetto a concessione edilizia ma a mera autorizzazione.
La censura è infondata perché la destinazione urbanistica della zona non rileva ai fini del cambio di destinazione d'uso dell’immobile ivi localizzato, che ha assunto una utilizzazione economica diversa (quella commerciale), che giustifica il pagamento delle spese di urbanizzazione ai sensi dell'art. 9, lett. b), della L. n. 10/1977
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.09.2011 n. 4906 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConcessione in sanatoria. Se la domanda ha dichiarazioni infedeli non si forma il silenzio assenso.
Vi sono nella domanda di condono una serie notevole ed articolata di infedeli dichiarazioni, puntualmente esaminate e considerate tali dall’apposita commissione preposta all’esame delle domande di condono (realizzazione del piano terra adibito a garage – da inquadrare nella tipologia 1 e non nella 7, ampliamento del primo e del secondo piano per uso residenziale, da inquadrare anch’esso nella tipologia 1 e non nella 3, realizzazione di una mansarda ad uso residenziale, da inquadrare nella tipologia 1 e non nella 3) la cui relazione è specificamente richiamata nel provvedimento impugnato, mentre la difesa del ricorrente si limita a smentire la dolosa manifestazione di volontà, senza che però fornisca prove convincenti in ordine a tale affermazione.
Relativamente alla pretesa dell’essersi formato il silenzio-assenso, non può non rilevarsi che in presenza di una domanda di condono ritenuta dolosamente infedele, l’effetto del silenzio-assenso non si produce, ai sensi dell’art. 40, comma 1, della legge n. 47 del 1985.
Infine, anche il motivo relativo alla contraddittorietà dell’integrazione dell’oblazione con il diniego di condono è infondato, in quanto proprio il fatto di aver fatto applicazione dell’art. 40, comma 1, della legge n. 47 del 1985 (domanda dolosamente infedele) non esclude la determinazione in via definitiva dell’oblazione
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.09.2011 n. 4903 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Informativa antimafia, divieto d'accesso sempre da motivare.
E' illegittimo, per difetto di motivazione e per violazione del diritto difesa, il diniego opposto dal Prefetto in merito a un'istanza ostensiva avanzata da una società privata tendente a ottenere copia di un'informativa prefettizia antimafia con cui e' stata comunicata la risoluzione di alcuni contratti di appalto.
Con apposita istanza di accesso, una società subappaltatrice ha chiesto alla competente Prefettura di prendere visione ed estrarre copia dell’informativa antimafia ex art. 10 del D.P.R. n. 252/1998, nonché di tutta la documentazione a essa connessa posta alla base della risoluzione dei contratti di appalto dalla medesima stipulati con alcune società appaltatrici e subappaltatrici.
L’istanza veniva rigettata sulla scorta delle disposizioni di cui all’art. 24 della L. n. 241/1990, al D.P.R. n. 352/1992 e al D.M. n. 415/1994.
Avverso quest’ultimo provvedimento di diniego è insorta la ditta esonerata.
Il TAR di Catanzaro, in via preliminare, ha sottolineato come la questione dedotta in giudizio concerna esclusivamente l’accessibilità degli atti istruttori posti alla base dell’informativa prefettizia sfavorevole, adottata ai sensi della vigente legislazione di contrasto e prevenzione dei fenomeni di infiltrazione malavitosa delle attività imprenditoriali, in conseguenza della quale, rispettivamente, le società appaltatrici e subappaltatrici avevano comunicato alla ricorrente la risoluzione dei contratti di appalto precedentemente stipulati.
In particolare, l’adito G.A., ravvisando l’applicabilità alla specie del D.M. 10.05.1994, n. 415 (Regolamento per la disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi), ha evidenziato come il presupposto art. 24 della L. n. 241/1990 costituisca la fonte di rango primario di riferimento: difatti, il comma 2 della menzionata disposizione sancisce l’emanazione di uno o più decreti intesi a disciplinare le modalità di esercizio del diritto di accesso e gli altri casi di esclusione di tale diritto in relazione all’esigenza di salvaguardare "l’ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità" (lett. c); e ancora, il successivo comma 4 prevede che: "Le singole Amministrazioni hanno l’obbligo di individuare, con uno o più regolamenti da emanarsi entro i sei mesi successivi, le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all’accesso per le esigenze di cui al comma 2".
I criteri per l’attuazione della norma testé richiamata, ha soggiunto il giudicante, sono stati stabiliti con l’art. 8 del D.P.R. n. 352/1992, il cui comma 5, lett. c) prevede che i documenti amministrativi possono essere sottratti all’accesso quando: "riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le azioni strettamente strumentali alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità con particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte, nonché all’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini".
Di conseguenza, l’adito G.A., alla stregua dell’illustrato quadro normativo, non ha mancato di sottolineare come in linea generale la sottrazione all’accesso, per espressa previsione del menzionato art. 8, comma 5, debba avvenire nel rispetto della norma (art. 8, comma 2) secondo cui: "I documenti non possono essere sottratti all'accesso se non quando essi siano suscettibili di recare un pregiudizio concreto agli interessi indicati nell'art. 24 della legge 07.08.1990, n. 241. I documenti contenenti informazioni connesse a tali interessi sono considerati segreti solo nell'ambito e nei limiti di tale connessione. A tale fine, le amministrazioni fissano, per ogni categoria di documenti, anche l'eventuale periodo di tempo per il quale essi sono sottratti all'accesso".
Sicché il Collegio, in relazione ai documenti chiesti in ostensione dalla ricorrente, ha ritenuto opportuno premettere la sostanziale differenza tra l’informativa antimafia, generalmente consistente nella mera formula rituale con la quale il Prefetto, sulla base delle risultanze in suo possesso afferma la sussistenza di elementi interdittivi a carico dell'impresa -atto per sua natura pienamente ostensibile- e le risultanze istruttorie "a monte", cui ha attinto l'Autorità prefettizia per pervenire al giudizio sfavorevole formulato a carico della ditta medesima.
Orbene, in relazione a tali atti istruttori "a monte", il TAR calabrese ha chiarito come l'accesso poteva essere escluso solo per quelle parti della documentazione in possesso dell'Amministrazione coperte da segreto istruttorio in quanto afferente a indagini preliminari o procedimenti penali in corso, oppure se e nella misura in cui avesse coinvolto, a qualunque titolo, terzi soggetti interessati dalle informative di polizia di sicurezza, ovvero, ancora, ove potevano essere addotti specifici motivi ostativi riconducibili a imprescindibili esigenze di tutela di accertamenti -in corso di svolgimento- di polizia di sicurezza e di contrasto alla delinquenza organizzata (in tal senso, TAR Campania, Napoli, Sez. V, 14.06.2006, n. 6985).
Nel caso di specie, il Collegio ha evidenziato come il diniego opposto alla ricorrente non fosse coerente con quanto statuito nelle norme illustrate, atteso che la motivazione del provvedimento negativo contiene uno sterile richiamo alle norme legislative e regolamentari sopra scrutinate, senza però alcuna puntualizzazione in ordine alla “idoneità del documento”, di cui è stata chiesta l’esibizione, a pregiudicare in concreto l’interesse alla salvaguardia dell’ordine pubblico, come espressamente previsto dall’art. 24, comma 2, lett. c), della L. n. 241 del 1990.
Di conseguenza, a opinione del G.A. di Catanzaro, la mancata ostensione dell’informativa antimafia ex art. 10 del D.P.R. n. 252 del 1998 nonché della documentazione a essa connessa, poiché non motivata con riferimento alle concrete ragioni che impedivano la divulgazione del documento, anche, eventualmente, nelle forme "deboli" della mera visione ovvero dell’estrazione di copia con tecniche di mascheramento, ha pregiudicato il diritto di difesa della ricorrente società (art. 24 Cost.), non consentendole di contestare nel merito le ragioni effettive su cui si fondava il provvedimento lesivo che aveva dato luogo alla risoluzione dei contratti di appalto stipulati (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 24.08.2011 n. 1146 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAnche le società possono configurarsi come imprenditori agricoli a titolo principale ed usufruire, quindi, dei benefici previsti per i soggetti rientranti in tale categoria. A questo riguardo va rilevato che il regolamento comunitario n. 797 del 1985, relativo al miglioramento dell’efficienza delle strutture agrarie, ricomprende esplicitamente nella sua sfera di applicazione anche le persone giuridiche, qualora rispondano a determinati requisiti fissati nello stesso regolamento e alla definizione, demandata alla legge nazionale, di imprenditore agricolo a titolo principale.
Orbene, nella legislazione italiana non è enunciata la nozione di imprenditore agricolo a titolo principale, con riferimento alle «persone diverse dalle persone fisiche». Come già rilevato da questo Consiglio in fattispecie analoga, in tale silenzio, sarebbe tuttavia illegittimo negare l'attribuzione di un beneficio a coloro, ivi comprese le società, che la stessa normativa comunitaria riconosce come potenziali titolari del diritto al conseguimento del beneficio medesimo.
Diversamente opinando si potrebbe verificare una disparità di trattamento all’interno della Comunità europea fra soggetti destinatari dello stesso beneficio.

La società ricorrente sostiene, in difformità a quanto ritenuto dal Comune di Menfi, di avere diritto, con riguardo alla struttura realizzata, all’esonero dal pagamento degli oneri concessori. L’esenzione dal contributo di concessione, prevista dalla lett. a) dell’art. 9 della l. 10/1977, come riproposto all’art. 17 D.P.R.380/2001, è posta in ragione della destinazione dell’immobile alla conduzione del fondo e alle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale. In tale categoria può e deve essere ricompreso –sussistendo gli altri presupposti- non solo l’imprenditore agricolo/persona fisica, ma anche tanto la persona giuridica.
La censura merita condivisione, secondo l’orientamento del Consiglio di Stato da cui la Sezione ritiene di non doversi discostare (cfr. Consiglio di Stato Sez. V, 30.08.2005 n. 4424), quantunque si registrano in primo grado differenti orientamenti che danno tuttavia atto della opinabilità di una diversa ricostruzione dell’istituto qui in evidenza (cfr. TAR Piemonte Torino, sez. I, 01.03.2010, n. 1302).
In primo luogo, come già anticipato in sede cautelare, dalla documentazione versata in atti risulta provata la natura “agricola” della società ricorrente, precondizione sottolineata dalla stessa Amministrazione al fine di dare applicazione alle norme di legge che consentono lo sgravio per il pagamento degli oneri quali contributo di concessione.
Né appare incontestabile la società ricorrente possa ritenersi imprenditore agricolo a titolo principale e professionale in quanto uno dei soci amministratori esercita attività dedica all’attività agricola –direttamente o nella qualità di socio- almeno del 50% del proprio tempo di lavoro complessivo e ricava in specie il 100% del proprio reddito globale di lavoro.
Come già premesso, sul punto centrale della questione –relativa all’ambito di operatività dell’art. 9, comma 1, lett. A) della l. 10/1977- il Consiglio di Stato, in contrario avviso al giudice di prime cure, ha chiarito che “anche le società possono configurarsi come imprenditori agricoli a titolo principale ed usufruire, quindi, dei benefici previsti per i soggetti rientranti in tale categoria (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.10.1996, n. 1156). A questo riguardo va rilevato che il regolamento comunitario n. 797 del 1985, relativo al miglioramento dell’efficienza delle strutture agrarie, ricomprende esplicitamente nella sua sfera di applicazione anche le persone giuridiche, qualora rispondano a determinati requisiti fissati nello stesso regolamento e alla definizione, demandata alla legge nazionale, di imprenditore agricolo a titolo principale.
Orbene, nella legislazione italiana (cfr. in particolare artt. 12 e 13 della L. 09.05.1975 n. 153; art. 8 della L. 10.05.1976 n. 352 e allegato all'art. 2 della L. reg. Piemonte 28.10.1986 n. 44) non è enunciata la nozione di imprenditore agricolo a titolo principale, con riferimento alle «persone diverse dalle persone fisiche». Come già rilevato da questo Consiglio in fattispecie analoga, in tale silenzio, sarebbe tuttavia illegittimo negare l'attribuzione di un beneficio a coloro, ivi comprese le società, che la stessa normativa comunitaria riconosce come potenziali titolari del diritto al conseguimento del beneficio medesimo.
Diversamente opinando si potrebbe verificare una disparità di trattamento all’interno della Comunità europea fra soggetti destinatari dello stesso beneficio. (cfr. Cons. Stato, VI Sez., 31.12.1987 n. 1057 e 21.11.1988 n. 1247; cfr. anche Cass. civ., I Sez., 20.04.1995 n. 4451 e Comm. centrale imposte sez. XVI, 07.07.1994 n. 2511)
”.
I principi appena esporsi hanno trovato riscontro anche in sede comunitaria, laddove si è affermato che una diversità di trattamento tra soggetti giuridici dell’ordinamento, basata esclusivamente sulle forme nelle quali queste sono costituite, sia contraria al principio di non discriminazione previsto dall’art. 40 n. 3 del trattato C.E.E. e come pertanto, l’art. 2, n. 5, del regolamento n. 797 del 1985 vada interpretato nel senso che non è concesso agli Stati membri, nel definire la nozione di imprenditore agricolo a titolo principale, di escludere da questa nozione le società di capitali per il solo motivo della loro forma giuridica (Corte giustizia C.E.E., II Sez., 15.10.1992 n. 162).
A ciò si aggiunge, come correttamente evidenziato dai ricorrenti, che con l’art. 2 D.Lgs. 99/2004 il legislatore ha stabilito che la ragione sociale o la denominazione sociale delle società, che hanno quale oggetto sociale l'esercizio esclusivo delle attività di cui all'articolo 2135 del codice civile, deve contenere l'indicazione di “società agricola”.
Nel caso in specie, dalla documentazione versata in atti (come già evidenziato in sede cautelare), non è revocabile in dubbio la natura agricola dell’azienda ricorrente. Il che postula, alla stregua di quanto evidenziato, la fondatezza della prima cesura articolata nel ricorso in esame (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 05.08.2011 n. 1554 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull’ordinanza sindacale di rimozione della tombinatura sul corso di un torrente decide il Tribunale superiore delle acque pubbliche.
Nel caso in discussione, con una ordinanza sindacale, era stato ingiunto ai ricorrenti di rimuovere, entro il termine di 30 giorni, la tombinatura costituente attraversamento su un torrente, eseguita in corrispondenza dei terreni di loro proprietà, a causa del potenziale pericolo in caso di abbondanti piogge.
I giudici del Tribunale amministrativo di Milano, nel declinare la propria giurisdizione, ricordano sul punto che l’art. 143, comma 1, lett. a), r.d. 11.12.1933 n. 1775 (recante «Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici»), nella parte in cui individua nel Tribunale superiore delle acque pubbliche l'organo giurisdizionale al quale spetta la cognizione in materia di ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall'amministrazione in materia di acque pubbliche, si applica anche alle situazioni in cui l'azione amministrativa, pur andando ad incidere su interessi più generali e diversi rispetto a quelli specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico, riguarda comunque l'ambito materiale in questione, nel senso che l'attribuzione sussiste non solo quando si esplica un potere strettamente legato allo sfruttamento della risorsa idrica, ma anche quando si discute di opere destinate ad influire sull'utilizzazione e, in definitiva, sul regime delle acque pubbliche, con la conseguenza che devono intendersi devoluti alla cognizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche i provvedimenti caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o ad influire nella loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti (Cass., SU., 24.04.2007 n. 9844; Consiglio Stato, sez. IV, 12.06.2009 n. 3701).
E’ stato, inoltre, sottolineato, insistono i giudici meneghini, come l’assetto distributivo della giurisdizione sia stato trasformato dall'entrata in vigore della legge 05.01.1994 n. 36 "Disposizioni in materia di risorse idriche" che, da un lato, ha introdotto la nozione di servizio idrico integrato, "costituito dall'insieme dei servizi pubblici di captazione, adduzione e distribuzione di acqua ad usi civili, di fognatura e di depurazione delle acque reflue" (art. 4, comma 1, lett. f), e dall'altro ha ampliato la nozione di acqua pubblica, precisando, all'art. 1, che "tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà”.
Il detto impianto risulta peraltro trasfuso, senza modificazioni per quanto qui rilevante, nel vigente d.lgs. 03.04.2006, n. 152 "Norme in materia ambientale". Dal nuovo assetto, si evince che sono ricompresi nell'ambito del concetto in disamina anche le modalità di eventuale riutilizzo e di trattamento delle acque reflue urbane (Consiglio di Stato, sez. IV, 26.01.2004 n. 242).
Pertanto, appartiene alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143 r.d. 11.12.1933 n. 1775 la cognizione sui provvedimenti che, similmente a quello impugnato, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incidono direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 01.08.2011 n. 2078 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOInfiltrazioni? Paghi metà danno. Spese da dividere quando il solaio dei box è via d'accesso. Una sentenza della Cassazione ridisegna la ripartizione dei lavori di ripristino tra condomini.
Per le infiltrazioni d'acqua nel box il proprietario del cortile sovrastante paga la metà delle spese. Non un terzo come avviene in caso di lastrico tradizionale.
È il nuovo principio affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 19.07.2011 n. 15841, che accoglie il ricorso della proprietaria di un box auto interessato da infiltrazioni d'acqua provenienti dal terrazzo-cortile sovrastante.
Il caso. A patire le conseguenze dannose dell'umidità è uno dei box sottostanti al cortile di proprietà esclusiva di una società. Non si tratta, tuttavia, di un lastrico tradizionale. Oltre a svolgere la funzione di copertura delle autorimesse, l'area è utilizzata anche come via d'accesso all'edificio condominiale e vi passano le auto per fare manovra. Ed è chiaro che l'usura della pavimentazione è dovuta all'insieme delle attività, motivo per cui sarebbe illogico accollare ai proprietari dei box sottostanti solo un terzo delle spese necessarie alla riparazione.
Scatta così l'interpretazione analogica dell'articolo 1125 cc, che divide gli esborsi a metà fra proprietario del piano superiore e quello del piano inferiore. Al primo le riparazioni del pavimento, al secondo l'intonaco. L'applicazione del principio di diritto, spiegano i giudici, non è ostacolata dalla circostanza che il cortile, seppure di uso comune, sia di proprietà singolare. Sarà il giudice del rinvio a mettere la parola «fine» all'intricata vicenda (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2011).

APPALTI: Gare d'appalto, per impugnare l'esclusione solo motivi specifici. Valida la valutazione sintetica della commissione.
Non e' sufficiente dedurre genericamente il difetto di motivazione del provvedimento di esclusione da una procedura di gara qualora la commissione non si sia limitata ad attribuire un mero punteggio numerico, ma abbia -sia pure sinteticamente- evidenziato per ogni offerta e per ciascuno dei criteri di valutazione, i punti di forza e quelli di debolezza.
L’oggetto della decisione in esame concerne l’impugnazione del provvedimento di esclusione di una ditta da una procedura di gara per l’affidamento del servizio di pulizia e sanificazione presso le strutture dell’Azienda sanitaria unica regionale, nonché del relativo bando di gara.
Nello specifico, con il provvedimento impugnato l’A.S.U.R. aveva disposto l’esclusione della società ricorrente dalla fase di valutazione delle offerte economiche in quanto la stessa non aveva conseguito il punteggio tecnico minimo richiesto dal bando.
Di conseguenza, la predetta ditta ha gravato il menzionato provvedimento, eccependo, oltre al resto, che la lex specialis, pur indicando i criteri e sub-criteri di valutazione, non specificava i criteri motivazionali a cui la commissione si sarebbe dovuta attenere, così impedendo la verifica dei percorsi argomentativi con cui aveva assegnato i punteggi.
Tanto, a opinione della ricorrente, in violazione dell’obbligo di motivazione di cui agli artt. 79 e 83 del D.Lgs. n. 163/2006.
Con gravame aggiuntivo, la deducente, alla luce dell’avvenuta conoscenza dei verbali di gara, ha contestato il difetto di motivazione degli stessi provvedimenti, nonché l’illegittima introduzione da parte della commissione di un criterio di valutazione non previsto dal bando (e questo con specifico riferimento all’assegnazione del punteggio per la voce “numero dei dipendenti e monte ore annuo di servizio”).
Il Collegio di Ancona, in relazione alle censure afferenti il merito delle valutazioni compiute dalla commissione, ha ritenuto infondate tutte le obiezioni sollevate dalla deducente.
Sul punto, ha dapprima rigettato il motivo con cui si era lamentato che la commissione avesse introdotto un nuovo criterio di valutazione non previsto dal bando in relazione al “Numero dei dipendenti e monte ore annuo di servizio” e che non aveva comunque motivato congruamente il punteggio assegnato alla ricorrente.
Al riguardo, hanno precisato i Giudici marchigiani, tenuto conto della denominazione letterale del criterio, un parziale accoglimento del ricorso sarebbe stato “inverosimile”, poiché del tutto logico è apparso il criterio secondo cui, a fronte di un maggior numero di addetti e di ore annue, l’offerta doveva essere premiata in termini di punteggio.
Inoltre, per quel che concerne gli altri punteggi, l’adito TAR ha evidenziato come, a livello generale, non apparisse sufficiente, ai fini dell’accoglimento del ricorso, dedurre genericamente il difetto di motivazione, tanto più laddove la commissione non si era limitata ad attribuire il punteggio numerico, ma, sia pure sinteticamente, aveva evidenziato per ogni offerta e per ciascuno dei criteri di valutazione, i punti di forza e quelli di debolezza.
E infatti, ha precisato che, nella vicenda sottoposta al suo vaglio, la commissione, dopo aver evidenziato i punti di forza del progetto tecnico presentato dalla ricorrente, ha altresì sottolineato come le carenze dello stesso avevano determinato l’assegnazione di un punteggio tecnico inferiore a quello minimo richiesto dal bando di gara.
Da siffatta analisi, ha soggiunto il Collegio, le censure circa un presunto difetto di motivazione dei provvedimenti impugnati non meritavano accoglimento in quanto non si poteva ritenere che la commissione avesse operato in modo superficiale o che non avesse dato conto delle ragioni per le quali aveva assegnato alle varie parti delle offerte certi punteggi anziché altri.
Invero, ha concluso il G.A. di Ancona, la ricorrente, al fine di mettere in dubbio l’operato della commissione, avrebbe dovuto procedere alla verifica dei singoli punteggi assegnati ai vari progetti tecnici presentati, nonché dei criteri di valutazione previsti dal bando e, qualora avesse riscontrato anomalie, avrebbe dovuto dedurre censure specifiche, in modo da indurre il Tribunale ad annullare gli atti di gara o, quantomeno, a disporre una consulenza tecnica per chiarire i punti controversi.
Diversamente, l’impugnazione in questione ha assunto un mero carattere “esplorativo”, in quanto, agli effetti finali, è stato chiesto al giudice di sostituire proprie valutazioni a quelle dell’organo a ciò preposto, le quali, oltre tutto, presentavano un margine di opinabilità soggettiva non sindacabile in sede giudiziaria.
Sotto tali profili, il ricorso è stato respinto, con conseguente declaratoria di legittimità degli atti impugnati e compensazione delle spese legali in ragione della complessità della questione esaminata (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Marche, sentenza 07.07.2011 n. 576 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOAddio al risarcimento per l'acqua in cantina se l'impresa chiude. Il Tribunale di Piacenza: per i coniugi oltre 4 mila euro di spese giudiziarie.
Infiltrazioni d'acqua in cantina, se il costruttore-venditore chiude niente ristoro ai proprietari. Non ha infatti diritto al risarcimento per le infiltrazioni d'acqua il proprietario della cantina se il venditore-costruttore ha chiuso i battenti.
Lo ha sancito il TRIBUNALE di Piacenza (sentenza 14.04.2011 n. 313) che ha negato il ristoro ai proprietari di un locale cantina danneggiato dalle infiltrazioni d'acqua.
In particolare una coppia di coniugi, proprietaria di una cantina infiltrata dall'acqua per via delle grondaie e delle fogne, fa causa alla società costruttrice-venditrice, ai soci e al condominio. Ma non viene risarcita e anzi paga anche le spese di giudizio. L'azienda immobiliare risulta infatti essere stata sciolta prima della riforma ex articolo dlgs 6/2003, che, modificando l'articolo 2495, comma 2, sancisce l'estinzione della società al momento dell'iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese. E ciò, diversamente che in passato, indipendentemente dall'esaurimento o meno del procedimento di liquidazione e dal persistere o meno di debiti o crediti sociali. Risultato: l'impresa costruttrice-venditrice non può essere citata in giudizio.
Per le cancellazioni effettuate in epoca precedente all'01.01.2004, è da quest'ultima data che deve comunque ritenersi avvenuta l'estinzione della società. Inutile poi pretendere dai soci della compagine disciolta l'eliminazione dei vizi della cantina laddove la domanda proposta ex articolo 1669 cc legittima i proprietari dell'immobile a chiedere il risarcimento del danno e non la riduzione in pristino: l'azione di esatto adempimento è collegata a un rapporto contrattuale e non può essere espressione della responsabilità extracontrattuale.
Idem per il condominio, chiamato in causa ex articolo 2051 cc: anche la responsabilità da custodia ha natura contrattuale. Per ottenere una pronuncia giudiziale che imponesse l'esecuzione dei lavori la coppia di coniugi avrebbe dovuto adire l'autorità giudiziaria ex articolo 1105 ultimo comma cc. Alla fine non solo la cantina è rimasta così com'era. Ma i coniugi proprietari devono pagare anche oltre 4 mila euro di spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2011).

CONDOMINIOReflue in casa, niente bonus a chi non ne prende possesso.
Niente agevolazioni fiscali per chi non prende possesso della casa per via delle infiltrazioni. Il contribuente che non va ad abitare nell'immobile acquistato entro i 18 mesi successivi al rogito, motivando la mancata presa di possesso dell'abitazione con delle infiltrazione d'acqua provenienti dal piano superiore, non avrà diritto alle agevolazioni «prima casa».

Lo ha sancito la Corte di Cassazione che, con la sentenza 26.01.2010 n. 1392, ha respinto il ricorso dell'acquirente di un immobile che non aveva preso la residenza nella nuova abitazione a causa delle infiltrazioni d'acqua provenienti dal piano superiore.
La sezione tributaria ha completamente capovolto il verdetto di merito che, sia in primo sia in secondo grado, era stato favorevole ai contribuenti. I giudici di legittimità hanno così motivato la sentenza: «A prescindere da ogni altra considerazione una infiltrazione di acque reflue in un appartamento non rappresenta in sé un impedimento avente le caratteristiche della forza maggiore se non in caso di prova del momento della sua insorgenza, del suo protrarsi, ovvero di eventuali complicanze idonee a rendere particolarmente lunga e difficile la riparazione e a impedire in modo assoluto e per tutto il tempo a disposizione non solo la presenza nell'immobile ma, in ogni caso, l'ottenimento del trasferimento della residenza anagrafica» (articolo ItaliaOggi Sette del 05.09.2011).

AGGIORNAMENTO AL 05.09.2011

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DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: M. Urbani, Molto rumore per nulla” - Una possibile interpretazione dell'art. 81, comma 3-bis, del codice introdotto dalla Legge 12.07.2011 n. 106 di conversione del decreto-legge 13.05.2011 n. 70.

PUBBLICO IMPIEGO: Manovra d'estate: previdenza - Quali effetti per la previdenza integrativa dei dipendenti pubblici? (link a www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: T. Tessaro, Una nuova tutela dei terzi nella c.d. SCIA voluta dal d.l. 138/2011 (link a www.diritto.it).

UTILITA'

PUBBLICO IMPIEGOLa tua postura durante il lavoro è corretta? Come valutarla e come prevenire i disturbi muscolo-scheletrici.
Una postura di lavoro corretta rappresenta un requisito fondamentale per prevenire disturbi muscolo-scheletrici legati all’attività lavorativa.
Quando un’articolazione si sposta dalla propria posizione naturale, è necessario un maggiore sforzo muscolare per ottenere la stessa forza e si produce quindi fatica muscolare, assumendo una posizione non neutra che può accrescere le sollecitazioni di tendini, legamenti e nervi.
Le posture scorrette, quindi, sono quelle in cui varie parti del corpo non si trovano nella loro posizione naturale e vanno assolutamente evitate in quanto posso generare disturbi muscolo-scheletrici.
L’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro ha pubblicato una guida finalizzata alla prevenzione delle posture scorrette.
Il documento, certamente utile sia per la valutazione della propria postura che di quella dei propri lavoratori, è così strutturato:
● Introduzione, contenente descrizioni e immagini relative a posture scorrette;
● Liste di controllo per la prevenzione;
● Esempi di misure preventive (01.09.2011 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROCompiti e responsabilità del committente. La guida al cantiere impeccabile!
Devi fare un lavoro? Devi aprire un cantiere? … Allora sei un committente!
Chiunque, dal privato cittadino al datore di lavoro di un’azienda, all’amministratore di condominio, può diventare un committente nel momento in cui inizia un lavoro.
La materia degli obblighi del committente relativamente alla sicurezza sul lavoro risulta vasta, complessa e piena di insidie.
Le USLL 18 e 19 di Rovigo, in collaborazione con gli Ordini professionali e INAIL, hanno pubblicato una guida di orientamento rivolta in primo luogo a chi si accinge a diventare un committente, ma certamente utile per tutti gli operatori del settore.
La guida contiene tutte le informazioni sulla figura del committente, sugli obblighi, gli adempimenti e responsabilità ed è corredata da schemi, tabelle e immagini.
Oltre agli obblighi, suddivisi anche in base alla fase di esecuzione dei lavori, vi è una parte dedicata alle sanzioni (01.09.2011 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATALa nuova Guida alle detrazioni del 55% e chiarimenti sulle ritenute d’acconto dall’Agenzia delle Entrate.
L’agevolazione fiscale per la riqualificazione energetica consiste nel riconoscimento di detrazioni d’imposta pari al 55% delle spese sostenute.
Si tratta di riduzioni dall’Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche) e dall’Ires (Imposta sul reddito delle società) concesse per interventi che aumentino il livello di efficienza energetica degli edifici esistenti e che riguardano, in particolare, le spese sostenute per:
► la riduzione del fabbisogno energetico per il riscaldamento;
► il miglioramento termico dell’edificio (finestre, comprensive di infissi, coibentazioni, pavimenti);
► l’installazione di pannelli solari termici;
► la sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale.
I limiti d’importo sui quali calcolare la detrazione variano in funzione del tipo di intervento, come indicato nella seguente tabella:
 

TIPO DI INTERVENTO

DETRAZIONE MASSIMA

riqualificazione energetica di edifici esistenti

100.000 euro (55% di 181.818,18 euro)

involucro edifici (pareti, finestre, compresi gli infissi, su edifici esistenti)

60.000 euro (55% di 109.090,90 euro)

installazione di pannelli solari

60.000 euro (55% di 109.090,90 euro)

sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale

30.000 euro (55% di 54.545,45 euro)

A seguito delle modifiche apportate dal Decreto Sviluppo e dalla Manovra Finanziaria in materia di detrazioni fiscali, l’Agenzia delle Entrate ha pubblicato la nuova guida (luglio 2011)  alle agevolazioni relative agli interventi di riqualificazione energetica (detrazione del 55%).
La Guida ripercorre le principali novità in vigore fino al 31.12.2011, tra cui l’eliminazione dell’obbligo di separata indicazione in fattura del costo della manodopera utilizzata per l’esecuzione degli interventi (estesa anche alle detrazioni del 55%)
Infine, la Manovra Finanziaria di luglio 2011 ha ridotto dal 10% al 4% la ritenuta d'acconto applicata da banche e poste sui bonifici relativi alle spese che consentono di fruire delle detrazioni fiscali del 36% (ristrutturazioni edilizie) e del 55% (risparmio energetico negli edifici).
Al riguardo, l’Agenzia ha pubblicato anche la circolare 05.08.2011 n. 41/E che chiarisce che banche e Poste Italiane sono tenute ad applicare la nuova ritenuta del 4% a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, cioè a partire dal 06.07.2011.
Inoltre, prevede il rimborso della differenza del 6% qualora banche e Poste Italiane abbiano continuato ad operare la ritenuta del 10% (01.09.2011 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: G.U. 02.09.2011 n. 204 "Disposizioni attuative degli articoli 2, comma 4, e 14, comma 10, del decreto legislativo 14.03.2011, n. 23, recante disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale, in materia di attribuzione ai comuni delle regioni a statuto ordinario della compartecipazione al gettito dell’imposta sul valore aggiunto per l’anno 2011" (D.P.C.M. 17.06.2011).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 35 del 31.08.2011 "(Modalità per l’acquisizione al patrimonio regionale di aree ad alta valenza naturale, localizzate all’interno del sistema delle aree protette regionali e strumentali all’attività degli enti gestori interessati" (deliberazione G.R. 04.08.2011 n. 2109).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 35 del 31.08.2011, "Approvazione del “Bando per l’erogazione di contributi agli enti locali per la redazione e l’aggiornamento dei piani di emergenza comunali, ai sensi dell’art. 2 della legge regionale 22.05.2004, n.16 ‘Testo unico delle disposizioni regionali in materia di protezione civile" (decreto D.U.O. 29.08.2011 n. 7831).

APPALTI: G.U. 29.08.2011 n. 200 "Stazione Unica Appaltante, in attuazione dell’articolo 13 della legge 13.08.2010, n. 136 - Piano straordinario contro le mafie" (D.P.C.M. 30.06.2011).
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Centrale regionale per gli appalti. Stazione unica territoriale per le forniture, i servizi e i lavori. In Gazzetta Ufficiale sbarca il Dpcm che individua l'organo di gestione delle committenze.
La stazione unica appaltante come centrale di committenza a livello regionale per la gestione di appalti di forniture, servizi e lavori, non sarà obbligatoria ma facoltativa; rimarrà comunque un utile strumento per il controllo, anche antimafia, degli appalti e per rendere più omogenee le procedure di gara a livello territoriale.

È quanto si desume dalla lettura del Dpcm 30.06.2011 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 200 del 29.08.2011) che istituisce la stazione unica appaltante in attuazione dell'articolo 13 della legge 13.08.2010, n. 136 relativo al Piano straordinario contro le mafie approvato dal Consiglio dei ministri il 28.01.2010.
Il provvedimento, sul quale si era espressa positivamente la Conferenza unificata lo scorso 25 maggio, prima della firma del decreto avvenuta il 2 luglio, è finalizzato a promuovere l'istituzione in ambito regionale, provinciale e comunale di una o più stazioni uniche appaltanti con l'obiettivo di rendere più penetrante l'attività di prevenzione e contrasto ai tentativi di condizionamento della criminalità mafiosa, favorendo la celerità delle procedure, l'ottimizzazione delle risorse e il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro.
Va però segnalato che se il provvedimento ha la finalità di incentivare «una maggiore diffusione anche attraverso la sensibilizzazione delle amministrazioni aggiudicatrici», nei fatti tale finalità potrebbe essere vanificata dalla natura facoltativa della costituzione della Sua. Il ricorso alla stazione unica appaltante (una o più su base regionale) non rappresenterà infatti un obbligo per le amministrazioni che saranno sempre libere di scegliere se aderire o meno.
Il provvedimento riguarda lo stato, le regioni, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni, unioni e concorsi di enti pubblici, le imprese pubbliche e i soggetti che operano in virtù di un diritto speciale o di esclusiva. La Sua ha natura giuridica di centrale di committenza e, come prevede il Codice dei contratti pubblici, ha il compito di procedere all'acquisizione di forniture, lavori e servizi destinati ad altre amministrazioni e all'aggiudicazione di appalti o alla conclusione di accordi quadro.
Nei fatti deve quindi deve gestire la procedura di gara, compito che si concretizza, ad esempio, nella cura della fase di pubblicità e nell'invio delle comunicazioni agli interessati, nell'effettuazione delle verifiche in ordine al possesso dei requisiti di partecipazione, nella nomina della commissione giudicatrice (in caso di aggiudicazione con offerta economicamente più vantaggiosa) e nella gestione degli eventuali contenziosi.
La Sua dovrà anche collaborare con l'ente che ha ad essa aderito per quanto attiene alla messa a punto dello schema di contratto, alla scelta della procedura di gara, alla predisposizione dei capitolati speciali e generali, alla scelta del criterio di aggiudicazione da utilizzare e alla predisposizione di tutti gli atti di gara (bando, disciplinare e lettere di invito) e del contratto. Il rapporto fra la Sua e gli enti aderenti viene regolato da una convenzione di cui il Dpcm definisce i contenuti essenziali della convenzione. In particolare dovranno essere definite le procedure interessate, ma anche l'aspetto relativo al rimborso dei costi sostenuti, la suddivisione degli oneri concernenti i contenziosi.
L'ente che ha aderito alla stazione unica sarà tenuto alla trasmissione, alla Sua e alla prefettura, dei contratti stipulati e delle varianti intervenute nel corso dell'esecuzione dei contratti.
Per rendere incisivi i controlli sugli appalti si prevede un collegamento stringente fra la competente prefettura, ove affluiranno tutte le informazioni e i dati utili alla prevenzione delle infiltrazioni della criminalità organizzata, e la Sua che dovrà mettere a disposizione della prefettura ogni dato utile concernente le imprese partecipanti alla gara. Prevista la delega del compito di verifica dei progetti e dell'esame delle varianti al Provveditorato interregionale per le opere pubbliche (articolo ItaliaOggi del 31.08.2011).

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Stazioni uniche appaltanti ''centrali'' di legalità.
Il decreto è finalizzato a promuovere l'istituzione in ambito regionale di una o più Stazioni uniche appaltanti, denominate ''SUA'', con modalità che ne incentivino una maggiore diffusione anche attraverso la sensibilizzazione delle amministrazioni aggiudicatrici, in modo da perseguire l'obiettivo di rendere più penetrante l'attività di prevenzione e contrasto ai tentativi di condizionamento della criminalità mafiosa, favorendo al contempo la celerità delle procedure, l'ottimizzazione delle risorse e il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro.
La stazione unica appaltante (SUA) con le funzioni previste dall'articolo 33 del decreto legislativo n. 163/2006, come richiamato dall'articolo 13 della legge 13.08.2010, n. 136, può svolgere un ruolo essenziale per promuovere ed attuare interventi idonei a creare condizioni di sicurezza, trasparenza e legalità favorevoli al rilancio dell'economia e dell'immagine delle realtà territoriali ed al ripristino delle condizioni di libera concorrenza, anche assicurando, con un costante monitoraggio, la trasparenza e la celerità delle procedure di gara e l'ottimizzazione delle risorse e dei prezzi.
L'individuazione delle attività e dei servizi della SUA, unitamente all'indicazione degli elementi essenziali delle convenzioni tra i soggetti che vi aderiscono, mira ad agevolarne una maggiore diffusione, in modo da perseguire l'obiettivo di rendere più penetrante l'attività di prevenzione e contrasto ai tentativi di condizionamento della criminalità mafiosa, favorendo al contempo la celerità delle procedure, l'ottimizzazione delle risorse e il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro.
Sono fatte salve le normative regionali che disciplinano moduli organizzativi e strumenti di raccordo tra gli enti territoriali per l'espletamento delle funzioni e delle attività di cui al presente decreto, aventi lo scopo di garantire l'integrazione, l'ottimizzazione e l'economicità delle stesse funzioni, attraverso formule convenzionali, associative o di avvalimento nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.
Il Governo, le regioni e le province autonome, le province e i comuni, in sede di Conferenza unificata, si scambiano annualmente, ai sensi dell'articolo 9, comma 2, lettera e), del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, dati ed informazioni relativi all'attuazione del decreto, con riguardo ai rispettivi ambiti di competenza.
Ferme restando le forme di monitoraggio e di controllo degli appalti previste dalla normativa vigente, le Prefetture-UTG possono chiedere alla SUA di fornire ogni dato e informazione ritenuta utile ai fini di prevenzione delle infiltrazioni della criminalità organizzata. I dati e le informazioni ottenute possono essere utilizzate dal Prefetto anche ai fini dell'esercizio del potere di accesso e di accertamento nei cantieri delle imprese interessate all'esecuzione dei lavori pubblici (30.08.2011 - commento tratto da www.ipsoa.it).
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Stazione unica appaltante: pubblicato in Gazzetta ufficiale il DPCM.
Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 200 del 29.08.2011 il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 30.06.2011 avente ad oggetto l’istituzione delle Stazioni Uniche Appaltanti a livello regionale, in attuazione dell’articolo 13 della legge 13.08.2010, n. 136 – Piano straordinario contro le mafie.

Si tratta di un provvedimento suddiviso in 6 articoli che stabilisce finalità, compiti e raggio d’azione della Stazione Unica Appaltante (SUA).
A livello regionale dovranno essere istituite una o più SUA con l’obiettivo di rendere più penetrante l’attività di prevenzione e contrasto ai “tentativi di condizionamento della criminalità mafiosa, favorendo al contempo la celerità delle procedure, l’ottimizzazione delle risorse e il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro.”
L’art. 2 elenca i soggetti che potranno aderire, in via facoltativa, alle SUA, ovvero: le Amministrazione dello Stato, le regioni, gli enti locali, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni, unioni, consorzi, e gli altri soggetti di cui all’articolo 32 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, nonché le imprese pubbliche e i soggetti che operano in virtù di diritti speciali o esclusivi concessi loro dall’autorità competente secondo le norme vigenti.
Il successivo art. 3 stabilisce quale dovrà essere l’attività delle SUA. Si tratta infatti di centrali di committenza con il compito di:
a) collaborare con l'ente aderente alla corretta individuazione dei contenuti dello schema del contratto, tenendo conto che lo stesso deve garantire la piena rispondenza del lavoro, del servizio e della fornitura alle effettive esigenze degli enti interessati;
b) concordare con l'ente aderente la procedura di gara per la scelta del contraente;
c) collaborare nella redazione dei capitolati di cui all'articolo 5, comma 7, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, laddove l'ente aderente non sia una Amministrazione aggiudicatrice statale e non abbia adottato il capitolato generale di cui al comma 8 del medesimo articolo 5;
d) collaborare nella redazione del capitolato speciale;
e) definire, in collaborazione con l'ente aderente, il criterio di aggiudicazione ed eventuali atti aggiuntivi;
f) definire in caso di criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, i criteri di valutazione delle offerte e le loro specificazioni;
g) redigere gli atti di gara, ivi incluso il bando di gara, il disciplinare di gara e la lettera di invito;
h) curare gli adempimenti relativi allo svolgimento della procedura di gara in tutte le sue fasi, ivi compresi gli obblighi di pubblicità e di comunicazione previsti in materia di affidamento dei contratti pubblici e la verifica del possesso dei requisiti di ordine generale e di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa;
i) nominare la commissione giudicatrice in caso di aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa;
l) curare gli eventuali contenziosi insorti in relazione alla procedura di affidamento, fornendo anche gli elementi tecnico-giuridici per la difesa in giudizio;
m) collaborare con l'ente aderente ai fini della stipulazione del contratto;
n) curare, anche di propria iniziativa, ogni ulteriore attività utile per il perseguimento degli obiettivi di cui all'articolo 1, comma 2;
o) trasmettere all'ente aderente le informazioni di cui all'articolo 6, comma 2, lettera a).
Il decreto (art. 4) stabilisce inoltre che i rapporti tra e l’ente aderente dovranno essere regolati da convenzioni che definiranno l’ambito di operatività della SUA, le modalità di rimborso dei costi da essa sostenuti, la spettanza degli eventuali oneri in ordine ai contenziosi nonché l’obbligo per l’ente aderente di comunicare alla SUA l’elenco dei contratti per i quali si prevede l’affidamento, oltre a qualsiasi altra informazione utile relativa all’esecuzione dei contratti.
Gli articoli 5 e 6 mettono invece in luce i compiti delle Prefetture, che dovranno esercitare delle forme di controllo sull’attività delle SUA, richiedendo “ogni dato e informazione ritenuta utile ai fini di prevenzione delle infiltrazioni della criminalità organizzata”, e monitorando ogni passaggio della procedura di gara (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

APPALTI: G.U.U.E. 27.08.2011 n. L 222/1 "REGOLAMENTO DI ESECUZIONE (UE) N. 842/2011 DELLA COMMISSIONE del 19.08.2011 che stabilisce modelli di formulari per la pubblicazione di bandi e avvisi nel settore degli appalti pubblici e che abroga il regolamento (CE) n. 1564/2005".
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Appalti, nuovi formulari per la pubblicazione in GUUE. Cambiano i modelli di formulari per la pubblicazione di bandi e avvisi nel settore degli appalti pubblici.
Le direttive 89/665/CEE e 2004/18/CE stabiliscono che le forniture, i lavori e i servizi pubblici devono essere pubblicizzati nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea.
Occorre che gli avvisi di queste pubblicazioni comprendano le informazioni stabilite in tali direttive.
Le direttive 92/13/CEE e 2004/17/CE stabiliscono che gli appalti pubblici nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni devono essere pubblicizzati nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea.
Occorre che gli avvisi di queste pubblicazioni comprendano le informazioni stabilite in tali direttive.
A norma della direttiva 2009/81/CE alcuni appalti di lavori, di forniture e di servizi nel settore della difesa e della sicurezza sono pubblicizzati nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea.
Occorre che gli avvisi di questa pubblicazione comprendano le informazioni stabilite in tale direttiva.
Il regolamento (CE) n. 1564/2005 della Commissione, del 07.09.2005, che stabilisce modelli di formulari per la pubblicazione di bandi e avvisi relativi a procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, stabilisce i modelli di formulari di cui alle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE e alle direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE.
Al fine di soddisfare le prescrizioni della direttiva 2009/81/CE e di garantire la piena efficacia delle direttive 89/665/CEE, 92/13/CEE, 2004/17/CE e 2004/18/CE, occorre adattare ed integrare i formulari allegati al regolamento (CE) n. 1564/2005.
Occorre inoltre aggiornare alcuni elementi dei modelli di formulari per tenere conto del progresso tecnico.
Dati il numero e la portata degli adeguamenti necessari, è opportuno sostituire il regolamento (CE) n. 1564/2005 (29.08.2011 - commento tratto da www.ipsoa.it).
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Nuovi formulari per bandi e avvisi da pubblicare in GUUE.
E’ stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 27.08.2011 (L 222) il “Regolamento di esecuzione (UE) n. 842/2011 della Commissione, del 19.08.2011, che stabilisce modelli di formulari per la pubblicazione di bandi e avvisi nel settore degli appalti pubblici e che abroga il regolamento (CE) n. 1564/2005”.
Nell’attesa che siano pubblicati dall’Autorità per i contratti pubblici i bandi e gli avvisi tipo a livello nazionale, europea è intervenuta prevedendo l’utilizzo per le stazioni appaltanti di bandi e formulari tipo ai fini della pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale comunitaria.
Il regolamento contiene una serie di allegati, precisamente 19, aventi ad oggetto i modelli che le amministrazioni aggiudicatrici dovranno utilizzare.
Eccoli di seguito riportati:
Allegato I: formulario standard 1: Avviso di preinformazione;
Allegato II: formulario standard 2: Bando di gara;
Allegato III: formulario standard 3: Avviso relativo agli appalti aggiudicati;
Allegato IV: formulario standard 4: Avviso indicativo periodico — Settori speciali;
Allegato V: formulario standard 5: Bando di gara — Settori speciali;
Allegato VI: formulario standard 6: Avviso relativo agli appalti aggiudicati — Settori speciali;
Allegato VII: formulario standard 7: Sistema di qualificazione — Settori speciali;
Allegato VIII: formulario standard 8: Avviso sul profilo del committente;
Allegato IX: formulario standard 9: Bando di gara semplificato nell'ambito di un sistema dinamico di acquisizione;
Allegato X: formulario standard 10: Concessione di lavori pubblici;
Allegato XI: formulario standard 11: Bando di gara — Appalti aggiudicati da un concessionario che non è un'amministrazione aggiudicatrice;
Allegato XII: formulario standard 12: Bando di concorso di progettazione;
Allegato XIII: formulario standard 13: Risultati di un concorso di progettazione;
Allegato XIV: formulario standard 15: Avviso volontario per la trasparenza ex ante;
Allegato XV: formulario standard 16: Avviso di preinformazione — Difesa e sicurezza;
Allegato XVI: formulario standard 17: Bando di gara — Difesa e sicurezza;
Allegato XVII: formulario standard 18: Avviso relativo agli appalti aggiudicati — Difesa e sicurezza;
Allegato XVIII: formulario standard 19: Avviso di subappalto — Difesa e sicurezza.
A norma di quanto stabilito dall’articolo 6 del regolamento l’utilizzo dei nuovi formulari sarà obbligatorio a partire dal ventesimo giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta ufficiale europea, quindi da venerdì 16 agosto.
È stato quindi abrogato il “vecchio” regolamento n. 1564/2005 che stabiliva i modelli di formulari per la pubblicazione di bandi e avvisi a livello comunitario.
Il nuovo regolamento, rispetto al n. 1564/2005, prevede in particolare un maggior numero di formulari ed una miglior specificazione.
Si tratta quindi di un ulteriore intervento su una materia che dovrà, secondo le ultime indiscrezioni provenienti da Bruxelles, essere oggetto nei prossimi mesi di una completa rivisitazione.
Ai sensi dell’art. 6, il regolamento “entra in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea.”  (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 26.08.2011 n. 198 "Procedure e requisiti per l’autorizzazione e l’iscrizione dei professionisti negli elenchi del Ministero dell’interno di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139" (Ministero dell'Interno, decreto 05.08.2011).
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Per l'autorizzazione e l'iscrizione negli elenchi del Ministero dell'interno. Normativa antincendio, requisiti dei professionisti.
Con il D.M. 05.08.2011 (Ministero dell'Interno - Gazzetta Ufficiale n. 198 del 26.08.2011) sono state dettate le procedure e i requisiti per l'autorizzazione e l'iscrizione dei professionisti negli elenchi del Ministero dell'Interno di cui all'art. 16 del D.Lgs. 08.03.2006, n. 139, in materia di normativa antincendio. Possono iscriversi negli elenchi del Ministero dell'interno i professionisti iscritti negli albi professionali, di seguito denominati professionisti, degli ingegneri, degli architetti–pianificatori-paesaggisti e conservatori, dei chimici, dei dottori agronomi e dottori forestali, dei geometri e dei geometri laureati, dei periti industriali e periti industriali laureati, degli agrotecnici ed agrotecnici laureati, dei periti agrari e periti agrari laureati, in possesso dei requisiti previsti dalla normativa vigente.
Per l'iscrizione negli elenchi del Ministero dell'interno, i professionisti devono essere in possesso, alla data della presentazione della domanda, dei seguenti requisiti:
a) iscrizione all'albo professionale;
b) attestazione di frequenza con esito positivo del corso base di specializzazione di prevenzione incendi.
L'attestazione di cui alla lettera b), non è richiesta:
a) ai professionisti appartenuti, per almeno un anno, ai ruoli dei direttivi e dirigenti, degli ispettori e dei sostituti direttori antincendi del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ed abbiano cessato di prestare servizio. Il requisito sarà comprovato dall'interessato all'Ordine o al Collegio professionale provinciale di appartenenza mediante attestazione rilasciata dal Ministero dell'interno - Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, di seguito denominato Dipartimento;
b) ai dottori agronomi e dottori forestali, agrotecnici laureati, architetti–pianificatori-paesaggisti e conservatori, chimici, geometri laureati, ingegneri, periti agrari laureati e periti industriali laureati che comprovino di aver seguito favorevolmente, durante il corso degli studi universitari, uno dei corsi d'insegnamento aventi per oggetto le materie previste dai corsi base di specializzazione in prevenzione incendi.
Per i suddetti professionisti è richiesto soltanto il superamento dell'esame inteso ad accertare l'idoneità dei candidati.
Restano comunque valide le iscrizioni dei professionisti già iscritti negli elenchi alla data del 27.08.2011 (31.08.2011 - commento tratto da www.ispsoa.it).
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Incendi, stretta sulla prevenzione. Servirà maggiore formazione per i tecnici.
Stretta sui requisiti per i professionisti abilitati a rilasciare i certificati di prevenzione incendi iscritti negli elenchi del ministero dell'interno. Che, d'ora in poi per poterne fare parte o non esserne cancellati dovranno garantire un minimo di ore di formazione continua obbligatoria.

Una norma questa contenuta nel decreto ministeriale sulle «Procedure e requisiti per l'autorizzazione e l'iscrizione dei professionisti negli elenchi del ministero dell'interno» (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 198 del 26/08/2011) che potrebbe mettere in serio pericolo la stessa iscrizione dato che le categorie di area tecnica sono tra le più inadempimenti in materia di formazione continua.
Il testo di legge arriva a definire prassi e obblighi per i professionisti che intendono abilitarsi al rilascio del certificato di prevenzione incendi che riguardano locali, attività, depositi, impianti e industrie pericolose. La certificazione è di norma appannaggio dei Vigili del Fuoco ma prevede che questi si possano avvalere di certificazioni e dichiarazioni di conformità compilate da professionisti abilitati. E quindi iscritti in appositi elenchi ministeriali, non prima di aver dimostrato di possedere tutti i requisiti e la formazione necessaria.
Ma chi può far parte di questi elenchi? Ingegneri, architetti, chimici, dottori agronomi e forestali, geometri, periti industriali, periti agrari, agrotecnici iscritti all'albo professionale e in possesso di attestato di frequenza con esito positivo del corso base di specializzazione di prevenzione incendi.
Il corso dovrà comprendere un ammontare non inferiore alle 120 ore con lezioni sostenute dagli ordini e dai collegi professionali di ognuna delle professioni ammesse alla possibilità di certificazione antincendio, con la supervisione e attestazione finale rilasciata dallo stesso ministero. Sono esclusi dall'obbligo di frequenza ai corsi i «professionisti appartenuti, per almeno un anno, ai ruoli dei direttivi e dirigenti, degli ispettori e dei sostituti direttori antincendi del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e abbiano cessato di prestare servizio», e i tecnici laureati che provino di aver seguito un corso e conseguito una formazione equivalente durante la laurea.
In ogni caso gli iscritti per mantenere la propria posizione dovranno seguire corsi di aggiornamento e seminari (articolo ItaliaOggi del 03.09.2011).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Regione Lombardia, "Linee Guida per l’utilizzo di Scale Portatili nei cantieri temporanei e mobili" (decreto D.G. 17.08.2011 n. 7738).
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Lavori in quota e caduta dall’alto. Linee guida, check-list e schede di attività.
Nei lavori edili la caduta dall’alto costituisce uno degli infortuni più frequenti con conseguenze gravi e spesso mortali. Nelle numerose analisi statistiche disponibili in letteratura, le cadute dall'alto si attestano sempre tra i primi posti degli infortuni gravi.
La Regione Lombardia ha pubblicato le “Linee Guida per l’utilizzo di Scale Portatili nei cantieri temporanei e mobili” con Decreto n. 7738 del 17/08/2011.
Scopo della Linea Guida è fornire ai diversi soggetti operanti nel cantiere uno strumento operativo di semplice consultazione, al fine di prevenire i rischi di caduta.
La parte generale tratta i seguenti argomenti:
● definizione generali;
● riferimenti normativi.
● misure generali di sicurezza nell’utilizzo delle scale.
● concetti di base in materia di sorveglianza e sanitaria e idoneità.
Sono presenti, inoltre, le “schede di attività” che riguardano diversi utilizzi in cantiere delle scale portatili:
opere di scavo di pozzi, cunicoli, trincee, etc.;
posizionamento di manufatti per il getto di pilastri e travi;
superamento di dislivelli per passaggio da solaio a solaio;
movimentazione di monoblocchi di cantiere quali baracche, casseri e ferri da armatura;
lavori di assistenza ai fini della realizzazione di impianti;
esecuzione e manutenzione di impianti;
attività di smontaggio e smantellamento di strutture ed impianti (strip out);
apertura e chiusura della copertura superiore degli automezzi telonati;
esecuzione di finiture ed intonaci;
posa e disarmo dei casseri di armatura.
La Linea Guida è, infine, corredata da una sintetica check-list dedicata all'utilizzo delle scale (01.09.2011 - commento tratto da www.acca.it).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: Videosorveglianza dei lavoratori: omessa informativa del datore di lavoro.
Domanda.
L'azienda in cui lavoro è dotata di quattro telecamere (tre esterne e una interna), appositamente segnalate e della cui esistenza tutti i dipendenti sono informati, più sei rilevatori di movimento, posti all'interno; il tutto viene normalmente attivato la sera quando l'azienda chiude, fino al mattino dopo.
Mi sono accorta per caso che alcuni di questi rilevatori di movimento presentano al loro interno una microcamera, della cui presenza nessun lavoratore è stato informato. Questo mi sembra molto scorretto e mi auguro almeno che i rilevatori presenti nei bagni siano privi di videocamera. Quali sono le sanzioni previste per l'omessa informativa del mio datore di lavoro?
Risposta.
Il provvedimento a carattere generale del Garante per la privacy dell'08.04.2010 (che sostituisce integralmente il precedente provvedimento del 29.04.2004 in tema di videosorveglianza), ha ribadito l'obbligo per il datore di lavoro che voglia effettuare la videosorveglianza esclusivamente per ragioni organizzative o produttive, ovvero per la sicurezza del lavoro, di osservare le regole "procedurali" previste dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori (L. n. 300/1970). Detto art. 4 subordina l'installazione degli impianti audiovisivi al preventivo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, ovvero in difetto di tale accordo, all'autorizzazione preventiva del Servizio Ispettivo della Direzione Provinciale del Lavoro.
Inoltre, è fondamentale affinché i trattamenti di dati personali derivanti dalla videosorveglianza siano leciti e corretti ("trattamenti" che sono costituiti dalla rilevazione di immagini che permettono di identificare le persone) che sia data sempre un'informativa preventiva ai soggetti interessati. Tale informativa può essere data in via generale ricorrendo a un cartello analogo al fac-simile proposto dal Garante stesso (con gli opportuni adattamenti che diano conto della sola rilevazione di immagini, o anche della eventuale registrazione e/o dell'eventuale collegamento diretto della videosorveglianza privata con le forze di polizia), cartello che deve essere posizionato prima del raggio d'azione delle telecamere (per consentire all'interessato la scelta di non accedere all'area coperta dal raggio d'azione) e non necessariamente a contatto con gli impianti e che deve essere sempre chiaramente visibile, anche nelle ore notturne. Va segnalato però che il Garante, nel suo provvedimento dell'08.04.2010, invita anche ad integrare l'informativa resa tramite i cartelli con un testo completo (contenente tutti gli elementi previsti dall'art. 13 del Codice della privacy) reso facilmente disponibile agli interessati.
Quanto all'aspetto sanzionatorio, il mancato rispetto delle anzidette prescrizioni costituisce una violazione amministrativa punita con il pagamento di una somma variabile da 30.000 a 180.000 euro; mentre per l'omessa o inidonea informativa continua ad applicarsi la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 6.000 a 36.000 euro.
Inoltre, se dall'utilizzo illecito di sistemi di videosorveglianza nei luoghi di lavoro deriva un controllo a distanza dell'attività dei lavoratori (che è assolutamente vietato dalla legge), il fatto è sanzionato anche penalmente ai sensi dell'art. 171 del D.Lgs. n. 196/2003 e dell'art. 38 della L. n. 300/1970 (02.09.2011 - commento tratto da www.ipsoa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Criteri degli uffici comunali per le istanze di rateizzazione delle sanzioni amministrative.
Domanda.
La competenza a determinare, con apposito atto deliberativo, i criteri ai quali gli uffici comunali devono attenersi per decidere sulle istanze di rateizzazione delle sanzioni amministrative è del Consiglio o della Giunta comunale?
Risposta.
La L. 24.11.1981, n. 689 detta, all'art. 26, le condizioni per concedere la rateizzazione nel pagamento delle sanzioni pecuniarie prevedendo che L'autorità .... amministrativa che ha applicato la sanzione pecuniaria può disporre, su richiesta dell'interessato che si trovi in condizioni economiche disagiate, che la sanzione medesima venga pagata in rate mensili da tre a trenta; ciascuna rata non può essere inferiore ad euro 15,00.
Ciò premesso non esiste alcun obbligo di dettare disposizioni più specifiche per l'applicazione della cit. disposizione.
Qualora invece si ritenga opportuno, al fine di ridurre la discrezionalità amministrativa in sede di concessione del beneficio, adottare un atto che definisca più puntualmente le casistiche, si ritiene che detta competenza debba essere dello stesso soggetto competente all'adozione del beneficio (Dirigente) mentre sia da escludere una competenza del Consiglio o della Giunta (in quanto non si rientra nell'ambito di profili politici).
Ciò premesso segnaliamo che alcune Amministrazioni si sono dotate di atti deliberativi quali quelli descritti (spesso approvati in Giunta).
Segnaliamo il contenuto dispositivo di uno di questi (Comune di Polesine) che potrà essere preso a riferimento (suggeriamo nella forma della Determina dirigenziale):
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... Determina...
1) Di stabilire i seguenti criteri e modalità per la rateizzazione delle sanzioni amministrative pecuniarie di competenza comunale:
a) la rateizzazione è concessa solo sull'importo di verbali per violazioni ed illeciti di natura amministrativa non ancora divenuti titoli esecutivi e sull'importo di ordinanze-ingiunzioni relative a violazioni amministrative entro trenta giorni dalla notificazione dell'ordinanza medesima; non e' ammessa la rateizzazione per violazioni al codice della strada e per illeciti amministrativi inerenti la violazione di norme in materia igienico-sanitaria e di tutela dell'ambiente;
b) la rateizzazione e' ammessa per importi complessivi superiori a euro 100,00 (cento) e per rate mensili da tre a dieci; l'importo di ciascuna rata non potrà essere inferiore a euro 20,00 (venti); tuttavia l'importo della rata finale sarà calcolato come saldo della somma da versare e potrà anche essere di importo inferiore ad euro 20,00;
c) se la richiesta di rateizzazione viene presentata a seguito di notifica di un'ordinanza-ingiunzione, le rate saranno applicate sull'importo stabilito nell'ordinanza medesima;
d) l'importo minimo rateizzabile può essere determinato anche dalla somma di più verbali per violazioni;
e) le rate mensili non sono gravate di interessi, poiché il debito riveste natura sanzionatoria;
f) il debito residuo può essere estinto in ogni momento mediante un unico pagamento;
g) il termine ultimo di pagamento di ogni rata mensile viene fissato nell'ultimo giorno di ogni mese oppure, se festivo, nel primo giorno feriale immediatamente successivo;
h) decorso inutilmente, anche per una sola rata, il termine fissato, l'obbligato è tenuto al pagamento del residuo ammontare della sanzione in un'unica soluzione;
i) la rateizzazione è ammessa esclusivamente in presenza dei seguenti requisiti di reddito del nucleo familiare di cui fa parte il richiedente, relativi all'anno precedente l'istanza:
- reddito inferiore ad euro 28.000,00 lordi annui in caso di nucleo familiare composto da un'unica persona;
- reddito inferiore ad euro 40.000,00 lordi annui in caso di nucleo familiare composto da due persone;
- reddito inferiore ad euro 45.000,00 lordi annui in caso di nucleo familiare composto da tre persone;
- reddito inferiore ad euro 50.000,00 lordi annui in caso di nucleo familiare composto da quattro o più persone;
j) il titolare del verbale o dell'ordinanza-ingiunzione deve dichiarare nell'istanza, mediante autocertificazione, di trovarsi nelle condizioni di cui all'art. 26, comma primo, della legge 689/1981 e di essere in possesso dei requisiti di reddito indicati al precedente punto i);
k) l'Amministrazione comunale si riserva di effettuare, anche a campione, tutti gli accertamenti previsti e consentiti dalla legge al fine di verificare le effettive condizioni economiche del richiedente;
l) il Responsabile del servizio ragioneria è autorizzato a valutare il rispetto dei criteri stabiliti dalla presente Deliberazione, ai fini della concessione o del diniego della rateazione, mediante apposito provvedimento;
m) non e' concessa la rateizzazione qualora il richiedente risulti già moroso relativamente ad un qualsiasi altro credito vantato nei suoi confronti dal Comune
(29.08.2011 - commento tratto da www.ipsoa.it).

NEWS

APPALTI: Stazione unica appaltante ad adesione volontaria.
LOTTA ALLE MAFIE - L'obiettivo della centrale è salvaguardare dai possibili condizionamenti di organizzazioni criminali.

Le amministrazioni pubbliche possono aderire alla stazione unica appaltante, per salvaguardare la fase dell'affidamento dell'appalto da possibili condizionamenti di organizzazioni criminali.
Nell'ambito del piano straordinario contro le mafie (legge 136/2010) è stato emanato il Dpcm 30.06.2011 (pubblicato nella Guri del 29 agosto), che disciplina le competenze e i profili organizzativi dei particolari organismi. Le "Sua" sono configurate come centrali di committenza, riconducibili al modello generale definito dagli articoli 3 e 33 del codice dei contratti pubblici, ma con una finalizzazione che combina l'ottimizzazione delle procedure con la capacità di contrastare più efficacemente i tentativi di infiltrazione mafiosa negli appalti.
Le attività attribuite alla stazione unica appaltante sono focalizzate sulla gestione della procedura di gara, collaborando con l'ente che intende affidare l'appalto nell'impostazione dei documenti descrittivi (capitolato speciale, schema di contratto), definendo la procedura di gara e occupandosi in via esclusiva della redazione degli atti regolatori della gara (bando, disciplinare e lettera di invito), con piena responsabilità nella definizione dei criteri selettivi (in caso di utilizzo dell'offerta economicamente più vantaggiosa).
La gestione della gara in tutte le sue fasi (compresa la nomina della commissione giudicatrice, quando necessaria) costituisce l'attività fondamentale della particolare centrale di committenza, che deve svilupparla in tutti i suoi profili operativi: dall'assolvimento degli obblighi di pubblicità all'effettuazione dei controlli sul possesso dei requisiti di ordine generale e di capacità nei confronti dei concorrenti e dell'aggiudicatario.
La collaborazione con le amministrazioni titolari dell'appalto si estende anche alla fase di stipulazione del contratto. La Sua, inoltre, ha competenza per la cura dei contenziosi insorti in relazione alla procedura di affidamento, fornendo anche gli elementi tecnico-giuridici per la difesa in giudizio. Su questo profilo, il riparto degli oneri connessi alla gestione del contenzioso deve essere definito nell'ambito della convenzione che regola i rapporti tra la stazione appaltante unica e le amministrazioni pubbliche aderenti. Con tale accordo devono essere definiti l'ambito di operatività del particolare organismo, i criteri dimensionali degli appalti che ne determinano l'intervento (ad esempio, per agre sopra la soglia comunitaria), le interazioni tra il responsabile del procedimento
delle amministrazioni aderenti e quello della centrale di committenza, nonché gli obblighi informativi reciproci (tra cui anche quelli relativi alle varianti in corso di esecuzione, che l'ente deve evidenziare al soggetto affidante).
L'assetto organizzativo e gestionale della Sua, con caratteristiche di notevole flessibilità, ben si coniuga con la prospettiva di una costituzione di più organismi di questo tipo in ambito regionale, proprio in virtù dell'ampia possibilità di scelta delle amministrazioni pubbliche, che possono aderirvi attribuendo la competenza allo svolgimento di singole gare o di particolari tipologie. Un comune di limitate dimensioni e con una struttura organizzativa ridotta potrebbe per esempio aderire alla stazione unica appaltante solo per le gare di maggiore complessità e importo.
Il Dpcm fa comunque salve le normative regionali che disciplinano moduli organizzativi e strumenti di raccordo tra gli enti territoriali per l'espletamento delle funzioni e delle attività riferibili alla Sua, quando hanno lo scopo di garantire l'integrazione, l'ottimizzazione e l'economicità delle stesse funzioni, attraverso formule convenzionali, associative o di avvalimento nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. A garanzia dell'efficacia dell'attività delle Sua, il Dpcm prevede la collaborazione informativa e di supporto delle prefetture - utg, mentre sul piano più operativo, gli enti possono avvalersi dei provveditorati interregionali delle opere pubbliche per le complesse e delicate attività di verifica dei progetti per lavori pubblici (articolo Il Sole 24 Ore del 04.09.2011).

CONSIGLIERI COMUNALIMANOVRA BIS/ Comuni, riunioni solo al tramonto. Sotto i 15 mila abitanti consigli, giunte e commissioni di sera.  La partecipazione agli organi di governo garantirà il permesso solo per la durata della seduta.
Nei consigli comunali degli enti locali con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, le sedute consiliari, quelle relative a commissioni, nonché le giunte dovranno svolgersi obbligatoriamente nelle ore serali, tranne in casi eccezionali di cui dovrà essere data adeguata motivazione nella lettera di convocazione.
Per i consiglieri comunali, che siano dipendenti pubblici o privati, non sarà più prevista l'assenza giustificata dal posto di lavoro per l'intera giornata, bensì solo per il tempo strettamente necessario per la partecipazione a ciascuna seduta e il tempo che occorre a raggiungere il luogo di svolgimento dell'assemblea consiliare.

Sono queste alcune delle disposizioni contenute nell'emendamento 16.1000, che il relatore al disegno di legge di conversione della manovra-bis di Ferragosto (il dl n. 138/2011), Antonio Azzollini ha depositato in Commissione bilancio del senato.
In comune lavori serali.
Fermo restando che le sedute del consiglio e delle commissioni sono pubbliche (salvi i casi previsti dal regolamento), l'emendamento posto da Azzollini aggiunge alcune novità al testo dell'articolo 38, comma 7 del Tuel (il dlgs n. 267/2000). Infatti, si prevede che nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, le riunioni di consiglio comunale e delle commissioni consiliari dovranno tenersi esclusivamente nelle ore serali.
Appare chiaro che tale ratio si possa fondare su una maggiore garanzia per i datori di lavoro che alle loro dipendenze hanno lavoratori che esercitano la funzione pubblica (in pratica, con il consiglio comunale che si svolge alle 21.00, il lavoratore/amministratore può benissimo recarsi al proprio posto di lavoro e poi in comune a svolgere il suo mandato elettivo). Ma se la disposizione dovesse essere convertita in legge, il ministero dell'interno dovrebbe necessariamente fornire dei chiarimenti. Prima di tutto, cosa debba intendersi per «ore serali». Senza dimenticare che questa volontà del legislatore potrebbe creare non pochi problemi alle asfittiche casse degli enti locali.
Il riferimento è agli eventuali maggiori costi che ogni amministrazione comunale dovrà sopportare per il personale che è istituzionalmente deputato a far funzionare al meglio le sedute di consiglio o di commissione (segretari, commessi, verbalizzanti). E se queste devono tenersi nelle ore serali, quindi al termine del normale orario di servizio dei dipendenti comunali, è probabile che l'ente dovrà sopportare maggiori costi per straordinario e maggiori costi indiretti (il riferimento va ai maggiori costi per energia elettrica).
È vero che le maggiori ore lavorate come straordinario possono essere convertite, su richiesta del lavoratore, in riposi compensativi, senza intaccare dunque il bilancio comunale, ma è pur vero che così verrà a mancare forza lavoro negli uffici comunali.
Permessi giornalieri, addio.
L'emendamento Azzollini, inoltre, intacca anche un'altra disposizione contenuta nel Tuel. All'articolo 79, comma 1 del Tuel, si prevede che i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, componenti dei consigli comunali, provinciali, metropolitani, delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché dei consigli circoscrizionali dei comuni con popolazione superiore a 500.000 abitanti, hanno diritto ad assentarsi dal posto di lavoro solo il tempo necessario per partecipare ai lavori dell'assemblea consiliare e per il tempo che occorre loro per raggiungere la sede dove si svolgerà la seduta.
Viene così a cadere il diritto per questa tipologia di consiglieri di poter assentarsi dal lavoro per l'intera giornata. Anche qui, non è difficile immagine quale possa essere stata la molla che abbia portato a scrivere una norma in tal senso. Da un lato c'è la già citata garanzia per il datore di lavoro (ovviamente per quei dipendenti che non abbiano scelto di mettersi in aspettativa per espletare interamente il mandato consiliare), di poter disporre del proprio lavoratore per più tempo, dall'altro, così operando si eviteranno le «tentazioni» di procrastinare i lavori consiliari oltre la mezzanotte, facendo scattare automaticamente un ulteriore giorno di assenza del dipendente.
Infatti, la disposizione contenuta nell'emendamento 16.1000, cassa quanto oggi previsto dal citato articolo 79 secondo cui nel caso in cui i consigli si svolgano in orario serale, i lavoratori/consiglieri hanno diritto a non riprendere il lavoro prima delle ore 8 del giorno successivo, mentre se i lavori dei consigli si protraggono oltre la mezzanotte, questi hanno diritto di assentarsi dal servizio per l'intera giornata successiva (articolo ItaliaOggi del 03.09.2011).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMANOVRA BIS/ Salvate le feste laiche. Amministrazioni obbligate a certificare i debiti.
La pubblica amministrazione sarà obbligata a certificare i debiti nei confronti di imprese e professionisti.
A prevederlo è un emendamento di minoranza alla manovra, passato ieri sera a sorpresa, in commissione bilancio al senato, contro il parere del governo e del relatore Antonio Azzollini (Pdl). Maggioranza finita sotto, dunque, grazie al voto che è stato compatto di tutte le opposizioni, compresa Forza del Sud, la formazione di Gianfranco Miccichè (che appoggia l'esecutivo), che avevano presentato più di una proposta di modifica per risolvere l'annosa questione dei crediti vantati verso la p.a. da un'importante fetta del mondo produttivo.
Il via libera al testo ha provocato letteralmente il caos nella V commissione di palazzo Madama, in chiusura di seduta: con tutta probabilità, considerando la rilevanza finanziaria dell'emendamento (non ancora quantificata), l'esecutivo dovrà correre ai ripari nelle prossime ore per evitare che la manovra, sulla quale il ministro dell'economia Giulio Tremonti ha assicurato la «totale solidità dei saldi di copertura», si carichi di una ulteriore, imprevista voce di spesa.
Sono state «salvate», invece, in extremis, le feste del primo maggio, del 25 aprile e del 2 giugno, ma non quelle patronali (eccezion fatta per i SS Pietro e Paolo, che si celebrano a Roma): l'emendamento del Pd, accolto dal relatore, che ha ottenuto il semaforo verde, stabilisce che le festività civili non saranno più accorpate alla domenica successiva, come si era ipotizzato nei giorni scorsi per evitare di perdere giornate lavorative.
Esaminati e votati nella serata di ieri tutti gli emendamenti all'articolo 1 e aggiuntivi (di cui ne sono stati approvati in tutto una decina), i lavori nell'organismo parlamentare riprendono questa mattina alle 9:30, ripartendo dall'art. 2 della manovra (articolo ItaliaOggi del 03.09.2011).

SEGRETARI COMUNALISegretari, ex agenzia paralizzata. Braccio di ferro sul bilancio. E la formazione resta al palo. Nonostante l'abolizione nel 2010 l'organismo è ancora in vita. Ma in amministrazione provvisoria.
Quando Tremonti nella manovra 2010 la cancellò con un tratto di penna, il ministro dell'economia raccolse consensi un po' dappertutto. Da sempre additata come un inutile carrozzone mangia-soldi (tra indennità faraoniche degli organi di gestione, spese folli e sedi inutili) l'Agenzia dei segretari comunali e provinciali, nonostante l'abrogazione, è più viva che mai.
Sarebbe dovuta passare sotto il controllo del ministero dell'interno, ma solo a seguito di un apposito decreto interministeriale che non è mai stato emanato.
E così, l'ex Ages, come previsto dalla legge (dl 78/2010) continua a esercitare «l'attività già svolta dall'Agenzia presso la sede e gli uffici a tale fine utilizzati». Il che significa: continua a fare quello che ha sempre fatto. Conserva la titolarità dei contratti stipulati, ne sottoscrive di nuovi, mantiene autonoma posizione fiscale, previdenziale e assistenziale. E soprattutto continua a incassare i contributi da comuni e province (sono stati abrogati dal dl 78, ma subito è intervenuto il milleproroghe 2010 a far slittare al 31/12/2011 la cancellazione dell'obolo a carico degli enti). Fa tutto questo in amministrazione provvisoria, ossia non potendo spendere più del necessario a garantire l'attività istituzionale minima. E meno male, direbbe qualcuno, dopo anni di vacche grasse.
Il problema è che lo stato di paralisi in cui si trova l'Agenzia (per la cui gestione, dopo lo scioglimento del cda nel 2010, il Viminale ha istituito un'unità di missione a capo della quale ha posto il prefetto Umberto Cimmino) sta bloccando le attività formative della Scuola superiore della pubblica amministrazione locale. Forse l'unica ragione perché l'Ages resti operativa. Alla Sspal, che dipende dell'Agenzia, compete l'aggiornamento professionale dei segretari e il reclutamento degli stessi attraverso l'organizzazione di Corsi-concorsi che ovviamente risultano congelati.
I sindacati (Cgil Funzione Pubblica, Cisl Fps, Uil Fpl e Unione nazionale dei segretari comunali e provinciali) sono sul piede di guerra e in una missiva unitaria indirizzata allo stesso Cimmino e al ministro dell'interno Roberto Maroni hanno chiesto una rapida approvazione dei documenti di bilancio (rendiconto 2010 e preventivo 2011) indispensabili per far ripartire le attività a pieno regime.
Ma una querelle tra lo stesso Cimmino e il neonato Comitato di sorveglianza, nominato da Maroni nello scorso luglio per «assicurare un'indefettibile azione di controllo sulle attività dell'ex Ages» fino al trasferimento di funzioni al Viminale, sta bloccando tutto. Cimmino, forte anche del parere conforme della Corte dei conti (delibera n. 5/2011 della sezione autonomie), non vuole proprio saperne di approvare il bilancio in mancanza di organi di controllo interno, ossia senza il collegio dei revisori. E preferisce andare avanti alla giornata con la gestione provvisoria, nonostante la «grave crisi di liquidità» che lo stesso Cimmino riconosce essere alle porte.
Per il comitato di sorveglianza, invece, il collegio dei revisori c'è ed è pienamente operativo. «Non sembra che il venir meno degli organi dell'Ages», si legge nella relazione al bilancio di previsione 2011 depositata dal Comitato lo scorso 4 agosto, «abbia fatto decadere il collegio dei revisori, tanto è vero che lo stesso collegio ha continuato a svolgere attività istituzionale e ad essere regolarmente retribuito».
«La decisione di non approvare il bilancio di previsione 2011 e la relazione programmatica nei termini previsti», prosegue l'organo composto da Maurizio Delfino, Maurizio Bruschi e Luigi Barbero, «non è giustificata da alcun elemento giuridico, posto che, ai sensi del dl 78/2010, la successione del ministero dell'interno nelle funzioni dell'ex Ages non opera immediatamente, ma solo a seguito di uno specifico decreto».
In pratica, secondo il Comitato, poiché il passaggio di consegne tra Agenzia e ministero si avrà solo dopo l'adozione di questo provvedimento, «sarebbe stato opportuno procedere con l'approvazione del bilancio di previsione» per far fronte alle tante obbligazioni assunte verso dipendenti, fornitori e banche.
Intanto, la tensione sale. All'interno della categoria e nelle stanze del ministero dell'interno. Dove più d'uno pare intenzionato a chiedere a Maroni la testa di Cimmino, reo di essere troppo poco decisionista. Mentre i sindacati, forse sbagliando bersaglio, se la sono presa col Comitato di sorveglianza accusandolo di essere il vero responsabile della mancata approvazione del bilancio. Quando si dice: oltre al danno la beffa (articolo ItaliaOggi del 03.09.2011).

APPALTI SERVIZIMANOVRA BIS/ In house, un percorso a ostacoli. Ai raggi X efficienza, economicità, Patto e controllo analogo. Il dl 138 riammette gli affidamenti. Ma i paletti normativi restano.
Se il referendum dello scorso giugno, che ha abrogato l'art. 23-bis, ha restituito agli enti locali quella libertà di autorganizzazione sancita dal Trattato Ue e dalla Corte di giustizia europea, con la manovra di Ferragosto il legislatore ha riaperto alla costituzione di società in house laddove il valore economico del servizio oggetto dell'affidamento non superi 900.000,00 annui, intendendosi per tale valore la somma del valore del contratto di servizio e la contribuzione tariffaria pubblica.
L'apparente libertà dell'affidamento o del mantenimento di servizi (al di sotto di tale nuova soglia) a favore di società comunali incontra tuttavia vincoli legislativi nazionali e comunitari e/o di opportunità che potrebbero pregiudicare la sopravvivenza dell'in house.
La cornice entro cui si inquadra la nuova disciplina è la preventiva, delicata e imprescindibile valutazione da parte degli enti locali, entro il 12.08.2012 e in ogni caso prima del conferimento o del rinnovo della gestione dei servizi, della realizzabilità di una gestione concorrenziale degli stessi, escludendoli da un processo di liberalizzazione solo se si dimostra che in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non sia in grado di assicurare un servizio rispondente ai bisogni della collettività.
La relativa delibera ricognitiva dovrà essere trasmessa all'Antitrust.
Inoltre, l'assoggettamento delle società in house al Patto di stabilità interno, ai sensi del c. 14 dell'art. 4 della manovra estiva, di cui si attendono i relativi provvedimenti attuativi, potrebbe peggiorare i saldi del gruppo comunale a seguito della rilevanza di uscite/spese delle in house a fronte di entrate/ricavi non rilevati.
Ecco che il processo di esternalizzazione dei servizi pubblici locali, attivato da molti comuni mediante la costituzione di mirate società in house proprio per rispettare le regole del patto di stabilità interno, potrebbe trovare nelle regole del patto consolidato il proprio capolinea, a prescindere da qualsiasi altra valutazione o considerazione sostanziale o di merito.
Alla luce di quanto sopra, con riferimento alle società in house ammesse dalla recente manovra sarà necessario valutare attentamente i diversi aspetti, tra cui la giustificazione del mantenimento rapportata alle finalità istituzionali, alla comprovata efficienza ed economicità della gestione rispetto al mercato, alla incidenza del futuro patto di stabilità consolidato nonché al rispetto dei vincoli imposti dalla giurisprudenza comunitaria relativa al cosiddetto «controllo analogo». Con l'avvertenza che l'assenza di un vero controllo analogo esporrebbe l'ente a possibili ricorsi alla magistratura amministrativa da parte di potenziali concorrenti del mercato (articolo ItaliaOggi del 02.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOMANOVRA BIS/ Spoil system travestito da mobilità. Dirigenti esposti alla discrezionalità del potere politico. Nel dl 138 un colpo di spugna alla riforma Brunetta che ha applicato i dettami della Consulta.
Torna lo spoil system per la dirigenza pubblica. È l'effetto dell'articolo 1, comma 18, del dl 138/2011, ai sensi del quale «al fine di assicurare la massima funzionalità e flessibilità, in relazione a motivate esigenze organizzative, le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, possono disporre, nei confronti del personale appartenente alla carriera prefettizia ovvero avente qualifica dirigenziale, il passaggio ad altro incarico prima della data di scadenza dell'incarico ricoperto prevista dalla normativa o dal contratto.
In tal caso il dipendente conserva, sino alla predetta data, il trattamento economico in godimento a condizione che, ove necessario, sia prevista la compensazione finanziaria, anche a carico del fondo per la retribuzione di posizione e di risultato o di altri fondi analoghi
».
La disposizione, pur senza modificare espressamente né il dlgs 165/2001, né il dlgs 150/2009, costituisce un deciso passo indietro nella disciplina degli incarichi dirigenziali, perché ha l'obiettivo di esporli nuovamente alla piena discrezionalità, se non all'arbitrio dell'organo di governo. Infatti, la manovra estiva 2011 bis consente di modificare gli incarichi nel corso della loro durata, prevedendo come unica salvaguardia per il dirigente interessato la conservazione del trattamento economico in godimento, ovviamente se superiore a quello previsto per il nuovo incarico assegnato.
Si tratta di un colpo di spugna agli intenti della riforma Brunetta, che aveva avuto tra i principali scopi quello di adeguare la normativa alle decisioni della Corte costituzionale, che a partire dalla sentenza 103/2007 avevano qualificato lo spoil system e in particolare proprio modalità automatiche o eccessivamente discrezionali di modifica degli incarichi come incompatibili con la Costituzione.
L'articolo 1, comma 18, del dl 138/2011, per altro, è difficilmente coordinabile con la disciplina sugli incarichi introdotta dalla riforma Brunetta. Infatti, come visto, esso prevede una generale modificabilità degli incarichi assegnati, anche nel corso della loro durata, cioè prima della scadenza del termine. Contestualmente, però, l'articolo 19, comma 1-ter stabilisce: «Gli incarichi dirigenziali possono essere revocati esclusivamente nei casi e con le modalità di cui all'articolo 21, comma 1, secondo periodo. L'amministrazione che, in dipendenza dei processi di riorganizzazione ovvero alla scadenza, in assenza di una valutazione negativa, non intende confermare l'incarico conferito al dirigente, è tenuta a darne idonea e motivata comunicazione al dirigente stesso con un preavviso congruo, prospettando i posti disponibili per un nuovo incarico».
L'articolo 21 prevede il mancato raggiungimento degli obiettivi o la violazione delle direttive come causa del mancato rinnovo dell'incarico dirigenziale, non della modifica dell'incarico in corso. Come visto, lo stesso articolo 19, comma 1-ter, ammette che processi di riorganizzazione siano il presupposto per attribuire a un dirigente un nuovo incarico, ma a condizione che quello precedente fosse scaduto: si parla, infatti, di mancata conferma.
È evidente la contraddizione tra norme, generata dal dl 138/2011. Sul cui articolo 1, comma 18, possono anche avanzarsi dubbi di applicabilità e legittimità costituzionale. Il contrasto con le citate norme del dlgs 165/2001 potrebbe in apparenza risolversi a vantaggio della manovra 2011, applicando il principio della successione delle leggi nel tempo, che dà prevalenza alla norma più recente.
Tuttavia, la lettura costituzionalmente orientata della norma rivela la sua oggettiva contrarietà a Costituzione, anche perché oltre a reintrodurre cascami di spoil system ritenuto da tempo incostituzionale, viola le norme procedurali previste dalla riforma Brunetta, per garantire il contraddittorio e opportunità di scelta degli incarichi ai dirigenti interessati a una modifica della loro attività (articolo ItaliaOggi del 02.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Cosa succede se il dipendente-consigliere comunale è anche assessore. Sì al cumulo dei permessi. Spettano al lavoratore per ogni carica ricoperta.
Quali permessi spettano a un lavoratore dipendente, consigliere comunale, che riveste la carica di assessore?
Mentre i permessi previsti dal Tuel riflettono il diritto costituzionalmente garantito, a chi ricopre cariche presso enti locali, di disporre del tempo necessario all'espletamento del mandato (art. 51 Cost.), l'art. 79 definisce puntualmente tipologia e misura dei permessi di cui ciascun amministratore può usufruire, graduandoli secondo la carica rivestita presso l'ente.
In particolare, il comma 1 dell'art. 79 prevede espressamente, per i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, componenti dei consigli comunali, il diritto di assentarsi dal servizio per l'intera giornata in cui sono convocati i rispettivi consigli. Nel caso i lavoratori dipendenti facciano parte delle commissioni consiliari nonché delle commissioni comunali previste per legge, potranno usufruire dei permessi di cui al successivo comma 3.
Per quanto concerne la carica assessorile, il comma 3 dell'art. 79 del decreto legislativo n. 267/2000 prevede il diritto di assentarsi dal servizio al fine di partecipare alle riunioni degli organi di cui si fa parte per la loro effettiva durata, compreso il tempo necessario per raggiungere il luogo della riunione e rientrare al posto di lavoro. In aggiunta a tali permessi è contemplata, per la carica assessorile, la possibilità di assentarsi ulteriormente dal servizio per un massimo di 24 ore lavorative al mese. La normativa prevede, inoltre, per entrambe le cariche, la possibilità di usufruire dei permessi non retribuiti disciplinati dal comma 5 del citato art. 79.
Pertanto, l'amministratore in questione ha diritto ai permessi specificatamente previsti per l'espletamento di ogni singola carica ricoperta, a meno che non si verifichi una coincidenza nell'ambito della stessa giornata tra le convocazioni dei distinti organi rappresentativi. Le assenze dal servizio sono retribuite al lavoratore dal datore di lavoro, ai sensi dell'art. 80 del citato decreto legislativo.
Tuttavia, qualora il lavoratore dipenda da privati o da enti pubblici economici, l'ente presso il quale il medesimo esercita le proprie funzioni è tenuto, su richiesta documentata del datore di lavoro, a rimborsare quanto da quest'ultimo corrisposto, per retribuzioni e assicurazioni, per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore. Resta fermo l'obbligo del lavoratore di documentare, con apposita certificazione, i permessi di cui ha usufruito (articolo ItaliaOggi del 02.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ INDENNITÀ/1
Quale disciplina si applica all'indennità da corrispondere al presidente e ai componenti del consiglio di amministrazione di un consorzio tra comuni, alla luce delle disposizioni recate dal dl 31/05/2010, n. 78?

L'art. 6 del dl n. 78/2010 è una norma che ha una natura di carattere generale, mentre la fattispecie è espressamente disciplinata dall'art. 5, comma 7, del citato decreto legge, il quale stabilisce che «agli amministratori di forme associative di enti locali aventi per oggetto la gestione dei servizi e funzioni pubbliche non possono essere attribuite retribuzioni, gettoni, e indennità o emolumenti in qualsiasi forma siano essi percepiti».
Considerato che l'art. 31 del decreto legislativo n. 267/2000, disciplinante i consorzi degli enti locali, è compreso nel Capo V del titolo II del medesimo decreto, dedicato alle forme associative, il divieto riguarda in generale anche i componenti degli organi dei consorzi fra enti locali. Pertanto, gli amministratori interessati non hanno diritto al percepimento di alcun compenso per le predette cariche.
INDENNITÀ/2
Alla luce delle disposizioni previste dal dl 31.05.2010, n. 78 come opera la riduzione dell'indennità di funzione da corrispondere agli amministratori comunali?

Il dl n. 78/2010, concernente misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, ha introdotto una serie di disposizioni volte a perseguire una riduzione del costo degli apparati politici e amministrativi.
Tra queste l'art. 5, comma 7, prevede che con decreto del ministro dell'interno, da adottarsi entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legge stesso, ai sensi dell'articolo 82, comma 8, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, gli importi delle indennità già determinate ai sensi del citato art. 82, comma 8, sono diminuiti, per un periodo non inferiore a tre anni, di una percentuale variabile al variare delle dimensioni demografiche dell'ente. Sono esclusi dall'applicazione di tale disposizione i comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti.
Ai fini del calcolo dell'indennità spettante agli amministratori locali, devono trovare applicazione le disposizioni del citato art. 5, comma 7, essendo espressamente individuati i destinatari di tale norma; l'art. 6, comma 3, dello stesso decreto, non è applicabile alle indennità degli amministratori locali essendo diversi i relativi destinatari (articolo ItaliaOggi del 02.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti a tempo, chance di salvezza.
Il decreto correttivo della riforma Brunetta, il decreto legislativo 141/2011, più che risolvere finalmente il problema dei dirigenti "a contratto" pone il fianco a una serie di difficoltà in merito alla sua applicazione (si veda «Il Sole 24 Ore» di martedì).

Si tratta della norma considerata l'ancora di salvezza dei contratti dirigenziali "a tempo" stipulati dopo il 15.11.2009, in eccesso rispetto alla percentuale massima consentita dal l'articolo 19, comma 6, del Dlgs 165/2001. Il decreto legislativo 141 del 2011, all'articolo 6, prevede, infatti, che tali contratti, fermo restando la valutazione della congruità degli stessi ad ogni altra disposizione normativa, possono essere mantenuti fino alla loro scadenza, se in essere al 09.03.2011 e se stipulati nel rispetto delle regole sul contenimento della spesa di personale e sull'utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato.
La norma concede agli enti la possibilità di «mantenere». Si tratta, quindi, di una facoltà, per le singole amministrazioni in base a criteri di tipo organizzativo, considerando anche che tale situazione è temporanea. A fronte di tale facoltà non vi può essere un diritto del dirigente.
Il verbo «mantenere» usato dal legislatore deve far presupporre un'altra condizione perché gli stessi contratti continuino a esplicare la loro efficacia, vale a dire che i dirigenti a tempo determinato siano in servizio in tale qualifica anche alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 141 (06.09.2011).
Questo significa che contratti individuali oggi non più vigenti non possono essere «mantenuti.» Non solo. Anche il dirigente a tempo determinato il cui il contratto, pur se in eccesso alla percentuale massima consentita, abbia tutti le caratteristiche necessarie per essere mantenuto, non può dormire sonni tranquilli.
La norma fissa, infatti, un termine, rappresentato dalla data di emanazione dei decreti di cui all'articolo 19, comma 6-quater del Dlgs 165/2001, e, quindi, si fa riferimento ai provvedimenti con i quali verranno determinate le classi di virtuosità degli enti locali.
In altre parole i contratti a tempo determinato dei dirigenti stipulati in eccesso alla percentuale massima consentita possono essere mantenuti fino alla loro scadenza e, comunque, non oltre l'emanazione dei decreti che fissano le classi di virtuosità (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2011 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - VARIMANOVRA BIS/ Per aprire l'attività arriva la Sia. Niente certificazione, basta una segnalazione d'inizio attività. Il dl 181/2011 introduce un nuovo istituto, che anticipa la riforma costituzionale.
Per aprire un'attività economica basterà una Sia. Ovvero una Segnalazione di inizio attività. Senza bisogno di certificazione.
È quanto stabilito dall'articolo 3, comma 3, del decreto 138/2011 (manovra economica), che fissa il principio della libertà di iniziativa economica privata, salvo specifici limiti e divieti. La norma preannuncia una modifica dell'articolo 41 della Costituzione e nel frattempo si affida agli strumenti della normativa ordinaria e dei provvedimenti amministrativi (a legislazione vigente) per sciogliere i nodi all'imprenditoria.
La tecnica usata dal governo è quella di fissare un termine per l'adeguamento degli ordinamenti regionali e degli enti locali ai principi della liberalizzazione della sburocratizzazione, In questo caso si tratta di un anno. Decorso il termine di un anno l'autonomia delle regioni e degli enti locali cederà il passo alla norma statale. Norma che (salvo imprecisioni terminologiche) introduce un nuovo istituto di liberalizzazione e cioè la Segnalazione di inizio attività (siglabile Sia).
Innanzitutto l'articolo 3 enuncia il principio per cui sono consentire le attività economiche per cui non vi è espresso divieto, in relazioni a superiori interessi. A tale principio comuni, province, regioni e stato devono adeguarsi entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto 138/2011, adeguando i propri ordinamenti.
Al principio secondo cui l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere. Alla scadenza del termine sono in ogni caso soppresse, le disposizioni normative statali incompatibili con il principio della libertà di iniziativa economica con conseguente diretta applicazione, prosegue l'articolo 3, comma 3, degli istituti della «segnalazione di inizio di attività» e dell'autocertificazione con controlli successivi.
La disposizione parla di «segnalazione di inizio di attività». L'istituto sembra richiamare quello di cui all'articolo 19 della legge generale sul procedimento amministrativo (legge 241/1990). Tuttavia l'articolo 19 tratta della «segnalazione certificata di inizio di attività».
La differenza tra i due istituti sta nell'aggettivo «certificata», presente nell'articolo 19 della legge 241/1990 e assente nell'articolo 3, comma 3, del decreto 138/2011.
Per lo meno stando alla lettera di quest'ultima disposizione, siamo di fronte a una semplice segnalazione, non accompagnata da certificazione. Si noti, infatti, che in base al citato articolo 19, la Scia deve essere corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell'atto di notorietà, dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati, o dalle dichiarazioni di conformità da parte dell'Agenzia delle imprese, relative alla sussistenza dei requisiti e dei presupposti di cui al primo periodo; inoltre le attestazioni e asseverazioni sono corredate dagli elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell'amministrazione.
I differenti termini usati dall'articolo 3 del decreto 138/2011 possono preludere a un istituto ancora più snello della Scia, che permetta all'interessato di aprire l'attività senza dover presentare le certificazioni di cui parla l'articolo 19 (si pensi alle asseverazioni, agli elaborati tecnici ecc.).
Certo, se il legislatore d'urgenza ha voluto introdurre un istituto del tutto nuovo, basato sulla mera segnalazione, è necessario che si costruisca l'istituto nel dettaglio. La disposizione in commento si limita a parlare di segnalazione seguita da controlli dell'amministrazione competente. Una formulazione che è troppo generica per definire il procedimento. Se, invece, si tratta di un errore nella formulazione della norma è necessario che venga subito corretto. Vanno evitate incertezze interpretative, come quelle che si sono avute in relazione alla Scia in edilizia, nate perché vi erano disposizioni che parlavano di «dichiarazione» di inizio attività e altre che parlavano di «denuncia» di inizio attività.
La disciplina dell'istituto di liberalizzazione deve essere chiaro e bisogna sapere con certezza se la segnalazione deve essere certificata o meno.
Ciò anche in considerazione del fatto che in materia vi è una pluralità di istituti: Scia, Dia e Superdia. Per la stessa Dia il legislatore ha alternato la «denuncia» alla «dichiarazione» di inizio attività.
Pari certezza è richiesta per l'individuazione nominativa delle leggi statali destinate ad abrogazione per incompatibilità con i principi di liberalizzazione alla scadenza dell'anno.
Un ulteriore difetto di chiarezza è evidenziato nelle schede di letture dell'Ufficio studi del senato, seppure sotto un altro profilo. Nell'articolo 3 in commento, si legge nelle schede di lettura, non si precisa nemmeno quando «debba ricorrere la S(c)ia e quando l'“autocertificazione”».
Quindi vi sarebbe il procedimento di autocertificazione quale alternativa alla Sia (si noti che la lettera «c» è messa tra parentesi). Si ritiene, sul punto, che l'autocertificazione sia una modalità di formulazione della segnalazione e non un istituto a sé stante. Non vi può essere Sia o Scia senza autocertificazione. Si ritiene, quindi, che il decreto non individui due procedimenti alternativi, ma si limiti a descrivere le fasi dell'unico procedimento di Sia (articolo ItaliaOggi del 30.08.2011 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMANOVRA BIS/ Trasferimento dei dipendenti flop. La manovra non cancella il diritto alle indennità oggi dovute. La norma che dà la possibilità alla p.a. di spostare il personale rischia di essere un boomerang.
Il trasferimento dei dipendenti pubblici su richiesta del datore di lavoro, misura prevista dall'articolo 1, comma 29, della manovra di Ferragosto per ottimizzare le esigenze organizzative e produttive delle pubbliche amministrazioni, potrebbe rivelarsi un flop per i risparmi che si intendono far conseguire alle casse erariali. Infatti, la norma non specifica chiaramente che nei casi in cui al dipendente cui viene richiesto di trasferirsi non sono dovute alcune indennità accessorie, quali l'indennità di trasferta o quella di missione che, sino ad oggi, gli spettano.
Sarebbe pertanto auspicabile che le pubbliche amministrazioni adottino preventivamente degli strumenti che permettano loro di verificare l'allocazione del proprio personale sul territorio, con riguardo ai piani della performance, così da poter gestire l'eventuale personale in sovrannumero in relazione ai fabbisogni derivanti dall'esecuzione della mission istituzionale.
È quanto rileva il dossier approntato dai tecnici del senato sul disegno di legge di conversione del dl n. 138/2011, nel sottolineare in particolare le disposizioni contenute al comma 29 dell'articolo 1. Norma, quest'ultima, che contiene, per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2 (restano pertanto, espressamente esclusi i magistrati e il personale cosiddetto «non contrattualizzato»), su richiesta del datore di lavoro, la previsione ad effettuare la prestazione di lavoro in luogo di lavoro e sede diversi sulla base di motivate esigenze, tecniche, organizzative e produttive con riferimento ai piani della performance o ai piani di razionalizzazione, secondo criteri e ambiti regolati dalla contrattazione collettiva di comparto. Nelle more, il trasferimento è consentito nell'ambito del territorio regionale di riferimento, mentre, esclusivamente per il personale del ministero dell'interno, il trasferimento può essere disposto anche al di fuori del territorio regionale di riferimento.
Su questa disposizione, la relazione tecnica di accompagnamento evidenzia che in tal modo si intende consentire «una più razionale allocazione del personale pubblico» ma il documento non espone alcun effetto d'impatto sui saldi tendenziali di finanza pubblica.
Secondo il testo uscito dagli uffici del senato, invece, nella pacifica considerazione che la disposizione è chiaramente volta alla realizzazione di un più efficiente utilizzo degli organici delle amministrazioni rispetto ai relativi fabbisogni di sede, andrebbe confermato che a questa non si accompagni anche il sostenimento di maggiori oneri da parte delle amministrazioni pubbliche stesse, ovvero il pagamento al dipendente trasferito di indennità previste dalla legge, come quella di prima sistemazione (o eventuale trattamento di trasferta). Infatti, mettono nero su bianco i tecnici di Palazzo Madama: se la mobilità del personale rappresenta uno strumento per favorire anche i piani di razionalizzazione appare possibile che ciò possa riflettersi anche in esigenze di adeguamento delle sedi, da cui potrebbe derivare il sostenimento di nuovi oneri.
Il riferimento dei tecnici del senato va alle disposizioni contenute all'articolo 21 della legge n. 836/1973, che prevede a favore del dipendente trasferito un'indennità di prima sistemazione, il cui importo è variabile in relazione alla qualifica posseduta, senza dimenticare che allo stesso spettano i rimborsi per il trasporto di mobili e masserizie nella nuova sede di servizio. Inoltre, anche l'art. 1 della legge 10.03.1987, n. 100 prevede per il personale militare, trasferito d'autorità, la concessione dell'indennità di missione e gli importi accessori (indennità di prima sistemazione e rimborsi spese).
I presupposti per poter fruire del predetto trattamento economico sono, l'adozione di un provvedimento di trasferimento del pubblico dipendente, cioè la modificazione della sede di servizio dove egli espleta le proprie ordinarie mansioni e la natura autoritaria di tale provvedimento, disposto cioè motu proprio dall'Amministrazione (e non su domanda dell'interessato)
Per ovviare a ciò e per andare nel senso voluto dal legislatore, appare necessaria (soprattutto per il Viminale, amministrazione che può da subito trasferire il proprio personale in ambito extra-regionale), acquisire degli elementi idonei a fornire una prima valutazione delle potenzialità della norma, tramite l'evidenziazione della distribuzione del personale sul territorio nazionale per ambiti regionali e per amministrazioni di provenienza.
Informazioni aggiuntive sarebbero utili sugli eventuali surplus di organici esistenti rispetto ai relativi fabbisogni, nonché su qualsiasi elemento che sia in grado di confermare l'utilità delle misure di mobilità del personale in termini di riduzione degli oneri di funzionamento delle strutture (postazioni di lavoro, spazi nelle sedi ecc.) (articolo ItaliaOggi del 30.08.2011 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOCongedi e permessi, si cambia. Più flessibilità per le mamme, agli invalidi la prova delle cure. È entrato in vigore il decreto legislativo 119 che rivoluziona la materia anche per la scuola.
Entrato in vigore l'11 agosto scorso il decreto legislativo 18.07.2011 n. 119 recante modifiche in materia di congedi, aspettative e permessi. Obiettivo: riordinare le tipologie dei permessi, ridefinire i presupposti oggettivi e precisare i requisiti soggettivi, i criteri e le modalità per la fruizione dei congedi, dei permessi e delle aspettative, comunque denominati, nonché di razionalizzare e semplificare i documenti da presentare ai fini della loro fruizione.
Nei nove articoli di cui si compone il decreto diverse sono le modifiche alle norme in vigore in materia di flessibilità del congedo di maternità, del congedo parentale e del congedo per l'assistenza di soggetto portatore di handicap grave e del congedo per cure per gli invalidi.
Altre modifiche sono apportate in materia di aspettativa per dottorato di ricerca, di assistenza a soggetti portatori di handicap e in materia di adozioni e affidamenti.
Flessibilità per la maternità.
L'articolo 2 del decreto dispone che all'articolo 16 del decreto legislativo n. 151/2001, dopo il comma 1 venga aggiunto il comma 1-bis che recita testualmente: "Nel caso di interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza successiva al 180° giorno dall'inizio della gestazione, nonché in caso di decesso del bambino alla nascita o durante il congedo di maternità, le lavoratrici hanno facoltà di riprendere in qualunque momento l'attività lavorativa, con un preavviso di dieci giorno al datore di lavoro, a condizione che il medico specialista del SSN o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla loro salute".
Portatore di handicap grave.
L'articolo 3 sostituisce il comma 1 dell'articolo 33 del decreto legislativo n. 151/2001.
Dispone che, per ogni minore con handicap in situazione di gravità, la lavoratrice madre, o in alternativa, il lavoratore padre hanno diritto, entro l'ottavo anno di vita del bambino, al prolungamento del congedo parentale.
È fruibile in misura continuativa o frazionata, per un periodo massimo, comprensivo dei periodi di astensione facoltativa post partum, non superiore a tre anni, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati, salvo che, in tal caso, sia richiesta dai sanitari la presenza del genitore.
L'articolo 4 apporta modifiche all'articolo 42 del decreto legislativo n. 151/2001 con specifico riferimento al congedo previsto dal comma 2 dell'articolo 4 della legge n. 53/2000 (massimo due anni con diritto a percepire una indennità corrispondente all'ultima retribuzione). Viene precisato che il congedo può essere fruito dal coniuge convivente con soggetto con handicap in situazione di gravità. In sua assenza o indisponibilità il congedo può essere fruito dal padre o la madre anche adottivi, in loro assenza da uno dei figli conviventi e, in assenza di quest'ultimo, da uno dei fratelli o sorelle conviventi e che non può superare la durata complessiva di due anni per ciascuna persona portatrice di handicap e nell'arco della vita lavorativa.
Detto congedo è accordato a condizione che la persona da assistere non sia ricoverata a tempo pieno, salvo che, in tal caso, sia richiesta dai sanitari la presenza del soggetto che presta assistenza. Viene, infine, precisato che tale congedo non rileva ai fini della maturazione delle ferie, della tredicesima mensilità e del trattamento di fine rapporto. Modifiche all'articolo 33 della legge n. 104/1992 sono invece apportate dall'articolo 6 del decreto legislativo in esame.
Al comma 3 del predetto articolo 33 viene aggiunto il seguente periodo: «Il dipendente ha diritto di prestare assistenza nei confronti di più persone in situazione di handicap grave, a condizione che si tratti del coniuge o di un parente o affine entro il primo grado (in precedenza entro il secondo grado), o entro il secondo grado( in precedenza entro il terzo grado) qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti».
Dopo il terzo comma viene aggiunto un comma 3-bis con il quale si dispone che il lavoratore che fruisce dei permessi di cui al comma 3 (tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa) per assistere persona in situazione di handicap grave, residente in comune situato a distanza stradale superiore a 150 chilometri rispetto a quella di residenza del lavoratore, deve attestare con titolo di viaggio, o altra documentazione idonea, il raggiungimento del luogo di residenza dell'assistito.
Cure per gli invalidi.
L'articolo 7 riconosce ai lavoratori mutilati e invalidi civili cui sia stata riconosciuta una riduzione della capacità lavorativa superiore al 50 per cento la possibilità di fruire ogni anno, anche in materia frazionata, di un congedo per cure per un periodo non superiore a trenta giorni, periodo che non rientra in quello di comporto previsto dal contratto scuola( diciotto mesi nell'arco degli ultimi tre anni).
Durante il periodo di congedo il lavoratore ha diritto a percepire il trattamento economico secondo il regime delle assenze per malattia ma dovrà documentare in maniera idonea, anche con attestazione cumulativa, l'avvenuta sottoposizione alle cure.
Adozioni e affidamenti.
L'articolo 8 apporta, infine, modifiche anche all'articolo 45 del più volte citato decreto n. 151/2001 disponendo che viene estesa anche ai genitori adottivi o affidatari con figli minori entro i primi tre anni dall'ingresso del minore in famiglia, la facoltà di essere assegnati ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale uno dei due genitori lavora, indipendentemente dall'età del minore (articolo ItaliaOggi del 30.08.2011).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOParametri incerti per assumere dirigenti a tempo.
LA PREVISIONE - Il plafond del 18% si applica ai Comuni collocati, ma solo dal 2012, nella classe di maggiore virtuosità.

Non trovano pace i dirigenti a contratto degli enti locali. Anche il decreto correttivo della riforma Brunetta, decreto legislativo 141/2011, che doveva mettere definitivamente la parola fine all'annosa questione, in realtà lascia aperti numerosi dubbi e perplessità.
La vicenda prende origine dal decreto legislativo 150/2009, che impone il limite alla nomina dei dirigenti a tempo determinato nella pubblica amministrazione del 10% dei posti in dotazione organica per quelli di prima fascia e nell'8% per la seconda fascia. Norma la cui applicazione agli enti locali non risultava comunque certa.
Dopo pronunce non univoche da parte delle sezioni regionali delle Corte dei Conti, sono intervenute sia la Corte costituzionale, che vede anche gli enti locali fra i destinatari, sia le sezioni riunite della Corte dei Conti, le quali aggiungono, in via interpretativa, che la percentuale massima di dirigente a contratto per gli enti locali è pari all'8% dei posti di qualifica dirigenziale in dotazione organica. Da qui il caos degli enti che, nel frattempo, avevano nominato dirigenti oltre la quota consentita e, quindi, la necessità di un intervento legislativo, derimente la questione.
In primo luogo, il decreto 141/2011, aggiungendo il comma 6-quater all'articolo 19 del decreto 165/2011, stabilisce che la percentuale massima di dirigenti a contratto per gli enti locali, assunti in base all'articolo 110, comma 1, del decreto 267/2000, è pari al 18% dei posti in dotazione organica della medesima qualifica, con arrotondamento del quoziente all'unità superiore se il primo decimale è pari o superiore a cinque, e all'unità inferiore, in caso contrario.
La norma si applica solo gli enti locali collocati nella classe di maggiore virtuosità delle quattro previste dall'articolo 20 del decreto legge 98/2011 e individuate con decreto del ministro dell'Economia. E gli enti che si collocano nelle tre classi di virtuosità inferiori? Due sono le ipotesi: o non possono assumere dirigenti a contratto in quanto non sufficientemente virtuosi, oppure si applica il comma 6 dell'articolo 19 in commento, nella interpretazione delle sezioni riunite della Corte dei Conti e, quindi, con il limite dell'8 per cento.
In ogni caso, la classificazione degli enti nelle quattro classi di virtuosità partirà dal 2012. E nel frattempo? Gli enti locali possono assumere dirigenti a contratto nel limite del 18%? La risposta dovrebbe essere negativa in quanto gli stessi enti non conoscono la classe di virtuosità di appartenenza. Di conseguenza tornano le due ipotesi: o non si possono assumere dirigenti a termine o il limite è rappresentato dall'8 per cento.
Anche a regime, la questione non sarà semplice. Immaginiamo che, nel 2012, un comune sia inserito nella prima classe di virtuosità e, quindi, proceda ad assumere i dirigenti a contratto nella percentuale massima.
Cosa succede se, nell'anno successivo, lo stesso ente viene collocato nella seconda classe di virtuosità? Quale destino sarà riservato ai dirigenti a contratto, nel momento in cui viene a mancare il presupposto per applicare la percentuale del 18%? Ovvero il venir meno della prima classe di virtuosità dell'ente datore di lavoro rappresenta una clausola risolutiva del contratto di lavoro per i dirigenti a termine? (articolo Il Sole 24 Ore del 30.08.2011 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Comuni all'attacco sull'Ici: le strategie per la «difesa». Nelle piccole liti si può stare in giudizio senza legali.
Negli ultimi mesi si è registrata una crescente attenzione dei Comuni nell'accertamento dell'Ici, l'imposta comunale sugli immobili. Gli enti locali possono inviare anche lettere o semplici comunicazioni, ma nella maggior parte dei casi il Comune invia veri e propri avvisi di accertamento, mediante i quali sono contestate le irregolarità ovvero le omissioni commesse, determinando una nuova imposta maggiorata da interessi e sanzioni.
Tra l'altro, l'articolo 12 del Dlgs 546/1992, al comma 5, prevede che quando il valore della lite sia inferiore a 2.582,28 euro, il contribuente possa stare in giudizio direttamente, senza necessità di assistenza tecnica da parte di un professionista abilitato. Per valore della lite si intende l'importo del tributo, al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate e va valutato per ogni singolo atto ricevuto (si vedano i dettagli nelle schede in alto).
I requisiti dell'avviso.
Formalmente l'atto deve contenere, oltre agli estremi del contribuente, la motivazione, identificata nei presupposti di fatto e nelle ragioni giuridiche determinanti la pretesa. Dalla motivazione, infatti, deve evincersi l'immobile al quale l'avviso sia riferito, l'eventuale diversa base imponibile ritenuta corretta dal Comune rispetto a quanto dichiarato dal contribuente, l'aliquota, gli interessi calcolati e le sanzioni applicate, con l'indicazione dei riferimenti normativi.
Sempre in merito alla motivazione, è espressamente previsto che se nella stessa è fatto riferimento a un altro atto non conosciuto o ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato. Quasi in ogni avviso di accertamento Ici è fatto riferimento o rinvio alla delibera comunale relativa all'anno di imposta oggetto di contestazione. Benché non immune da pareri discordi, si segnala che la Corte di cassazione, con la sentenza 20535/2010, ha rilevato, sul punto, che l'amministrazione non è sollevata dall'onere di allegazione o di riproduzione del contenuto essenziale del l'atto a cui si fa espresso riferimento, anche quando si tratti della delibera comunale.
Da quest'ultima è possibile riscontrare l'aliquota applicabile per quell'anno, l'eventuale casistica per l'esenzione eccetera. Ulteriore elemento utile per la valutazione nel merito dell'atto è il regolamento, dal quale sono riscontrabili, in linea di massima, aspetti più tecnici stabiliti dal Comune per la determinazione e l'accertamento dell'imposta.
Nell'avviso di accertamento, poi, così come per ogni atto della pubblica amministrazione vi sono l'indicazione del funzionario responsabile del procedimento, l'indicazione dell'ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni complete in merito, anche per l'eventuale richiesta di riesame in autotutela, e le modalità per impugnarlo, quindi l'organo presso il quale è possibile ricorrere e i relativi termini, oltre alle indicazioni per il pagamento.
Il contenzioso «ripetibile».
Un ulteriore elemento di riflessione sulla possibilità di aprire un contenzioso o meno contro l'atto ricevuto, è la possibilità che quanto contestato sia ripetibile per anni successivi. In altre parole, se il Comune ritenesse errato un comportamento attuato dal contribuente e notificasse avviso di accertamento per un determinato periodo di imposta, è verosimile ritenere che poi sarà notificata la medesima contestazione anche per anni successivi. Il contribuente che definisce (pagando quanto richiesto) la prima annualità ricevuta, si troverà in qualche modo costretto a uniformarsi anche per le successive annualità.
È chiaro dunque, che pur trattandosi di un modesto importo per un singolo periodo d'imposta, se lo stesso comporta risvolti anche per il futuro, è necessaria una valutazione più ampia e complessiva delle decisioni da assumere. (continua ...) (articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZI: Sugli affidamenti in house tetto a 900mila euro annui Servizio idrico integrato spostato tra gli «esclusi». Manovra di Ferragosto. Dopo il referendum abrogativo di giugno.
L'attesa per la riforma dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, all'indomani del referendum abrogativo del 12 e 13 giugno, è rimasta delusa dalla manovra correttiva di Ferragosto.
Il capitolo dei servizi pubblici locali interviene sul tema delle liberalizzazioni riproponendo gran parte delle disposizioni dell'articolo 23-bis del Dl 112/2008 (e del relativo regolamento attuativo) abrogate, dal 20 luglio, con il Dpr 113/2011 di recepimento dei risultati referendari.
Balza all'occhio lo spostamento del servizio idrico integrato nella lista dei settori esclusi, in cui erano già presenti la distribuzione di gas naturale, di energia elettrica, il trasporto ferroviario regionale e le farmacie. Dopo l'ampia portata del referendum, che ha riguardato le forme di gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica in generale e non solo l'acqua (messa al centro della campagna referendaria), ci si attendeva un intervento modificativo incisivo rispetto alla precedente regolamentazione.
Limiti e verifiche.
L'articolo 4 del Dl 138/2011 ora richiede agli enti locali di verificare la realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici economici e privatizzare le attività, compatibilmente con le caratteristiche di universalità e accessibilità del servizio, limitando i servizi da concedere in esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità. Le verifiche devono approdare in una delibera quadro, che deve dimostrare l'istruttoria compiuta ed evidenziare i settori sottratti alla liberalizzazione, il fallimento del sistema concorrenziale e, dall'altro lato, i benefici per lo sviluppo e l'equità della comunità locale derivanti dal mantenimento di un regime di esclusiva del servizio.
La delibera, da approvare entro il 12.08.2012 (e poi periodicamente secondo gli ordinamenti locali e, in ogni caso, prima di procedere al conferimento e al rinnovo della gestione dei servizi), va pubblicizzata e inviata all'Autorità garante della concorrenza e del mercato ai fini della relazione al Parlamento.
Rispetto al quadro precedente, gli affidamenti in house sono ulteriormente ridotti. Questi ultimi, infatti, sono ammessi, in deroga ai principi di gara, solo se il valore economico dell'affidamento non supera i 900mila euro annui e sono consentiti a favore di società a capitale interamente pubblico che rispettino i requisiti comunitari.
Procedure competitive.
Il conferimento dei servizi nei casi di diritti di esclusiva deve avvenire mediante procedure competitive ad evidenza pubblica ( prescritti anche i contenuti del bando o della lettera invito). Sono ammesse società miste con socio privato selezionato tramite gara con doppio requisito (qualità di socio, con una quota non inferiore al 40% e con compiti operativi). Le gare devono rispettare, altresì, il trattato europeo, i principi generali dei contratti pubblici e gli standard definiti dalla legge, dalla autorità di settore o dagli enti affidanti.
Le imprese straniere possono partecipare alle gare nel rispetto del principio di reciprocità. È prevista, inoltre, la partecipazione a queste gare delle società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei divieti eventualmente previsti dalla legge (comma 9).
Tale facoltà, però, è subito contrastata dal comma 33 (si veda anche l'analisi nella parte bassa di questa pagina), in cui sono disciplinati i divieti per le società affidatarie di servizi per via diretta o senza gara (in Italia o altrove): di acquisire la gestione di servizi ulteriori o in ambiti territoriali diversi; di svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, né direttamente, né tramite controllanti o società partecipate, né partecipando a gare.
Il divieto si applica anche alle controllate e alle controllanti e si estende alle patrimoniali e alle miste; mentre sono escluse le quotate e il socio privato di società mista. Unica deroga per le società affidatarie dirette di servizi pubblici è la possibilità di concorrere, su tutto il territorio nazionale, alla prima gara successiva alla cessazione del servizio, avente a oggetto i servizi da esse forniti (articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2011 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI SERVIZI: Blocco verso i soggetti diventati gestori senza gara.
Il divieto imposto alle società affidatarie di servizi in via diretta o senza gara, di acquisire nuovi servizi o espandere territorialmente quelli già gestiti (comma 33, articolo 4 del decreto legge 138/2011) fa infrangere anche un'altra disposizione contenuta nella nuova regolamentazione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica.
Si tratta della norma che detta le condizioni a cui devono sottostare i soggetti gestori dei servizi pubblici locali titolari di diritti di esclusiva, nei casi in cui intendano svolgere attività in mercati diversi da quelli in cui sono titolari di diritti di esclusiva (comma 7). Tramite il richiamo alla legge 287/1990, sulle norme per la tutela della concorrenza e del mercato, sono fissati i due paletti per lo svolgimento dell'attività per il mercato: da un lato, l'obbligo di operare mediante società separate (articolo 8, comma 2-bis della legge 287/1990) e, dall'altro, l'obbligo di rendere accessibili i beni o servizi anche informativi, di cui abbiano la disponibilità esclusiva in dipendenza delle attività svolte, a condizioni equivalenti, alle altre imprese direttamente concorrenti (articolo 8, comma 2-bis della legge 287/1990).
La lettura del comma sembrerebbe consentire alle società che esercitano servizi pubblici locali anche in affidamento diretto (non escluse dal comma) lo svolgimento di attività per il mercato, a condizione che non lo facciano direttamente, ma tramite apposite società separate. Quindi si aprirebbe per le società in house la prospettiva di superare il limite della territorialità.
Ma tutto ciò è ostacolato ed impedito dal divieto (contenuto nel comma 33) per le società che beneficiano di affidamenti diretti, di partecipare alle gare (eccetto alla prima nel settore in cui esercitavano il servizio). Il divieto, che opera per tutta la durata della gestione, si estende, infatti, alle controllanti e alle altre società che siano da esse controllate o partecipate. L'auspicio è che la conversione del decreto legge chiarisca la contraddizione (articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: L'estrazione a sorte non risolve il nodo dei revisori. Norma di difficile attuazione.
L'incarico di revisore dei conti di un Comune sarà come il numero vincente della lotteria: uscirà per estrazione.
La novità arriva con la manovra di Ferragosto (articolo 16, comma 11, del Dl 138/2011), che mette mano ai criteri di nomina dei revisori. Dal primo rinnovo successivo al 13 agosto scorso, i Comuni debbono scegliere i membri del collegio per estrazione da un elenco, nel quale possono chiedere di essere inseriti i professionisti iscritti a livello provinciale nel Registro dei revisori legali, purché siano in possesso –precisa il decreto legge– di specifica preparazione professionale in materia di contabilità pubblica e gestione economica e finanziaria degli enti territoriali. Sono tagliati fuori, rispetto alla disciplina attuale, gli iscritti all'albo unico dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.
La manovra rivede i criteri di scelta dei revisori (senza però intervenire sull'articolo 234 del Dlgs 267/2000), più volte soggetti a critica per mancanza di autonomia dagli organi politici e della necessaria professionalità (il tema è emerso anche il mese scorso durante l'approvazione del decreto premi e sanzioni sul federalismo fiscale). Ma la strada scelta non risolve certo i problemi.
Anzitutto, distinguere la professionalità non vuol certo dire affidarsi al criterio dell'estrazione a sorte. I revisori dovrebbero essere scelti, invece, da un soggetto terzo.
In fase di istituzione del registro dei revisori contabili (confluito successivamente in quello dei revisori legali) sono entrati anche coloro che al tempo avevano svolto un incarico da revisore, quindi la platea è eterogenea ed ampia (i revisori sono oltre 148 mila, più degli iscritti all'albo unico dei professionisti contabili). Il problema, perciò, si sposta sui requisiti per l'accesso all'elenco. A livello universitario i rari corsi dedicati alla contabilità pubblica sono tra i meno seguiti dagli studenti. D'altra parte, se la scelta si basasse sull'esperienza maturata da incarichi di revisore già svolti, si taglierebbero fuori tutti i giovani e si premierebbero coloro che hanno beneficiato di nomine di organi politici.
Alla luce dell'importanza crescente attribuita alla formazione continua, che nella riforma delle professioni diventa obbligatoria ed è elemento di valutazione disciplinare (articolo 3, comma 5, del Dl 138/2011), sarebbe coerente richiedere un certo numero annuo di crediti formativi sulle materie di contabilità pubblica, prevedendo criteri più rigidi per i Comuni più grandi.
Non è chiaro se l'elenco sarà tenuto da un unico soggetto (da individuare) o sarà formato da ogni Comune in occasione della nomina. In quest'ultimo caso, è necessario assicurare idonee forme di pubblicità delle procedure, per consentire a tutti di potersi candidare.
Non si comprende come mai, poi, in una manovra fondata sul principio della liberalizzazione, spunti la restrizione allo svolgimento dell'incarico da revisore su base provinciale. Si dovrebbe invece eliminare ogni limitazione territoriale (o almeno si dovrebbe optare per l'elenco regionale).
Andrebbero inoltre riviste, anche se il legislatore non ne fa cenno, le limitazioni all'affidamento di incarichi, così come andrebbe sottratta alla decisione del consiglio comunale la determinazione del compenso, il quale dovrebbe essere adeguato alla crescente mole di controlli (si veda Il Sole 24 Ore dell'8 novembre scorso). Di pari passo vanno aggiornate le novità introdotte per le Regioni (articolo 14, comma 1, lettera e).
Il rinvio ad un decreto del ministro dell'Interno per la fissazione delle modalità di attuazione, da adottare entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della manovra (cioè entro l'11 novembre), per ora rimanda l'avvio del nuovo regime. L'auspicio è che nella conversione del decreto si ponga rimedio alle lacune di una norma (nella quale il riferimento, per abbracciare i Comuni con revisore unico, dovrebbe essere all'organo di revisione) di difficile attuazione e che appare scritta in fretta.
Ciò mentre sono rimasti al palo sia la riforma della Carta delle Autonomie sia il disegno di legge anticorruzione, con cui era stata data l'"illusione" della revisione della disciplina dei controlli negli enti locali (articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: Cambiano le regole negli uffici pubblici. Dall'obbligo di esercitare le funzioni in forma associata alle ripercussioni della soppressione delle province sugli organici: punti oscuri e chiarimenti.
Pubblica amministrazione sotto i riflettori con la manovra di Ferragosto (Dl 138/2011) in vigore dallo scorso 13 agosto: la soppressione di alcune Province, la nascita delle Unioni municipali per i Comuni sotto i mille abitanti e l'accelerazione sull'obbligo di svolgere le funzioni fondamentali in forma associata per gli enti più piccoli sono alcune delle novità previste dal provvedimento.
Novità che sono destinate ad avere notevoli ripercussioni sul funzionamento della macchina amministrativa, ma anche su diritti, doveri e prospettive del personale dipendente. Toccato tra l'altro da ulteriori disposizioni, come le promozioni dell'ultima ora che non valgono per il calcolo della liquidazione, l'allungamento del periodo di attesa per la riscossione del trattamento di fine servizio (Tfs) o le modifiche al contributo di solidarietà.
Ecco in questa pagina i chiarimenti ai principali interrogativi, con l'indicazione degli eventuali punti da chiarire nell'iter di conversione in legge del decreto. (continua ...) (articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

SICUREZZA LAVORO: Quando il lavoro diventa stressante. I fattori di rischio per i dipendenti vanno monitorati a 360°. La valutazione del fenomeno riguarda tutta l'azienda. Le diverse fasi commentate passo passo.
La valutazione del rischio stress lavoro correlato coinvolge l'azienda nel suo complesso. Infatti, non è solo il datore di lavoro a essere interessato (sebbene lo sia maggiormente di altri, poiché su di lui ricade l'obbligo), ma riguarda il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp), con il coinvolgimento del medico competente, previa consultazione del rappresentante dei lavoratori e dei lavoratori medesimi, ai quali spetta rilevare l'eventuale presenza di indicatori del rischio.
Una volta effettuata, una nuova valutazione del rischio deve essere immediatamente rielaborata in occasione di modifiche del processo produttivo o dell'organizzazione del lavoro che risultino significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori. Per l'Inail, però, la nuova valutazione collegata al fattore stress può ritenersi necessaria trascorsi due/tre anni dall'ultima effettuata.
Lo stress lavoro correlato. La definizione di «stress lavoro correlato» è fornita dall'accordo Ue dell'8 ottobre 2004, ai sensi del quale è la «condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologia o sociale ed è conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alla richieste o aspettativa riposte in loro».
Tuttavia, per la commissione consultiva permanente (indicazioni operative alla valutazione del rischio da stress, diffuse con nota protocollo n. 23692/2010 del ministero del lavoro), non tutte le manifestazioni di stress sul lavoro sono da considerarsi come stress lavoro correlato; quest'ultimo è solo quello causato da vari fattori propri del contesto e del contenuto del lavoro.
Lo stress nella valutazione rischi. La valutazione del rischio stress lavoro è parte integrante dell'obbligo generale della «valutazione rischi» che ricade sul datore di lavoro; pertanto, è da questi che deve essere effettuata avvalendosi dell'ausilio del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp), con il coinvolgimento del medico competente, laddove presente, e previa consultazione del rappresentante dei lavoratori (Rls/Rlst).
È, quindi, necessario preliminarmente seguire il percorso metodologico indicato dalla commissione il quale permette una corretta identificazione dei fattori di rischio da stress lavoro-correlato; in questo modo, dunque, da tale identificazione, discenderanno la pianificazione e la realizzazione di misure di eliminazione o quando essa non sia possibile, riduzione al minimo di tale fattore di rischio.
La valutazione preliminare. A facilitare l'applicazione della procedura della commissione consultiva permanente, l'Inail ha fornito una guida-manuale, al fine di fornire alle aziende un percorso sistematico, tale da permettere al datore di lavoro e alle figure istituzionali coinvolte nelle attività di prevenzione (medico competente, responsabili e rappresentanti dei lavoratori ecc.) di gestire il rischio stress come uno dei tanti rischi che possono essere presenti in azienda, nell'ottica della semplicità ma senza pregiudizio al rigore metodologico. Fermo restando che la valutazione del rischio da stress lavoro-correlato è parte integrante della più generale «valutazione dei rischi», l'Inail suggerisce un percorso metodologico in due fasi: 1) valutazione preliminare e 2) valutazione approfondita.
La valutazione preliminare consiste nella rilevazione, in tutte le aziende, di indicatori di rischio da stress lavoro-correlato oggettivi e verificabili e ove possibile numericamente apprezzabili, che siano appartenenti «almeno» a tre famiglie: 1) eventi sentinella; 2) fattori contenuto del lavoro; 3) fattori contesto del lavoro (si veda tabella).
Relativamente agli strumenti da utilizzare in questa prima fase, il manuale suggerisce il ricorso alle liste di controllo, mentre nelle aziende di maggiori dimensioni ritiene possibile la soluzione di sentire un campione rappresentativo dei lavoratori. Se al termine della valutazione preliminare non risultano rilevati elementi di rischio da stress lavoro-correlato e, quindi, la fase si conclude con un «esito negativo», tale risultato va riportato nel documento finale della valutazione dei rischi (quello generale, il Dvr) con la previsione, comunque, di un piano di monitoraggio. Invece, qualora la fase si concluda con un «esito positivo», qualora cioè emergano elementi di rischio, è necessario passare alla fase successiva che è la valutazione approfondita.
La valutazione approfondita. Nei casi in cui dalla valutazione preliminare emergano elementi di rischi il datore di lavoro è tenuto a procedere immediatamente alla pianificazione e all'adozione degli opportuni interventi correttivi. Ad esempio, potrà trattarsi di interventi organizzativi, tecnici, procedurali, comunicativi, formativi. Se anche tali interventi correttivi dovessero risultare inefficaci, il datore di lavoro dovrà procedere alla successiva fase cosiddetta di valutazione approfondita, già prevista (quanto ai tempi) in sede di pianificazione degli interventi successivi alla valutazione preliminare.
La valutazione approfondita, spiegano le istruzioni della Commissione, deve prevedere la valutazione della percezione soggettiva dei lavoratori. È possibile utilizzare differenti strumenti quali questionari, focus group, interviste semi-strutturate, tutti incentrati sempre sulle tre famiglie di indicatori. Tale fase di indagine deve far riferimento ai gruppi omogenei di lavoratori rispetto ai quali sono state rilevate le problematiche. Nelle aziende di grandi dimensioni può essere realizzata anche tramite un campione rappresentativo di lavoratori (si veda tabella).
La validità della valutazione. Il manuale dell'Inail fa notare che le indicazioni della commissione consultiva non riportano alcun termine di validità della valutazione del rischio, rimandando logicamente alla previsione normativa del Tu sicurezza che, sul punto, stabilisce che la valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata in occasione di modifiche del processo produttivo o dell'organizzazione del lavoro che risultino significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori oppure in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. Alla luce di tali indicazioni secondo l'Inail si può ragionevolmente ritenere corretta una nuova valutazione trascorsi due/tre anni dall'ultima effettuata.
Sanzioni pesanti, fino all'arresto. Il regime sanzionatorio è sufficientemente punitivo: non effettuare la valutazione dei rischi, oppure adottare il documento sulla valutazione dei rischi senza gli elementi essenziali (tra cui quello sullo stress) comporta a carico del datore di lavoro l'applicazione della sanzione dell'arresto da 6 mesi a 1 anno e 6 mesi. A ciò si aggiunge che la redazione del documento di valutazione non rispondente alle prescrizioni di legge è punita con un'ammenda da 3 mila a 9 mila euro.
Ancora, la mancata custodia del documento di valutazione presso l'unità produttiva a cui si riferisce è punita (stavolta la pena è anche a carico del dirigente) con la sanzione amministrativa pecuniaria da 2,5 mila a 10 mila euro. Infine, si ricorda che l'inadempimento della valutazione dei rischi, con relativa produzione del documento finale, a prescindere dalla dimensione aziendale, preclude all'impresa la possibilità di instaurare taluni contratti di lavoro. Per esempio, alle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi è vietato stipulare il contratto di somministrazione di lavoro. Parimenti è stato per il contratto di lavoro intermittente (continua ...) (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2011).

ENTI LOCALI - VARI: Le parole online costano meno. Sfruttare le piattaforme web per telefonare e risparmiare. Grazie a Google, Messagenet e Skype chiamare via internet è sempre più economico.
Risparmiare sulle telefonate grazie a internet. Oltre al programma di telefonia Voip per eccellenza, Skype, che si può scaricare gratuitamente e utilizzare su pc, cellulari, iPhone, smartphone e palmari, è oggi possibile spendere meno anche collegandosi con l'iPhone via iTunes.
Senza dimenticare i nuovi servizi offerti da Google e Messagenet. Le telefonate online infatti mostrano una marcia in più rispetto agli operatori tradizionali non solo per i costi al minuto delle chiamate, decisamente inferiori, ma anche per la mancanza di un oneroso costo fisso: il canone.
Google lancia il Voip in Italia e sfida Skype.
L'ultima novità in fatto di telefonia su internet riguarda l'azienda del motore di ricerca più utilizzato che offre ora la possibilità di effettuare telefonate Voip verso i contatti della propria casella Gmail, tramite l'opzione «chiama telefono». In realtà il servizio esiste già da tempo negli Usa, ma in Italia è sbarcato solo da poco, in versione limitata e permette di chiamare gratis altri utenti Google oppure, a tariffe molto economiche (circa la metà del prezzo applicato da un normale operatore di rete fissa), qualsiasi numero di telefono, senza scatto alla risposta.
A differenza di Skype che, sia per le chiamate verso i fissi che verso i cellulari, addebita un costo aggiuntivo di 4,5 centesimi di euro e in cui le chiamate vengono arrotondate al minuto successivo. Per quanto riguarda il dettaglio delle tariffe, la piattaforma di Microsoft gode di un leggero vantaggio rispetto alla nuova nata di Google sulle chiamate verso i fissi in Italia.
Il prezzo (al minuto) per una chiamata, è, infatti, di circa 2,4 centesimi, mentre quello di Skype è di 2,2 centesimi. Situazione ribaltata, invece, per quanto riguarda le chiamate verso i cellulari italiani. Con l'azienda che ha inventato il Voip, il prezzo medio (al minuto) per una chiamata verso i dispositivi mobili, si aggira attorno ai 28,8 centesimi di euro; attraverso Google, invece, fare una telefonata a un cellulare Vodafone, Wind e Tim costa mediamente 13,2 centesimi al minuto (verso il gestore 3 hanno invece un costo di 16,8 centesimi). Per usufruire del servizio è, infine, necessario munirsi di una ricarica del credito telefonico prima di effettuare le chiamate. L'importo delle ricariche può variare dai 12, ai 30 fino ai 60 euro.
Il nuovo servizio appena lanciato in Italia è ancora in fase di ottimizzazione. Per ora, infatti, è possibile telefonare solo attraverso un computer. Negli Usa invece Google offre la possibilità di chiamare anche attraverso un cellulare, collegato al web, con un proprio numero di telefono. Servizi che presto dovrebbero arrivare anche da noi. Skype d'altro canto può contare su un grande numero di utenti (700 milioni nel mondo). È stata inoltre appena acquisita da Microsoft, che promette di potenziare il servizio Voip inserendolo in prodotti come tivù, console da gioco, cellulari e così via.
Messagenet taglia le tariffe.
Novità in vista anche dall'operatore italiano, utilizzato da circa 390 mila utenti, che permette di disporre di un numero di telefono gratuito con cui si possono effettuare chiamate via computer o cellulare. La compagnia ha anche recentemente annunciato di aver tagliato il prezzo delle telefonate verso i cellulari italiani a 11,88 centesimi di euro al minuto.
Le telefonate tra utenti Messagenet sono inoltre gratuite. Le tariffe non hanno scatto alla risposta, sono senza arrotondamenti al minuto superiore e calcolate al secondo di conversazione. La tariffa verso i numeri fissi italiani è di 2,4 centesimi al minuto, di 1,92 centesimi verso numeri fissi in Europa e di 1,56 centesimi verso Cina e Usa.
Telefonare via internet con l'iPhone.
Un'ulteriore new entry nella già ricca collana di applicazioni sviluppate per l'iPhone è il servizio Time to Call che porta la firma di Vonage, uno dei principali operatori americani di telefonia Voip, e permette di fare telefonate utilizzando la Rete con il dispositivo Apple.
Il servizio permette agli utenti di effettuare chiamate verso più di 190 paesi nel mondo in modalità pay per call, risparmiando, per una comunicazione inferiore ai 15 minuti, fino al 90% rispetto alle tariffe previste dalle principali compagnie di telefonia mobile. L'applicazione, scaricabile gratuitamente direttamente da iTunes, promette dunque sensibili risparmi per le chiamate internazionali verso fissi e cellulari. Time to Call, che nei prossimi mesi verrà rilasciata anche nella versione per terminali Android, ha la peculiarità di non richiedere alcuna sottoscrizione di abbonamenti e di non vincolare in nessun modo l'utente al provider.
Per usufruire del servizio, dopo aver scaricato l'applicazione, basta selezionare il paese che si vuole chiamare, cliccare su acquista e inserire i dati del proprio account. Quindi si può effettuare la chiamata, partendo dalla propria rubrica o digitando direttamente il numero sul terminale. Il costo viene addebitato automaticamente sul conto iTunes senza la necessità di acquistare crediti o abbonamenti o inserire i dati della propria carta di credito.
Per quanto riguarda le tariffe applicate, una chiamata di 15 minuti verso 100 diverse nazioni può costare tra 0,99 e 1,99 dollari (tra 0,79 e 1,59 euro) mentre per telefonare verso altri 90 paesi a tariffe flat servono al massimo 9,99 dollari (7 euro). Le chiamate verso numeri fissi e telefoni cellulari hanno lo stesso costo.
In occasione del lancio, per un periodo di tempo limitato, chi scarica l'applicazione può effettuare una chiamata internazionale gratis, fino a un massimo di 15 minuti, verso uno dei 100 paesi elencati sul sito della compagnia (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2011).

CONDOMINIO: Il condominio ha nuove regole. Dall'uso delle parti comuni ai giardini privati, si cambia. Una guida per conoscere limiti e opportunità della vita condominiale, alla luce degli ultimi interventi.
Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da una serie di interventi giurisprudenziali in materia di parti comuni. Proviamo a vedere quali sono le principali problematiche sul tema e come vengono risolte.
Cambiare la destinazione d'uso delle parti comuni.
Tra le ultime novità in materia di condominio quella relativa alla possibilità di trasformare le parti comuni all'interno di un edificio. Come, ad esempio, destinare una parte del giardino condominiale in un parco giochi per bambini o in un parcheggio. Oppure trasformare l'ex portineria in un asilo nido, in una lavanderia o in un deposito per biciclette. Per poter procedere, però, in questi casi occorre tener conto di limiti e regole ben precisi. Infatti, le decisioni dell'assemblea devono rispettare il decoro architettonico, il regolamento condominiale e il diritto di tutti i proprietari a non essere danneggiati nella possibilità di utilizzare gli spazi comuni.
La sentenza 12.07.2011 n. 15319 della Cassazione si occupa proprio di uno di questi casi e stabilisce che è legittima la trasformazione di una parte del giardino condominiale in parcheggio purché decisa dall'assemblea con una delibera adottata a maggioranza. In generale, quindi, le delibere sulla destinazione d'uso delle parti comuni se intendono apportare una miglioria nel loro utilizzo, possono essere prese dalla maggioranza semplice, cioè degli intervenuti all'assemblea che devono rappresentare almeno 500 millesimi di proprietà.
Ad alcune condizioni, però. La prima che non si alteri il decoro dell'edificio. In secondo luogo, non va impedito l'uso della parte comune anche a un solo condomino. Infine, la modifica non deve essere esplicitamente vietata dal regolamento condominiale dotato di natura contrattuale.
Sulle parti comuni il plafond è limitato.
Un altro aspetto importante è quello messo in luce dall'Agenzia delle entrate, direzione Veneto, nel corso del convegno Anaci svoltosi a Padova il 04.07.2011, secondo cui se un condomino possiede più immobili all'interno dello stesso stabile, il limite massimo di spesa di 48 mila euro per gli interventi sulle parti comuni non va moltiplicato per il numero degli appartamenti. L'amministrazione finanziaria ha anche ribadito che l'importo massimo della spesa detraibile non va riferito solo all'abitazione, ma anche alle sue pertinenze unitariamente considerate.
Si tratta però di un principio che causa una disparità di trattamento tra la ristrutturazione delle pertinenze di abitazioni e gli interventi sulle parti comuni condominiali, considerati come un'agevolazione indipendente dai lavori di rinnovo della casa. In questo caso vi è un autonomo limite di spesa di 48 mila euro e questo beneficio fiscale si aggiunge a quello spettante per il singolo appartamento. Nel convegno è stata confermata questa impostazione.
In una fase successiva, però, i funzionari dell'Agenzia hanno sostenuto che, prendendo ad esempio un unico proprietario di un palazzo di quattro appartamenti, quest'ultimo può detrarre 48 mila euro per ogni appartamento accatastato più 48 mila euro per la manutenzione ordinaria delle parti comuni.
Una risposta che contrasta con la posizione ufficiale dell'Agenzia espressa nella risoluzione 25.01.2008, n. 19/E, secondo cui per i lavori sulle parti comuni dell'edificio è possibile usufruire di un tetto massimo di spesa di 48 mila euro, su cui calcolare la detrazione del 36%, per ogni singola abitazione.
Rumore nel condominio, non esiste un criterio predeterminato.
Un'altra principale fonte di discussione tra i condomini è rappresentata dai rumori prodotti dai vicini o dai loro animali o da impianti comuni. In questi casi, però, gli elementi relativi alle immissioni acustiche devono essere valutati in modo oggettivo e caso per caso. Infatti, anche se un condomino è particolarmente sensibile ai rumori, non può per questo automaticamente pretendere che nel proprio palazzo regni un silenzio assoluto.
Analogo discorso se, lavorando di notte e dormendo di giorno, viene disturbato dai rumori causati dalle faccende domestiche. I riferimenti in questo caso sono l'articolo 844 del Codice civile (Immissioni intollerabili) e gli eventuali regolamenti contrattuali. Infatti è compito di chi lamenta la violazione di queste norme provare la scorrettezza della condotta altrui. Recentemente la Cassazione, con la sentenza 11.02.2011 n. 3440, ha specificato infatti che il limite di tollerabilità non è assoluto, ma dipende dalla situazione ambientale e dalle caratteristiche della zona.
Di conseguenza tale limite è più basso nelle zone dove sono presenti degli insediamenti abitativi, ma è anche vero che la normale tollerabilità non può essere intesa come assenza assoluta di rumore. Quindi il fatto che un rumore venga percepito non significa anche che sia intollerabile.
Gatti liberi di girare, anche nel condominio.
Un'altra notizia recente in materia viene dal tribunale di Milano dove il giudice civile ha riconosciuto ai gatti senza padrone la possibilità di aggirarsi e nutrirsi nelle aree urbane, anche all'interno dei palazzi di proprietà. Un diritto stabilito dalla legge 281 del 1991, mai applicata prima. L'episodio che ha condotto alla storica sentenza riguarda una coppia di inquilini della periferia milanese che ha denunciato una vicina chiedendo esplicitamente la rimozione dal palazzo delle ciotole con cui abitualmente nutriva i gatti, l'allontanamento dei felini dall'abitazione e un risarcimento per danni morali a tutti i condomini.
Il giudice però ha deciso di legittimare l'esistenza di colonie feline, in base alla convinzione che i gatti sono animali socializzanti e che non possono essere definiti randagi, come invece accade per i cani. Un precedente importante, quindi, per tutti coloro che pensavano di essere legittimati a cacciare questi animali da condomini e giardini (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2011).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Dal 13 agosto il Sistri non esiste più. Ecco cosa succede adesso. Le conseguenze della cancellazione.
Dal 13.08.2011 il Sistri non esiste più. Né come sistema obbligatorio né come sistema facoltativo.
Ad eliminarlo è stato l'articolo 6, comma 2, del decreto legge 13.08.2011 n. 138 recante «ulteriori disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo», il provvedimento anticrisi che ha disposto la secca abrogazione delle principali norme sulle quali poggiava l'esordiente sistema di tracciamento telematico dei rifiuti.
Le conseguenze sul sistema.
Dunque, dal prossimo settembre 2011, data a partire dalla quale avrebbe dovuto divenire operativo il Sistri, niente obblighi di comunicazione telematica alla Pubblica amministrazione dei rifiuti gestiti (tramite i noti «dispositivi usb» interfacciati a internet tramite pc), niente tracciamento satellitare dei mezzi di trasporto dei rifiuti (attraverso le famose «black box»), nessun monitoraggio di ingressi e uscite degli stessi dalle discariche.
Le imprese continueranno a soddisfare gli obblighi di tracciamento dei rifiuti gestiti tramite gli ordinari strumenti cartacei, ossia registri di carico e scarico e formulari di trasporto. Lo Stato dovrà però rimborsare agli operatori i «contributi Sistri» versati a titolo di copertura delle spese (in alcuni casi costituiti da ben due annualità), nonché gli oneri economici sopportati per l'installazione obbligatoria delle black box sui mezzi di trasporto dei rifiuti, ma in cambio vedrà restituirsi migliaia di chiavette usb consegnate a titolo di comodato d'uso (non gratuito) ed altrettante scatole nere, unitamente alle telecamere di sorveglianze dei depositi di rifiuti installate dal personale Sistri.
I cittadini più critici, unendosi al grido d'allarme lanciato dal ministro dell'Ambiente contestualmente all'eliminazione del Sistri, potranno parlare di regalo all'ecomafia.
Le norme abrogate.
Tecnicamente il dl 138/2011 (pubblicato sulla G.U. del 13/08/2011, n. 188 e in vigore dallo stesso giorno) ha operato la cancellazione del Sistri attraverso l'abrogazione delle norme chiave recate in materia dal dlgs 152/2006 (cd. «Codice ambientale») e dal collegato dlgs 205/2010 (il decreto di recepimento delle ultime norme Ue sui rifiuti) nonché tramite l'ablazione totale dall'Ordinamento giuridico nazionale dei decreti ministeriali che avrebbero permesso il funzionamento operativo del sistema (impedendone così, oltre all'avvio cogente, anche quello volontario, basato sull'iniziativa di ipotetiche virtuose imprese che avrebbero magari abbracciato in via facoltativa il sistema).
In particolare, l'art. 6, comma 2, del dl «anticrisi» ha abrogato con effetti a partire dal 13/08/2011: il comma 2, lettera a), dell'articolo 188-bis del dlgs 152/2006 (che recepiva nel Codice ambientale l'istituzione del Sistri); l'articolo 188-ter del dlgs 152/2006 (che individuava i soggetti obbligati ad aderire al sistema); l'articolo 260-bis del dlgs 152/2006 (recante le sanzioni per l'inosservanza delle regole Sistri); il dm Ambiente 17/12/2009 (primo provvedimento regolamentare del Sistri); il dm Ambiente 18/2/2011 n. 52 (cd. «Testo unico Sistri»).
L'articolo 6 del dl 138/2011 ricuce infine la ferita dell'intervento effettuato ricordando (nel suo comma 3) che «resta ferma l'applicabilità delle altre norme in materia di gestione dei rifiuti» e che i relativi adempimenti «possono essere effettuati» (leggasi: «Devono» essendo sparite ipotesi alternative) nel rispetto degli obblighi relativi alla tenuta dei registri di carico e scarico nonché del formulario di identificazione del trasporto dei beni a fine vita (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2011 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

VARI: Multa a perdere. Nulla se la notifica non è effettiva. Cassazione: accolto ricorso in caso di cambio indirizzo.
Nulla la notifica della multa effettuata presso l'indirizzo dell'automobilista, indicato nel Pra (Pubblico registro automobilistico), se il trasgressore si è trasferito in una nuova abitazione.
Lo ha sancito la Corte di Cassazione che, con la sentenza 02.09.2011 n. 18049, ha accolto il ricorso di un'automobilista che si era vista notificare sette verbali nel vecchio indirizzo, ancora indicato nella carta di circolazione.
Il caso a Napoli. Una signora aveva ricevuto una serie di cartelle esattoriali per violazioni del codice della strada. In particolare sette di queste erano state notificate presso un indirizzo che risultava al Pra e sulla carta di circolazione: il portiere le aveva trattenute. Contro questi atti la donna ha presentato ricorso al Tribunale del capoluogo campano.
I giudici di merito hanno respinto l'opposizione perché, hanno motivato, «la legge ammette la notifica all'indirizzo ufficiale risultante al Pra, sicché l'articolo 201 del codice della strada non fa che operare una finzione giuridica diretta a rendere valida una notifica avvenuta nel luogo risultante dai registri del Pra anche se il destinatario risulta sloggiato».
Contro questa decisione la donna ha presentato ricorso alla Suprema corte. Con il primo motivo di gravame ha lamentato una falsa applicazione dell'articolo 201 del codice della strada che, secondo la difesa, non legittima una notifica virtuale ma reale.
I giudici hanno accolto questa tesi precisando in sentenza che «la disposizione contenuta nel terzo comma dell'art. 201 del Codice della Strada –a norma del quale «comunque, le notificazioni si intendono validamente eseguite quando siano fatte alla residenza, domicilio o sede del soggetto, risultante dalla carta di circolazione»– non è innovativa rispetto alla disposizione dell'art. 141 dell'abrogato codice della strada, dovendosi anch'essa interpretare nel senso che la validità della notificazione non è fondata sul semplice tentativo della stessa presso uno dei luoghi risultanti dai documenti ivi menzionati, bensì sul necessario espletamento delle formalità previste per l'ipotesi d'irreperibilità del destinatario, sia per quanto riguarda la notificazione ordinaria, sia per quella postale».
Da ciò deriva, ha aggiunto il Collegio di legittimità, che nell'ipotesi di trasferimento del trasgressore «in un luogo non annotato sulla carta di circolazione, la notificazione (sia ordinaria che postale), per essere valida, richiede necessariamente l'espletamento delle formalità previste dall'art. 140 cod. proc. civ. per il caso d'irreperibilità del destinatario».
In poche parole non è sufficiente lasciare il verbale al portiere ma vanno espletate tutte le formalità previste dal codice civile fra cui in ultima analisi l'affissione del verbale nella casa comunale. La Suprema corte ha deciso la causa nel merito e, non essendo sufficienti altri accertamenti di fatto, ha annullato la notifica (articolo ItaliaOggi del 03.09.2011).

COMPETENZE PROGETTUALIGeometri, niente cemento armato. La Cassazione conferma l'orientamento.
Il geometra non ha diritto al compenso per la progettazione di opere in cemento armato. Infatti nella sua competenza professionale rientrano solo le costruzioni che non richiedono particolari operazioni di calcolo.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione che, con la sentenza 02.09.2011 n. 18038, ha confermato la decisione presa dalla Corte d'appello di Trieste che aveva escluso il compenso chiesto da un geometra a un'azienda per la costruzione di un centro commerciale (in cemento armato) e per l'attività di coordinamento di un pool.
L'impresa aveva corrisposto al professionista solo una parte della parcella, quella relativa alla direzione dei lavori. Per questo lui l'aveva citata in giudizio. Ma i giudici di Trieste avevano respinto parte delle istanze presentate dal geometra. Dunque il ricorso in Cassazione, quello principale presentato dalla cliente e nel quale si contesta la misura del compenso liquidato dai giudici. E quello incidentale presentato dal geometra che insiste sul diritto al compenso per tutte le attività di progettazione.
La seconda sezione civile del Palazzaccio li ha respinti entrambi. In particolare, confermando la decisione di merito, il Collegio di legittimità ha ricordato che «l'art. 16 rd 11.02.1929 n. 274 ammette la competenza dei geometri per quanto riguarda le costruzioni in cemento armato solo relativamente a opere con destinazione agricola, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per l'incolumità delle persone, mentre per le costruzioni civili che adottino strutture in cemento armato, sia pure modeste, ogni competenza è riservata, ai sensi dell'art. 1 rd 16.11.1939 n. 2229, agli ingegneri e architetti iscritti nell'albo; con le ulteriori precisazioni che tale disciplina professionale non è stata modificata dalla legge 05.11.1971 n. 1086 e 02.02.1974 n. 64, la quale, sia pure senza un esplicito richiamo delle normative si limita a recepire la previgente ripartizione di competenze e che a rendere legittimo in tale ambito un progetto redatto da un geometra non rileva che esso sia controfirmato o visitato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli del cemento armato e diriga le relative opere, perché è il professionista competente che deve essere altresì titolare della progettazione e assumere le conseguenti responsabilità» (articolo ItaliaOggi del 03.09.2011).

APPALTIIl potere riconoscibile alle p.a. di sospendere, revocare e/o annullare le procedure di gara, soprattutto se ancora nella fase endoprocedimentale dell’aggiudicazione provvisoria, è sempre esercitabile.
Infatti, nei contratti d'appalto l'Amministrazione aggiudicatrice non è obbligata a stipulare il contratto con l'impresa aggiudicataria ed essa ben può rimuovere gli effetti dell'atto di aggiudicazione provvisoria e finanche di quello di aggiudicazione definitiva, purché la conseguente azione amministrativa sia condotta coi necessari crismi della legittimità. Inoltre, l'aggiudicazione provvisoria, anche se individua un potenziale aggiudicatario definitivo della gara, è un atto ancora ad effetti instabili, del tutto interinali, e determina solo la nascita di una mera aspettativa, con la conseguenza che è sempre possibile per l’Amministrazione procedere in autotutela.
In sostanza, è riconosciuto che l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto pubblico, essendo atto endoprocedimentale, determina nell'impresa che l'ha ottenuta, soltanto una mera aspettativa di fatto alla conclusione del procedimento e non già una posizione giuridica qualificata che, viceversa, può solo derivare dall'aggiudicazione definitiva; pertanto, non può ritenersi preclusa alla stazione appaltante la possibilità di procedere alla sua revoca o annullamento allorché la gara stessa non risponda più alle esigenze dell'Ente e sussista un interesse pubblico, concreto ed attuale, all'eliminazione degli atti divenuti inopportuni, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse dell'aggiudicatario provvisorio nei confronti dell'Amministrazione; tale potere, già previsto dalla disciplina di contabilità generale dello Stato che consente il diniego di approvazione per motivi di interesse pubblico (art. 113 R.D. 23.05.1924 n. 827), trova il proprio fondamento nel principio generale dell'autotutela della Pubblica amministrazione, che rappresenta una delle manifestazioni tipiche del potere amministrativo, direttamente connesso ai criteri costituzionali di imparzialità e buon andamento della funzione pubblica.
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L’aggiudicazione provvisoria può ben può essere posta nel nulla purché la relativa decisione sia motivata in misura idonea alla fattispecie.
In sostanza, se l'aggiudicazione provvisoria della gara d'appalto è inidonea a generare nella ditta provvisoriamente vincitrice una posizione consolidata, sull'Amministrazione che intende esercitare il potere di autotutela incombe comunque un onere di motivazione, sia pure fortemente attenuato, circa le ragioni di interesse pubblico che l’hanno determinata, essendo sufficiente che sia reso palese almeno il ragionamento seguito per giungere alla determinazione negativa attraverso l'indicazione degli elementi concreti ed obiettivi in base ai quali essa ritiene di non procedere più all'aggiudicazione definitiva.

Il Collegio ricorda che il potere riconoscibile alle p.a. di sospendere, revocare e/o annullare le procedure di gara, soprattutto se ancora nella fase endoprocedimentale dell’aggiudicazione provvisoria, è sempre esercitabile.
Infatti, nei contratti d'appalto l'Amministrazione aggiudicatrice non è obbligata a stipulare il contratto con l'impresa aggiudicataria ed essa ben può rimuovere gli effetti dell'atto di aggiudicazione provvisoria e finanche di quello di aggiudicazione definitiva, purché la conseguente azione amministrativa sia condotta coi necessari crismi della legittimità (TAR Sicilia, Ct, Sez. I, 25.02.2011, n. 463). Inoltre, l'aggiudicazione provvisoria, anche se individua un potenziale aggiudicatario definitivo della gara, è un atto ancora ad effetti instabili, del tutto interinali, e determina solo la nascita di una mera aspettativa, con la conseguenza che è sempre possibile per l’Amministrazione procedere in autotutela (TAR Calabria, Cz, Sez. I, 16.09.2010, n. 2561; TAR Veneto, Sez. I, 14.09.2010, n. 4745).
In sostanza, è riconosciuto che l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto pubblico, essendo atto endoprocedimentale, determina nell'impresa che l'ha ottenuta, soltanto una mera aspettativa di fatto alla conclusione del procedimento e non già una posizione giuridica qualificata che, viceversa, può solo derivare dall'aggiudicazione definitiva; pertanto, non può ritenersi preclusa alla stazione appaltante la possibilità di procedere alla sua revoca o annullamento allorché la gara stessa non risponda più alle esigenze dell'Ente e sussista un interesse pubblico, concreto ed attuale, all'eliminazione degli atti divenuti inopportuni, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse dell'aggiudicatario provvisorio nei confronti dell'Amministrazione; tale potere, già previsto dalla disciplina di contabilità generale dello Stato che consente il diniego di approvazione per motivi di interesse pubblico (art. 113 R.D. 23.05.1924 n. 827), trova il proprio fondamento nel principio generale dell'autotutela della Pubblica amministrazione, che rappresenta una delle manifestazioni tipiche del potere amministrativo, direttamente connesso ai criteri costituzionali di imparzialità e buon andamento della funzione pubblica (TAR Campania, Na, Sez. VIII, 03.05.2010, n. 2263).
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Ebbene, se è vero, come riportato in precedenza, che è sempre consentito alla stazione appaltante procedere in autotutela durante la fase dell’aggiudicazione provvisoria -così che non è configurabile una posizione consolidata di ogni concorrente (che si ritiene potenzialmente aggiudicatario in luogo di quello provvisorio) al fine di pretendere la conclusione del procedimento secondo i suoi canoni di (corretta) aggiudicazione– è comunque principio giurisprudenziale consolidato quello secondo il quale l’aggiudicazione provvisoria può ben può essere posta nel nulla purché la relativa decisione sia motivata in misura idonea alla fattispecie (TAR Lazio, Sez. II, 30.04.2010, n. 8975).
In sostanza, se l'aggiudicazione provvisoria della gara d'appalto è inidonea a generare nella ditta provvisoriamente vincitrice una posizione consolidata, sull'Amministrazione che intende esercitare il potere di autotutela incombe comunque un onere di motivazione, sia pure fortemente attenuato, circa le ragioni di interesse pubblico che l’hanno determinata, essendo sufficiente che sia reso palese almeno il ragionamento seguito per giungere alla determinazione negativa attraverso l'indicazione degli elementi concreti ed obiettivi in base ai quali essa ritiene di non procedere più all'aggiudicazione definitiva (TAR Lombardia, Bs, Sez. II, 16.02.2011, n. 302, Cons. Stato, Sez. V, 29.12.2009 n. 8966 e Sez. IV, 31.05.2007 n. 2838; TAR Lazio, Sez. II-ter, 09.11.2009 n. 10991).
Nel caso di specie, il Collegio rileva che, pur concordando sul principio di ordine generale che consente alla stazione appaltante di poter dare luogo, nell’applicare la potestà di revocare l’aggiudicazione provvisoria, ad un provvedimento motivato in forma attenuata, si riscontra una carenza assoluta di motivazione da parte della Soprintendenza, che non ha chiarito in alcun modo, né almeno accennato, quali siano le condizioni dell’invito di gara che esigevano una migliore precisazione e per quale ragione solo alla data del 21.09.2010, dopo l’invio alla ricorrente della richiesta documentazione integrativa da parte dell’Amministrazione al fine di procedere all’aggiudicazione definitiva, sia emersa questa esigenza in relazione a motivi di interesse pubblico attuale e concreto.
Sotto tale profilo, quindi, appare fondato, in maniera assorbente rispetto al terzo motivo (per tuziorismo comunque da dichiarare infondato in quanto, come ricordato, l'aggiudicazione provvisoria della gara d'appalto ha natura di atto endoprocedimentale, inserendosi nell'ambito della procedura di scelta del contraente come momento necessario ma non decisivo, atteso che la definitiva individuazione del concorrente cui affidare l'appalto risulta cristallizzata soltanto con l'aggiudicazione definitiva e vantando in tal caso l'aggiudicatario provvisorio solo un'aspettativa alla conclusione del procedimento, per cui non occorre la comunicazione di avvio del procedimento di annullamento d'ufficio (Cons. Stato, Sez. V, 08.03.2011, n. 1446; TAR Campania, Na, Sez. I, 02.11.2010, n. 22122), quanto lamentato dalla ricorrente con i primi due motivi di ricorso in ordine alla carenza di motivazione della determinazione impugnata
(TAR Toscana, Sez. II, sentenza 01.09.2011 n. 1372 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIE' legittimo il giudizio positivo (nel caso di specie di compatibilità ambientale di un'opera pubblica), derivante da una conferenza di servizi, condizionato all'ottemperanza di molteplici prescrizioni e condizioni, in quanto una valutazione condizionata costituisce un giudizio allo stato degli atti integrato dall'indicazione preventiva degli elementi capaci di superare le ragioni del possibile dissenso, in ossequio al principio di economicità dell'azione amministrativa e di collaborazione tra i soggetti del procedimento.
In ordine al valore delle prescrizioni derivanti da conferenza di servizi, il Collegio concorda con la giurisprudenza che ha evidenziato come sia legittimo il giudizio positivo (nel caso di specie di compatibilità ambientale di un'opera pubblica), derivante da una conferenza di servizi, condizionato all'ottemperanza di molteplici prescrizioni e condizioni, in quanto una valutazione condizionata costituisce un giudizio allo stato degli atti integrato dall'indicazione preventiva degli elementi capaci di superare le ragioni del possibile dissenso, in ossequio al principio di economicità dell'azione amministrativa e di collaborazione tra i soggetti del procedimento (TAR Em-Rom, Bo, Sez. I, 30.11.2009, n. 2527; sulla legittimità delle prescrizioni integrative: Tar Campania, Sa, Sez. I, 19.12.2006, n. 2234; TAR Lazio, Sez. I, 31.05.2004, n. 5118 e TAR Molise, 28.08.2003, n. 659) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 01.09.2011 n. 1367 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL’atto di approvazione del PGT acquista efficacia solo dopo che è intervenuta la pubblicazione sul BURL dell’avviso dell’intervenuta approvazione, sicché la procedura di approvazione del PGT stesso trova compimento (solo) al momento in cui tale pubblicazione avviene, tanto è vero che la norma si premura di specificare espressamente che “nel periodo intercorrente tra l'adozione e la pubblicazione dell'avviso di approvazione degli atti di PGT si applicano le misure di salvaguardia”.
Tale prescrizione induce a ritenere che l’espressione “Gli atti di PGT acquistano efficacia” abbia effetto sostanziale e non meramente processuale (come individuazione del giorno da cui decorrono i termini di impugnazione.
Se così è, occorre pervenire alla conclusione che la procedura di approvazione del PGT di ... non si era ancora conclusa, sicché legittimamente il nuovo Consiglio ha ritenuto di ripronunciarsi al riguardo senza necessità di far luogo alla procedura di variante che presuppone l’avvenuto perfezionamento del piano antecedente, in quanto solo in tal caso sarebbe corretta la prospettazione di parte ricorrente.

Invero, occorre rilevare che sul tema la Sezione si era già espressa -con riguardo alla disciplina dettata dalla L. n. 1150 del 1942- già con la sentenza 02.10.1991 n. 662, con la quale era stato affermato che la delibera di adozione del piano regolatore generale o di una sua variante può essere revocata dal Comune fin quando il procedimento non si sia concluso con l'approvazione regionale (in detta sentenza è stato posto in luce che la revoca “costituisce espressione dello jus poenitendi, che è riconosciuto all’Ente pubblico, indipendentemente da un’espressa previsione legislativa al riguardo, perché si tratta della manifestazione dello stesso potere già esercitato nell’emanazione dell’atto da revocare”, soggiungendosi che “il potere di ritiro si fonda proprio sulla necessità che l’amministrazione (discrezionale) attiva sia costantemente rispondente all’interesse pubblico e possa, in qualsiasi momento, adeguarsi al mutare di questo” e precisandosi che il limite al potere di revoca da parte dell’Amministrazione comunale deve essere individuato –in relazione alla natura di atto complesso proprio della procedura di formazione del PRG- nel momento dell’avvenuta approvazione regionale dello strumento urbanistico).
Più recentemente, la Sezione -con le sentenze 24.03.2006 n. 348 e 27.11.2006 n. 1525– ha preso in esame la più specifica questione riguardante la possibilità, per un’amministrazione comunale neo-eletta, di revocare la deliberazione di approvazione definitiva del nuovo strumento urbanistico adottata dall’amministrazione uscente, risolvendola in senso positivo. In dette pronunce è stato posto in luce che una volta eliminato con la revoca l’ultimo atto dell’iter procedimentale appena concluso (l’approvazione) si riporta la procedura allo stadio immediatamente antecedente l’approvazione definitiva.
Il Collegio ritiene che tale indirizzo interpretativo debba trovare conferma anche in relazione alla nuova disciplina regionale dettata con la L.R. n. 12 del 2005, con la quale la Lombardia si è data una nuova disciplina urbanistica -basata sui principi ispiratori (cfr. art. 1, 2 c.) di sussidiarietà, adeguatezza, differenziazione, sostenibilità, partecipazione, collaborazione ed efficienza– la quale all’art. 2, c. 1, precisa che “il governo del territorio si attua mediante una pluralità di piani, fra loro coordinati e differenziati, i quali, nel loro insieme, costituiscono la pianificazione del territorio stesso”.
In particolare, l’art. 13 della L.R. n. 12/2005 prevede che gli atti costituenti il PGT siano adottati ed approvati dal consiglio comunale, sicché è stata concentrata nell’amministrazione comunale tutta la procedura di approvazione del PGT eliminando del tutto l’intervento regionale e limitando a marginali profili la partecipazione provinciale.
Ai fini della soluzione della questione all’esame, risultano decisive le disposizioni contenute nei commi 9/12 dell’art. 13 cit., che è utile riportare integralmente:
<<9. La deliberazione del consiglio comunale di controdeduzione alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali o regionali di cui ai commi precedenti non è soggetta a nuova pubblicazione.
10. Gli atti di PGT, definitivamente approvati, sono depositati presso la segreteria comunale ed inviati per conoscenza alla provincia ed alla Giunta regionale.
11. Gli atti di PGT acquistano efficacia con la pubblicazione dell'avviso della loro approvazione definitiva sul Bollettino Ufficiale della Regione, da effettuarsi a cura del comune. Ai fini della realizzazione del SIT di cui all'articolo 3, la pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione è subordinata all'invio alla Regione ed alla provincia degli atti del PGT in forma digitale (49).
Nel periodo intercorrente tra l'adozione e la pubblicazione dell'avviso di approvazione degli atti di PGT si applicano le misure di salvaguardia in relazione a interventi, oggetto di domanda di permesso di costruire, ovvero di denuncia di inizio attività, che risultino in contrasto con le previsioni degli atti medesimi.
>>.
Dalla lettura coordinata delle suddette disposizioni, emerge che l’atto di approvazione acquista efficacia solo dopo che è intervenuta la pubblicazione sul BURL dell’avviso dell’intervenuta approvazione, sicché la procedura di approvazione del PGT trova compimento (solo) al momento in cui tale pubblicazione avviene, tanto è vero che la norma si premura di specificare espressamente che “nel periodo intercorrente tra l'adozione e la pubblicazione dell'avviso di approvazione degli atti di PGT si applicano le misure di salvaguardia”.
Tale prescrizione induce a ritenere che l’espressione “Gli atti di PGT acquistano efficacia” abbia effetto sostanziale e non meramente processuale (come individuazione del giorno da cui decorrono i termini di impugnazione.
Se così è, occorre pervenire alla conclusione che la procedura di approvazione del PGT di Valbrembo non si era ancora conclusa, sicché legittimamente il nuovo Consiglio ha ritenuto di ripronunciarsi al riguardo senza necessità di far luogo alla procedura di variante che presuppone l’avvenuto perfezionamento del piano antecedente, in quanto solo in tal caso sarebbe corretta la prospettazione di parte ricorrente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 30.08.2011 n. 1278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte effettuate in sede di strumento urbanistico costituiscono espressione di ampi poteri discrezionali che, come tali, sono insindacabili se non per errori di fatto, irrazionalità, abnormità o altri profili di eccesso di potere e che, in ragione di tale discrezionalità, l'Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione delle scelte operate se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l'impostazione dello strumento urbanistico né una precedente destinazione di un'area comporta che siano definitive ed immodificabili le relative posizioni, spettando per legge alle autorità urbanistiche il potere di mutare le relative previsioni.
Le scelte amministrative sottese all'esercizio del potere di pianificazione, devono "obbedire solo al superiore criterio di razionalità nella definizione delle linee dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico alla sicurezza delle persone e dell'ambiente, e non anche ai criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei vincoli, con la conseguenza che in relazione ad essa non può prospettarsi una disparità di trattamento".

In via generale, va ricordato che le scelte effettuate in sede di strumento urbanistico costituiscono espressione di ampi poteri discrezionali che, come tali, sono insindacabili se non per errori di fatto, irrazionalità, abnormità o altri profili di eccesso di potere e che, in ragione di tale discrezionalità, l'Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione delle scelte operate se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l'impostazione dello strumento urbanistico né una precedente destinazione di un'area comporta che siano definitive ed immodificabili le relative posizioni, spettando per legge alle autorità urbanistiche il potere di mutare le relative previsioni (cfr. ex multis Cons. St., Sez. IV, 24.02.2011 n. 1222).
Quanto all’asserita disparità di trattamento nella zonizzazione, va richiamato l'orientamento della giurisprudenza secondo cui le scelte amministrative sottese all'esercizio del potere di pianificazione, devono "obbedire solo al superiore criterio di razionalità nella definizione delle linee dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico alla sicurezza delle persone e dell'ambiente, e non anche ai criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei vincoli, con la conseguenza che in relazione ad essa non può prospettarsi una disparità di trattamento" (cfr. Cons. St., Sez. IV, 07.08.2008 n. 3358) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 30.08.2011 n. 1277 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAL'art. 9, primo comma, della L. 26.10.1995 n. 447 non può essere riduttivamente intesa come una mera (e, quindi, pleonastica) riproduzione, nell'ambito della normativa di settore in tema di tutela dall'inquinamento acustico, del generale potere di ordinanza contingibile ed urgente tradizionalmente riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico al Sindaco (quale Ufficiale di Governo) in materia di sanità ed igiene pubblica, ma che invece la stessa deve essere logicamente e sistematicamente interpretata nel particolare significato che assume all'interno di una normativa dettata -in attuazione del principio di tutela della salute dei cittadini previsto dall'art. 32 della Costituzione- allo scopo primario di realizzare un efficace contrasto al fenomeno dell'inquinamento acustico, tenendo nel dovuto conto il fatto che la Legge n. 447/1995 (nell'art. 2, primo comma, lettera "a") ha ridefinito il concetto di inquinamento acustico, qualificandolo come "l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane", sancendo espressamente che esso concreta (in ogni caso) "un pericolo per la salute umana".
Conseguentemente, l'utilizzo del particolare potere di ordinanza contingibile ed urgente delineato dall'art. 9 della Legge 26.10.1995 n. 447 deve ritenersi ("normalmente") consentito allorquando gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle competenti Agenzie Regionali di Protezione Ambientale rivelino la presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, tenuto conto sia che quest'ultimo -ontologicamente (per esplicita previsione dell'art. 2 della stessa L. n° 447/1995)- rappresenta una minaccia per la salute pubblica, sia che la Legge quadro sull'inquinamento acustico non configura alcun potere di intervento amministrativo "ordinario" che consenta di ottenere il risultato dell'immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti.
In siffatto contesto normativo, l'accertata presenza di un fenomeno di inquinamento acustico (pur se non coinvolgente l'intera collettività) appare sufficiente a concretare l'eccezionale ed urgente necessità di intervenire a tutela della salute pubblica con l'efficace strumento previsto (soltanto) dall'art. 9 primo comma della citata Legge n. 447/1995.
La tutela della salute pubblica non presuppone necessariamente che la situazione di pericolo involga l'intera collettività ben potendo richiedersi tutela alla P.A. anche ove sia in discussione la salute di una singola famiglia (o anche di una sola persona).
Non può essere certamente reputato ordinario strumento di intervento (sul piano amministrativo) la facoltà riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità.
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La stessa ratio della disciplina sulla partecipazione al procedimento (anche quello di irrigazione delle sanzioni amministrative di cui alla l. n. 689/1981), non esclude affatto che l'avvio del procedimento possa essere preceduto o supportato da controlli, accertamenti, ispezioni svolti senza la partecipazione del diretto interessato, che sarà edotto di queste attività con una successiva comunicazione e sarà, pertanto, messo nella condizione di intervenire nella procedura e di verificare e, se del caso, contestare la veridicità o esattezza degli accertamenti compiuti e la stessa idoneità degli strumenti tecnici utilizzati.
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Il rumore ambientale è costituito da tutte le sorgenti di rumore esistenti in un dato luogo e durante un determinato tempo. Il rumore ambientale è costituito dall’insieme del rumore residuo, per tale intendendosi il rumore rilevato quando si esclude la specifica sorgente disturbante, e da quello che prodotto dalla specifica sorgente disturbante.
A tal riguardo occorre precisare che il valore limite differenziale è quel valore dato dalla differenza tra il livello equivalente di rumore ambientale e il rumore residuo. Tenendo presente la definizione di rumore residuo che è il rumore che residua una volta eliminata la sorgente disturbante il valore differenziale esprime lo specifico grado di inquinamento acustico della specifica fonte disturbante.
In altre parole il valore differenziale esprime il contributo che una specifica fonte dà al livello di inquinamento generale.

In Lombardia, la L.R. 10.08.2001 n. 13 -Norme in materia di inquinamento acustico- all’art. 15 (Controlli e poteri sostitutivi) prevede che “Le attività di vigilanza e controllo in materia di inquinamento acustico sono svolte dai comuni e dalle province nell'ambito delle competenze individuate dalla legislazione statale e regionale vigente, avvalendosi del supporto dell'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente ai sensi della legge regionale 14.08.1999, n. 16 (Istituzione dell'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente - ARPA).” (c. 1).
Il c. 2 del cit. art. 15 specifica che: “Per le attività di vigilanza e controllo di cui al comma 1, il comune o la provincia effettuano precise e dettagliate richieste all'ARPA privilegiando le segnalazioni, gli esposti, le lamentele presentate dai cittadini residenti in ambienti abitativi o esterni prossimi alla sorgente di inquinamento acustico per la quale sono effettuati i controlli. Gli oneri per le attività di vigilanza e controllo effettuate ai sensi del presente comma sono a carico dell'ARPA, così come stabilito dall'art. 26, comma 5, della L.R. n. 16/1999".
Più in generale, l'art. 9, primo comma, della L. 26.10.1995 n. 447 –legge quadro sull'inquinamento acustico- dispone: “Qualora sia richiesto da eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell'ambiente il sindaco, il presidente della provincia, il presidente della giunta regionale, il prefetto, il Ministro dell'ambiente, secondo quanto previsto dall'articolo 8 della L. 03.03.1987, n. 59, e il Presidente del Consiglio dei ministri, nell'ambito delle rispettive competenze, con provvedimento motivato, possono ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l'inibitoria parziale o totale di determinate attività. Nel caso di servizi pubblici essenziali, tale facoltà è riservata esclusivamente al Presidente del Consiglio dei ministri”.
Un consistente indirizzo giurisprudenziale (cfr. TAR Lecce, Sez. I, 11.01.2006, n. 488, TAR Milano, Sez. IV, 27.12.2007 n. 6819, TAR Brescia, Sez. II, 02.11.2009 n. 1814), al quale il Collegio aderisce, ha evidenziato che:
- la norma non può essere riduttivamente intesa come una mera (e, quindi, pleonastica) riproduzione, nell'ambito della normativa di settore in tema di tutela dall'inquinamento acustico, del generale potere di ordinanza contingibile ed urgente tradizionalmente riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico al Sindaco (quale Ufficiale di Governo) in materia di sanità ed igiene pubblica, ma che invece la stessa deve essere logicamente e sistematicamente interpretata nel particolare significato che assume all'interno di una normativa dettata -in attuazione del principio di tutela della salute dei cittadini previsto dall'art. 32 della Costituzione- allo scopo primario di realizzare un efficace contrasto al fenomeno dell'inquinamento acustico, tenendo nel dovuto conto il fatto che la Legge n. 447/1995 (nell'art. 2, primo comma, lettera "a") ha ridefinito il concetto di inquinamento acustico, qualificandolo come "l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane", sancendo espressamente che esso concreta (in ogni caso) "un pericolo per la salute umana";
- conseguentemente, l'utilizzo del particolare potere di ordinanza contingibile ed urgente delineato dall'art. 9 della Legge 26.10.1995 n. 447 deve ritenersi ("normalmente") consentito allorquando gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle competenti Agenzie Regionali di Protezione Ambientale rivelino la presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, tenuto conto sia che quest'ultimo -ontologicamente (per esplicita previsione dell'art. 2 della stessa L. n° 447/1995)- rappresenta una minaccia per la salute pubblica, sia che la Legge quadro sull'inquinamento acustico non configura alcun potere di intervento amministrativo "ordinario" che consenta di ottenere il risultato dell'immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti;
- in siffatto contesto normativo, l'accertata presenza di un fenomeno di inquinamento acustico (pur se non coinvolgente l'intera collettività) appare sufficiente a concretare l'eccezionale ed urgente necessità di intervenire a tutela della salute pubblica con l'efficace strumento previsto (soltanto) dall'art. 9 primo comma della citata Legge n. 447/1995;
- la tutela della salute pubblica non presuppone necessariamente che la situazione di pericolo involga l'intera collettività ben potendo richiedersi tutela alla P.A. anche ove sia in discussione la salute di una singola famiglia (o anche di una sola persona);
- non può essere certamente reputato ordinario strumento di intervento (sul piano amministrativo) la facoltà riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità (cfr. TAR Lecce, 11.01.2006, n. 488).
Così inquadrata la valenza e latitudine della disposizione, va respinto il primo profilo del primo motivo, così come il secondo motivo, con il quale si sostiene erroneamente che sarebbero impartite direttive vincolanti all’imprenditore, dato che l’ordinanza non fa che imporre il rispetto di un limite di rumore violato lasciando al responsabile la concreta individuazione delle misure da adottarsi.
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Parimenti infondato risulta il secondo profilo del primo motivo (l’esecuzione del rilievo fonometrico da parte dell’ARPA in assenza di contraddittorio), poiché la tipologia di accertamenti di cui trattasi presuppone necessariamente il fatto che essi siano eseguiti almeno una volta senza preavviso al fine di monitorare le normali condizioni di funzionamento ed emissione (che potrebbero essere alterate laddove l'interessato fosse preventivamente avvisato) (cfr. TRGA Trento 27.06.2005 n. 174).
Va soggiunto che (cfr. doc. n. 6 sia della ricorrente sia del Comune) in data 20.03.2099 è stata emessa dall’Amministrazione comunicazione di avvio del procedimento amministrativo “per indagini fonometriche relative al rispetto dei limiti fissati dalla normativa vigente” indirizzata alla odierna ricorrente.
Peraltro, la stessa ratio della disciplina sulla partecipazione al procedimento (anche quello di irrigazione delle sanzioni amministrative di cui alla l. n. 689/1981), non esclude affatto che l'avvio del procedimento possa essere preceduto o supportato da controlli, accertamenti, ispezioni svolti senza la partecipazione del diretto interessato, che sarà edotto di queste attività con una successiva comunicazione e sarà, pertanto, messo nella condizione di intervenire nella procedura e di verificare e, se del caso, contestare la veridicità o esattezza degli accertamenti compiuti e la stessa idoneità degli strumenti tecnici utilizzati (cfr. Cons. St., Sez. V, 05.03.2003, n. 1224, TAR Puglia, Bari Sez. I 26.09.2003 n. 3591).
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Il D.P.C.M. 14.11.1997 che reca “valori limite assoluti di immissione” all’art. 3 stabilisce: “1. I valori limite assoluti di immissione come definiti all'art. 2, comma 3, lettera a), della legge 26.10.1995, n. 447, riferiti al rumore immesso nell'ambiente esterno dall'insieme di tutte le sorgenti sono quelli indicati nella tabella C allegata al presente decreto.
2. Per le infrastrutture stradali, ferroviarie, marittime, aeroportuali e le altre sorgenti sonore di cui all'art. 11, comma 1, legge 26.10.1995, n. 447, i limiti di cui alla tabella C allegata al presente decreto, non si applicano all'interno delle rispettive fasce di pertinenza, individuate dai relativi decreti attuativi. All'esterno di tali fasce, dette sorgenti concorrono al raggiungimento dei limiti assoluti di immissione.
3. All'interno delle fasce di pertinenza, le singole sorgenti sonore diverse da quelle indicate al precedente comma 2, devono rispettare i limiti di cui alla tabella B allegata al presente decreto. Le sorgenti sonore diverse da quelle di cui al precedente comma 2, devono rispettare, nel loro insieme, i limiti di cui alla tabella C allegata al presente decreto, secondo la classificazione che a quella fascia viene assegnata.

Il successivo art. 4 -rubricato valori limite differenziali di immissione- stabilisce: “1. I valori limite differenziali di immissione, definiti all'art. 2, comma 3, lettera b), della legge 26.10.1995, n. 447, sono: 5 dB per il periodo diurno e 3 dB per il periodo notturno, all'interno degli ambienti abitativi. Tali valori non si applicano nelle aree classificate nella classe VI della tabella A allegata al presente decreto.
2. Le disposizioni di cui al comma precedente non si applicano nei seguenti casi, in quanto ogni effetto del rumore è da ritenersi trascurabile: a) se il rumore misurato a finestre aperte sia inferiore a 50 dB(A) durante il periodo diurno e 40 dB(A) durante il periodo notturno; b) se il livello del rumore ambientale misurato a finestre chiuse sia inferiore a 35 dB(A) durante il periodo diurno e 25 dB(A) durante il periodo notturno.
3. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano alla rumorosità prodotta: dalle infrastrutture stradali, ferroviarie, aeroportuali e marittime; da attività e comportamenti non connessi con esigenze produttive, commerciali e professionali; da servizi e impianti fissi dell'edificio adibiti ad uso comune, limitatamente al disturbo provocato all'interno dello stesso.
”.
Va chiarito che il rumore ambientale è costituito da tutte le sorgenti di rumore esistenti in un dato luogo e durante un determinato tempo. Il rumore ambientale è costituito dall’insieme del rumore residuo, per tale intendendosi il rumore rilevato quando si esclude la specifica sorgente disturbante, e da quello che prodotto dalla specifica sorgente disturbante.
A tal riguardo occorre precisare che il valore limite differenziale è quel valore dato dalla differenza tra il livello equivalente di rumore ambientale e il rumore residuo. Tenendo presente la definizione di rumore residuo che è il rumore che residua una volta eliminata la sorgente disturbante il valore differenziale esprime lo specifico grado di inquinamento acustico della specifica fonte disturbante.
In altre parole il valore differenziale esprime il contributo che una specifica fonte dà al livello di inquinamento generale.
I valori limite sono di 5 db per il periodo diurno e di 3 db per il periodo notturno (art. 4 D.P.C.M. 14.11.1997).
Tali valori differenziali non si applicano quando comunque il rumore ambientale è al di sotto di determinati valori e precisamente 50 db(A) per il periodo diurno e 40 db (A) per il periodo notturno misurati a finestre aperte e 35 db(A) per il periodo diurno e 25 db (A) per il periodo notturno misurati a finestre chiuse.
Si tratta ovviamente di limiti da applicarsi disgiuntamente nel senso che anche il superamento di uno solo di essi consente l’applicazione del valore differenziale. Ciò è fatto palese dalla circostanza che il rumore viene definito in tali casi trascurabile.
Orbene è evidente che, essendo il rumore sempre lo stesso, per ritenersi trascurabile non deve superare i parametri di cui sopra per cui il superamento anche di uno solo di essi implica l’applicazione dei valori limite differenziali (cfr. TAR Liguria, Sez. I, 15.03.2010, n. 1166)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 30.08.2011 n. 1276 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALegittima risulta l’archiviazione della domanda edilizia (per la costruzione di 3 edifici residenziali) non essendo stata corredata dal progetto relativo agli impianti elettrici, come richiesto dall’art. 6 della legge 46/1990.
L’art. 6 della legge n. 46/1990 ritiene obbligatoria la redazione del progetto ed il suo deposito contestualmente al progetto edificatorio; il testo della norma si riferisce quindi del tutto chiaramente alla fase istruttoria della licenza edilizia ed appare evidentemente finalizzato a garantire un controllo (come peraltro la stessa concessione) sulla sicurezza “ab origine” dell’edificio, con particolare riferimento ad una esigenza di rispetto dei parametri di legalità che disciplinano le costruzioni residenziali.

Col primo mezzo il Comune appellante lamenta in sostanza che il TAR abbia del tutto trascurato l’art. 6, comma 1, della legge n. 46/1990 affermando quindi illegittimamente che il progetto “de quo” deve essere allegato alla domanda successivamente al rilascio della concessione. Al contrario la tesi accolta dal TAR è che in base all’art. 4 del D.P.R. 425/1994, la verifica del progetto degli impianti elettrici si attua in una fase successiva al rilascio.
La tesi svolta dal primo giudice non può essere accolta. Essa in effetti accoglie la tesi della necessità del progetto degli impianti elettrici solo dopo il rilascio della concessione edilizia, con ciò facendo (peraltro immotivatamente) prevalere l’art. 4 D.P.R. 425/1994 rispetto all’art. 6 legge n. 46/1990.
Ma ciò non può condividersi poiché in realtà le due norme hanno finalità parzialmente diverse, si inseriscono in momenti procedimentali differenti, e pertanto non possono essere affatto considerate in contraddizione tra loro.
L’art. 6 della legge n. 46/1990 ritiene obbligatoria la redazione del progetto ed il suo deposito contestualmente al progetto edificatorio; il testo della norma si riferisce quindi del tutto chiaramente alla fase istruttoria della licenza edilizia ed appare evidentemente finalizzato a garantire un controllo (come peraltro la stessa concessione) sulla sicurezza “ab origine” dell’edificio, con particolare riferimento ad una esigenza di rispetto dei parametri di legalità che disciplinano le costruzioni residenziali.
Ciò considerato, l’art. 4 D.P.R. 425/1994 è invece espressamente riferito alla fase del rilascio dell’abitabilità (scansione notoriamente successiva alla realizzazione dell’edificio) e pur essendo anch’esso inspirata da evidenti ragioni di potenziamento della sicurezza, opera tuttavia nelle fattispecie concrete nei quali, illegittimamente, la concessione edilizia sia stata parimenti (ed illegittimamente) rilasciata in assenza del progetto inerente l’impianto elettrico, quindi senza un obbligo della sua realizzazione, e mira ad impedire di fatto un uso dell’immobile realizzato, che, in particolare se residenziale, si realizzerebbe in forma che indiscutibilmente pericolosa.
La norma, nell’impedire il rilascio dell’abitabilità per carenza del progetto in parola, lungi dal permettere all’istante di ottenere una concessione edilizia residenziale in deroga all’art. 6 della legge n. 46/1990, tende all’opposto a sollecitare la c.d. “messa a norma” dell’edificio realizzato senza l’impianto e concorre insieme all’altra all’opportuno obiettivo ordinamentale di realizzare un sviluppo dell’attività edilizia secondo canoni di sicurezza.
Legittima risulta pertanto l’archiviazione della domanda edilizia (e ciò del tutto indipendentemente dalla portata dell’art. 7 del regolamento comunale), non essendo stata corredata dal progetto relativo agli impianti elettrici, come richiesto dall’art. 6 della legge suddetta e dal Comune appellante; tali adempimenti, infine, sono quindi ben lungi dal costituire un effetto dilatorio dei tempi di evasione della domanda concessoria, ravvisabile solo ove le richieste amministrative risultino extra-legem o ripetitive o comunque costituiscano un inutile aggravio del procedimento amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.08.2011 n. 4835 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIE' illegittimo il diniego della richiesta avanzata da un consigliere comunale di minoranza circa il rilascio del documento “prot. 7262 del 09.08.2010 Corte dei Conti: Trasmissione relazione questionario bilancio di previsione 2010” e cioè di un questionario compilato dall’organo di revisione ed inviato alla Corte dei Conti ai sensi dell’art. 1, commi 166 e 167, della legge n. 266/2005, con la funzione di delineare la situazione economico-finanziaria dell’Ente.
L’appellante riprende il tema centrale dell’accessibilità della relazione-questionario del revisore dei conti da parte del Consigliere comunale.
La logica ispiratrice della pronuncia del primo Giudice è al riguardo quanto mai lineare: il revisore è un organo comunale; l’atto in discorso è riconducibile al medesimo nella sua specifica qualità; lo stesso atto è fonte di informazioni utili per la richiedente.
Per ragioni di semplicità espositiva conviene riportare qui di seguito i passaggi argomentativi su cui la sentenza in epigrafe si fonda:
…la più recente e consolidata giurisprudenza ha chiarito che i consiglieri comunali godono di un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del loro mandato; ciò al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Il diritto di accesso loro riconosciuto ha infatti una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267) ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241): è strettamente funzionale all'esercizio del mandato, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell'ente locale ai fini della tutela degli interessi pubblici ed è peculiare espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività (cfr. da ultimo C.d.S., Sez. V, 17.09.2010, n. 6963; in termini C.d.S., Sez. I, 26.05.2010, n. 1858; Sez. V, 22.02.2007, n. 929 e 02.09.2005, n. 4471).
Si ritiene inoltre che non sia soggetto ad alcun onere motivazionale giacché diversamente opinando sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; che il termine "utili", contenuto nell' articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 garantisca l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato (cfr. C.d.S. n. 6963/2010 cit.) senza che alcuna limitazione possa derivare dall’eventuale natura riservata delle informazioni richieste essendo il consigliere vincolato al segreto d'ufficio (C.d.S., sez. V, 04.05.2004, n. 2716 e da ultimo Tar Trentino Alto Adige, Trento, Sez. I, 07.05.2009, n. 143); che, infine, gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengano, per un verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e, per altro verso, che non debba sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri debba essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso.
Sulla scorta del delineato indirizzo giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ritiene di discostarsi, discende che nella specie sussistono i presupposti per l’accesso richiesto dalla ricorrente e rifiutato dall’Ente resistente.
La ricorrente stessa ha specificamente indicato l’atto di cui intende acquisire copia; è atto proveniente da un organo dell’Ente, qual è espressamente qualificato il Collegio dei revisori dall’art. 234 del d.lgs. n. 267/2000; e, quand’anche dall’invio diretto del documento stesso alla Corte dei conti se ne voglia far discendere la riservatezza, ciò non rappresenterebbe comunque un ostacolo all’ostensione, secondo gli enunciati principi.
Il Sindaco nella nota gravata allude invero all’indisponibilità materiale del documento in questione; e la difesa dell’amministrazione rimarca la circostanza ponendo l’accento sull’invio diretto alla Corte dei Conti da parte dei revisori e sulla responsabilità altrettanto diretta degli stessi in caso di ritardo, con l’ulteriore precisazione che, in ogni caso, il questionario in parola non sarebbe parte integrante del bilancio.
Entrambi gli addotti profili non sono tuttavia dirimenti. Sotto il primo profilo deve rimarcarsi: a) che la trasmissione diretta non esclude che si tratti di un atto formato da un “organo comunale” espressamente previsto –si ribadisce- dall’art. 234 del d.lgs. n. 267/2000; b) che l’atto stesso, in uscita, abbia acquisito un numero di protocollo, per ciò stesso andando a confluire nell’archivio dell’ente.
Sotto il secondo profilo deve invece ribadirsi che l’art. 43 del T.U. enti locali riconosce il diritto di accesso a qualsiasi “informazione” utile e non può certo dubitarsi che, trattandosi di un documento esplicativo di un atto complesso, questo sia in grado di fornire un’utile chiave di lettura del bilancio di previsione (come noto sottoposto all’approvazione del Consiglio comunale), restando irrilevante stabilire se ne costituisca o meno parte integrante.
La visione di tale atto non può pertanto essere impedita al consigliere nell’esercizio del suo mandato.
” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.08.2011 n. 4829 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAl fine di fronteggiare l’inquinamento acustico, il sindaco è titolare:
a) di un potere generale di ordinanza da esercitare, quale ufficiale del governo, qualora sorga la necessità di provvedimenti contingibili e urgenti, anche, tra l’altro, in materia di «sanità ed igiene», «al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini»;
b) di poteri di ordinanza con contenuti e finalità specifiche. Si tratta del potere, attribuito dal comma 3, dell'art. 54 dlgs 267/2000, di modificare gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, nonché, d’intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio «in casi di emergenza, connessi con il traffico e/o con l’inquinamento atmosferico o acustico, ovvero quando a causa di circostanze straordinarie si verifichino particolari necessità dell’utenza». E soprattutto di quello previsto dall’articolo 9 della legge quadro sull’inquinamento acustico 447/1999, secondo il quale il sindaco, qualora sia richiesto da <<eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell’ambiente>>, può, con provvedimento motivato, «ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l’inibitoria parziale o totale di determinate attività».
L’articolo 9 della legge 447/1995 non deve essere interpretato in senso restrittivo (meramente letterale). Infatti: da un lato, la legge quadro ha ridefinito (articolo 2, comma 1, lettera a) il concetto di inquinamento acustico, qualificandolo come <l’introduzione di rumore nell’ambiente abitativo o nell’ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane>, sancendo espressamente che esso concreta (in ogni caso) <un pericolo per la salute umana>, cosicché deve ritenersi che un fenomeno di inquinamento acustico rappresenti ontologicamente una minaccia per la salute pubblica; dall’altro, la legge stessa non configura alcun potere di intervento amministrativo “ordinario” che consenta di ottenere il risultato dell’immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti, e pertanto l’utilizzo del particolare potere di ordinanza contingibile ed urgente delineato dall’articolo 9 deve ritenersi “normalmente” consentito allorquando gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle competenti Agenzie Regionali di Protezione Ambientale rivelino la presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, anche se non coinvolge direttamente la salute dell’intera collettività bensì di un numero limitato di cittadini (e, al limite, di una sola persona). Altrimenti, la fattispecie dell’articolo 9 costituirebbe una pleonastica riproduzione, nell’ambito della normativa di settore, del generale potere di ordinanza contingibile ed urgente riconosciuto al sindaco quale ufficiale di governo.

Occorre precisare, riguardo alla natura del potere esercitato ed alla sussistenza dei relativi presupposti (peraltro, ribadendo quanto recentemente affermato da questo Tribunale con la sentenza 22.10.2010, n. 492), che, al fine di fronteggiare l’inquinamento acustico, il sindaco è titolare:
a) di un potere generale di ordinanza da esercitare, quale ufficiale del governo, qualora sorga la necessità di provvedimenti contingibili e urgenti, anche, tra l’altro, in materia di «sanità ed igiene», «al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini» (articolo 54, comma 2, d.lgs. 267/2000; in precedenza, articolo 38, comma 2, della legge 142/1990);
b) di poteri di ordinanza con contenuti e finalità specifiche. Si tratta del potere, attribuito dal comma 3, del citato articolo 54 (in precedenza, comma 2-bis, del citato articolo 38), di modificare gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, nonché, d’intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio «in casi di emergenza, connessi con il traffico e/o con l’inquinamento atmosferico o acustico, ovvero quando a causa di circostanze straordinarie si verifichino particolari necessità dell’utenza». E soprattutto, per quanto qui interessa, di quello previsto dall’articolo 9 della legge quadro sull’inquinamento acustico 447/1999, secondo il quale il sindaco (così come il presidente della provincia, il presidente della giunta regionale, il prefetto, il ministro dell’ambiente e il presidente del consiglio dei ministri, nell’ambito delle rispettive competenze), qualora sia richiesto da <<eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell’ambiente>>, può, con provvedimento motivato, «ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l’inibitoria parziale o totale di determinate attività».
Per le caratteristiche dei presupposti di fatto e delle misure imposte, il provvedimento impugnato sembra riconducibile alla fattispecie dell’articolo 9 della legge 447/1995 (la legge quadro, del resto, viene indicata anche nella proposta di provvedimento formulata dall’Ufficio Servizi Operativi e Ambiente in data 11.10.2010, cui espressamente aderisce il provvedimento impugnato).
Ciò, in quanto (cfr. sent. cit.), l’articolo 9 della legge 447/1995 non deve essere interpretato in senso restrittivo (meramente letterale). Infatti (come rilevato da TAR Puglia, Lecce, I, 24.01.2006, n. 488): da un lato, la legge quadro ha ridefinito (articolo 2, comma 1, lettera a) il concetto di inquinamento acustico, qualificandolo come <<l’introduzione di rumore nell’ambiente abitativo o nell’ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane>>, sancendo espressamente che esso concreta (in ogni caso) <<un pericolo per la salute umana>>, cosicché deve ritenersi che un fenomeno di inquinamento acustico rappresenti ontologicamente una minaccia per la salute pubblica; dall’altro, la legge stessa non configura alcun potere di intervento amministrativo “ordinario” che consenta di ottenere il risultato dell’immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti, e pertanto l’utilizzo del particolare potere di ordinanza contingibile ed urgente delineato dall’articolo 9 deve ritenersi “normalmente” consentito allorquando gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle competenti Agenzie Regionali di Protezione Ambientale rivelino la presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, anche se non coinvolge direttamente la salute dell’intera collettività bensì di un numero limitato di cittadini (e, al limite, di una sola persona). Altrimenti, la fattispecie dell’articolo 9 costituirebbe una pleonastica riproduzione, nell’ambito della normativa di settore, del generale potere di ordinanza contingibile ed urgente riconosciuto al sindaco quale ufficiale di governo (nello stesso senso, vedi anche TAR Toscana, II, 16.06.2010, n. 1930; TAR Lombardia, Brescia, 02.11.2009, n. 1814; Milano, IV, 02.04.2008, n. 715; TAR Piemonte, I, 02.03.2009, n. 199; TAR Lazio, II, 26.06.2002, n. 5904).
Il riferimento all’articolo 50 del d.lgs. 267/2000 (il cui comma 5, prevede il potere del sindaco di adottare ordinanze contingibili ed urgenti <<in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale>>) appare dunque improprio, ma non vizia il provvedimento.
Passando ad esaminare l’applicabilità dei valori limite differenziali, va ricordato che:
- secondo l’articolo 6, comma 2, del d.P.C.M. 01.03.1991 (il comma 1 prevede, nelle more della suddivisione del territorio comunale prevista dalla legge, i limiti di accettabilità c.d. assoluti, distinguendo tra limite diurno e limite notturno, e tra <<Zona A>> e <<Zona B>> di cui al d.m. 1444/1968, <<Zona esclusivamente industriale>> e, residualmente, <<Tutto il territorio nazionale>>), <<Per le zone non esclusivamente industriali indicate in precedenza, oltre ai limiti massimi in assoluto per il rumore, sono stabilite anche le seguenti differenze da non superare tra il livello equivalente del rumore ambientale e quello del rumore residuo (criterio differenziale): 5 dB (A) per il Leq (A) durante il periodo diurno: 3 DB (A) per il Leq (A) durante il periodo notturno. La misura deve essere effettuata nel tempo di osservazione del fenomeno acustico negli ambienti abitativi>>;
- secondo l’articolo 15, comma 1, della legge 447/1995, <<Nelle materie oggetto dei provvedimenti di competenza statale e dei regolamenti di esecuzione previsti dalla presente legge, fino all'adozione dei provvedimenti e dei regolamenti medesimi si applicano, per quanto non in contrasto con la presente legge, le disposizioni contenute nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 01.03.1991, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 57 dell'08.03.1991, fatta eccezione per le infrastrutture dei trasporti, limitatamente al disposto di cui agli articoli 2, comma 2, e 6, comma 2 >>;
- secondo l’articolo 4, comma 1, del d.P.C.M. 14.11.1997 <<I valori limite differenziali di immissione, definiti all'art. 2, comma 3, lettera b), della legge 26.10.1995, n. 447 (10), sono: 5 dB per il periodo diurno e 3 dB per il periodo notturno, all'interno degli ambienti abitativi. Tali valori non si applicano nelle aree classificate nella classe VI della tabella A allegata al presente decreto>> (sono le <<aree esclusivamente industriali: rientrano in questa classe le aree esclusivamente interessate da attività industriali e prive di insediamenti abitativi>>).
- infine, secondo l’articolo 8, comma 1, del medesimo d.P.C.M. 14.11.1997, <<in attesa che i comuni provvedano agli adempimenti previsti dall’art. 6, comma 1, lettera a) della legge 26.10.1995 n. 447, si applicano i limiti di cui all’art. 6, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 01.03.1991>>;
Sebbene la giurisprudenza prevalente, sulla base dell’applicazione del canone interpretativo dell’“ubi lex voluit, dixit …” (in quanto, cioè, il più recente regolamento richiama l’articolo 6, comma 1, e non anche il comma 2, del precedente), conforti la prospettazione della ricorrente in ordine alla non applicabilità dei limiti di rumore differenziali in mancanza di una zonizzazione acustica comunale (cfr., da ultimo, TAR Puglia, Bari, I, 14.05.2010, n. 1896), il Collegio deve rilevare che i precedenti di questo Tribunale vanno in una direzione diversa.
Infatti, con la sentenza 23.04.2001, n. 236, è stato affermato che:
- è vero che le norme transitorie contenute nell’articolo 15 della legge 447/1995 e nell’articolo 8 del d.P.C.M. 14.11.1997 –così come testualmente formulate– potrebbero far sorgere dubbi sull’applicabilità dei “valori limite differenziali” durante il periodo (transitorio) di carenza di “zonizzazione” nel territorio del Comune intimato;
- è pur vero, però, che sia il d.P.C.M. 01.03.1991, sia il d.P.C.M. 14.11.1997 rendono bene chiara l’idea che per le aree non esclusivamente industriali non è stata affatto delineata una soluzione di continuità in ordine al cumulo dei due criteri di valutazione (“criterio differenziale” e “criterio assoluto”);
- infatti, a parte la perfetta corrispondenza letterale delle due norme in rassegna (comma 2 dell’articolo 6 del d.P.C.M. 01.03.1991 e comma 1 dell’articolo 4 del d.P.C.M. 14.11.1997) che già chiaramente fa propendere per la delimitazione del divieto di cumulo dei due criteri solo per le aree industriali (e, quindi, non per le altre), vi è da dire che sotto il profilo logico e teleologico è del tutto irragionevole pensare che il “criterio differenziale” già operante in base al decreto del 1991 possa essere stato congelato durante il periodo transitorio (di carenza di zonizzazione), pur in presenza di una situazione urbanistica e (soprattutto) di una esigenza di tutela della salute pubblica, assolutamente identiche durante il periodo di riferimento (e cioè dal 1991 al 1998).
Il Collegio ritiene detta impostazione più convincente e quindi meritevole di essere confermata.
Può aggiungersi che, altrimenti, la previsione dell’articolo 8 del d.P.C.M. 14.11.1997 contrasterebbe con quanto disposto dall’articolo 15 della legge 447/1995, che intende assicurare, nelle more della definizione dei regolamenti e provvedimenti attuativi previsti dalla legge quadro, la permanente vigenza (per quanto non in contrasto con la legge stessa) della disciplina di tutela stabilita dal d.P.C.M. 01.03.1991.
In conclusione sul punto, la ragione per la quale il d.P.C.M. del 1997 non richiama il comma 2 dell’articolo 6, del d.P.C.M. del 1991, è che, mancando ogni modifica riguardo ai limiti c.d. differenziali, per detta parte della disciplina non c’era bisogno di norme transitorie.
Nel senso qui accolto, si esprime anche la circolare del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio in data 06.09.2004 (TAR Umbria, sentenza 26.08.2011 n. 280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAl fine di fronteggiare l’inquinamento acustico, il sindaco è titolare:
a) di un potere generale di ordinanza da esercitare, quale ufficiale del governo, qualora sorga la necessità di provvedimenti contingibili e urgenti, anche, tra l’altro, in materia di «sanità ed igiene», «al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini» (articolo 54, comma, 2, d.lgs. 267/2000 n. 267);
b) di poteri di ordinanza con contenuti e finalità specifiche. Si tratta del potere, attribuito dal comma 3, del citato articolo 54, di modificare gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, nonché, d’intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio «in casi di emergenza, connessi con il traffico e/o con l’inquinamento atmosferico o acustico, ovvero quando a causa di circostanze straordinarie si verifichino particolari necessità dell’utenza». E soprattutto di quello previsto dall’articolo 9 della legge quadro sull’inquinamento acustico 447/1995, secondo il quale il sindaco (così come il presidente della provincia, il presidente della giunta regionale, il prefetto, il ministro dell’ambiente e il presidente del consiglio dei ministri, nell’ambito delle rispettive competenze), qualora sia richiesto da <<eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell’ambiente>>, può, con provvedimento motivato, «ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l’inibitoria parziale o totale di determinate attività».
- L’articolo 9 della legge 447/1995 non deve essere interpretato in senso restrittivo (meramente letterale). Infatti: da un lato, la legge quadro ha ridefinito (articolo 2, comma 1, lettera a) il concetto di inquinamento acustico, qualificandolo come <l’introduzione di rumore nell’ambiente abitativo o nell’ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane>, sancendo espressamente che esso concreta (in ogni caso) <un pericolo per la salute umana>, cosicché deve ritenersi che un fenomeno di inquinamento acustico rappresenti ontologicamente una minaccia per la salute pubblica; dall’altro, la legge stessa non configura alcun potere di intervento amministrativo “ordinario” che consenta di ottenere il risultato dell’immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti, e pertanto l’utilizzo del particolare potere di ordinanza contingibile ed urgente delineato dall’articolo 9 deve ritenersi “normalmente” consentito allorquando gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle competenti Agenzie Regionali di Protezione Ambientale rivelino la presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, anche se non coinvolge direttamente la salute dell’intera collettività bensì di un numero limitato di cittadini (e, al limite, di una sola persona). Altrimenti, la fattispecie dell’articolo 9 costituirebbe una pleonastica riproduzione, nell’ambito della normativa di settore, del generale potere di ordinanza contingibile ed urgente riconosciuto al sindaco quale ufficiale di governo.
- Un fenomeno come quello delle emissioni/immissioni acustiche provenienti da un’attività produttiva è suscettibile di essere significativamente influenzato dalle modalità con cui detta attività si svolge, e che quindi deve essere riconosciuto all’organo pubblico incaricato dei controlli il c.d. diritto alla sorpresa nell’espletamento delle attività istituzionali, per evitare che il preavviso possa mettere il controllato nella condizione di “non farsi cogliere sul fatto”. L'esonero dell'Amministrazione dall'obbligo di dare comunicazione all'interessato dell'avvio del procedimento che lo riguarda, è legato non alla astratta qualificazione del provvedimento che si intende adottare, ma alla concreta esistenza di una situazione di comprovata necessità e di urgenza qualificata, tale cioè da non consentire la detta comunicazione senza che ne risulti compromesso il soddisfacimento dell'interesse pubblico cui il provvedimento finale è rivolto.

Il Collegio (peraltro, ribadendo quanto recentemente affermato da questo Tribunale con la sentenza 22.10.2010, n. 492) osserva che, al fine di fronteggiare l’inquinamento acustico, il sindaco è titolare:
a) di un potere generale di ordinanza da esercitare, quale ufficiale del governo, qualora sorga la necessità di provvedimenti contingibili e urgenti, anche, tra l’altro, in materia di «sanità ed igiene», «al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini» (articolo 54, comma, 2, d.lgs. 267/2000 n. 267; in precedenza, articolo 38, comma 2, della legge 142/1990);
b) di poteri di ordinanza con contenuti e finalità specifiche. Si tratta del potere, attribuito dal comma 3, del citato articolo 54 (in precedenza, comma 2-bis, del citato articolo 38), di modificare gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, nonché, d’intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio «in casi di emergenza, connessi con il traffico e/o con l’inquinamento atmosferico o acustico, ovvero quando a causa di circostanze straordinarie si verifichino particolari necessità dell’utenza». E soprattutto, per quanto qui interessa, di quello previsto dall’articolo 9 della legge quadro sull’inquinamento acustico 447/1995, secondo il quale il sindaco (così come il presidente della provincia, il presidente della giunta regionale, il prefetto, il ministro dell’ambiente e il presidente del consiglio dei ministri, nell’ambito delle rispettive competenze), qualora sia richiesto da <<eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell’ambiente>>, può, con provvedimento motivato, «ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l’inibitoria parziale o totale di determinate attività».
Per le caratteristiche dei presupposti di fatto e delle misure imposte, il provvedimento impugnato sembra riconducibile alla fattispecie dell’articolo 9 della legge 447/1995.
Ciò, in quanto (cfr. sent. cit.), l’articolo 9 della legge 447/1995 non deve essere interpretato in senso restrittivo (meramente letterale). Infatti (come rilevato da TAR Puglia, Lecce, I, 24.01.2006, n. 488): da un lato, la legge quadro ha ridefinito (articolo 2, comma 1, lettera a) il concetto di inquinamento acustico, qualificandolo come <<l’introduzione di rumore nell’ambiente abitativo o nell’ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane>>, sancendo espressamente che esso concreta (in ogni caso) <<un pericolo per la salute umana>>, cosicché deve ritenersi che un fenomeno di inquinamento acustico rappresenti ontologicamente una minaccia per la salute pubblica; dall’altro, la legge stessa non configura alcun potere di intervento amministrativo “ordinario” che consenta di ottenere il risultato dell’immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti, e pertanto l’utilizzo del particolare potere di ordinanza contingibile ed urgente delineato dall’articolo 9 deve ritenersi “normalmente” consentito allorquando gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle competenti Agenzie Regionali di Protezione Ambientale rivelino la presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, anche se non coinvolge direttamente la salute dell’intera collettività bensì di un numero limitato di cittadini (e, al limite, di una sola persona). Altrimenti, la fattispecie dell’articolo 9 costituirebbe una pleonastica riproduzione, nell’ambito della normativa di settore, del generale potere di ordinanza contingibile ed urgente riconosciuto al sindaco quale ufficiale di governo (nello stesso senso, vedi anche TAR Toscana, II, 16.06.2010, n. 1930; TAR Lombardia, Brescia, 02.11.2009, n. 1814; Milano, IV, 02.04.2008, n. 715; TAR Piemonte, I, 02.03.2009, n. 199; TAR Lazio, II, 26.06.2002, n. 5904; da ultimo, TAR Lombardia, Milano, IV, 31.01.2011, n. 288)).
L’altro profilo di censura dedotto con il ricorso introduttivo, ed approfondito con i motivi aggiunti, concerne l’applicabilità, ai sensi di quanto stabilito dall’art. 4, comma 2, del D.P.C.M. 14.11.1997, del valore limite differenziale.
Come esposto, detta disposizione prevede che i valori limite differenziali stabiliti dal comma 1, non si applichino qualora il rumore ambientale debba ritenersi <<trascurabile>>, in quanto non superiore alle soglie da essa stabilite (50/40 dB(A) a seconda se si tratti del periodo diurno/notturno, se misurato a finestre aperte; 35/25 dB(A), se a finestre chiuse).
Ora, dalla misurazione dell’A.R.P.A. risultano, nel periodo notturno, valori di 42,6 dB(A) a finestre aperte e di 29,0 dB(A) a finestre chiuse, rispetto a valori limite rispettivamente di 40 e 25 dB(A). Quindi, superiori alla soglia al di sotto della quale il rumore si intende <<trascurabile>> e non si applicano i limiti differenziali.
Il livello di rumore differenziale proveniente dall’attività industriale è poi risultato essere di 8 dB(A) a finestre aperte e di 11 dB(A) a finestre chiuse, vale a dire sensibilmente superiore ai valori limite (5 dB(A) per il periodo diurno e 3 dB(A) per il periodo notturno) stabiliti dai d.P.C.M.
Con riferimento ai risultati di dette misurazioni, la ricorrente sostiene anzitutto che avrebbe dovuto farsi riferimento ai risultati delle misurazioni effettuate dal CTU nell’ambito del giudizio civile pendente, in quanto più affidabili e probanti.
Il Collegio non comprende per quale motivo un consulenze tecnico debba essere più affidabile di un organo tecnico della pubblica amministrazione, come l’A.R.P.A., istituzionalmente preposto ai controlli ambientali, perciò dotato di adeguate strumentazioni e professionalità, ed indipendente, vale a dire non legato da alcun rapporto organico o funzionale con l’ente locale che gli ha richiesto l’accertamento.
La ricorrente sostiene anche che, data la modestia dello scostamento tra la soglia di rilevanza (<<trascurabilità>>) del rumore ed i valori accertati, l’accertamento non avrebbe giustificato l’adozione del provvedimento impugnato.
Il Collegio osserva che, come all’amministrazione non spetta il potere di distinguere, nell’ambito delle immissioni acustiche che superano i limiti previsti dalla normativa di riferimento, il grado di intensità delle immissioni stesse al fine di provvedere o meno all’adozione delle misure necessarie al loro abbattimento entro la soglia di tollerabilità (cfr. TAR Puglia, Bari, I, 26.09.2003, n. 3591), così non è consentito di non trarre le doverose conseguenze dall’accertato superamento di una soglia (quella individuata dall’articolo 4, comma 2, del d.P.C.M. 14.11.1997) strumentale alla verifica del rispetto delle soglie di tollerabilità.
In generale, sembra evidente che un sistema basato su limiti oggettivi di inquinamento, non tolleri –a meno che una disposizione normativa non lo preveda espressamente, integrando la misurazione del valore limite con altre valutazioni, o consentendo la deroga in presenza di altri elementi- una valutazione di accettabilità/tollerabilità del superamento di detti limiti.
La ricorrente lamenta poi che, in violazione del principio generale espresso dagli articoli 7 ss. della legge 241/1990, non siano state assicurate nel procedimento le garanzie procedimentali, a partire dalla previa comunicazione delle misurazioni programmate dall’A.R.P.A., onde consentirle di presentare osservazioni ed effettuare le opportune verifiche sulle attività di misurazione.
Il Collegio sottolinea al riguardo che un fenomeno come quello delle emissioni/immissioni acustiche provenienti da un’attività produttiva è suscettibile di essere significativamente influenzato dalle modalità con cui detta attività si svolge, e che quindi deve essere riconosciuto all’organo pubblico incaricato dei controlli il c.d. diritto alla sorpresa nell’espletamento delle attività istituzionali, per evitare che il preavviso possa mettere il controllato nella condizione di “non farsi cogliere sul fatto” (cfr. Cons. Stato, V, 05.03.2003, n. 1224).
L'esonero dell'Amministrazione dall'obbligo di dare comunicazione all'interessato dell'avvio del procedimento che lo riguarda, è legato non alla astratta qualificazione del provvedimento che si intende adottare, ma alla concreta esistenza di una situazione di comprovata necessità e di urgenza qualificata, tale cioè da non consentire la detta comunicazione senza che ne risulti compromesso il soddisfacimento dell'interesse pubblico cui il provvedimento finale è rivolto (TAR Toscana, II, 16.06.2010, n. 1930).
In questa prospettiva, va sottolineato che le misurazioni contestate col ricorso in esame non rappresentano un fatto nuovo nei rapporti tra Comune e società ricorrente, bensì rappresentano l’ennesimo episodio di una lunga vicenda – connotata dall’adozione di reiterati provvedimenti volti a ricondurre le immissioni acustiche nei limiti di legge, e dall’effettuazione di interventi da parte della ricorrente, in un arco di tempo di alcuni anni. Al riguardo, è sufficiente rinviare a quanto precisato al punto 1 (sottolineando, in particolare, l’esito finale dell’attuazione del piano di risanamento presentato alla fine del 2007).
La mancanza di una previa comunicazione di avvio del procedimento, e di un contraddittorio nel momento dell’effettuazione delle misurazioni effettuate dall’A.R.P.A. appare quindi giustificata.
Deve dunque ritenersi che controlli, accertamenti, ispezioni possano essere svolti senza la partecipazione del diretto interessato, a condizione che costui sia successivamente in grado di verificare e, se del caso, contestare la veridicità o esattezza degli accertamenti compiuti e la stessa idoneità degli strumenti tecnici utilizzati (TAR Umbria, sentenza 26.08.2011 n. 271 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIP.a., niente risarcimento se c'è incertezza sulla gara. Tar Lombardia: l'impresa non risponde di dichiarazioni mendaci.
Deve essere respinta la domanda di risarcimento dei danni proposta da una p.a. nei confronti dell'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico a seguito dell'annullamento dell'aggiudicazione stessa per dichiarazioni mendaci rese, nel caso in cui sussista una situazione di obiettiva incertezza circa il contenuto delle dichiarazioni da rendere in base alla lex specialis della gara.
Questo è quanto hanno precisato i giudici del TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, con la sentenza 24.08.2011 n. 1261.
La controversia verte intorno alla domanda risarcitoria presentata da un comune nei confronti di una ditta aggiudicataria di un appalto del servizio di ristorazione e poi esclusa ai sensi dell'art. 12, comma 1, lett. b), dlgs 157/1995 dal momento che, contrariamente a quanto dichiarato dal procuratore speciale della società, il Tribunale di Modena aveva emesso, a suo carico, sentenza irrevocabile di applicazione della pena per violazioni in materia fiscale.
Più precisamente l'ente locale aveva proposto la domanda facendo leva su una norma del capitolato speciale d'appalto della gara secondo la quale «in caso di non veridicità delle dichiarazioni rilasciate» l'aggiudicazione verrà annullata «ed il servizio potrà essere affidato al concorrente che segue in graduatoria, fatti salvi i diritti del comune per il risarcimento di tutti i danni che potranno derivare all'amministrazione anche in successivo esperimento della gara o, comunque, per il maggior costo del servizio rispetto a quello che sarebbe stato sostenuto senza la decadenza dell'aggiudicatario».
Il comune aveva commisurato, pertanto, i danni subiti ai maggiori esborsi sostenuti per il servizio affidato alla seconda in graduatoria. La ditta aveva sostenuto, invece, la mancanza dell'elemento soggettivo richiesto dall'art. 12 dlgs n. 157/1995, poiché la sentenza di patteggiamento in cui era incorso il procuratore speciale era antecedente alla sua assunzione nella società e si riferiva a un'attività che non rilevava e per questo non era tenuto a farne menzione in sede di gara.
I giudici amministrativi respingono il ricorso. Hanno osservato, infatti, come sia la giurisprudenza comunitaria sia quella interna individuano quale «esimente» dell'amministrazione, sotto il profilo della sua responsabilità per l'attività volta, la sussistenza di una obiettiva situazione di incertezza circa le corrette determinazioni da assumere. Secondo il Collegio elementari ragioni di «parità delle parti» impongono, pertanto, di riconoscere identica e speculare «esimente» in capo al privato, quando sia l'amministrazione ad agire per pretendere il risarcimento di un danno, che ritiene provocato dalla condotta colposa del medesimo soggetto privato.
Facendo applicazione di questo principio a «parti rovesciate» nei confronti dell'impresa esclusa, è stato riconosciuto che, avendo già una precedente sentenza precisato che la pena patteggiata, la quale aveva dato luogo all'esclusione, non fosse da riferire all'impresa aggiudicataria, quantomeno il beneficio del dubbio andava accordato in merito alla mendacità della dichiarazione di non versare nella condizione di cui all'art. 12, lett. b), dlgs 157/1995: è ravvisabile, nel caso specifico, una situazione di obiettiva incertezza circa il contenuto della dichiarazione da rendere ai sensi del capitolato speciale d'appalto, tale da escludere il necessario requisito della colpa in ordine a quanto, poi, effettivamente dichiarato (articolo ItaliaOggi dell'01.09.2011 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATALa sottoposizione a sequestro giudiziale di un bene immobile imprime al bene medesimo un vincolo di indisponibilità che si risolve nella temporanea sua immodificabilità e o incommerciabilità.
Ma il conflitto di interessi nascente dalla contemporanea emanazione di un‘ordinanza che ingiunge la demolizione di un’opera abusiva deve essere risolto dalla competente autorità giudiziaria penale.
Spetta, in definitiva, a quest’ultima decidere il mantenimento in vita del sequestro a fini di tutela di esigenze di carattere penalistico (ad. es. fini probatori, o di prevenzione penale o, ancora, di natura conservativa a garanzia delle obbligazioni civilistiche nascenti da reato) ovvero il dissequestro del bene qualora si ritenga di accordare prevalenza al ripristino dello stato dei luoghi.

La sottoposizione a sequestro giudiziale di un bene immobile imprime al bene medesimo un vincolo di indisponibilità che si risolve nella temporanea sua immodificabilità e o incommerciabilità.
Ma il conflitto di interessi nascente dalla contemporanea emanazione di un‘ordinanza che ingiunge la demolizione di un’opera abusiva deve essere risolto dalla competente autorità giudiziaria penale.
Spetta, in definitiva, a quest’ultima decidere il mantenimento in vita del sequestro a fini di tutela di esigenze di carattere penalistico (ad. es. fini probatori, o di prevenzione penale o, ancora, di natura conservativa a garanzia delle obbligazioni civilistiche nascenti da reato) ovvero il dissequestro del bene qualora si ritenga di accordare prevalenza al ripristino dello stato dei luoghi.
Il destinatario del provvedimento deve senz’altro rendersi parte diligente al fine di dare corretta esecuzione all’ordine di demolizione emanato dalla P.a. competente senza poter addurre a sua esimente la sussistenza di un provvedimento di sequestro al quale egli stesso ha dato causa (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 16.08.2011 n. 1530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare d'appalto aperte agli esterni. È legittimo in particolari materie integrare le commissioni con esperti.
Sempre più difficile gestire gare di appalto per lavori, servizi e forniture, anche ricorrendo agli specialisti delle stazioni uniche appaltanti varate dal Dpcm 30.06.2011. Norme e giurisprudenza si sovrappongono, come nel caso dell'individuazione del costo del personale all'interno del prezzo per l'esecuzione di un appalto.
L'offerta da preferire in sede di gara, per l'articolo 4 del decreto legge 70/2011 (legge 106/2011) va determinata al netto delle spese relative al costo del personale. Il seggio di gara, tuttavia, spesso non possiede le competenze per sindacare tale costo, ad esempio per valutarne l'anomalia che prelude al lavoro nero o dequalificato. Il costo del lavoro, infatti, non si identifica con il minimo salariale (che è inderogabile), ma è una voce connessa alla produttività.

Il tema è stato affrontato da una commissione di gara nominata da un'Azienda sanitaria locale, che ha dovuto verificare se in una gara per servizi di vigilanza un concorrente avesse formulato un'offerta bassa in modo anomalo violando i limiti posti dalle tariffe adottate dal Prefetto per la vigilanza, oppure trascurando le tabelle ministeriali sul costo del lavoro.
Nel caso specifico, la Commissione giudicatrice aveva affidato l'accertamento sull'eventuale anomalo ribasso, a un tecnico esterno: non era infatti possibile ipotizzare, all'epoca in cui la Commissione esaminatrice era stata designata, questa tipologia di problemi da risolvere (cioè il rispetto della contrattazione collettiva e del costo del lavoro delle guardie giurate da impiegare nella sorveglianza). L'inserimento di un consulente esterno nell'attività della commissione di gara è stato poi oggetto di contestazione, ma il TAR Puglia-Bari, Sez. I (sentenza 11.08.2011 n. 1209) ha condiviso il coinvolgimento di un esperto esterno, anche durante le operazioni di gara.
Osserva infatti il Tar che la stazione appaltante può legittimamente rivolgersi a un esperto al fine di valutare l'anomalia dell'offerta: ben può, quindi, un consulente del lavoro essere interpellato dalla Commissione giudicatrice anche nel corso dell'esame delle offerte, allo stesso modo in cui è stato ritenuto legittimo l'interpello di un cuoco durante una gara per servizi mensa (Cons. Stato, 7265/2010) o un esperto in materia di retribuzioni del comparto cooperative sociali (Cons. Stato, 6765/2008) in un appalto di servizi di trasporto infermi.
A un consulente si può chiedere ausilio non solo in sede di gara, ma anche in sede di successiva contestazione in giudizio, com'è avvenuto a Roma nella gara manutenzione del verde, quando un tecnico nominato dal giudice (Cons. Stato, 3807/2011) ha precisato il regime degli sgravi contributivi su cui poteva contare un concorrente, entrando nel merito non solo dell'offerta di gara, ma anche dell'organizzazione imprenditoriale e della produttività della mano d'opera.
Con la Stazione unica appaltante sarà più agevole avere commissioni qualificate, evitando non solo il ricorso a consulenti esterni, ma anche errori più banali quali la composizione di commissioni giudicatrici in numero pari (e non dispari).
Si prevedono poi ulteriori difficoltà nella corretta gestione delle gare, per la prossima entrata in vigore del Codice antimafia (approvato definitivamente il 03.08.2011 ed in attesa di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale), mentre già si segnala la prima applicazione della sanzione per lite temeraria, con raddoppio del contributo fiscale a carico del ricorrente che abbia agito in modo avventato: il TAR Puglia-Bari, Sez. I (sentenza 30.08.2011 n. 1264) ha condannato al pagamento di 8.000 euro un imprenditore che contestava l'esclusione da una gara per servizio di soccorso stradale: la somma è andata a beneficio dell'Erario, in quanto né il Comune né l'aggiudicatario si erano costituti in giudizio (articolo Il Sole 24 Ore del 04.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Strategie processuali della PA. Un “segreto” da preservare.
Orientamento confermato: a fronte di un contenzioso ancora pendente, è precluso l’accesso rispetto agli atti defensionali dell’Amministrazione coinvolta nel giudizio.
E' precluso, trattandosi di atti che afferiscono all'esercizio del diritto di difesa in relazione a un contenzioso ancora pendente, l'accesso alla documentazione riguardante la decisione dell'Amministrazione di rinunciare all'impugnazione della quasi totalità dei capi di una sentenza sfavorevole, impugnata solo parzialmente con ricorso in sede di legittimità.

Così ha concluso, sul solco di un orientamento consolidato, il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 10.08.2011 n. 4769, sul rilievo che, in tali casi, nonostante la formazione del giudicato sui capi della sentenza non impugnati, il giudizio continua comunque ad essere pendente, sia pure limitatamente alla parte della sentenza oggetto di impugnazione.
I fatti di causa.
Un contribuente formulava nei confronti di un ufficio dell'Agenzia delle Entrate istanza di accesso, tra l'altro, ai documenti relativi al provvedimento interno con il quale l'ufficio stesso si era determinato a prestare acquiescenza alla sfavorevole sentenza della Commissione tributaria regionale, che aveva respinto le sue pretese nei confronti del contribuente, e a coltivare il ricorso in Cassazione avverso tale pronuncia soltanto sul capo riguardante la spettanza degli interessi.
A fronte del diniego all'accesso opposto dall'ufficio con formale provvedimento, l'interessato ricorreva al Tar della Lombardia, sede di Milano, che respingeva il gravame.
Il collegio meneghino, per quanto d'interesse in questa sede, rilevava che la determinazione dell'Amministrazione di rinunciare all'impugnazione della quasi totalità dei capi della sfavorevole sentenza della Commissione tributaria rientra tra gli atti afferenti alla "strategia difensiva" di un contenzioso tributario ancora pendente e, pertanto, rispetto a essa è precluso il diritto di accesso.
Avverso tale decisione la parte privata ricorreva al Consiglio di Stato, eccependo erroneità della sentenza impugnata che, a suo dire, non avrebbe tenuto conto del fatto che il provvedimento interno con cui era stata decisa la rinuncia a coltivare in contenzioso gran parte delle pretese dell'Agenzia, comportando il passaggio in giudicato della sentenza della Commissione tributaria regionale, non avrebbe potuto consentire di parlare di "pendenza" del procedimento tributario, almeno in relazione ai punti sui quali si era in tal modo formato il giudicato.
Quanto all'affermata esigenza di tutela della "strategia processuale", l'istante eccepiva che in realtà quest'ultima era stata già compiutamente definita dall'ufficio con la proposizione del ricorso per Cassazione.
L'Agenzia delle Entrate si costituiva in giudizio, chiedendo il rigetto dell'appello per infondatezza.
La decisione del Consiglio di Stato.
Il descritto motivo di ricorso è stato disatteso dal Consiglio di Stato, che ha condiviso le conclusioni dei giudici di primo grado i quali, come detto, avevano escluso l'accesso alla documentazione riguardante la rinuncia all'impugnazione della quasi totalità dei capi della sfavorevole sentenza della Commissione tributaria, in quanto rientrante "tra gli atti afferenti alla strategia difensiva di un contenzioso tributario ancora pendente".
Al riguardo, i giudici di Palazzo Spada ricordano che gli atti defensionali sono atti per i quali la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato, "afferendo gli stessi all'esercizio del diritto di difesa dell'amministrazione, nega la sussistenza del diritto di accesso (Cons. Stato, sez. IV, 13.10.2003 n. 6200; sez. V, 26.09.2000 n. 5105; sez. IV, 08.02.2001 n. 513; sez. V, 15.04.2004 n. 2163)".
Né, precisa ulteriormente la decisione in commento, può assumere rilievo la circostanza, dedotta dalla parte privata appellante, della formazione del giudicato sui capi della sentenza non impugnati, "posto che il giudizio è tuttora pendente, sia pure limitatamente alla parte della sentenza oggetto di impugnazione, e la decisione di prestare acquiescenza a parte della pronuncia ben può essere parte di una più complessiva strategia processuale".
Osservazioni.
La decisione n. 4769 del 2011 conferma -richiamandone puntualmente gli estremi in motivazione- un consolidato orientamento del supremo collegio di giustizia amministrativa, da tempo fermo nel ritenere esclusa la possibilità di riconoscere il diritto di accesso, di cui alla legge 241/1990, rispetto ad atti connessi all'esercizio del diritto di difesa della Pubblica Amministrazione.
Una puntuale ricostruzione della problematica è rinvenibile nelle decisioni (entrambe già citate) n. 5105 del 2000 e n. 6200 del 2003, laddove il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che nell'ambito dei segreti che comportano la sottrazione all'accesso dei relativi documenti rientrano gli atti redatti dai legali e dai professionisti in esecuzione di specifici rapporti di consulenza con l'Amministrazione, trattandosi nella specie di un segreto che gode di una tutela qualificata, anche a livello penale.
Su un piano più sistematico, le citate sentenze richiamano quale principio generale l'articolo 2 del decreto del presidente del Consiglio dei ministri n. 200 del 1996 (Regolamento recante norme per la disciplina di categorie di documenti dell'Avvocatura dello Stato sottratti al diritto di accesso) che, secondo i giudici amministrativi, mirando a definire con chiarezza il rapporto tra accesso e segreto professionale, fissa "una regola che appare sostanzialmente ricognitiva dei principi applicabili in questa materia, anche al di fuori dell'ambito della difesa erariale".
In particolare, secondo il Consiglio di Stato, in virtù della richiamata disposizione, sono sottratti all'accesso gli scritti defensionali che, dopo l'avvio di un procedimento contenzioso oppure dopo l'inizio di tipiche attività precontenziose, valgono a definire la strategia difensiva della Pubblica Amministrazione.
Ciò in quanto, in questi casi, il parere del legale è destinato a fornire all'ente pubblico tutti gli elementi tecnico-giuridici utili per tutelare i propri interessi e, pertanto, risulta caratterizzato da una nota di riservatezza, che mira a tutelare non solo l'opera intellettuale del legale, ma anche la stessa posizione dell'Amministrazione che, nell'esercizio del proprio diritto di difesa "deve poter fruire di una tutela non inferiore a quella di qualsiasi altro soggetto dell'ordinamento" (così, testualmente, sia la sentenza n. 5105/2000 che la n. 6200/2003).
In definitiva, quindi, la sentenza n. 4769/2011 ribadisce una regola interpretativa che può dirsi consolidata e che giustifica, a fronte di un contenzioso ancora pendente, la preclusione all'accesso rispetto agli atti defensionali dell'Amministrazione coinvolta nel giudizio (commento tratto da www.nuovofiscooggi.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La declaratoria di illegittimità del provvedimento impugnato non costituisce condizione di ammissibilità della domanda risarcitoria.
Ai sensi dell’art. 2947, c. 1, c.c.: “Il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato”.
La previa declaratoria dell’illegittimità del provvedimento impugnato, secondo il più recente insegnamento del Consiglio di Stato (v. sentenza dell’Adunanza Plenaria 23.03.2011, n. 3) non costituisce condizione di ammissibilità della domanda risarcitoria, ma solo un elemento alla cui stregua va valutata la fondatezza o meno della domanda stessa (sul tema, v. anche C.G.A. 16.09.1998, n. 762 e 30.03.2011, n. 291) (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 09.08.2011 n. 1567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: L'elemento fiduciario nei rapporti con la stazione appaltante.
L’esclusione di una impresa da una procedura ad evidenza pubblica per grave negligenza o malafede è illegittima qualora la p.a. abbia provveduto a confermare la fiducia nei confronti dell’impresa rinnovando o prorogando l’affidamento di diversi contratti.

Tale principio è stato ribadito dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 03.08.011 n. 4629, nell’ambito di una gara d’appalto per l’affidamento di servizi cimiteriali.
Nel caso di specie la ricorrente era stata esclusa per grave negligenza nell’esecuzione di un precedente rapporto con l’amministrazione pubblica (violazione dell’art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs. 1634/2006) e per irregolarità contributive (violazione dell’art. 38, comma 1, lett. e), del d.lgs. 163/2006).
In primo grado il Tar aveva confermato la legittimità del provvedimento della stazione appaltante.
In sede di Consiglio di Stato è stata, invece, messa in luce la reale posizione dell’impresa ricorrente, che per ragioni non dipendenti dal proprio operato era stata costretta a ritardare l’esecuzione di un servizio pubblico affidatole.
Successivamente, tuttavia, la stessa amministrazione aveva proceduto a rinnovare all’impresa l’affidamento di diversi servizi, dimostrando così l’affidabilità della stessa.
I giudici di Palazzo Spada hanno infatti sostenuto che: “La proroga e l’affidamento di contratti all’impresa appellante da parte del Comune nel periodo giugno–dicembre 2010 (relativi alla manutenzione di verde pubblico e di rotatoria nonché di servizio spargisale), senza alcun riferimento a pregresse inadempienze, sono chiari indizi dello sviamento e della contradditorietà di cui è affetto l’atto di esclusione dalla gara per cui è causa per grave negligenza o malafede nello svolgimento di prestazioni affidate all’impresa.
Invero, la necessità di garantire l’elemento fiduciario nei rapporti contrattuali della pubblica amministrazione fin dal momento genetico, nell’interesse pubblico a non stipulare nuovi contratti con l’impresa resasi responsabile di grave negligenza, trova un evidente limite nel caso in cui la stessa amministrazione operi una valutazione favorevole sul piano tecnico–morale dell’impresa rinnovandole fiducia attraverso la proroga o l’affidamento di diversi contratti (Cons. St. Sez. VI, 28.07.2010, n. 5029)
.”
L’atto di esclusione è pertanto illegittimo se non dimostra in maniera adeguata l’inaffidabilità dell’impresa.
I giudici di appello si sono inoltre soffermati su un ulteriore motivo di esclusione, prontamente impugnato dall’impresa ricorrente: la violazione dell’art. 38, comma 1, lett. e), del d.lgs. 163/2006.
Il provvedimento di esclusione si basava infatti anche su un presunta irregolarità contributiva, non sussistente nel caso di specie poiché fondata su un “contenzioso amministrativo in corso” per il pagamento di oneri contributivi.
Da un’attenta lettura dell’art. 38, comma 1, lett. e), si rileva pertanto che l’esclusione può essere disposta soltanto nel caso in cui le imprese “…si siano rese responsabili di violazioni gravi e definitivamente accertate...”.
L’interpretazione della legge, in questo caso l’art. 38, non è opera semplice e di intuitiva applicazione ma deve necessariamente essere oggetto di un’attenta analisi ed un adeguato approfondimento così da evitare applicazioni fuorvianti del volere del legislatore (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Rimozione su strada.
La richiamata disposizione di cui all’art. 14 del D.L.vo 30.4.1992, n. 285 (Codice della Strada), sebbene imponga in capo all’Ente proprietario o gestore una serie di obblighi di vigilanza, controllo e conservazione, non può rappresentare il fondamento normativo per ordinare la rimozione dei rifiuti abbandonati da terzi, senza che sussista l’accertamento di una responsabilità quanto meno colposa del proprietario, in quanto non rientra nell’obbligo di pulizia delle strade per la “sicurezza e la fluidità della circolazione” la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti, trattandosi di attività non riconducibile alla normale gestione della rete stradale ed all’uso proprio della stessa.
Infatti, un ordine di “rimozione di ogni genere di rifiuti depositati e/o abbandonati da terzi e la pulizia e sistemazione dell’area”, finalizzato alla salvaguardia dell’ambiente, dell’igiene e della sanità, nonché della pubblica e privata incolumità esula indubbiamente dall’obbligo di pulizia delle strade strumentale unicamente alla “sicurezza e la fluidità della circolazione” e deve necessariamente ricondursi alla categoria degli obblighi di interventi, di bonifica e di messa in sicurezza di aree che trova il proprio esclusivo fondamento e la naturale disciplina nel D.L.vo 03.04.2006, n. 152 (c.d. Testo Unico sull’Ambiente) (massima tratta da www.lexambiente.it TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 29.07.2011 n. 4182 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICorrettezza contributiva e fiscale: irrilevante l'adempimento tardivo dell'obbligazione tributaria.
La correttezza contributiva e fiscale è richiesta all’impresa partecipante alla selezione per l’aggiudicazione dell’appalto come requisito indispensabile per la partecipazione alla gara, con la conseguenza che, ai fini della valida partecipazione alla selezione, l’impresa deve essere in regola con tali obblighi fin dalla presentazione della domanda, restando irrilevante un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione tributaria.
Quanto alla questione relativa all’esiguità della pretesa fiscale, osserva il CGA, l’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 -nella versione predecente alle modifiche introdotte dal Decreto Sviluppo- non richiedeva il requisito della gravità in relazione alla irregolarità di cui alla lettera g) in materia di pagamento di imposte e tasse. Sotto la vigenza di quella norma era, quindi, da ritenere rilevante ogni violazione, anche di importo esiguo (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - C.G.A.R.S., sentenza 28.07.2011 n. 530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'applicabilità del principio della pubblicità delle operazioni di gara alle operazioni di apertura delle offerte tecniche nelle gare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
La "verifica della integrità dei plichi" non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è destinata a garantire che il materiale documentario trovi correttamente ingresso nella procedura di gara, giacché la pubblicità delle sedute risponde all'esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato.
La suddetta regola costituisce corretta interpretazione dei principi comunitari e di diritto interno in materia di trasparenza e di pubblicità nelle gare per i pubblici appalti e, come tale, merita di essere confermata e ribadita con specifico riferimento all'apertura della busta dell'offerta tecnica. Tale operazione, infatti, come per la documentazione amministrativa e per l'offerta economica, costituisce passaggio essenziale e determinante dell'esito della procedura concorsuale, e quindi richiede di essere presidiata dalle medesime garanzie, a tutela degli interessi privati e pubblici coinvolti dal procedimento.
La verifica dei documenti contenuti nella busta dell'offerta tecnica deve consistere in un semplice controllo preliminare degli atti inviati, che non può eccedere la funzione, che ad essa riconosce la giurisprudenza, di ufficializzare la acquisizione della documentazione di cui si compone l'offerta tecnica. L'operazione non deve andare al di là del mero riscontro degli atti prodotti dall'impresa concorrente, restando esclusa ogni facoltà degli interessati presenti di prenderne visione del contenuto.
La garanzia di trasparenza richiesta in questa fase si considera assicurata quando la commissione, aperta la busta del singolo concorrente, abbia proceduto ad un esame della documentazione leggendo il solo titolo degli atti rinvenuti, e dandone atto nel verbale della seduta (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 28.07.2011 n. 13 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Bosco e macchia mediterranea.
Per bosco e macchia mediterranea, meritevole di tutela ai fini paesaggistici, si intende anche quella caratterizzata dalla assenza di alberi di alto fusto (tratto da link a www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.07.2011 n. 28928).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso d’ufficio - Dirigente dell'ufficio tecnico - Rilascio concessione edilizia in sanatoria per opera non conforme agli strumenti urbanistici generali vigenti - Configurabilità - Artt. 81, 323, 378 c.p..
Configura un ingiusto vantaggio patrimoniale anche il mero incremento del valore commerciale dell'immobile, per cui ben può essere chiamato a rispondere di abuso di ufficio il responsabile del settore urbanistico del Comune che abbia rilasciato una concessione edilizia in sanatoria per un'opera non conforme agli strumenti urbanistici generali vigenti in quel Comune (Cass. Sez. 6, del 06/06/2008, n. 35856 Morelli) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.07.2011 n. 27703 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Struttura definita di carattere precario e provvisorio - Permesso di costruire in precario condizionato a future esigenze urbanistiche - Illegittimità - Responsabile ufficio tecnico - Abuso d’ufficio - Configurabilità - Artt. 81, 323, 378 c.p..
E’ illegittima la concessione in sanatoria (oggi permesso di costruire) rilasciata, con la quale si consente di mantenere una struttura definita "di carattere precario e provvisorio" e, quindi, rimovibile a cura e spese del proprietario in caso di future esigenze urbanistiche.
E' stato infatti chiarito che la c.d. "concessione edilizia in precario" -sia pure non "in sanatoria" come quella di cui al presente processo- è non solo extra legem, in quanto non è espressamente prevista da alcuna fonte normativa, ma anche contra legem, in quanto è destinata a consentire una situazione di abuso edilizio (Cass. Sez. 3, n. 111 del 13/01/2000, La Ganga Ciciritto) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.07.2011 n. 27703 - link a www.ambientediritto.it).

LAVORI PUBBLICILa strada cede? Paga il comune.
Se il trattore resta drammaticamente coinvolto nel cedimento strutturale di una strada comunale spetta all'amministrazione ristorare economicamente gli eredi della vittima.

Lo ha evidenziato la Corte di cassazione, sez. III civ., con la sentenza 13.07.2011 n. 15384.
Un operatore che stava percorrendo una strada siciliana con il trattore è rimasto vittima di un grave incidente derivante dal ribaltamento del mezzo per cedimento della strada. A seguito della richiesta di risarcimento dei danni il tribunale ha rigettato la domanda ma la Corte d'appello ha ribaltato l'esito della vertenza condannando il comune al pagamento. La Cassazione ha confermato questa determinazione nonostante l'assoluzione in sede penale dei tecnici comunali.
L'incidente, specifica il collegio, è stato determinato dalla banchina cedevole ovvero dall'impossibilità per il conducente di accorgersi del rischio. Del resto è pacifico, prosegue la sentenza, che lo sfortunato conducente «circolava su strada rettilinea e pianeggiante, non procedeva a lavorazioni su terreni scoscesi o con notevole pendenza, per cui non aveva nessun obbligo di azionare il dispositivo di sicurezza» (articolo ItaliaOggi del 01.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità prevista dall’art. 63 del T.U. ee.ll. per la pendenza di una lite civile od amministrativa con il Comune. Decadenza del Sindaco e nomina del Commissario prefettizio nel caso in cui la sentenza non sia ancora passata in giudicato.
E’ illegittimo il decreto con il quale il Prefetto ha dichiarato la decadenza del Sindaco dalla carica ricoperta, che sia motivato con riferimento all’accertamento, con sentenza di primo grado confermata in appello, della causa di incompatibilità di cui all’art. 63, c. 1, n. 6, del D.P.R. n. 267 del 2000 (TUEL), per avere egli un debito liquido ed esigibile nei confronti del Comune, nel caso in cui la sentenza non sia ancora passata in giudicato (nella specie avverso la sentenza di appello l’interessato aveva proposto ricorso innanzi alla Corte di Cassazione, ancora pendente alla data di adozione del decreto prefettizio) (1).
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(1) Cfr. Cassazione civile , sez. II, 26.03.2009, n. 7369.
Ha osservato la sentenza in rassegna che, al di fuori delle statuizioni di condanna consequenziali, le sentenze di accertamento (e quelle costitutive) non hanno, ai sensi dell'art. 282 c.p.c., efficacia anticipata rispetto al momento del passaggio in giudicato; e ciò sul rilievo che la norma citata, nel prevedere la provvisoria esecuzione delle sentenze di primo grado, intende necessariamente riferirsi soltanto a quelle sentenze (di condanna) suscettibili del procedimento di esecuzione disciplinato dal terzo libro del codice di procedura civile
(commento tratto da www.regione.piemonte.it - TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 07.07.2011 n. 963 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Liquami zootecnici.
Relativamente alla questione della disponibilità dei terreni interessati dall’attività di spandimento dei liquami zootecnici, allorché sorga un contrasto tra privati in ordine all’uso di date aree, l’Amministrazione deputata al rilascio del titolo abilitativo per lo svolgimento di specifiche attività in quell’ambito territoriale deve necessariamente tenere conto dello stato di materiale detenzione del bene e non già della formale disponibilità giuridica dello stesso, giacché è dal suo effettivo impiego che deriva il presupposto perché sia riconosciuta, in quella fase storica, all’uno anziché all’altro soggetto la capacità di operarvi (tratto da www.lexambiente.it - TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I, sentenza 28.06.2011 n. 217 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sussistenza della necessità di produrre i titoli da parte del candidato, anche se si tratta di titoli relativi alla stessa P.A. che ha indetto il concorso.
Nell’ambito del procedimento di un concorso pubblico, i titoli che il candidato intende sottoporre alla valutazione della commissione giudicatrice, onde ottenerne l’attribuzione del relativo punteggio, rientrano nella sua piena disponibilità, di modo che non possono essere attribuiti al candidato punteggi per titoli non allegati (anche se afferenti ad attività svolte presso la medesima amministrazione che ha indetto il concorso), né titoli il cui possesso è indicato, ma non documentato, nel caso in cui una prescrizione del bando preveda un onere di allegazione documentale a carico del candidato (Nella specie una specifica prescrizione del bando prevedeva che i titoli che si intendevano far valutare ai fini dell’assegnazione del relativo punteggio dovevano risultare dalla documentazione presentata con la domanda di partecipazione, entro il termine perentorio previsto; l’appellante tuttavia non aveva prodotto la documentazione attestante il titolo di comando per un periodo superiore a cinque anni, con conseguente mancata assegnazione del relativo punteggio) (commento tratto da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.06.2011 n. 3659 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: SERVIZIO DISTRIBUZIONE GAS NATURALE.
L'articolo 3, comma 3, del decreto del Ministero dello sviluppo economico del 19.01.2011 stabilisce che “a decorrere dall'entrata in vigore del presente provvedimento le gare per l'affidamento del servizio di distribuzione gas, previsto dall'articolo 14, comma 1, del decreto legislativo n. 164/2000, per le quali non è stato pubblicato il bando o non è decorso il termine per la presentazione delle offerte di gara sono aggiudicate unicamente relativamente agli ambiti determinati nell'allegato 1, facente parte integrante del presente provvedimento”. Ora, il secondo ed ulteriore parametro previsto dalla disposizione, ossia la scadenza del termine per la presentazione delle offerte, è indicato in via alternativa (con la formula “o”) e sembra rinviare ai metodi di scelta del contraente non accompagnati dalla preventiva redazione di un bando di gara.
E' quanto statuito dal TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, con l'ordinanza 28.04.2011 n. 413, ove vengono fornite le prime ed importanti precisazioni in relazione al decreto attuativo degli A.TE.M..
Dunque, dopo anni di incertezza normativa, il 31.03.2011 è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 74 del 31.03.2011 il decreto del Ministero dello Sviluppo Economico 19.01.2011, che disciplina gli Ambiti Territoriali Minimi. Precisamente, la disciplina può essere così riassunta:
a) Gli Ambiti Territoriali Minimi per lo svolgimento delle gare e l'affidamento del servizio di distribuzione del gas sono determinati in numero di 177.
b) Con successivo decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro per i rapporti con le Regioni e la Coesione territoriale, da comunicare alla Conferenza Unificata, saranno indicati i Comuni appartenenti a ciascun ambito territoriale. Viene precisato che, al fine di semplificare le operazione di aggregazione degli enti locali, è introdotto un limite di 50 sul numero massimo di Comuni presenti in un ambito, purché riguardino almeno 50.000 clienti.
c) Gli Enti locali di ciascun ambito territoriale minimo dovranno affidare il servizio di distribuzione gas tramite gara unica, cioè al gestore risultato vincitore nell'ambito territoriale minimo a cui appartengono.
d) La gara unica può essere estesa a due o più ambiti confinanti previo accordo degli enti locali degli ambiti interessati.
e) Nel periodo di prima applicazione del nuovo sistema, il gestore risultato vincitore della gara d'ambito subentra progressivamente nell'affidamento del servizio dei vari impianti di distribuzione gas dell'ambito territoriale minimo alla scadenza delle singole concessioni presenti nell'ambito, a meno di una loro anticipata risoluzione concordata fra il gestore uscente e l'Ente locale.
f) Con delibera dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas, sono stabilite misure volte a incentivare l'anticipata risoluzione delle predette concessioni, nonché misure volte a incentivare l'aggregazione degli ambiti territoriali minimi, che presentano un numero di clienti inferiore a 100.000.
g) Ai sensi dell'articolo 46-bis, comma 2, del decreto legge 01.10.2007, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 29.11.2007, n. 222, a decorrere dall'entrata in vigore del decreto (01.04.2011), le gare per l'affidamento del servizio di distribuzione gas, per le quali non e' stato pubblicato il bando o non e' decorso il termine per la presentazione delle offerte di gara, sono aggiudicate unicamente relativamente agli ambiti ora determinati.
h) Il gestore uscente, ai sensi dell'articolo 14, comma 7, del decreto legislativo 23.05.2000, n. 164, resta comunque obbligato a proseguire la gestione del servizio fino alla data di decorrenza del nuovo affidamento.
Quindi, dovrà essere emanato il decreto, contenente la distribuzione dei Comuni nei rispettivi ambiti ed il regolamento dei criteri di gara. Viceversa, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 102 del 04.05.2011, il decreto del 21.04.2011 “Tutela Occupazione”, cioè contenente disposizioni dirette a governare gli effetti sociali connessi ai nuovi affidamenti.
Non c'è dubbio che il punto maggiormente controverso del novello decreto è quello contenuto nell'articolo 3, comma 3°, del decreto, cioè il punto “g”, che può essere così sintetizzato:
- dall'01.04.2011, sono aggiudicate, solo relativamente agli ambiti, le gare già indette, “per le quali non e' stato pubblicato il bando o non e' decorso il termine per la presentazione delle offerte di gara”. Ora, cosa si deve intendere per gare, per le quali non è intervenuta la pubblicazione del bando “o” per le quali non è decorso il termine di presentazione delle offerte? Quale valore occorre dare alla congiunzione “o”?
Per intendere correttamente la disposizione normativa in esame, occorre concentrarsi sulla seconda domanda, cioè sul valore della congiunzione. Allora, deve essere precisato che la congiunzione “o” può esprimere due valori:
1) un valore di disgiunzione, cioè di esclusione di due concetti o cose;
2) un valore di esplicazione, cioè di precisazione e correzione di un precedente concetto o cosa.
In senso di esclusione, la congiunzione si suole premettere anche al primo concetto, ponendo così in corrispondenza reciproca più concetti e facendone spiccare l'alternativa. In senso di esplicazione, la congiunzione non si suole porre davanti al primo concetto, ma solo ai seguenti, e talora si rafforza cangiandosi in ovvero, ossia, etc..
Ora, secondo una prima interpretazione (accolta, da notizie informali, in via non ufficiale dal Ministero delle Attività Produttive), il valore da attribuire è quello esplicativo:
- ai fini del fattuale blocco delle gare, non basta la pubblicazione del bando, ma occorre che sia decorso il termine di presentazione delle offerte. Viceversa, secondo altra interpretazione, occorre attribuire un valore disgiuntivo: o l'uno o l'altro. In altri termini, in mancanza della pubblicazione del bando, la procedura di gara può proseguire se non è scaduto il termine di presentazione delle offerte.
Orbene, il Tar Brescia, nell'ordinanza in esame, aderisce al secondo orientamento e statuisce quanto segue:
a) l'entrata in vigore del decreto ministeriale non sembra incidere sulle determinazioni del Comune;
b) il bando risulta ritualmente pubblicato in data anteriore all'operatività della novella normativa, ed è, pertanto, idoneo a produrre i suoi effetti secondo il principio “tempus regit actum”;
c) che l'ulteriore parametro – ossia la scadenza del termine per la presentazione delle offerte – è indicato in via alternativa (con la formula “o”) e sembra rinviare ai metodi di scelta del contraente non accompagnati dalla preventiva redazione di un bando di gara. In altri termini, secondo il Tar Brescia, l'espressione disgiuntiva utilizzata nel decreto sembra alludere a due diverse tipologie di gara:
- procedura aperta o ristretta, in relazione alla pubblicazione del bando;
- procedura negoziata senza previa pubblicazione di bando di gara, in relazione al termine per la presentazione delle offerte.
Le statuizioni del Tar Brescia sono, in linea generale, condivisibili, in quanto il valore della congiunzione “o” sembra essere disgiuntivo e non esplicativo. Tuttavia, l'adesione a tale indirizzo, che si ribadisce appare il più convincente, sembra alludere ad una possibilità di scelta di tipologia di gara, cioè al fatto che il Comune, ai fini dell'affidamento del servizio di distribuzione gas naturale, possa scegliere liberamente fra procedura aperta e ristretta, da un lato, e procedura negoziata senza previo bando dall'altro.
Invero, tale possibilità è stata smentita dalla più recente giurisprudenza, che ha statuito la legittimità delle sole procedure aperte e ristrette: “l'affidamento della concessione del servizio di distribuzione del gas naturale non può essere effettuato attraverso una procedura negoziata, senza previa pubblicazione di bando di gara, in quanto il comma 4° dell'articolo 30 del Codice dei contratti (D.Lgs. n. 163/2006), in tema di concessione di servizi, fa espressamente salve discipline specifiche, che prevedono forme più ampie di tutela della concorrenza quali, appunto, quelle di cui al D.Lgs. n. 164/2000.
Il Collegio riconosce che l'articolo 14 del citato D.Lgs. n. 164/2000 si riferisce genericamente a “gare”, senza specificarne la tipologia (aperta, ristretta o negoziata), ma osserva che lo stesso articolo, al comma 5°, introduce principi di concorrenza e di ampia partecipazione, che lasciano intendere il disfavore del Legislatore verso affidamenti diretti o a mezzo di procedure non ad evidenza pubblica
” (Tar Marche, sez. I, 06.12.2010, n. 3412).
A ben vedere, la soluzione interpretativa del Tar Marche può essere accolta, in quanto si palesa conforme all'articolo 54 del Codice dei contratti pubblici (D.Lgs n. 163/2006), secondo il quale procedura aperta e procedura ristretta costituiscono e rappresentano gli ordinari modelli di scelta del contraente, mentre le negoziate possono essere utilizzate solo alle “condizioni specifiche espressamente previste
(tratto dalla newsletter di
www.centrostudimarangoni.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPer "mobbing" (da lavoro) si intende “una successione di fatti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro con intento emulativo ed al solo scopo di recare danno al lavoratore, rendendone penosa la prestazione, condotti con frequenza ripetitiva ed in un determinato arco temporale sufficientemente apprezzabile e valutabile”; in altri termini, "l'insieme delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato.
Sicché, la sussistenza della lesione, del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata -procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi- considerando l'idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa".
In sostanza, la condotta mobbizzante si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
L’accertamento della sussistenza del danno da mobbing, quindi, comporta una valutazione complessiva dei danni lamentati dall’interessato, i quali devono essere considerati in modo unitario, tenuto conto, da un lato dell’idoneità offensiva della condotta datoriale, come desumibile dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione e, dall’altro, dalla connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della richiamata condotta; pertanto la ricorrenza di una condotta mobizzante deve essere esclusa:
- quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo, o imprenditoriale, nel caso del lavoro privato; o, infine, vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale;
- tutte le volte che la valutazione complessiva dell’insieme delle circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminatorio nei confronti del singolo dal complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.
Dunque, gli elementi strutturali della condotta mobbizzante, sono dati:
1) dalla molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
2) dall'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
3) dal nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore.

Per "mobbing" (da lavoro), secondo la giurisprudenza si intende “una successione di fatti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro con intento emulativo ed al solo scopo di recare danno al lavoratore, rendendone penosa la prestazione, condotti con frequenza ripetitiva ed in un determinato arco temporale sufficientemente apprezzabile e valutabile” (Trib. civ. Milano 15.05.2006) ovvero per usare le parole della Suprema Corte, "l'insieme delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. Sicché, la sussistenza della lesione, del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata -procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi- considerando l'idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa" (Cass. civ, lav., 06.03.2006, n. 4774; 09.09.2008, n. 22858; 17.02.2009, n. 3785).
In sostanza, la condotta mobbizzante si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
L’accertamento della sussistenza del danno da mobbing, quindi, comporta una valutazione complessiva dei danni lamentati dall’interessato, i quali devono essere considerati in modo unitario, tenuto conto, da un lato dell’idoneità offensiva della condotta datoriale, come desumibile dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione e, dall’altro, dalla connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della richiamata condotta; pertanto la ricorrenza di una condotta mobizzante deve essere esclusa:
- quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo, o imprenditoriale, nel caso del lavoro privato; o, infine, vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale (cfr. Cons. Stato, VI, 06.05.2008, n. 2015);
- tutte le volte che la valutazione complessiva dell’insieme delle circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminatorio nei confronti del singolo dal complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro (cfr. Cons. St. nr. 4738 del 2008).
È stato da ultimo messo in risalto che il tratto strutturante del "mobbing" -tale da sottrarlo all’area dei comportamenti che sarebbero confinati nell'ordinaria dinamica, ancorché conflittuale, dei rapporti di lavoro- è proprio la sussistenza di una condotta volutamente prevaricatoria da parte del datore di lavoro volta a emarginare o estromettere il lavoratore dalla struttura organizzativa.
Pertanto, in ordine all'onere della prova da offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobbizzante, quest'ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l'asserito intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo (cfr. TAR Lombardia, Milano, I, 11.08.2009, n 4581; TAR Lazio, Roma, III, 14.12.2006, n. 14604).
In altri termini, il mobbing -proprio perché non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo- non può essere imputato in via esclusiva ma anche prevalente al vissuto interiore del soggetto, ovvero all'amplificazione da parte di quest'ultimo delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno (cfr. TAR Lazio, Roma, I, 07.04.2008, n. 2877).
D'altra parte, come è stato condivisibilmente affermato (cfr. Tar PG nr. 469 del 2010), nell'esaminare i casi di preteso "mobbing" il Giudice deve evitare di assumere acriticamente l'angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima. Da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro, pur se oggettivamente sgraditi, non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica (per tacere dell'ipotesi, non scartabile a priori, che la rappresentazione delle sofferenze sia inveritiera e meramente strumentale allo scopo di supportare una domanda di risarcimento).
Da un altro lato, è possibile che gli atti del datore di lavoro (di nuovo, pur sgraditi) siano di per sé ragionevoli e giustificati e in particolare che abbiano una certa giustificazione o quanto meno spiegazione siccome indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, difficoltà caratteriali, etc.. Non si deve cioè sottovalutare l'ipotesi che l'insorgere di un clima di cattivi rapporti umani derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell'interessato. Tale ipotesi può anzi essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale.
Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando, come nel caso in esame, l'ambiente di lavoro è un Corpo di Polizia, caratterizzato, per definizione, da una severa disciplina e dove non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate. In questa situazione, un approccio condizionato dalla rappresentazione soggettiva (se non strumentale) fornita dall'interessato può essere quanto mai fuorviante.
Dunque, gli elementi strutturali della condotta mobbizzante, sono dati:
1) dalla molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
2) dall'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
3) dal nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore.
Ai fini risarcitori è quindi necessaria:
- la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (Cassazione Sez. L, Sentenza n. 3785 del 17/02/2009);
- la prova del danno all’integrità subito;
- che sia dimostrato il nesso causale tra il comportamento del datore di lavoro e lo stato di prostrazione (cfr, ex plurimis, Cass.civ. III, 16148/2010).
Per quanto riguarda quest’ultimo elemento v’è poi da poi da ricordare che la Corte regolatrice, con l’Ord. n. 22101/2006, ha ritenuto questo Tribunale quale Giudice competente a conoscere della controversia introdotta col ricorso in epigrafe; e tanto ha statuito in quanto, avvalendosi (ai fini del riparto di giurisdizione) del criterio del c.d. petitum sostanziale, ha dato risalto alla circostanza che il ricorrente, nel caso di specie, “non sono parla di mobbing-bossing ma pone a fondamento della domanda atti dispositivi dei suoi superiori relativi alle mansioni, e cioè atti tipicamente relativi al rapporto di lavoro”.
E’ dunque non revocabile in dubbio che l'azione risarcitoria in trattazione rinvenga il proprio presupposto nell'espletamento dell'attività lavorativa da parte del ricorrente e nella ritenuta violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo su di esso incombente ai sensi dell'art. 2087 cod. civ.; al che accede, in modo pacifico, il carattere contrattuale della proposta azione risarcitoria.
Rebus sic stantibus
, una volta ricondotta la controversia risarcitoria in questione nell'alveo della responsabilità contrattuale ex art. 1218 cod. civ., la distribuzione dell'onere probatorio fra il prestatore (asseritamente) danneggiato ed il datore di lavoro deve essere operata in base al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui grava sul lavoratore l'onere di provare la condotta illecita e il nesso causale tra questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro -in base al principio di inversione dell'onus probandi di cui al richiamato art. 1218 cod. civ.- il solo onere di provare l'assenza di una colpa a se riferibile (in tal senso, ex plurimis: Cass. Civ., Sez. Lavoro, sent. 25.05.2006, n. 12445; id., Sezione Lav., sent. 08.05.2007, n. 10441).
Ne consegue che laddove, quindi, il lavoratore ometta di fornire la prova anche solo, ad es., in ordine alla sussistenza dell'elemento materiale della fattispecie oggettiva (i.e., della complessiva condotta mobbizzante asseritamente realizzata in proprio danno sul luogo di lavoro), difetterà in radice uno degli elementi costitutivi della fattispecie foriera di danno (e del conseguente obbligo risarcitorio), con l'evidente conseguenza che il risarcimento non sarà dovuto, irrilevante essendo, in tal caso, ogni ulteriore indagine in ordine alla sussistenza o meno del nesso eziologico fra la condotta e l'evento dannoso (cfr., in tal senso, Cons. St. nr. 2045 del 2010 e nr. 4738 del 2008) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 08.02.2011 n. 1230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing.
Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza – Rifiuto di svolgere funzioni di Rspp – Demansionamento – Licenziamento individuale – Illegittimità della condotta datoriale – Sussiste.
Nel sistema delineato dal decreto legislativo 19.09.1994, n. 626 la funzione di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, designato dal datore di lavoro (art. 2, lett. e), e quella di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (art. 2, lett. f) non sono cumulabili nella stessa persona. (...) Concentrare nella stessa persona le funzioni di due figure cui il legislatore ha attribuito funzioni diverse, ancorché finalizzate al comune obiettivo della sicurezza del lavoro, significa eliminare ogni controllo da parte dei lavoratori, atteso che il controllato ed il controllante coinciderebbero. (…) Chiaramente diversa è la volontà della legge, che richiede entrambe le figure per una azione di prevenzione costantemente perseguita da parte datoriale e controllata dai lavoratori” (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 15.09.2006 n. 19965 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing – Bossing - Nozione - Disegno vessatorio atto a destabilizzare l’equilibrio psicofisico del lavoratore – Proposta di Declassamento professionale per ristrutturazione aziendale – Indisponibilità dei lavoratori – Loro confinamento in apposito reparto - Condizione di assoluta inerzia in ambiente degradato – Pericolo di definitivo allontamento dal contesto produttivo in mancanza di accettazione della novazione contrattuale peggiorativa - Sussiste.
Può esservi condotta molesta e vessatoria o, comunque mobbing anche in presenza di atti di per sé legittimi e che, simmetricamente,non ogni demansionamento così come non ogni altro atto illegittimo dà luogo, a cascata, a mobbing. Affinché ciò avvenga, è necessario che quell’atto emerga come l’espressione, o meglio come uno dei tasselli, di un composito disegno vessatorio.
In definitiva, per la sussistenza del fenomeno occorre che diverse condotte, alcune o tutte di per sé legittime,si ricompongano in un unicum, essendo complessivamente e cumalativamente idonee a destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del lavoratore. Ciò non toglie, ovviamente, che tali condotte, esaminate separatamente e distintamente, possano essere illegittime e anche integrare fattispecie di reato
".
…tutti i lavoratori avevano …preso coscienza del fatto che la loro destinazione non era affatto temporanea e che la stessa poteva essere rimossa solo con la accettazione della novazione che veniva prospettata…”. Tale destinazione “rappresentava una minaccia per l’allontanamento dal mondo reale del lavoro che comportava e per le sue caratteristiche di anticamera del licenziamento, …posto che erano rientrati nel ciclo produttivo soltanto coloro che avevano accettato la novazione. Nei fatti si era trattato di una collocazione sine die, in quanto i dipendenti avrebbero lasciato la palazzina solo se accettavano le condizioni del datore di lavoro” (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 21.09.2006 n. 31413 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing – Prova degli elementi costitutivi della fattispecie – Non raggiunta – Diritto al risarcimento del danno da mobbing – Non sussiste – Violazione dell’art. 2087 c.c. – Sussiste.
La giurisprudenza è oramai assestata sul punto: l’elemento essenziale per poter configurare un comportamento di mobbing è che la vessazione psicologica sia attuata in modo sistematico, ripetuto per un apprezzabile periodo temporale; solo comportamenti siffatti sono in grado di rendere significativi, da un punto di vista giuridico, atti del datore di lavoro o dei suoi collaboratori che, diversamente, non avrebbero alcuna rilevanza rimanendo nell’ambito dei normali rapporti interpersonali sul luogo di lavoro… è onere del lavoratore che lamenti di aver subito un danno alla salute provare l’esistenza di tale danno e il nesso causale tra la condotta datoriale e il danno subito…
La ricorrente non ha raggiunto la prova degli elementi costitutivi della fattispecie, in quanto i fatti ostili non sono stati né frequenti né duraturi… Vi sono stati comunque comportamenti violativi dell’art. 2087 c.c. lesivi della persona del prestatore di lavoro, che hanno comportato l’insorgere di un danno biologico (TRIBUNALE di Bergamo, Sez. Lavoro, sentenza 08.08.2006 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing nel pubblico impiego.
Mobbing – Demansionamento – Risarcimento del danno biologico ed alla professionalità – Sussiste.
Il danno, di carattere non patrimoniale, alla professionalità “attiene … alla lesione (sia a titolo di responsabilità contrattuale che extracontrattuale) di un interesse costituzionalmente protetto dall’articolo 2 della Costituzione ed ha ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, secondo le mansioni e qualifica spettategli per legge o per contratto.
I provvedimenti del datore che illegittimamente ledono tale diritto hanno quale conseguenza la lesione dell’immagine professionale, della dignità personale e della vita di relazione del lavoratore, sia in tema di autostima ed eterostima nell’ambiente di lavoro o in quello socio familiare sia in termini di perdita di chances per lavori di pari livello (Cass., sez. lav., n. 10157 del 2004). La valutazione di siffatto pregiudizio, che, come già evidenziato, è privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può che essere effettuata in via equitativa
”.
Quanto al danno biologico, “vi è da rilevare al riguardo che il c.t.u. ha ritenuto di diminuire la quantificazione del danno…in considerazione della personalità del ricorrente e di situazioni, preesistenti o concomitanti, attinenti alla sua sfera personale, alle quali ha riconosciuto valore di concausa naturale nella determinazione del danno.
Ritiene il giudice di non poter aderire a tale impostazione, poiché, in base ai principi di cui agli articoli 40 e 41 del codice penale, applicabili in tema di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, «qualora le condizioni ambientali o i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità» (Cass., sez. lav., n. 553 del 2003).
Non è possibile, pertanto, una volta accertata l’effettiva operatività del nesso causale fra comportamento imputabile del danneggiante e pregiudizio arrecato, effettuare alcuna graduazione in termini percentuali, con riferimento alla concausa della condotta colposa, dovendo ritenersi il danneggiante responsabile per l’intero dei danni cagionati
” (TRIBUNALE di Castrovillari, sentenza 20.04.2006 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGOParametri per individuare situazioni di mobbing.
Mobbing – Nozione – Parametri di riconoscibilità del Mobbing – Intento persecutorio.
Il mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente, ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente.
I sette parametri [la cui presenza contestuale consente di riconoscere il mobbing] in questione sono: l’ambiente lavorativo, la frequenza …, la durata…, il tipo di azioni ostili…, e precisamente attacchi ai contatti umani, cambiamenti delle mansioni e attacchi alla reputazione), dislivello fra gli antagonisti, andamento secondo fasi successive … Quanto all’intento persecutorio che caratterizza il mobbing -da intendersi in un’accezione psicologica, come disegno vessatorio perseguito dal mobber, e non penalistica come vero e proprio dolo specifico- il CTU ne ha ritenuto sussistenti i tratti fondamentali, rappresentati dalla contemporanea presenza di una carica emotiva e soggettiva … , di una precisa motivazione del mobber … e di un obiettivo conflittuale, cioè un terreno di scontro privilegiato
”.
Mobbing – Illegittimità – Violazione artt. 2087 cod. civ. e 2043 cod. civ. – Legittimità dei singoli atti che lo compongono – Irrilevanza.
Il comportamento mobbizzante … è certamente illegittimo a prescindere dalla possibile legittimità dei singoli atti che la compongono, in se considerati. Esso infatti rappresenta una violazione dell’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile, nonché del principio generale del minimum laedere di cui all’articolo 2043 del codice civile e in quanto idoneo a provocare un danno, e fonte di responsabilità sia contrattuale che extracontrattuale” (TRIBUNALE di Sondrio, sentenza 09.03.2006 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing:responsabilità del datore di lavoro.
Mobbing – Datore di lavoro – Responsabilità contrattuale – Presunzione legale di colpa – Sussiste.
…ha natura contrattuale … la responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo di sicurezza (articolo 2087 del codice civile) …Dalla prospettata natura contrattuale della responsabilità, la stessa giurisprudenza ricava…significative implicazioni sul piano della distribuzione degli oneri probatori relativi … infatti, la presunzione legale di colpa -stabilita (dall’articolo 2118 del codice civile)- a carico del datore di lavoro inadempiente all’obbligo di sicurezza …- deroga, parzialmente, il principio generale (articolo 2697 del codice civile), che impone -a “chi vuol far valere un diritto in giudizio”- l’onere di provare “i fatti che ne costituiscono il fondamento”.
Non ne risulta, tuttavia, una ipotesi di responsabilità oggettiva, né la dispensa, da qualsiasi onere probatorio, del lavoratore danneggiato. Questi, infatti, resta gravato … dell’onere di provare il “fatto” costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre esula dall’onere probatorio a carico del lavoratore … la prova della colpa del datore di lavoro danneggiante …è lo stesso datore di lavoro, infatti, ad essere gravato … dell’onere di provare la non imputabilità dell’inadempimento
”.
Art. 2087 cod. civ. – Misure di sicurezza innominate – Omissione – Prova liberatoria a carico del datore di lavoro – Contenuto.
Affatto diverso risulta, tuttavia, (anche) il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza -asseritamente omesse- siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte parimenti vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici…, oppure debbano essere ricavate dalla stessa disposizione (articolo 2087 del codice civile, cit.) che impone l’obbligo di sicurezza. Nel primo caso -di misure di sicurezza (o prevenzione), per cosi dire, nominate- il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa -cioè il rischio specifico, che s’intende prevenire o contenere- nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito.
La prova liberatoria a carico del datore di lavoro, poi, parimenti si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore…Nel secondo caso - di misure di sicurezza (o prevenzione), per cosi dire, innominate - fermo restando l’onere probatorio a carico del lavoratore, la prova liberatoria, a carico del datore di lavoro, risulta invece variamente definita in relazione alla quantificazione della diligenza (ritenuta) esigibile –nella predisposizione di quelle misure di sicurezza- e perciò registra, anche in giurisprudenza, significative oscillazioni…tra l’imposizione al datore di lavoro dell’onere di provare l’adozione di ogni misura idonea ad evitare l’infortunio dedotto in giudizio (vedi, per tutte, Cassazione n. 9401 del 1995) oppure soltanto l’adozione di comportamenti specifici, non imposti dalla legge (o da altra fonte di diritto parimenti vincolante), ma suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, standard di sicurezza adottati normalmente o da altre fonti analoghe (vedi, per tutte, Corte costituzionale n. 312 del 1996, Cassazione, sent. n. 16250 del 2003 e n. 3740 del 1995)
”.
Misure di sicurezza – Omessa vigilanza – Responsabilità del datore di lavoro – Sussiste – Prova liberatoria – Contenuto.
Il datore di lavoro, poi, é responsabile dei danni subiti dal proprio dipendente, non solo quando ometta di adottare idonee misure protettive, ma anche quando ometta di controllare e vigilare che di tali misure sia fatto effettivamente uso (anche) da parte dello stesso dipendente, con la conseguenza che -secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 16250 del 2003, n. 2357 del 2003, n. 15133 del 2002, cit., n. 9304 del 2002, n. 9016 del 2002, n. 5024 del 2002, n. 326 del 2002, n. 7052 del 2001, n. 13690 del 2000, n. 6000 del 1998, n. 4227 del 1992)- si può configurare un esonero totale di responsabilità, per il datore di lavoro appunto, solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’abnormità e dell’assoluta imprevedibilità (sullo specifico punto, vedi, per tutte, Cassazione n. 13690 del 2000 e n. 326 del 2002, cit.) … Né lo stesso datore di lavoro…assolve l’onere della prova liberatoria” quando, come nel caso di specie, “lungi dall’allegare (e, tantomeno, dal dimostrare) l’adozione di una qualsiasi misura idonea a prevenire il dedotto evento dannoso, si limita alla deduzione di una propria iniziativa (quale il deferimento, al collegio dei probiviri, del responsabile dei «fatti mobbizzanti»), volta alla repressione -non già alla prevenzione- degli stessi …”  (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 08.03.2006 n. 12445 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing – Violazione obbligo di sicurezza – art. 2087 cod. civ. – Sussiste – Modalità.
È riconducibile al fenomeno del mobbing la condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’articolo 2087 del codice civile; tale illecito, che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posta da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato
” (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 06.03.2006 n. 4774 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing e molestie sessuali: differenza.
Mobbing – Realizzazione attraverso atti che configurano molestie sessuali sul luogo di lavoro – Distinzione – Rilevanza dell’elemento psicologico dell’autore – Intento di emarginazione – Contesto mobizzante – Sussiste.
Capita sovente che le condotte di mobbing possano realizzarsi anche attraverso vere e proprie molestie sessuali ed allora appare problematico distinguere le due figure. …due sono le differenze fondamentali. La molestia sessuale può essere costituita anche da un solo atto, il mobbing deve essere sistematico. Il molestatore ha, nei confronti della vittima, un chiaro intento libidinoso, il mobber può tendere a dare fastidio, punire, denigrare, espellere. In sostanza la molestia sessuale è una manovra di avvicinamento, il mobbing è una strategia di allontanamento. … La possibile linea di demarcazione tra le due condotte prese in considerazione, cioè molestia sessuale e mobbing, può essere rappresentata dall’elemento psicologico dell’autore. …se l’autore delle molestie avrà avuto solo intenti di natura sessuale, senza ricercare ulteriori scopi dalla propria condotta, allora la fattispecie sarà riconducibile alle molestie sessuali.
Si realizzano, per altro, nella realtà molte altre situazioni nelle quali il contenuto sessuale costituisce più lo sfondo, lo strumento per la molestia piuttosto che il fine: pensiamo ad ambienti di lavoro maschili nei quali alla collega donna viene fatto subire un linguaggio volgare e pieno di doppi sensi: in caso come questo l’intento degli autori è molto più l’emarginazione che non la provocazione sessuale e, conseguentemente, la casistica potrà ricondursi a singoli episodi in un contesto mobbizzante
” (TRIBUNALE di Forlì, sentenza 02.03.2006 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGODemansionamento e sua risarcibilità.
Mutamento delle mansioni in senso riduttivo – Dequalificazione professionale non automatica – Demansionamento – Sussistenza – Presunzioni.
…non ogni modificazione delle mansioni in senso riduttivo comporta un'automatica dequalificazione professionale, la quale trova la sua essenza nell'abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle sue capacita ed una consequenziale apprezzabile menomazione non transeunte della sua professionalità, nonché con perdita di immagine e di chances professionali; l'esistenza di tali pregiudizi può essere provata anche attraverso presunzioni valorizzando le circostanze del caso concreto quali:
a) la distanza tra le mansioni espletate in precedenza e quelle di nuova assegnazione ritenute inferiori (Cass. 16.08.2004, n. 15955; Cass. 13.05.2004, n. 9129);
b) la durata del demansionamento (Cass. n. 15955 del 2004, cit.; Cass. n. 16797 del 2003, cit.; Cass. n. 9129 del 2004, cit.);
c) la posizione gerarchica perduta dal lavoratore (Cass. n. 15955 del 2004, cit.; Cass. n. 16797 del 2003, cit.);
d) la sua anzianità di servizio (Cass. n. 15955 del 2004; Cass. n. 16797 del 2003, cit.);
e) l'elemento psicologico della condotta del datore di lavoro (Cass. n. 16797 del 2003, cit.)
”.
Mutamento delle mansioni in senso riduttivo – Demansionamento – Sussiste – Tipologie di danni causati al lavoratore – Risarcibilità.
…il demansionamento (inteso come mancata adibizione del lavoratore a mansioni non corrispondenti al suo inquadramento contrattuale ed alla professionalità da lui maturata) può costituire la fonte di danni suscettibili di risarcimento, i quali possono consistere:
1) nel danno esistenziale quale:
A) lesione del diritto alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro (danno non patrimoniale alla professionalità in senso soggettivo) -cfr. specialmente, di recente, Cass. 26.05.2004, n. 10157;
B) lesione alla capacità professionale del lavoratore derivante o dall'impoverimento della capacità acquisita o dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità (danno non patrimoniale alla professionalità in senso oggettivo) -cfr. specialmente, di recente, Cass. 07.09.2005, n. 17812; Cass. 27.06.2005, n. 13719;
C) pregiudizio all'immagine ed alla dignità personali - cfr. specialmente, di recente, Cass. 17812/2005 cit.; Cass. 10.06.2004, n. 11045; Cass. 10157/2004 cit.;
D) nel pregiudizio alle chances professionali - cfr. specialmente, di recente, Cass. 17812/2005 cit.; Cass. 13719/2005 cit.; Cass. 10157/2004 cit.;
2) nel danno biologico quale lesione all'integrità psichica e fisica suscettibile di accertamento medico-legale -cfr. specialmente, di recente, Cass. 17812/2005; Cass. 11045/2004;
3) nel danno morale soggettivo quale transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima; (secondo gli insegnamenti di Corte Cost. 233/2003 cit; Cass. 8827/2003; Cass. 8828, essendo indubbio il rilievo costituzionale, quanto meno in relazione al precetto ex art. 2 Cost., dell'Interesse del prestatore violato dal demansionamento -cfr. sul punto Cass. 10157/2004 cit.;);
4) nel pregiudizio economico per la perdita di ulteriori possibilità di guadagno (danno patrimoniale da lucro cessante -cfr. specialmente, di recente, Cass. 11045/2004 cit.- mentre quello da danno emergente e escluso in radice dal principio, espressamente richiamato dall'art. 2103, del principio dell'irriducibilità della retribuzione - secondo quanto precisato da Cass. 08.11.2003, n. 16792)
” (TRIBUNALE di Trento, sentenza 07.02.2006 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGODanno alla professionalità da mobbing.
Mobbing – Nozione – Trattamenti vessatori continuati – Demansionamento – Sussiste.
Ciò che distingue il mobbing dal conflitto puro e semplice nei rapporti interpersonali è appunto il continuo ripetersi in un arco di tempo di una certa durata del trattamento vessatorio inflitto alla vittima …” nel caso di specie, oltre “agli episodi direttamente riconducibili al demansionamento in senso stretto, si possono ricordare quelli delle continue sollecitazioni al ricorrente di trovare altro lavoro, anche presso i clienti cui era inviato per colloqui, come pure la vicenda del paventato mancato pagamento della retribuzione per più mesi, poi non verificatosi, l'eliminazione della sua postazione di lavoro con sottrazione del personal Computer assegnato, le convocazioni improvvise presso la capogruppo, cui vanno aggiunti l'episodio dell'attesa interminabile per un colloquio con l'A., deciso da quest'ultimo, e della contestazione disciplinare dell'01.07.2002 per insubordinazione…” .
Mobbing – Danno alla professionalità e biologico – Dipendente informatico, lasciato in condizioni di inattività e sollecitato alle dimissioni – Sussiste – Risarcimento – Quantificazione in via equitativa – Parametro – Retribuzione base lorda del ricorrente.
… la giurisprudenza, in generale, definisce come danno alla professionalità quello che colpisce le conoscenze professionali acquisite da un soggetto nella sua esperienza lavorativa, a seguito, come nei caso in esame, di un periodo di sostanziale totale inattività lavorativa ovvero di attività lavorativa in professionalità più basse da quelle acquisite in precedenza”.
Per quanto concerne la prova del danno di dequalificazione, da seguire è “l’orientamento che utilizza criteri di esperienza comune, quali la quantità e qualità dell'esperienza lavorativa pregressa, il tipo di professionalità colpito, la durata del demansionamento e l'esito finale della dequalificazione”, procedendo alla sua quantificazione in via equitativa ex articolo 1226 del codice civile, utilizzando come parametro la retribuzione base lorda del ricorrente (TRIBUNALE di Milano, sentenza 04.01.2006 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing – Bossing – Nozione – Strategia aziendale volta a ridurre il personale o eliminare i dipendenti non graditi – Confinamento in specifico reparto – Totale inattività e degrado ambientale – Pericolo di definitiva estromissione dal contesto produttivo aziendale - Configurabilità.
Consona al caso di specie sarebbe quella specifica variante del fenomeno Mobbing conosciuta con Bossing…che ha la forma di una vera e propria strategia aziendale volta a ridurre il personale o eliminare dipendenti “non graditi”: in tal caso sono i quadri o i dirigenti ad agire.
A differenza del Mobbing, che non ha sempre un’origine razionale, qui lo scopo è perseguito con lucidità : indurre alle dimissioni il dipendente eludendo così eventuali problemi di origine sindacale e le leggi sul licenziamento e ciò con i mezzi più fantasiosi spesso sottili e disinvolti, purché capaci di procurare intorno all’interessato un’atmosfera di tensione insostenibile mirando alla sua distruzione psicologica, ad esempio affidandogli mansioni dequalificanti
” (Corte d'Appello-Lecce, sentenza 10.08.2005  - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Ricostruzione del concetto di mobbing e risarcimento.
Condotta molesta – decreto legislativo n. 216/2003 – Nozione.
Ai sensi e per gli effetti del decreto legislativo n. 216/2003 (di attuazione della direttiva comunitaria 200/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), per la prima volta il legislatore fornisce la definizione di condotta molesta, riconducendola a quel comportamento indesiderato, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e ricreare un clima di intimidazione, ostilità, degrado, umiliazione ed offesa per la vittima”.
Mobbing – Nozione – Pluralità di condotte vessatorie – Necessità.
“Le condotte che costituiscono il dato materiale nel quale si realizza il mobbing possono essere le più varie ma è fondamentale che siano plurime in quanto un solo comportamento, ad esempio il più diffuso quale il demansionamento, non provocherà mobbing anche perché tale figura complessa non risulterà necessaria per essere utilizzata dal soggetto che ha subito dei danni essendo sufficiente il riferimento al demansionamento, già adeguatamente studiato dalla giurisprudenza del lavoro”
Mobbing – Nozione – Finalità persecutoria delle azioni contestate – Necessità.
Ferma restando la necessità di una definizione normativa, anche soltanto per chiarire definitivamente la materia, …il concetto di mobbing non si esaurisce in una comodità lessicale ma contiene un valore aggiunto perché consente di arrivare a qualificare come tale e a sanzionare anche quel complesso di situazioni che, valutate singolarmente, potevano anche non contenere elementi di illiceità, ma che, considerate unitariamente ed in un contesto appunto ‘mobilizzante’, assumono un particolare valore molesto ed una finalità persecutoria che non sarebbe stato possibile apprezzare senza il quadro d’insieme che il mobbing consente di valutare”.
Mobbing – Concorrenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale – Sussiste – Conseguenze e danni risarcibili.
In caso di mobbing è ben possibile la concorrenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, posto che, da un lato, qualsiasi azione ingiusta potenzialmente è in grado di generare una responsabilità extracontrattuale, a condizione che ci sia dolo o colpa in chi la commette, ed un conseguente danno; dall’altro, non è escluso a priori che l’azione ingiusta non sia realizzata in un contesto contrattuale, cioè nell’ambito di un rapporto tra parti legate da vincolo contrattuale: in tal caso l’azione ingiusta realizzata da un contraente determinerà anche una responsabilità contrattuale.
Nel primo caso, la regola (art. 2043 cod. civ. e seguenti) non rispettata potrà determinare potenziali danni sia patrimoniali che non patrimoniali, alla luce del disposto dell’art. 2059 cod. civ. recentemente rivitalizzato dalle sentenze della Corte di cassazione e della Coste costituzionale del 2003 sul tema; nel secondo caso (art. 1218 cod. civ., alla luce dell’art. 1321 cod. civ. e seguenti) esclusivamente danni patrimoniali.
Peraltro la coesistenza tra il profilo di responsabilità extracontrattuale e contrattuale costituirà un vantaggio per il danneggiato, in quanto il mancato rispetto della regola contrattuale (ad esempio l’art. 2087 cod. civ. per il lavoro) potrà costituire il profilo di colpa richiesto per la realizzazione della fattispecie ex art. 2043 cod. civ. e, conseguentemente, esonerare dalla ricerca dell’elemento psicologico. Sarà, dunque, sempre utile rilevare, ove sussistente, la presenza del doppio profilo di responsabilità.
…Nelle situazioni di lesione dei diritti fondamentali del lavoratore si viene immancabilmente a provocare un danno allo stesso. Ci potrà essere un danno alla salute … ed allora interverrà anche la categoria del danno biologico; potrà esserci un danno patrimoniale, con il conseguente risarcimento; nelle ipotesi riconducibili a reato potrà intervenire anche la categoria del danno morale soggettivo ex art. 185 cod. pen.; tutte queste categorie sono, per altro, soltanto eventuali ma sempre ed immancabilmente la lesione dei diritti fondamentali del lavoratore produrranno un danno di altra categoria che definire esistenziale appare assolutamente opportuno …
In ipotesi di mobbing, il lavoratore potrà richiedere oltre al danno biologico, anche il danno esistenziale, consistente nelle ferite inferte alla sfera di autostima ed eterostima in ambito lavorativo ed alla sua immagine professionale, che ne è uscita ridimensionata senza sua colpa, a seguito della condotta vessatoria subita
” (TRIBUNALE di Forlì, sentenza 28.01.2005 n. 28 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Datore di lavoro – Poteri - Declassamento professionale dei lavoratori per ristrutturazione aziendale – Indisponibilità – Confinamento in specifico reparto – Condizione di totale inattività e ambiente degradato – Reato di violenza privata – Sussiste – Danni subiti dai lavoratori - Risarcibilità.
La destinazione allo specifico reparto “non altro era che un tassello della strategia aziendale, utile al fine di attuare il programma di ristrutturazione aziendale, portato avanti in maniera spicciola ed informale e che consentiva di collocare fisicamente, in quello spazio, quei dipendenti che non avessero accettato subito la nuova situazione di esubero, venutasi a creare, ed il conseguente declassamento loro proposto.
Per cui la funzione intimidatrice che essa aveva, non era tanto e solo ricollegabile all'idea di un luogo dove non si lavorava, dove concetti quali mansioni e professionalità certo non potevano albergare, ma era anche simbolica, in quanto rappresentava l'allontanamento traumatico dal mondo del lavoro, il precipitare di una situazione lavorativa sino ad allora normale, la possibile anticamera del licenziamento, la fine di ogni possibilità di continuare a fare ciò per il quale si era stati assunti
” (TRIBUNALE di Taranto, Sez. II, sentenza 07.03.2002 n. 742  - link a http://olympus.uniurb.it).

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