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AGGIORNAMENTO AL 29.09.2011 |
ã |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Comunicazione di eseguita
attività (c.e.a.) ex art. 41, comma 2, L.R.
n. 12/2005 ed esame impatto paesistico dei
progetti (Regione Lombardia, Giunta
Regionale, Direzione Generale Sistemi Verdi
e Paesaggio, Progetti Integrati Paesaggio,
Paesaggio,
nota
26.09.2011). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI:
Comuni sotto i mille abitanti: il
Governo crea scatole vuote e lascia intatte
le poltrone
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 24.09.2011). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
APPALTI: G.U.
28.09.2011 n. 226, suppl. ord. n. 214, "Codice
delle leggi antimafia e delle misure di
prevenzione, nonché nuove disposizioni in
materia di documentazione antimafia, a norma
degli articoli 1 e 2 della legge 13.08.2010,
n. 136" (D.Lgs.
06.09.2011 n. 159). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
A. Vetro,
Il danno erariale conseguente alla
violazione delle norme comunitarie ed
interne di evidenza pubblica. I contrasti
giurisprudenziali della Corte dei conti sul
c.d. “danno alla concorrenza”
(link a www.amcorteconti.it). |
ENTI LOCALI:
A. Vetro,
L’arricchimento senza giusta causa. I
criteri di calcolo dell’indennizzo ex art.
2041 c.c. secondo la più recente
giurisprudenza della Cassazione.
Determinazione della “utilitas” per
la pubblica amministrazione: riflessi sulla
quantificazione del danno erariale, per
pagamenti indebiti relativi a contratti
nulli per violazione di norme imperative di
evidenza pubblica, tenendo conto degli
ultimi indirizzi del Consiglio di Stato
(link a www.amcorteconti.it). |
ENTI LOCALI:
F. Longavita,
Un contributo, forse, al chiarimento del
danno all’immagine della P.A., ovvero una
riflessione a margine della sentenza n.
355/2010 della Corte Costituzionale
(link a www.amcorteconti.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
ENTI LOCALI: Oggetto:
Decreto ministeriale 18.01.2008, n. 40,
concernente "Modalità di attuazione
dell'articolo 48-bis del Decreto Presidente
della Repubblica 29.09.1973, n. 602, recante
disposizioni in materia di pagamenti da
parte delle Pubbliche Amministrazioni" -
Ulteriori chiarimenti
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
Dipartimento della Ragioneria Generale dello
Stato,
circolare 23.09.2011 n. 27 +
allegato A).
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Circolare della Rgs sul
filtro della Visco-Bersani ai pagamenti
della p.a.. Fisco, incentivi intoccabili. I
contributi anche a imprese con tasse
arretrate.
Gli incentivi alle imprese potranno essere
corrisposti anche a chi non ha la fedina
fiscale immacolata. L'interesse
all'erogazione dei contributi è infatti
prioritario rispetto alla verifica di
regolarità fiscale introdotta nel 2006 dal
dl Visco-Bersani. Che impone alle p.a.,
quando devono effettuare un pagamento
superiore a 10 mila euro, di controllare se
il destinatario è in regola con le cartelle
di Equitalia.
A intervenire nuovamente (dopo le precedenti
circolari nn. 22/2008 e 29/2009) sugli
ambiti di applicazione della norma è stata
la Ragioneria generale dello stato con la
nota n. 27 del 23.09.2011 diffusa
ieri.
Il dipartimento guidato da Mario Canzio ha
ritenuto di fornire ulteriori chiarimenti in
considerazione della mole di quesiti
pervenuti sulla procedura disciplinata
dall'art. 48-bis del dpr n. 602/1973. E in
attesa che venga creato un sistema
telematico che renda possibile effettuare on-line le verifiche, la Ragioneria ha
predisposto un modello di richiesta
(allegato alla circolare) da inviare a
Equitalia via fax (06-95.05.01.69) o posta
elettronica certificata (sospensione.mandati@pec.equitaliaservizi.it).
Sarà poi cura dell'agente unico della
riscossione verificare la posizione fiscale
del beneficiario del pagamento e comunicarlo
alla p.a. interessata entro 30 giorni. Le
amministrazioni che snobberanno
l'adempimento, avverte la nota, saranno
segnalate alla procura regionale della Corte
dei conti e rischieranno un'imputazione per
danno erariale.
Aspetti procedurali a parte, la circolare n.
27 detta alle amministrazioni i
comportamenti da tenere a seconda dei casi.
Quello degli incentivi alle imprese è
emblematico. La Ragioneria fa notare come in
questo campo la p.a. abbia pochi margini di
discrezionalità. «I requisiti dei soggetti
ammessi a beneficiare dell'incentivazione e
le modalità di determinazione della stessa
sono stabiliti dal legislatore», scrivono i
tecnici del Mef, «non avendo nessun rilievo
la volontà del soggetto attuatore che deve
svolgere un mero controllo sul possesso dei
requisiti fissati dalla legge».
E poi, prosegue la Ragioneria, gli incentivi
in ultima istanza sono finalizzati a
raggiungere «gli obiettivi ritenuti
prioritari per il soddisfacimento del
benessere della collettività». Tutte ragioni
che portano a concludere che «l'interesse
pubblico sotteso all'erogazione delle
provvidenze economiche sia preminente
rispetto alla procedura di verifica». Ragion
per cui «non ricorre l'obbligo di
espletarla».
Il controllo della fedina fiscale andrà
invece effettuato quando l'obbligo di
pagamento scaturisce da una sentenza anche
non definitiva.
Un'ipotesi particolare è rappresentato
dall'ipotesi in cui la p.a., avendo assunto
lo status di terzo pignorato a seguito di
un'ordinanza del giudice dell'esecuzione, si
trovi ad effettuare il pagamento delle somme
dovute non al creditore originario, ma al
nuovo creditore. In questo caso la verifica
della regolarità fiscale non potrà essere
attivata nei confronti del creditore
originario dal momento che in caso di
inadempienza «l'agente della riscossione si
vedrebbe preclusa, di fatto, la possibilità
di pignorare le somme già vincolate dal
provvedimento emesso dal giudice»
(articolo ItaliaOggi del 28.09.2011).
---------------
Pagamenti, blocco
più forte. Controllo preventivo anche se il
credito deriva da una sentenza.
IL VIA LIBERA - Nessuno stop in caso di
contributi alle imprese previsti dalle leggi
o co-finanziati dalla Ue.
Nuovo giro di vite sul blocco dei pagamenti
della Pa sopra i 10mila euro. Anche se il
credito deriva da una sentenza o da un
provvedimento esecutivo, l'amministrazione
debitrice dovrà sempre procedere al
controllo preventivo con Equitalia e
verificare se il creditore ha in sospeso con
l'Erario il pagamento di cartelle
esattoriali. Nel caso di somme assegnate dal
giudice dell'esecuzione la procedura di
verifica dovrà essere effettuata, ma nei
confronti del creditore assegnatario e non
di quello originario. Il blocco dei
pagamenti, invece, non scatta in caso di
contributi e finanziamenti alle imprese. Ma
a una condizione ben precisa: i
trasferimenti devono essere effettuati in
relazione a specifiche disposizioni di legge
o in virtù dell'esecuzione di progetti
cofinanziati dall'Unione europea.
Sono questi, in estrema sintesi, i nuovi
chiarimenti della Ragioneria generale dello
Stato diramati ieri con la circolare n. 27/Rgs
del 23 settembre scorso. La circolare -che
di fatto, con le due precedenti del
28.07.2008 n. 22/Rgs e dell'08.10.2009 n.
29/Rgs, completa il quadro dei chiarimenti
sul nuovo articolo 48-bis del Dpr 602/1973-
interviene anche sulla verifica successiva
delle eventuali irregolarità commesse dalle
pubbliche amministrazioni in caso di mancata
applicazione della verifica preventiva. Una
sorta di scrematura per evitare, in alcune
situazioni, inutili interventi dei giudici
contabili.
La Ragioneria, dunque, interviene in primo
luogo sulla possibilità che il blocco del
pagamento possa operare anche nel caso in
cui l'obbligazione della Pa non nasca da un
contratto bensì da un altro atto conforme ai
principi dell'ordinamento giuridico. In
sostanza, come spiega la ragioneria, può
accadere che l'obbligazione al pagamento
derivi, pur in assenza di un contratto
scritto, da un risarcimento per fatto
illecito o per pagamenti indebiti o per
responsabilità precontrattuale, solo per
citare alcune ipotesi contemplate dal Codice
civile.
Premesso, dunque, che un provvedimento
definitivo di condanna della Pa al pagamento
di una somma pecuniaria può essere
effettuato anche con «una compensazione tra
il debito e l'eventuale credito
dell'amministrazione nei confronti dello
stesso beneficiario», la Ragioneria conclude
che anche in presenza di una sentenza
passata in giudicato l'amministrazione è
tenuta alla verifica preventiva con
Equitalia e all'eventuale blocco del
pagamento. Sul fronte dei trasferimenti alle
imprese sotto forma di incentivi, la
Ragioneria ricorda che le amministrazioni
dovranno procedere a una valutazione caso
per caso. E l'obbligo della verifica
preventiva con Equitalia decade davanti al
fatto che l'incentivo erogato alle imprese
risulta finalizzato «al raggiungimento degli
obiettivi ritenuti prioritari per il
soddisfacimento del benessere della
collettività». Come dire che l'interesse
pubblico in questi casi prevale sempre sulle
procedure di verifica delle eventuali
posizioni debitorie dell'impresa.
Infine, in attesa che Equitalia nel suo
portale inserisca dal prossimo anno una
procedura automatica di controllo sulle
verifiche effettuate dalle amministrazioni,
la Ragioneria individua un percorso rapido
per i controlli successivi di eventuali
inosservanze degli obblighi di verifica
delle singole amministrazioni. Con un
modello allegato alla circolare,
l'amministrazione interessata potrà
interpellare Equitalia per verificare se il
creditore sia ancora inadempiente con
l'Erario. In questo modo l'eventuale
intervento della procura della Corte dei
conti per i mancati controlli dei dirigenti
incaricati andrà a colpo sicuro
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.09.2011
- tratto da www.corteconti.it). |
NEWS |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L'Abc
della raccolta differenziata. Contributi ai
municipi d'importo proporzionale alla
«purezza» dei rifiuti.
LA MOSSA PIÙ UTILE - Suddividere
attentamente i materiali nel cassonetto o
nel bidone condominiale agevola la fase del
riciclo da parte delle imprese.
Di rifiuti non si sa mai abbastanza, in
particolare come disfarsene. Chi non si è
imbattuto in un imballaggio complicato senza
sapere cosa farne al momento di buttarlo:
con la carta o con la plastica? O è stato
tentato di gettare una lampadina vecchia
nella campana del vetro? O si è domandato
che fine faranno i sacchi diversamente
colorati così scrupolosamente suddivisi nel
cortile condominiale: lo sforzo servirà
davvero a dar vita a nuovi oggetti o per lo
meno a produrre energia?
Con la definitiva ripresa delle attività,
con i frigo e le dispense da riempire
regolarmente, si intensificheranno
senz'altro le occasioni di scartare pacchi e
confezioni, così come i dubbi. Senza contare
le sanzioni in agguato: dal dicembre scorso
il privato che abbandoni rifiuti per strada,
in mare o nei fiumi rischia una sanzione da
300 a 3mila euro (Dlgs 205/2010 di
recepimento dell'ultima direttiva europea
sui rifiuti). Ma anche separare male in
condominio può costare caro: i regolamenti
comunali prevedono multe da 100 a oltre un
migliaio di euro da suddividersi tra i
proprietari in base ai millesimi.
L'evento.
Ecco quindi che arrivano a proposito la
giornata (domenica prossima) e il mese
(ottobre) dedicati a riciclo e raccolta
differenziata. Due operazioni strettamente
connesse in quanto alla base di un buon
riciclo c'è sempre una buona raccolta. La
qualità rappresenta del resto l'aggettivo e
l'obiettivo che deve ormai caratterizzare la
raccolta differenziata. La correttezza della
raccolta e del riciclo, infatti,
contribuisce a creare il cosiddetto "triangolo
della sostenibilità", realizzandone
aspetti ambientali, economici e sociali,
perché riciclare vuol dire trasformare i
rifiuti in risorse. E se la raccolta è di
qualità, raggiungere questo obiettivo è più
facile. La qualità del riciclo, del resto, è
richiesta anche dalla direttiva 2008/98/Ce
sui rifiuti (recepita con il Dlgs 152/2006,
il Codice ambientale, che la fa sua
all'articolo 181) tesa a realizzare la "società
europea del riciclaggio".
Per questo, domenica 2 ottobre si svolgerà
la seconda edizione della «Giornata
nazionale del riciclo e della raccolta
differenziata di qualità: la "raccolta
10+"». L'evento è promosso dal ministero
dell'Ambiente e dal Conai (Consorzio
nazionale imballaggi) al fine di spiegare ai
cittadini come si fa la raccolta
differenziata di qualità, anche attraverso
il Decalogo della raccolta differenziata
che, con dieci semplici regole, si propone
di aiutare i cittadini a separare meglio. In
questo modo l'industria potrà riciclare più
facilmente gli imballaggi in acciaio,
alluminio, carta, legno, plastica, vetro e
l'ambiente subirà meno il peso dei nostri
rifiuti.
Quest'anno l'iniziativa ha un respiro più
ampio rispetto al 2010 e può contare anche
sul supporto dell'Anci (Associazione
nazionale Comuni italiani). Così da martedì
4 ottobre e per tutto il mese la
manifestazione toccherà 20 capoluoghi di
regione, 90 di provincia e tutti i comuni
che hanno aderito all'iniziativa. Gazebi e
van con il logo "Raccolta 10+"
faranno delle piazze italiane lo snodo
centrale della manifestazione e saranno i
luoghi dove i cittadini potranno ricevere il
Decalogo per la raccolta di qualità, mentre
per le strade gireranno apposite biciclette.
Contributo all'ente locale.
Se differenziare "a regola d'arte" fa
bene all'ambiente, a trarne beneficio
possono essere anche le tasche dei
cittadini: infatti il Conai riconosce ai
Comuni corrispettivi economici a copertura
dei maggiori oneri derivanti dalla raccolta
differenziata.
Il contributo, secondo il sistema di
premialità adottato, aumenta in misura
proporzionale alla purezza dei rifiuti di
imballaggio conferiti (omogeneità, presenza
di materiali estranei non riciclabili): in
base all'accordo di programma quadro Anci/Conai
2009-2013, un Comune di 100mila abitanti che
raggiunge una raccolta differenziata
complessiva intorno al 45%, può ottenere dal
Conai corrispettivi economici importanti: da
232mila euro l'anno se il materiale
conferito è classificato in terza fascia di
qualità (materiali molto sporchi) ma circa
un milione per materiale classificato in
prima fascia (materiali puliti).
Quindi, con tali ordini di grandezze, un
Comune con un milione di abitanti, se
conferisce materiali puliti, può portare a
casa ogni anno fino a 9,5 milioni di euro.
Risorse preziose –tanto più in questo
momento di difficoltà per le finanze locali–
che i Comuni possono destinare al
progressivo miglioramento del servizio di
gestione dei rifiuti da imballaggio.
Regole d'oro.
L'impegno del singolo diventa dunque
determinante per il benessere della
collettività. Non sempre però è facile
capire come fare la differenziata. Ecco
quindi una bussola in questa pagina (con
l'illustrazione a fianco costruita sulla
base del Decalogo del Conai) nonché dagli
articoli nell'altra pagina, dove vengono
fornite le principali istruzioni per
conferire in modo corretto i rifiuti
provenienti dai sei principali materiali che
compongono gli imballaggi (carta, plastica,
vetro, acciaio, alluminio e legno). Con
qualche indicazione anche sui risvolti
energetici e sulle possibilità di recupero
dei materiali
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Titoli
abilitativi. Il quadro completo dopo la
manovra. Permessi edilizi su cinque livelli
con la nuova Scia. Attività libera e permesso
di costruire.
Il quadro è completo, ma solo a livello
statale. Con la conversione in legge della
manovra di Ferragosto (Dl 138/2011, ora
legge 148/2011) che ha chiarito termini e
modi per contestare al Tar l'illegittimità
delle opere edilizie realizzate attraverso
la Scia (segnalazione certificata di inizio
attività) e mediante la Dia (denuncia di
inizio attività) –nei limitati casi per cui
essa è ancora prevista nell'ordinamento–
tutte le "cinque tessere" del mosaico
statale delle procedure edilizie sono al
proprio posto.
Tuttavia, ai sensi del decreto Sviluppo (Dl
70/2011 convertito in legge 106/2011), manca
ancora il dispiegamento delle leggi
regionali, che possono ulteriormente
semplificare la disciplina procedurale delle
costruzioni. E questo anche in relazione al
meccanismo del silenzio-assenso ora previsto
sulle domande di permesso di costruire
(nuovo articolo 20, comma 8, del Testo unico
sull'edilizia, Dpr 380/2001) e al rilascio
dei titoli in deroga anche rispetto alle
destinazioni d'uso imposte dai piani
regolatori (articolo 5, comma 13, Dl 70).
Sempre le Regioni, d'altra parte, sono
chiamate anche a dare attuazione al
cosiddetto nuovo piano casa (o piano città)
finalizzato ad agevolare la riqualificazione
di aree urbane degradate attraverso la
concessione dei premi volumetrici. Una
disposizione, quest'ultima, che non incide
direttamente sul fronte dei titoli edilizi,
ma che potrebbe ulteriormente modificare la
situazione dei permessi edilizi, così come
si è delineata nell'ultimo anno e mezzo.
La parola alla Consulta.
Il primo tema che si è posto agli operatori
ha addirittura investito l'applicabilità al
l'edilizia della Scia. Le incertezze anche
lessicali del primo decreto (Dl 78/2010
convertito in legge 122/2010) sono state
definitivamente spazzate via dalla legge di
conversione del decreto Sviluppo, che ha
espressamente previsto che le ultime
disposizioni (cioè la nuova formulazione
dell'articolo 20 della legge 241/1990) «si
interpretano nel senso che le stesse si
applicano alle denunce di inizio attività in
materia edilizia disciplinate dal decreto
del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380».
Resta comunque il dubbio sull'esito dei
ricorsi proposti da diverse Regioni
(Toscana, Emilia Romagna, Puglia) alla Corte
costituzionale, che contestano soprattutto
l'intrusione statale nella disciplina
edilizia che, ove di dettaglio, è di
competenza regionale.
La scala degli interventi.
Il sistema vigente è sicuramente articolato,
si va dagli interventi liberi a quelli
soggetti a comunicazione e a comunicazione
asseverata, dalle opere sottoposte a Scia, a
Dia (casi residuali) e a permesso di
costruire (ora ottenibile anche per silentium e in deroga anche alle
destinazioni d'uso e non soltanto a indici e
parametri edilizi stereometrici).
Il grafico qui a fianco ricostruisce la
disciplina statale, che resta valida in
mancanza di specifiche disposizioni
regionali e suddivide gli interventi in
cinque tipologie:
- interventi liberi;
- interventi soggetti a comunicazione
(semplice e asseverata a seconda dei casi);
- interventi soggetti a Scia;
- interventi soggetti a Dia;
- interventi soggetti a permesso di
costruire.
L'iter della Scia.
A differenza della Dia, per la quale i
lavori possono partire solo dopo il decorso
di 30 giorni dalla presentazione della
denuncia, nella Scia l'attività edilizia può
essere avviata contestualmente al l'inoltro
della segnalazione. Ecco come:
●
la Scia è corredata dalle dichiarazioni
sostitutive di certificazioni, nonché dalle
attestazioni e asseverazioni di tecnici
abilitati, oppure dalle dichiarazioni di
conformità relative alla sussistenza dei
requisiti e dei presupposti sulla conformità
dell'intervento alle disposizioni di legge
regolamentari, corredate dagli elaborati
tecnici necessari per consentire le
verifiche di competenza
dell'amministrazione;
●
l'attività oggetto può essere iniziata dalla
data della presentazione della segnalazione;
●
se l'immobile è vincolato, i lavori potranno
cominciare dopo l'ottenimento
dell'autorizzazione dell'amministrazione
competente alla tutela del vincolo
(Soprintendenza, Regione, Provincia, Comune,
Parco);
●
in caso di accertata carenza della
conformità dell'intervento alla legge o ai
regolamenti, il Comune –nel termine di 60
giorni dal ricevimento della segnalazione–
adotta motivati provvedimenti di divieto di
prosecuzione del l'attività e di rimozione
degli eventuali effetti dannosi di essa,
salvo che, ove ciò sia possibile,
l'interessato provveda a conformare alla
normativa vigente detta attività e i suoi
effetti entro un termine fissato
dall'amministrazione, in ogni caso non
inferiore a 30 giorni;
● dopo 60 giorni il Comune può intervenire
solo in presenza del pericolo di un danno
per il patrimonio artistico e culturale, per
l'ambiente, per la salute, per la sicurezza
pubblica o la difesa nazionale e previo
motivato accertamento dell'impossibilità di
tutelare comunque tali interessi mediante
conformazione dell'attività dei privati alla
normativa vigente.
Alle violazioni di questa procedura si
accompagnano poi sanzioni che variano dal
livello amministrativo fino alle conseguenze
penali per chi effettua false attestazioni.
---------------
Non
impugnabile il mancato diniego del Comune.
Le ultime manovre finanziarie cambiano anche
il sistema delle impugnazioni, stabilendo
che la Dia e la Scia non possono essere
direttamente impugnate al Tar. Con la
conversione in legge 111/2011 del Dl per la
stabilizzazione finanziaria (98/2011) è
legge la disposizione per cui Dia e Scia
«non costituiscono provvedimenti taciti
direttamente impugnabili. Gli interessati
possono sollecitare l'esercizio delle
verifiche spettanti all'amministrazione e,
in caso di inerzia, esperire esclusivamente
l'azione di cui all'articolo 31, commi 1, 2
e 3 del decreto legislativo 02.07.2010,
n. 104» (articolo 6, comma 1, lettera c, del
Dl 131/2011).
In concreto, vuol dire che i vicini lesi
dall'attività edilizia o le associazioni
ambientaliste possono chiedere al Comune di
impedire lo svolgimento dell'attività e poi
–in caso di silenzio dell'amministrazione e
comunque non oltre un anno dalla scadenza
del termine di conclusione del procedimento– ricorrere al Tar contro il silenzio del
Comune sulla loro richiesta.
Parrebbe però un'arma spuntata, perché al
giudice la norma assegna in generale solo il
potere di ordinare al Comune di provvedere
sulla verifica richiesta dal privato e
rimasta inevasa. Il Tar, infatti, ha la
possibilità di riconoscere direttamente
l'illegittimità dell'attività disponendone
la cessazione solo quando si tratti di
attività vincolata o quando risulta che non
ci sono ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità amministrativa e non siano
necessari adempimenti istruttori che debbano
essere compiuti dal Comune. Condizioni che
non sempre ricorrono in edilizia, specie
rispetto ai progetti più complessi.
La norma è stata introdotta con la rubrica
«Ulteriori semplificazioni». Non pare però
che l'obbiettivo della semplificazione sia
stato centrato, dato che la giurisprudenza
amministrativa era recentemente approdata a
una soluzione molto più diretta sul tema del
l'impugnabilità di Dia e Scia. L'Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato, con la
sentenza n. 15 depositata lo scorso 29
luglio aveva infatti statuito –attraverso
una costruzione forse coraggiosa– che
l'inerzia del Comune sulla Dia/Scia (inerzia
che consente il legittimo svolgimento
dell'attività privata) equivalesse a un
«atto tacito di diniego del provvedimento
inibitorio» direttamente impugnabile al Tar,
a cui era possibile richiedere non solo
l'annullamento di questa "finzione di atto",
ma anche l'ordine all'amministrazione di
inibire l'attività oggetto del ricorso.
L'Adunanza plenaria aveva addirittura
stabilito che in caso di Scia (per cui
l'attività edilizia può iniziare
contestualmente al deposito della
segnalazione e per cui il Comune può solo
emettere sanzioni, non necessariamente
inibitorie) il Tar potesse disporre subito
la sospensione dei lavori appena avviati,
nonostante in quel momento non esistesse
alcun atto nemmeno sotto la forma del
«tacito diniego di provvedimento
inibitorio». Con la nuova legge,
l'articolata ricostruzione del giudice
amministrativo viene spazzata via e non
sembra che il legislatore abbia fatto meglio
del Consiglio di Stato in termini di
effettività della tutela dei terzi
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Processo
tributario.
Anche l'Ente paga per far causa. Manca la
conferma dell'esenzione dal contributo
unificato. La norma impone il pagamento a
chi per primo si costituisce in giudizio.
Si fa sempre più concreto il rischio che gli
enti locali vedano aumentare le spese nel
contenzioso tributario; colpa
dell'introduzione del contributo unificato
nel processo tributario rischia di riservare
amare sorprese a carico degli enti e dei
loro concessionari.
Con le modifiche dettate dal l'articolo 37
del Dl 98/2011, l'articolo 14 del Dpr
115/2002 (Testo unico in materia di spese di
giustizia) impone il pagamento del
contributo in ogni grado di giudizio ad
opera della parte che per prima si
costituisce in giudizio o che deposita il
ricorso introduttivo, anche in secondo
grado.
Mentre in passato le spese del giudizio
d'appello erano assolte con l'imposta di
bollo versata dal contribuente, enti locali
e loro concessionari potrebbero oggi essere
costretti a farsi carico di tale onere, in
contrasto con l'articolo 5, comma 1 della
tabella allegato B al Dpr 642/1972 (non
modificato dalla manovra estiva 2011), che
prevede l'esenzione assoluta dal l'imposta
di bollo per tutti gli atti e copie del
procedimento di accertamento e riscossione
di qualsiasi tributo, dichiarazioni,
denunce, atti, documenti e copie presentati
ai competenti uffici ai fini
dell'applicazione delle leggi tributarie,
con esclusione dei soli ricorsi, opposizioni
ed altri atti difensivi del contribuente.
L'agenzia delle Entrate, con risoluzione
49/2002 e con circolare 70/2002, aveva
confermato –a seguito dell'introduzione del
contributo unificato nel processo civile e
amministrativo– l'esenzione dall'imposta di
bollo per gli atti giudiziari di enti locali
e concessionari nei due gradi di merito (il
contributo è invece dovuto per i ricorsi in
Cassazione, che seguono la procedura del
rito civile), che si ritiene debba permanere
anche con riferimento al contributo
unificato, per una pluralità di ragioni.
In primis, perché ancora oggi l'articolo 10,
comma 1, del Dpr 115/2002 prevede che non sia
soggetto al contributo unificato il processo
già esente dall'imposta di bollo secondo
previsione legislativa e senza limiti di
competenza o di valore, per cui il processo
tributario di appello promosso da enti
locali e concessionari non dovrebbe scontare
il contributo. In secondo luogo, l'articolo
158 del Dpr 115/2002 prevede al comma 1,
lettera a), che nel processo in cui è parte
l'amministrazione pubblica sono prenotati a
debito, se a carico dell'amministrazione, il
contributo unificato nel processo civile,
nel processo amministrativo e nel processo
tributario e, al successivo comma 3, che le
spese prenotate a debito e anticipate
dall'Erario sono recuperate
dall'amministrazione, insieme alle altre
spese anticipate, in caso di condanna
dell'altra parte alla rifusione delle spese
in proprio favore.
Per quanto tale disposizione sembri
giustificare la non applicabilità del
contributo nei processi promossi dagli enti
locali (in tal caso non però dai
concessionari) in qualità di soggetti attivi
d'imposta, il ministero delle
Finanze-Direzione Giustizia Tributaria, con
circolare del 21.09.2011 n. 1/DF, ha
specificato che, ai fini della prenotazione
a debito del contributo, sono
amministrazioni dello Stato soltanto i
Ministeri centrali e i loro Uffici
periferici, cui sono equiparate le Agenzie
fiscali che gestiscono tributi erariali,
escludendo quindi gli Enti locali.
Si ritiene che la specificazione fornita dal
ministero delle Finanze non sia corretta, in
quanto nel concetto di amministrazione
pubblica rientrano necessariamente anche gli
enti locali, in relazione ai quali dovrà
quindi essere chiarito in base a quale
disposizione potranno essere esentati dal
contributo unificato.
In attesa di tale chiarimento, enti locali e
concessionari potranno comunque far valere
l'esenzione dal contributo (il cui importo
dovrà comunque essere indicato nelle
conclusioni del ricorso in appello) ai sensi
dell'articolo 10, comma 1, Dpr 115/2002, per
evitare di esporsi ad un versamento che –se
effettuato– non potrebbe essere recuperato
nei confronti dello Stato, né tanto meno del
contribuente, ove le Commissioni regionali
dovessero rigettare l'appello o compensare
le spese di lite tra le parti
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, date certe per il Sistri.
Prove generali il 16 dicembre. In corso le
verifiche tecniche. La manovra di fine
estate rinnova il quadro normativo e
reintroduce gli obblighi per i gestori.
Sistri, si (ri)parte. Dal
09.02.2012
scatteranno gli obblighi per medi e grandi
gestori di rifiuti. Dopo il 1° giugno 2012
(nella data precisata da un futuro dm del
ministero dell'Ambiente) quelli per i
piccoli produttori di rifiuti pericolosi. Il
tutto accompagnato da una parallela
semplificazione gestionale per i produttori
di rifiuti conferiti alle filiere
obbligatorie (potranno delegare ai consorzi
gli adempimenti Sistri) e corredato da due
importanti appuntamenti «prenatalizi»:
quello del 15.12.2011, termine entro
il quale lo stesso dicastero dovrà ultimare
un «check tecnico» sulla funzionalità del
sistema informatico; quello del 16.12.2011, entro il quale dovrà individuare i
rifiuti privi di «criticità ambientali» che
non entreranno obbligatoriamente nel
tracciamento telematico.
È questo il
rinnovato quadro normativo disegnato dalla
legge 14.09.2011 n. 148 di
conversione del dl 138/2011, la manovra di
fine estate.
Il ripristino del Sistri. La legge in parola (pubblicata in Gazzetta
Ufficiale del 16.09.2011 n. 216)
ripristina dal 17.09.2011 (data della
sua entrata in vigore) la validità
dell'intero impianto normativo relativo al
sistema telematico di tracciamento dei
rifiuti recato dal dlgs 152/2006, dai
decreti minambiente 17.12.2009 e 18.02.2011 n. 52 e dal dl 70/2011
(impianto normativo sostanzialmente
cancellato dall'originaria versione del dl
138/2011).
Mediante la diretta riformulazione del dl
138/2011 (in particolare i nuovi commi 2, 3
e 3-bis dell'articolo 6) la legge di
conversione conferisce così date certe
all'operatività degli adempimenti previsti
dal sistema Sistri: comunicazione telematica
al cervellone informatico centrale dei
rifiuti gestiti (tramite pc e relativa
«chiave usb»); tracciamento satellitare dei
mezzi di trasporto dei rifiuti (attraverso
le «black box»); monitoraggio
ingresso/uscite degli stessi mezzi dalle
discariche (mediante apparecchiatura
installata in sito).
Il «check tecnico». Il primo appuntamento
previsto dal rinnovato dl 138/2011 è quello
del 17.09.2011 (data di entrata in
vigore della relativa legge di conversione),
termine a partire dal quale il ministero
dell'Ambiente dovrà assicurare la verifica
delle componenti hardware e software
dell'impianto tecnologico Sistri.
Tale
verifica dovrà essere effettuata anche
tramite test di funzionamento con il
coinvolgimento delle associazioni di categoria maggiormente rappresentative e
dell'utenza finale. All'esito del «check»,
da ultimarsi entro il 15.12.2011,
dovranno essere adottati i miglioramenti e
le semplificazioni tecnologiche suggerite
dal caso.
I rifiuti «in deroga». Entro il 16.12.2011 il dicastero dell'Ambiente dovrà poi
individuare mediante decreto, di concerto
con il ministero della Semplificazione
normativa, specifiche tipologie di rifiuti
alle quali, in considerazione della quantità
e dell'assenza di specifiche caratteristiche
di criticità ambientale potranno essere
applicate le procedure (Sistri) previste per
i rifiuti speciali non pericolosi, ossia la
facoltatività (in luogo della
obbligatorietà) del loro tracciamento
tramite il sistema telematico.
L'operatività degli adempimenti Sistri. Dal
09.02.2012 scatteranno per tutti i
soggetti individuati dal (ripristinato)
articolo 188-ter del dlgs 152/2006, ad
eccezione dei piccoli produttori di rifiuti
speciali pericolosi individuati dal dl
70/2011 (si veda oltre), gli adempimenti
preliminari ed operativi Sistri per le nuove
attività: iscrizione al Sistri e pagamento
relativo contributo; comunicazione
telematica dati rifiuti al cervellone
informatico Sistri (tramite pc e chiave
usb); tracciamento satellitare mezzi
trasporto rifiuti (tramite black box);
monitoraggio ingresso/uscite discariche con
apparecchiature Sistri.
Il Sistri per piccoli produttori. Il
ripristino della normativa Sistri ad opera
della legge 148/2011 comporta anche la
reviviscenza delle disposizioni del dl
70/2011 (recante «prime disposizioni urgenti
per l'economia» come convertito, con
modifiche, in legge 106/2011) relative al
regime Sistri per i piccoli produttori di
rifiuti.
In virtù dell'articolo 6, comma 2,
lettera f-octies del decreto legge 70/2011
gli adempimenti operativi Sistri per i
produttori di rifiuti speciali pericolosi
con non più di dieci dipendenti, compresi i
produttori che effettuano il trasporto dei
propri rifiuti entro i 30 kg/litro al giorno
(novero di soggetti individuato dal
combinato disposto degli articoli 212, comma
8, dlgs 152/2006, 1, comma 5, dm Ambiente 26.05.2011, 3, comma 1, dm Ambiente
52/2011), scatteranno infatti a partire
dalla data stabilita da un futuro dm del
ministero dell'Ambiente e comunque non prima
dell'01.06.2012.
Le semplificazioni per i rifiuti conferiti a
filiera. Per espressa disposizione della
legge di conversione del dl 138/2011, tutti
gli operatori che producono esclusivamente
rifiuti soggetti a ritiro obbligatorio da
parte di sistemi di filiera (come
imballaggi, pile ed accumulatori, Raee)
potranno delegare ai consorzi di recupero
(secondo le modalità previste per le
associazioni di categoria) i propri
adempimenti Sistri.
I compiti degli enti
locali. Con la reviviscenza della normativa
Sistri acquista dal 17.09.2011
efficacia operativa anche l'Accordo 27.07.2011 fra governo, regioni e autonomie
locali siglato in sede di Conferenza
unificata (e pubblicato in G.U. del 05.09.2011 n. 206).
L'atto impegna
Regioni, Province e Comuni a riversare nel
database Sistri tutti i dati relativi alle
autorizzazioni e comunicazioni in materia di
rifiuti di loro competenza utilizzando
standard condivisi. Dati che poi gli enti
preposti a vigilanza, controllo ed
all'accertamento degli illeciti (ossia
province, fino a quando esiteranno
considerato il ddl costituzionale licenziato
dal governo lo scorso 8 settembre che ne
dispone la cancellazione, e Arpa)
utilizzeranno per l'esercizio delle loro
funzioni.
L'attuale regime dei rifiuti. Fino alla
partenza dei nuovi termini di operatività
del Sistri il regime per il tracciamento dei
rifiuti continuerà ad essere quello del cd.
«doppio binario» previsto dal (resuscitato)
articolo 12, comma 2 del dm 17.12.2009, ossia: obbligatorietà della tenuta dei
registri di carico e scarico dei rifiuti e
formulario di trasporto; facoltatività di
adesione al Sistri.
In base ad una parallela
(e rediviva) norma dello stesso dm 17.12.2009 (articolo 12, comma 1), è
ripristinato anche il cd. «Mudino», ossia
l'obbligo per produttori iniziali di rifiuti
e per imprese ed enti, che effettuano
recupero e smaltimento già tenuti alla
dichiarazione Mud (legge 70/1994), di
comunicare entro il 31 gennaio al Sistri i
dati annuali relativi alle relative
operazioni di gestione
(articolo ItaliaOggi
Sette del 26.09.2011). |
EDILIZIA PRIVATA: Riforma Suap in dirittura
d'arrivo.
Al via dal 30/09/2011 la procedura che accelera
le autorizzazioni. Lo stato dell'arte a un
anno dall'avvio del processo di
informatizzazione degli sportelli unici.
Ancora pochi giorni e la riforma dello
Sportello unico per le attività produttive (Suap)
sarà al completo, almeno su carta. Infatti
il 30 settembre entrerà in vigore il
procedimento unico che prevede una riduzione
dei tempi di rilascio dell'autorizzazione,
con l'utilizzo della conferenza di servizi
che dovrà svolgersi online.
Una procedura
alla quale si farà ricorso laddove non
risulterà possibile accedere alla Scia
(Segnalazione certificata di inizio
attività), già in vigore da fine marzo.
Anche se, a un anno dall'avvio del processo
di informatizzazione delle procedure, molto
resta ancora da fare per rendere operative
le novità introdotte per legge.
Scia all'insegna della semplificazione.
L'istituto attuale dei Suap è regolamentato
dal dpr 07.09.2010, n. 160, che
individua un solo canale tra imprenditore e
amministrazione, con l'obiettivo di
eliminare ripetizioni istruttorie e
documentali. Di conseguenza, le domande, le
dichiarazioni, le segnalazioni e le
comunicazioni concernenti le attività e i
relativi elaborati tecnici e allegati
possono essere presentati esclusivamente in
modalità telematica, allo sportello del
comune competente per il territorio. Così
all'aspirante imprenditore non resta che
autocertificare il possesso dei requisiti
necessari all'avvio dell'attività
imprenditoriale, attraverso il portale impresainungiorno.gov.it, realizzato su
piattaforma da Infocamere.
Tuttavia, se
l'attività è contestuale all'iscrizione al
registro delle imprese, può farlo
direttamente alla Camera di commercio
attraverso il modello Com.unica. Una volta
ricevuta la Scia, lo sportello unico
verifica (sempre con modalità informatica)
la completezza formale della dichiarazione e
dei relativi allegati. In linea con il
principio che ha ispirato questa misura
(«garantire l'impresa in un giorno»),
l'attività oggetto della segnalazione può
essere iniziata dalla data della
presentazione della segnalazione. In caso di
verifica positiva, lo sportello unico
rilascia automaticamente la ricevuta e
trasmette in via telematica la dichiarazione
e i relativi allegati alle amministrazioni e
agli uffici competenti.
Se invece mancano i
requisiti, l'amministrazione ha 60 giorni
dal momento in cui riceve la segnalazione
per disporre il divieto di prosecuzione
dell'attività e l'eventuale rimozione degli
eventuali effetti dannosi o, in alternativa,
può fissare un termine (al massimo di 30
giorni) entro il quale l'interessato ha la
possibilità di uniformarsi alla decisione.
«Trascorso questo termine, l'amministrazione
può intervenire solo in presenza del
pericolo di un danno grave e irreparabile
per il patrimonio artistico e culturale, per
l'ambiente, per la salute, per la sicurezza
pubblica o la difesa nazionale e previo
motivato accertamento dell'impossibilità di
tutelare comunque tali interessi mediante
conformazione dell'attività dei privati alla
normativa vigente», spiega Gianluigi Spagnuolo, già responsabile del Suap di
Oleggio (No) e autore di Suap@norma
(www.suapanorma.it), portale in cui si
confrontano professionisti e funzionari che
utilizzano abitualmente lo strumento di
semplificazione.
In caso di dichiarazioni
sostitutive di certificazione e dell'atto di
notorietà false o mendaci,
l'amministrazione, ferma restando la
responsabilità penale, può sempre e in ogni
tempo adottare i citati provvedimenti di
divieto di prosecuzione dell'attività e di
rimozione degli eventuali effetti dannosi. È
prevista la sanzione penale della reclusione
da uno a tre anni (salvo i casi in cui il
fatto costituisce più grave reato) per
chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni
o asseverazioni che corredano la
segnalazione di inizio attività, dichiara o
attesta falsamente l'esistenza dei requisiti
o dei presupposti.
Il procedimento unico punta sulla
telematica. Nei casi in cui non è possibile
ricorrere alla Scia (si veda la tabella
messa a punto da Suapanorma), le istanze
vanno presentate allo sportello unico, che
ha 30 giorni di tempo (a meno che la
normativa regionale non preveda termini
inferiori) per chiedere eventualmente
all'interessato la documentazione
integrativa.
Trascorso senza azioni questo
termine, la richiesta si intende
correttamente presentata. Verificata la
completezza della documentazione, il Suap
adotta il provvedimento conclusivo entro 30
giorni o indice una conferenza di servizi.
«La conferenza è sempre indetta», precisa Spagnuolo, «nel caso in cui i procedimenti
necessari per acquisire le suddette intese,
nulla osta, concerti o assensi abbiano una
durata superiore ai 90 giorni ovvero nei
casi previsti dalle discipline regionali».
Scaduto questo termine, lo sportello
conclude in ogni caso il procedimento, anche
prescindendo dai pareri non presentati da
parte delle altre amministrazioni. Tutti gli
atti istruttori e i pareri tecnici richiesti
sono comunicati in modalità telematica dagli
organismi competenti al responsabile del Suap. Il provvedimento conclusivo del
procedimento è il titolo unico per la
realizzazione dell'intervento e per lo
svolgimento delle attività richieste.
---------------
Il cantiere non
chiude i battenti.
Anche se la procedura di sportello unico è
formalmente completa, il cantiere resta
aperto. La manovra di ferragosto (legge n.
148/2011) incide sul tema attraverso
l'abrogazione delle restrizioni all'accesso
e all'esercizio delle professioni e delle
attività economiche.
Il testo della norma
stabilisce che «comuni, province, regioni e
stato, entro il 16/09/2012 (un anno dalla
data di entrata in vigore della legge di
conversione del dl138/2011), adeguano i
rispettivi ordinamenti al principio secondo
cui l'iniziativa e l'attività economica
privata sono libere ed è permesso tutto ciò
che non è espressamente vietato dalla
legge». «Una novità», spiega Gianluigi Spagnuolo, responsabile del Suap di Oleggio
(No) e autore di Supa@norma, «che risponde
al principio di libertà dell'iniziativa
economica che ha contraddistinto il
dibattito pre-manovra».
Lo stesso principio è sotteso all'altra
misura prevista dalla legge e che impatta
sui Suap: la liberalizzazione in materia di
segnalazione certificata di inizio attività,
denuncia e dichiarazione di inizio attività.
Il testo recita: «Sono soppresse, entro il
16/09/2012 (un anno dalla data di entrata in
vigore della legge di conversione del dl
138/2011), le disposizioni normative statali
incompatibili con il principio secondo cui
«l'iniziativa e l'attività economica privata
sono libere ed è permesso tutto ciò che non
è espressamente vietato dalla legge», con
conseguente diretta applicazione degli
istituti della segnalazione di inizio di
attività e dell'autocertificazione con
controlli successivi».
«Il disegno complessivo del legislatore»,
conclude l'esperto, «delinea un modello di
rapporti tra amministrazione e impresa
caratterizzato dall'integrazione tra i
diversi momenti di vita dell'attività
economica fin qui rimasti separati, la
liberalizzazione delle attività e la
semplificazione procedurale. Non resta che
sperare in un'adozione su vasta scala di
questi principi»
(articolo ItaliaOggi
Sette del 26.09.2011). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: L’art.
43 della Dir. 31.03.2004 n. 2004/18/CE (art.
78 del Dlgs. 163/2006) nel disciplinare il
contenuto dei verbali delle operazioni di
gara non impone la contestualità tra la
verbalizzazione e le operazioni verbalizzate
ma attribuisce ai verbali una funzione di
documentazione e informazione (a garanzia di
tutti i concorrenti e della stessa stazione
appaltante) che non sarebbe utile se la
redazione venisse svolta a notevole distanza
di tempo.
L’unico vincolo per la verbalizzazione è
pertanto quello della tempestività rispetto
alle operazioni verbalizzate. Una volta
accertata questa condizione è irrilevante
che il verbale riguardi una singola riunione
della commissione tecnica o più riunioni o
l’intera procedura. Purché sia tempestivo il
verbale può essere cumulativo.
L’art. 43 della Dir. 31.03.2004 n.
2004/18/CE (art. 78 del Dlgs. 163/2006) nel
disciplinare il contenuto dei verbali delle
operazioni di gara non impone la
contestualità tra la verbalizzazione e le
operazioni verbalizzate ma attribuisce ai
verbali una funzione di documentazione e
informazione (a garanzia di tutti i
concorrenti e della stessa stazione
appaltante) che non sarebbe utile se la
redazione venisse svolta a notevole distanza
di tempo.
L’unico vincolo per la verbalizzazione è
pertanto quello della tempestività rispetto
alle operazioni verbalizzate. Una volta
accertata questa condizione è irrilevante
che il verbale riguardi una singola riunione
della commissione tecnica o più riunioni o
l’intera procedura. Purché sia tempestivo il
verbale può essere cumulativo (v. CS Sez. V
15.03.2010 n. 1507; TAR Lazio Roma Sez. II
01.03.2011 n. 1906)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 28.09.2011 n. 1332 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: I
gravi reati in danno dello Stato o
dell’Unione Europea che incidono sulla
moralità professionale e determinano
l’esclusione dalle gare non sono soltanto
quelli collegabili all’oggetto dell’appalto.
Il concetto di moralità professionale,
ripreso direttamente dall’art. 45, par. 2,
lett. c), della Dir. 31.03.2004 n.
2004/18/CE, coinvolge un ambito che va oltre
la stretta attività professionale del
concorrente.
I gravi errori commessi nell’esercizio
dell’attività professionale (e quindi a
maggior ragione i reati che riguardano
direttamente l’attività professionale) sono
già presi in considerazione come causa
autonoma di esclusione dalla lett. f)
dell’art. 38, comma 1, del Dlgs. 163/2006.
La moralità professionale riguarda invece
l’affidabilità complessiva del concorrente
sotto il profilo etico: l’amministrazione ha
interesse a coltivare rapporti contrattuali
esclusivamente con soggetti economici che
(oltre a osservare i principi giuridici
dell’ordinamento) rispettano le regole del
mercato e della concorrenza.
L’aggiotaggio ex art.
2637 c.c. è un reato che richiede condotte
concretamente idonee a provocare una
sensibile alterazione del prezzo degli
strumenti finanziari. La fattispecie penale
presuppone un disegno diretto a manipolare
il normale funzionamento del mercato per
ottenere dei vantaggi a detrimento degli
altri operatori economici e della platea
degli investitori. È dunque intrinseca a
questo reato una componente di slealtà in
ambito economico che non consente il
contestuale riconoscimento del requisito
della moralità professionale. Quindi, la
condanna per aggiotaggio impedisce la
partecipazione alle gare pubbliche.
Per quanto riguarda la corretta applicazione
dell’art. 38, comma 1, lett. c), del Dlgs.
163/2006, occorre precisare subito che i
gravi reati in danno dello Stato o
dell’Unione Europea che incidono sulla
moralità professionale e determinano
l’esclusione dalle gare non sono soltanto
quelli collegabili all’oggetto dell’appalto.
Il concetto di moralità professionale,
ripreso direttamente dall’art. 45, par. 2,
lett. c), della Dir. 31.03.2004 n.
2004/18/CE, coinvolge un ambito che va oltre
la stretta attività professionale del
concorrente.
I gravi errori commessi nell’esercizio
dell’attività professionale (e quindi a
maggior ragione i reati che riguardano
direttamente l’attività professionale) sono
già presi in considerazione come causa
autonoma di esclusione dalla lett. f)
dell’art. 38, comma 1, del Dlgs. 163/2006.
La moralità professionale riguarda invece
l’affidabilità complessiva del concorrente
sotto il profilo etico: l’amministrazione ha
interesse a coltivare rapporti contrattuali
esclusivamente con soggetti economici che
(oltre a osservare i principi giuridici
dell’ordinamento) rispettano le regole del
mercato e della concorrenza.
L’aggiotaggio ex art. 2637 c.c. (anche nella
versione in vigore all’epoca dei fatti) è un
reato che richiede condotte concretamente
idonee a provocare una sensibile alterazione
del prezzo degli strumenti finanziari. La
fattispecie penale presuppone un disegno
diretto a manipolare il normale
funzionamento del mercato per ottenere dei
vantaggi a detrimento degli altri operatori
economici e della platea degli investitori.
È dunque intrinseca a questo reato una
componente di slealtà in ambito economico
che non consente il contestuale
riconoscimento del requisito della moralità
professionale.
In questa ricostruzione il valore
dell’utilità conseguita attraverso
l’aggiotaggio non ha un peso decisivo, in
quanto la slealtà nei rapporti economici non
è diversa se praticata in vicende modeste o
su ampia scala. Tuttavia anche volendo
introdurre un filtro quantitativo il
risultato nel caso in esame non sarebbe
diverso, tenendo conto che il legale
rappresentante della ricorrente è stato
coinvolto nella scalata alla Banca
Antonveneta. Tale operazione, come
evidenziato dall’Avvocatura Generale dello
Stato nel parere del 19.01.2011, costituisce
uno degli episodi più gravi che abbiano
interessato di recente il settore bancario.
Dunque, anche se svolta in posizione
marginale, la partecipazione a un’iniziativa
eccezionale per mezzi utilizzati e
importanza dell’obiettivo deve essere
senz’altro qualificata come rilevante nella
storia professionale di un soggetto
economico.
Da tutto questo consegue che la condanna per
aggiotaggio impedisce la partecipazione alle
gare pubbliche. Il punto diventa allora la
durata dell’effetto interdittivo.
In proposito si può osservare che l’art. 38,
comma 1, lett. c), del Dlgs. 163/2006,
nell’estendere la disciplina dell’esclusione
anche alle condanne degli amministratori
cessati dalla carica nel triennio anteriore
alla pubblicazione del bando di gara, indica
in via alternativa due condizioni che
escludono l’effetto interdittivo: (1) se
l'impresa dimostri di aver adottato misure
di completa dissociazione dalla condotta
penalmente sanzionata; (2) se sia
intervenuta la riabilitazione (art. 178 cp)
o l’estinzione del reato in caso di
patteggiamento (art. 445, comma 2, cpp).
Occorre verificare la possibilità della
trasposizione di queste norme alla
fattispecie degli amministratori in carica.
L’analogia non sembra sussistere per
l’ipotesi della dissociazione, in quanto il
primo passo in questa direzione da parte
dell’impresa sarebbe proprio la sostituzione
dell’amministratore condannato. Appare
invece ammissibile l’estensione della norma
sulla riabilitazione e sull’estinzione del
reato. La riabilitazione garantisce
attraverso una completa valutazione della
condotta post factum l’effettivo approdo
rieducativo del reo (v. Cass. pen. Sez. I
18.06.2009 n. 31089; Cass. pen. Sez. I
29.09.2009 n. 40018) e dunque per i soggetti
economici costituisce anche la dimostrazione
del recupero di una condotta professionale
eticamente adeguata. L’estinzione del reato
ex art. 445, comma 2, cpp, essendo
automatica, non offre le medesime garanzie,
ma può essere presa in considerazione dalla
stazione appaltante quale ragionevole
termine finale del periodo di esclusione
dalle gare. Mancando però una verifica
giudiziale della buona condotta (che è
propria della sola riabilitazione) la
stazione appaltante conserva il potere di
contestare l’insufficiente recupero della
moralità professionale qualora ravvisi
elementi di continuità con la situazione
pregressa;
Nel caso in esame non risultano conseguite
né la riabilitazione né l’estinzione del
reato ex art. 445, comma 2, cpp. L’indulto
ha semplicemente cancellato una parte della
sanzione pecuniaria sostitutiva senza
incidere sugli effetti penali della condanna
(v. sopra al punto 2)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 28.09.2011 n. 1327 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Le
dimissioni volontarie del dipendente si
perfezionano con l’accettazione delle stesse
da parte dell’amministrazione e non possono
essere revocate quando tale provvedimento
sia stato assunto, anche se il dipendente
non ne abbia ancora avuto formale
comunicazione, attesa la natura non
ricettizia dell’accettazione medesima.
Infatti, il provvedimento di accettazione
delle dimissioni (rispetto al quale la
volontà del dipendente rappresenta soltanto
il presupposto) ha carattere costitutivo,
con conseguente effetto estintivo del
rapporto di pubblico impiego al momento
della sua adozione.
Pertanto, la volontà del dipendente
dimissionario di revocare le dimissioni,
manifestata nella domanda di revoca
presentata successivamente all’accettazione
delle dimissioni, è irrilevante per
l’Amministrazione che non ha alcun obbligo
di provvedere su una richiesta
inammissibile, in quanto intervenuta quando
si è già prodotto l’effetto estintivo del
rapporto di impiego.
Come correttamente rilevato dal primo
giudice, le dimissioni volontarie del
dipendente si perfezionano con
l’accettazione delle stesse da parte
dell’amministrazione e non possono essere
revocate quando tale provvedimento sia stato
assunto, anche se il dipendente non ne abbia
ancora avuto formale comunicazione, attesa
la natura non ricettizia dell’accettazione
medesima.
Infatti, il provvedimento di accettazione
delle dimissioni (rispetto al quale la
volontà del dipendente rappresenta soltanto
il presupposto) ha carattere costitutivo,
con conseguente effetto estintivo del
rapporto di pubblico impiego al momento
della sua adozione (cfr. sul punto Corte
Cost. n. 417/1996; n. 92/1997).
Pertanto, come esattamente osservato dal
primo giudice, la volontà del dipendente
dimissionario di revocare le dimissioni,
manifestata nella domanda di revoca
presentata successivamente all’accettazione
delle dimissioni, è irrilevante per
l’Amministrazione che non ha alcun obbligo
di provvedere su una richiesta
inammissibile, in quanto intervenuta quando
si è già prodotto l’effetto estintivo del
rapporto di impiego (cfr. C.G.A.R.S., sez.
consult., 11.06.1996 n. 334).
Inoltre, sempre come correttamente rilevato
dal TAR, nel caso di specie l’anzidetto
effetto estintivo si è prodotto
indipendentemente dal fatto che le
dimissioni volontarie fossero subordinate
alla mancata concessione di un periodo di
aspettativa per motivi familiari, atteso che
il ricorrente aveva subordinato l’efficacia
delle dimissioni incondizionatamente al
diniego di aspettativa
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.09.2011 n. 5384 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Tutele
dello Statuto anche all'impiegato comunale.
Illegittimo il licenziamento del dipendente
comunale che assume un incarico di
consulenza professionale mentre è sospeso
dal servizio se non viene rispettata la
normativa dettata dallo Statuto dei
lavoratori.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la
sentenza n. 18829/2011 che ha
respinto il ricorso di un ente locale nei
confronti di un suo dipendente che, sospeso
dal servizio perché sottoposto a
procedimento penale, aveva assunto un
incarico di consulenza.
Il Comune ha sostenuto che il recesso, anche
se avvenuto per giusta causa, non
necessitava di garanzie procedimentali
particolari dal momento che la sanzione era
stabilita dalla legge senza margini di
discrezionalità.
La Suprema corte, al contrario, ha affermato
che anche in materia di impiego pubblico, il
licenziamento quando è motivato da colpa o
comunque da una mancanza del lavoratore deve
considerarsi di natura disciplinare e quindi
assoggettato alle garanzie dettate in favore
del lavoratore dalla legge n. 300 del 1970
in tema di contestazione dell'addebito e di
diritto di difesa
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Il
licenziamento minacciato non invalida le
dimissioni.
Le dimissioni indotte
dal pericolo di essere licenziato per giusta
causa sono valide. Il loro annullamento per
violenza morale, infatti, scatta solo quando
viene accertata l'inesistenza del diritto al
recesso del datore di lavoro: se
l'inadempimento addebitato al dipendente è
insussistente la minaccia del datore annulla
il suo legittimo esercizio a risolvere il
contratto.
Lo afferma la Corte di Cassazione con la
sentenza n. 18705/2011.
La sezione lavoro ha bocciato il ricorso di
un direttore generale che in seguito al
rischio di essere mandato via ha scelto la
strada dell'accordo solutorio, impugnando
però in un secondo momento il licenziamento
e chiedendo il risarcimento per condotta
illecita della controparte e la condanna
alla reintegra.
Nella ricostruzione dei termini della
vicenda il Collegio evidenzia la presenza di
uno scontro sulle strategie per incentivare
l'attività della banca. Conosciuta
l'intenzione dell'istituto di allontanarlo
dall'incarico, il direttore aveva chiesto
che l'intimato recesso non venisse
menzionato nel verbale del Cda acconsentendo
a presentare le dimissioni. In sede
giudiziaria ha poi impugnato il
licenziamento e il successivo accordo di
prepensionamento raggiunto con l'azienda.
Il primo dato accertato dai giudici è che al
momento delle dimissioni il ricorrente non
era ancora destinatario di un valido atto di
recesso, infatti il licenziamento era stato
solo paventato. Assodato questo punto, sono
passati a esaminare l'esistenza di eventuali
vizi delle stesse dimissioni convincendosi
che i contrastati avvenimenti pregressi
avevano adeguatamente preparato il
dipendente ad avere consapevolezza di una
situazione non tranquillizzante, le cui
conseguenze erano prevedibili e
ipotizzabili. Gli "attacchi" alla sua
linea operativa e programmatica non
lasciavano dubbi, la minaccia di procedere
al licenziamento era fondata su
comportamenti incontestabili ed era dunque
legittima.
Concludendo, è nei poteri della banca
recedere dal rapporto di lavoro con il
direttore generale assumendo come
giustificazioni le contestazioni
disciplinari sollevate a suo carico
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Niente
risarcimento ai vicini per i disagi dei
lavori in casa.
Le lesioni non patrimoniali meritano ristoro
solo se provate.
La pace in casa è un diritto "immaginario",
perciò non è risarcibile. Se nel condominio
si intraprendono lavori lunghi e fastidiosi
che creano disturbi alle altre famiglie, non
si è tenuti a risarcire loro il danno non
patrimoniale.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione
con la sentenza n. 17427/2011 che ha accolto il
ricorso di una famiglia che, per
ristrutturare l'appartamento di proprietà,
aveva impiegato parecchi mesi provocando
sgradevoli immissioni sonore e di polveri
oltre che gravi danni al piano di calpestio
del locale prospiciente il cortile del
fabbricato.
I ricorrenti erano stati citati in giudizio
dai vicini che chiedevano, oltre ai danni
patrimoniali, anche quelli morali, biologici
ed esistenziali. Accolta l'istanza sia del
danno morale che del danno patrimoniale in
tribunale e in appello, la sentenza è stata
ribaltata dalla Cassazione.
Quest'ultima infatti, ha bocciato i
cosiddetti danni «immaginari», in cui
rientrano disagi, fastidi, ansie e ogni
altro tipo d'insoddisfazione che riguarda la
vita quotidiana, che non possono essere
risarciti se non adeguatamente provati.
Secondo la Corte, la categoria del danno non
patrimoniale è connotata da tipicità, perché
tale danno «è risarcibile solo nei casi
determinati dalla legge e nei casi in cui
sia cagionato da un evento consistente nella
lesione di specifici diritti inviolabili
della persona atteso che, fuori dai casi
determinati dalla legge è data tutela
risarcitoria al danno non patrimoniale solo
se sia accertata la lesione di un diritto
inviolabile della persona costituzionalmente
protetto» (tale non è, secondo la Corte, il
turbamento della tranquillità familiare,
riferendosi al caso di specie).
Il danno non patrimoniale, anche quando sia
determinato dalla lesione di diritti
inviolabili della persona, costituisce
danno-conseguenza, che deve essere provato,
non potendosi accogliere la tesi che
identifica il danno con l'evento dannoso
perché snatura la funzione del risarcimento,
che verrebbe concesso non in conseguenza
dell'effettivo accertamento di un danno, ma
quale pena privata per un comportamento
lesivo.
Il danno biologico, invece, avrebbe portata
onnicomprensiva, in quanto il danno alla
vita di relazione e i pregiudizi di tipo
esistenziale concernenti aspetti relazionali
della vita, possono costituire solo voci del
danno biologico, mentre sono da ritenersi
non meritevoli di tutela risarcitoria
«disagi, fastidi, disappunti, ansie e ogni
altro tipo di insoddisfazione concernente
gli aspetti più disparati della vita
quotidiana né possono qualificarsi come
diritti risarcibili diritti del tutto
immaginari, come il diritto alla qualità
della vita, allo stato di benessere, alla
serenità».
Sulla base di tali principi di diritto i
giudici hanno ritenuto fondati i motivi del
ricorso, precisando che, se il giudice può,
nell'ambito della valutazione discrezionale
del danno, accertare il verificarsi della
menomazione psico-fisica della persona
facendo ricorso alle presunzioni e
quantificare il danno in via equitativa, è
pur sempre necessario «che la motivazione
indichi gli elementi di fatto che nel caso
concreto sono stati tenuti presenti e i
criteri adottati nella liquidazione
equitativa, perché altrimenti la valutazione
si risolverebbe in un giudizio del tutto
arbitrario, in quanto non è suscettibile di
alcun controllo».
La sentenza impugnata mostra che alcuna
indagine è stata effettuata sull'effettiva
esistenza e sull'entità del danno subito,
atteso che, senza compiere alcun
accertamento sulla lesione dell'integrità
psico-fisica che sarebbe stata provocata
agli istanti dalle immissioni, i giudici di
merito avevano liquidato il danno a favore
degli attori, facendo peraltro un
riferimento generico e privo di alcun
riscontro obiettivo ai disagi e ai
turbamenti del benessere psicofisico mentre,
come si è detto, il semplice turbamento
della tranquillità familiare non assurge a
un valore costituzionale protetto (articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO: E'
legittima la destituzione dall'impiego del
responsabile dell'ufficio tecnico comunale
poiché si ritiene che, in riferimento alla
posizione rivestita -appunto- di unico
responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale,
l’avere taciuto all’amministrazione di
appartenenza che il soggetto richiedente una
concessione edilizia non era il proprietario
dell’area e che gli effettivi proprietari
della stessa erano il medesimo ricorrente e
il coniuge e, ulteriormente, l’avere
personalmente presenziato alla seduta della
Commissione edilizia, esprimendo anche
parere favorevole all’accoglimento della
relativa domanda e, infine, l’avere dato
personalmente parere favorevole anche alla
proroga del termine per il ritiro della
concessione, costituisca comportamento
oggettivamente molto grave e certamente
idoneo a far venire meno il necessario
rapporto fiduciario tra l’amministrazione ed
il dipendente preposto a delicate funzioni
amministrative quale responsabile
dell’Ufficio Tecnico Comunale, con
conseguente adeguatezza e proporzionalità
della sanzione della destituzione
irrogatagli, in quanto presenti, nella
specie, tutti gli elementi costitutivi della
predetta misura disciplinare di cui all’art.
84 del D.P.R. n. 3 del 1957 e della
corrispondente identica disposizione di cui
all’art. 5 dell’allegato A) del Regolamento
organico del Comune.
Inoltre, il comportamento del ricorrente ha
gravemente nociuto al prestigio dell’ente di
appartenenza, nel contempo arrecando anche
grave pregiudizio alla dignità delle
funzioni esercitate, con conseguente
ragionevolezza e proporzionalità, anche
sotto tale profilo, della sanzione
disciplinare comminata al dipendente, in
quanto rientrante nella previsione di cui
all’art. 84, lett. a) del D.P.R. n. 3 del
1957.
Con il presente gravame, un dipendente del
comune di Saludecio impugna, chiedendone
l’annullamento, la deliberazione con la
quale la Giunta Comunale –su conforme
proposta della Commissione comunale di
disciplina- gli ha irrogato la sanzione
disciplinare della destituzione
dall’impiego.
Il Collegio deve osservare al riguardo, che
la sanzione irrogata risulta coerente e
proporzionata rispetto ai fatti
disciplinarmente rilevanti di cui il
dipendente è stato ritenuto responsabile a
conclusione del relativo procedimento.
Invero, si ritiene che, in riferimento alla
posizione dal medesimo rivestita di unico
responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale,
l’avere taciuto all’amministrazione di
appartenenza che il soggetto richiedente una
concessione edilizia non era il proprietario
dell’area e che gli effettivi proprietari
della stessa erano il medesimo ricorrente e
il coniuge e, ulteriormente, l’avere
personalmente presenziato alla seduta della
Commissione edilizia, esprimendo anche
parere favorevole all’accoglimento della
relativa domanda e, infine, l’avere dato
personalmente parere favorevole anche alla
proroga del termine per il ritiro della
concessione, costituisca comportamento
oggettivamente molto grave e certamente
idoneo a far venire meno il necessario
rapporto fiduciario tra l’amministrazione ed
il dipendente preposto a delicate funzioni
amministrative quale responsabile
dell’Ufficio Tecnico Comunale, con
conseguente adeguatezza e proporzionalità
della sanzione della destituzione
irrogatagli, in quanto presenti, nella
specie, tutti gli elementi costitutivi della
predetta misura disciplinare di cui all’art.
84 del D.P.R. n. 3 del 1957 e della
corrispondente identica disposizione di cui
all’art. 5 dell’allegato A) del Regolamento
organico del Comune.
Inoltre, il comportamento del ricorrente ha
gravemente nociuto al prestigio dell’ente di
appartenenza, nel contempo arrecando anche
grave pregiudizio alla dignità delle
funzioni esercitate, con conseguente
ragionevolezza e proporzionalità, anche
sotto tale profilo, della sanzione
disciplinare comminata al dipendente, in
quanto rientrante nella previsione di cui
all’art. 84, lett. a) del D.P.R. n. 3 del
1957 (v. Cons. Stato, sez. IV, 05/10/2004 n.
6490)
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 26.09.2011 n. 669 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'apprezzamento discrezionale
circa l’utilità o meno della pianificazione
esecutiva spetta unicamente al Comune.
La fattispecie del c.d. "lotto intercluso"
costituisce una deroga eccezionale al
divieto per i comuni di rilasciare un
permesso di costruire in assenza della
preventiva approvazione dei piani attuativi
previsti dallo strumento urbanistico
generale (cfr. Consiglio Stato, sez. IV,
10.06.2010, n. 3699) per cui, in presenza di
una disciplina analitica del centro storico,
è del tutto recessivo il principio secondo
cui può escludersi la necessità di strumenti
attuativi per il rilascio di concessioni in
zone già urbanizzate.
Lo strumento pianificatorio è infatti
indispensabile per garantire il rispetto
degli standards minimi per spazi e servizi
pubblici e la sussistenza delle condizioni
per l'armonico collegamento con le zone
contigue, già asservite all'edificazione. In
ogni caso, l'apprezzamento discrezionale
circa l’utilità o meno della pianificazione
esecutiva spetta unicamente al Comune (arg.
ex Consiglio Stato, sez. IV, 10.06.2010, n.
3699) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
23.09.2011 n. 5347 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
I vincoli “non ablatori”
(riguardanti destinazioni, indici di
fabbricabilità, altezza, cubatura,
superficie coperta, distanze, zone di
rispetto, limiti e rapporti per zone
territoriali omogenee e simili) sono vincoli
conformativi normalmente connaturali alla
proprietà, e come tali non comportano
indennizzo.
La previsione di una determinata tipologia
urbanistica quando non configura un vincolo
preordinato all'espropriazione, costituisce
una disposizione urbanistica che non è
indennizzabile in quanto, va come tale
ricondotta alle limitazioni delle facoltà
del proprietario di cui al comma 2,
dell'art. 42, Cost.
Notoriamente nella pianificazione
urbanistica e nelle relative norme tecniche,
i vincoli “non ablatori” (riguardanti
destinazioni, indici di fabbricabilità,
altezza, cubatura, superficie coperta,
distanze, zone di rispetto, limiti e
rapporti per zone territoriali omogenee e
simili) sono vincoli conformativi
normalmente connaturali alla proprietà, e
come tali non comportano indennizzo (cfr. da
ultimo Consiglio Stato, sez. IV, 22.06.2011,
n. 3797).
La previsione di una determinata tipologia
urbanistica quando non configura un vincolo
preordinato all'espropriazione, costituisce
una disposizione urbanistica che non è
indennizzabile in quanto, va come tale
ricondotta alle limitazioni delle facoltà
del proprietario di cui al comma 2,
dell'art. 42, Cost. (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
23.09.2011 n. 5347 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
termine decadenziale per l’impugnazione di
un permesso di costruire decorre dalla piena
conoscenza dell’esistenza e dell’entità
delle violazioni urbanistiche o del
contenuto specifico del progetto edilizio.
Ai fini della tempestiva impugnazione del
titolo ad aedificandum rilasciato a terzi
l’effettiva, piena conoscenza dell’atto in
parola deve essere ancorata all’ultimazione
dei lavori oppure al momento in cui la
costruzione realizzata rivela in modo certo
ed univoco le essenziali caratteristiche
dell’opera per una eventuale non conformità
urbanistico-edilizia della stessa, lì dove
non si può più avere dubbi in ordine alla
reale portata dell’intervento edilizio
assentito.
Sempre sulla questione della individuazione
del momento conoscitivo cui far decorrere il
termine decadenziale per l’impugnativa, la
giurisprudenza ha avuto modo di stabilire
che:
- non vale, in assenza di altri elementi
probatori, ai fini della decorrenza del
termine per l’impugnativa, a dimostrare la
piena conoscenza del provvedimento edilizio,
la presenza del cartello di cantiere recante
l’indicazione della concessione edilizia e
la descrizione dell’intervento e neppure la
data di inizio lavori;
- in capo alla parte che eccepisce la
tardività dell’impugnativa sussiste un
rigoroso onere di dimostrazione della
circostanza relativa all’anticipata
conoscenza.
Il termine decadenziale per l’impugnazione
di un permesso di costruire decorre dalla
piena conoscenza dell’esistenza e
dell’entità delle violazioni urbanistiche o
del contenuto specifico del progetto
edilizio (cfr. Cons. Stato, Sez. VI,
10.12.2010 n. 8705; Sez. V, 24.08.2007 n.
4485).
Al riguardo, in virtù di un ormai
consolidato orientamento giurisprudenziale,
qui pienamente condiviso, ai fini della
tempestiva impugnazione del titolo ad
aedificandum rilasciato a terzi
l’effettiva, piena conoscenza dell’atto in
parola deve essere ancorata all’ultimazione
dei lavori oppure al momento in cui la
costruzione realizzata rivela in modo certo
ed univoco le essenziali caratteristiche
dell’opera per una eventuale non conformità
urbanistico-edilizia della stessa (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 28.01.2011 n. 678), lì
dove non si può più avere dubbi in ordine
alla reale portata dell’intervento edilizio
assentito (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
03.03.2004 n. 1023).
Sempre sulla questione della individuazione
del momento conoscitivo cui far decorrere il
termine decadenziale per l’impugnativa, la
giurisprudenza ha avuto modo di stabilire
che:
- non vale, in assenza di altri elementi
probatori, ai fini della decorrenza del
termine per l’impugnativa, a dimostrare la
piena conoscenza del provvedimento edilizio,
la presenza del cartello di cantiere recante
l’indicazione della concessione edilizia e
la descrizione dell’intervento e neppure la
data di inizio lavori (Cons. Stato Sez. IV
28.01.2011 n. 678);
- in capo alla parte che eccepisce la
tardività dell’impugnativa sussiste un
rigoroso onere di dimostrazione della
circostanza relativa all’anticipata
conoscenza (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
05.02.2007 n. 452)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.09.2011 n. 5346 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di un soppalco
non rientra nell'ambito degli interventi di
restauro o risanamento conservativo.
La realizzazione di un soppalco non rientra
nell'ambito degli interventi di restauro o
risanamento conservativo, ma nel novero
degli interventi di ristrutturazione
edilizia, dal momento che determina una
modifica della superficie utile
dell'appartamento, con conseguente aggravio
del carico urbanistico.
Per quanto concerne la realizzazione del
soppalco, anche a prescindere dalla
questione di fatto se il soppalco medesimo
sia stato realizzato nel 1982, come
sostenuto dalla ricorrente, oppure in data
successiva, deve comunque ritenersi la
necessità del previo rilascio della
concessione edilizia ai fini della legittima
realizzazione dell’opera in questione, in
considerazione delle caratteristiche
concrete di tale opera che nel caso di
specie, non può essere classificata quale
mero “ripostiglio ricavato da un
sottotetto”, come invece sostenuto dalla
ricorrente nella memoria del 22.02.2010.
L’esistenza di un servizio igienico, anche
se di soli mq. 2,50, nonché la rilevata
presenza, in sede di sopralluogo, di un
letto nel soppalco in questione, devono
ritenersi elementi sufficienti a provare che
l’opera abbia determinato una modifica della
superficie utile dell'appartamento, con
conseguente aggravio del carico urbanistico.
Alla luce delle predette circostanze,
ritiene pertanto il collegio di dare
applicazione, ai principi giurisprudenziali
in materia, secondo cui la realizzazione di
un soppalco non rientra nell'ambito degli
interventi di restauro o risanamento
conservativo, ma nel novero degli interventi
di ristrutturazione edilizia, dal momento
che determina una modifica della superficie
utile dell'appartamento, con conseguente
aggravio del carico urbanistico (cfr. TAR
Campania Napoli, sez. IV, 28.12.2009, n.
9607; TAR Campania Napoli, sez. IV,
28.11.2008, n. 20563; TAR Piemonte Torino,
sez. I, 17.12.2007, n. 3714; TAR Sicilia
Catania, sez. I, 08.05.2006, n. 699).
Per le suesposte considerazioni, risultano
infondate le censure mosse dalla ricorrente,
relativamente all’ordine di demolizione del
soppalco, di violazione della legge n. 47
del 28.02.1985 e del D.P.R. n. 380 del
06.06.2001, per difetto dei presupposti; di
eccesso di potere per difetto dei
presupposti; di eccesso di potere per omessa
motivazione circa la necessità della
demolizione in relazione al lungo tempo
trascorso dalla realizzazione dell’opera e
al perdurare dell’interesse pubblico alla
sua eliminazione contrapposto a quello
privato; di eccesso di potere per omessa
accertamento della predetta circostanza; di
difetto di istruttoria; di violazione
dell’articolo 43 del regolamento edilizio
del 2003.
In particolare, stante la natura di atto
vincolato dell’ordine di demolizione di
opere abusive, non può ritenersi necessaria
alcuna particolare motivazione in ordine
all’interesse pubblico all’eliminazione
dell’opera abusiva, dovendosi ritenere
sufficienti i rilievi, contenuti
nell’ordinanza impugnata, sia in ordine
all’”incremento della superficie utile
abitabile all’interno dell’unità data dalla
realizzazione di un soppalco…omissis…”,
“in assenza della Concessione Edilizia e in
difformità dal N.O. Ufficio Tutela del
Paesaggio”, sia in ordine al fatto che tali
opere “sono da ritenersi abusive e lesive
dei pubblici interessi” (TAR Sardegna,
Sez. II,
sentenza 23.09.2011 n. 952 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI - LAVORI PUBBLICI: In
virtù di quanto disposto dall’art. 84, comma
2, del d.lgs. n. 163 del 2006 i componenti
di una Commissione giudicatrice in una gara
di appalto devono essere in possesso delle
capacità tecniche e professionali adeguate
all'importanza dell'appalto, tali da poterli
considerare "periti peritorum" in relazione
ai concreti aspetti sui quali i medesimi
devono formulare il loro giudizio, e tale
capacità non può che essere desunta dal
possesso di un titolo di studio adeguato e
da una pregressa esperienza nel settore.
La necessità del possesso in capo ai
commissari dei requisiti tecnici e della
professionalità necessaria a formulare un
giudizio pienamente consapevole, anche in
mancanza di una specifica previsione
concernente la composizione nel dettaglio
della commissione giudicatrice, costituisce
un canone ispirato a criteri di logicità e
ragionevolezza e riveste la natura di
principio immanente nell'ordinamento
generale, che risponde ai criteri di rango
costituzionale di buon andamento ed
imparzialità dell'azione amministrativa.
Conseguentemente, è illegittima la
Commissione giudicatrice composta da un
ingegnere e due geometri sull’assunto che:
<<Solo uno dei componenti la commissione,
l’ingegnere, rivestiva la qualità di esperto
nello specifico settore oggetto
dell’appalto, precisando, altresì, che “i
due geometri dipendenti dell’amministrazione
comunale, invece, non avrebbero potuto
progettare ciò su cui erano chiamati ed
esprimere il proprio giudizio, non potendo
essere considerati esperti nella
progettazione di lavori di mitigazione del
rischio idrogeologico, nel senso richiesto
dall’art. 84, comma 2, del codice dei
contratti pubblici, in quanto la valutazione
di tale attività richiede competenze che
eccedono quanto previsto dall’art. 16 del
r.d. 11.02.1929, n. 274, recante il
regolamento per la professione di geometra,
che stabilisce proprio l’oggetto ed i limiti
dell'esercizio di tale professione. In
particolare tale regolamento all’art. 16,
lett. q), riconosce ai geometri la
possibilità di svolgere mansioni di perito
comunale, ma solo per le funzioni tecniche
ordinarie nei Comuni con popolazione fino a
diecimila abitanti, escludendo i progetti di
opere pubbliche d'importanza o che
implichino la risoluzione di rilevanti
problemi tecnici">>.
Alla luce dell’art. 84, comma 2, del d.lgs.
n. 163 del 2006 e alla luce del citato
regolamento (ndr:
art. 16 del r.d. 11.02.1929, n. 274)
regolante i limiti all’esercizio della
professione di geometra, poiché la
progettazione dei lavori per la mitigazione
del rischio idrogeologico costituisce un’
opera pubblica di sostanziale importanza,
implicante la risoluzione di problemi
tecnici di una certa complessità, due dei
membri della commissione, geometri del
comune, non avrebbero potuto progettare i
lavori in questione e conseguentemente non
avrebbero potuto essere considerati esperti
nello specifico settore oggetto del
contratto e idonei a poter valutare con la
dovuta cognizione e preparazione i progetti
presentati, perché privi del necessario
titolo di studio attestante il possesso
delle specifiche competenze tecniche di tipo
geomorfologico, geotecniche, geologiche e
idrogeologiche e conseguentemente privi
dell’esperienza nel settore>>.
●
Rilevato che con sentenza TAR Basilicata
17.05.2010, n. 280:
- è stato accolto il ricorso della Riunione
temporanea di professionisti (R.T.P. )
Giusti, Spicciarelli, D’Amico, Palma, Di
Lucchio, per l’annullamento
dell’aggiudicazione definitiva in favore
della C & G Engineering s.r.l concernente
l’affidamento dell’incarico “per la
progettazione preliminare, definitiva ed
esecutiva, direzione lavori e coordinamento
sicurezza (d.lgs. 494/1996) in fase di
progettazione e di esecuzione e direzione
relativamente ai lavori di mitigazione del
rischio idrogeologico in località Cornale”;
- è stato accolto il motivo di doglianza
relativo al lamentato vizio nella
composizione della Commissione giudicatrice,
sull’assunto che in virtù di quanto disposto
dall’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del
2006 i componenti di una Commissione
giudicatrice in una gara di appalto devono
essere in possesso delle capacità tecniche e
professionali adeguate all'importanza
dell'appalto, tali da poterli considerare
"periti peritorum" in relazione ai concreti
aspetti sui quali i medesimi devono
formulare il loro giudizio, e tale capacità
non può che essere desunta dal possesso di
un titolo di studio adeguato e da una
pregressa esperienza nel settore;
- è stato altresì chiarito che: <<la
necessità del possesso in capo ai commissari
dei requisiti tecnici e della
professionalità necessaria a formulare un
giudizio pienamente consapevole, anche in
mancanza di una specifica previsione
concernente la composizione nel dettaglio
della commissione giudicatrice, costituisce
un canone ispirato a criteri di logicità e
ragionevolezza e riveste la natura di
principio immanente nell'ordinamento
generale, che risponde ai criteri di rango
costituzionale di buon andamento ed
imparzialità dell'azione amministrativa (in
tal senso cfr. Consiglio Stato, sez. V, 18.03.2004, n. 1408)>>;
- è stata quindi ritenuta illegittima la
Commissione giudicatrice composta da un
ingegnere e due geometri sull’assunto che:
<<Solo uno dei componenti la commissione,
l’ingegnere, rivestiva la qualità di esperto
nello specifico settore oggetto
dell’appalto, precisando, altresì, che “i
due geometri dipendenti dell’amministrazione
comunale, invece, non avrebbero potuto
progettare ciò su cui erano chiamati ed
esprimere il proprio giudizio, non potendo
essere considerati esperti nella
progettazione di lavori di mitigazione del
rischio idrogeologico, nel senso richiesto
dall’art. 84, comma 2, del codice dei
contratti pubblici, in quanto la valutazione
di tale attività richiede competenze che
eccedono quanto previsto dall’art. 16 del
r.d. 11.02.1929, n. 274, recante il
regolamento per la professione di geometra,
che stabilisce proprio l’oggetto ed i
limiti dell'esercizio di tale professione.
In particolare tale regolamento all’art. 16,
lett. q), riconosce ai geometri la
possibilità di svolgere mansioni di perito
comunale, ma solo per le funzioni tecniche
ordinarie nei Comuni con popolazione fino a
diecimila abitanti, escludendo i progetti di
opere pubbliche d'importanza o che
implichino la risoluzione di rilevanti
problemi tecnici">>;
- è stato pertanto concluso che <<alla luce
dell’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del
2006 e alla luce del citato regolamento
regolante i limiti all’esercizio della
professione di geometra, poiché la
progettazione dei lavori per la mitigazione
del rischio idrogeologico costituisce un’
opera pubblica di sostanziale importanza,
implicante la risoluzione di problemi
tecnici di una certa complessità, due dei
membri della commissione, geometri del
comune, non avrebbero potuto progettare i
lavori in questione e conseguentemente non
avrebbero potuto essere considerati esperti
nello specifico settore oggetto del
contratto e idonei a poter valutare con la
dovuta cognizione e preparazione i progetti
presentati, perché privi del necessario
titolo di studio attestante il possesso
delle specifiche competenze tecniche di tipo
geomorfologico, geotecniche, geologiche e
idrogeologiche e conseguentemente privi
dell’esperienza nel settore>>;
●
Considerato che anche con sentenza in
ottemperanza TAR Basilicata 23.03.2011, n. 221, è stato chiarito che un
geometra non potesse far parte della
Commissione di gara in questione e ciò era
desumibile dall’affermazione che: <<le
prestazioni che l’amministrazione intende
far salve (progettazione preliminare e
definitiva) sono frutto di una attività
valutativa invalida, in quanto posta in
essere da una Commissione priva della
legittimazione a giudicare, poiché composta
per due terzi da geometri, che non avevano,
in relazione allo specifico oggetto di gara,
le competenze tecniche necessarie per potere
selezionare i progetti>>;
●
Ritenuto, in conclusione, che:
- la formulazione dell’art. 84 del d.lgs.
n. 163/2006, anche quando dispone che “La
commissione è presieduta di norma da un
dirigente della stazione appaltante e, in
caso di mancanza in organico, da un
funzionario della stazione appaltante
incaricato di funzioni apicali, nominato
dall’organo competente” non ha inteso
privilegiare e dare priorità in senso
assoluto al requisito dell'inserimento
nell'organico dell'ente appaltante rispetto
a quello del titolo di studio, il quale,
pertanto, deve comunque essere adeguato
rispetto alle prestazioni che dovranno
essere valutate in sede di gara;
- tale interpretazione, contrariamente a
quanto controdedotto dal Comune intimato, è
corroborata dalla formulazione della
disposizione in commento la quale, nel
prevedere che la Commissione sia “di norma”
presieduta da un dipendente della stazione
appaltante (dirigente o, in mancanza, da un
funzionario apicale), contempla
implicitamente la possibilità che in casi
eccezionali- quali quella verificatasi nella
fattispecie di mancanza di professionalità
adeguate nell’organico dell’ente- il
Presidente sia scelto tra esperti esterni
all’amministrazione;
- secondo un’interpretazione analogica per la
nomina di esperti esterni con funzioni di
Presidente della Commissione di gara, in
caso di mancanza di professionalità adeguate
tra i dirigenti o i funzionari in posizione
apicale nell’ente, si applicano sempre i
criteri dettati dall’art. 84, comma 8, del d.lgs. n. 163/2006;
●
Ritenuto, alla luce di tutto quanto sopra
esposto:
- che per realizzare pienamente l’effetto
conformativo della sentenza e quindi
adeguare la situazione di fatto alla
situazione di diritto il Comune intimato,
stante la carenza in organico di adeguate
professionalità, è tenuto a nominare anche
il Presidente della Commissione tra
professionisti esperti nella progettazione
di lavori di mitigazione del rischio
idrogeologico, da scegliersi tra gli
appartenenti ad una delle seguenti
categorie:
a) professionisti, con almeno dieci anni di
iscrizione nei rispettivi albi
professionali, nell’ambito di un elenco,
formato sulla base di rose di candidati
fornite dagli ordini professionali;
b) professori universitari di ruolo,
nell’ambito di un elenco, formato sulla base
di rose di candidati fornite dalle facoltà
di appartenenza;
●
Considerato, in accoglimento del ricorso
che:
- a norma dell’art. 114, comma 4, lett. b),
del cod. proc. amm. è dichiarata la nullità
della determina 31.05.2011, n. 126, nella
parte in cui nomina quale componente, nella
qualità di Presidente, della Commissione
giudicatrice per la valutazione dell’offerta
economicamente più vantaggiosa per
l’affidamento dei lavori in discorso,
nuovamente un geometra nella persona del
Responsabile del Settore Tecnico del Comune
di Episcopia;
- è assegnato all’Amministrazione resistente
il termine di 30 (trenta) giorni decorrenti
dalla comunicazione (o notifica) della
presente sentenza per conformarsi alla
statuizione contenuta nella sentenza, così
come chiarito;
- può disporsi sin da ora, per il caso di
ulteriore inerzia del Comune intimato, la
conferma della nomina di Commissario “ad acta” nella persona del dott. Fabrizio
D’Andrea, dirigente a.r. della Regione
Basilicata, nato a Roma il 16.04.1940,
residente in Lavello al vico 3 Leonardo da
Vinci, n. 8, perché, decorsi i termini di
adempimento assegnati all’Amministrazione, a
semplice richiesta della parte ricorrente
adotti tutti gli atti necessari a dare
esecuzione, nei sensi sopraindicati, alla
sentenza di cui trattasi nel termine di gg.
30 (trenta) decorrenti dalla scadenza di
quelli già assegnati all’Amministrazione;
●
Ritenuto, infine, che:
- l’istanza di condanna del Comune intimato
al pagamento di una somma di denaro per ogni
inosservanza successiva o ritardo
nell’esecuzione del giudicato a norma
dell’art. 114, comma 4, lett. e), è
inammissibile in virtù dei principi del
giusto processo di cui all’art. 2 del cod.
proc. amm., in quanto non contenuta
nell’atto introduttivo della presente fase
di giudizio, ma formulata per la prima volta
all’udienza camerale, alla quale peraltro il
Comune non ha partecipato (il che non ha
consentito la formazione di un pieno
contraddittorio sul punto);
- non può accogliersi la domanda di condanna
dell’amministrazione al pagamento di una
somma di denaro ex art. 26, comma 2, cod.
proc. amm., stante l’assenza di un
consolidato orientamento giurisprudenziale
sul “dictum” della sentenza oggetto
della presente ottemperanza
(TAR Basilicata,
sentenza 23.09.2011 n. 479 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Mancato aggiornamento
professionale e demansionamento.
La mancata
predisposizione di adeguate iniziative di
aggiornamento per il personale prossimo alla
pensione (in quanto ultracinquantenne) può
essere considerata ipotesi di
demansionamento, suscettibile di
risarcimento del danno patrimoniale e non.
In tal senso si è pronunciata la Corte di
Cassazione con sentenza 23.09.2011.
In particolare, il datore di lavoro che
rende inoperoso per un lungo periodo di
tempo il proprio dipendente con apprezzabile
anzianità di servizio, negandogli sia nuovi
incarichi che un adeguato e costante
aggiornamento professionale, lede la
professionalità del dipendente stesso ed è
tenuto, pertanto, a risarcire anche il danno
non patrimoniale.
In merito, poi, alla prova di quest’ultimo,
la Corte ha ritenuto che orientamento
consolidato è che il giudice può attenersi
anche a parametri probatori presuntivi
(tratto da www.diritto.it). |
ENTI LOCALI:
È legittima la clausola di un
bando per l’assegnazione di un contributo
che escluda il pagamento in contanti o
assegni delle spese sostenute.
In questa vicenda, una Comunità Montana
aveva disposto come sanzione nei confronti
della società ricorrente la riduzione di un
contributo già assegnato alla stessa, in
relazione a una procedura per l’erogazione
di aiuti europei all’agricoltura, indetta
dalla Regione.
La ricorrente, pertanto, contestava la
clausola contenuta nel bando per
l’assegnazione del contributo, secondo la
quale, per dimostrare di aver effettivamente
sostenuto le spese cui la richiesta di
finanziamento si riferisce, occorre che i
relativi pagamenti siano eseguiti tramite
bonifico bancario, ricevuta bancaria,
bollettino postale, vaglia postale, mandato
di pagamento o carta di credito, con
esclusione di modalità alternative e,
segnatamente, del pagamento per contanti o
per assegni.
Ritenendo il ricorso infondato i giudici del
Tribunale amministrativo di Firenze
segnalano che il bando stabilisce
espressamente che, al fine di rendere
trasparenti e documentabili connesse alla
realizzazione degli interventi cofinanziati,
il beneficiario del contributo è tenuto a
dimostrare l’avvenuto pagamento delle spese
inerenti un progetto approvato, producendo
un documento di spesa fornito di tutti i
dati occorrenti a identificare autori ed
oggetto dell’operazione, nonché utilizzando
una delle modalità di pagamento ivi
dettagliatamente elencate, con esclusione
del pagamento per contanti o per assegni.
La disposizione deve essere letta, secondo i
giudici toscani, alla luce dei principi
generali sull’ammissibilità delle spese di
cui al paragrafo 3.1.3.1 dello stesso bando
ed, in particolare, del principio di
verificabilità e controllabilità esplicitato
dal successivo paragrafo 3.1.3.1.3, che, in
attuazione di quanto previsto dall’art. 48
del Regolamento 2006/1974/CE, stabilisce che
le spese ammissibili sono quelle
effettivamente e definitivamente sostenute
dal beneficiario del contributo; esse
debbono corrispondere a “pagamenti
effettivamente effettuati”, comprovati
da fatture e relativi giustificativi di
pagamento, ovvero da documenti contabili
aventi forza probante equivalente: se,
infatti, questa è l’ottica di valutazione
dell’ammissibilità degli interventi,
l’esclusione dei pagamenti per contanti e
per assegno dalle spese ammissibili si
appalesa tutt’altro che irragionevole,
trattandosi di modalità di pagamento che, di
per sé, non consentono di verificare
l’effettivo transito del denaro dalla
disponibilità di chi esegue il pagamento in
quella di chi il pagamento riceve;
conclusione che vale con tutta evidenza per
il pagamento in contanti (del quale neppure
è oggettivamente riscontrabile la reale
corrispondenza/imputabilità all’operazione
ammessa a finanziamento), ma alla quale non
sfugge neppure il pagamento tramite assegni,
che, mentre nei rapporti fra le parti può
costituire idoneo mezzo di estinzione
dell’obbligazione pecuniaria, verso i terzi
–come, nella specie, è l’amministrazione che
eroga il contributo– rappresenta la semplice
consegna di un titolo di credito, del quale
resta però non verificabile l’effettiva
presentazione per l’incasso.
Ne discende, almeno in astratto, che tali
modalità di pagamento ben si prestano a
venire utilizzate per creare una situazione
di mera apparenza, finendo per risultare
incompatibili con le finalità di controllo
direttamente sancite dal legislatore
comunitario e volte, in definitiva, ad
evitare il rischio che l’erogazione dei
finanziamenti non corrisponda ad esborsi
realmente sostenuti dal beneficiario del
contributo.
Del resto, la circostanza che il ricorso a
un dato mezzo di pagamento rappresenti, in
talune ipotesi, una delle possibili
alternative all’uso del denaro contante,
vietato dalla legge, non toglie che, per
altri e diversi fini, lo stesso mezzo di
pagamento possa ragionevolmente considerarsi
inadeguato e, pertanto, non sia utilmente
spendibile, senza che ciò determini alcun
contrasto interno all’ordinamento (tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR Toscana,
Sez. II,
sentenza
21.09.2011 n. 1417 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
È nulla la clausola che violi la
disciplina legislativa sulla revisione dei
prezzi di gara.
In questa pronuncia, il principale argomento
addotto dalla ditta ricorrente, affidataria
dell’esecuzione di lavori di
ristrutturazione e trasformazione di due
edifici della ex struttura ospedaliera
cittadina, riguardava una clausola, in sé
alquanto ambigua: essa veniva intesa
dall’appaltatore nel senso che il Comune si
sarebbe impegnato ad assicurare una
revisione dei prezzi retroattiva.
I giudici del Consiglio di Stato osservano,
tuttavia, che una simile interpretazione
comporterebbe la nullità della clausola per
violazione della disciplina legislativa
dell’istituto revisionale, regime le cui
previsioni, non sono derogabili
dall’autonomia privata. Gli stessi giudici
rammentano, infatti, che l’art. 33 della L
28/02/1986 n. 41, dopo avere escluso la
possibilità di procedere alla revisione dei
prezzi per i lavori relativi ad opere
pubbliche aventi durata inferiore all'anno,
per quelli aventi durata superiore ammette
la revisione (a decorrere dal secondo anno
successivo alla aggiudicazione, e con
esclusione dei lavori già eseguiti nel primo
anno e dell'intera anticipazione ricevuta)
quando, però, l'Amministrazione riconosca
che l'importo complessivo della prestazione
sia aumentato o diminuito in misura
superiore al 10 per cento “per effetto di
variazioni dei prezzi correnti intervenute
successivamente alla aggiudicazione stessa”.
I giudici di Palazzo Spada, inoltre,
sottolineano come un uniforme orientamento
giurisprudenziale escluda in materia di
revisione prezzi la derogabilità della
regolamentazione legale, alla quale viene
riconosciuta valenza imperativa.
Ad esempio, nella pronuncia Cass. Civ., I,
24.02.1994, n. 1876, si legge quanto segue:
“L'art. 2 della L. n. 37 del 1973
dispone: "... la facoltà di revisione dei
prezzi è ammessa, secondo le norme che la
regolano, con esclusione di qualsiasi patto
contrario o in deroga": vuol dire che, a
decorrere almeno dalla data di entrata in
vigore di questa legge, la facoltà (ora
soppressa ex art. 3 d.l. 333/1992,
convertito nella L. 359/1992)
dell'amministrazione appaltante (o
concedente) di procedere alla revisione dei
prezzi non ammetteva, sotto qualsiasi
profilo, deroghe pattizie, nel senso,
esplicitando, che la revisione non poteva
essere preventivamente esclusa o,
all'opposto, resa obbligatoria (Cass.
5333/1980, Cass. 4288/1992, Cass. 4088-1985,
Cass. 4099/1987), né essere regolata con
modalità difformi, in tutto o in parte, dal
regime legale.
Di qui la nullità (attesa la pacifica
imperatività della norma sotto esame) delle
pattuizioni derogative (sostituite, perciò,
di diritto, ex art. 1339 c.c., dalla
disciplina legale), quale che ne fosse il
contenuto e, quindi, anche se attinenti non
all'an ma al quantum della revisione e, in
particolare, alla base del relativo computo,
dato che l'art. 2 cit., rinviando, senza
distinzione alcuna, alle norme (tutte) che
regolavano l'istituto, non consentiva di
degradare a norme dispositive quelle
riguardanti il modo di determinare l'importo
revisionale, …” (tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza
19.09.2011 n. 5280 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La realizzazione o conservazione
di un parco urbano non configura un vincolo
né comporta l'inedificabilità assoluta.
Secondo la recente e condivisibile
giurisprudenza di questo Consiglio (cfr.,
ex multis, Consiglio Stato, sez. IV,
10.06.2010, n. 3700), i vincoli di piano
regolatore, ai quali si applica il principio
della decadenza quinquennale, ai sensi
dell'art. 2, l. 19.11.1968 n. 1187, sono
soltanto quelli che incidono su beni
determinati, assoggettandoli a vincoli
preordinati all'espropriazione o a vincoli
che ne comportano l'inedificabilità e,
dunque, svuotano il contenuto del diritto di
proprietà, incidendo sul godimento del bene
tanto da renderlo inutilizzabile rispetto
alla sua destinazione naturale ovvero
diminuendone in modo significativo il suo
valore di scambio.
La previsione di una determinata tipologia
urbanistica, quale nella specie relativa
alla realizzazione o conservazione di parco
urbano o di quartiere, non configura un
vincolo preordinato all'espropriazione né
comporta l'inedificabilità assoluta,
trattandosi di una prescrizione diretta a
regolare concretamente l'attività edilizia e
quindi, costituente esercizio di potestà
conformativa che sfugge al ricordato limite
temporale (cfr. art. 11, l. 17.08.1942 n.
1150).
Nel caso in esame, peraltro, il vincolo
consente la realizzazione di strutture a
carattere provvisorio, quali chioschi di
ristoro, tettoie aperte e attrezzi per il
gioco dei bambini, prevedendo una
destinazione non rimessa alla necessaria
iniziativa pubblica e, quindi, attuabile,
senza previa ablazione del bene, anche ad
iniziativa privata o promiscua
pubblico-privata (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
19.09.2011 n. 5276 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La stazione appaltante deve
stabilire se è definitivo l’accertamento
delle violazioni riscontrate nel Durc.
Il più recente indirizzo giurisprudenziale a
cui il Collegio ritiene di dover aderire, ha
avuto modo di precisare come
l’insindacabilità del contenuto formale del
DURC non assuma certamente il significato di
un’abrogazione implicita del preciso
disposto dell’art. 38 del Codice dei
contratti pubblici, nella parte in cui la
previsione preclude la partecipazione alle
procedure di affidamento di quei soggetti
che abbiano “commesso violazioni gravi,
definitivamente accertate alle norme in
materia di contributi previdenziali e
assistenziali”.
Il raccordo tra le due discipline, pertanto,
va ricercato nella valutazione
dell’incidenza di quanto attestato nel DURC
rispetto alla specifica procedura di
affidamento.
Tale valutazione, di natura propriamente
discrezionale, è riservata alla stazione
appaltante.
Questa, lungi dal sindacare il contenuto del
DURC, è chiamata a verificare se le
violazioni da esso certificate siano da
considerarsi gravi e definitivamente
accertate in relazione all’oggetto e alle
modalità di svolgimento della gara (cfr.
Cons. Stato Sez. V, 30.09.2009, n. 5896).
Ed in questo senso, il primo giudice dopo
aver premesso, in via di principio, che “un
conto è la regolarità contributiva formale,
rimessa al potere di accertamento e di
valutazione dell’istituto previdenziale, un
conto e la gravità della violazione in
materia contributiva e previdenziale, ai
fini della partecipazione ad una gara
rimessa alla stazione appaltante che, in
concreto ed al di fuori di ogni automatismo,
dovrebbe per l’appunto valutare la presenza
di indici sintomatici della gravità
dell’infrazione, tali da giustificare
l’estromissione dalla gara”, ha concluso
“che alcuna censura possa essere mossa
alla stazione appaltante posto che, una
volta acquisiti i dati del DURC, non ha
disposto l’esclusione immediata ed
automatica della ricorrente, ma ha
correttamente instaurato il contraddittorio
chiedendo chiarimenti con nota del
10.07.2008. Le giustificazioni addotte dalla
ricorrente non sono apparse sufficienti a
superare le riscontrate irregolarità
contributive sicché la stazione appaltante
non ha potuto che disporre l’esclusione”.
Sennonché tale statuizione, corretta nella
premessa, non è condivisibile nella sua
conclusione.
Come già
precisato, infatti, un conto e la regolarità
contributiva formale, che è un dato
oggettivo, rimessa al potere di accertamento
dell’istituto previdenziale, un conto è la
gravità della violazione contributiva e
previdenziale, ai fini della partecipazione
ad una gara, la cui valutazione è rimessa
all’Amministrazione appaltante che, in
concreto e al di fuori di ogni automatismo,
deve verificare la presenza di indici
sintomatici della gravità dell’infrazione,
tali da giustificare l’estromissione dalla
gara.
In altri termini, l’esistenza di gravi
violazioni in materia contributiva e
previdenziale, come requisito generale di
partecipazione alle gare, costituisce
oggetto di autonoma valutazione da parte
della stazione appaltante, rispetto alla
quale le risultanze del DURC si pongono come
meri elementi indiziari, dai quali non può
prescindersi, ma che comunque non
esauriscono l’ambito di accertamento circa
la sussistenza di una violazione grave
(cfr., Cons. Stato, Sez. VI, 04.08.2009 n.
4907).
Ne deriva che una volta acquisito il DURC,
spetta alla stazione appaltante valutare se
le risultanze ivi contenute, oggettivamente
non controvertibili, siano idonee e
sufficienti anche a giustificare un giudizio
in termini di gravità di una violazione che
sia emersa dal DURC.
Occorre, inoltre, che l’Ente verifichi la
definitività dell’accertamento, pur
necessaria per ritenere integrato il
precetto normativo di cui all’art. 38, comma
1, lett. i) e, dunque, a configurare la
situazione ostativa prescritta dalla norma.
E, ai fini della verifica della definitività
dell’accertamento, per gli effetti di cui
alla citata norma, rileva che al momento
della scadenza del termine per la
presentazione della domanda di
partecipazione alla gara sia spirato il
termine per l’impugnazione dell’atto di
accertamento in sede amministrativa, o il
relativo ricorso amministrativo sia stato
respinto con provvedimento definitivo e non
sia stato proposto ricorso giurisdizionale
(cfr., Cons. Stato, Sez. V, 13.07.2010 n.
4511) (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza
16.09.2011 n. 5186 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
I costi dei servizi ai disabili
si parametrano sulla situazione economica
del solo assistito.
Nei suoi più recenti arresti, la Sezione ha
avuto modo di precisare come il d.lgs. n.
109/1998 abbia introdotto l’I.S.E.E. come
criterio generale di valutazione della
situazione economica delle persone che
richiedono prestazioni sociali agevolate, e
l’applicazione di tale parametro comporta
che la condizione economica del richiedente
sia definita in relazione ad elementi
reddituali e patrimoniali del nucleo
familiare cui egli appartiene.
Rispetto a particolari situazioni, lo stesso
d.lgs. n. 109/1998 prevede tuttavia
l’utilizzo di un diverso parametro, basato
sulla situazione del solo interessato.
In particolare, l’art. 3, comma 2–ter,
stabilisce che “limitatamente alle
prestazioni sociali agevolate assicurate
nell’ambito di percorsi assistenziali
integrati di natura sociosanitaria, erogate
a domicilio o in ambiente residenziale a
ciclo diurno o continuativo, rivolte a
persone con handicap permanente grave, di
cui all’articolo 3, comma 3, della legge
05.02.1992, n. 104, accertato ai sensi
dell’articolo 4 della stessa legge, nonché a
soggetti ultra sessantacinquenni la cui non
autosufficienza fisica o psichica sia stata
accertata dalle aziende unità sanitarie
locali, le disposizioni del presente decreto
si applicano nei limiti stabiliti con
decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri, su proposta dei Ministri per la
solidarietà sociale e della sanità. Il
suddetto decreto è adottato, previa intesa
con la Conferenza unificata di cui
all’articolo 8 del decreto legislativo
28.08.1997, n. 281, al fine di favorire la
permanenza dell’assistito presso il nucleo
familiare di appartenenza e di evidenziare
la situazione economica del solo assistito,
anche in relazione alle modalità di
contribuzione al costo della prestazione, e
sulla base delle indicazioni contenute
nell’atto di indirizzo e coordinamento di
cui all’articolo 3-septies, comma 3, del
decreto legislativo 30.12.1992, n. 502, e
successive modificazioni".
La deroga rispetto alla valutazione
dell’intero nucleo familiare è limitata,
sotto il profilo soggettivo, alle persone
con handicap permanente grave e ai soggetti
ultra sessantacinquenni non autosufficienti
(con specifico accertamento in entrambi i
casi) e, con riguardo all’ambito oggettivo,
alle prestazioni inserite in percorsi
integrati di natura sociosanitaria, erogate
a domicilio o in ambiente residenziale, di
tipo diurno oppure continuativo.
Ricorrendo tali presupposti, deve essere
presa in considerazione la situazione
economica del solo assistito (cfr. Sez.
V,16.03.2011, n. 1607).
La tesi che esclude l’immediata
applicabilità della norma, in virtù
dell’attuazione demandata ad un apposito
d.p.c.m., benché sostenuta da questo
Consiglio di Stato in sede consultiva (sez.
III, n. 569/2009) non appare convincente ed
è già stata disattesa dalla Sezione in
alcuni precedenti cautelari (sez. V, ord. nn.
3065/2009, 4582/2009 e 2130/2010), che hanno
trovato conferma nelle più recenti sentenze
(sez. V, sent. n. 551/2011; n. 1607/2011)
della Sezione stessa, che il Collegio
pienamente condivide.
Deve ritenersi, quindi, che il citato art 3,
comma 2–ter, pur demandando in parte la sua
attuazione al successivo decreto, abbia
introdotto un principio, immediatamente
applicabile, costituito dalla evidenziazione
della situazione economica del solo
assistito, rispetto alle persone con
handicap permanente grave e ai soggetti
ultra sessantacinquenni la cui non
autosufficienza fisica o psichica sia stata
accertata dalle aziende unità sanitarie
locali.
Tale regola non incontra alcun ostacolo per
la sua immediata applicabilità e il citato
decreto, pur potendo introdurre innovative
misure per favorire la permanenza
dell’assistito presso il nucleo familiare di
appartenenza, non potrebbe stabilire un
principio diverso dalla valutazione della
situazione del solo assistito; di
conseguenza, anche in attesa dell’adozione
del decreto, sia il legislatore regionale
sia i regolamenti comunali devono attenersi
a tale principio, idoneo a costituire uno
dei livelli essenziali delle prestazioni da
garantire in modo uniforme sull’intero
territorio nazionale, mirando proprio ad una
facilitazione all’accesso ai servizi sociali
per le persone più bisognose di assistenza.
Correttamente quindi il Tar ha fondato la
sua interpretazione, oltre che sul dato
letterale della legge, sul quadro
costituzionale e sulle norme di derivazione
internazionale, facendo particolare
riferimento alla legge 03.03.2009 n. 18 che
ha ratificato la Convenzione di New York del
13.12.2006, sui “diritti delle persone
con disabilità”.
La giurisprudenza ha già sottolineato che la
Convenzione si basa sulla valorizzazione
della dignità intrinseca, dell’autonomia
individuale e dell’indipendenza della
persona disabile (v. l’art. 3, che impone
agli Stati aderenti un dovere di solidarietà
nei confronti dei disabili, in linea con i
principi costituzionali di uguaglianza e di
tutela della dignità della persona, che nel
settore specifico rendono doveroso
valorizzare il disabile di per sé, come
soggetto autonomo, a prescindere dal
contesto familiare in cui è collocato, anche
se ciò può comportare un aggravio economico
per gli enti pubblici).
I principi della Convenzione costituiscono,
quindi, ulteriore argomento interpretativo
in favore della tesi dell’immediata
applicabilità del comma 2–ter dell’art. 3
del d.lgs. n. 109/1998 e per ritenere
manifestamente infondata ogni questione di
costituzionalità, che dubiti della
compatibilità costituzionale della
interpretazione fatta propria dal TAR e qui
confermata (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.09.2011 n. 5185 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Stop
ai concorsi pubblici riservati ai dipendenti
interni. Bocciata una selezione per
progressioni verticali.
Ulteriore chiusura sulla vicenda delle
progressioni verticali negli enti locali. A
quasi due anni dall'entrata in vigore del
Dlgs 150/2009, una recentissima sentenza del
Tar Lazio di Latina, conferma l'orientamento
delle sezioni riunite della Corte dei conti.
Nonostante la vigenza dell'articolo 91 del
Dlgs 267/2000 le autonomie territoriali non
potranno più prevedere concorsi solamente
riservati al personale interno.
Le progressioni tra le aree hanno subito un
duro colpo ad opera della Riforma Brunetta.
Da una parte è stato infatti previsto che
per poter procedere all'inquadramento
superiore è necessario essere in possesso
del titolo di studio richiesto per l'accesso
dall'esterno; dall'altra è stato sancito che
il passaggio di carriera può avvenire
esclusivamente tramite concorso pubblico con
(eventuale) riserva ai dipendenti interni,
ma mai superiore al 50% dei posti.
Mentre quindi le progressioni orizzontali
mantengono la loro natura premiante del
merito o del percorso valutativo, le
progressioni verticali, oltre a trasformarsi
in progressioni di carriera, acquisiscono
una nuova e certa finalità cui è correlato
uno specifico procedimento.
I magistrati del TAR Lazio-Latina con la
sentenza
15.09.2011 n. 689 concludono quindi che
la determinazione del responsabile del
settore amministrativo di un Comune è
illegittima perché prevede una procedura
selettiva interna per la copertura di un
solo posto di Comandante, anziché quella
normativamente imposta dal Dlgs 150/2009,
ovvero il concorso pubblico.
In questi casi non è neppure possibile
invocare il principio di specialità del Dlgs
267/2000. Infatti il Tuel al l'articolo 91
prevede ancora che gli enti locali possono
prevedere concorsi interamente riservati al
personale dipendente, solo in relazione a
particolari profili o figure professionali
caratterizzati da una professionalità
acquisita esclusivamente all'interno
dell'ente.
E questo nonostante l'articolo 1, comma 4,
del medesimo decreto contenga la cosiddetta
clausola di rafforzamento sull'impossibilità
di una norma successiva di intercedere sugli
istituti propri degli enti locali senza
espressa modificazione. Infatti, la stessa
Corte dei conti, Sezioni riunite, con la
Deliberazione n. 10/2010 aveva già
scardinato tale tesi ribadendo che
l'articolo 91 del Tuel risulta abrogato per
incompatibilità con le norme del Dlgs
150/2009.
Le regole per le progressioni di carriera
sono pertanto esclusivamente quelle volute
dalla Riforma Brunetta che abbiamo riassunte
qui sopra: i passaggi tra le aree possono
avvenire esclusivamente con riserva di
concorso e vi possono partecipare solo
lavoratori in possesso di titolo di studio
necessario per l'accesso dal l'esterno.
Risulta quindi impossibile bandire un
concorso per un solo posto interamente
riservato ai propri dipendenti.
Le progressioni verticali vecchia maniera
non sono quindi più attuabili dal 15.11.2009, ma, secondo il Tar Reggio
Calabria (Sentenza n. 914/2010) è possibile
portare a compimento quelle previste in
bandi pubblicati prima dell'entrata in
vigore del Dlgs 150/2009
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI:
P.A., senza moralità
professionale niente contratti.
Il requisito della
moralità professionale, richiesto per la
partecipazione alle gare pubbliche di
appalto, è da considerarsi mancante
nell'ipotesi di commissione di un reato
specifico connesso al tipo di attività che
il soggetto deve svolgere.
L’Autorità di Vigilanza per i contratti
pubblici inseriva nel Casellario informatico
una annotazione, relativa alla revoca
dell’aggiudicazione disposta da parte della
più importante società autostradale per
false dichiarazioni nel possesso dei
requisiti da parte di una ditta
partecipante. L’inserimento dell’annotazione
è stato successivamente comunicato alla
società interessata.
Nel frattempo, altra società operante nel
medesimo settore aveva indetto una gara per
l’affidamento dei lavori di manutenzione
straordinaria di una determinata strada.
Nella domanda presentata, la società
ricorrente comunicava la sussistenza a suo
carico di un decreto penale di condanna in
precedenza emesso in relazione a violazioni
di norme sulla salute e sicurezza dei
lavoratori, ma non la annotazione pendente
nel Casellario.
La stazione appaltante, così, ne disponeva
l’esclusione dalla gara sia in relazione
alla mancata dichiarazione dell’annotazione,
che alla mancanza dei requisiti di
partecipazione, trattandosi di reato
incidente sulla moralità professionale;
inviava, dunque, la segnalazione
dell’esclusione all’Autorità di Vigilanza.
Quest’ultima, tuttavia, archiviava il
procedimento relativo a un’eventuale
ulteriore annotazione per false
dichiarazioni, in quanto risultava che
l’impresa aveva ricevuto la comunicazione
dell’annotazione successivamente alla
compilazione della domanda di partecipazione
alla gara.
Avverso il provvedimento di esclusione della
gara, l’invio della comunicazione
dell’esclusione all’Autorità di Vigilanza e
la prima annotazione da parte della medesima
è insorta la ditta interessata, invocandone
l’annullamento con contestuale domanda di
risarcimento danni.
Il TAR di Roma, dichiarata l’irricevibilità
per tardività del ricorso limitatamente alla
prima annotazione inserita dall’Autorità di
Vigilanza, nel merito ha ritenuto
inammissibile l’impugnazione proposta
avverso la comunicazione dell’avvenuta
esclusione da parte della seconda società
stradale all’Authority, atteso che il
menzionato atto, avendo natura
endoprocedimentale, non appariva
immediatamente lesivo né autonomamente
impugnabile.
Infatti, ha proseguito il Collegio
capitolino, la segnalazione nel casellario
informatico non aveva prodotto alcun
effetto, se non quello dell’avvio del
procedimento presso l’Autorità.
Di conseguenza, l’unico atto conclusivo con
valenza provvedimentale era rappresentato
dall’eventuale annotazione disposta dalla
medesima; al contrario, la semplice
segnalazione all’Autorità costituiva una
mera comunicazione circa fatti verificatisi
o accertati in relazione a una gara,
rispetto alla quale potevano derivare
effetti pregiudizievoli per l'impresa
interessata solo a seguito di annotazione
nel Casellario informatico (v., di recente,
TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 09.02.2011,
n. 762).
Passando a esaminare l’impugnazione proposta
avverso il provvedimento di esclusione dalla
gara, l’adito giudicante ha dichiarato
l’infondatezza del gravame.
In proposito, il G.A. ha sottolineato come
l’impugnato provvedimento di esclusione non
era fondato solo sulla mancata dichiarazione
dell’annotazione successivamente inserita
dall’Autorità e che, quindi, non risultava
ancora conosciuta al momento di
presentazione della domanda.
Invero, ha proseguito, l’esclusione dalla
gara era stata determinata anche
sull’autonoma valutazione della sussistenza
del precedente decreto penale di condanna,
quale elemento ostativo alla partecipazione
alla gara, ai sensi dell’art. 38 del D.Lgs.
n. 163/2006, trattandosi di reato
considerato incidente sulla moralità
professionale.
Tale valutazione, a opinione del Tribunale,
non poteva ritenersi né in contrasto con la
disposizione dell’art. 38 cit., né
irragionevole, trattandosi di decreto penale
per reato relativo alla violazione di norme
sulla sicurezza dei lavoratori.
Difatti, ha precisato che l'art. 38, comma
1, D.Lgs. n. 163 del 2006, nel testo
applicabile al momento dello svolgimento
della gara, prevedeva alla lett. c)
l’esclusione dalla partecipazione alle
procedure di affidamento delle concessioni e
degli appalti di lavori, forniture e servizi
dei soggetti nei cui confronti è stato
emesso, oltre al resto, decreto penale di
condanna divenuto irrevocabile per reati
gravi che incidono sulla moralità
professionale.
In argomento, ha ancora richiamato un
recente orientamento giurisprudenziale che,
in relazione alla cd. “incidenza sulla
moralità professionale”, ha evidenziato
la rilevanza dell'interesse
dell'Amministrazione a non contrarre
obbligazioni con soggetti che non
garantiscono adeguata moralità professionale
in relazione al tipo di contratto oggetto
della gara (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
12.04.2007, n. 1723).
A non differente conclusione il Collegio
romano è pervenuto in relazione alla nozione
di gravità del reato, la quale dev’essere
valutata non in relazione alla
considerazione penalistica del reato, ma
all’interesse dell’Amministrazione al
corretto adempimento delle obbligazioni
oggetto del contratto.
Conseguentemente, ha ritenuto che la gravità
del reato, ai sensi dell’art. 38 cit., non è
esclusa dalla lieve pena edittale prevista
nella fattispecie penale o dalla natura
contravvenzionale del reato, ma dev’essere
valutata in relazione all’incidenza del
reato sulla moralità professionale (commento
tratto da www.ipsoa.it -
TAR
Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 07.09.2011 n. 7143 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Off limits le note del vigile «poliziotto».
Gli atti posti in essere dalla polizia
municipale in funzione di polizia
giudiziaria sono sottratti al diritto
d'accesso: così ha stabilito il TAR Sardegna,
Sez. II,
nella
sentenza
20.06.2011 n. 638.
Il Tribunale, d'altronde, ha applicato a
questa vicenda i principi affermati dalla
giurisprudenza amministrativa in materia,
secondo cui non ogni denuncia di reato
presentata dalla pubblica amministrazione
all'autorità giudiziaria costituisce atto
coperto da segreto istruttorio penale e come
tale sottratta all'accesso, in quanto, se la
denuncia è presentata dalla Pa
nell'esercizio delle proprie istituzionali
funzioni amministrative, non si ricade
nell'ambito di applicazione dell'articolo
329 del Codice di procedura penale; tuttavia
se la Pa che trasmette all'autorità
giudiziaria una notizia di reato non lo fa
nell'esercizio della propria istituzionale
attività amministrativa, ma nel l'esercizio
di funzioni di polizia giudiziaria
specificamente attribuite dal l'ordinamento,
si è in presenza di atti di indagine
compiuti dalla polizia giudiziaria, che,
come tali, sono soggetti a segreto
istruttorio ai sensi dell'articolo 329 del
Codice di procedura penale e
conseguentemente sottratti all'accesso.
I giudici sardi hanno precisato che ai fini
dell'esercizio del l'accesso ai documenti
amministrativi, la polizia municipale
esercita, rispetto alle opere edilizie
abusive, funzioni di polizia giudiziaria,
con la conseguenza che gli atti che
quest'ultima compie e acquisisce nel
l'esercizio di tali funzioni sono
assoggettati al regime stabilito dal Codice
di procedura penale e al segreto istruttorio
di cui all'articolo 329
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONDOMINIO:
Telecamere in un condominio?
Dipende da dove puntano.
Il singolo condomino non può autonomamente
installare un impianto di videosorveglianza
che riprenda parti comuni dell'edificio,
neppure a scopo di tutela della sua
sicurezza, messa in pericolo da atti
vandalici e/o tentativi di effrazione.
Così
ha deciso il TRIBUNALE di Varese con la
sentenza 16.06.2011 n. 1273, ritenendo
che perché possa installarsi legittimamente
detto impianto è necessario il consenso
espresso di tutti i condòmini.
A seguito di alcuni tentativi di effrazione
e di atti vandalici subiti, un condomino, di
propria iniziativa, aveva fatto installare
un impianto di videosorveglianza con tre
telecamere: la prima montata sul
pianerottolo del primo piano che inquadrava
parzialmente la porta di ingresso di altri
condòmini, la seconda che puntava sul
portone di accesso al fabbricato e sul
garage e l’ultima che riprendeva una vecchia
serra. A tale iniziativa reagivano gli altri
condòmini, sottoponendo al Tribunale di
Varese la descritta situazione e chiedendo
di dichiararne l’illegittimità con
conseguente rimozione dell’impianto stesso,
in via cautelare, sul presupposto che il
sistema era destinato a riprendere immagini
degli spazi comuni con conseguente
violazione della privacy e della
riservatezza dei condomini.
La questione giuridica affrontata concerne,
in sostanza, la liceità del comportamento di
un singolo condomino che, senza previa
delibera assembleare, installi, al fine di
tutelare la propria personale sicurezza, un
impianto di videosorveglianza che riprenda
anche aree condominiali comuni, con
conseguente sacrificio del diritto alla
riservatezza degli altri condomini e di
terzi tutelato direttamente dall’art. 2 Cost..
E’ ormai orientamento consolidato che il
siffatto comportamento, anche se assunto
contro la volontà degli altri
comproprietari, non integra il reato di
interferenze illecite nella vita privata di
cui all’art. 615-bis c.p. in quanto la
tutela penale del domicilio è limitata a ciò
che avviene in luoghi di provata dimora, non
visibili ad estranei.
Ciò soprattutto se gli altri condomini siano
a conoscenza dell'esistenza delle telecamere
e possano visionarne in ogni momento le
riprese: “l’esposizione alla vista di
terzi di un'area che costituisce pertinenza
domiciliare e che non è destinata a
manifestazioni di vita privata esclusive è
incompatibile con una tutela penale della
riservatezza, anche ove risultasse che
manifestazioni di vita privata in quell'area
siano state in concreto, inaspettatamente,
realizzate” (Cass. pen.
21.10–26.11.2008, n. 44156, Cass. pen.
30.10.2008, n. 40577, Cass. SS. UU. pen.
28.03.2006 n. 26795, Corte costituzionale n.
149/2008).
Non così pacifica è, invece, la valutazione
della liceità del descritto comportamento
dal punto di vista civile.
La materia sottoposta al vaglio del
Tribunale si presenta alquanto spinosa e
controversa. Di certo vi è che, nonostante i
solleciti provenienti da più parti, manca
una disciplina normativa che attui la
riserva di legge prevista dall’art. 14 Cost..
In attesa che venga colmata questa lacuna,
il Garante per la Privacy è intervenuto più
volte per stabilire alcuni punti fermi.
In primo luogo vi è da precisare che
l'installazione di tali impianti, se
effettuata nei pressi di immobili privati e
all'interno di condomìni e loro pertinenze,
non è soggetta al Codice in materia di dati
personali (D.Lgs. 196/2003) quando i dati
non sono comunicati sistematicamente o
diffusi. Nonostante ciò, richiede comunque
l'adozione di cautele a tutela dei terzi
(art. 5, comma 3, del Codice).
In particolare le riprese devono essere
limitate esclusivamente agli spazi di
propria esclusiva pertinenza (ad esempio
quelli antistanti l'accesso alla propria
abitazione) escludendo ogni forma di
ripresa, anche senza registrazione di
immagini, relative ad aree comuni (cortili,
pianerottoli, scale, garage comuni) o
antistanti l'abitazione di altri condomini.
Quando invece la ripresa delle aree
condominiali è effettuata da più condomini o
dal condominio trova applicazione il citato
Codice.
L'installazione di questi impianti è
ammissibile esclusivamente per assicurare la
sicurezza di persone e la tutela di beni da
concrete situazioni di pericolo, di regola
costituite da illeciti già verificatisi,
oppure nel caso di attività che comportano,
ad esempio, la custodia di denaro, valori o
altri beni (recupero crediti, commercio di
preziosi o di monete aventi valore
numismatico).
Poiché, ad ogni modo, comporta
l'introduzione di una limitazione e comunque
di un condizionamento per i cittadini, deve
essere rifiutato ogni uso superfluo nonché
ogni utilizzazione eccessiva rispetto allo
scopo da raggiungere. Scopo che deve essere
determinato, esplicito e legittimo e,
soprattutto, di pertinenza del titolare
dell’impianto.
Per questo motivo possono essere attivati
soltanto quando altre misure (ad esempio:
controlli da parte di addetti, sistemi di
allarme, misure di protezione degli
ingressi, abilitazioni agli ingressi) siano
insufficienti o inattuabili e, per questo
motivo, anche l'installazione meramente
dimostrativa o artefatta di telecamere non
funzionanti o per finzione, anche se non
comporta trattamento di dati personali, può
essere legittimamente oggetto di
contestazione.
Sulla scorta di tale quadro si è formata una
giurisprudenza di merito, non essendovi
ancora sul punto pronunce della Suprema
Corte, compattamente orientata nel senso che
non esiste un potere spettante a ciascun
condomino di installare impianti di
videosorveglianza, soprattutto se orientati
su parti condominiali, in quanto ciò
comporta una evidente compressione e lesione
del diritto all’altrui riservatezza, non
giustificata da un interesse altrettanto
forte e ampio, considerando che l’esigenza
di tutela possa far capo ad uno solo dei
condòmini, mentre il diritto alla
riservatezza riguarda tutti gli altri (in
tal senso Trib. Nola, sez. II civ., ord.
03.02.2009, Trib. Milano, 06.04.1992).
Condividendo tali assunti, la sentenza in
esame, tenuto conto che, nel caso concreto,
le telecamere erano state “puntate” non
soltanto sulla proprietà esclusiva del
condomino installatore ma anche su aree
comuni e ritenendo che “il condomino non
abbia alcun potere di installare, per sua
sola decisione, delle telecamere in ambito
condominiale idonee a riprendere spazi
comuni o addirittura spazi esclusivi degli
altri condomini”, ha qualificato
illecito tale comportamento con il
conseguente ordine di eliminare le
telecamere posizionate.
Ma il Tribunale di Varese si spinge oltre
statuendo che neppure l’assemblea
condominiale può deliberare l’installazione
dell’impianto di videosorveglianza, in
quanto lo scopo della tutela dell'incolumità
delle persone e delle cose dei condòmini,
non essendo finalizzata a servire i beni
comuni e concretandosi in una lesione di un
diritto fondamentale della persona tutelato
direttamente dall’art. 2 Cost., esula dalle
attribuzioni dell'assemblea stessa (conforme
Tribunale di Salerno ordinanza del
14.12.2010).
Ed infatti “i singoli condòmini non
possono giammai sopportare, senza il loro
consenso, una ingerenza nella loro
riservatezza seppur per il fine di sicurezza
di chi video-riprende. Né l’assemblea può
sottoporre un condomino ad una rinuncia a
spazi di riservatezza solo perché abitante
del comune immobile, non avendo il
condominio alcuna potestà limitativa dei
diritti inviolabili della persona.
Peraltro, nell’ottica del cd. balancing
costituzionale, la videoripresa di
sorveglianza può ben essere sostituita da
altri sistemi di protezione e tutela che non
compromettono i diritti degli altri
condomini, offrendo quindi un baricentro in
cui i contrapposti interessi possono
convivere”.
Pertanto, il sistema di videosorveglianza
può essere installato soltanto nel caso in
cui la decisione sia deliberata
all’unanimità dai condomini, perfezionandosi
in questo caso un comune consenso idoneo a
fondare effetti tipici di un negozio
dispositivo dei diritti coinvolti e, quindi,
con il consenso espresso, libero e
documentabile per iscritto come prescritto
dall’art. 23 del Codice in materia di
protezione dei dati personali (23.09.2011
- tratto da www.ipsoa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI - LAVORI PUBBLICI: Alla
luce dell’art. 84, comma 2, del d.lgs. n.
163 del 2006 e alla luce del citato
regolamento (ndr: art. 16 del r.d.
11.02.1929, n. 274) regolante i limiti
all’esercizio della professione di geometra,
poiché la progettazione dei lavori per la
mitigazione del rischio idrogeologico
costituisce un’opera pubblica di
sostanziale importanza, implicante la
risoluzione di problemi tecnici di una certa
complessità, due dei membri della
commissione, geometri del comune, non
possono progettare i lavori in
questione e conseguentemente non possono essere considerati esperti nello
specifico settore oggetto del contratto e
idonei a poter valutare con la dovuta
cognizione e preparazione i progetti
presentati.
Giusta la delicatezza e le specifiche
competenze tecniche richieste nel settore
del consolidamento delle aree franose, una
commissione di gara composta in prevalenza
da geometri, privi del necessario titolo di
studio attestante il possesso delle
specifiche competenze tecniche di tipo
geomorfologico, geotecniche, geologiche e
idrogeologiche e conseguentemente privi
dell’esperienza nel settore, non può
considerarsi composta da esperti e pertanto
non è idonea selezionare il miglior
progetto.
L’amministrazione, nel caso di specie, deve
fare applicazione dell’art. 84, comma 8, del
d.lgs. n. 163, del 2006, che laddove
stabilisce che i commissari siano
"selezionati tra i funzionari della stazione
appaltante" non ha inteso privilegiare e
dare priorità in senso assoluto al requisito
dell'inserimento nell'organico dell'ente
appaltante rispetto a quello del titolo di
studio, il quale, pertanto, deve comunque
essere adeguato rispetto alla prestazione
oggetto della gara.
Osserva il Collegio, che l’art. 84, comma 2,
del d.lgs. n. 163 del 2006 prevede che: “La
commissione, nominata dall’organo della
stazione appaltante competente ad effettuare
la scelta del soggetto affidatario del
contratto, è composta da un numero dispari
di componenti, in numero massimo di cinque,
esperti nello specifico settore cui si
riferisce l’oggetto del contratto”.
Il Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza
14.10.2009, n. 6297 ha chiarito che: «I
componenti di una Commissione giudicatrice
in una gara di appalto devono essere in
possesso delle capacità tecniche e
professionali adeguate all'importanza
dell'appalto. Essi possono essere
individuati come i "periti peritorum" della
materia sulla quale devono esprimere il loro
delicato giudizio, anche in relazione ai
concreti aspetti sui quali i medesimi devono
formulare il loro giudizio. Ciò al fine di
evitare che sussistano, a monte, elementi
che inducano in via anticipata i consociati
(ed i partecipanti alla gara, soprattutto) a
dubitare dell'adeguatezza professionale di
chi è chiamato a giudicare comparativamente
le proposte aggiudicatarie. Ovviamente,
nella impossibilità di saggiare in anticipo
ed in concreto la preparazione specifica dei
commissari, può farsi riferimento ad alcuni
dati che, in via presuntiva, consentano una
prognosi tranquillizzante sul punto. Tali
dati non possono che essere due: possesso di
un titolo di studio adeguato, e pregressa
esperienza nel settore».
La necessità del possesso in capo ai
commissari dei requisiti tecnici e della
professionalità necessaria a formulare un
giudizio pienamente consapevole, anche in
mancanza di una specifica previsione
concernente la composizione nel dettaglio
della commissione giudicatrice, costituisce
un canone ispirato a criteri di logicità e
ragionevolezza e riveste la natura di
principio immanente nell'ordinamento
generale, che risponde ai criteri di rango
costituzionale di buon andamento ed
imparzialità dell'azione amministrativa (in
tal senso cfr. Consiglio Stato, sez. V,
18.03.2004, n. 1408).
Nel caso di specie, relativo all'affidamento
della progettazione e direzione dei lavori
di mitigazione del rischio idrogeologico, la
Commissione giudicatrice era composta da un
ingegnere e due geometri. Solo uno dei
componenti la commissione, l’ingegnere,
rivestiva la qualità di esperto nello
specifico settore oggetto dell’appalto. I
due geometri dipendenti dell’amministrazione
comunale, invece, non avrebbero potuto
progettare ciò su cui erano chiamati ed
esprimere il proprio giudizio, non potendo
essere considerati esperti nella
progettazione di lavori di mitigazione del
rischio idrogeologico, nel senso richiesto
dall’art. 84, comma 2, del codice dei
contratti pubblici, in quanto la valutazione
di tale attività richiede competenze che
eccedono quanto previsto dall’art. 16 del
r.d. 11.02.1929, n. 274, recante il
regolamento per la professione di geometra,
che stabilisce proprio l’ oggetto ed i
limiti dell'esercizio di tale professione.
In particolare tale regolamento all’art. 16,
lett. q), riconosce ai geometri la
possibilità di svolgere mansioni di perito
comunale, ma solo per le funzioni tecniche
ordinarie nei Comuni con popolazione fino a
diecimila abitanti, escludendo i progetti di
opere pubbliche d'importanza o che
implichino la risoluzione di rilevanti
problemi tecnici.
Ne consegue che alla luce dell’art. 84,
comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 e alla
luce del citato regolamento regolante i
limiti all’esercizio della professione di
geometra, poiché la progettazione dei lavori
per la mitigazione del rischio idrogeologico
costituisce un’opera pubblica di
sostanziale importanza, implicante la
risoluzione di problemi tecnici di una certa
complessità, due dei membri della
commissione, geometri del comune, non
avrebbero potuto progettare i lavori in
questione e conseguentemente non avrebbero
potuto essere considerati esperti nello
specifico settore oggetto del contratto e
idonei a poter valutare con la dovuta
cognizione e preparazione i progetti
presentati.
La delicatezza e le specifiche competenze
tecniche richieste nel settore del
consolidamento delle aree franose era
d’altra parte richiesta ai concorrenti nello
stesso bando di gara che al punto 4 prevede
che i professionisti partecipanti debbano
aver maturato un’esperienza riferibile e
riconducibile al settore del consolidamento
delle aree franose, con particolare
riferimento alle attività di progettazione
per siti similari. Sicché una commissione
composta in prevalenza da geometri, privi
del necessario titolo di studio attestante
il possesso delle specifiche competenze
tecniche di tipo geomorfologico,
geotecniche, geologiche e idrogeologiche e
conseguentemente privi dell’esperienza nel
settore, non poteva considerarsi composta da
esperti e pertanto non era idonea
selezionare il miglior progetto.
L’amministrazione, quindi, avrebbe dovuto
fare applicazione dell’art. 84, comma 8, del
d.lgs. n. 163, del 2006, che, come pure
osservato dal Consiglio di Stato con la
citata sentenza n. 6297 del 2009, laddove
stabilisce che i commissari siano "selezionati
tra i funzionari della stazione appaltante"
non ha inteso privilegiare e dare priorità
in senso assoluto al requisito
dell'inserimento nell'organico dell'ente
appaltante rispetto a quello del titolo di
studio, il quale, pertanto, deve comunque
essere adeguato rispetto alla prestazione
oggetto della gara.
L’art. 84, comma 8, del d.lgs. n. 163 del
2006, in primis prevede che i
commissari diversi dal presidente siano
selezionati tra i funzionari della stazione
appaltante, ma nel caso di accertata carenza
in organico di adeguate professionalità e
quindi di personale munito del necessario
titolo di studio, la scelta deve ricadere
tra funzionari di amministrazioni
aggiudicatrici, ovvero con un criterio di
rotazione tra gli appartenenti alle seguenti
categorie:
a) professionisti, con almeno dieci anni di
iscrizione nei rispettivi albi
professionali, nell’ambito di un elenco,
formato sulla base di rose di candidati
fornite dagli ordini professionali;
b) professori universitari di ruolo,
nell’ambito di un elenco, formato sulla base
di rose di candidati fornite dalle facoltà
di appartenenza.
Per le ragioni esposte, assorbita ogni altra
doglianza, atteso ché l’accoglimento della
censura relativa alla illegittima
composizione della commissione giudicatrice
invalida in radice tutti gli atti della
procedura di gara e della conclusiva
aggiudicazione, il ricorso in epigrafe deve
essere accolto e per l'effetto vanno
annullati i provvedimenti impugnati
(TAR Basilicata, Sez. I,
sentenza 17.05.2010 n. 280 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 26.09.2011 |
ã |
UTILITA' |
APPALTI:
SCHEMA DI LETTERA DI INVITO PER LA PROCEDURA
NEGOZIATA (link a
www.ancebrescia.it). |
APPALTI:
CAPITOLATO SPECIALE D’APPALTO - NUOVO SCHEMA
PREDISPOSTO DAL COMUNE DI BRESCIA
(link a www.ancebrescia.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il decreto correttivo della
"riforma Brunetta": per le fasce di merito
applicazione solo col nuovo ccnl
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 21.09.2011). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Aiello,
Pozzi neri e gestione illecita
(link a www.lexambiente.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
P. Briguori,
Malattia: per le assenze controlli dal primo
giorno (link a
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
APPALTI:
P. Corciulo,
L'avvalimento (11.07.2011
- link a http://doc.sspal.it). |
LAVORI PUBBLICI:
P. Corciulo,
Il sistema di qualificazione (11.07.2011
- link a http://doc.sspal.it). |
APPALTI:
P. Corciulo,
Il subappalto (11.07.2011
- link a http://doc.sspal.it). |
LAVORI PUBBLICI:
P. De Rosa,
La programmazione nei lavori pubblici
(28.02.2011 - link a http://doc.sspal.it). |
APPALTI:
P. Cena,
La gestione del contratto: consegna dei
lavori, esecuzione, varianti, riserve,
quinto d’obbligo, revisione prezzi, collaudo
tecnico ed amministrativo (16.02.2010
e 02.03.2010 - link a http://doc.sspal.it). |
ESPROPRIAZIONE:
P. Pantuliano,
L’espropriazione per pubblica utilità: fasi
e presupposti. I nuovi criteri di
quantificazione dell’indennità di esproprio.
La problematica dell’accessione invertita e
gli atti di acquisizione sanante. Il regime
speciale dell’occupazione di urgenza.
Appropriazione acquisitiva (20.01.2010
e 03.02.2010 - link a http://doc.sspal.it). |
QUESITI &
PARERI |
APPALTI:
Gare d'appalto e libera
concorrenza.
Domanda.
Qual è la portata del principio della libera
concorrenza nelle gare d'appalto pubblico?
Risposta.
Nelle gare d'appalto pubblico opera il
principio della libera concorrenza. Tale
principio trova applicazione, in primo
luogo, nella fase della determinazione del
contenuto del contratto oggetto di gara (con
particolare riferimento all'individuazione
delle prestazioni richieste), quindi, in
caso di gara per l'affidamento di un appalto
di fornitura, sussiste il divieto di
introdurre nelle clausole contrattuali
specifiche tecniche che indicano prodotti di
una determinata fabbricazione o provenienza
(art. 68, comma 3, lettera a), del D.Lgs.
12.04.2006, n. 163).
Divieto che può essere derogato inserendo
nel bando la menzione "o equivalente",
che è però autorizzata solo quando le
Amministrazioni non possano fornire una
descrizione dell'oggetto dell'appalto
mediante specifiche tecniche
sufficientemente precise, o formulando la "lex
specialis" in termini funzionali (art.
68, comma 3, lettera b) e lettera c), del
D.Lgs. 12.04.2006, n. 163).
Il principio di equivalenza ha infatti la
funzione di garantire e promuovere la
maggior apertura concorrenziale tanto
nell'ambito del singolo procedimento di
affidamento (il che si collega col
tradizionale principio del favor
partecipationis nelle gare pubbliche),
quanto nel generale mercato degli appalti
pubblici ed è riconosciuto esplicitamente,
sul piano legislativo, dai commi 4 e 7
dell'art. 68 del Codice dei Contratti
Pubblici (20.09.2011 - tratto da
www.ipsoa.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
22.09.2001 n. 221 "Regolamento recante
semplificazione della disciplina dei
procedimenti relativi alla prevenzione degli
incendi, a norma dell’articolo 49, comma
4-quater , del decreto-legge 31.05.2010, n.
78, convertito, con modificazioni, dalla
legge 30.07.2010, n. 122" (D.P.R.
01.08.2011 n. 151). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del
22.09.2011 "Approvazione del programma
d’azione regionale per la tutela ed il
risanamento delle acque dall’inquinamento
causato da nitrati di origine agricola per
le aziende localizzate in zona vulnerabile" (deliberazione
G.R. 14.09.2011 n. 2208). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 38 del
21.09.2011, "Approvazione del Documento
tecnico di definizione dei criteri per il
riconoscimento degli alberi monumentali e
indirizzi per la loro gestione e tutela (d.g.r.
1044/2010)" (decreto
D.S. 05.08.2011 n. 7502). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
21.09.2011 n. 220 "Modalità applicative e
documentazione necessaria per la
presentazione della certificazione per il
riconoscimento della ruralità dei fabbricati"
(D.M. 14.09.2011). |
ATTI AMMINISTRATIVI: G.U.
21.09.2011 n. 220 "Disposizioni
complementari al codice di procedura civile
in materia di riduzione e semplificazione
dei procedimenti civili di cognizione, ai
sensi dell’articolo 54 della legge
18.06.2009, n. 69" (D.Lgs.
01.09.2011 n. 150). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Risparmiare
gonfia le risorse decentrate.
Le economie di gestione derivanti dall'anno
precedente non si computano nel calcolo del
tetto massimo del fondo delle risorse
decentrate. È dunque possibile che il totale
delle risorse decentrate del 2011 risulti in
cifra assoluta superiore a quello del 2010,
se lo sforamento derivi dall'applicazione
dei residui dell'anno 2010.
Il
parere 21.07.2011 n. 58 della Corte dei conti,
sezione regionale di controllo per la Puglia
apre spazi agli enti locali per il computo
delle risorse decentrate, fornendo
un'interpretazione estensiva alla previsione
contenuta nell'articolo 9, comma 2-bis,
della legge 122/2010.
Tale disposizione ha
previsto il cosiddetto congelamento
dell'ammontare delle risorse destinate alla
contrattazione decentrata a decorrere dall'01.01.2011 e sino al 31.12.2013. La
norma è sin troppo sommaria e laconica. Da
un lato non considera che le risorse
destinate al salario accessorio sono di due
tipi, stabili e variabili e non fornisce la
minima indicazione su come il congelamento
debba operare.
In termini generali, si può
ritenere che il congelamento debba
prioritariamente impedire la crescita delle
risorse variabili, che in quanto tali sono
destinate a finanziare voci di salario del
tutto accessorie ed eventuali, così da fare
salve le risorse che finanziano, invece,
istituti fissi e continuativi facenti parte
del trattamento fondamentale individuale
(progressioni orizzontali, indennità di
comparto, indennità di anzianità e alcune
voci peculiari per alcune categorie), ed
istituti fissi accessori al salario
individuale ma continuativi per
l'organizzazione, come le varie indennità di
turno, reperibilità, maneggio valori,
rischio, disagio e responsabilità di varia
natura.
Per altro verso, l'articolo 9, comma 2-bis,
non considera che alcune delle risorse
variabili sono finanziate da veri e propri
giri contabili: è il problema ancora
irrisolto della necessità di conteggiare o
meno gli incentivi per la progettazione o
per il recupero dell'Ici o per l'attività
degli avvocati. Si tratta di somme del tutto
variabili di anno in anno, in relazione al
volume degli appalti progettati e della
gestione delle attività e per altro
finanziate con risorse fresche, non dal
bilancio.
Eppure, l'incertezza sulla
possibilità di non computare tali voci per
la determinazione del tetto del 2010 è massima. Lo stesso concerne le economie della
gestione del fondo. L'articolo 17, comma 5,
del Ccnl 01/04/1999 stabilisce: «Le somme non
utilizzate o non attribuite con riferimento
alle finalità del corrispondente esercizio
finanziario sono portate in aumento delle
risorse dell'anno successivo». In effetti,
assenze per aspettative prolungate,
cessazioni dal servizio, mancata erogazione
di parte degli incentivi per la produttività
possono comportare risparmi di gestione
sulle voci di spesa finanziate dal fondo.
Poiché, però, si tratta di risorse a
destinazione vincolata, cioè finalizzate
solo a remunerare il personale e, dunque,
non utilizzabili dagli enti ad altro titolo,
il contratto collettivo del 1999 ha imposto
agli enti di incrementare le risorse
dell'anno successivo, in modo che non vadano
perdute.
I residui dell'anno precedente,
avendo natura del tutto eventuale e
variabile, vanno a incrementare la parte
variabile del fondo e finanziano istituti a
loro volta variabili, come la produttività.
L'applicazione dell'articolo 17, comma 5,
del Ccnl 01/04/1999 potrebbe determinare lo
sforamento del tetto del 2010, se i risparmi
dell'anno precedenti fossero per qualsiasi
causa piuttosto consistenti.
Secondo la sezione Puglia occorre accogliere
la tesi alla luce della quale dal tetto 2010
occorre escludere i residui venutisi a
determinare negli anni precedenti. Spiega la
sezione che il legislatore, quando ha voluto
ancorare le risorse decentrate al «corrispondente
importo dell'anno 2010», ha preso in
considerazione «un parametro certo»,
da «intendersi depurato da ogni aggiunta
derivante da residui degli anni pregressi».
Sicché, secondo il parere «residui 2009,
dunque, non potranno essere computati nel
calcolo del tetto 2010; ragionando nella
medesima direzione, dunque, anche i residui
del 2010, da riportare nel 2011, non
dovranno essere considerati»
(articolo ItaliaOggi del 23.09.2011). |
ENTI LOCALI:
Sono di competenza esclusiva
dell’ente le valutazioni di conformità delle
spese per manifestazioni.
Parere - Enti locali - Possibilità del
comune di patrocinare una manifestazione
locale - Partecipazione alle spese del
comitato organizzatore dell’iniziativa - In
considerazione dei limiti alle spese per
relazioni pubbliche ex legge n. 122/2010 -
Divieto sponsorizzazioni - Ammissibilità
spese per convegni, mostre, manifestazioni -
Nei limiti di spesa previsti dalla legge -
Qualificazione in concreto della singola
fattispecie è competenza del comune.
Con il parere in rassegna la sezione
regionale di controllo della Corte dei conti
per il Piemonte ha dato seguito a un quesito
richiesto da un comune sulla possibilità di
patrocinare una manifestazione locale e di
partecipare alle spese del comitato
organizzatore dell’iniziativa, in conformità
a quanto previsto all’art. 6, co. 8 e 9, del
Dl n. 78/2010. L’articolo richiamato
prevede, al comma 8, un limite del 20%, dal
2011, alle spese per relazioni pubbliche,
convegni, mostre, pubblicità e di
rappresentanza sostenute nel 2009, mentre al
successivo co. 9 sancisce il divieto per le
amministrazioni pubbliche di effettuare
spese di sponsorizzazione.
La sezione adita ha affermato che spetti
solo ed esclusivamente agli organi del
comune valutare la conformità della singola
attività ai divieti sopra richiamati, i
quali, nel relativo provvedimento, dovranno
motivare, tenendo conto dei programmi e dei
progetti sviluppati nel settore
socio-economico locale (oltre a quanto già
effettuato negli esercizi precedenti), le
finalità e i presupposti che sono alla base
della spesa e il rispetto dei criteri di
efficacia, efficienza ed economicità nelle
modalità di erogazione del servizio.
Pertanto, conclude la Corte dei conti
piemontese, è l’ente che è chiamato a
valutare la legittimità di una spesa come
quella richiamata nel quesito,
qualificandola, di volta in volta, come
sponsorizzazione (vietata dal comma 9 sopra
menzionato) ovvero come relazione pubblica,
convegno mostra, pubblicità, rappresentanza
o altro (Corte dei Conti, Sez. controllo
Piemonte,
parere
14.07.2011 n. 108 - tratto da
Diritto e Pratica Amministrativa n. 9/2011). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La mobilità di personale tra enti
è consentita purché non comporti assunzione
di nuovo personale da parte dell’ente
cedente.
Parere - Enti locali - Enti non soggetti a
patto di stabilità - Trasferimento del
dipendente - Conseguente necessità
assunzione di personale - Possibilità di
assunzione o mobilità esterna -
Invariabilità delle spese ed equilibrio di
bilancio - Rispetto del limite di incidenza
delle spese di personale pari o superiore al
40% delle spese di personale intercorse
nell’anno precedente.
Una serie di comuni, non soggetti a patto di
stabilità e con un’incidenza delle spese di
personale rispetto a quelle correnti
inferiore al 40%, hanno formulato alla
sezione regionale di controllo per il
Piemonte una richiesta di parere in materia
di assunzione di personale ai sensi
dell’art. 7, co. 8, della L. n. 131/2003. In
particolare, il quesito verteva sulla
possibilità dell’ente di procedere a
un’assunzione, mediante concorso o mobilità
esterna, per coprire un posto lasciato
vacante da un dipendente a seguito di
trasferimento.
Come osservato dalla sezione adita, anche
l’ente locale non soggetto a patto di
stabilità è tenuto all’osservanza degli
obblighi di contenimento della spesa per il
personale previsti dalla disciplina generale
in materia di assunzioni negli enti locali.
Innanzitutto, con riferimento a quanto
previsto dal co. 562 dell’articolo unico
della L. n. 296/2006, secondo il quale tale
tipologia di spesa deve essere mantenuta
entro il corrispondente ammontare del 2004,
prevedendo, tra l’altro, anche un limite
all’assunzione di personale delle cessazioni
di rapporti di lavoro a tempo indeterminato
intervenute nel precedente anno (come
chiarito da pronunce di altre sezioni di
controllo, nel limite previsto per
l’assunzione di personale derivante da
cessazione di rapporti di lavoro, devono
essere ricomprese tutte le vacanze che si
sono verificate a seguito dell’entrata in
vigore della norma in questione).
Pertanto, anche a seguito dello svolgimento
del turn over, l’ente è tenuto ad
assicurare l’obiettivo previsto dalla norma
e cioè l’invarianza della spesa per il
personale come condizione per mantenere
l’equilibrio di bilancio. Con riferimento,
invece, alle cessazioni che hanno avuto
luogo nel 2010, è operante dall'01.01.2011
il divieto per tutti gli enti
(indipendentemente se siano sottoposti o
meno a patto di stabilità) di procedere ad
assunzioni di personale, a qualsiasi titolo
e con qualsiasi tipologia contrattuale, nel
caso in cui le relative spese siano pari o
superiori al 40% delle spese correnti.
Inoltre, per quanto riguarda i limiti di
spesa previsti al co. 9 dell’art. 14 del Dl
n. 78/2010, la sezione osserva come, sulla
base di un orientamento generale delle
sezioni riunite della Corte, non trova
applicazione, per i comuni con meno di 5.000
abitanti, il limite delle assunzioni al 20%
della spesa corrispondente alle cessazioni
dell’anno precedente.
Tornando al
quesito richiesto nel parere, la Corte dei
conti piemontese ha affermato che
relativamente agli enti sottoposti a regime
vincolistico debba trovare applicazione
l’art. 1, co. 47, della L. n. 311/2004,
secondo il quale, in vigenza di un regime di
limitazione della assunzioni di personale a
tempo indeterminato, sono consentiti
trasferimenti per mobilità, anche
intercompartimentale, tra amministrazione
sottoposte a regime di limitazione, a
condizione che le stesse abbiano rispettato
il patto di stabilità interno per l’anno
precedente e purché tale trasferimento abbia
luogo tra enti sottoposti a vincoli in
materia di assunzioni a tempo indeterminato.
Soltanto in tal caso, continua la sezione,
la mobilità non è qualificabile come
assunzione poiché la modalità di
trasferimento così azionata costituisce
un’operazione neutra per l’amministrazione.
Infatti, l’ente ricevente non è tenuto a
imputare tale ingresso alla quota di
assunzioni previste, e resta, pertanto,
libero di effettuare un numero di assunzioni
compatibile con il regime vincolistico e con
le vacanze residue di organico. Ovviamente,
una tale situazione è possibile soltanto
laddove l’ente cedente non proceda a sua
volta all’instaurazione di nuove assunzioni
per la sostituzione del personale
trasferito. In tal caso, conclude la Corte,
non si farebbe altro che autorizzare
l’ingresso dall’esterno di un numero di
dipendenti maggiori di quello
complessivamente consentito (Corte dei
Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 14.07.2011 n.
107 -
tratto da Diritto e Pratica Amministrativa
n. 9/2011). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
LA PROCEDURA NEGOZIATA SENZA
PREVIA PUBBLICAZIONE DI BANDO DI GARA: LE
IMPORTANTI INDICAZIONI OPERATIVE DELL'
AUTORITA' DI VIGILANZA.
---------------
PREMESSA. IL COTTIMO
FIDUCIARIO.
Come noto, l'articolo 57 del Codice dei
contratti pubblici (D.Lgs n. 163/2006), in
conformità all'articolo 31 della direttiva
18/2004, disciplina la procedura negoziata
senza pubblicazione di un bando di gara.
Tale procedura presenta due precisi
caratteri: è facoltativa, come la negoziata
con previo bando, ed è assoggettata ad un
minimo di regole procedimentali (obbligo di
motivazione, rispetto dei principi di
trasparenza, concorrenza e rotazione).
Per quanto riguarda l'obbligo di
motivazione, occorre segnalare che esso
appare più corposo in tale procedura,
rispetto alla negoziata con previo bando.
Infatti, il comma 1°, dell'articolo 57
prevede che le stazioni appaltanti possono
aggiudicare contratti pubblici mediante
procedura negoziata senza previa
pubblicazione di un bando di gara nelle
ipotesi seguenti, “dandone conto con
adeguata motivazione nella delibera o
determina a contrarre”.
Dunque, un'espressa richiesta di
motivazione, che manca, invece, nella
disciplina dell' altra fattispecie. Occorre,
poi, rilevare che la procedura negoziata
senza previa pubblicazione di bando,
relativamente al settore lavori sotto
soglia, presenta due particolari tipologie
applicative, disciplinate dall' articolo
122, comma 7° (affidamenti sino ad €
100.000,00) e comma 7°-bis (affidamenti da €
100.000,00 ad € 500.000,00).
Proprio in relazione a tale seconda
tipologia, è intervenuta l'Autorità di
Vigilanza sui contratti pubblici, con la
recente
determinazione 06.04.2011 n. 2,
contenente importanti chiarimenti,
particolarmente apprezzabili per quanto
concerne il cottimo fiduciario e le concrete
modalità di svolgimento della procedura.
In via preliminare, l'Autorità pone in
evidenza la grande diffusione, presso tutte
le stazioni appaltanti, del modello di
negoziata in esame. Infatti, mentre nel
2008, il ricorso alle procedure negoziate,
con o senza bando, era pari 16,8% del totale
degli affidamenti, nel 2009 il solo ricorso
alla negoziata senza bando è stato pari al
33,4%. Un più che vistoso incremento, pari
al 327%, che viene giustamente collegato,
dall'Autorità medesima, all'introduzione
della negoziata sino ad € 500.000,00,
operata con la legge n. 201/2008, che ha
inserito, all'interno dell' articolo 122 del
Codice, il novello comma 7°-bis: “i
lavori di importo complessivo pari o
superiore a 100.000 euro e inferiore a
500.000 euro possono essere affidati dalle
stazioni appaltanti, a cura del responsabile
del procedimento, nel rispetto dei principi
di non discriminazione, parità di
trattamento, proporzionalità e trasparenza,
e secondo la procedura prevista dall'
articolo 57, comma 6; l'invito è rivolto ad
almeno cinque soggetti, se sussistono
aspiranti idonei in tale numero”.
Giova ricordare la specifica ratio,
posta a fondamento della novella
disposizione normativa. Si tratta di una
duplice finalità: a) fronteggiare la crisi
attualmente esistente nel settore delle
opere pubbliche; b) semplificare le
procedure di gara, in riferimento agli
appalti di lavori sotto soglia comunitaria.
Al riguardo, occorre ricordare che
l'Autorità, sul finire dello scorso anno, ha
posto in essere un'indagine, che,
sostanzialmente, è stata accolta e vista
come un “attacco”, seppur legittimo,
alla procedura negoziata senza bando.
Precisamente, l'Autority ha contestato a
diverse Amministrazioni Comunali di grosse
dimensioni un eccessivo ed illegittimo
ricorso alla negoziata senza bando e,
talora, persino all' affidamento diretto, in
carenza dei necessari presupposti di legge.
L'Autorità ha evidenziato che la procedura
negoziata, “a conti fatti, costa, a
parità di servizi erogati e di lavori
eseguiti, almeno l'8 per cento in più.
Tradotto in euro significa ogni anno uno
spreco di 1 miliardo e 748 milioni”.
Dunque, la procedura negoziata è sempre al
centro dell' attenzione dell' Autorità! Come
già si anticipava, l'Autorità fornisce un
prezioso contributo per la corretta
comprensione del “cottimo fiduciario”.
Al riguardo, occorre segnalare che già il
Codice, in ben due occasioni, chiarisce che
il cottimo fiduciario è una procedura
negoziata, cioè una peculiare tipologia di
negoziata, quale definita dal comma 40°,
dell'articolo 3 del Codice, che ci fornisce
la nozione generale: “le procedure
negoziate sono le procedure in cui le
stazioni appaltanti consultano gli operatori
economici da loro scelti e negoziano con uno
o più di essi le condizioni dell'appalto. Il
cottimo fiduciario costituisce procedura
negoziata”. La giurisprudenza ha, da
tempo, chiarito che “il cottimo
fiduciario non può ricondursi ad una
semplice attività negoziale di diritto
privato priva di rilevanza pubblicistica. Le
regole procedurali anche minime, che
l'amministrazione si dia per concludere il
cottimo fiduciario, implicano il rispetto
dei principi generali di imparzialità,
correttezza, buona fede, logicità coerenza
della motivazione etc.”.
Tuttavia, nella concreta prassi delle
stazioni appaltanti si rinvengono moduli
comportamentali, non in linea con tali
disposizioni ed indirizzi. Modelli di
condotta e concreti atti, che tradiscono una
concezione distorta dell' istituto,
soprattutto per quel che concerne la scelta
dei soggetti da invitare alla gara e le
modalità di svolgimento della medesima.
A tal riguardo, l'Autorità, pregevolmente,
chiarisce quanto segue:
a) il cottimo fiduciario non può ricondursi
ad una semplice attività negoziale di
diritto privato, priva di rilevanza
pubblicistica.
b) il cottimo fiduciario è un vero e reale
procedimento di scelta del contraente e non,
come erroneamente ritenuto in passato “una
particolare modalità di retribuzione di una
prestazione ricompresa in un contratto di
lavoro subordinato o autonomo, stipulato
attraverso una libera contrattazione della
Pubblica Amministrazione con soggetti
privati”.
c) conseguentemente, devono essere osservate
regole procedurali che, seppur minime e
semplificate, siano idonee a garantire il
rispetto dei principi generali di
imparzialità, correttezza, buona fede,
logicità e coerenza della motivazione .
d) la disciplina deve essere rinvenuta,
oltre che nell'articolo 125, anche all'
interno del Codice medesimo. Ciò consente,
fra l'altro, di non ritenere corretta una
prassi applicativa dell' istituto che dia
luogo a distorsioni anti-concorrenziali, in
chiara violazione della disciplina
codicistica e dei suoi principi.
e) a conferma di ciò, va rilevato che
l'articolo 331 del nuovo regolamento
attuativo, stabilisce che le stazioni
appaltanti devono assicurare, comunque, che
le procedure in economia (che sono procedure
negoziate) avvengano nel rispetto del
principio della massima trasparenza,
contemperando altresì l'efficienza
dell'azione amministrativa con i principi di
parità di trattamento, non discriminazione e
concorrenza tra gli operatori economici.
---------------
LA DISCIPLINA DELLA
NEGOZIATA SENZA PREVIO BANDO.
L'Autorità effettua, in relazione alla
negoziata senza pubblicazione di bando,
procedura che è prevista per il sopra soglia
e per il sotto soglia , un' analisi molto
attenta, idonea a chiarire numerose “zone
d' ombra” .
In relazione all'affidamento dei lavori di
importo sino ad € 100.000,00 (art. 122,
comma 7°), l'Autorità afferma che, qualora
non sussistano particolari ragioni d'urgenza
nell' esecuzione dei lavori, “appare
preferibile il ricorso all' articolo 57,
comma 6° e, quindi, l'invito rivolto ad
almeno tre operatori economici”,
osservando i principi comunitari di
trasparenza, concorrenza, rotazione,
rispetto ad un affidamento diretto. Si
tratta di un'asserzione importante, in
quanto la disposizione normativa non
contiene alcuna procedura, ne contempla
alcun rinvio, diversamente dal successivo
comma 7-bis.
In ragione di tali omissioni, sussiste
tuttora il dubbio se debba, comunque,
applicarsi la disciplina della “negoziata
mediante gara informale”, oppure la
generale procedura della “negoziata pura”,
di cui al comma 40°, dell'articolo 3, del
Codice: consultazione degli operatori
economici scelti dalla stazione appaltante e
negoziazione, con uno o più di essi, delle
condizioni dell'appalto. Orbene, l'Autorità,
pur non prendendo una posizione definitiva,
esprime una chiara preferenza: va indetta
una gara informale ad inviti.
In relazione all'affidamento dei lavori di
importo da € 100.000,00 sino ad € 500.000,00
(art. 122, comma 7°-bis), l'Autorità
evidenzia l'importanza dei principi
richiamati: non discriminazione, parità di
trattamento, proporzionalità e trasparenza.
In particolare, in riferimento al principio
di parità di trattamento, viene precisato
che il medesimo vieta non solo le
discriminazioni palesi, ma anche qualsiasi
forma di discriminazione dissimulata. Di
conseguenza, la stazione appaltante non deve
consentire, ad alcuno dei concorrenti in
gara, di godere di informazioni privilegiate
o di condizioni vantaggiose in sede di
presentazione dell'offerta.
“In questo senso, va ribadito che tutti
gli operatori economici che prendono parte
alla selezione devono essere invitati
contemporaneamente a presentare le loro
offerte e che le lettere di invito devono
contenere le medesime informazioni in
relazione alla prestazione richiesta”.
Ad avviso dell'Autorità, trova applicazione
il principio di rotazione, seppur non
formalmente richiamato nel comma 7°-bis.
Ciò, in ragione della necessità di evitare
che la stazione appaltante possa consolidare
rapporti solo con alcune imprese, violando,
in tal modo, il fondamentale principio di
concorrenza. Fra l'altro, la recente
giurisprudenza ha già rilevato l'esigenza di
rispettare, in tale procedura negoziata, un
meccanismo di rotazione fra le imprese.
Per quanto concerne l'obbligo di
motivazione, si fa rilevare che il ricorso
alla negoziata “è legittimato dal
legislatore sulla base dell' importo”.
Ad ogni modo, l'AVCP sembra chiedere un
minimo di “sforzo motivazionale” in
più, in quanto segnala che “le norme di
cui all' articolo 122 del Codice
soggiacciono, comunque all'applicazione dei
principi generali del diritto
amministrativo: la stazione appaltante nella
delibera a contrarre fornisce una
spiegazione delle ragioni che l' hanno
indotta a preferire tale procedura, atteso
che il dettato normativo (cfr. articolo 122,
comma 7-bis) esprime a riguardo una
possibilità, non certo un obbligo di
utilizzo della procedura negoziata”.
Impegno motivazionale che, comunque, non
deve essere confuso con la verifica di
sussistenza di diversi presupposti
applicativi, quali quelli previsti dagli
articoli 56 e 57 del Codice.
Per quanto riguarda le modalità di
individuazione degli operatori economici da
consultare, per poi procedere alla “gara
ad inviti”, l'Autorità ricorda la
stringente necessità di distinguere fra “indagine
di mercato” e successiva “gara informale
ad inviti”. La prima è preordinata,
esclusivamente, a conoscere l'assetto del
mercato, cioè i possibili potenziali
offerenti ed il tipo di condizioni
contrattuali, che essi sono in gado e
disposti a praticare, senza alcun vincolo in
ordine alla scelta finale. Viceversa, la
gara informale implica anche una valutazione
comparativa delle offerte, comportando, per
la stazione appaltante, l'obbligo dell'
osservanza dei principi di "par condicio"
e trasparenza nelle lettere di invito. In
altri termini, l'indagine di mercato è
finalizzata ad acquisire “conoscenze”,
mentre la gara informale è diretta ad
individuare il miglior contraente.
Le concrete modalità di svolgimento
dell'indagine di mercato, ad avviso dell'
AVCP, possono essere le seguenti:
a) avviso preventivo;
b) elenchi aperti di operatori economici, da
non confondere con i vietati albi di
fiducia.
Tali modalità appaiono pienamente in linea
con il nuovo regolamento, il quale,
all'articolo 332, comma 1°, prevede,
appunto, che i soggetti da consultare, nel
rispetto dei principi di trasparenza,
rotazione e parità di trattamento, sono
individuati sulla base di indagini di
mercato, ovvero tramite elenchi aperti di
operatori economici. Le indagini di mercato,
effettuate dalla stazione appaltante,
possono avvenire anche tramite la
consultazione dei cataloghi elettronici del
mercato elettronico, propri o delle
amministrazioni aggiudicatici.
L'Autorità afferma che il principio di
trasparenza impone di fornire, a chi vi
abbia interesse e ne faccia richiesta,
informazioni sulla procedura, in modo tale
da consentire la presentazione di eventuali
richieste di invito alla gara informale. Si
tratta di una tesi molto condivisibile, in
quanto costituisce esplicazione della teoria
della “responsabilità da contatto
amministrativo”, che prende le mosse
dalla nota sentenza delle SS.UU. della
Suprema Corte di Cassazione n. 500 del 1999,
in tema di risarcibilità degli interessi
legittimi. Secondo tale teoria, dal
contatto, più o meno formale, tra cittadino
e PA nascono obbligazioni di protezione a
carico della PA ed a garanzia del cittadino;
obbligazioni che, ove inadempiute, davano
luogo ad una responsabilità di carattere
contrattuale. Di conseguenza, appare
possibile affermare che, a seguito di
un'espressa istanza, la stazione appaltante
deve fornire informazioni in merito ad una
gara informale in corso di elaborazione ed
invitarla, se espressamente richiesto.
Infine, per quanto concerne i criteri di
scelta delle imprese da invitare alla gara
informale, l'Autorità ritiene possibili i
seguenti:
a) le esperienze contrattuali, registrate
dalla stazione appaltante nei confronti
dell' impresa richiedente l'invito o da
invitare, purché venga rispettato il
principio della rotazione .
b) l'idoneità operativa delle imprese
rispetto al luogo di esecuzione dei lavori.
c) il sorteggio.
Al riguardo, occorre osservare che, secondo
un indirizzo maggioritario , la stazione
appaltante deve invitare le imprese, che
abbiano presentato un'espressa richiesta. Ad
ogni modo, aderendo ad una condivisibile
ottica garantistica, l'Autorità segnala che
la stazione appaltante deve, in ogni caso,
indicare nella determina a contrarre i
criteri, che saranno utilizzati per
l'individuazione delle imprese da invitare
(tratto dalla newsletter di
www.centrostudimarangoni.it - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
ENTI LOCALI - VARI: FABBRICATI
RURALI/ Accatastamento senza affanno.
Istanza entro il 30, poi 15 giorni per
consegnare le carte. Circolare del
Territorio sul passaggio alle nuove
categorie A6 e D10.
Accatastamento senza
affanni: per l'ottenimento della categoria
specifica dei fabbricati rurali è
obbligatorio il rispetto della scadenza
imminente del prossimo 30 settembre. Entro
tale data va redatta e compilata l'istanza
con una specifica applicazione web. Ma
l'invio della documentazione cartacea agli
uffici può avvenire entro il 15/10/2011.
Questo ciò che emerge dalla lettura del
comunicato stampa, datato 21 settembre
scorso, e della
circolare 22.09.2011 n. 6/2011,
scaricabile dal sito dell'Agenzia del
territorio, all'indirizzo
www.agenziaterritorio.gov.it.
Come già indicato (Italia Oggi,
22-23/09/2011), nella Gazzetta Ufficiale n.
220 del 21 settembre scorso è stato
pubblicato il decreto del ministero
dell'economia e delle finanze del
14/09/2011, previsto dal comma 2-quater,
dell'art. 7, dl n. 70/2011, convertito con
modificazioni nella legge n. 106/2011 e
avente a oggetto il riconoscimento della
ruralità dei fabbricati, di cui ai commi 3
(abitativi) e 3-bis (strumentali), dell'art.
9, dl n. 557/1993 e successive modificazioni
e integrazioni.
Con il provvedimento sono stati forniti gli
indirizzi per ottenere l'assegnazione delle
categorie «A/6» (abitativi) e «D/10»
alle costruzioni rispettose dei requisiti di
ruralità, attraverso la presentazione di una
domanda accompagnata da una dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà, di cui al
dpr n. 445/2000.
È proprio sulla modalità di presentazione
delle istanze che si sono concentrate le
maggiori perplessità, soprattutto per le
numerose casistiche presenti sul territorio
nazionale, non contemplate dalle
disposizioni richiamate, ma neppure nel
decreto dello scorso 14 settembre e nella
circolare in commento.
Posto il rispetto della scadenza fissata
(30/09/2011), l'interessato, anche con
l'ausilio di professionisti o delle
associazioni agricole delegate, deve inviare
la domanda di variazione in due distinte
modalità, del tutto autonome; la prima,
totalmente su supporto cartaceo, comprensiva
delle autocertificazioni (conformi ai
modelli B e C allegati al decreto, pena
diniego della variazione) mediante consegna
diretta agli uffici, tramite servizio
postale (con raccomandata a.r.), tramite fax
o mediante posta elettronica certificata
(Pec), in duplice originale, la seconda, con
sviluppo in due fasi, che vede, in prima
battuta, la compilazione e la stampa della
domanda in modalità informatiche (si digita
il codice fiscale), con assunzione (in
automatico) di un codice identificativo e,
in seconda battuta, l'invio dei documenti
cartacei, comprese le autocertificazioni di
sussistenza dei requisiti.
Sul punto, il Territorio (§ 3, circolare n.
6/T/2011) dichiara che, nel caso di utilizzo
della «procedura informatica», la
domanda «_ è considerata tempestiva a
condizione che venga presentata all'ufficio,
con una delle modalità sopraindicate, entro
15 giorni dalla data di acquisizione nel
sistema informatico dei dati contenuti nella
stessa domanda _»; ciò dovrebbe
significare, condizionale d'obbligo, che se
il proprietario (o titolare di diritti
reali) o il suo delegato predispone la
domanda utilizzando la procedura posta sul
sito web, lo stesso ha tempo fino al
prossimo 15 ottobre per inoltrare, con i
mezzi indicati (fax, raccomandata, Pec
ecc.), la documentazione cartacea a supporto
di quanto già comunicato.
Con riferimento alla presentazione delle
dichiarazioni delle nuove costruzioni per i
quali sussistono i requisiti di ruralità,
l'Agenzia del territorio ha reso possibile
la presentazione mediante la procedura
ordinaria (Docfa), allegando le relative
autocertificazioni, o la presentazione di
uno specifico «Docfa», finalizzato
all'assegnazione delle categorie rurali, in
tutte le situazioni non contemplate dal
decreto dello scorso 14 settembre,
utilizzando la causale «Altro» e
comunicando tutte le informazioni utili al
classamento automatico (consistenza,
superficie ecc.).
Per quanto concerne il requisito inerente il
possesso quinquennale dei requisiti di
ruralità, il documento di prassi in commento
(§5) chiarisce che qualora il fabbricato sia
stato posseduto dal soggetto dichiarante per
meno di cinque anni, l'autocertificazione
prevede la possibilità di integrare la
stessa con ulteriore autocertificazione,
resa dai precedenti titolari dei diritti
reali o dagli eredi, attestante il possesso
dei medesimi requisiti per i periodi non
coperti; sul punto, attenzione a quanto
prescritto dall'art. 76, dpr n. 445/2000, in
presenza di attestazioni false o mendaci.
Per quanto concerne la verifica del possesso
dei requisiti di ruralità di cui all'art. 9,
dl n. 557/1993, la circolare (§ 7) ricorda
che l'Agenzia è legittimata a verificare la
corrispondenza dei requisiti alle
attestazioni rilasciate, anche acquisendo,
presso tutti gli archivi delle
amministrazioni competenti, comprese le
banche dati gestite dai comuni, tutte le
informazioni necessarie, utilizzando i dati
indicati in albi, elenchi e pubblici
registri, ma facendo riferimento, poiché
ritenute sempre valide, alle indicazioni
fornite a suo tempo con la circolare
7/T/2007
(articolo ItaliaOggi del 24.09.2011). |
NEWS |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - RIPRISTINO DEL SISTRI A PARTIRE
DAL 09.02.2012 (link a
www.ancebrescia.it). |
ENTI LOCALI - VARI: FABBRICATI
RURALI/ Variazione
catastale via internet.
Domande (senza bollo) accompagnate da un
atto notorio. La previsione contenuta nel
decreto del Mineconomia del 21/09/2011.
Al via la presentazione, esclusivamente in
modalità informatica e in esenzione da
imposta di bollo, delle domande di
variazione catastale delle costruzioni
rurali, sottoscritte dai proprietari o dai
titolari dei diritti reali, accompagnate da
una dichiarazione sostitutiva di atto
notorio, attestante il possesso quinquennale
dei relativi requisiti.
È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
dello scorso 21 settembre, il decreto
14/09/2011 del ministero dell'economia e
delle finanze, previsto dal dl 70/2011
(cosiddetto «decreto sviluppo») che reca le
modalità per ottenere la variazione della
categoria catastale dei fabbricati rurali,
che rispettano i requisiti, di cui al comma
3 (abitativi) e 3-bis (strumentali),
dell'art. 9, dl n. 557/1993 (ItaliaOggi di
ieri).
Il decreto, atteso ed emanato a ridosso
della scadenza prescritta dai commi da 2-bis
a 2-quater, dell'art. 7, dl n. 70/2011,
convertito con modificazioni dalla legge n.
106/2011, indica le modalità di
presentazione delle domande per ottenere la
categoria catastale A/6 (abitativi) e D/10
(strumentali) delle costruzioni rurali; sul
punto viene istituita anche la classe «R»
per gli abitativi, senza attribuzione della
rendita, mentre per la categoria D/10, la
rendita sarà attribuita per stima diretta,
ai sensi dell'art. 30, del dpr 1142/1949.
Come si evince chiaramente dal provvedimento
in commento, per i fabbricati già censiti in
catasto in altra categoria e in possesso dei
requisiti di ruralità da almeno un
quinquennio (2005), il proprietario o il
titolare di diritti reali potrà presentare
un'istanza ad hoc, allegando
un'autocertificazione attestante il possesso
dei requisiti, prescritti dall'art. 9, dl n.
557/1993 (abitazione destinata
all'agriturismo, utilizzata dal conduttore
del fondo, utilizzata dal socio di società
agricola Iap, immobile strumentale ecc.),
redatta in conformità dei modelli allegati
al decreto (A, B e C).
La domanda deve essere compilata e stampata
con la particolare procedura messa a
disposizione dal Territorio, corredata
dell'autocertificazione attestante il
possesso dei requisiti, e presentata agli
uffici periferici entro prossimo 30
settembre, dovendo ritenere valide quelle
presentate entro 15 giorni dalla data di
acquisizione nel sistema; l'applicazione,
scaricabile dal sito dell'agenzia
(www.agenziaterritorio.gov.it), consente la
compilazione e la stampa della domanda con
modalità informatiche, con l'attribuzione di
uno specifico codice identificativo, a
conferma dell'acquisizione dei dati a cura
del sistema.
Nei modelli, conformi a quelli allegati al
decreto, devono essere indicati i dati del
richiedente (proprietario o rappresentante
legale) e dei fabbricati (tra gli altri,
comune catastale, codice comune, sezione,
foglio, particella, sub e categoria), nonché
i vani catastali, se l'unità abitativa è
censita al catasto edilizio urbano, i metri
quadrati, la categoria di lusso, il titolo
di possesso, se l'abitazione è utilizzata
dal conduttore del fondo, e, soprattutto, il
tipo catasto (terreni e/o edilizio urbano);
l'inserimento del codice «T», quale tipo di
catasto (terreni), fa presumere la
possibilità di procedere all'attribuzione
della categoria anche per quei fabbricati
censiti ancora al catasto terreni.
Infatti, mentre per quanto concerne le
costruzioni rurali che perdono i requisiti
di ruralità, il decreto dispone l'obbligo di
presentazione della variazione con il
sistema ordinario (Docfa), niente viene
disposto esplicitamente per i fabbricati
ancora censiti nel catasto terreni, con la
conseguenza che, per questi ultimi, resta da
valutare l'opportunità di procedere
all'accatastamento, con contestuale
richiesta di classamento nelle categorie
prescritte, al fine di non vedersi aggredire
dagli enti impositori per gli anni ancora
accertabili, stante l'assenza di una
categoria specifica.
Sul punto, inoltre, è opportuno confermare
che l'autocertificazione deve contenere la
dichiarazione che l'immobile rispetta i
requisiti di ruralità dal quinto anno
precedente a quello di presentazione, con
l'eccezione dei fabbricati di nuova
costruzione o oggetto di interventi edilizi,
comunque in possesso dei medesimi requisiti.
La domanda di variazione deve essere
sottoscritta dal proprietario e dal titolare
di diritti reali (usufrutto, uso ecc.),
presentata dallo stesso o da un
professionista o associazione di categoria
delegata, mentre l'autocertificazione,
conforme al modello allegato al
provvedimento, deve essere sottoscritta dal
medesimo richiedente, ai sensi del dpr n.
445/2000.
Da parte degli uffici provinciali del
Territorio «_ viene fatta menzione (_),
mediante apposita annotazione, con
riferimento ad ogni unità immobiliare
interessata, dell'avvenuta presentazione
delle domande di variazione_»; in assenza
dei requisiti, il mancato riconoscimento
sarà notificato con atto motivato agli
stessi richiedenti, che potranno impugnare
lo stesso diniego presso le commissioni
tributarie provinciali, ai sensi del dlgs.
n. 546/1992 (articolo ItaliaOggi del 23.09.2011). |
ENTI LOCALI: MANOVRA
BIS/
Mini-enti, corsa a stare insieme.
Entro fine anno devono associare almeno due
funzioni. Un vademecum per i comuni alle
prese con la scelta tra unione o
convenzione.
I piccoli comuni devono effettuare subito
tutte le scelte sulla gestione associata,
mettendo in moto i relativi procedimenti:
hanno infatti poco più di tre mesi per dare
corso concreto alla attivazione della
gestione associata.
Infatti, entro il 31
dicembre di quest'anno i comuni con
popolazione compresa tra 1.000 e 5.000
abitanti devono gestire in forma associata
almeno due delle sei funzioni fondamentali e
le restanti 4 dovranno essere gestite in
tale forma entro il 2012. Le forme di
gestione associata previste dal legislatore
sono solamente le unioni dei comuni e le
convenzioni, con una preferenza per la
prima.
Il legislatore non chiarisce se le
superstiti comunità montane, in quanto
parificate alle unioni dei comuni dal dlgs
n. 267/2000, possono essere destinatarie
della gestione associata, anche se la
risposta deve essere positiva alla luce
della natura di tale soggetto.
Queste disposizioni si applicano anche nelle
regioni a statuto speciale, ma con tempi più
lunghi, in quanto la legge n. 148/2011, di
conversione del dl n. 138, cd manovra di
Ferragosto, espressamente stabilisce che
tale applicazione coincida con l'entrata in
vigore in tali regioni delle disposizioni
sul cd federalismo fiscale, quindi se ne
parla nel 2015.
I comuni devono in primo luogo istituire le
unioni dei comuni o, laddove esistenti,
devono decidere quali funzioni fondamentali
assegnare a esse e quali invece gestire
tramite convenzioni. Si deve ricordare che
per la costituzione delle unioni e per il
loro funzionamento si applicano le regole
dettate dall'articolo 32 del dlgs n.
267/2000: disposizioni specifiche sono
dettate dalla stessa manovra di Ferragosto
unicamente per quelle che saranno costituite
tra i comuni aventi popolazione inferiore a
1.000 abitanti.
Nella scelta delle modalità di gestione
associata i singoli comuni devono ricordare
che essi hanno sicuramente ampia autonomia
tra la delega alla unione e l'attivazione di
convenzioni. Ma tale autonomia può essere
esercitata solamente tra le sei funzioni
fondamentali e non nell'ambito della stessa.
Cioè, per fare un esempio, se il comune
decide di delegare la funzione relativa ai
servizi sociali alla unione, potrà decidere
di svolgere la funzione relativa al governo
del territorio tramite convenzione con altri
municipi, ma non potrà decidere che il
servizio di assistenza domiciliare agli
anziani (che è una attività che è compresa
nei servizi sociali) venga esercitata in
modo diverso da come viene gestita la
restante parte della funzione.
Il che in numerosi casi, in particolare se
attualmente sono in piedi convenzioni con
soggetti diversi per la gestione di singoli
servizi compresi in una stessa funzione, può
determinare problemi applicativi.
Tali problemi si determinano sicuramente
nell'ambito dei servizi sociali se gli
stessi sono gestiti con soggetti diversi,
per esempio in parte in forma singola e in
parte in forma associata.
Tali problemi si determinano per esempio
nella stragrande maggioranza dei casi per le
convenzioni relative ai segretari comunali.
Non vi è alcun dubbio infatti che questa
attività possa essere compresa tra la
funzione fondamentale di amministrazione,
gestione e controllo per una quantità di
risorse non inferiore al 70% di quelle
dell'ente.
Il che determina la conseguenza che i
singoli enti non potranno più stipulare
convenzioni per le gestioni associate della
sola segreteria comunale, ma dovranno fare
rientrare tali intese nell'ambito della
scelta che più complessivamente riguarda
tale intera funzione (che ha un ambito
peraltro assai vasto e per molti aspetti
residuale, essendone la caratteristica
essenziale costituita dalla ampiezza delle
risorse che devono essere interessate), con
la conseguenza che se i comuni sceglieranno
la gestione associata tramite unione non
potranno essere attivate convenzioni di
segreteria.
Insieme al trasferimento della gestione
della funzione alla unione i singoli comuni
devono provvedere al trasferimento del
personale e a tutte le misure conseguenti.
In primo luogo, occorre rideterminare la
dotazione organica, in modo da cancellare
tali posti in quanto non più necessari.
Ovviamente nel caso in cui l'ente nei
prossimi anni dovesse scegliere un'altra
forma di gestione associata ha il diritto e
la possibilità di riassumere il personale
oggi trasferito alla unione, previa
rideterminazione in aumento della propria
dotazione organica.
E ancora, le
amministrazioni devono tagliare il fondo per
la contrattazione decentrata nella stessa
misura del trattamento accessorio in
godimento effettivo da parte del personale
che è stato trasferito alla unione dei
comuni. In tale ambito si deve considerare
che uno dei problemi che in molte realtà si
pone è quello della scelta del responsabile
della gestione del servizio, che non potrà
che essere uno solo, mentre attualmente
abbiamo responsabili per ognuno dei singoli
comuni: in altri termini si determina la
necessità di un taglio, operazione che non è
affatto facile da realizzare in concreto.
---------------
Il modello.
Così lo schema di convenzione per la
gestione associata.
Convenzione per l'affidamento della gestione
di una funzione fondamentale all'Unione dei
comuni.
Le amministrazioni comunali di _ al fine di
dare attuazione alle prescrizioni di cui
all'articolo 14, comma 32, per la gestione
associata tra i comuni aventi popolazione
compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti
convengono tra loro e con la unione dei
comuni _ quanto segue:
Articolo 1
Le amministrazioni comunali di ... e la
unione dei comuni di _ stipulano una
convenzione per la gestione associata
della/e seguente/i fondamentali _. per come
individuate dalla legge n. 42/2009. Le
amministrazioni sono state autorizzate alla
stipula della presente convenzione con le
seguenti deliberazioni assunte dai consigli
comunali:
1) comune di _, deliberazione del consiglio
comunale n. _ del _;
2) comune di _, deliberazione del consiglio
comunale n. _ del _,
La unione dei comuni di ... è individuata
come soggetto capofila a cui viene
attribuita la gestione associata della
funzione di cui alla presente convenzione.
Per la gestione di tutte le altre funzioni
fondamentali di cui alla legge n. 42/2009,
cd federalismo fiscale, i singoli comuni
provvedono attraverso convenzioni con altri
municipi sulla base delle previsioni di cui
all'articolo 30 del dlgs n. 267/2000.
Nell'ambito della funzione sono individuati
in modo esemplificativo i seguenti servizi
...
L'attribuzione di tale funzione alla unione
ha durata permanente e determina il
trasferimento della titolarità della stessa.
Con cadenza annuale il presidente della
unione convoca i sindaci dei comuni aderenti
per verificare l'andamento della gestione e
avanzare proposte per il suo miglioramento.
I comuni possono motivatamente deliberare il
recesso dalla presente convenzione; esso
produce i suoi effetti a partire dal 31
dicembre dell'anno successivo a quello in
cui viene deliberato.
Articolo 2
La gestione associata di cui alla presente
convenzione ai seguenti obiettivi:
a) garantire il miglioramento della qualità
delle prestazioni svolte;
b) estendere la tutti i comuni a concreta
applicazione dei seguenti servizi/attività
_;
c) contenere la spesa per la gestione di
tali servizi;
d) sviluppare la crescita professionale del
personale impegnato.
Articolo 3
La responsabilità della gestione associata è
affidata all'unione dei comuni. Essa prevede
che sia costituito uno specifico ufficio. La
responsabilità di tale ufficio sarà
attribuita con provvedimento del presidente
della unione e avrà una durata annuale. Le
relative regole sono contenute nel
regolamento sull'ordinamento degli uffici e
dei servizi della unione. Il responsabile
viene individuato come titolare di posizione
organizzativa e ad esso si applicano le
regole di cui agli articoli da 8 a 11 del
Ccnl 31/03/1999, nonché tutte le disposizioni
contrattuali dettate per queste figure.
La unione ridetermina la propria dotazione
organica in relazione alla esigenza di
garantire il migliore svolgimento della
funzione. La sua consistenza non può
superare quanto previsto dalla somma delle
dotazioni dei singoli enti; tale cifra può
essere superata esclusivamente se vengono
attivati servizi aggiuntivi rispetto a
quelli attualmente esistenti.
Il personale è individuato in quello dei
comuni aderenti e viene trasferito dagli
stessi alle dipendenze della unione. In tal
modo si concretizza una mera cessione del
rapporto di lavoro, che non modifica in
alcun modo i diritti maturati, proseguendo a
tutti gli effetti lo stesso alle dipendenze
della unione. I comuni provvedono alla
rideterminazione della propria dotazione
organica in modo da cancellare tutti i posti
connessi alla funzione delegata alla unione.
La unione può avvalersi di ulteriore
personale nel rispetto dei vincoli dettati
dal legislatore per le assunzioni e la spesa
del personale, quindi garantendo il non
aumento sia della spesa che del numero dei
dipendenti utilizzati rispetto alla
condizione esistente complessivamente nei
comuni all'atto della stipula della presente
convenzione.
La unione può, d'intesa con i singoli
comuni, avvalersi anche per una parte del
tempo, delle prestazioni del personale
dipendente dagli stessi.
Articolo 4
Gli oneri per la realizzazione della
gestione associata sono individuati dalla
unione d'intesa con i comuni aderenti alla
stessa nella presente convenzione e sono
quantificati in euro ... annui. Essi sono
ripartiti tra i singoli enti per il 50% in
misura paritaria tra le singole
amministrazioni e per il restante 50% in
misura proporzionale al numero degli
abitanti, per cui la ripartizione tra i
comuni è la seguente _
Articolo 5
Nelle modalità di realizzazione della
gestione associata si deve prevedere che sia
garantita l'apertura al pubblico presso i
singoli comuni per almeno ... giorni la
settimana e per almeno ... ore.
La sede di lavoro viene individuata nei
locali della unione. Può essere previsto che
singoli dipendenti continuino a prestare la
propria attività lavorativa presso un
comune, fermo restando che per almeno ...
giorni la settimana e per almeno ... ore
lavorative dovranno svolgere la propria
prestazione presso la sede della unione.
Per ogni aspetto non previsto nella presente
convenzione provvede la unione, sentiti i
comuni aderenti alla gestione associata
(articolo ItaliaOggi del 23.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Un consigliere fa gruppo.
Quando risulta l'unico eletto in una lista.
La materia è regolata dagli statuti. E
l'ultima parola spetta all'assemblea.
Quali norme disciplinano la costituzione di
nuovi gruppi consiliari in ambito comunale?
La materia dei gruppi consiliari è regolata
dalle apposite norme statutarie e
regolamentari, adottate dai singoli enti
locali nell'ambito dell'autonomia
organizzativa dei consigli, riconosciuta
espressamente agli stessi dall'art. 38,
comma 3, del Testo unico sugli enti locali
n. 267/2000.
Pertanto eventuali problematiche a essa
inerenti dovrebbero trovare adeguata
soluzione nella specifica disciplina dettata
dall'ente stesso.
In linea di principio, sono ammissibili i
mutamenti che possono sopravvenire
all'interno delle forze politiche presenti
in consiglio comunale, per effetto di
dissociazioni dall'originario gruppo di
appartenenza, comportanti la costituzione di
nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a
diversi gruppi esistenti.
Riguardo all'ammissibilità dei gruppi
unipersonali, se il regolamento comunale
stabilisce che ciascun gruppo sia costituito
da almeno due consiglieri ma che, nel caso
che una lista presentata alle elezioni abbia
avuto eletto un solo consigliere, a questo
siano riconosciute le prerogative e la
rappresentanza spettanti a un gruppo
consiliare, ovvero disciplina la fattispecie
di distacco successivo dal gruppo,
stabilendo che il consigliere che non
aderisce ad altri gruppi non acquisisce le
prerogative spettanti a un gruppo
consiliare, potendo soltanto confluire nel
gruppo misto, si può desumere che i gruppi
unipersonali possano essere ammessi solo se
coincidenti con l'unico consigliere eletto
in una lista.
Ciò premesso, soltanto il Consiglio
comunale, in quanto titolare della
competenza a emanare le norme cui
conformarsi in tale materia, è abilitato a
fornire un'interpretazione autentica delle
disposizioni statutarie e regolamentari di
cui l'ente si è dotato
(articolo ItaliaOggi del 23.09.2011). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Indennità
di funzione.
Da quando si applica la riduzione
dell'indennità di funzione da corrispondere
agli amministratori comunali, alla luce
delle disposizioni previste dal decreto
legge 31.05.2010, n. 78 convertito in
legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma
1, della legge 30.07.2010, n. 122?
Il decreto legge n. 78/2010, concernente
misure urgenti in materia di stabilizzazione
finanziaria e di competitività economica, ha
introdotto una serie di disposizioni volte a
perseguire una riduzione del costo degli
apparati politici e amministrativi.
Tra queste l'art. 5, comma 7, prevede che
con decreto del ministro dell'interno, da
adottarsi entro 120 giorni dalla data di
entrata in vigore del decreto legge stesso,
ai sensi dell'articolo 82, comma 8, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267,
gli importi delle indennità già determinate
ai sensi del citato articolo 82, comma 8,
sono diminuiti, per un periodo non inferiore
a tre anni, di una percentuale variabile al
variare delle dimensioni demografiche
dell'ente.
Le disposizioni del citato art.
5, comma 7, dovranno trovare applicazione a
decorrere dalla data di entrata in vigore
del decreto interministeriale concernente il
nuovo regolamento per la determinazione
della misura delle indennità e dei gettoni
di presenza da corrispondere agli
amministratori degli enti locali, la cui
procedura di emanazione è tuttora in corso
di definizione
(articolo ItaliaOggi del 23.09.2011). |
ENTI LOCALI: Revisori,
estrazione in Prefettura.
Estrazione in Prefettura. È questa l'ipotesi
che secondo fonti governative si fa strada
al Viminale per disciplinare le nuove
modalità di scelta dei revisori dei conti
negli enti locali.
La questione nasce con la manovra-bis, che
nel tentativo di sottrarre le nomine dei
revisori all'influenza della politica ha
previsto che dal prossimo mandato i
professionisti guardiani interni dei conti
dell'ente vengano «scelti mediante
estrazione da un elenco», a cui possono
essere iscritti i professionisti che ne
facciano richiesta e che possano vantare in
curriculum una «specifica qualificazione
professionale in materia di contabilità
pubblica e gestione economica e finanziaria
anche degli enti territoriali».
La norma non dice di più, e lascia aperto il
campo a più di una questione applicativa da
risolvere. La prima sono le modalità di
questa «estrazione», il cui tratto di
casualità andrà peraltro attenuato con
l'applicazione dei criteri che secondo la
norma devono privilegiare per gli enti più
grandi i revisori con maggiore esperienza. A
coprire i vuoti normativi sarà un decreto
del ministero dell'Interno (c'è tempo fino a
metà novembre), che secondo queste
indiscrezioni porterà all'interno del
Viminale gran parte della disciplina:
l'elenco a cui i professionisti si potranno
iscrivere sarà tenuto dal ministero, e
l'estrazione potrebbe svolgersi appunto
presso le Prefetture.
Non sono queste, comunque, le uniche
incognite di un provvedimento che non
soddisfa i professionisti, critici sul
meccanismo dell'estrazione. Anche i
parametri "meritocratici" individuati
dalla norma sollevano più di un problema, a
partire dalla «specifica qualificazione
professionale» che gli aspiranti devono
possedere per poter essere inseriti
nell'elenco. Anche su questo punto, poi, la
regola per i revisori degli enti locali non
è allineata con quella, introdotta anch'essa
dalla manovra, prevista per le Regioni: nel
primo caso il tutto va deciso con decreto
del Viminale, mentre nel secondo
l'individuazione dei criteri è compito della
Corte dei conti.
I «dottori commercialisti ed esperti
contabili», poi, sono espressamente
citati solo per gli enti locali, mentre
nelle Regioni l'orizzonte è solo quello dei
revisori legali
(articolo
Il Sole 24 Ore del 22.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Responsabilità
forti nei Comuni. Al via l'effetto combinato
di decreto sulla «meritocrazia» e manovre
estive.
Rafforzamento delle
sanzioni per chi sfora il Patto di
stabilità, e più responsabilità per gli
amministratori ma anche per i funzionari che
si allontanano dai sentieri della sana
gestione o addirittura arrivano a provocare
il dissesto dell'ente.
È il quadro che emerge dal "doppio passo"
determinato dalla pubblicazione in «Gazzetta
Ufficiale» del decreto legislativo 149/2011
su premi e sanzioni per Regioni ed enti
locali (si veda Il Sole 24 Ore di ieri) e
dalle manovre estive, che tra le tante
misure rivolte a Comuni e Province
contemplano anche il taglio fino a dieci
indennità per gli amministratori e a tre
mensilità per il responsabile del servizio
finanziario quando l'ente rispetta gli
obiettivi del Patto di stabilità solo grazie
a meccanismi elusivi accertati dalla Corte
dei conti.
Proprio alla magistratura contabile viene
assegnato un ruolo sempre più da regista nei
tentativi di repressione delle esperienze di
contabilità allegra, tanto più che le
pronunce delle sezioni regionali di
controllo superano il valore semplicemente
di indirizzo per diventare determinanti
nell'applicazione delle sanzioni.
Le conseguenze più pesanti, com'è naturale,
intervengono nei casi di dissesto dell'ente,
fenomeno rarissimo negli ultimi anni perché
non "conveniente" dopo il tramonto
dei ripiani statali (solo 36 su 448 l'hanno
fatto dopo la riforma del Titolo V) che però
la nuova normativa prova a rendere più
stringente. Il meccanismo parte proprio da
un esame della Corte dei conti, che può
anche seguire le verifiche avviate dalla
Ragioneria generale dello Stato quando si
accendono determinate spie di allarme (si
veda anche il grafico qui accanto).
I magistrati contabili indicano un termine
entro il quale il consiglio dell'ente deve
adottare le misure in grado di evitare il
default. Trascorsa senza successo la
scadenza fissata dalla Corte, entra il campo
il Prefetto che, dopo 30 giorni, avvia
inevitabilmente l'ente sulla strada del
dissesto. Alzare bandiera bianca può far
detonare la moltiplicazione delle sanzioni
nei confronti degli amministratori
coinvolti: anche in questo caso, la parola
più pesante tocca alla Corte dei conti (in
questo caso le sezioni giurisdizionali).
Quando i magistrati individuano negli
amministratori una responsabilità per danni
od omissioni che hanno portato al dissesto,
nei confronti degli interessati si chiudono
per dieci anni le porte verso un incarico da
assessore, revisore o rappresentante
dell'ente nei cda degli organismi
partecipati. Per sindaci e presidenti di
Provincia nella stessa situazione, poi,
scatta anche l'incandidabilità decennale in
qualsiasi tipo di elezione, dalle comunali
alle europee.
La griglia rafforzata delle responsabilità
abbraccia anche i revisori dei conti, sempre
attraverso il passaggio presso la Corte.
Quando la magistratura contabile li
riconosce responsabili di non aver vigilato
a dovere, o di non aver trasmesso (o aver
trasmesso in ritardo) le informazioni che
avrebbero potuto far risuonare l'allarme,
anche i guardiani dei conti vengono colpiti
dall'espulsione decennale che impedisce loro
di far parte di altri collegi di revisione
(articolo
Il Sole 24 Ore del 22.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Immobili
a caccia della ruralità. Domanda (con
autocertificazione) entro il 30 settembre.
In Gazzetta Ufficiale il decreto del
Mineconomia con le istruzioni per il
riconoscimento.
Per le unità
immobiliari, già censite nel catasto
edilizio urbano, i cui proprietari volessero
modificare la categoria catastale per
l'attribuzione del requisito della ruralità,
c'è tempo fino al prossimo 30 settembre. A
tal fine, la documentazione necessaria dovrà
essere prodotta secondo i modelli reperibili
presso gli uffici dell'Agenzia del
Territorio e sul sito internet istituzionale
della stessa Agenzia
(www.agenziaterritorio.gov.it).
E' quanto precisa il decreto Mineconomia
14.09.2011, recante modalità applicative e
documentazione necessaria per la
presentazione della certificazione per il
riconoscimento della ruralità dei
fabbricati, pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 220 di ieri.
Il decreto è previsto dal dl sviluppo e ha
la funzione di dare seguito a numerose
sentenze della Cassazione le quali hanno
stabilito la necessità di classare gli
immobili in specifiche categorie al fine di
ottenere la qualifica di ruralità. Immobili
che precedentemente erano accatastati in
altre categorie, pur rispettando i requisiti
di ruralità di cui ai commi 3 e 3-bis
dell'art. 9 del dl 557/1993.
Il decreto attribuisce le categorie catastali A/6 e D/10, rispettivamente,
alle unità immobiliari ad uso abitativo e a
quelle strumentali all'attività agricola,
per le quali sussistono i requisiti di
ruralità di cui /all'art. 9 del Dl n.
557/1993. Inoltre, viene istituita la classe
«R», senza determinazione della rendita
catastale, per le unità immobiliari ad uso
abitativo, censite nella categoria A/6. In
più, la rendita catastale per gli immobili
strumentali all'attività agricola, censite
nella categoria D/10, è determinata per
stima diretta, ex art. 30 Dpr n.1142/1949.
Il decreto precisa che per i fabbricati, già
censiti nel catasto edilizio urbano, la
domanda di variazione della categoria
catastale per l'attribuzione della categoria
A/6 o D/10 alle unità immobiliari sopra
evidenziate, comprensiva
dell'autocertificazione necessaria ai fini
del riconoscimento della ruralità, devono
essere presentate in conformità ai modelli
in allegato allo stesso decreto. Tutta la
documentazione, infine, deve essere
presentata all'Ufficio provinciale
territorialmente competente dell'Agenzia del
territorio, entro il 30.09.2011 (si veda in
pagina il comunicato del Territorio di ieri
sera). L'ufficio del Territorio,
successivamente alla presentazione delle
istanze, provvede alla verifica della
sussistenza dei requisiti di ruralità,
finalizzata alla convalida delle
autocertificazioni, nonché al riconoscimento
dell'attribuzione della categoria catastale
A/6, classe «R», o D/10. A tal fine, gli
uffici del Territorio reperiranno le
informazioni necessarie presso le
amministrazioni competenti “con qualunque
mezzo idoneo ad assicurare la certezza della
fonte di provenienza”.
Dopo l'avvenuta verifica dei requisiti di
ruralità, l'Ufficio attribuisce la categoria
A/6, classe «R», per le unità immobiliari a
destinazione abitativa e la categoria D/10,
mantenendo la rendita in precedenza
attribuita, per le unità aventi destinazione
diversa da quella abitativa, strumentali
all'attività agricola. In caso di diniego,
il relativo provvedimento sarà annotato
negli atti catastali e notificato ai
soggetti interessati. Diniego che, precisa
il Dm, è impugnabile innanzi alle
commissioni tributarie provinciali
(articolo ItaliaOggi
del 22.09.2011). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: L'indicazione
di inadempienze contenuta nel documento
unico di regolarità contributiva (d.u.r.c.)
non integra di per sé la causa di esclusione
di cui alla lettera i) dell'art. 38 cit.,
dovendo la stazione appaltante comunque
verificare se le violazioni certificate
mediante il d.u.r.c. siano da ritenere gravi
e frutto di accertamenti definitivi.
L'indicazione di inadempienze contenuta nel
documento unico di regolarità contributiva (d.u.r.c.)
non integra di per sé la causa di esclusione
di cui alla lettera i) dell'art. 38 cit.,
dovendo la stazione appaltante comunque
verificare se le violazioni certificate
mediante il d.u.r.c. siano da ritenere gravi
e frutto di accertamenti definitivi (cfr. in
questo senso, tra le altre, TAR Calabria,
Reggio Calabria, sez. I, 23.03.2010, n.
291).
La soluzione in tal senso trova una
implicita conferma della sua correttezza
nella modifica all'art. 38, comma 2, cit.,
operata dall'art. 4, comma 2, lettera b),
del decreto-legge 13.05.2011, n. 70,
convertito con modificazioni nella legge
12.07.2011, n. 106. Modifica la quale,
stabilendo che «Ai fini del comma 1,
lettera i), si intendono gravi le violazioni
ostative al rilascio del documento unico di
regolarita' contributiva di cui all'
articolo 2, comma 2, del decreto-legge
25.09.2002, n. 210, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.11.2002, n.
266», ha definitivamente imposto la
coincidenza tra le ipotesi che impediscono
il rilascio del D.U.R.C. (fissate dal
decreto del Ministro del Lavoro, del
24.10.2007) e la causa di esclusione di cui
trattasi
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 23.09.2011 n. 945 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Va
abbandonata la concezione esclusivamente
"sanzionatoria" dell'incameramento della
cauzione provvisoria, la quale, invece, deve
essere ricostruita come garanzia della
serietà e affidabilità dell'offerta che
serve a dare alla stazione appaltante un
ragionevole affidamento sul fatto che tutta
l'attività amministrativa di scelta del
contraente non sia spesa inutilmente e
conduca alla stipulazione del contratto
d'appalto.
La giurisprudenza amministrativa, già nella
vigenza dell'articolo 30 della legge
11.02.1994 n. 109, aveva abbandonato una
concezione esclusivamente "sanzionatoria"
dell'incameramento della cauzione
provvisoria, la quale, invece, viene
ricostruita come garanzia della serietà e
affidabilità dell'offerta che serve a dare
alla stazione appaltante un ragionevole
affidamento sul fatto che tutta l'attività
amministrativa di scelta del contraente non
sia spesa inutilmente e conduca alla
stipulazione del contratto d'appalto
(Consiglio Stato, Sez. V, 12.06.2009 n.
3746; 11.05.2009 n. 2885; 11.12.2007 n.
6362; Sez. IV, 20.07.2007 n. 4098;
30.01.2006 n. 288; Sez. V, 09.09.2005 n.
4642; 30.06.2003 n. 3866; TAR Puglia, Bari,
Sez. I, 24.10.2008 n. 2373; TAR Sicilia,
Palermo, Sez. III, 10.03.2010 n. 2646)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 22.09.2011 n. 1373 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Negli
appalti di servizi non necessità la
dichiarazione ex art. 38 dlgs 163/2006 da
parte del direttore dei lavori, in quanto
figura non obbligatoriamente prevista.
Il Collegio ritiene di dover confermare il
giudizio circa la non necessità –nel caso di
specie- della dichiarazione ex art. 38 dlgs
163/2006 da parte del direttore dei lavori,
in quanto figura non obbligatoriamente
prevista negli appalti di servizi
(conseguentemente, non è illegittima la
lex specialis della gara per non aver
espressamente inserito l’invocata causa di
esclusione)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.09.2011 n. 5321 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Contratti pubblici e autotutela
della pubblica amministrazione: limiti di
esercizio più rigorosi.
In materia di contratti
pubblici, dopo la pronuncia
dell’aggiudicazione provvisoria,
l’emanazione del provvedimento di revoca da
parte della pubblica amministrazione deve
essere condizionata da limiti più rigorosi
ed assistita da maggior cautela. Ciò in nome
dei principi di tutela dell’affidamento e
della certezza del diritto nei traffici.
In tali termini si è espresso il TAR
Lazio-Roma, Sez. II, nella
sentenza 19.09.2011 n.
7428.
Il legittimo affidamento, si chiarisce,
postula la necessità di salvaguardare le
situazioni di soggetti privati che,
confidando nella legittimità dell’atto
rimosso, hanno acquisito il consolidamento
delle posizioni di vantaggio loro attribuite
da questo. Secondo consolidata
giurisprudenza, può considerarsi legittimo
il travolgimento di tali posizioni solo se
esso è giustificato dalla necessità di
assicurare il soddisfacimento di un
interesse, pubblico, di carattere generale
e, come tale, prevalente sulle posizioni
individuali, dandone adeguato conto nella
motivazione del provvedimento di rimozione,
affinché ne sia consentito il controllo di
legittimità in sede giurisdizionale (cfr.
Cons. Stato, sent. 5444/2003).
Non può, pertanto, l’amministrazione, sulla
semplice scorta di una nuova valutazione di
opportunità, decidere di revocare in
autotutela il provvedimento di
aggiudicazione provvisoria, posto che la
procedimentalizzazione pubblicistica delle
trattative preliminari ha la funzione:
a) di vincolare via via sempre più (e sempre
più specificamente) l’Amministrazione, al
fine di evitare che il potere amministrativo
si traduca in arbitrio (e di assicurare che
la nascita dell’obbligazione a suo carico
sorga in forza di regole “ad evidenza
pubblica” o atte ad assicurare la
trasparenza e l’imparzialità dell’azione
pubblica);
b) e non già di creare un sistema nel quale
solamente il contraente privato sia
assoggettato ad obblighi.
E che, pertanto, ritiene il collegio, i
provvedimenti con cui si chiudono le varie
fasi sub-procedimentali sono costitutivi di
effetti obbligatori a carico la della
pubblica amministrazione, né più né meno di
come opererebbero veri e propri contratti
preliminari.
Nel caso di specie, viene conseguentemente
dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione di
concludere il procedimento in conformità e
coerenza con le precedenti fasi, tenuto
conto dell’intervenuta aggiudicazione
provvisoria e del conseguente avvenuto
perfezionamento dell’obbligazione di
alienare l’immobile alla sola condizione
dell’esito positivo delle verifiche relative
alla sussistenza, in capo all’offerente
(promissario acquirente) dei requisisti
previsti dal bando (commento tratto da
www.diritto.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le regole contenute nella lex specialis
di una gara pubblica devono considerarsi
vincolanti non solo per i partecipanti, ma
anche per la stessa Amministrazione
appaltante, che non conserva alcun margine
di discrezionalità nella loro concreta
attuazione, non potendo disapplicarle
neppure nel caso in cui talune di esse
risultino inopportunamente o incongruamente
formulate, salva la sola possibilità di far
luogo, nell'esercizio del potere di
autotutela, all'annullamento del bando.
Orbene, siffatto rigore formale risponde,
per un verso, ad esigenze pratiche di
certezza e celerità, e per altro verso alla
necessità di garantire l'imparzialità
dell'azione amministrativa, nonché la parità
di condizioni tra i concorrenti. Ne deriva
che solo in presenza di una equivoca
formulazione della lettera di invito o bando
di gara può ammettersi una interpretazione
diversa da quella letterale.
In materia di appalti pubblici, la lex
specialis vincola la stazione appaltante
anche laddove, successivamente, si riveli
incongruamente formulata. In ordine
all'interpretazione delle clausole del
bando, si rileva come sia necessario dare
prevalenza alle espressioni letterali
contenutevi, escludendo ogni procedimento
ermeneutico in funzione integrativa diretto
ad evidenziare pretesi significati e ad
ingenerare incertezze nell'applicazione, con
la conseguenza che il significato oggettivo
delle espressioni testuali adoperate deve
prevalere sull'intenzione soggettiva della
stazione appaltante. E', dunque, preclusa, a
garanzia della certezza e dell'imparzialità
dell'Amministrazione, qualsiasi diversa
esegesi delle clausole in parola.
Questo
Consiglio ha da tempo osservato che le
regole contenute nella lex specialis
di una gara vincolano non solo i
concorrenti, ma anche la stessa
Amministrazione, che non conserva alcun
margine di discrezionalità nella loro
concreta attuazione, non potendo
disapplicarle neppure nel caso in cui talune
di esse risultino inopportunamente o
incongruamente formulate, salva la sola
possibilità di far luogo, nell'esercizio del
potere di autotutela, all'annullamento del
bando. Il rigore formale che caratterizza la
disciplina delle procedure di gara risponde,
per un verso, ad esigenze pratiche di
certezza e celerità, e per altro verso alla
necessità di garantire l'imparzialità
dell'azione amministrativa e la parità di
condizioni tra i concorrenti, da ciò
scaturendo la conseguenza che solo in
presenza di una equivoca formulazione della
lettera di invito o bando di gara può
ammettersi una interpretazione diversa da
quella letterale (cfr. C.d.S., V,
02.08.2010, n. 5075).
Le preminenti esigenze di certezza connesse
allo svolgimento delle procedure concorsuali
di selezione dei partecipanti impongono di
ritenere di stretta interpretazione le
clausole del bando di gara, delle quali va
preclusa qualsiasi esegesi non giustificata
da un'obiettiva incertezza del loro
significato; parimenti, si devono reputare
comunque preferibili, a tutela
dell'affidamento dei destinatari, le
espressioni letterali delle previsioni da
chiarire, evitando che il procedimento
ermeneutico conduca all'integrazione delle
regole di gara palesando significati del
bando non chiaramente desumibili dalla sua
lettura testuale (C.d.S., IV, 05.10.2005, n.
5367; V, 15.04.2004, n. 2162).
Nell'interpretazione delle clausole del
bando per l'aggiudicazione di un contratto
della P.A. deve darsi, pertanto, prevalenza
alle espressioni letterali in esse
contenute, escludendo ogni procedimento
ermeneutico in funzione integrativa diretto
ad evidenziare pretesi significati e ad
ingenerare incertezze nell'applicazione
(C.d.S., V, 30.08.2005, n. 4413).
Tutte le disposizioni che in qualche modo
regolano i presupposti, lo svolgimento e la
conclusione della gara, siano esse contenute
nel bando ovvero nella lettera d'invito e
nei loro allegati (capitolati, convenzioni e
simili), concorrono a formarne la disciplina
e ne costituiscono, nel loro insieme, la
lex specialis, per cui, in caso di
oscurità ed equivocità, un corretto rapporto
tra Amministrazione e privato, che sia
rispettoso dei principi generali del buon
andamento dell'azione amministrativa e di
imparzialità e di quello specifico enunciato
nell'art. 1337 c.c. (dovere di buona fede
delle parti nello svolgimento delle
trattative e nella formazione del
contratto), impone che di quella disciplina
sia data una lettura idonea a tutelare
l'affidamento degli interessati,
interpretandola per ciò che essa
espressamente dice, e restando il
concorrente dispensato dal ricostruire,
attraverso indagini ermeneutiche ed
integrative, ulteriori ed inespressi
significati (C.d.S., V, 01.03.2003, n.
1142).
La formulazione della lettera di invito non
può essere interpretata sulla base delle
intenzioni della stazione appaltante, ma
deve essere letta secondo il suo significato
oggettivo (VI, 04.08.2006, n. 4764).
I canoni di interpretazione di una lettera
di invito, così come delle clausole dei
bandi di concorso, non sono quelli delle
fonti indicate negli art. 12 ss. delle
disposizioni sulla legge in generale
premesse al codice civile, bensì quelli
desunti dagli art. 1362 ss. del codice
anzidetto, attesa la natura della volontà
espressa, assumibile nella nozione generale
del negozio giuridico. Non trova
applicazione neppure la c.d. interpretazione
autentica, quale quella derivante da
precisazioni postume (V, 10.01.2007, n. 37;
VI, 17.12.2008, n. 6281).
In sintesi, dunque:
- la Stazione appaltante è vincolata dalla
lex specialis che si è data, anche
ove –per ipotesi- questa abbia a rivelarsi,
remelius perpensa, incongruamente
formulata;
- nell'interpretazione delle clausole del
bando deve darsi prevalenza alle espressioni
letterali contenutevi, escludendo ogni
procedimento ermeneutico in funzione
integrativa diretto ad evidenziare pretesi
significati e ad ingenerare incertezze
nell'applicazione, palesando significati non
chiaramente desumibili dalla lettura della
formulazione del bando;
- il significato oggettivo delle espressioni
testuali adoperate prevale sull’intenzione
soggettiva della Stazione appaltante;
- a garanzia della certezza e
dell’imparzialità dell’Amministrazione, va
preclusa qualsiasi diversa esegesi delle
clausole del bando, che non sia giustificata
da un'obiettiva incertezza del loro
significato (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 19.09.2011 n. 5282 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le regole contenute nella lex
specialis di gara vincolano non solo i
concorrenti, ma la stessa Amministrazione.
Il concorrente non può ricostruire,
attraverso indagini ermeneutiche ed
integrative, ulteriori ed inespressi
significati della disciplina di gara.
Le regole contenute nella lex specialis
di gara vincolano non solo i concorrenti, ma
la stessa Amministrazione, la quale non
conserva alcun margine di discrezionalità
nella loro concreta attuazione, non potendo
disapplicarle neppure nel caso in cui esse
risultino inopportunamente formulate, salva
la possibilità di far luogo, nell'esercizio
del potere di autotutela, all'annullamento
del bando. Il rigore formale che
caratterizzante la disciplina delle
procedure di gara risponde, per un verso, ad
esigenze pratiche di certezza e celerità, e
per altro verso alla necessità di garantire
l'imparzialità dell'azione amministrativa e
la par condicio tra i concorrenti; pertanto,
solo in presenza di un'equivoca formulazione
della lettera di invito o bando di gara, può
ammettersi un'interpretazione diversa da
quella letterale. Nell'interpretazione delle
clausole del bando per l'aggiudicazione di
un contratto della P.A. deve darsi, dunque,
prevalenza alle espressioni letterali in
esse contenute, escludendo ogni procedimento
ermeneutico in funzione integrativa diretto
ad evidenziare pretesi significati e ad
ingenerare incertezze nell'applicazione.
Tutte le disposizioni che regolano i
presupposti, lo svolgimento e la conclusione
della gara, concorrono a formarne la
disciplina e ne costituiscono, nel loro
insieme, la lex specialis, per cui,
in caso di oscurità ed equivocità, un
corretto rapporto tra P.A. e privato, che
sia rispettoso dei principi generali del
buon andamento dell'azione amministrativa e
di imparzialità, nonché del dovere di buona
fede delle parti nello svolgimento delle
trattative e nella formazione del contratto,
ex art. 1337 c.c., impone che di quella
disciplina sia data una lettura idonea a
tutelare l'affidamento degli interessati,
interpretandola per ciò che essa
espressamente dice, e restando il
concorrente dispensato dal ricostruire,
attraverso indagini ermeneutiche ed
integrative, ulteriori ed inespressi
significati (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.09.2011 n. 5282 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Deve essere escluso da una gara
il concorrente che abbia redatto l'offerta
in modo difforme dal disciplinare di gara.
Secondo un consolidato principio
giurisprudenziale, è legittima e doverosa il
provvedimento di esclusione da una gara,
adottato da una stazione appaltante nei
confronti di un concorrente che abbia
redatto l'offerta in modo difforme dal
disciplinare di gara il quale, prescrivendo
l'indicazione del ribasso percentuale in
cifre ed in lettere, sancisca espressamente
l'esclusione in caso di violazione di tale
onere formale, non essendo consentito alla
commissione di ammettere l'offerta difforme
attraverso un'illegittima disapplicazione
della lex specialis della procedura,
con conseguente violazione della par
condicio dei concorrenti.
Nell'ottica del favor partecipationis
e del superamento di prassi eccessivamente
formalistiche, la giurisprudenza ha
affermato che la circostanza che un
concorrente, in sede di presentazione
dell'offerta, abbia indicato soltanto in
cifre e non anche in lettere la percentuale
di ribasso, non può costituire motivo di
esclusione dalla gara, laddove l'offerta
economica contenga comunque la doppia
indicazione, in cifre e in lettere, di tutti
i singoli prezzi unitari, sì che non possa
ingenerarsi alcuna incertezza sulla
consistenza dell'offerta stessa.
Ne consegue che, nel caso di specie, poiché
il raggruppamento ricorrente ha del tutto
omesso di indicare i prezzi in lettere, così
violando la chiara previsione del
disciplinare di gara, che non è suscettibile
di interpretazione diversa da quella
letterale, l'Amministrazione avrebbe dovuto
senz'altro disporne l'esclusione (TAR
Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 19.09.2011 n. 1370 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: E'
legittima e doverosa l’esclusione
dell’impresa che abbia redatto l’offerta in
modo difforme dal disciplinare di gara che,
prescrivendo l’indicazione del ribasso
percentuale in cifre ed in lettere, sancisca
espressamente l’esclusione in caso di
violazione di tale onere formale, non
essendo consentito alla commissione di gara
di ammettere l’offerta difforme attraverso
un’illegittima disapplicazione della lex
specialis della procedura, con violazione
della par condicio dei concorrenti.
Nell’ottica del favor partecipationis e del
superamento di prassi eccessivamente
formalistiche, la giurisprudenza ha
affermato che la circostanza che un
concorrente, in sede di presentazione
dell’offerta, abbia indicato soltanto in
cifre e non anche in lettere la percentuale
di ribasso, non può costituire motivo di
esclusione dalla gara, laddove l’offerta
economica contenga comunque la doppia
indicazione, in cifre e in lettere, di tutti
i singoli prezzi unitari, sì che non possa
ingenerarsi alcuna incertezza sulla
consistenza dell’offerta stessa. Ma, nel
caso in esame, il raggruppamento ricorrente
ha del tutto omesso di indicare i prezzi in
lettere, così violando la chiara previsione
del disciplinare di gara, che non è
suscettibile di interpretazione diversa da
quella letterale, con l’effetto che
l’Amministrazione avrebbe dovuto senz’altro
disporne l’esclusione.
Ai sensi dell’art. 2.5 del disciplinare di
gara, l’offerta economica doveva “…
riportare, pena esclusione, tutte le
indicazioni di prezzo, in cifre e in
lettere, sulla base di quanto indicato
nell’allegato G”.
Nell’allegato G il corrispettivo offerto dai
concorrenti era scomposto in un analitico
elenco di sottovoci di spesa unitarie, per
ciascuna delle quali doveva essere formulata
una specifica proposta, risolvendosi così
(per la componente economica) in una vera e
propria offerta per prezzi unitari.
Secondo la lex specialis di gara,
dunque, l’indicazione in lettere dei prezzi
unitari era elemento essenziale dell’offerta
economica, tesa preservarne la chiarezza per
il caso di eventuali equivocità
nell’indicazione dei prezzi unitari in
cifre.
Secondo un principio già affermato da questa
Sezione, è legittima e doverosa l’esclusione
dell’impresa che abbia redatto l’offerta in
modo difforme dal disciplinare di gara che,
prescrivendo l’indicazione del ribasso
percentuale in cifre ed in lettere, sancisca
espressamente l’esclusione in caso di
violazione di tale onere formale, non
essendo consentito alla commissione di gara
di ammettere l’offerta difforme attraverso
un’illegittima disapplicazione della lex
specialis della procedura, con
violazione della par condicio dei
concorrenti (così TAR Puglia, Bari, sez. I,
02.04.2003 n. 1543).
Né rileva, in senso contrario, la
giurisprudenza invocata in sede di replica
dalla difesa di parte ricorrente (Cons.
Stato, sez. V, 10.11.2003 n. 7134; Id., sez.
V, 01.03.2005 n. 778), che a ben vedere è
riferita a fattispecie nelle quali il bando
di gara, diversamente che nella procedura
qui esaminata, comminava l’esclusione in
termini generici ed onnicomprensivi per
tutti gli adempimenti formali relativi al
confezionamento dell’offerta.
Del resto, proprio nell’ottica del favor
partecipationis e del superamento di
prassi eccessivamente formalistiche, la
giurisprudenza ha affermato che la
circostanza che un concorrente, in sede di
presentazione dell’offerta, abbia indicato
soltanto in cifre e non anche in lettere la
percentuale di ribasso, non può costituire
motivo di esclusione dalla gara, laddove
l’offerta economica contenga comunque la
doppia indicazione, in cifre e in lettere,
di tutti i singoli prezzi unitari, sì che
non possa ingenerarsi alcuna incertezza
sulla consistenza dell’offerta stessa (così,
in termini del tutto condivisibili, Cons.
Stato, sez. VI, 15.01.2004 n. 106).
Ma, nel caso in esame, il raggruppamento
ricorrente ha del tutto omesso di indicare i
prezzi in lettere, così violando la chiara
previsione del disciplinare di gara, che non
è suscettibile di interpretazione diversa da
quella letterale, con l’effetto che
l’Amministrazione avrebbe dovuto senz’altro
disporne l’esclusione
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 19.09.2011 n. 1370 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla legittimità dell'esclusione
di un concorrente da una gara, per accertata
irregolarità contributiva al momento della
domanda di partecipazione.
La sussistenza del requisito della
regolarità contributiva, necessario per la
partecipazione alle procedure di gara, deve
essere verificata con riferimento al momento
ultimo previsto per la presentazione delle
offerte. A nulla può quindi rilevare una
regolarizzazione successiva della posizione
contributiva, la quale, se può risolvere il
contenzioso dell'impresa con l'ente
previdenziale, non potrà però in alcun modo
sovvertire l'oggettivo dato di fatto
dell'irregolarità ai fini della singola
gara.
Deve pertanto escludersi la rilevanza di un
eventuale adempimento tardivo
dell'obbligazione contributiva, quand'anche
ricondotto retroattivamente, quanto ad
efficacia civilistica, al momento della
scadenza del termine di pagamento,
circostanza che può rilevare fra i soggetti
del rapporto obbligatorio, ma non anche nei
confronti dell'Amministrazione appaltante. E
tanto vale, naturalmente, anche per
sistemazioni debitorie postume effettuate a
mezzo di compensazioni, come risulta
avvenuto nel caso di specie (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 16.09.2011 n. 5194 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
La sussistenza del requisito della
regolarità contributiva, necessario per la
partecipazione alle procedure di gara, deve
essere verificata con riferimento al momento
ultimo previsto per la presentazione delle
offerte. A nulla può quindi rilevare una
regolarizzazione successiva della posizione
contributiva, la quale, se può risolvere il
contenzioso dell’impresa con l’ente
previdenziale, non potrà però in alcun modo
sovvertire l’oggettivo dato di fatto
dell’irregolarità ai fini della singola
gara.
Deve pertanto escludersi la rilevanza di un
eventuale adempimento tardivo
dell’obbligazione contributiva, quand’anche
ricondotto retroattivamente, quanto ad
efficacia civilistica, al momento della
scadenza del termine di pagamento, circostanza che
può rilevare fra i soggetti del rapporto
obbligatorio, ma non anche nei confronti
dell’Amministrazione appaltante.
---------------
La procedura di regolarizzazione
contributiva prevista dall’art. 7, comma 3,
del d.m. 24.10.2007 non trova applicazione
nel caso di richiesta di certificazione
preordinata ai fini della partecipazione a
gare d’appalto, le quali sono invece
interessate dalla differente disciplina
contemplata dal successivo art. 8, comma 3.
Anche il semplice ritardo nei versamenti
contributivi può integrare una grave
violazione dei relativi obblighi, atteso che
nel settore previdenziale in considerazione
dei gravi effetti negativi derivanti dalla
inosservanza degli obblighi in materia sui
diritti dei lavoratori, sulle finanze
pubbliche e sulla concorrenza tra le
imprese, debbono considerarsi “gravi” tutte
le inadempienze rispetto ai predetti
obblighi, salvo che non siano riscontrabili
adeguate giustificazioni, inerenti, ad
esempio, alla pendenza di contenziosi di non
agevole e pronta definizione, ovvero alla
necessità di verificare le condizioni per un
condono o una rateizzazione.
In questo settore può dunque ritenersi
sussistente il requisito della "gravità"
dell’infrazione senza che ci sia necessità
di alcuna particolare motivazione.
--------------
La dichiarazione di irregolarità espressa
dagli enti previdenziali interessati implica
anche l’avvenuta verifica della gravità dei
relativi scostamenti, come ancora una volta
il provvedimento impugnato non ha mancato di
osservare, in quanto il citato decreto
ministeriale ha attribuito al D.U.R.C.
l’idoneità ad attestare anche l’entità
dell’inadempimento degli obblighi
contributivi, dando conto delle sole
irregolarità tali da superare la delineata
soglia di gravità.
Il d.m. 24.10.2007, infine, nel disciplinare
le modalità di rilascio del D.U.R.C.
definendo nel modo già visto la soglia di
gravità dell’inadempimento, non può non
limitare sul punto anche la discrezionalità
delle stazioni appaltanti, che al riguardo
ben possono quindi limitarsi a prendere atto
della certificazione espressa dal D.U.R.C.
(del quale non possono sindacare le
risultanze, senza doversi fare carico di
autonome valutazioni.
La sussistenza del requisito della
regolarità contributiva, necessario per la
partecipazione alle procedure di gara, deve
essere verificata con riferimento al momento
ultimo previsto per la presentazione delle
offerte. A nulla può quindi rilevare una
regolarizzazione successiva della posizione
contributiva, la quale, se può risolvere il
contenzioso dell’impresa con l’ente
previdenziale, non potrà però in alcun modo
sovvertire l’oggettivo dato di fatto
dell’irregolarità ai fini della singola
gara.
Deve pertanto escludersi la rilevanza di un
eventuale adempimento tardivo
dell’obbligazione contributiva, quand’anche
ricondotto retroattivamente, quanto ad
efficacia civilistica, al momento della
scadenza del termine di pagamento (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 12.03.2009 n. 1458;
VI, 11.08.2009, n. 4928; 06.04.2010, n.
1934; 05.07.2010, n. 4243), circostanza che
può rilevare fra i soggetti del rapporto
obbligatorio, ma non anche nei confronti
dell’Amministrazione appaltante.
E tanto
vale, naturalmente, anche per sistemazioni
debitorie postume effettuate a mezzo di
compensazioni, come risulta avvenuto nel
caso concreto (tra l’altro, solo a distanza
di vari mesi dal termine dirimente, giacché
soltanto nel mese di giugno 2009, dopo la
richiesta di chiarimenti della Stazione
appaltante, Frame si è attivata per
avvalersi della compensazione mediante il
proprio credito IVA, che in se stesso
sarebbe stato suscettibile degli impieghi
più svariati).
---------------
La Sezione
condivide anche la valutazione del Tribunale
secondo la quale la procedura di
regolarizzazione contributiva prevista
dall’art. 7, comma 3, del d.m. 24.10.2007
non trova applicazione nel caso di richiesta
di certificazione preordinata ai fini della
partecipazione a gare d’appalto, le quali
sono invece interessate dalla differente
disciplina contemplata dal successivo art.
8, comma 3.
L’art. 6, comma 3, d.m. cit.,
infatti, nel prevedere la sospensione del
termine per il rilascio del D.U.R.C. fino
all’avvenuta regolarizzazione, fa appunto
salva la diversa disciplina dettata dal
successivo art. 8, comma 3, del decreto (si
veda, in termini, la Circolare del Ministero
del Lavoro e della Previdenza Sociale del
30/01/2008 n. 5).
Ciò in linea con le
esigenze di celerità che permeano le
procedure di affidamento degli appalti
pubblici, alle quali non si addice quel
dilatarsi dei tempi per il rilascio del D.U.R.C. che sarebbe implicato dall’esigenza
di consentire una regolarizzazione postuma,
la quale non potrebbe poi comunque incidere
sulle situazioni di irregolarità
contributiva esistenti ad una determinata
data.
Si conviene, inoltre, che anche il semplice
ritardo nei versamenti contributivi possa
integrare una grave violazione dei relativi
obblighi, atteso che nel settore
previdenziale, come opportunamente ricorda
l’impugnato provvedimento di revoca, in
considerazione dei gravi effetti negativi
derivanti dalla inosservanza degli obblighi
in materia sui diritti dei lavoratori, sulle
finanze pubbliche e sulla concorrenza tra le
imprese, debbono considerarsi “gravi”
tutte le inadempienze rispetto ai predetti
obblighi, salvo che non siano riscontrabili
adeguate giustificazioni (che peraltro nel
caso di specie non sono state fornite),
inerenti, ad esempio, alla pendenza di
contenziosi di non agevole e pronta
definizione, ovvero alla necessità di
verificare le condizioni per un condono o
una rateizzazione (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. V, 17.10.2008, n. 5069; 04.08.2010, n.
5213; VI, 06.04.2010, n. 1934; 05.07.2010,
n. 4243).
In questo settore può dunque ritenersi
sussistente il requisito della "gravità"
dell’infrazione senza che ci sia necessità
di alcuna particolare motivazione.
---------------
Va poi
rammentato che la dichiarazione di
irregolarità espressa dagli enti
previdenziali interessati implica anche
l’avvenuta verifica della gravità dei
relativi scostamenti, come ancora una volta
il provvedimento impugnato non ha mancato di
osservare, in quanto il citato decreto
ministeriale ha attribuito al D.U.R.C.
l’idoneità ad attestare anche l’entità
dell’inadempimento degli obblighi
contributivi, dando conto delle sole
irregolarità tali da superare la delineata
soglia di gravità.
Il d.m. 24.10.2007, infine, nel disciplinare
le modalità di rilascio del D.U.R.C.
definendo nel modo già visto la soglia di
gravità dell’inadempimento, non può non
limitare sul punto anche la discrezionalità
delle stazioni appaltanti (v. la Circolare
del Ministero del Lavoro e della Previdenza
Sociale del 30/01/2008 n. 5), che al
riguardo ben possono quindi limitarsi a
prendere atto della certificazione espressa
dal D.U.R.C. (del quale non possono
sindacare le risultanze: C.d.S., V,
19.11.2009, n. 7255; IV, 10.02.2009, n.
1458; VI, 06.04.2010, n. 1934), senza
doversi fare carico di autonome valutazioni (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 16.09.2011 n. 5194 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'associazione per cooptazione, già
contemplata dall'art. 23 del D.Lgs. n. 406
del 1991, consente di far partecipare
all'appalto anche imprese di modeste
dimensioni, non suscettibili di raggrupparsi
nelle forme previste dai commi 2 e 3
dell'art. 95 del D.P.R. n. 554 del 1999,
purché l'ammontare complessivo delle
qualificazioni possedute sia almeno pari
all'importo dei lavori che saranno ad essa
affidati e i lavori eseguiti dalle cooptate
non superino il 20% dell'importo complessivo
dei lavori.
Il ricorso alla cooptazione, essendo un
istituto di carattere speciale che abilita
un soggetto, privo dei prescritti requisiti
di qualificazione (e, dunque, di
partecipazione), alla sola esecuzione dei
lavori oggetto di gara pubblica nei limiti
del 20%, in deroga alla disciplina vigente
in tema di qualificazione SOA, deve
necessariamente scaturire da una
dichiarazione espressa ed inequivoca del
concorrente, onde evitare che un uso
improprio consenta l'elusione della
disciplina inderogabile, in tema di
qualificazione e di partecipazione alle
procedure di evidenza pubblica. Ne consegue
che, in assenza di una espressa ed
inequivoca dichiarazione di cooptazione,
deve senz'altro ritenersi sussistere
un'associazione temporanea di imprese
(orizzontale o verticale), anziché la
cooptazione.
Correttamente il primo giudice ha premesso,
in punto di diritto, come nella
giurisprudenza amministrativa la cd. “associazione
per cooptazione” già contemplata
dall’art. 23 d.lgs. n. 406/1991 (su cui cfr.
Cons. Stato, sez. V, 11.06.2001, n. 3129 e
Id., 25.07.2006, n. 4655), si caratterizzi
per la possibilità di far partecipare
all’appalto anche imprese di modeste
dimensioni, non suscettibili di raggrupparsi
nelle forme previste dai commi 2 e 3
dell’art. 95 d.p.r. 554/1999, purché
l’ammontare complessivo delle qualificazioni
possedute sia almeno pari all’importo dei
lavori che saranno ad essa affidati e i
lavori eseguiti dalle cooptate non superino
il 20% dell’importo complessivo dei lavori
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 10.09.2009, n.
5161).
In particolare -mentre parte della
giurisprudenza opina che la possibilità
dell’impresa singola o delle imprese che
intendano riunirsi in associazione
temporanea, in possesso dei requisiti di cui
all’articolo 95 citato, di associare, nei
modi di cui al comma 4, altre imprese
qualificate anche per categorie ed importi
diversi da quelli richiesti nel bando, sia
insita nello stesso dettato normativo che
impone alle imprese cooptate il solo obbligo
della qualificazione e il solo limite
percentuale delle opere (in termini, Cons.
Stato, sez. V, 11.06.2001, n. 3129)– appare
senz’altro preferibile ribadire (in
conformità al più recente orientamento: per
tutte cfr. Cons. Stato n. 5161/2009 cit.)
come tale possibilità sia, piuttosto,
subordinata ad un’espressa ed inequivoca
dichiarazione, risultante dalla domanda di
partecipazione alla gara, in assenza della
quale è da ritenere sussistente la figura
(di carattere generale) dell’associazione
temporanea (orizzontale o verticale)
prevista dai commi 2 e 3. E ciò sia in
osservanza della par condicio fra i
partecipanti alla gara (non potendosi
costringere l’Amministrazione a verificare
tutte le ipotesi interpretative in astratto
consentite dalla normativa vigente, al fine
di ricondurvi la tipologia realizzata da
taluno dei concorrenti) sia in
considerazione del diverso grado di impegno,
responsabilità e garanzia dei partecipanti
alla riunione (che vale a differenziare
significativamente le due fattispecie
associative in considerazione) cui si
riconnette un diverso onere di dimostrazione
del possesso dei requisiti di
qualificazione.
La cooptazione, infatti, è un istituto di
carattere speciale che abilita un soggetto,
privo dei prescritti requisiti di
qualificazione (e, dunque, di
partecipazione), alla sola esecuzione dei
lavori nei limiti del 20%, in deroga alla
disciplina vigente in tema di qualificazione
SOA.
Il soggetto cooptato pertanto, come
esattamente rilevato dell’appellante:
- non può acquistare lo status di
concorrente;
- non può acquistare alcuna quota di
partecipazione all’appalto;
- non può rivestire la posizione di
offerente, prima, e di contraente, poi;
- non può prestare garanzie, al pari di un
concorrente o di un contraente;
- non può, in alcun modo, subappaltare o
dichiarare di affidare a terzi una quota dei
lavori, di cui non è titolare, essendo privo
della prescritta SOA.
Il ricorso alla cooptazione, alla luce del
carattere eccezionale e derogatorio
dell’istituto, deve quindi necessariamente
scaturire da una dichiarazione espressa ed
inequivoca del concorrente, per evitare che
un uso improprio consenta l’elusione della
disciplina inderogabile, in tema di
qualificazione e di partecipazione alle
procedure di evidenza pubblica.
In conseguenza, in assenza di una espressa
ed inequivoca dichiarazione di cooptazione,
deve senz’altro ritenersi sussistere
un’associazione temporanea di imprese
(orizzontale o verticale), anziché la
cooptazione (Cons. Stato V Sezione n.
5161/2009) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.09.2011 n.
5187 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sul principio dell'"equivalenza"
desumbile dalla lettera dell'art. 68 del
codice degli appalti (Dlgs. 163/2006).
Il principio dell'"equivalenza" si
ricava dalla lettera dell'art. 68 del codice
degli appalti (Dlgs. 163/2006), ove è
prescritto che i documenti del contratto,
quali il bando di gara, il capitolato
d'oneri o i documenti complementari devono
dettagliatamente indicare le specifiche
tecniche richieste, senza però individuare
una specifica fabbricazione o provenienza,
al fine di evitare la ingiustificata
restrizione della rosa dei partecipanti alla
gara, con nocumento all'interesse pubblico
sotteso alla più ampia partecipazione alla
stessa. È previsto anche, al c. 13 che, ove
sia necessario al fine della capillare
descrizione di un macchinario ricorrere
all'indicazione di un tipo specifico di
prodotto occorre che tale indicazione sia
accompagnata dall'espressione "o
equivalente".
La ratio delle disposizioni
richiamate contenute nell'art. 68 codice
appalti è chiara. Nel rispetto del principio
della più ampia partecipazione alle gare
finalizzato alla ponderata e fruttuosa
scelta del miglior contraente, si esclude
espressamente, tranne ove sia giustificato
dal particolare oggetto dell'appalto, la
possibilità di indicare marchi o tipi
specifici di produzione, a meno che il
riferimento ad un prodotto non sia
necessario al fine di descrivere
dettagliatamente le caratteristiche che il
bene offerto deve possedere. In questo caso
è obbligatorio fare ricorso al concetto di
equivalenza, con la conseguenza che, in caso
di omissione dell'inciso, il bando
risulterebbe in parte qua illegittimo.
Al riguardo "può intendersi come
equivalente un prodotto che abbia
caratteristiche identiche o analoghe al bene
descritto in capitolato e che garantisca,
almeno, le medesime prestazioni. La stazione
appaltante, in presenza di offerte
equivalenti, deve pertanto verificare la
sussistenza dei requisiti descritti al fine
di effettuare la valutazione dell'offerta"
(TAR Valle d'Aosta,
sentenza 14.09.2011 n. 59 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
verbale della polizia municipale, come tutti
i verbali provenienti da pubblici ufficiali,
ha efficacia di piena prova, fino a querela
di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c.
relativamente alla provenienza dell'atto dal
pubblico ufficiale che lo ha formato, alle
dichiarazioni delle parti e agli altri fatti
che il pubblico ufficiale attesti avvenuti
in sua presenza o da lui compiuti e, se la
fede privilegiata non si estende né agli
apprezzamenti del pubblico ufficiale né alle
sue valutazioni e deduzioni, tali elementi
non sono comunque privi di valore
probatorio, in quanto possono fornire
elementi presuntivi idonei a fondare la
decisione ove siano gravi, precisi e
concordanti, ragion per cui tali rapporti
conservano un'attendibilità intrinseca che
può essere infirmata solo da una specifica
prova contraria.
Ne consegue che le valutazioni e le
deduzioni in tal modo svolte dai pubblici
ufficiali possono essere confutate nella
loro consistenza solo attraverso
l'allegazione di circostanziate deduzioni di
senso contrario, fornendo a tal fine prove
idonee a vincere la veridicità del verbale,
secondo l'apprezzamento rimesso al giudice.
Osserva il collegio che il verbale della
polizia municipale, come tutti i verbali
provenienti da pubblici ufficiali, ha
efficacia di piena prova, fino a querela di
falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c.
relativamente alla provenienza dell'atto dal
pubblico ufficiale che lo ha formato, alle
dichiarazioni delle parti e agli altri fatti
che il pubblico ufficiale attesti avvenuti
in sua presenza o da lui compiuti e, se la
fede privilegiata non si estende né agli
apprezzamenti del pubblico ufficiale né alle
sue valutazioni e deduzioni (Cons. Stato,
sez. V, 28.04.2011, n. 2541), tali elementi
non sono comunque privi di valore
probatorio, in quanto possono fornire
elementi presuntivi idonei a fondare la
decisione ove siano gravi, precisi e
concordanti (Cons. Stato, sez. I,
08.01.2010, n. 250), ragion per cui tali
rapporti conservano un'attendibilità
intrinseca che può essere infirmata solo da
una specifica prova contraria (TAR Lazio,
sez. III, 29.03.2005, n. 2163; TAR Campania
Napoli, sez. III, 17.09.2010, n. 17438).
Ne consegue che le valutazioni e le
deduzioni in tal modo svolte dai pubblici
ufficiali possono essere confutate nella
loro consistenza solo attraverso
l'allegazione di circostanziate deduzioni di
senso contrario (Cons. Stato, sez. VI,
24.09.2010, n. 7129), fornendo a tal fine
prove idonee a vincere la veridicità del
verbale, secondo l'apprezzamento rimesso al
giudice (TAR Lazio Roma, sez. III,
03.11.2010, n. 33138)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 09.09.2011 n. 1582 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
accertare se sussistono o meno i presupposti
per la decadenza di un permesso di costruire
o di una concessione edilizia l'effettivo
inizio dei lavori deve essere valutato non
in via generale ed astratta, ma con
specifico riferimento all'entità ed alle
dimensioni dell'intervento edificatorio
programmato ed autorizzato, all'evidente
scopo di evitare che il termine prescritto
possa essere eluso con ricorso a lavori
fittizi e simbolici e non oggettivamente
significativi di un effettivo intendimento
del titolare della concessione di procedere
alla realizzazione dell'opera assentita.
In ordine alla decadenza dalla concessione
edilizia per mancato inizio dei lavori nel
termine prefissato, la qualificazione delle
opere da ritenersi come valido inizio dei
lavori presuppone infatti che le opere
realizzate devono essere finalizzate alla
realizzazione del manufatto oltreché avere
una certa consistenza, dovendosi così
escludere che possano costituire inizio dei
lavori quelle opere solo fittiziamente
eseguite e che, perciò stesso, non
evidenziano l'esistenza di una concreta
voluntas aedificandi da parte del titolare
della concessione edilizia. Deve trattarsi,
in altre parole, di un inizio serio e
significativo dei lavori.
Di conseguenza, l'accertamento del
tempestivo inizio dei lavori deve basarsi
non solo sulla quantità e qualità delle
opere realizzate, ma soprattutto sulla loro
idoneità a dimostrare la reale volontà del
concessionario di dare corso all'opera
autorizzata.
In particolare, l'idoneità delle opere a
costituire l'effettivo inizio dei lavori
edilizi deve essere concretamente
considerata in rapporto al contesto
complessivo del progetto stesso.
L'inizio dei lavori, ai sensi del citato
art. 15, comma 2, deve dunque intendersi
riferito a concreti lavori edilizi;
pertanto, i lavori debbono ritenersi
"iniziati" quando consistano nel
concentramento di mezzi e di uomini, cioè
nella compiuta organizzazione del cantiere,
nell'innalzamento di elementi portanti,
nella elevazione di muri e nella esecuzione
di scavi coordinati al gettito delle
fondazioni del costruendo edificio, per
evitare che il termine di decadenza del
permesso possa essere eluso con ricorso ad
interventi fittizi e simbolici.
Per accertare
se sussistono o meno i presupposti per la
decadenza di un permesso di costruire o di
una concessione edilizia l'effettivo inizio
dei lavori deve essere valutato non in via
generale ed astratta, ma con specifico
riferimento all'entità ed alle dimensioni
dell'intervento edificatorio programmato ed
autorizzato, all'evidente scopo di evitare
che il termine prescritto possa essere eluso
con ricorso a lavori fittizi e simbolici e
non oggettivamente significativi di un
effettivo intendimento del titolare della
concessione di procedere alla realizzazione
dell'opera assentita (TAR Abruzzo Pescara,
sez. I, 29.03.2011, n. 193).
In ordine alla decadenza dalla concessione
edilizia per mancato inizio dei lavori nel
termine prefissato, la qualificazione delle
opere da ritenersi come valido inizio dei
lavori presuppone infatti che le opere
realizzate devono essere finalizzate alla
realizzazione del manufatto oltreché avere
una certa consistenza, dovendosi così
escludere che possano costituire inizio dei
lavori quelle opere solo fittiziamente
eseguite e che, perciò stesso, non
evidenziano l'esistenza di una concreta
voluntas aedificandi da parte del
titolare della concessione edilizia (TAR
Toscana, sez. III, 17.11.2008, n. 2533).
Deve trattarsi, in altre parole, di un
inizio serio e significativo dei lavori
(cfr. Cons. Stato, sez. II, 28.04.2010, n.
4170; Cons. Stato, sez. V, 29.11.2004, n.
7748; Cons. Stato, sez. V, 29.11.2004, n.
7748).
Di conseguenza, l'accertamento del
tempestivo inizio dei lavori deve basarsi
non solo sulla quantità e qualità delle
opere realizzate, ma soprattutto sulla loro
idoneità a dimostrare la reale volontà del
concessionario di dare corso all'opera
autorizzata (TAR Puglia Bari, sez. II,
05.05.2010, n. 1731; Cons. Stato, sez. IV,
18.06.2008, n. 3030 ).
In particolare, l'idoneità delle opere a
costituire l'effettivo inizio dei lavori
edilizi deve essere concretamente
considerata in rapporto al contesto
complessivo del progetto stesso (Cons.
Stato, sez. IV, 15.07.2008, n. 3527; TAR
Lazio Latina, sez. I, 12.11.2008, n. 1587).
L'inizio dei lavori, ai sensi del citato
art. 15, comma 2, deve dunque intendersi
riferito a concreti lavori edilizi;
pertanto, i lavori debbono ritenersi "iniziati"
quando consistano nel concentramento di
mezzi e di uomini, cioè nella compiuta
organizzazione del cantiere,
nell'innalzamento di elementi portanti,
nella elevazione di muri e nella esecuzione
di scavi coordinati al gettito delle
fondazioni del costruendo edificio, per
evitare che il termine di decadenza del
permesso possa essere eluso con ricorso ad
interventi fittizi e simbolici (Cass.
penale, sez. III, 27.01.2010, n. 7114)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 09.09.2011 n. 1582 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
VAS: sono soggetti anche i piani attuativi
conformi allo strumento urbanistico
(link a http://studiospallino.blogspot.com).
Le procedure di
valutazione ambientale strategica e di
verifica di esclusione vanno estese ai piani
urbanistici di particolare complessità e
impatto, anche se conformi alla
strumentazione urbanistica comunale.
In tal senso si è espresso il TAR
Lombardia-Milano, Sez. II, nella
sentenza 08.09.2011 n. 2194.
La previsione di sottoporre a procedura di
v.a.s. e di verifica di esclusione anche i
piani urbanistici di particolare complessità
e impatto, pur se conformi alla
strumentazione urbanistica comunale, è
infatti conforme alla normativa in materia
di valutazione ambientale strategica. Né la
definizione di piani e programmi data
dall’art. 5, d.lgs. n. 152/2006, né le
previsioni di cui agli artt. 6 e 7 del
d.lgs. n. 152/2006, consentono infatti
-afferma il TAR- "di affermare
l’esclusione dalla valutazione ambientale
strategica dei piani urbanistici che non
comportino variante al piano regolatore
generale, laddove possano avere
significativi impatti sull’ambiente e sul
patrimonio culturale".
Né l’esclusione dalla v.a.s. dei piani
conformi allo strumento urbanistico può
dedursi dall’art. 4, comma 2, l.reg.
Lombardia n. 12/2005. La norma "si
limita, difatti, a specificare l’obbligo di
sottoposizione alla v.a.s. del piano
territoriale regionale, dei piani
territoriali regionali d'area e dei piani
territoriali di coordinamento provinciali,
del documento di piano di cui all'articolo
8, nonché le varianti agli stessi, senza
però con ciò dettare un’elencazione
tassativa delle tipologie di piano
sottoposte a valutazione ambientale
strategica, che, come previsto al comma 1,
sono tutti ^i piani e programmi di cui alla
direttiva 2001/42/CEE del Parlamento europeo
e del Consiglio del 27.06.2001^".
La sentenza merita di essere segnalata
perché si discosta dall'orientamento
espresso da questo stesso TAR nella
sentenza 26.11.2009 n. 5171
(sentenza ^Citylife^), con cui la
sezione aveva affermato la non necessità
della valutazione ambientale strategica
quando lo strumento attuativo non fosse in
variante allo strumento urbanistico generale
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'amministrazione
comunale non ha un obbligo, a fronte del
ritardato pagamento degli oneri concessori,
di attivarsi nei confronti del garante per
il recupero di quanto dovuto.
La fideiussione che accompagna la
rateizzazione del pagamento degli oneri di
urbanizzazione non ha, difatti, la finalità
di agevolare l'adempimento del soggetto
obbligato al pagamento, bensì costituisce
una garanzia personale prestata unicamente
nell'interesse dell'amministrazione, sulla
quale non incombe, quindi, alcun obbligo di
preventiva escussione del fideiussore; la
garanzia sussidiaria serve a scongiurare che
il Comune possa irrimediabilmente perdere
una entrata di diritto pubblico, ma non
alleggerisce affatto la posizione del
soggetto tenuto al pagamento, né attenua i
doveri di diligenza sullo stesso incombenti,
né estingue di per sé l'obbligazione
principale.
---------------
Il diritto di credito dell'amministrazione
comunale avente ad oggetto il pagamento del
contributo dovuto per il rilascio della
concessione edilizia èa soggetto
all'ordinario termine decennale di
prescrizione, decorrente dalla data di
rilascio della concessione edilizia. Il "dies
a quo" per la prescrizione dell'obbligo
giuridico relativo al pagamento del costo di
costruzione e degli oneri di urbanizzazione
decorre dal giorno del rilascio del titolo
edilizio.
Le sanzioni pecuniarie previste all’art. 42,
d.P.R. n. 380/2001 per i casi di ritardato o
omesso versamento del contributo di
costruzione sono, invece, soggette -in
mancanza di una diversa disciplina legale-
al termine di prescrizione di 5 anni
stabilito dall'art. 28 della legge
24.11.1981, n. 689. In caso di omesso
pagamento del contributo, il dies a quo del
termine di prescrizione quinquennale va
individuato nella scadenza del termine di
240 giorni successivi alla data prevista per
il pagamento del contributo.
--------------
A norma dell’art. 42 del D.P.R. n. 380 del
2001, la sanzione massima, pari al 40% del
contributo dovuto, trova applicazione quando
l'omissione del pagamento del contributo si
protrae fino a 240 giorni dalla scadenza.
Decorso inutilmente tale termine il Comune
può provvedere alla riscossione coattiva del
complessivo credito.
Il termine di prescrizione inizia, dunque, a
decorrere dal 241° giorno successivo alla
scadenza prevista per il pagamento poiché,
in caso di omesso versamento del contributo,
il diritto alla riscossione della sanzione
del 40% può essere fatto valere dal Comune
solo da tale momento.
Nel caso in cui il privato abbia ottenuto la
rateizzazione del pagamento e non abbia
corrisposto l’intero contributo -e dunque
non solo una singola rata- va preso a
riferimento -quale termine di scadenza del
pagamento- il termine di scadenza
dell’ultima rata (e dunque non il termine di
scadenza delle singole rate).
In tale ipotesi, invero, non viene applicata
una sanzione su singole rate ma sull’intero
contributo ed è solo con lo scadere del
termine di pagamento dell’ultima rata che
matura la sanzione sull’intero contributo.
Sono infondate le censure rivolte avverso il
comportamento tenuto dal Comune di
violazione dei doveri di correttezza,
diligenza e buona fede, per avere omesso di
rivolgersi al fideiussore al fine di esigere
il pagamento delle rate del contributo non
pagate, evitando così il maturare degli
interessi e l’irrogazione delle sanzioni.
Il Collegio aderisce all’orientamento, già
accolto in alcuni precedenti della Sezione,
secondo cui l'amministrazione non ha un
obbligo, a fronte del ritardato pagamento
degli oneri concessori, di attivarsi nei
confronti del garante per il recupero di
quanto dovuto (TAR Lombardia, Milano, sez.
II, 21.07.2009, n. 4405; n. 4306/2009;
Consiglio Stato, sez. IV, 10.08.2007, n.
4419; sez. V, 11.11.2005, n. 6345;
16.07.2007 n. 4025; sez. IV 13.03.2008 n.
1084; sez. II, 24.05.2006 n. 7683/2004; TAR
Campania Salerno, sez. II, 16.06.2008, n.
1936).
La fideiussione che accompagna la
rateizzazione del pagamento degli oneri di
urbanizzazione non ha, difatti, la finalità
di agevolare l'adempimento del soggetto
obbligato al pagamento, bensì costituisce
una garanzia personale prestata unicamente
nell'interesse dell'amministrazione, sulla
quale non incombe, quindi, alcun obbligo di
preventiva escussione del fideiussore; la
garanzia sussidiaria serve a scongiurare che
il Comune possa irrimediabilmente perdere
una entrata di diritto pubblico, ma non
alleggerisce affatto la posizione del
soggetto tenuto al pagamento, né attenua i
doveri di diligenza sullo stesso incombenti,
né estingue di per sé l'obbligazione
principale (Cons. Stato, sez. V, 11.11.2005, n. 6345).
---------------
La società ricorrente contesta, poi,
l’intervenuta prescrizione della pretesa del
pagamento del contributo e delle relative
sanzioni.
Anche questa censura è infondata.
La giurisprudenza è concorde nel ritenere
che il diritto di credito
dell'amministrazione comunale avente ad
oggetto il pagamento del contributo dovuto
per il rilascio della concessione edilizia
sia soggetto all'ordinario termine decennale
di prescrizione, decorrente dalla data di
rilascio della concessione edilizia
(Consiglio Stato, sez. IV, 06.06.2008, n.
2686; sez. V, 04.08.2000, n. 4302).
Nel caso di specie, il "dies a quo"
per la prescrizione dell'obbligo giuridico
relativo al pagamento del costo di
costruzione e degli oneri di urbanizzazione
decorre dal 18.04.2002, giorno del
rilascio del titolo edilizio.
L'impugnata ingiunzione di pagamento è stata
adottata il 10.02.2009, quando il
diritto di credito del Comune non era,
dunque, prescritto.
Le sanzioni pecuniarie previste all’art. 42,
d.P.R. n. 380/2001 per i casi di ritardato o
omesso versamento del contributo di
costruzione sono, invece, soggette -in
mancanza di una diversa disciplina legale-
al termine di prescrizione di cinque anni
stabilito dall'art. 28 della legge
24.11.1981, n. 689 (Cass., Sez. I, sent. n.
23633 del 06-11-2006; TAR Sardegna Cagliari,
sez. II, 30.01.2008, n. 70; TAR Campania,
Salerno, Sez. II, 22.04.2005 n. 647; TAR
Calabria, Catanzaro, Sez. II, 08.10.2001 n.
1514; TAR Sicilia, Catania, Sez. I,
08.05.2006 n. 701).
In caso di omesso pagamento del contributo,
il dies a quo del termine di prescrizione
quinquennale va individuato nella scadenza
del termine di 240 giorni successivi alla
data prevista per il pagamento del
contributo (cfr. TAR Basilicata Potenza,
sez. I, 30.04.2008, n. 141).
---------------
A norma dell’art. 42 del D.P.R. n. 380 del
2001, invero, la sanzione massima, pari al
40% del contributo dovuto trova applicazione
quando l'omissione del pagamento del
contributo si protrae fino a 240 giorni
dalla scadenza. Decorso inutilmente tale
termine il Comune può provvedere alla
riscossione coattiva del complessivo
credito.
Il termine di prescrizione inizia, dunque, a
decorrere dal 241° giorno successivo alla
scadenza prevista per il pagamento poiché,
in caso di omesso versamento del contributo,
il diritto alla riscossione della sanzione
del 40% può essere fatto valere dal Comune
solo da tale momento.
Nel caso in cui il privato abbia ottenuto la
rateizzazione del pagamento e non abbia
corrisposto l’intero contributo -e dunque
non solo una singola rata- (come accade
nella fattispecie oggetto del presente
giudizio in cui la prima rata ha un importo
pari a zero e le altre tre rate non sono
state pagate) va preso a riferimento -quale
termine di scadenza del pagamento- il
termine di scadenza dell’ultima rata (e
dunque non il termine di scadenza delle
singole rate).
In tale ipotesi, invero, non viene applicata
una sanzione su singole rate ma sull’intero
contributo ed è solo con lo scadere del
termine di pagamento dell’ultima rata che
matura la sanzione sull’intero contributo.
Nel caso di specie, il termine di 240 giorni
successivi alla data di scadenza del
pagamento dell’ultima rata (18.10.2003) è il
14.06.2004: poiché l’ingiunzione di
pagamento è del 10.02.2009, anche il diritto
al pagamento delle sanzioni pecuniarie non
si è prescritto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n. 2189 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive
la distanza di 10 metri tra le pareti
finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di
norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile.
Gli aggetti (bow window) presenti
sull’edificio in questione non possono
considerarsi meri elementi decorativi; al
contrario, estendendo il volume
edificatorio, costituiscono corpo di
fabbrica e vanno, pertanto, conteggiati nel
calcolo della distanza.
Con la seconda censura il ricorrente lamenta
la violazione della distanza di 10 metri
dall’immobile di sua proprietà -situato sul
mappale n. 4705, esterno al piano di
lottizzazione– in quanto il p.d.l.
ometterebbe di considerare la presenza in
aggetto alla facciata nord-ovest
dell’edificio, di un bow window.
Questa censura è fondata.
La tavola 3.1. non raffigura, invero, la
presenza sulla facciata dell’edificio di
proprietà del ricorrente, situato sul
mappale n. 4705, di due bow window e
non ne tiene, dunque, in considerazione nel
conteggio della distanza prevista di 10
metri.
Per costante giurisprudenza, l'art. 9 d.m.
02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la
distanza di dieci metri tra le pareti
finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di
norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, e pertanto non è
eludibile (cfr. Consiglio Stato, sez. IV,
05.12.2005, n. 6909).
Gli aggetti presenti sull’edificio in
questione non possono considerarsi meri
elementi decorativi; al contrario,
estendendo il volume edificatorio,
costituiscono corpo di fabbrica e vanno,
pertanto, conteggiati nel calcolo della
distanza.
Le deliberazioni n. 24 del 28.05.2010 e n.
58 del 22.12.2009 sono pertanto illegittime
nella parte in cui consentono l’edificazione
ad una distanza inferiore ai 10 metri
dall’immobile situato sul mappale 4705, per
non avere tenuto conto degli aggetti
presenti sulla facciata nord ovest
dell’edificio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.09.2011 n. 2187 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pensiline.
La sostanziale identità delle nozioni di
tettoia e pensilina ricavabile dalle
medesime finalità di arredo, riparo o
protezione anche dagli agenti atmosferici,
determina la necessità del permesso di
costruire nei casi in cui sia da escludere
la natura precaria o pertinenziale
dell'intervento (Corte di Cassazione, Sez.
feriale,
sentenza 07.09.2011 n. 33267 -
link a www.lexambiente.it). |
APPALTI:
E' legittimo il provvedimento di
esclusione da una gara adottato da una
stazione appaltante nei confronti di un
concorrente, in relazione ad un decreto
penale per un reato relativo alla violazione
di norme sulla sicurezza dei lavoratori.
La gravità del reato, ai sensi dell'art 38,
c. 1, lett. c), del d.lgs. n. 163/2006, non
è esclusa dalla lieve pena edittale prevista
nella fattispecie penale o dalla natura
contravvenzionale del reato. La gravità del
reato deve essere valutata in relazione alla
incidenza del reato sulla moralità
professionale; il contenuto del contratto
oggetto della gara assume allora importanza
fondamentale al fine di apprezzare il grado
di "moralità professionale" del
singolo concorrente.
Pertanto, è irrilevante, rispetto a siffatta
valutazione della stazione appaltante, la
gravità del reato sanzionato in sede penale
in relazione alla pena edittale o al fatto
che si tratti di contravvenzioni. Nel caso
di specie, pertanto, si deve ritenere
legittima la valutazione della stazione
appaltante che abbia escluso una concorrente
da una gara di appalto di lavori, in
relazione ad un decreto penale per un reato
relativo alla violazione di norme sulla
sicurezza dei lavoratori (TAR Lazio-Roma,
Sez. III,
sentenza 07.09.2011 n. 7143 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
permesso di costruire decade con l'entrata
in vigore di contrastanti previsioni
urbanistiche, salvo che i lavori siano già
iniziati e vengano completati entro il
termine di tre anni dalla data di inizio. La
regola generale -con la sola eccezione
dell'ipotesi che i lavori precedentemente
assentiti siano già cominciati- della
decadenza del permesso di costruire in caso
di contrasto con la pianificazione
disciplinata dall'art. 15, comma 4, dpr
380/2001, trova infatti la sua ratio
nell'esigenza di garantire indefettibile
applicazione alle sopravvenute previsioni in
quanto volte ad un più razionale assetto del
territorio.
Nel caso di sopravvenienza di una nuova
disciplina del territorio, la decadenza di
cui all'art. 15 d.P.R. n. 380 del 2001
consegue infatti automaticamente dalla
circostanza obiettiva del mancato inizio dei
lavori alla data di entrata in vigore del
nuovo piano e, quindi, all'inerzia
dell'interessato. La pronuncia di decadenza
di cui all'art. 15, comma 4, è espressione
di un potere vincolato, avente natura
ricognitiva con effetti "ex tunc", diretto
ad accertare il venir meno degli effetti del
titolo edilizio difforme dal piano
urbanistico sopravvenuto.
---------------
L'amministrazione non è tenuta a fornire
specifiche motivazioni sulla adozione
dell'atto di decadenza del permesso di
costruire (ex art. 15, comma 4, dpr
380/2011), in quanto qui non si è in
presenza di un provvedimento negativo o di
autotutela e la pronuncia di decadenza, per
il suo carattere dovuto, è sufficientemente
motivata con la sola evidenziazione
dell'effettiva sussistenza dei presupposti
di fatto. Né è richiesta alcuna ulteriore
specificazione, stante la immediata e
diretta prevalenza dell'interesse pubblico
all'attuazione della regolamentazione
sopravvenuta che è imposta dalla norma in
questione.
---------------
L'istituto della decadenza del permesso di
costruire dall'art. 15, comma 4, d.P.R.
06.06.2001 n. 380, ha natura dichiarativa, e
presuppone un atto di accertamento di un
effetto che consegue "ex lege" e che è
espressione di un potere vincolato, avente
natura ricognitiva con effetti "ex tunc",
diretto ad accertare il venir meno degli
effetti del titolo edilizio difforme dal
piano urbanistico sopravvenuto.
L’atto emanato per il solo verificarsi
dell’evento indicato dalla legge, come tale,
è sottratto alla disponibilità delle parti,
per cui il privato, anche se fosse
tempestivamente avvertito dell'avvio del
relativo procedimento, non avrebbe alcuna
possibilità d'influirvi a proprio vantaggio.
L'avviso d'avvio del procedimento ex. art. 7
l. 07.08.1990 n. 241 intende assicurare
l'apporto partecipativo dei destinatari
dell'atto conclusivo -affinché quest'ultimo
realizzi un assetto ragionevole degli
interessi, pubblici e privati, coinvolti e
confliggenti, per cui tale possibilità non
sussiste nel caso di decadenza dalla
concessione edilizia, per mancato inizio dei
lavori .
La violazione dell'art. 7 l. 07.08.1990 n.
241 non può dunque essere ritenuta
sussistente in caso di adozione del
provvedimento di decadenza del permesso di
costruire, essendo questo strettamente
correlato al verificarsi delle condizioni
che ne legittimano l'adozione; di talché, la
partecipazione del privato al relativo
procedimento risulterebbe inutile e
defatigante.
Come esattamente rilevato dal TAR, nel caso
di specie è, in ogni caso, risolvente ai
fini del decidere il fatto che l’appellante
non avesse iniziato i lavori di cui al
permesso di costruzione dichiarato decaduto.
In tale ottica, doveva farsi applicazione
del principio di cui all’art. 15, comma 4,
del testo unico n. 380 del 2001, per cui “Il
permesso decade con l'entrata in vigore di
contrastanti previsioni urbanistiche, salvo
che i lavori siano già iniziati e vengano
completati entro il termine di tre anni
dalla data di inizio”. La regola
generale -con la sola eccezione dell'ipotesi
che i lavori precedentemente assentiti siano
già cominciati- della decadenza del permesso
di costruire in caso di contrasto con la
pianificazione disciplinata dal cit. art.
15, comma 4, trova infatti la sua ratio
nell'esigenza di garantire indefettibile
applicazione alle sopravvenute previsioni in
quanto volte ad un più razionale assetto del
territorio (cfr. Consiglio Stato, sez. IV,
10.08.2007, n. 4423; Consiglio Stato, sez.
IV, 08.02.2008, n. 434).
Nel caso di sopravvenienza di una nuova
disciplina del territorio, la decadenza di
cui all'art. 15 d.P.R. n. 380 del 2001
consegue infatti automaticamente dalla
circostanza obiettiva del mancato inizio dei
lavori alla data di entrata in vigore del
nuovo piano e, quindi, all'inerzia
dell'interessato (cfr. in tal senso:
Consiglio Stato, sez. IV, 08.02.2008, n.
434). La pronuncia di decadenza di cui
all'art. 15, comma 4, è espressione di un
potere vincolato, avente natura ricognitiva
con effetti "ex tunc", diretto ad
accertare il venir meno degli effetti del
titolo edilizio difforme dal piano
urbanistico sopravvenuto (cfr. Consiglio
Stato, sez. IV, 10.08.2007, n. 4423).
---------------
L'amministrazione non è tenuta a fornire
specifiche motivazioni sulla adozione
dell'atto di decadenza del permesso di
costruire (ex art. 15, comma 4, dpr
380/2011), in quanto qui non si è in
presenza di un provvedimento negativo o di
autotutela e la pronuncia di decadenza, per
il suo carattere dovuto, è sufficientemente
motivata con la sola evidenziazione
dell'effettiva sussistenza dei presupposti
di fatto. Né è richiesta alcuna ulteriore
specificazione, stante la immediata e
diretta prevalenza dell'interesse pubblico
all'attuazione della regolamentazione
sopravvenuta che è imposta dalla norma in
questione (cfr. Consiglio Stato, sez. IV,
10.08.2007, n. 4423).
Quanto all’interesse pubblico appare
prevalente quello alla tutela del paesaggio
ed alla preservazione naturalistica della
riserva protetta, che l’intervento
dichiarato decaduto per mancato inizio
lavori avrebbe del tutto vanificato.
--------------
L'istituto della decadenza del permesso di
costruire dall'art. 15, comma 4, d.P.R.
06.06.2001 n. 380, ha natura dichiarativa, e
presuppone un atto di accertamento di un
effetto che consegue "ex lege" e che
è espressione di un potere vincolato, avente
natura ricognitiva con effetti "ex tunc",
diretto ad accertare il venir meno degli
effetti del titolo edilizio difforme dal
piano urbanistico sopravvenuto (cfr.
Consiglio Stato, sez. IV, n. 4423 cit.).
L’atto emanato per il solo verificarsi
dell’evento indicato dalla legge, come tale,
è sottratto alla disponibilità delle parti,
per cui il privato, anche se fosse
tempestivamente avvertito dell'avvio del
relativo procedimento, non avrebbe alcuna
possibilità d'influirvi a proprio vantaggio.
L'avviso d'avvio del procedimento ex. art. 7
l. 07.08.1990 n. 241 intende assicurare
l'apporto partecipativo dei destinatari
dell'atto conclusivo -affinché quest'ultimo
realizzi un assetto ragionevole degli
interessi, pubblici e privati, coinvolti e
confliggenti, per cui tale possibilità non
sussiste nel caso di decadenza dalla
concessione edilizia, per mancato inizio dei
lavori .
La violazione dell'art. 7 l. 07.08.1990 n.
241 non può dunque essere ritenuta
sussistente in caso di adozione del
provvedimento di decadenza del permesso di
costruire, essendo questo strettamente
correlato al verificarsi delle condizioni
che ne legittimano l'adozione; di talché, la
partecipazione del privato al relativo
procedimento risulterebbe inutile e
defatigante (cfr. Consiglio Stato, sez. VI,
29.03.2002, n. 1785)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.09.2011 n. 5028 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'onere di verificare la
veridicità delle preesistenti attestazioni
incombe sul cessionario d'azienda.
Con
sentenza
05.09.2011 n. 4997, il Consiglio di
Stato, Sez. VI, ha precisato che incombe
sull’imprenditore, acquirente di un ramo
d’azienda, l’onere della verifica della
veridicità delle preesistenti attestazioni
relative al plesso aziendale da lui
acquisito e di cui assume, oltre alle
utilità, anche il rischio.
La decisione del Consiglio di Stato ha
riformato la sentenza del TAR Roma, con la
quale era stato annullato il provvedimento
con cui l’Autorità di Vigilanza sui lavori
pubblici aveva comunicato ad una società il
suo inserimento nel casellario informatico,
per accertate falsità nelle dichiarazioni
rese sui requisiti e condizioni rilevanti
per la partecipazione alle procedure di
gara.
In particolare, il TAR Roma aveva motivato
la sua decisione sulla circostanza che la
falsa dichiarazione non fosse riconducibile
direttamente alla società ricorrente, poiché
la certificazione non veritiera seguiva
l’acquisto di un ramo d’azienda da una
società che, a sua volta, aveva acquistato
la struttura aziendale, già fornita di
attestazione di qualificazione, da un’altra
società.
In riforma della sentenza di primo grado, il
Consiglio di Stato ha chiarito che
l’imputabilità di una falsa dichiarazione
può essere ascritta anche all’imprenditore
che ha tenuto una condotta non uniformata
alla diligenza esigibile nel mercato dei
pubblici appalti, come nel caso in cui abbia
omesso di effettuare adeguati controlli in
occasione dell’acquisto di un ramo di
azienda.
Ed infatti ad avviso dei giudici “Dal
principio generale di successione nei
rapporti giuridici oggettivi dell’azienda
ceduta (cfr. art. 2558 Cod. civ.) nel cui
novero rientrano anche gli effetti di queste
dichiarazioni circa l’affidabilità morale e
professionale indistintamente valevoli verso
le stazioni appaltanti pubbliche, consegue
che, in caso di acquisto di ramo di azienda,
incombe sull’imprenditore acquirente –che
dal momento diviene attributario delle
qualificazioni– l’onere della verifica della
veridicità delle preesistenti attestazioni
relative al plesso aziendale da lui
acquisito e di cui assume, con le utilità,
il rischio.
Al cessionario d’azienda possono dunque non
essere, a questi fini, addebitate false
dichiarazioni del cedente solo in caso di
comprovata impossibilità di loro conoscenza,
seppur in presenza di opportune verifiche
effettuate in occasione della cessione, in
relazione alle dimensioni dell’impresa e al
settore di attività interessato (cfr. in
senso conforme, Cons. Stato, II, parere n.
1661/2005 del 25.05.2005, per il quale
rimane imputabile all’acquirente la falsità
non difficilmente accertabile, ad es.
mediante i certificati penali e dei carichi
pendente dei gestori della cedente)”.
In conclusione, secondo i giudici del
Consiglio di Stato, l’imprenditore che
acquista un ramo d’azienda deve adottare
tutta la diligenza, esigibile nel mercato
dei pubblici appalti, e necessaria per la
tutela dell’affidamento delle
amministrazioni pubbliche (commento tratto
da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
certificato di agibilità non ha alcuna
attinenza con fini di tutela
urbanistico-edilizia e si limita quindi ad
attestare una situazione oggettiva e, in
particolare, la corrispondenza dell'opera
realizzata al progetto assentito, nonché la
mancanza di cause di insalubrità limitate
alla costruzione in sé considerata.
Osserva in proposito la Sezione che l’art.
221, comma 1, del r.d. n. 1265/1934
stabiliva, che “Gli edifici o parti di
essi indicati nell'articolo precedente non
possono essere abitati senza autorizzazione
del podestà, il quale la concede quando,
previa ispezione dell'ufficiale sanitario o
di un ingegnere a ciò delegato, risulti che
la costruzione sia stata eseguita in
conformità del progetto approvato, che i
muri siano convenientemente prosciugati e
che non sussistano altre cause di
insalubrità”.
L’art. 4, comma 1, del d.P.R. n. 425/1994,
il cui art. 5 ha abrogato detto art. 221,
stabiliva, all’epoca della adozione del
provvedimento impugnato, che “Affinché
gli edifici, o parti di essi, indicati
nell'art. 220 del regio decreto 27.07.1934,
n. 1265, possano essere utilizzati, è
necessario che il proprietario richieda il
certificato di abitabilità al sindaco,
allegando alla richiesta il certificato di
collaudo, la dichiarazione presentata per
l'iscrizione al catasto dell'immobile,
restituita dagli uffici catastali con
l'attestazione dell'avvenuta presentazione,
e una dichiarazione del direttore dei lavori
che deve certificare, sotto la propria
responsabilità, la conformità rispetto al
progetto approvato, l'avvenuta prosciugatura
dei muri e la salubrità degli ambienti”.
Il certificato di agibilità non ha, quindi,
alcuna attinenza con fini di tutela
urbanistico-edilizia e si limita quindi ad
attestare una situazione oggettiva e, in
particolare, la corrispondenza dell'opera
realizzata al progetto assentito, nonché la
mancanza di cause di insalubrità limitate
alla costruzione in sé considerata
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 05.09.2011 n. 4982 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Multe
strada. Infrazioni contestabili in
fotocopia.
In ipotesi di contestazione immediata di una
infrazione stradale la polizia può
consegnare al trasgressore anche una
semplice fotocopia del verbale. In questo
caso infatti il codice della strada non
richiede copie autentiche o originali della
multa.
Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione,
Sez. II civ., con sentenza 02.09.2011 n.
18047.
Un automobilista ha mancato la precedenza
con un veicolo non assicurato e per questo è
stato sanzionato dai carabinieri con
contestazione immediata delle infrazioni. Il
giudice di pace ha però accolto le doglianze
dell'autista annullando tutte le multe
evidenziando l'irregolarità del verbale
consegnato all'interessato in semplice
fotocopia.
La Cassazione è di contrario avviso.
L'accertamento stradale che si concretizza
con l'identificazione del trasgressore sul
luogo dell'infrazione non richiede alcuna
particolare formalità. Nel caso in cui la
violazione deve essere portata a conoscenza
del trasgressore, successivamente, l'art.
201 del codice stradale è invece
particolarmente rigoroso. In buona sostanza
solo in questa ipotesi la legge richiede la
consegna al destinatario di copia autentica
o originale della multa
(articolo ItaliaOggi del 24.09.2011). |
EDILIZIA PRIVATA: Va
sottolineata la prevalenza della disciplina
imperativa delle distanze di cui all'art. 9
del DM 1444/1968 che, stante la natura di
norma primaria, sostituisce eventuali
disposizioni contrarie contenute nelle norme
tecniche di attuazione, per cui le distanze
legali previste dagli standards urbanistici
sono immediatamente applicabili ai rapporti
privati, anche ove gli strumenti urbanistici
prevedono distanze minori. Si tratta di una
disposizione dettata in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di
igiene e di sicurezza, di modo che al
giudice non è lasciato alcun margine di
discrezionalità nell'applicazione della
disciplina in materia di equo
contemperamento degli opposti interessi.
In merito poi alle modalità di calcolo di
tale distanza, va ricordato come questa va
calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate
e non solo a quella principale, prescindendo
anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela, e va computata in
relazione a tutti gli elementi costruttivi,
anche accessori, qualunque ne sia la
funzione, aventi i caratteri della solidità,
della stabilità e della immobilizzazione,
salvo che non si tratti di sporti e di
aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali
da potersi definire di entità trascurabile
rispetto all'interesse tutelato dalla norma
riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
La censura proposta sottolinea come
l’edifico progettato, che prevede la
realizzazione di balconi per i tre piani
previsti in elevazione, dell’ampiezza pari a
ml. 1,5, non rispetterebbe le disposizioni
sulle distanze tra edifici, posto che la
distanza, nel caso di specie, tenuto conto
dei balconi previsti e di quelli del
frontistante fabbricato condominiale,
sarebbe senz’altro inferiore a quella
indicata in ml. 10.50, calcolata appunto
senza tenere conto dei balconi. Ci sarebbe
quindi violazione dell’art. 22 N.T.A. del
P.R.G. che prevede che “il distacco
minimo tra pareti che fronteggino edifici
preesistenti deve essere pari ad almeno
l’altezza dell’edificio da costruire e,
comunque, mai inferiore a ml. 10”, dove
il costruendo fabbricato è posto ad una
distanza di ml. 10.50 rispetto alla parete
del fabbricato antistante il condominio “Verde
Sud”.
Il giudice di prime cure, evidenziando come
l’art. 5, lett. A), IV comma della NTA,
preveda che dal calcolo delle distanze “restano
esclusi gli sporti dalle pareti quali
cornicioni, balconi, pensiline, ecc.”,
ha escluso l’illegittimità della previsione
ed ha ritenuto che non fosse applicabile la
normativa nazionale sui distacchi tra
edifici, in quanto questa, avendo la
funzione di evitare la produzione di
intercapedini da dannose, riguarda
espressamente le “pareti finestrate”.
Va tuttavia rimarcato come la giurisprudenza
di questa Sezione (Consiglio di Stato, sez.
IV, 02.11.2010, n. 7731) abbia già osservato
come la questione debba essere diversamente
valutata. In primo luogo, va sottolineata la
prevalenza della disciplina imperativa delle
distanze di cui all'art. 9 che, stante la
natura di norma primaria, sostituisce
eventuali disposizioni contrarie contenute
nelle norme tecniche di attuazione
(Consiglio Stato, sez. IV, 05.12.2005, n.
6909), per cui le distanze legali previste
dagli standards urbanistici sono
immediatamente applicabili ai rapporti
privati, anche ove gli strumenti urbanistici
prevedono distanze minori. Si tratta di una
disposizione dettata in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di
igiene e di sicurezza, di modo che al
giudice non è lasciato alcun margine di
discrezionalità nell'applicazione della
disciplina in materia di equo
contemperamento degli opposti interessi.
In merito poi alle modalità di calcolo di
tale distanza, va ricordato come questa va
calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate
e non solo a quella principale, prescindendo
anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela, e va computata in
relazione a tutti gli elementi costruttivi,
anche accessori, qualunque ne sia la
funzione, aventi i caratteri della solidità,
della stabilità e della immobilizzazione,
salvo che non si tratti di sporti e di
aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali
da potersi definire di entità trascurabile
rispetto all'interesse tutelato dalla norma
riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene
(Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.1996, n.
268).
Nel caso in specie, l’ampiezza dei balconi,
pari a ml. 1,50, è tale da non poter essere
inclusa nel concetto di modeste dimensioni,
stante la loro funzione di estendere ed
ampliare per l'intero fronte dell'edificio
la parte utilizzabile per l'uso abitativo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.09.2011 n. 4968 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: In
presenza di una lottizzazione scaduta per
decorrenza del termine decennale,
l'amministrazione non perde il potere di
rilasciare provvedimenti funzionali al
completamento del piano, ferma restando la
disciplina urbanistico–edilizia dell’area da
esso dettata che, anche per la parte rimasta
inattuata, continua a trovare applicazione
fino all’approvazione di un nuovo piano
urbanistico. In sostanza, la scadenza del
termine di validità di un piano di
lottizzazione non consente
all'amministrazione di procedere, "sic et
simpliciter", alla declaratoria di
intervenuta perdita di efficacia dello
stesso, dovendo, invece, dar conto delle
ragioni sottese alla necessità di rendere
inoperanti le relative previsioni rimaste
inattuate, dando altresì conto delle
valutazioni effettuate circa il rapporto tra
le opere ultimate e quelle non ancora
eseguite.
La circostanza che il ricorrente non sia
proprietario di aree ricomprese nel
perimetro del piano di recupero, mentre non
esclude ex se la legittimazione, radicata
sul criterio della vicinitas, incide invece
sulla configurabilità dell’interesse al
ricorso, dovendosi fornire adeguata
dimostrazione del pregiudizio in concreto
risentito in conseguenza dei vizi dedotti.
In presenza di una lottizzazione scaduta per
decorrenza del termine decennale,
l'amministrazione non perde il potere di
rilasciare provvedimenti funzionali al
completamento del piano, ferma restando la
disciplina urbanistico–edilizia dell’area da
esso dettata che, anche per la parte rimasta
inattuata, continua a trovare applicazione
fino all’approvazione di un nuovo piano
urbanistico (cfr. ex plurimis,
Consiglio Stato, sez. V, 12.10.2004, n.
6527; sez. VI, 20.01.2003, n. 200; IV,
11.03.2003, n. 1315; id. 16.03.1999, n. 286;
nonché sez. IV, 02.06.2000 n. 3172; TAR
Calabria, Reggio Calabria, 01.10.2002, n.
1187, per cui: <<In sostanza, la scadenza
del termine di validità di un piano di
lottizzazione non consente
all'amministrazione di procedere, "sic et
simpliciter", alla declaratoria di
intervenuta perdita di efficacia dello
stesso, dovendo, invece, dar conto delle
ragioni sottese alla necessità di rendere
inoperanti le relative previsioni rimaste
inattuate, dando altresì conto delle
valutazioni effettuate circa il rapporto tra
le opere ultimate e quelle non ancora
eseguite>>).
Come affermato
anche di recente dal Consiglio di Stato
(cfr. la decisione della sez. IV,
29.12.2010, n. 9537), la circostanza che il
ricorrente non sia proprietario di aree
ricomprese nel perimetro del piano di
recupero, mentre non esclude ex se la
legittimazione, radicata sul criterio della
vicinitas, incide invece sulla
configurabilità dell’interesse al ricorso,
dovendosi fornire adeguata dimostrazione del
pregiudizio in concreto risentito in
conseguenza dei vizi dedotti (cfr. la cit.
sentenza, per cui:<<Il criterio della
vicinitas, seppur idoneo a supportare la
legittimazione al ricorso, non esaurisce
certo gli ulteriori profili dell'interesse
concreto all'impugnazione, costituito dalla
lesione effettiva e documentata delle
facoltà dominicali del ricorrente>>)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n. 2154 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sì alla concessione edilizia in
sanatoria se conforme alla normativa
previgente alla presentazione della domanda.
Accertamento di conformità - Art.
16 Lr Sardegna n. 23 dell’11.10.1985, e art.
36 del Dpr n. 380 del 06.06.2001 - Doppia
conformità - Normativa ostativa
all’edificazione sopravvenuta alla domanda
di accertamento di conformità.
Con la sentenza in rassegna il Tar si
esprime sulle norme che regolano la
concessione edilizia in sanatoria chiarendo
la portata applicativa dell’art. 16 della
legge regionale n. 23/1985 e dell’art. 36
del Dpr n. 380/2001.
Tali disposizioni, nella parte in cui
richiedono per la sanatoria delle opere
eseguite senza concessione e con varianti
non autorizzate, che l’opera sia conforme
tanto alla normativa urbanistica vigente al
momento della realizzazione dell’opera,
quanto a quella vigente al momento della
domanda di accertamento di conformità, sono,
secondo i giudici amministrativi,
disposizioni che operano avverso l’inerzia
dell’amministrazione. La verifica di tale
doppia conformità, infatti, impedisce
all’amministrazione di negare la concessione
in sanatoria sulla base della modificazione
della relativa normativa urbanistica
successiva alla presentazione della domanda
stessa.
Il Tar Sardegna inoltre, dichiarando
illegittimo il diniego di autorizzazione in
sanatoria per opere, quali chioschi bar e
area tavolini e sedie, realizzate su aree
demaniali marittime, chiarisce che “la
modifica dell’assetto del territorio non
richiede la concessione edilizia solo quando
sia di minima entità ovvero di carattere
precario, così intendendosi le opere,
agevolmente rimuovibili, funzionali a
soddisfare un’esigenza oggettivamente
temporanea (es. baracca o pista di cantiere,
manufatto per una manifestazione…) destinata
a cessare dopo il tempo, normalmente non
lungo, entro cui si realizza l’interesse
finale”.
Peraltro il mancato rispetto (in parte) del
posizionamento delle strutture nell’area
demaniale, secondo le prescrizioni contenute
nella concessione, e purché i manufatti
siano ubicati all’interno dell’area in
concessione, non rappresenta un ostacolo al
rilascio dell’autorizzazione edilizia sia
perché il richiedente è in possesso del
titolo (concessione demaniale) legittimante
la domanda edilizia, sia perché lievi
modifiche rispetto al posizionamento delle
strutture previsto nella concessione
demaniale potranno essere valutate ad altri
fini, ove ritenute rilevanti, dall’ente
concedente (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n.
914 - tratto da Diritto e Pratica
Amministrativa n. 9/2011 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Legittimo il diniego a un’istanza
di accesso generica.
Accesso atti amministrativi - Istanza -
Specificità della domanda - Necessità.
Con la decisione in rassegna, il Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio,
richiamando la consolidata giurisprudenza
del Consiglio di Stato in materia (Cons.
Stato, sez. IV, n. 5360 del 22.09.2003; n.
8287 del 27.11.2010, e sez. VI, n. 116 del
12.01.2011), ha ribadito che non può essere
accolta una domanda di accesso agli atti
amministrativi che risulti caratterizzata da
una formulazione generica, ossia riguardante
non specifici atti o provvedimenti, bensì la
documentazione di un’attività svoltasi
attraverso un imprecisato numero di atti
tanto che l’eventuale soddisfazione di una
simile richiesta, siccome formulata,
importerebbe un’opera di ricerca,
catalogazione, sistemazione che, non rientra
nei doveri posti all’amministrazione dalla
normativa di cui al capo V della legge n.
241/1990.
Il Tar specifica inoltre che anche la
risposta a una domanda di accesso agli atti,
caratterizzata da un contenuto elusivo,
debba essere considerata alla stregua del
diniego di accesso e deve essere pertanto
impugnata nel termine decadenziale di trenta
giorni ex art. 116 c.p.a., pena
l’improcedibilità del ricorso avverso il
diniego ai sensi dell’art. 35, comma 1,
lett. c), c.p.a. (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 01.09.2011 n. 7107 - tratto da Diritto e Pratica
Amministrativa n. 9/2011 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
divieto di edificare entro il raggio di 200
metri dal perimetro cimiteriale non può
riguardare anche gli impianti di telefonia
mobile, sia perché la realizzazione di tali
infrastrutture non appare in contrasto con
nessuna delle tre finalità sottese alla
disciplina posta dall’art. 338, comma 1, del
R.D. n. 1265/1934 (assicurare condizioni di
igiene e di salubrità mediante la
conservazione di una “cintura sanitaria”
intorno al cimitero, consentire futuri
ampliamenti del cimitero, garantendo il
rispetto della tranquillità ed il decoro dei
luoghi di sepoltura), sia perché l’art. 86
del decreto legislativo n. 259/2003
assimila, ad ogni effetto, tali impianti
alle opere di urbanizzazione primaria di cui
all’articolo 16, comma 7, del D.P.R. n.
380/2001, e tale assimilazione rende gli
impianti di cui trattasi compatibili con
qualsiasi destinazione urbanistica delle
diverse zone del territorio comunale.
Si registrano orientamenti contrastanti in
merito alla compatibilità degli impianti di
telefonia mobile con il vincolo di
inedificabilità posto dall’art. 338, comma
1, del R.D. n. 1265 del 27.07.1934, secondo
il quale “i cimiteri devono essere
collocati alla distanza di almeno 200 metri
dal centro abitato. È vietato costruire
intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il
raggio di 200 metri dal perimetro
dell’impianto cimiteriale, quale risultante
dagli strumenti urbanistici vigenti nel
comune o, in difetto di essi, comunque quale
esistente in fatto, salve le deroghe ed
eccezioni previste dalla legge”. In
particolare:
- il primo orientamento (ex multis,
TAR Lombardia Brescia, Sez. I, 01.12.2009,
n. 2381; TAR Toscana Firenze, Sez. I,
ordinanza 20.05.2009, n. 397), invocato dal
Comune di Orta di Atella nella motivazione
del provvedimento impugnato, si fonda sul
seguente ragionamento:
a) il vincolo cimiteriale ha una triplice
finalità -perché, oltre a soddisfare
esigenze di carattere sanitarie ed a
salvaguardare le possibilità di espansione
del perimetro cimiteriale, tutela anche la
c.d. pietas nei confronti dei
defunti, garantendo il rispetto della
tranquillità ed il decoro dei luoghi di
sepoltura- e tali finalità vengono
pregiudicate anche dalla realizzazione di
una struttura ad elevato impatto
sull’ambiente, quale è un traliccio per le
telecomunicazioni;
b) il vincolo cimiteriale non è riferito
soltanto agli immobili destinati alla
stabile residenza di persone, perché l’art.
338 del R.D. n. 1265/1934 reca un divieto
generalizzato di costruire nella fascia di
rispetto cimiteriale, senza limitare tale
divieto a specifiche tipologie di manufatti;
c) le valutazioni in fatto sulla concreta
compatibilità di un manufatto con la fascia
di rispetto cimiteriale sono quindi estranee
alla disciplina del vincolo di cui trattasi,
che si fonda su valutazioni astratte operate
una volta per tutte dal legislatore;
- a fronte di tale orientamento, la
giurisprudenza attualmente maggioritaria (in
particolare, Cons. Stato, Sez. VI, ordinanza
16.07.2009, n. 3657, che riforma l’ordinanza
del TAR Toscana Firenze, Sez. I, n.
397/2009; Cons. Stato, Sez. VI, ordinanza
24.02.2010, n. 877, che sospende la sentenza
del TAR Lombardia Brescia, Sez. I, n.
2381/2009; TAR Toscana Firenze, Sez. I,
05.05.2010, n. 1239; TAR Lazio Roma, Sez.
II-bis, 14.05.2007, n. 4367) afferma che gli
impianti di telefonia mobile risultano
compatibili con il vincolo di rispetto
cimiteriale, la cui ratio non risulta
in alcun modo compromessa da una scelta
localizzativa degli stessi nella fascia di
rispetto cimiteriale.
Sulla scorta del richiamato orientamento
maggioritario, il Collegio ritiene di dover
confermare in questa sede la decisione
assunta in sede cautelare per le seguenti
ragioni:
- innanzitutto deve ritenersi che il divieto
di edificare entro il raggio di 200 metri
dal perimetro cimiteriale non possa
riguardare anche gli impianti di telefonia
mobile, sia perché la realizzazione di tali
infrastrutture non appare in contrasto con
nessuna delle tre finalità sottese alla
disciplina posta dall’art. 338, comma 1, del
R.D. n. 1265/1934 (assicurare condizioni di
igiene e di salubrità mediante la
conservazione di una “cintura sanitaria”
intorno al cimitero, consentire futuri
ampliamenti del cimitero, garantendo il
rispetto della tranquillità ed il decoro dei
luoghi di sepoltura), sia perché l’art. 86
del decreto legislativo n. 259/2003
assimila, ad ogni effetto, tali impianti
alle opere di urbanizzazione primaria di cui
all’articolo 16, comma 7, del D.P.R. n.
380/2001, e tale assimilazione rende gli
impianti di cui trattasi compatibili con
qualsiasi destinazione urbanistica delle
diverse zone del territorio comunale (ex
multis, Cons. Stato, Sez. VI,
15.07.2010, n. 4557);
- inoltre -quand’anche si opinasse
diversamente- si deve ribadire in questa
sede che il Comune di Orta di Atella non ha
operato un’adeguata ponderazione
dell’interesse della società ricorrente ad
evitare la rimozione di una stazione radio
base già realizzata, così violando la
disposizione generale in materia di
autotutela decisoria posta dall’art.
21-nonies della legge n. 241/1990. In
particolare l’Amministrazione comunale non
ha tenuto conto del fatto che i lavori per
la realizzazione dell’impianto risultano
ultimati da oltre un anno (a seguito della
decadenza -per effetto del decorso del
termine di 45 giorni previsto dall’art. 27,
comma 3, del D.P.R. n. 380/2001- dell’ordine
di sospensione dei lavori inizialmente
adottato con l’ordinanza n. 66 del
04.11.2009, ritualmente notificata in pari
data al sig. ..., in qualità dipendente
della società ricorrente), né delle spese
sostenute dalla società ricorrente per la
realizzazione dell’impianto stesso, ma si è
limitata ad evidenziare in motivazione che «l’impianto
non è entrato in funzione in quanto
sottoposto a sequestro probatorio e
preventivo da parte della competente procura
della Repubblica», sequestro peraltro
revocato dal G.I.P. del Tribunale di Santa
Maria Capua Vetere con provvedimento del
17.03.2010
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 01.09.2011 n. 4261 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sull'illegittimità di una
delibera della giunta comunale che ha
fissato la quota di partecipazione in misura
unica ed eguale per tutti i fruitori del
servizio del centro diurno per disabili (CDD).
E' illegittima la deliberazione della giunta
comunale che ha stabilito che tutti i
fruitori del centro diurno per disabili
integrato (CDD) dovessero compartecipare in
modo uguale e comunque senza alcun
riferimento alla normativa ISEE al costo del
servizio di trasporto da e per il CDD, a
prescindere sia dalla fruizione del
servizio, che dalla capacità reddituale
degli utenti e dei loro nuclei familiari.
La partecipazione al costo dei servizi in
maniera adeguata e proporzionata al reddito
risponde al principio costituzionalmente
codificato (art. 53) che collega il concorso
alle spese pubbliche alla capacità
contributiva di ciascuno, e si fonda sui
canoni di equità e giustizia ai quali lo
Stato e gli Enti territoriali sono tenuti ad
ispirarsi e quindi "il criterio
introdotto dal tavolo zonale urta contro i
menzionati principi che ancorano il concorso
agli oneri di funzionamento delle strutture
(C.D.D.) alla situazione reddituale e
patrimoniale dei richiedenti e delle loro
famiglie.".
Conseguentemente, il provvedimento deve
essere annullato in ragione della avvenuta
fissazione della quota di partecipazione in
misura unica ed eguale per tutti i fruitori
del servizio, in quanto il totale
disancoramento della quota di partecipazione
imposta dalla particolare situazione della
persona disabile che fruisce del servizio
integra un comportamento discriminatorio e
denota la totale assenza di
quell'istruttoria la cui presenza si ritiene
necessaria al fine di ammettere la
considerazione del reddito dell'intero
nucleo familiare in sede di quantificazione
della contribuzione dovuta al costo del
servizio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 01.09.2011 n. 1295 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ENTI LOCALI:
Sull'incompatibilità
dell'incarico di revisore dei conti comunale
con quella di amministratore di una società
comunale incaricata della gestione di
servizi pubblici locali.
Sulla base della tumultuosa evoluzione del
quadro normativo riguardante la gestione
in house providing dei servizi pubblici
locali si deve ormai ritenere che rientrino
nelle funzioni del collegio dei revisori dei
conti del Comune anche i compiti di
collaborazione nell'esercizio del cosiddetto
controllo analogo verso le società comunali
che gestiscono servizi pubblici locali. E'
del tutto plausibile, quindi, che un
revisore dei conti del Comune sia chiamato,
nella sua funzione, a occuparsi di fornire
una consulenza in ordine al controllo
analogo nei riguardi di una società comunale
di servizi.
Poiché, nel caso di specie, il
professionista controinteressato ha
ricoperto l'incarico di amministratore della
società comunale che gestisce i servizi
ambientali, ciò sicuramente costituisce
causa di incompatibilità assoluta alla
carica di revisore comunale, non rimovibile
con la semplice opzione, poiché rende
sovrapponibili e non separabili, in un unico
soggetto, le posizioni di controllore e di
controllato, con palese violazione del
principio di imparzialità amministrativa.
Tale situazione, peraltro, rientra
pienamente nella previsione regolamentare
dell'art. 39, c. 2 s, lett. c), del D.P.R.
n. 99/1998 che attribuisce valenza di
violazione disciplinare al fatto che il
revisore abbia intrattenuto, nei due anni
antecedenti, con il soggetto che conferisce
l'incarico o con soggetti da esso
controllati, rapporti continuativi aventi a
oggetto prestazioni di consulenza o di
collaborazione (TAR Molise,
sentenza 04.08.2011 n. 529 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Veicoli fuori uso e
pericolosità del rifiuto.
Non tutti i veicoli fuori uso sono solo per
questo pericolosi. Invero, affinché un
veicolo sia considerato pericoloso, è
necessario non solo che esso sia fuori uso,
ma anche che contenga liquidi o altre
componenti pericolose, perché altrimenti
rientra nella categoria 16.01.06 e non è
qualificato come pericoloso (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.08.2011 n. 30554 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Immobili interrati.
E' necessario il permesso di costruire per
la realizzazione di immobili in tutto o in
parte interrati, trattandosi di opere per le
quali l'autorità comunale deve svolgere il
suo controllo diretto ad assicurare sia
l'ordinato sviluppo dell'aggregato urbano,
sia il rispetto delle norme urbanistiche ed
anche l'osservanza delle regole tecniche di
costruzione prescritte dalla legge (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.07.2011 n. 30243 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi in aree sismiche.
L'obbligo di denuncia e di presentazione dei
progetti previsto dall'art. 9 testo unico
dell'edilizia e quello di preventiva
autorizzazione previsto dall'articolo 94
riguardano tutte le opere realizzate nelle
zone sismiche e precisamente, come prevede
l'art. 83, «tutte le costruzioni la cui
sicurezza possa comunque interessare la
pubblica incolumità, da realizzarsi in zone
dichiarare sismiche››, a nulla rilevando
la natura dei materiali impiegati e delle
relative strutture.
Infatti, la finalità perseguita dal
legislatore è quella di rispettare le
esigenze di una più rigorosa tutela
dell'incolumità pubblica nelle zone
dichiarate sismiche (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 29.07.2011 n. 30224 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi in totale difformità
dal permesso di costruire.
La realizzazione di una maggiore superficie
al piano terra di un fabbricato, con
suddivisione in due vani non previsti in
progetto e la creazione di un terzo locale
mediante la chiusura di una veranda possono
collocarsi tra gli interventi in difformità
totale, in quanto aventi senza dubbio
rilevanza urbanistica e recando gli stessi
quel requisito di sostanziale autonomia
rispetto al dato progettuale originario
richiesto dalle disposizioni richiamate
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.07.2011 n. 30045 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi di restauro o di
risanamento conservativo.
Nella categoria degli “interventi di
restauro o di risanamento conservativo”,
per i quali non occorre concessione, possono
essere annoverate soltanto le opere di
recupero abitativo, che mantengono in essere
le preesistenti strutture, alle quali
apportano o un consolidamento o un rinnovo
di elementi costitutivi, anche attraverso
l'inserimento di nuovi, sicché la
demolizione dell'intero fabbricato non
consente la sua ricostruzione, senza la
necessaria verifica da parte dell'autorità
amministrativa nell'ambito del procedimento
concessorio e nel rispetto della normativa
urbanistica vigente al momento del rilascio
del provvedimento abilitativo (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.07.2011 n. 30038 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia.
La ristrutturazione edilizia consiste nella
trasformazione di un organismo edilizio
mediante un insieme sistematico di opere che
portino a un organismo in tutto o in parte
diverso dal precedente con interventi che
comprendono il ripristino o la sostituzione
di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi e impianti.
Tale attività di ristrutturazione può
attuarsi attraverso una serie d'interventi
che si caratterizzano per la connessione
finalistica delle opere eseguite, che non
devono essere riguardate analiticamente ma
valutate nel loro complesso al fine di
individuare se esse siano o meno rivolte al
recupero edilizio dello spazio attraverso la
realizzazione di un edificio in tutto o in
parte nuovo (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 28.07.2011 n. 30033 -
link a www.lexambiente.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Sicurezza: obblighi datore di
lavoro, RSPP e capo cantiere. La Cassazione
fa il punto sulle responsabilità ricadenti
in capo a tutte le figure coinvolte dal
decreto 81/2008.
L’obbligo dei titolari
della posizione di sicurezza in materia di
infortuni sul lavoro è articolato e
comprende non solo l’istruzione dei
lavoratori sui rischi connessi alle attività
lavorative svolte e la necessità di adottare
tutte le opportune misure di sicurezza, ma
anche la effettiva predisposizione di
queste, il controllo, continuo ed effettivo,
circa la concreta osservanza delle misure
predisposte per evitare che esse vengano
trascurate o disapplicate nonché il
controllo sul corretto utilizzo, in termini
di sicurezza, degli strumenti di lavoro e
sul processo stesso di lavorazione.
Questo l’importante principio con il quale
la
sentenza 19.07.2011 n. 28779
della Corte di cassazione, Sez. IV penale,
ha fatto il punto sulle responsabilità in
capo ai soggetti coinvolti nell’attuazione
della normativa in materia di sicurezza sul
lavoro.
La responsabilità del datore di lavoro non
esclude peraltro la concorrente
responsabilità del RSPP. Anche il RSPP,
infatti, che pure è privo dei poteri
decisionali e di spesa (e quindi non può
direttamente intervenire per rimuovere le
situazioni di rischio), può essere ritenuto
corresponsabile del verificarsi di un
infortunio, ogni qualvolta questo sia
oggettivamente riconducibile ad una
situazione pericolosa che egli avrebbe avuto
l’obbligo di conoscere e segnalare,
dovendosi presumere che alla segnalazione
avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte
del datore di lavoro, delle necessarie
iniziative idonee a neutralizzare detta
situazione.
Come il datore di lavoro ed il dirigente,
anche il preposto (ed è tale il capo
cantiere) è indubbiamente destinatario
diretto delle norme antinfortunistiche,
prescindendo da una eventuale «delega di
funzioni» conferita dal datore di
lavoro.
L’art. 19 D. Leg.vo 09.04.2008 n. 81
annovera, infatti, anche i preposti tra i
soggetti obbligati ad «attuare le misure
di sicurezza previste dal presente decreto».
Vero è che tale obbligo incombe innanzitutto
al datore di lavoro, ma il preposto non è
soggetto estraneo al conseguimento dei
risultati scaturenti dall’adempimento di
quell’obbligo (commento tratto da
www.legislazionetecnica.it). |
APPALTI:
Requisiti di partecipazione alla
gara. Limiti del potere della stazione
appaltante di introdurne ulteriori e
maggiormente selettivi rispetto a quelli
stabiliti dalle norme.
Il potere discrezionale dell'amministrazione
appaltante di determinare le regole della
gara e, in specie, di introdurre requisiti
di partecipazione alla gara, oggettivi e/o
soggettivi -ulteriori e maggiormente
selettivi rispetto a quelli stabiliti dalle
norme- incontra il limite del rispetto del
principio di proporzionalità e di
ragionevolezza; in tal modo i requisiti non
devono restringere indebitamente l’accesso
alla procedura e devono essere giustificati
da specifiche esigenze imposte dal peculiare
oggetto dell'appalto (1).
E’ illegittima, per violazione dei principi
di proporzionalità e ragionevolezza, la
clausola di un bando di gara per
l’affidamento dell’appalto del servizio di
mensa scolastica che, ai fini della
partecipazione alla gara stessa, richieda, a
pena di esclusione, il requisito del
possesso di un pregresso fatturato nello
specifico settore oggetto della gara
(ristorazione scolastica) nove volte
superiore a quello oggetto di gara; tale
requisito, infatti, è eccessivo ed
ingiustificato, per la mancata correlazione
con l’interesse pubblico specifico ad una
particolare qualificazione delle imprese
partecipanti.
---------------
(1) Cfr. TAR Sardegna, sez. I, 12.10.2010
n. 2293.
Ha osservato la sentenza in rassegna, che la
peculiarità del servizio, e la giusta
aspirazione ad elevati standard di qualità
ed efficienza, non giustifica né la
previsione di un livello di fatturato del
tutto sproporzionato, né la sua limitazione
allo specifico settore di gara (ristorazione
scolastica), quando è noto che i medesimi
requisiti di esperienza e professionalità
possono essere maturati in settori del tutto
affini o comunque sovrapponibili, come ad
es. la ristorazione collettiva
socio-sanitaria (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 15.07.2011 n.
1062 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Le
planimetrie presentate a corredo della
richiesta di certificati ed autorizzazioni,
redatte -secondo le vigenti disposizioni-
dall'esercente una professione necessitante
speciale abilitazione dello Stato, hanno
natura di certificato, poiché assolvono la
funzione di dare alla pubblica
amministrazione un'esatta informazione
intorno allo stato dei luoghi.
Risponde, pertanto, del delitto previsto
dall'art. 481 c.p., il professionista che
rediga relazioni grafiche (planimetrie) non
conformi al predetto stato.
Con motivazione del tutto logica la Corte di
appello di Genova, nel giudizio di rinvio,
ha ritenuto la sussistenza della falsa
attestazione addebitata all'imputato.
Allo stesso era stato contestato di aver
attestato nella tavola inerente lo stato
attuale del fabbricato che il medesimo
presentava muri perimetrali aventi spessore
di circa cm. 50, mentre invece il reale
spessore dei muri variava da cm. 170 a cm.
130.
La Corte -disattendendo la tesi difensiva
che al momento del sopralluogo effettuato
dall'imputato non fossero stati ancora
ispessiti i muri perimetrali del fabbricato-
ha logicamente dedotto dalle dimensioni del
perimetro complessivo del rustico riportate
nella planimetria redatta dall'imputato che
detto ispessimento era stato già operato al
momento del sopralluogo effettuato
dall'imputato, e quindi questi aveva
falsamente attestato che i muri perimetrali
avevano uno spessore di cm. 50.
Detta falsa attestazione era stata compiuta
per consentire, nella ristrutturazione del
fabbricato, di ricavare una superficie
interna tre volte superiore a quella
originaria.
Deve invece essere accolto il motivo di
ricorso relativo alla qualificazione
giuridica del fatto, poiché questa Corte,
con giurisprudenza costante, ha stabilito
che le planimetrie presentate a corredo
della richiesta di certificati ed
autorizzazioni, redatte -secondo le vigenti
disposizioni- dall'esercente una professione
necessitante speciale abilitazione dello
Stato, hanno natura di certificato, poiché
assolvono la funzione di dare alla pubblica
amministrazione un'esatta informazione
intorno allo stato dei luoghi.
Risponde, pertanto, del delitto previsto
dall'art. 481 c.p., il professionista che
rediga relazioni grafiche (planimetrie) non
conformi al predetto stato (V. Sez. 5 sent.
5298 del 23.04.1993, Rv. 195375; Sez. 5
sent. 5098 dell'08.03.2000, Rv. 216056; Sez.
3 sent. 30401 del 23.06.2009, Rv. 244588;
Sez. 5 sent. 35615 del 14.05.2010, Rv.
248878)
(Corte di Cassazione, Sez. I penale,
sentenza 05.07.2011 n. 26172). |
URBANISTICA: Per
vincolo espropriativo o sostanzialmente
espropriativo deve intendersi quel vincolo
che incide su beni determinati in funzione
della localizzazione puntuale di un'opera
pubblica e che hanno portata e contenuto
direttamente ablatori, come è agevole
desumere dalla nota pronuncia della Corte
Costituzionale (n. 179/1999) che ha
originato l’emanazione della disposizione
del T.U in materia di espropri, introdotta
nell'ordinamento al dichiarato fine di
indennizzare lo "svuotamento, di rilevante
entità ed incisività, del contenuto della
proprietà stessa, mediante imposizione,
immediatamente operativa, di vincoli a
titolo particolare su beni determinati ...
comportanti inedificabilità assoluta,
qualora non siano stati discrezionalmente
delimitati nel tempo dal legislatore dello
Stato e delle Regioni": ossia allorquando
non sia intervenuta l'espropriazione ovvero
non sia iniziata neppure la procedura
attuativa (preordinata all'esproprio)
attraverso l'approvazione di piani
particolareggiati o di esecuzione, aventi a
loro volta termini massimi di attuazione
fissati dalla legge.
Viceversa "sono al di fuori dello schema
ablatorio-espropriativo i vincoli che
importano una destinazione (anche di
contenuto specifico) realizzabile ad
iniziativa privata o promiscua
pubblico-privata, che non comportino
necessariamente espropriazione o interventi
ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi
siano attuabili anche dal soggetto privato e
senza necessità di previa ablazione del
bene". A tale ultimo riguardo la Corte Cost.
(sent. 179/1999) fa riferimento, a titolo
esemplificativo, ai parcheggi, impianti
sportivi, mercati e complessi per la
distribuzione commerciale, edifici per
iniziative di cura e sanitarie etc., che
possono agevolmente essere ricompresi nei
servizi di quartiere oggetto della
precedente pianificazione e programmazione
urbanistica della zona dove era ubicato il
bene degli attori.
Come rappresentato da nell'atto
introduttivo, secondo lo strumento
urbanistico vigente dal 1974 l'area in
questione era destinata a zona F sottozona
F2, quindi a "costruzioni pubbliche
d'importanza locale a servizio delle
residenze quali: asili nido, scuole
dell'obbligo, edifici per ti culto, mercati
rionali, centri sociali, unità sanitarie
locali, assistenziali, culturali,
amministrative", con un indice di
edificabilità pari a 2 mc/mq.
Il precedente vincolo non comportava,
pertanto, l'inedificabilità assoluta,
essendo l'area riservata a costruzioni di
interesse pubblico a livello di servizi di
quartiere; né, in difetto di specifica
indicazione di un'opera pubblica da
realizzare, tale destinazione poteva
integrare gli estremi della fattispecie
espropriativa in guisa tale da determinare,
in caso di reiterazione del vincolo ablativo
oltre i termini di normale tollerabilità
fissati dalla legge (e senza corresponsione
di indennizzo), una totale compressione del
diritto di proprietà equiparabile pertanto
ad una sostanziale espropriazione.
E' pur vero che l'attuale destinazione
urbanistica dell'area a verde pubblico,
adottata con la variante al P.R.G. in virtù
della potestà pianificatoria che compete ai
Comuni, può essere qualificata in termini di
reiterazione atteso che (tenuto conto delle
considerazioni svolte dalla Corte Cost.
anche successivamente alla decisione n.
179/1999) è il perdurare del vincolo in sé a
causare il danno alla proprietà anche in
caso di introduzione di una destinazione
differente (ritenuta "costituzionalmente
legittima a condizione che l'esercizio di
detta potestà non determini situazioni
incompatibili con la garanzia della
proprietà"'), essendo del tutto
irrilevante (poiché l'obbligo
dell'indennizzo è correlato alla mera
lesività della previsione) che le ragioni
sottese al reiterato vincolo si distacchino
da quelle originarie.
Ma va tenuto presente che ai meri limiti di
edificabilità imposti dal precedente
strumento urbanistico fa attualmente
riscontro un regime di inedificabilità
derivante dalla legge, ricadendo l'area in
questione nel Piano Territoriale Paesistico
Regionale in quanto zona archeologica, come
tale finalizzata all'interesse pubblico
senza alcun vincolo (anche in questo caso)
sostanzialmente espropriativo contabile alla
precedente destinazione del terreno a
servizi di quartiere che, peraltro, non
aveva svuotato di contenuto il diritto degli
attori. Il vincolo cosi come reiterato per
effetto del nuovo assetto urbanistico
attribuito all'area con la variante al
P.R.G., non può che essere perciò
qualificato come vincolo di tipo
conformativo, con la conseguenza che esso
non abbia fatto sorgere alcun diritto
all'indennità prevista dall'art. 39 D.P.R.
327/2001.
A tale riguardo è infatti il caso di notare
che per vincolo espropriativo o
sostanzialmente espropriativo deve
intendersi quel vincolo che incide su beni
determinati in funzione della localizzazione
puntuale di un'opera pubblica e che hanno
portata e contenuto direttamente ablatori
(v. Cass. S.U, 28051/2008), come è agevole
desumere dalla nota pronuncia della Corte
Costituzionale (n. 179/1999) che ha
originato l’emanazione della disposizione
del T.U in materia di espropri, introdotta
nell'ordinamento al dichiarato fine di
indennizzare lo "svuotamento, di
rilevante entità ed incisività, del
contenuto della proprietà stessa, mediante
imposizione, immediatamente operativa, di
vincoli a titolo particolare su beni
determinati,,., comportanti inedificabilità
assoluta, qualora non siano stati
discrezionalmente delimitati nel tempo dal
legislatore dello Stato e delle Regioni":
ossia allorquando non sia intervenuta
l'espropriazione ovvero non sia iniziata
neppure la procedura attuativa (preordinata
all'esproprio) attraverso l'approvazione di
piani particolareggiati o di esecuzione,
aventi a loro volta termini massimi di
attuazione fissati dalla legge.
Viceversa "sono al di fuori dello schema
ablatorio-espropriativo i vincoli che
importano una destinazione (anche di
contenuto specifico) realizzabile ad
iniziativa privata o promiscua
pubblico-privata, che non comportino
necessariamente espropriazione o interventi
ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi
siano attuabili anche dal soggetto privato e
senza necessità di previa ablazione del bene".
A tale ultimo riguardo la Corte Cost. (sent.
179/1999) fa riferimento, a titolo
esemplificativo, ai parcheggi, impianti
sportivi, mercati e complessi per la
distribuzione commerciale, edifici per
iniziative di cura e sanitarie etc., che
possono agevolmente essere ricompresi nei
servizi di quartiere oggetto della
precedente pianificazione e programmazione
urbanistica della zona dove era ubicato il
bene degli attori.
La stessa Corte Cost. ha peraltro precisato,
richiamando i propri precedenti, "che non
sono inquadrabili negli schemi
dell'espropriazione, dei vincoli
indennizzabili e dei termini di durata i
beni immobili aventi valore
paesistico-ambientale, in virtù della loro
localizzazione o della loro inserzione in un
complesso che ha in modo coessenziale le
qualità indicate dalla legge". Come nel
caso specifico, in cui la nuova destinazione
dell'area degli attori a verde pubblico
risulta speculare air inclusione del bene
nel Piano Territoriale Paesistico Regionale,
trattandosi di zona di interesse
archeologico ex L.R. 24/1998, il che risulta
documentalmente comprovato.
Non ricorrendo quindi l’ipotesi della
reiterazione di un vincolo espropriativo, e
neppure sostanzialmente espropriativo,
caratterizzato da inedificabilità assoluta,
è evidente che il caso di specie è
insuscettibile di essere inquadrato
nell'ambito di applicazione della norma di
cui all'art. 39 D.P.R. 327/2001, con la
conseguenza che la domanda diretta ad
ottenere una indennità "commisurata
all'entità del danno effettivamente prodotto"
dalla disposta reiterazione non possa che
essere pertanto rigettata
(CORTE DI APPELLO di Roma, Sez. I civile,
sentenza 06.06.2011 n. 2521). |
SICUREZZA LAVORO:
Sicurezza, datore di lavoro:
colpa in eligendo. La responsabilità penale
diretta del datore di lavoro non è esclusa
per la sola designazione di un responsabile
per la sicurezza.
La responsabilità penale diretta del datore
di lavoro e dei dirigenti ad esso assimilati
non è affatto esclusa per la sola
designazione di un responsabile per la
sicurezza, in quanto essi rispondono anche
della eventuale manchevolezza del piano
stesso sotto forma di una colpa in eligendo.
Lo ha affermato la
sentenza 24.05.2011 n. 20576
della Corte di Cassazione, Sez. IV penale.
A tale riguardo vale considerare che diviene
anche irrilevante il comportamento della
vittima che abbia eventualmente rotto il
nesso di causalità fra il comportamento
dell’imputato e l’evento, in quanto è
motivatamente ritenuta decisiva
l’inadeguatezza del piano di sicurezza, la
valutazione dei rischi e la mancanza delle
condizioni di sicurezza della macchina.
Nella fattispecie sussiste la responsabilità
del datore di lavoro e dei dirigenti
assimilati per l’infortunio mortale del
lavoratore che, trovatosi nei pressi di una
macchina, vi rimaneva impigliato con il
braccio destro e poi schiacciato in parte
del torace con conseguenti lesioni che ne
procuravano il decesso. L’accusa consisteva
nell’aver consentito, e comunque non
impedito, che all’interno dello stabilimento
fosse installato ed utilizzato un impianto
di produzione composto da più macchine per
la produzione di film trasparente (propilene
ad uso alimentare), prodotto che viene
raccolto da un “gruppo avvolgitore”
privo dei dispositivi di sicurezza imposti
dalla legge al fine di evitare contatti
accidentali tra parti del corpo dei
lavoratori addetti al macchinario e gli
organi in movimento (commento tratto da
www.legislazionetecnica.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il contributo di costruzione è il
corrispettivo del diritto di costruire e
quando il diritto di costruire non è
esercitato viene meno il titolo in forza del
quale il Comune ha incassato il contributo
di costruzione. Questo principio vale anche
quando il titolo edilizio è stato utilizzato
soltanto in parte, nel qual caso esso viene
meno pro quota.
Il privato, sulle somme indebitamente
riscosse dalla P.A., ha diritto agli
interessi legali i quali, qualora non vi
siano elementi che escludano la buona fede
dell'Amministrazione, spettano dalla data
della domanda.
Nel caso di restituzione del contributo di
costruzione indebitamente versato, spetta
anche la rivalutazione monetaria dalla quale
va defalcata la somma percepita a titolo di
interessi legali, in quanto –non trattandosi
di credito di lavoro– non è consentito il
cumulo tra interessi e rivalutazione.
Il contributo di costruzione è il
corrispettivo del diritto di costruire e
quando il diritto di costruire non è
esercitato viene meno il titolo in forza del
quale il Comune ha incassato il contributo
di costruzione.
Questo principio vale anche quando il titolo
edilizio è stato utilizzato soltanto in
parte, nel qual caso esso viene meno pro
quota (TAR Lombardia, Milano, sez. II,
sentenza n. 728 del 24/03/2010: "il
diritto alla restituzione sorge non
solamente nel caso in cui la mancata
realizzazione delle opere sia totale, ma
anche ove il permesso di costruire sia stato
utilizzato soltanto parzialmente, tenuto
conto che sia la quota degli oneri di
urbanizzazione che la quota relativa al
costo di costruzione sono correlati, sia
pure sotto profili differenti, all'oggetto
della costruzione. L'avvalimento solo
parziale delle facoltà edificatorie
consentite da un permesso di costruire
comporta dunque il sorgere, in capo al
titolare, del diritto alla rideterminazione
del contributo ed alla restituzione della
quota di esso che è stata calcolata con
riferimento alla porzione non realizzata").
-------------
Secondo TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 728/2010: "il
privato, sulle somme indebitamente riscosse
dalla P.A., ha diritto agli interessi legali
i quali, qualora non vi siano elementi che
escludano la buona fede
dell'Amministrazione, spettano dalla data
della domanda".
---------------
E’ vero che il credito di restituzione del
contributo di costruzione pagato in misura
maggiorata non è un credito di valore, ma un
credito di valuta in cui la rivalutazione è
possibile soltanto se si prova il maggior
danno ex art. 1224 co. 2 c.c., qui del tutto
pretermesso dall’esposizione dei ricorrenti.
Ma è anche vero che Cass. civ., sezioni
unite, sentenza 18.07.2008 n. 19499 ha
sostenuto che nelle obbligazioni pecuniarie,
in difetto di discipline particolari dettate
da norme speciali, il maggior danno di cui
all'art. 1224 c.c., comma 2, rispetto a
quello già coperto dagli interessi moratori
è, in via generale, riconoscibile in via
presuntiva, per qualunque creditore che ne
domandi il risarcimento, nella eventuale
differenza, a decorrere dalla data di
insorgenza della mora, tra il tasso del
rendimento medio annuo netto dei titoli di
Stato di durata non superiore a dodici mesi
ed il saggio degli interessi legali
determinato per ogni anno ai sensi dell'art.
1284 c.c., comma 1, salva la possibilità per
il debitore di provare che il creditore non
ha subito un maggior danno o che lo ha
subito in misura inferiore e per il
creditore di provare il maggior danno
effettivamente subito (in motivazione la
Corte ha anche precisato che: non sussistono
d'altro canto i paventati pericoli che i
debiti di valuta ricevano in tal modo una
disciplina identica a quella propria dei
debiti di valore, con sostanziale
pretermissione del principio nominalistico
di cui all'art. 1277 cod. civ.; o che le
conseguenze dell'inadempimento finiscano per
divenire, per qualsiasi credito di denaro,
identiche a quelle "speciali" che
l'art. 429 c.p.c., comma 3, contempla per i
crediti di lavoro; ovvero che sia
sostanzialmente disapplicato il principio
dell'onere della prova di cui all'art. 2697
cod. civ..
Sul primo punto va infatti osservato che il
rispetto del principio nominalistico non è
affatto incompatibile con la rilevanza delle
variazioni del potere d'acquisto della
moneta. Solo che, mentre nei debiti di
valore la considerazione di quella
variazione è insita nel procedimento di
determinazione quantitativa della
prestazione in quanto il denaro vale solo a
misurare e ad esprimere un valore
necessariamente attuale, nei debiti di
valuta essa può invece rilevare
esclusivamente sub specie damni (…) Neppure
è possibile che si creino confusioni di
sorta sul piano processuale, posto che nei
debiti di valore (tipica l'obbligazione di
risarcimento del danno) la rivalutazione non
va neppure domandata, essendo il giudice
tenuto d'ufficio alla liquidazione in valori
monetari attuali; mentre nei debiti di
valuta vanno chiesti sia gli interessi
moratori sia il maggior danno (anche da
svalutazione, secondo l'impreciso ma
corrente lessico giudiziario; e tuttavia,
più esattamente, da intervenuta
impossibilità, per fatto del debitore, che
il creditore si sottraesse agli effetti
della svalutazione), risultando altrimenti
inficiata da vizio di ultrapetizione la
sentenza che riconoscesse gli uni o l'altro.
Quanto alla temuta possibilità che i crediti
pecuniari ordinari e quelli di lavoro
finiscano con l'essere trattati allo stesso
modo, s'è già rilevato che per i crediti di
cui all'art. 429 c.p.c., comma 3 interessi e
svalutazione si cumulano, mentre nei debiti
di valuta il maggior danno anche da
svalutazione è dovuto, ex art. 1224 c.c.,
comma 2, solo per la parte che non sia già
coperta dagli interessi moratori. Quanto
alla pretesa disapplicazione dell'art. 2697
cod. civ. che deriverebbe dal ritenere
presunta ma, rectius, normale una
modalità di impiego del denaro tale da
consentire al creditore di sottrarsi agli
effetti della svalutazione, è stato da tempo
chiarito come, in definitiva, è nel rapporto
tra normalità ed anormalità, tra regola ed
eccezione che si rinviene il criterio
teorico pratico della ripartizione
dell'onere della prova, il quale non
costituisce un istituto giuridico in sé
concluso, ma un modo di osservare
l'esperienza giuridica.
E la giurisprudenza ha quindi fatto ricorso,
tutte le volte che il modello legale
prefissato non risultava appagante in
relazione alle posizioni delle parti
riguardo ai singoli temi probatori, allo
schema della presunzione in modo talora così
tipico e costante da creare, in definitiva,
vere e proprie regole di giudizio. Col
risultato non già di invertire l'onere della
prova, ma di distribuirlo in senso conforme
alla realtà dell'esperienza positiva.
Ebbene, è senz'altro conforme alla realtà
dell'esperienza positiva che il denaro sia
speso in relazione alla sua primaria
destinazione allo scambio, ovvero impiegato
in rassicuranti forme remunerative tali da
garantire un rendimento superiore al tasso
di inflazione, qual è quello dei titoli di
stato, costantemente eccedente l'incremento
dei prezzi al consumo per le famiglie di
operai ed impiegati rilevati dall'Istat).
Nel caso in esame, in cui nessuna delle
parti in causa si è preoccupata di provare
alcunché sulla esistenza o meno di un
maggior danno va applicato pertanto il
criterio presuntivo appena citato.
Per escludere la rivalutazione automatica
non è sufficiente affermare (come aveva
fatto in passato TAR Marche 296/2004) che si
tratterebbe di indebito oggettivo, ai sensi
dell'art. 2033 c.c., in quanto anche
l’indebito oggettivo non è altro che “una
obbligazione pecuniaria di fonte legale
(art. 2033 c.c.) assoggettata alla
disciplina propria di tali obbligazioni, in
particolare alla disposizione dell'art. 1224
c.c. in tema di interessi moratori e
risarcimento del maggior danno per il
ritardo nell'adempimento” (Cass. civ,
sez. lav., 4833/2009).
Dalle somme dovute a titolo di rivalutazione
monetaria va defalcata la somma percepita a
titolo di interessi legali, in quanto –non
trattandosi di credito di lavoro– non è
consentito il cumulo tra interessi e
rivalutazione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 17.01.2011 n. 66 - link
a www.giustizia-amministrativa.it. |
EDILIZIA PRIVATA:
E' corretto il calcolo del
contributo di costruzione effettuato
dall'Amministrazione comunale in base alle
aliquote vigenti al momento del rilascio
della concessione: ciò prescinde dalle
eventuali responsabilità del Comune nel
ritardo nel rilasciare il provvedimento
amministrativo rispetto al termine legale
entro cui doveva concludersi il
procedimento.
Se vi sono state davvero responsabilità nel
ritardo nel rilasciare il titolo edilizio, e
se da questo ritardo è derivata
l’applicazione di tariffe del contributo di
costruzione più pesanti, ciò può essere
fatto valere con una azione di
responsabilità per danni, ma non pretendendo
che il rilascio del titolo fosse affiancato
da tariffe non più vigenti, e di cui mancano
norme apposite per sostenerne la pretesa
ultrattività.
Ogni
provvedimento amministrativo deve essere
emesso in base alle norme vigenti nel
momento in cui viene emanato (TAR Lombardia,
Milano, sez. II, sentenza n. 426 del
25/02/2008: “l'art. 11 della legge n. 10
del 28/01/1977 prevede espressamente che la
quota di contributo per oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria sia
corrisposta al comune all'atto del rilascio
della concessione e che la quota di
contributo per il costo di costruzione sia
determinata all'atto del rilascio della
concessione. Tale norma è stata
costantemente interpretata dalla
giurisprudenza nel senso che l'obbligazione
di pagamento sorge al momento della
quantificazione della obbligazione stessa.
Ne deriva che è corretto il calcolo della
quota di tali contributi effettuato
dall'Amministrazione in base alle aliquote
vigenti al momento del rilascio della
concessione”), ciò prescinde dalle
eventuali responsabilità del Comune nel
ritardo nel rilasciare il provvedimento
amministrativo rispetto al termine legale
entro cui doveva concludersi il procedimento
(il Comune deduce che il rilascio del titolo
edilizio è stato ritardato dalla necessità
di procedere ad istruttoria, ipotesi che
d’altronde è tipizzata dalla legge e che
consente di sospendere il termine per il
rilascio del provvedimento).
Se vi sono state davvero responsabilità nel
ritardo nel rilasciare il titolo edilizio, e
se da questo ritardo è derivata
l’applicazione di tariffe del contributo di
costruzione più pesanti, ciò può essere
fatto valere con una azione di
responsabilità per danni, ma non pretendendo
che il rilascio del titolo fosse affiancato
da tariffe non più vigenti, e di cui mancano
norme apposite per sostenerne la pretesa
ultrattività.
E’ il caso di rilevare che adesso una
disposizione di questo tipo esiste, perché
l’art. 38, co. 7-bis, l.r. 12/2005
(introdotto dalla l.r. 4/2008), stabilisce
che “l’ammontare degli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria dovuti
è determinato con riferimento alla data di
presentazione della richiesta del permesso
di costruire, purché completa della
documentazione prevista”, ma una
disposizione derogatoria dei principi
generali di tal fatta non esisteva nel
momento (circa dieci anni prima) in cui
venne rilasciata la concessione edilizia
oggetto di giudizio e non può essere creata
in via interpretativa.
Questo Tribunale, nella sede di Milano, si è
d’altronde già pronunciato sulla norma
dell’art. 38, co. 7-bis, ed ha ritenuto tale
disposizione non applicabile a casi
pregressi, in quanto “per effetto della
modifica apportata dalla l.r. n. 4 del 2008,
che ha introdotto nell'art. 38 il comma
7-bis , per il permesso di costruire, gli
oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria vengono determinati alla data di
presentazione della richiesta del permesso
di costruire, purché vi sia la completezza
documentale. Da ciò si deduce che prima
della modifica legislativa gli oneri
andassero determinati al momento del
rilascio del titolo, mentre a seguito della
modifica legislativa la determinazione è
anticipata all'atto della presentazione
della richiesta del permesso” (TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 2029/2009)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 17.01.2011 n. 66 - link
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EDILIZIA PRIVATA:
Le modifiche di destinazione
d’uso giuridicamente rilevanti sono tutte
quelle che portano ad un aggravio del carico
urbanistico, ed il passaggio da locali
adibiti a stalla o magazzino a locali
adibiti a residenza o uffici portano un
incremento del carico urbanistico, posto che
le persone che andranno a risiedere o
lavorare in locali prima utilizzati per
animali o merci abbisognano di più servizi
(parcheggi nelle adiacenze, smaltimento
rifiuti) e sottoservizi (più potente rete
elettrica, dell’acqua, del gas e fognaria)
di quelli di cui abbisognavano gli animali e
le merci ivi depositate.
Si tratta di attività edilizie destinate ad
incidere sugli standard urbanistici e, come
tali, vanno ricomprese nel calcolo degli
oneri dovuti.
Resta da esaminare soltanto la terza
questione (se dovesse essere computata o
meno la modifica di destinazione d’uso di
alcuni locali, che secondo il ricorrente non
vi è mai stata), su di essa non si è
pronunciata la sospensiva è stata lasciata
aperta dalla sospensiva ed è stata
ridimensionata nel seguito del giudizio.
La questione va risolta nel senso che il
passaggio da stalla o magazzino a residenza
e uffici è una modifica di destinazione
d’uso. Le modifiche di destinazione d’uso
giuridicamente rilevanti sono tutte quelle
che portano ad un aggravio del carico
urbanistico, ed il passaggio da locali
adibiti a stalla o magazzino a locali
adibiti a residenza o uffici portano un
incremento del carico urbanistico, posto che
le persone che andranno a risiedere o
lavorare in locali prima utilizzati per
animali o merci abbisognano di più servizi
(parcheggi nelle adiacenze, smaltimento
rifiuti) e sottoservizi (più potente rete
elettrica, dell’acqua, del gas e fognaria)
di quelli di cui abbisognavano gli animali e
le merci ivi depositate.
Si tratta di attività edilizie destinate ad
incidere sugli standard urbanistici, e come
tali andavano ricomprese nel calcolo degli
oneri dovuti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 17.01.2011 n. 66 - link
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EDILIZIA PRIVATA: L'atto
di volturazione non comporta la
corresponsione di ulteriori contributi
concessori che restano quelli fissati in
occasione del rilascio del titolo originario
ma tali oneri, per la parte non ancora
adempiuta, si trasferiscono al subentrante,
sia perché non rilevano sotto il profilo
dell'intuitus personae, inerendo ad un atto
che non ha carattere personale, sia perché
connessi alla capacità di disporre del
diritto di edificazione in concreto
esercitato dal terzo.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito
che l'atto di volturazione non comporta la
corresponsione di ulteriori contributi
concessori che restano quelli fissati in
occasione del rilascio del titolo originario
ma tali oneri, per la parte non ancora
adempiuta, si trasferiscono al subentrante,
sia perché non rilevano sotto il profilo
dell'intuitus personae, inerendo ad
un atto che non ha carattere personale, sia
perché connessi alla capacità di disporre
del diritto di edificazione in concreto
esercitato dal terzo (TAR Abruzzo, L'Aquila,
16.10.1998 n. 783)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 14.01.2011 n. 152 - link a www.giustizia-amministrativa.it. |
EDILIZIA PRIVATA: Quanto
al regime prescrizionale degli oneri di
urbanizzazione e dei contributi commisurati
al costo di costruzione, in assenza di
diversa disposizione normativa il termine è
quello ordinario decennale.
Quanto al regime prescrizionale degli oneri
di urbanizzazione e dei contributi
commisurati al costo di costruzione, la
giurisprudenza amministrativa ha precisato
che, in assenza di diversa disposizione
normativa, il termine è quello ordinario
decennale (TAR Campania, Salerno, 30.12.2003
n. 2599)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 14.01.2011 n. 152 - link a www.giustizia-amministrativa.it. |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
giurisprudenza ha chiarito che, pur se il
Sindaco agisca quale ufficiale di Governo,
la notificazione dell’impugnazione di atti
adottati dall’Amministrazione comunale va
comunque effettuata presso la sede del
Comune, anziché presso l’Avvocatura dello
Stato. Ed invero, neanche l’esercizio, da
parte del Sindaco, di funzioni di ufficiale
di Governo, è sufficiente affinché risultino
applicabili le norme del r.d. n. 1611/1933
sull’Avvocatura dello Stato, che
attribuiscono a quest’ultima la
rappresentanza in giudizio (con
domiciliazione ex lege) delle
Amministrazioni statali e delle altre
Amministrazioni indicate specificamente da
disposizioni di legge, poiché tra queste non
rientra la figura del Sindaco, neppure quale
ufficiale di Governo.
---------------
Il potere di ordinanza del sindaco ex art.
54, comma 4, dlgs 267/2000 può essere
esercitato qualora la violazione delle norme
che tutelano i beni previsti dal d.m.
05.08.2008 (tra cui la tutela del patrimonio
pubblico e della sua fruibilità, nonché
l’incuria ed occupazione abusiva di
immobili) non assuma rilevanza solo in sé
considerata –perché in tale ipotesi
soccorrono gli strumenti ordinari– ma
costituisca la premessa per l’insorgere di
fenomeni di criminalità capaci di minare la
sicurezza pubblica: in questo caso, infatti,
venendo in gioco interessi che vanno oltre
le normali competenze di polizia
amministrativa locale, il Sindaco, quale
ufficiale di Governo, assume il compito di
garante della sicurezza pubblica e può
provvedere, sotto il controllo del Prefetto
ed in conformità alle direttive
ministeriali, alle misure necessarie a
prevenire od eliminare i gravi pericoli che
minaccino il predetto bene.
L’art. 54, comma 4, T.U.E.L., nel testo
dell’art. 6 del d.l. n. 92/2008 (conv. con
l. n. 125/2008), stabilisce che il Sindaco,
quale ufficiale del Governo, adotta con atto
motivato provvedimenti anche contingibili ed
urgenti nel rispetto dei principi generali
dell’ordinamento, “al fine di prevenire e
di eliminare gravi pericoli che minacciano
l’ìncolumità pubblica e la sicurezza urbana”.
Il successivo comma 4-bis demanda ad un
decreto del Ministro dell’Interno la
disciplina dell’ambito applicativo dei
precedenti commi, “anche con riferimento
alle definizioni relative all’ìncolumità
pubblica e alla sicurezza urbana”.
In attuazione di detta norma, il Ministro
dell’Interno ha provveduto ad emanare il
d.m. 05.08.2008, il cui art. 1 dispone che,
ai fini dell’art. 54 cit., per incolumità
pubblica deve intendersi l’integrità fisica
della popolazione e per sicurezza urbana “un
bene pubblico da tutelare attraverso
attività poste a difesa, nell’ambito delle
comunità locali, del rispetto delle norme
che regolano la vita civile, per migliorare
le condizioni di vivibilità nei centri
urbani, la convivenza civile e la coesione
sociale”. Il successivo art. 2 prevede,
in proposito, l’intervento del Sindaco per
prevenire e contrastare, tra le altre:
(lett. b)) le situazioni in cui si
verificano comportamenti quali il
danneggiamento al patrimonio pubblico e
privato, o che ne impediscono la fruibilità
e provocano lo scadimento della qualità
urbana; (lett. c )) l’incuria, il degrado e
l’occupazione abusiva di immobili tali da
favorire, tra l’altro, la situazione
indicata alla precedente lett. b).
Questo essendo il contesto normativo di
riferimento, vanno anzitutto superati
eventuali dubbi di ammissibilità del ricorso
in quanto notificato al Sindaco di Firenze
nella sede del Comune, anziché nella
competente sede dell’Avvocatura dello Stato.
La giurisprudenza ha infatti chiarito che,
pur se il Sindaco agisca (come nella
fattispecie ora in esame) quale ufficiale di
Governo, la notificazione dell’impugnazione
di atti adottati dall’Amministrazione
comunale va comunque effettuata presso la
sede del Comune, anziché presso l’Avvocatura
dello Stato. Ed invero, neanche l’esercizio,
da parte del Sindaco, di funzioni di
ufficiale di Governo, è sufficiente affinché
risultino applicabili le norme del r.d. n.
1611/1933 sull’Avvocatura dello Stato, che
attribuiscono a quest’ultima la
rappresentanza in giudizio (con
domiciliazione ex lege) delle
Amministrazioni statali e delle altre
Amministrazioni indicate specificamente da
disposizioni di legge, poiché tra queste non
rientra la figura del Sindaco, neppure quale
ufficiale di Governo (TAR Lazio, Roma, Sez.
II, 11.07.2005, n. 5607).
---------------
La giurisprudenza più avvertita (TAR
Lombardia, Milano, Sez. III, 06.04.2010, n.
981) ha chiarito come la principale
innovazione apportata dal d.l. n. 92/2008,
convertito con l. n. 125/2008, alla
disciplina del potere del Sindaco (previsto
dall’art. 54 T.U.E.L.) di adottare
ordinanze, riguardi l’estensione di tale
potere pure alla materia della sicurezza
urbana; peraltro, si è aggiunto, la stessa
natura del potere di ordinanza sembra essere
stata modificata, nel senso della
possibilità di emanare anche provvedimenti
atipici in funzione della prevenzione e
dell’eliminazione di gravi pericoli che
minaccino detto bene, pur in assenza dei
presupposti della contingibilità e
dell’urgenza. La portata dei nuovi poteri
del Sindaco è stata, poi, meglio definita
dal già citato d.m. 05.08.2008.
Sulla questione dell’esatta portata delle
innovazioni introdotte dall’art. 6 del d.l.
n. 92/2008 con il dettare il nuovo testo
dell’art. 54 T.U.E.L., si è pronunciata la
Corte costituzionale nella sentenza
01.07.2009, n. 196. In particolare, ai fini
che qui interessano la Consulta ha chiarito
che il d.m. 05.08.2008 –recante la
definizione dell’ambito del concetto di “sicurezza
urbana”– ha ad oggetto solamente la
tutela della sicurezza pubblica, da
intendere come attività di prevenzione e
repressione dei reati.
Ciò, sia perché la titolazione del d.l. n.
92/2008 si riferisce alla “sicurezza
pubblica”, sia in quanto nelle premesse
del decreto ministeriale de quo si fa
espresso riferimento, quale fondamento
giuridico dello stesso, all’art. 117,
secondo comma, lett. h), Cost., che
–sottolinea la Corte, citando la propria
giurisprudenza in argomento ed in
particolare le sentenze nn. 222 e 237 del
2006 e n. 383 del 2005– “attiene alla
prevenzione dei reati e alla tutela dei
primari interessi pubblici sui quali si
regge l’ordinata e civile convivenza nella
comunità nazionale”. Del resto,
osservano ancora i giudici costituzionali,
il decreto ministeriale in questione nelle
premesse esclude espressamente dal proprio
ambito di riferimento la polizia
amministrativa locale.
Dalle parole ora riferite della Corte
costituzionale la giurisprudenza, anche di
questo Tribunale (TAR Toscana, Sez. II,
24.11.2010, n. 6600) ha tratto
l’insegnamento per cui l’ampiezza e
l’incisività dei nuovi poteri conferiti
dall’art. 6 del d.l. n. 92/2008, convertito
con la l. n. 125/2008, all’organo di vertice
dell’Amministrazione comunale, esercitabili
(ad una prima lettura) senza limiti di tempo
ed a prescindere da situazioni di urgenza e
pertanto tali da porre a rischio la
gerarchia delle fonti prevista dalla Carta
costituzionale (v. TAR Lombardia, Brescia,
Sez. II, ord. 01.10.2010, n. 700), postulano
un’interpretazione particolarmente rigorosa
della disposizione in esame, al fine di
renderla conforme al dettato costituzionale
(nello stesso senso TAR Lombardia, Milano,
Sez. III, n. 981/2010, cit.).
Applicando tale insegnamento alla vicenda
ora in esame, se ne deduce l’esigenza di
considerare la materia della sicurezza
urbana di cui all’art. 54, comma 4, T.U.E.L.
–indicata dal Sindaco di Firenze
nell’ordinanza gravata, a giustificazione
della stessa– come coincidente con la
materia della sicurezza pubblica (intesa
quale prevenzione dei fenomeni criminosi che
minacciano i beni fondamentali dei
cittadini).
Non può, invece, accogliersi una lettura in
senso lato del concetto di “sicurezza
urbana”, intesa quale strumento per
l’eliminazione di taluni fenomeni di degrado
che affliggono i centri urbani, non
necessariamente correlati con esigenze di
repressione della criminalità (TAR
Lombardia, Milano, Sez. III, n. 981/2010,
cit.). D’altro lato –aggiunge la sentenza
del TAR Lombardia ora citata, le cui
argomentazioni sono pienamente condivise dal
Collegio– se le ordinanze ex art. 54
T.U.E.L. si estendessero a materie diverse
dalla sicurezza pubblica tradizionalmente
intesa, sconfinando nella polizia
amministrativa locale, tutta l’operazione
attuata con il d.l. n. 92/2008 si
presterebbe a forti sospetti di
incostituzionalità per violazione delle
garanzie di autonomia degli Enti locali. La
materia della polizia amministrativa locale
è, infatti, espressamente esclusa dalla
riserva legislativa statale sulle materie
dell’ordine pubblico e della sicurezza
pubblica prevista dall’art. 117, secondo
comma, lett. h), Cost.; anche a livello
amministrativo, tale materia rientra
attualmente nelle funzioni proprie dei
Comuni previste dagli artt. 19, 20 e 21 del
d.P.R. n. 616/1977 e dagli artt. 158–163 del
d.lgs. n. 112/1998, e la relativa titolarità
risulta rinforzata dal principio di
sussidiarietà ex art. 118 Cost.. La
sottoposizione dell’esercizio di poteri di
polizia amministrativa locale ad un
penetrante controllo del Prefetto ed alle
direttive del Ministro dell’Interno, così
come previsto dall’art. 54 T.U.E.L., darebbe
luogo ad un’ingerenza dello Stato nelle
competenze locali ben al di là del controllo
sostitutivo di cui all’art. 120, secondo
comma, Cost..
Per quanto concerne, poi, la possibilità di
ammettere un potere atipico di ordinanza,
sganciato dalla necessità di far fronte a
specifiche situazioni contingibili di
pericolo, la decisione in esame ha
condivisibilmente rimarcato il contrasto di
un simile potere con gli artt. 23, 97 e 113
Cost. e, più in generale, con tutte le
disposizioni della Costituzione contenenti
riserve di legge a garanzia di diritti
fondamentali. Diversamente opinando –si
nota– verrebbe ad attribuirsi ai Sindaci in
via ordinaria il potere di incidere su
diritti individuali in modo totalmente
indeterminato e sulla base di presupposti
molto lati, suscettibili di larghissimi
margini di apprezzamento.
Per evitare un simile rischio, si può così
valorizzare il d.m. 05.08.2008, lì dove
aggancia la difesa della sicurezza pubblica
al rispetto di preesistenti norme regolanti
la vita civile, con il corollario che il
potere di ordinanza del Sindaco ex art. 54
T.U.E.L., al di là dei casi in cui assuma
carattere contingibile ed urgente, deve
limitarsi a prevedere misure che assicurino
il rispetto di norme ordinarie volte a
tutelare l’ordinata convivenza civile,
quando dalla loro violazione possano
derivare gravi pericoli per la sicurezza
pubblica (senza alcuna valenza “creativa”).
In altre parole –ed è la conclusione da
tener ferma, secondo il Collegio, per
valutare la legittimità o meno
dell’ordinanza oggetto del ricorso in
epigrafe– il potere in esame può essere
esercitato qualora la violazione delle norme
che tutelano i beni previsti dal d.m.
05.08.2008 (tra cui la tutela del patrimonio
pubblico e della sua fruibilità, nonché
l’incuria ed occupazione abusiva di
immobili) non assuma rilevanza solo in sé
considerata –perché in tale ipotesi
soccorrono gli strumenti ordinari– ma
costituisca la premessa per l’insorgere di
fenomeni di criminalità capaci di minare la
sicurezza pubblica: in questo caso, infatti,
venendo in gioco interessi che vanno oltre
le normali competenze di polizia
amministrativa locale, il Sindaco, quale
ufficiale di Governo, assume il compito di
garante della sicurezza pubblica e può
provvedere, sotto il controllo del Prefetto
ed in conformità alle direttive
ministeriali, alle misure necessarie a
prevenire od eliminare i gravi pericoli che
minaccino il predetto bene (TAR Lombardia,
Milano, Sez. III, n. 981/2010, cit.)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 05.01.2011 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it. |
INCARICHI PROGETTUALI: Il
contratto d’opera professionale va
dichiarato nullo per contrarietà a norme
imperative, in quanto l’edificio di cui
trattasi non poteva certamente considerarsi
una “modesta costruzione civile” e pertanto
la sua progettazione esulava dalla
competenza del geometra perimetrata
dall’art. 16 del r.d. 11/02/1929 n. 274,
come si desume all’evidenza dalla
complessità e dalle caratteristiche
tecnico-costruttive dell’edificio (un
fabbricato di tre piani di mc. 3161 e mq.
355 con impiego di c.a.) e come confermato
dal ctu nonché confessato dallo stesso
attore il quale ha espressamente
riconosciuto che il progetto, implicando una
costruzione in c.a., eccedeva la propria
competenza, affermando che proprio per
questo aveva chiesto la collaborazione
dell’ing. ... il quale aveva redatto e
firmato gli elaborati progettuali.
Il contratto d’opera professionale va
dichiarato nullo per contrarietà a norme
imperative, in quanto l’edificio di cui
trattasi non poteva certamente considerarsi
una “modesta costruzione civile” e
pertanto la sua progettazione esulava dalla
competenza del geometra perimetrata
dall’art. 16 del r.d. 11/02/1929 n. 274
(cfr. Cass. 12193/2007; 17028/2006; n. 3021,
n. 6649, n. 7778 e n. 8545 del 2005), come
si desume all’evidenza dalla complessità e
dalle caratteristiche tecnico-costruttive
dell’edificio (un fabbricato di tre piani di
mc. 3161 e mq. 355 con impiego di c.a.) e
come confermato dal ctu nonché confessato
dallo stesso attore il quale ha
espressamente riconosciuto che il progetto,
implicando una costruzione in c.a., eccedeva
la propria competenza, affermando che
proprio per questo aveva chiesto la
collaborazione dell’ing. ... il quale aveva
redatto e firmato gli elaborati progettuali.
La nullità è rilevabile d’ufficio perché il
geom. ... agisce per l’esecuzione del
contratto nullo (peraltro la Corte condivide
la tesi secondo la quale il giudice deve
rilevare d’ufficio le nullità negoziali non
solo nell’ipotesi in cui sia stata proposta
l’azione di esatto adempimento, ma anche
quando sia stata proposta azione di
risoluzione, annullamento o rescissione del
contratto: Cass. 22/03/2005 n. 6170; Cass.
15/09/2008 n. 23674) e la questione
appartiene al contraddittorio già svolto,
dal momento che l’attore ha ammesso che la
progettazione in esame era riservata alla
competenza di un ingegnere .
La nullità poi non è esclusa dalla
circostanza che la prestazione di fatto sia
stata compiuta, su richiesta del ..., da un
ingegnere, poiché la validità del negozio
dipende dal personale possesso del titolo
abilitante da parte di chi ha ricevuto
l’incarico dal committente (cfr. Cass.
1572/2005 n. 3021 e Cass. 13/01/1984 n. 286)
e nella specie lo stesso attore ha sempre
sostenuto che l’incarico fu conferito a lui
personalmente né risulta che vi sia stato
alcun rapporto diretto tra i convenuti e
l’ingegnere che ha sottoscritto il progetto.
Per altro verso, ancora, è di tutto evidenza
che la “collaborazione” di cui parla
l’art. 2232 cod civ., dovendo avvenire sotto
la direzione del professionista incaricato,
non può riguardare la esecuzione di una
prestazione professionale che ecceda
l’abilitazione del professionista
incaricato, il quale non può certamente
dirigere l’esecuzione, da parte di altri, di
una prestazione per la quale egli non sia
abilitato (cfr. in termini Cass. 3108/1995).
Consegue da quanto sopra che nessun compenso
può essere liquidato al geom. ... per
l’attività di progettazione dell’edificio
(sicché si palesa superflua l’istanza di
assunzione di chiarimenti da parte del ctu
avanzata dal difensore dei convenuti).
L’allegazione dell’attore di avere pagato
l’onorario dell’ingegnere e di aver diritto
a ripetere dai committenti la remunerazione
corrisposta al “collaboratore”
costituisce deduzione nuova inammissibile.
L’attore infatti ha agito in giudizio
chiedendo l’adempimento del contratto
d’opera professionale concluso personalmente
con i convenuti ed il pagamento del compenso
dovutogli per le prestazioni professionali
svolte, non già per far valere un diritto di
regresso in relazione al pagamento di un
debito dei propri committenti verso il
professionista da lui incaricato della
redazione del progetto, né per la verità ha
mai provato di avere effettivamente eseguito
tale pagamento e per l’importo richiesto in
questa sede. D’altro canto è evidente che
egli non è neppure legittimato a chiedere il
compenso per conto dell’autore del progetto,
sia perché le ipotesi di sostituzione
processuale sono tassative , sia perché non
ha richiesto che la condanna fosse emessa a
favore dell’altro professionista, sia infine
perché, nel merito, non c’è alcuna prova di
un conferimento d’incarico da parte dei
convenuti nei confronti dell’ingegner
Orlandi.
Per ciò che concerne le prestazioni diverse
dal progetto, si ritiene che nulla possa
essere riconosciuto all’attore per
l’attività relativa alle prestazioni
preparatorie della progettazione e ad essa
connesse di cui al punto 4.3 pag. 13 della
relazione del ctu , atteso che la nullità
del contratto si estende alle prestazioni
strumentali connesse con la edificazione
(Cass. 7778/2005 cit.)
(CORTE D'APPELLO di Firenze, Sez. II,
sentenza 12.01.2010 n. 12). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
prescrizioni di cui all’art. 9 del D.M.
02.04.1968 integrano con efficacia
precettiva il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l’inderogabile distanza
di 10 metri fra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti vincola anche i comuni
in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l’anzidetto limite minimo è
illegittima e va annullata ove oggetto
d’impugnazione, o comunque disapplicata,
stante la sua automatica sostituzione con la
clausola legale dettata dalla fonte
sovraordinata.
E ciò nella preminente considerazione che
tale distanza “va rispettata in tutti i
casi, trattandosi di norma volta ad impedire
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario (…); pertanto, le
distanze fra costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed
astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni d’igiene e di
sicurezza”. Ed ancora: “Ai sensi
dell’art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 (…) è
prescritta in tutti i casi, con disposizione
tassativa e inderogabile, la distanza minima
assoluta di dieci metri fra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti.
Tale disposizione, stante la sua assolutezza
e inderogabilità, risultante da fonte
normativa statuale, sovraordinata rispetto
agli strumenti urbanistici locali, comporta…”.
In tema di distanze fra costruzioni,
l’art. 9, comma 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444,
ha efficacia di legge dello Stato (…); i
comuni sono obbligati –in caso di redazione
o revisione dei propri strumenti
urbanistici– a non discostarsi dalle regole
fissate da tale norma, le quali comunque
prevalgono, ove i regolamenti comunali siano
con esse in contrasto” (Cass. 11.02.2008
n. 3199). “L’adozione da parte degli enti
locali di strumenti urbanistici contrastanti
con la norma, comporta l’obbligo, per il
giudice di merito, non solo di disapplicare
le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente la disposizione del
ricordato art. 9, divenuta, per inserzione
automatica, parte integrante dello strumento
urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata.
“Per consolidata ed ormai costante
giurisprudenza,” scrive il primo
giudice, “l’art. 9 D.M. n. 1444/1968 che
prescrive la distanza minima di 10 mt tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti impone, sì, limiti ai Comuni
nella formazione o revisione degli strumenti
urbanistici, ma non è immediatamente
operante anche nei rapporti tra privati.”
L’assunto è inesatto, perché la
giurisprudenza non è in questo senso, e non
lo era già alla data della decisione, cioè
nel 2005.
Ci fu, in effetti, intorno agli anni ’90, un
disorientamento, sfociato nella sentenza
della Cassazione a Sezioni Unite 01.07.1997
n. 5889, la quale, effettivamente, in un
caso (riguardava il Comune di Vittoria,
sprovvisto, allora, di piano regolatore) di
totale assenza di strumento urbanistico
generale, ritenne che le prescrizioni
tecniche contenute nel D.M. del 1968,
servissero solamente di direttiva per i
comuni in vista della elaborazione dei loro
strumenti urbanistici, e che perciò, “dato
il carattere della norma, destinato a
sopperire alla carenza di strumenti
urbanistici e ad incentivarne la rapida
formazione e approvazione”, in quanto
diretta ai comuni, e non alla generalità dei
soggetti, non fosse per questi ultimi fonte
di diritti. Non recependo il comune la
prescrizione ministeriale della distanza
minima tra fabbricati, o perfino
rifiutandola illegittimamente con
l’adottarne una minore, il cittadino non
avrebbe avuto azione diretta per imporre al
vicino il rispetto di quella distanza.
Una tale interpretazione non ha avuto più
seguito, né nella giurisprudenza della
stessa Suprema Corte, né in quella del
Consiglio di Stato. “Le prescrizioni di
cui all’art. 9 del D.M. 02.04.1968 integrano
con efficacia precettiva il regime delle
distanze nelle costruzioni, sicché
l’inderogabile distanza di 10 metri fra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti vincola anche i comuni in sede di
formazione o revisione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con
l’anzidetto limite minimo è illegittima e va
annullata ove oggetto d’impugnazione, o
comunque disapplicata, stante la sua
automatica sostituzione con la clausola
legale dettata dalla fonte sovraordinata”
(Cons. Stato, sez. IV, 12.06.2007 n. 3094;
non diversamente, Cons. Stato, sez. IV,
05.12.2005 n. 6909; Cons. Stato, sez. IV,
17.02.2002 n. 3229 ed altre).
E ciò nella preminente considerazione che
tale distanza “va rispettata in tutti i
casi, trattandosi di norma volta ad impedire
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario (…); pertanto, le
distanze fra costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed
astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni d’igiene e di
sicurezza” (Cons. Stato 6909/2005 cit.).
Ed ancora: “Ai sensi dell’art. 9 D.M.
02.04.1968 n. 1444 (…) è prescritta in tutti
i casi, con disposizione tassativa e
inderogabile, la distanza minima assoluta di
dieci metri fra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti. Tale disposizione,
stante la sua assolutezza e inderogabilità,
risultante da fonte normativa statuale,
sovraordinata rispetto agli strumenti
urbanistici locali, comporta…” (Cass.
10.01.2006 n. 145).
“In tema di distanze fra costruzioni,
l’art. 9, comma 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444,
ha efficacia di legge dello Stato (…); i
comuni sono obbligati –in caso di redazione
o revisione dei propri strumenti
urbanistici– a non discostarsi dalle regole
fissate da tale norma, le quali comunque
prevalgono, ove i regolamenti comunali siano
con esse in contrasto” (Cass. 11.02.2008
n. 3199). “L’adozione da parte degli enti
locali di strumenti urbanistici contrastanti
con la norma, comporta l’obbligo, per il
giudice di merito, non solo di disapplicare
le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente la disposizione del
ricordato art. 9, divenuta, per inserzione
automatica, parte integrante dello strumento
urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata” (Cass.
19.11.2004 n. 21899).
Se lo stato della giurisprudenza è questo,
come in effetti è, e cioè se le disposizioni
dell’art. 9 del D.M. del 1968, tutt’altro
che essere mero strumento a finalità
provvisoria, d’incentivazione delle
amministrazioni comunali nel loro obbligo di
dotarsi di strumenti urbanistici (come
affermano le Sezioni Unite della Cassazione
nel 1997), sono norme assolute e
inderogabili, dettate per esigenze
collettive di igiene e sicurezza, tali da
comportare la loro inserzione automatica
negli strumenti urbanistici difettosi, al
giudice non rimane che tenerne conto, come
fonte diretta di diritti del cittadino,
disapplicando le eventuali contrarie
disposizioni della regolamentazione locale,
siano esse antecedenti, che successive.
Né avrebbe senso, in relazione a tale
ratio iuris della normativa,
sottilizzare (è l’estrema risorsa, in
definitiva, a cui si appiglia l’appellato)
distinguendo fra strumenti urbanistici
anteriori al 1968, ossia all’entrata in
vigore delle prescrizioni contenute nel
decreto ministeriale, e strumenti
urbanistici sopravvenuti, in guisa da poter
dire che la inserzione automatica delle
prescrizioni del decreto ministeriale
avrebbe luogo solo nei confronti degli
strumenti urbanistici sopravvenuti, e non
pure in quelli preesistenti, e che,
conseguentemente, al giudice, adito dal
privato per il rispetto della distanza
legale fra costruzioni, sarebbe dato
disapplicare, in quanto illegittima per
contrasto con la norma dello Stato, la
prescrizione del regolamento locale solo se
sopravvenuta al decreto ministeriale.
Una tale interpretazione, tutt’altro che
incentivare, come pensavano di poter dire le
Sezioni Unite nel 1997, la volontà di
adeguamento dei comuni alla mutate esigenze
urbanistiche, avrebbe finito per sortire
l’effetto contrario di premiare l’inerzia,
la pigrizia, e perfino il preordinato
disegno di sottrarsi deliberatamente alle
più rigorose prescrizioni imposte dallo
Stato nell’interesse dell’igiene e della
sicurezza di tutti, rinunciando o ritardando
di proposito l’adozione dello strumento
urbanistico o la revisione di quello
preesistente.
Completamente illogica, giuridicamente
inspiegabile e incostituzionale, sarebbe poi
l’idea di ammettere due differenti parametri
di valutare le esigenze assolute d’igiene e
di sicurezza, ed i diritti dei singoli ad
esse connessi, a seconda che nel comune di
residenza sia in vigore uno strumento
urbanistico successivo al 1968 o antecedente
o addirittura (è il caso di Vittoria,
risolto in quel modo dalle Sezioni Unite) ne
sia del tutto privo. D’altronde, se, per
effetto del decreto ministeriale in
questione (nonché, beninteso, per effetto
della legge da cui esso traeva la sua forza
normativa) è indubitabile che tutti i comuni
fossero tenuti ad adeguare ad esso i propri
strumenti urbanistici –segnatamente in punto
di distanze fra costruzioni– non si vede
come la posizione soggettiva del privato,
tesa, cioè a vedere rispettata la distanza
prevista dalla normativa nazionale, si
atteggiasse come diritto soggettivo (di
proprietà), tutelabile come tale, se il
comune, pur continuando a violare quella
distanza, si fosse nel frattempo provvisto
di uno, o di un nuovo strumento urbanistico,
e come interesse se il comune, rendendosi
ancor più inadempiente, avesse omesso
completamente qualsiasi revisione del suo
apparato strumentale.
Ancora più difficile sarebbe giustificare il
potere del giudice ordinario di
disapplicare, per contrarietà alla distanza
legale, contenuta, appunto, nell’art. 9 del
decreto ministeriale, la regolamentazione
locale sopravvenuta, e negare un tale potere
se la disposizione difforme è antecedente
alla legge, il che, in altri termini, si
traduce nell’impossibilità di giustificare
l’inserzione automatica della norma
nazionale, assoluta e inderogabile, solo
nelle regolamentazioni successive alla sua
emanazione, e non anche in quelle
preesistenti.
Per altro verso, lasciando, in pratica, ai
comuni, la facoltà di ritardare, o omettere
del tutto, il recepimento della distanza
imposta a livello nazionale, si determina
una situazione esattamente inversa a quella
prevista dall’art. 873 c.c., laddove ai
comuni è fatta salva la facoltà dei comuni
di stabilire una distanza maggiore di quella
legale, ma non inferiore. Qui, nel comune di
Pisa e in quanti possono trovarsi in
situazione analoga, varrebbe la regola
contraria: che, per inerzia o volontà
contraria dello stesso comune, non si
applica la distanza prescritta dalla legge
per tutto il territorio nazionale, ma la
distanza regolamentare “minore”,
illegittimamente mantenuta ferma dagli
organi locali.
Alla luce di tali considerazioni, la
denunciata costruzione appare illegittima,
per violazione della distanza legale, e se
ne deve ordinare l’arretramento.
La norma in questione, come è orientamento
pacifico (Cass. 26.10.2007 n. 22495; Appello
Firenze, 01.10.2005 n. 1386), si applica
anche quando una sola delle due pareti
frontiste sia provvista di finestre (CORTE
DI APPELLO di Firenze, Sez. I, sentenza
09.2009 n. 1165). |
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ENTI LOCALI:
G.U. 20.09.2011 n. 219 "Meccanismi
sanzionatori e premiali relativi a regioni,
province e comuni, a norma degli articoli 2,
17 e 26 della legge 05.05.2009, n. 42" (D.Lgs.
06.09.2011 n. 149). |
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EDILIZIA PRIVATA: L.
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(link a http://studiospallino.blogspot.com). |
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F. Magnosi,
La nuovissima procedura di autorizzazione
paesaggistica semplificata introdotta dal
DPR 139/2010 (link a
www.filodiritto.com). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Piano
di caratterizzazione.
Si chiede se debba ritenersi responsabile un
amministratore di società per la mancata
attuazione del piano di caratterizzazione da
parte del precedente amministratore.
L'articolo 257 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, dispone che
«chiunque cagiona l'inquinamento del suolo,
del sottosuolo, delle acque superficiali o
delle acque sotterranee con il superamento
delle concentrazioni soglia di rischio è
punito con la pena dell'arresto da sei mesi
a un anno o con l'ammenda da 2.600 euro a
26.000 euro, se non provvede alla bonifica
in conformità al progetto approvato
dall'autorità competente nell'ambito del
procedimento di cui agli articoli 242 e
seguenti».
La Corte di cassazione, sezione III penale,
con la sentenza 06.10.2010 n.
35774, ha riconosciuto, in tema di omessa
bonifica di siti inquinati, la
responsabilità dell'amministratore
subentrante anche per il fatto che esso
«aveva persistito nel comportamento omissivo
consistente nel no dare attuazione al piano
di caratterizzazione ... la cui esecuzione era
stata imposta anche con ordinanza del
comune ... specificando inoltre che
l'attuazione del piano avrebbe comunque
consentito proprio di verificare la tesi
dell'accumulazione del cromo nel sottosuolo
e di approntare le relative soluzioni».
Per
la Corte di cassazione, nel caso da essa
esaminato, «si è verificata la condizione di
punibilità a contenuto negativo dell'omessa
bonifica prevista dall'articolo 257» e «il
piano di caratterizzazione continuava a
essere valido ed efficace e che quindi
persisteva l'obbligo dell'attuale
amministratore della società di darvi
attuazione».
La Corte ha ritenuto, poi, configurabile «il
reato in questione allorché il soggetto «non
provvede alla bonifica in conformità al
progetto approvato dall'autorità competente
nell'ambito del procedimento di cui agli
artt. 242 e segg.», anche qualora il
soggetto impedisce (come nel caso oggetto di
giudizio) la stessa formazione del progetto
di bonifica, e quindi la sua realizzazione,
attraverso al mancata attuazione del piano
di caratterizzazione, necessario per
predisporre il progetto di bonifica».
«Non
si tratta, per i supremi giudici, di non
consentita interpretazione estensiva in malam partem o di applicazione analogica
della norma penale incriminatrice, ma
dell'unica interpretazione sistematica atta
a rendere razionale e non in contrasto con
il principio di ragionevolezza di cui
all'art. 3 Cost.»
(articolo ItaliaOggi
Sette del 19.09.2011). |
UTILITA' |
APPALTI SERVIZI:
Il nuovo governo delle
partecipate dopo l’adeguamento della
disciplina al referendum e alle norme U.E.
(D.L. 138/2011).
Nuovo ampliamento del ricorso alla libera
concorrenza e forti limitazioni
all’affidamento in house. Dopo l’abrogazione
referendaria dell’art. 23-bis, il D.L.
138/2011 riscrive le regole sull’affidamento
dei servizi pubblici locali.
La nuova disciplina prevede che gli enti
analizzino il mercato di riferimento,
definendo i servizi da privatizzare e i
diritti di esclusiva, e formalizzare i piani
strategici in una delibera quadro.
La maggiore parte degli enti non ha molto
tempo, perché la delibera va adottata prima
che scadano le gestioni esistenti.
L’affidamento dei servizi con rilevanza
economica (ad eccezione del servizio idrico)
deve avvenire con gara, nel rispetto dei
principi comunitari, o con la costituzione
di società miste, con il socio privato al
40% del capitale.
L’affidamento in house è limitato ai servizi
di valore inferiore ai 900.000 euro annui.
La tabella di marcia:
►
31.03.2012 cessano gli affidamenti
diretti relativi a servizi di valore
economico superiore ai 900.000 euro annui,
nonché tutti gli affidamenti diretti che non
rientrano nei casi successivi;
►
30.06.2012 cessano le gestioni
affidate direttamente a società a
partecipazione mista, qualora la selezione
del socio sia avvenuta mediante procedure
competitive ad evidenza pubblica, ma senza
avere avuto ad oggetto la qualità di socio e
l’attribuzione di compiti operativi connessi
alla gestione del servizio;
►
30.06.2013 o il 31.12.2015
cessano gli affidamenti diretti già affidati
alla data di inizio 2003, ove non siano
rispettate le previste condizioni di
riduzione della partecipazione pubblica alle
scadenze previste (tratto dalla newsletter
di www.autonomielocali.eu). |
CORTE DEI
CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO: Babele di
regole per i dirigenti a termine. Il Dlgs 141/2011 aumenta la flessibilità, la
Corte stringe ma con «deroghe».
Quando la mano destra non sa quello che fa
la sinistra: devono essere così sintetizzate
le indicazioni contraddittorie dettate nei
giorni scorsi in materia di assunzioni a
tempo determinato di dirigenti. Viene
aumentata dal Dlgs n. 141/ 2011 –pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale del 22 agosto– la
possibilità di assumere dirigenti e
responsabili a tempo determinato.
Ma poi, questa norma viene smentita di fatto
dalle limitazioni imposte, ad appena una
settimana di distanza, dalla
deliberazione 29.08.2011 n.
46 delle
Sezz. riunite di controllo della Corte dei
Conti. Senza dimenticare che, al
contrario, poche settimane prima, il 9
agosto, la sezione di controllo della
magistratura contabile del Lazio aveva
ampliato la possibilità di effettuare queste
assunzioni.
Il fatto che dalle norme e dalle
interpretazioni più autorevoli arrivino
conclusioni opposte, crea ovviamente
sconcerto negli operatori. Ma soprattutto si
determinano condizioni di incertezza, di
difficoltà spesso non sostenibili e,
comunque, di stallo nelle attività
amministrative.
Il Dlgs n. 141/2011, conosciuto come
«correttivo della legge Brunetta»,
accogliendo parzialmente le richieste delle
associazioni degli enti locali, ha portato,
negli enti giudicati virtuosi in base alle
disposizioni dettate dal Dl n. 98/2011, al
18% della dotazione organica le assunzioni a
tempo determinato di dirigenti e
responsabili per la copertura di posti
vacanti. Una possibilità che tutte le altre
Pa continua a essere limitata all'8%, cui
nello Stato si deve aggiungere il 10% per i
dirigenti generali.
Nella stessa direzione di ampliamento di
queste possibilità va il
parere
09.08.2011 n.
47 della
magistratura contabile del Lazio, che esclude da questi limiti le
assunzioni di dirigenti e responsabili a
tempo determinato effettuate tramite
concorso pubblico e che estende la base di
calcolo su cui effettuare il conteggio delle
assunzioni di queste figure per posti extra
dotazione organica.
Il parere n. 46/2011 delle sezioni riunite di
controllo della Corte dei conti, mutando
parzialmente i propri orientamenti e
smentendo le indicazioni del dipartimento
della Funzione pubblica, ha incluso per gli
enti locali soggetti al patto di stabilità
gli oneri per tutte le assunzioni a tempo
determinato entro il tetto della spesa
consentita per finanziare le assunzioni a
tempo indeterminato (si veda Il Sole 24 Ore
del 6 e del 7 settembre). Cioè entro il 20%
della spesa del personale cessato nell'anno
precedente. Con il che per queste
amministrazioni si applica un regime ben più
duro di quello in vigore per lo Stato e per
le regioni, nelle quali le assunzioni
flessibili sono consentite entro il tetto
del 50% della spesa sostenuta allo stesso
titolo nel 2009.
Il parere ha escluso da tale vincolo solo le
assunzioni necessarie all'erogazione di
servizi essenziali e infungibili e le
massime urgenze. E vanifica nei fatti,
quanto meno per la gran parte dei Comuni e
delle Province, la possibilità di dare corso
ad assunzioni di dirigenti, visti i
ridottissimi margini previsti per la
copertura dei relativi oneri. Non vi sono
dubbi sull'applicazione di questo vincolo
alle assunzioni dei dirigenti e dei
responsabili a tempo determinato ex articolo
110 del Dlgs n. 267/2000, così come sulla
estensione anche agli uffici di staff degli
organi politici. E ciò in quanto il nuovo
tetto opera per tutte le assunzioni
flessibili.
Sicuramente qualche incarico dirigenziale
potrà rientrare nella necessità di
consentire l'erogazione di servizi
essenziali e infungibili, si pensi a quelli
di ragioneria, alla polizia locale, ai
servizi sociali eccetera.
Ma è evidente l'effetto di drastica
limitazione della possibilità di dare corso
alle assunzioni di figure essenziali per il
buon funzionamento delle amministrazioni,
non solo nella forma del tempo indeterminato
ma anche con rapporti flessibili, il che
determina in molti enti una condizione di
non sostenibilità e probabilmente spingerà
qualcuno a forzare oltre misura le deroghe
che il parere consente
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: La
gestione associata rifà i conti sul
personale.
Le spese di personale delle Unioni finiscono
nei conti dei Comuni.
La Corte dei conti,
Sezione autonomie, con la
deliberazione
29.07.2011 n.
8/AUT/2011 stabilisce che le gestioni
associate non hanno autonomia di calcolo, ma
i costi vanno spalmati sui limiti dei
singoli comuni.
Secondo la manovra, due
delle sei funzioni fondamentali dei comuni
tra 1.000 e 5mila abitanti dovranno essere
gestite in forma associata entro il 31.12.2011. La Finanziaria 2007
disciplina le norme sul contenimento delle
spese di personale degli enti locali non
soggetti a patto di stabilità. E tra questi
le Unioni di comuni.
Al momento della compilazione dei
questionari da inviare alla Corte dei conti,
i comuni si sono chiesti se e come inserire
le spese di personale di tali gestioni. Nel
tempo si sono sviluppati due indirizzi. Da
una parte veniva affermato che i Comuni
compilano le proprie spese di personale
conteggiando i dipendenti; dall'altra si
chiedeva di inserire tra le proprie spese
anche quelle delle Unioni.
La Sezione
autonomie ha concluso che il contenimento
dei costi del personale dei Comuni debba
essere valutato sotto il profilo
sostanziale, sommando alla propria spesa di
personale la quota sostenuta dall'Unione. In
tale ottica emerge una considerazione
complessiva della spesa di personale,
secondo la quale la disciplina vincolistica
in tale materia non può incidere solo per il
personale alle dirette dipendenze dell'ente,
ma anche per quello che svolge la propria
attività al di fuori dello stesso e,
comunque, per tutte le forme di
esternalizzazione.
Si tratta quindi di un calcolo aggregato che
va recepito da parte dei singoli enti. Le
amministrazioni dovranno adottare criteri
idonei per determinare la misura della spesa
di personale del l'Unione che sia riferibile
pro quota ai comuni partecipanti. Numero di
abitanti, quantità di servizi garantiti,
numero di ore di attività svolte sono solo
alcuni dei possibili indicatori.
Una scelta non sempre agevole: gli enti che
partecipano alle gestioni associate, hanno
spesso vincoli assunzionali e di
contenimento della spesa diversi. Partire da
zero è forse l'unica strada. Rifare i
calcoli e costruire una base certa e stabile
nel tempo da prendere come riferimento è il
difficile percorso che attende Unioni ed
enti associati (articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Sulla
differenza tra il "responsabile del
procedimento" ex L. 241/1990 ed il “responsabile
del procedimento” in materia di appalti
pubblici ex L. 109/1994.
--
La nuova figura del “responsabile
del procedimento” introdotta dall’art.
7, comma 2 e 3, della citata L. n. 109, è
stata ispirata dall’intento del legislatore
di unificare in un unico soggetto compiti di
“progettazione, affidamento ed esecuzione”
dei lavori, che prima erano di competenza di
organi diversi. Tuttavia, nella sua
formulazione originaria, i principi
innovativi ivi contenuti che hanno trovato
applicazione a prescindere dall’emanazione
del successivo regolamento, hanno previsto
compiti che non si discostavano di molto da
quelli che già erano contemplati
dall’omologa figura del “responsabile del
procedimento” introdotta dalla legge sul
procedimento amministrativo, essendo le
funzioni di tale soggetto limitate a
controlli di tipo formale sulla procedura di
affidamento dei lavori e dei conseguenti
impegni di spesa. Con la modifica introdotta
dalla L. n. 415/1998, i compiti di tale
nuova figura sono stati potenziati per
quanto riguarda la “predisposizione del
programma triennale delle opere pubbliche”
(art. 7, comma 3, della L. n. 109), mentre
la definizione delle singole funzioni sono
state rinviate, ancora una volta, al
regolamento di attuazione.
-- Nella configurazione della L. n.
241/1990, il responsabile del procedimento è
il soggetto che, in primo luogo, valuta le
condizioni d’ammissibilità e di legittimità
per l’emanazione del provvedimento finale
della quale può anche avere assunto la
competenza; segue lo svolgersi
dell’istruttoria, richiedendo eventuali
dichiarazioni o sollecitando la correzione
di quelle già presentate; cura le
pubblicazioni previste da leggi o
regolamenti; infine indice la conferenza dei
servizi di cui all’art. 14 della medesima
legge n. 241, nel caso in cui più enti siano
coinvolti nel procedimento. Trattasi,
invero, di un’elencazione a carattere
tassativo, non essendo prevista alcuna
competenza residuale.
-- Il responsabile del procedimento di cui
al Regolamento della legge sui lavori
pubblici, come ha affermato un’autorevole
dottrina, dovrebbe più propriamente essere
definito “responsabile dell’intervento”,
giacché tale soggetto cumula tutti gli
adempimenti necessari acciocché, dalla
progettazione preliminare al collaudo
dell’opera, tutte le fasi del procedimento
si svolgano, non solo nel rispetto della
legalità ma anche dei princìpi di
economicità, efficienza e trasparenza
dell’azione amministrativa. In altri
termini, in tale nuova figura è possibile
individuare funzioni di iniziativa
procedimentale e di istruttoria tecnica,
funzioni di verifica preventiva di
legittimità, di vigilanza sulle procedure
tese alla realizzazione dell’intervento,
nonché di conduzione dei lavori e di
rappresentanza negoziale.
Sotto tale ultimo profilo –per quel che qui
rileva ai soli fini di un’ipotetica
individuazione dei compiti specifici di tale
figura al caso che qui occupa– il
responsabile del procedimento configurato
dal Regolamento n. 554/1999, provvede:
all’acquisizione dell’attestazione da parte
del direttore dei lavori in merito alla
realizzabilità del progetto anche in
relazione al terreno, al tracciamento, al
sottosuolo ed a quanto altro occorre per
l’esecuzione dei lavori (art. 71, comma 1,
lett. c); al coordinamento dell’attività
progettuale, secondo tre progressivi livelli
di definizione: preliminare, definitivo ed
esecutivo (art. 15); alla concessione di
proroghe del termine di ultimazione dei
lavori (art. 111); all’emissione di ordini
di servizio (art. 128), agli ordini di
sospensione e ripresa dei lavori (art. 133);
all’approvazione delle perizie di variante
(art. 134); alla risoluzione in via
amministrativa delle controversie (art.
137).
Nessuna di dette competenze è invece
ravvisabile in capo al responsabile del
procedimento di cui alla L. n. 241/1990, la
cui ratio è unicamente quella di assicurare
la presenza di un unico soggetto che
assicuri la sussistenza delle condizioni di
legittimità dell’intervento, curi
l’andamento del procedimento amministrativo
e si ponga quale referente
dell’Amministrazione nei confronti dei
terzi.
Come è noto, la L. n. 109/1994, denominata
Legge quadro in materia di lavori pubblici
(così come modificata ed integrata dalla L.
n. 216/1995, nonché dai decreti legislativi
di recepimento delle direttive comunitarie
degli appalti nei settori esclusi, D.lgs. n.
158/1995 e degli appalti dei servizi, D.lgs.
n. 157/1995 ed alla legge n. 415/1998, nota
come Merloni-ter) ha totalmente ridisegnato
l’assetto normativo dell’appalto di opere
pubbliche, il cui impianto originario
risaliva alla L. n. 2248/1865 all. F, al
regolamento sui lavori pubblici di cui al
R.D. n. 350/1895 ed al capitolato generale
delle opere pubbliche.
Tuttavia tale legge, come si evince dalla
sua intitolazione, oltre che dalla lettura
dell’art. 1, si è proposta l’individuazione
dei soli principi fondamentali in materia di
lavori pubblici, lasciando poi al potere
regolamentare del Governo la concreta
attuazione di tali principi.
Per quanto qui rileva ai fini della
definizione della posizione dell’ing. Cocco,
la nuova figura del “responsabile del
procedimento” introdotta dall’art. 7,
comma 2 e 3, della citata L. n. 109, è stata
ispirata dall’intento del legislatore di
unificare in un unico soggetto compiti di “progettazione,
affidamento ed esecuzione” dei lavori,
che prima erano di competenza di organi
diversi. Tuttavia, nella sua formulazione
originaria, i principi innovativi ivi
contenuti che hanno trovato applicazione a
prescindere dall’emanazione del successivo
regolamento, hanno previsto compiti che non
si discostavano di molto da quelli che già
erano contemplati dall’omologa figura del “responsabile
del procedimento” introdotta dalla legge
sul procedimento amministrativo, essendo le
funzioni di tale soggetto limitate a
controlli di tipo formale sulla procedura di
affidamento dei lavori e dei conseguenti
impegni di spesa.
Con la modifica introdotta dalla L. n.
415/1998, i compiti di tale nuova figura
sono stati potenziati per quanto riguarda la
“predisposizione del programma triennale
delle opere pubbliche” (art. 7, comma 3,
della L. n. 109), mentre la definizione
delle singole funzioni sono state rinviate,
ancora una volta, al regolamento di
attuazione.
Il regolamento che ne è seguito, e cioè il
d.P.R. 21.12.1999 n. 554 (pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale del 28.04.2000, n. 98) è
stato espressione del processo che è stato
definito di delegificazione, che consiste
nel trasferimento di intere materie, purché
non coperte da riserva assoluta di legge,
alla normazione secondaria del Governo,
secondo il dettato dell’art. 17, comma 2,
della L. 23.08.1988 n. 400, che disciplina
siffatto processo ed il relativo riparto di
competenze.
Proprio in attuazione di detto riparto di
competenze, l’art. 3 della L. n. 109 ha
individuato espressamente le materie
affidate alla potestà regolamentare del
Governo. Per quanto più specificamente
attiene al caso all’esame, come più sopra
detto, i lavori pubblici di che trattasi,
per effetto di un differimento del termine
finale di esecuzione, erano ancora in corso
alla data di entrata in vigore del
regolamento (28.07.2000); e poiché detto
atto di normazione secondaria ha
disciplinato aspetti che –come si vedrà
meglio nel prosieguo della trattazione–
attengono direttamente alla posizione del
convenuto si pone il problema se esso abbia
trovato applicazione per i contratti in
corso di esecuzione.
Ebbene, la risposta al quesito è stata data
dall’art. 232 del regolamento stesso, il
quale ha stabilito che sono di immediata
applicazione ai rapporti in corso di
esecuzione le “disposizioni che
disciplinano l’organizzazione ed il
funzionamento della stazione appaltante
(comma 1)” ed anche “le norme residue”,
purché non incidano sul “modo o il
contenuto delle obbligazioni del contratto”.
Tale delimitazione trova spiegazione per il
fatto che le disposizioni amministrative che
attengono all’organizzazione del soggetto
pubblico del rapporto contrattuale, e cioè
la stazione appaltante, nel caso di un
contratto d’appalto in corso, non possono
incidere, né direttamente né mediatamente,
sull’altro soggetto contrattuale, in
applicazione del principio tempus regit
actum. Ne deriva che, in materia di
danno derivante da inadempimento
contrattuale, le procedure di accertamento e
di commisurazione dello stesso danno devono
essere effettuate secondo le regole vigenti
al momento della stipula del contratto (Cass,
sez. I, n. 17906 del 04.09.2004; Consiglio
di Stato, sez. I, parere n. 1235 del
17.01.2001).
Per contro, per quanto concerne l’assetto
della stazione appaltante, la nuova
normativa è di immediata applicazione: in
particolare, per quel che qui precipuamente
interessa, essa disciplina con immediatezza
anche le figure professionali appartenenti
all’amministrazione (in specie, il
responsabile del procedimento, la cui
posizione, più propriamente, deve essere
riguardata nel presente giudizio di
responsabilità amministrativa).
Tuttavia, come non ha mancato di osservare
la circolare del Ministero dei lavori
pubblici n. 1329 del 07.09.2000, l’immediata
applicabilità di detta normativa agli
appalti in corso d’essere alla data di
entrata in vigore del Regolamento n.
554/1999 ha posto indubbi problemi
operativi, dal momento che tutta l’attività
preliminare alla stipula del contratto e
parte di quella esecutiva sono state svolte
nel vigore della previdente disciplina.
In particolare, ai sensi della L.R. n.
24/1987, in assenza di disposizioni di segno
contrario impartite dal comune, il direttore
dei lavori, all’atto della sua nomina, ha
assommato anche le funzioni di ingegnere
capo; mentre il responsabile del
procedimento era tale unicamente in forza
della previsione di cui all’art. 6 della L.
n. 241/1990. E dal momento che ben diversi
sono i compiti assegnati alla nuova figura
del responsabile del procedimento ai sensi
della citata legge n. 241 rispetto a quelle
del Regolamento n. 554 (con conseguente
contrazione delle funzioni del direttore dei
lavori) non sembra né ragionevole né
giuridicamente possibile che le funzioni
originariamente assolte dai soggetti
coinvolti nel presente giudizio potessero
essere diversamente definite in assenza di
uno specifico provvedimento
dell’Amministrazione: in questo senso è,
oltre alla circolare del Ministero dei
Lavori pubblici citata, anche la
determinazione dell’Autorità per la
vigilanza sui lavori pubblici n. 54 del
07.12.2000, la quale ultima propone anche
taluni criteri per l’individuazione del
nuovo responsabile del procedimento.
E poiché risulta incontrovertibilmente dagli
atti che nessun atto dell’Amministrazione ha
mutato i compiti originariamente fissati in
capo all’ing. Pisano ed all’ing. Cocco, le
singole responsabilità devono essere
definite alla luce della normativa
applicabile antecedentemente all’avvento
della L. n. 109/1994: per il direttore dei
lavori, come si è visto in precedenza, il
citato regolamento n. 350/1895 ed il
capitolato generale d’appalto per le opere
pubbliche (d.P.R.n. 1063/1962), che del
resto, hanno trovato applicazione anche per
la definizione del lodo arbitrale relativo
alla controversia tra il comune di Assemini
e l’appaltatore; per il responsabile del
procedimento, l’art. 6 della L. n. 241/1990.
Le considerazioni più innanzi svolte
inducono dunque ad avvalorare la tesi del
patrono del convenuto secondo la quale
l’ing. Cocco –oltre che le funzioni di
responsabile del servizio dei lavori
pubblici- ha assunto il compito di “responsabile
del procedimento” ai sensi dell’art. 6
della L. 07.08.1990 n. 241, e non anche
l’omologa funzione così come delineata
dall’art. 8 del regolamento n. 554/1999. La
differenza non è di poco momento, ove si
consideri la differente disciplina che
governa le due figure.
Ed invero, nella configurazione della L. n.
241/1990, il responsabile del procedimento è
il soggetto che, in primo luogo, valuta le
condizioni d’ammissibilità e di legittimità
per l’emanazione del provvedimento finale
della quale può anche avere assunto la
competenza; segue lo svolgersi
dell’istruttoria, richiedendo eventuali
dichiarazioni o sollecitando la correzione
di quelle già presentate; cura le
pubblicazioni previste da leggi o
regolamenti; infine indice la conferenza dei
servizi di cui all’art. 14 della medesima
legge n. 241, nel caso in cui più enti siano
coinvolti nel procedimento. Trattasi,
invero, di un’elencazione a carattere
tassativo, non essendo prevista alcuna
competenza residuale.
Per contro, il responsabile del procedimento
di cui al Regolamento della legge sui lavori
pubblici, come ha affermato un’autorevole
dottrina, dovrebbe più propriamente essere
definito “responsabile dell’intervento”,
giacché tale soggetto cumula tutti gli
adempimenti necessari acciocché, dalla
progettazione preliminare al collaudo
dell’opera, tutte le fasi del procedimento
si svolgano, non solo nel rispetto della
legalità ma anche dei princìpi di
economicità, efficienza e trasparenza
dell’azione amministrativa. In altri
termini, in tale nuova figura è possibile
individuare funzioni di iniziativa
procedimentale e di istruttoria tecnica,
funzioni di verifica preventiva di
legittimità, di vigilanza sulle procedure
tese alla realizzazione dell’intervento,
nonché di conduzione dei lavori e di
rappresentanza negoziale.
Sotto tale ultimo profilo –per quel che qui
rileva ai soli fini di un’ipotetica
individuazione dei compiti specifici di tale
figura al caso che qui occupa– il
responsabile del procedimento configurato
dal Regolamento n. 554/1999, provvede:
all’acquisizione dell’attestazione da parte
del direttore dei lavori in merito alla
realizzabilità del progetto anche in
relazione al terreno, al tracciamento, al
sottosuolo ed a quanto altro occorre per
l’esecuzione dei lavori (art. 71, comma 1,
lett. c); al coordinamento dell’attività
progettuale, secondo tre progressivi livelli
di definizione: preliminare, definitivo ed
esecutivo (art. 15); alla concessione di
proroghe del termine di ultimazione dei
lavori (art. 111); all’emissione di ordini
di servizio (art. 128), agli ordini di
sospensione e ripresa dei lavori (art. 133);
all’approvazione delle perizie di variante
(art. 134); alla risoluzione in via
amministrativa delle controversie (art.
137).
Nessuna di dette competenze è invece
ravvisabile in capo al responsabile del
procedimento di cui alla L. n. 241/1990, la
cui ratio è unicamente quella di
assicurare la presenza di un unico soggetto
che assicuri la sussistenza delle condizioni
di legittimità dell’intervento, curi
l’andamento del procedimento amministrativo
e si ponga quale referente
dell’Amministrazione nei confronti dei
terzi. Per le quali ragioni può senz’altro
pervenirsi alla conclusione che, nell’ambito
di tali più contenute funzioni, nessuna
censura possa essere mossa all’ing. Cocco,
tale da indurre ad una sua affermazione di
responsabilità.
A ciò, tuttavia, deve aggiungersi che, ai
sensi dell’art. 45 del Regolamento comunale
concernente l’organizzazione degli uffici,
l’ing. Cocco è stato preposto alla direzione
del servizio dei lavori pubblici: pertanto
su di lui incombevano certamente compiti di
vigilanza ed impulso sulle opere pubbliche
in corso. Tale conclusione discende
certamente anche dalla forza precettiva
dell’art. 7 della L. n. 109/1994 che ha
disciplinato, per grandi linee, le nuove
funzioni del responsabile del procedimento;
ma poiché, come si è detto, tale
precettività, in attesa dell’emanazione del
regolamento attuativo, era assai limitata,
deve ritenersi che detti compiti di
vigilanza e di impulso dovessero (e debbano
ora) essere desunti alla stregua degli
ordinari principi che regolano l’assetto
dell’apparato amministrativo dell’ente
locale
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Sardegna,
sentenza 20.03.2009 n. 593 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
NEWS |
APPALTI SERVIZI: MANOVRA
BIS/ Partecipate al
test sopravvivenza. Mantenimento della
gestione dei servizi legato a efficienza e
dimensioni.
La strategia dei piccoli Comuni che entro il
2012 devono chiudere le società o trovare
strade per tenerle in piedi.
Entro la fine del 2012 i piccoli comuni
devono chiudere le loro società partecipate
o definire scelte strategiche che consentano
di mantenerle operative. Il Dl 138/2011 e la
legge 148/2011 di conversione hanno
modificato le regole su liquidazione delle
società e cessione delle altre
partecipazioni da parte dei comuni con
popolazione sotto 30mila abitanti (articolo
14, comma 32, della legge 122/2010),
fissando come nuova scadenza il 31.12.2012.
Agli enti restano tuttavia due possibilità
per consentire alle controllate di
proseguire nella gestione dei servizi
affidati. La prima deroga si fonda sulla
sussistenza di parametri di efficienza
economico-finanziaria degli organismi
partecipati, che devono avere, anche qui con
scadenza anticipata al 31 dicembre 2012, il
bilancio in utile negli ultimi tre esercizi
e che non devono aver subito nei precedenti
esercizi riduzioni di capitale conseguenti a
perdite di bilancio o perdite che abbiano
comportato ripiani da parte dei soci
pubblici.
La seconda possibilità per evitare la
liquidazione è legata a un parametro
dimensionale: la società deve essere
costituita da comuni la cui popolazione
complessiva superi i 30mila abitanti e la
partecipazione al capitale sociale deve
essere paritaria o proporzionale al numero
degli abitanti. Su questo punto le
amministrazioni hanno un adeguato margine
per verificare se i flussi demografici hanno
elevato o diminuito il numero dei residenti
(anche in forza del censimento di
quest'anno), potendo elaborare strategie che
consentano anche di aprire la compagine
societaria ad altri comuni. Un percorso del
genere, tuttavia, dovrebbe essere supportato
da un adeguato piano industriale, tale da
evidenziare il vantaggio per tutti i soci e
per il potenziamento della stessa società.
Se la società può essere mantenuta in
attività, i comuni devono in ogni caso
verificare se essa può proseguire nella
gestione dei servizi affidati, in base alle
nuove norme sulla cessazione delle gestioni
esistenti (articolo 4, comma 33, del Dl
138/2011), che risultano particolarmente
restrittive e limitanti per gli organismi in
house.
Il comma 32 dell'articolo 14 della legge
122/2010 ha subito numerosi interventi del
legislatore, tanto che con il milleproroghe
2011 (legge 10/2011) la scadenza per le
dismissioni era stata portata al 31.12.2013 e con il decreto sviluppo (legge
106/2011) è stata eliminata la parte della
disposizione che rimetteva la sua attuazione
a un decreto ministeriale.
Tuttavia nella parte della disposizione
relativa alla razionalizzazione delle
partecipazioni da parte dei comuni con
popolazione tra 30mila e 50mila abitanti è
rimasta la scadenza del 31 dicembre 2011.
Tali enti, pertanto, entro fine anno
potranno detenere la partecipazione a una
sola società. La prossimità del termine
obbliga le amministrazioni comunali
interessate a definire in tempi molto rapidi
una strategia, che può comportare soluzioni
diverse, come ad esempio l'incorporazione
per fusione o la costituzione di una
holding. La rilevanza dei processi di
dismissione e di razionalizzazione delle
partecipazioni è ora rafforzata dalla
previsione contenuta nel comma 28
dell'articolo 16 della manovra, nel quale è
previsto che il prefetto accerti che gli
enti territoriali interessati abbiano
attuato, entro i termini stabiliti, le
operazioni di liquidazione delle società con
bacino di riferimento sotto i 30mila
abitanti e la rimodulazione degli assetti di
controllo in un'unica referenza per i comuni
tra 30mila e 50mila abitanti.
Qualora le
scadenze non siano rispettate, il prefetto
potrà assegnare agli enti interessati un
termine perentorio entro il quale
provvedere, ma in caso di ulteriore
inadempienza, scatteranno le procedure per
la nomina di un commissario ad acta. Stessa
procedura anche per la soppressione dei
consorzi di funzioni tra gli enti locali,
prevista dall'articolo 2 della legge
191/2009 anch'essa ricondotta al termine del
31.12.2011
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI: Affidamenti
a miste da chiudere a giugno.
Piccoli comuni chiamati a elaborare entro
pochi mesi una strategia complessiva per
disegnare il futuro delle proprie società
partecipate.
Il comma 32 dell'articolo 4 del
Dl 138/2011 prevede che entro il 31.03.2012 cessino gli affidamenti diretti a
società in house oltre i 900mila euro di
valore e che entro il 30.06.2012 cessino
gli affidamenti a società miste, nelle quali
non ci sia stata la contestuale attribuzione
al privato della qualità di socio e di
specifici compiti operativi.
I due termini individuati per il periodo
transitorio relativo alle gestioni in essere
dei servizi pubblici con rilevanza economica
sono antecedenti rispetto a quella
individuata dal comma 32, il quale prevede
la disciplina per la liquidazione delle
società partecipate dai comuni con
popolazione sotto i 30mila abitanti, con
attuazione obbligatoria entro il 31.12.2012.
Accertata la rilevanza economica del
servizio pubblico affidato e rilevato che
non rientra tra quelli esclusi (ad esempio
servizio idrico, farmacie, distribuzione del
gas) dall'articolo 4 della manovra, i comuni
dovranno definirne il dimensionamento
economico annuo. Qualora, infatti,
l'affidamento sia a una società con le
caratteristiche dell'in house e il valore
del singolo servizio su base annua non
superi i 900mila euro, la gestione in essere
potrà proseguire sino alla sua naturale
scadenza.
Nell'ipotesi in cui una società risulti
affidataria di più servizi, la valutazione
rispetto al parametro economico dovrà essere
fatta per ogni singola attività. Qualora
invece l'ente locale abbia affidato il
servizio a una società mista, nella quale al
socio privato non siano state
originariamente assegnate con la gara
specifiche attività, la mancanza della
combinazione è presupposto sufficiente per
far venire meno l'affidamento in essere a
metà 2012.
Il quadro normativo riconduce poi tutte le
altre tipologie di affidamenti impropri di
servizi pubblici con rilevanza economica
alla scadenza prevista per quelli in house
(31.03.2012).
Rientrano anzitutto in questa categoria gli
affidamenti a società a capitale interamente
pubblico da parte di enti non soci (quindi
non in possesso di uno degli elementi
necessari per l'esercizio del controllo
analogo), così come quelli a società che non
hanno le caratteristiche dell'in house
(assenza di strumenti che garantiscano il
controllo analogo, attività prevalentemente
svolta dalla società a favore di soggetti
non soci).
Tra le situazioni critiche si annoverano
anche gli affidamenti a società miste nelle
quali il socio privato non sia stato scelto
con gara. Una volta vagliata la
sostenibilità (o meno) di soluzioni che
consentano il mantenimento delle gestioni in
essere o che richiedano nuovi affidamenti, i
comuni di minori dimensioni dovranno
verificare se l'eventuale nuovo o
trasformato modello societario soddisfi i
parametri di efficienza economica o
dimensionale previsti comma 32, potendo
quindi proiettare il piano industriale del
soggetto gestore oltre la fine del 2012
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI: L'«in
house» cambia lo statuto.
La nuova disciplina di riferimento per i
servizi pubblici locali con rilevanza
economica presenta alcuni profili critici in
relazione alla gestione degli affidamenti a
società in house, date le regole molto più
restrittive di quelle comunitarie. Rispetto
all'articolo 23-bis della legge 133/2008, la
disciplina contenuta nell'articolo 4 del Dl
138/2011 ha un'importante differenza: non
prevede per le società affidatarie in house
la possibilità di mantenere la gestione
esistente sino alla scadenza naturale,
cedendo almeno il 40% del capitale sociale a
un socio privato operativo, scelto con gara.
Il nuovo dato normativo impone agli enti
soci di sviluppare un percorso più
complesso. Anzitutto le amministrazioni
devono approvare la modificazione dello
statuto della società, per la sua apertura a
soggetti privati nei termini di
partecipazione minima previsti dalla nuova
disciplina. Il passaggio successivo è la
scelta del socio privato, mediante una
procedura di gara che avrà come oggetto
l'assegnazione delle quote o azioni (per
almeno il 40% del capitale sociale) e
l'attribuzione di specifici compiti
operativi.
In questo quadro, la società mista deve
essere configurata come gestore del servizio
pubblico locale sulla base di un nuovo
affidamento, fondato su un piano industriale
che valorizza la partnership con il socio
privato.
Un simile percorso è facilmente gestibile
per i servizi pubblici dei quali gli enti
locali sono sia titolari sia affidanti (ad
esempio illuminazione pubblica, servizi
cimiteriali), mentre risulta più complesso
quando il soggetto affidante sia l'autorità
d'ambito (o l'organismo che alla stessa deve
succedere in funzione della soppressione
delle stesse autorità, obbligatoria entro il
31 dicembre di quest'anno). In tale seconda
ipotesi, infatti, la scelta del modello
gestionale deve essere definita dagli enti
locali che appartengono all'ambito
territoriale ottimale in accordo con il
soggetto pubblico responsabile
dell'affidamento.
Le norme contenute nell'articolo 4 della
manovra limitano le prospettive per il
mantenimento in operatività delle società in
house ai casi in cui queste siano
affidatarie di servizi pubblici con
rilevanza economica di valore inferiore ai
900mila euro annui.
Tuttavia le affidatarie dirette hanno
un'ultima chance, rappresentata dalla
possibilità di concorrere, in deroga al
divieto generale di affidamento di servizi
ulteriori stabilito dal comma 33, concorrere
su tutto il territorio nazionale alla prima
gara successiva alla cessazione del
servizio, svolta mediante procedura
competitiva a evidenza pubblica, avente a
oggetto i servizi da essi forniti (come
stabilito dall'ultimo periodo dello stesso
comma).
Questa opzione, tuttavia, è esercitabile
solo qualora un ente locale affidante di un
servizio pubblico rientrante nel panel di
quello gestito dall'affidataria in house
decida di indire (comunque in tempi
compatibili con la scadenza delle gestioni
esistenti) una gara aperta agli operatori di
settore, con i quali l'affidataria diretta
dovrebbe confrontarsi
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Revisori
ok se nominati dalla Corte dei conti.
Nonostante sia un elemento chiave del
sistema dei controlli, il ruolo dei revisori
degli enti locali si segnala per alcuni
punti di debolezza.
Il primo è il criterio
di nomina: che i revisori vengano eletti dal
consiglio non garantisce autonomia di
giudizio. Anche il fatto che il mandato sia
triennale e rinnovabile una volta condiziona
l'operato dell'organo. Altrove il mandato
dura 5 o 6 anni e non è immediatamente
rinnovabile, mentre non vige peraltro la
successiva esclusione in eterno, come qui.
Un secondo limite è relativo alla
preparazione professionale: del resto, se si
viene scelti perché amici del sindaco «è più
importante essere preparati o fedeli?». A
voi la risposta. Inoltre, dato il limite
degli incarichi ottenibili per questa
strada, e anche il modesto compenso, a cosa
serve prepararsi? Si tratta di avere uno o
due incarichi e per un periodo di tempo
limitato: una prospettiva che non rende
sostenibile un serio investimento in
formazione.
Terzo nodo è il funzionamento dell'organo.
L'ordinamento prevede pesanti compiti per i
revisori, ma la normativa non garantisce
loro un supporto adeguato e indipendente. In
pratica, i dati e le informazioni provengono
dagli uffici dell'ente (i quali dovrebbero
essere il principale oggetto di controllo) e
non vi è modo di fare altrimenti, visto che
si è privi di una propria dotazione
organica.
A queste problematiche il governo prova a
trovare soluzione, prevedendo che i revisori
non vengano più nominati dai consigli, bensì
estratti a sorte da apposite liste su base
regionale (per gli enti locali) e da una
lista ad hoc (per le regioni).
La norma, inquadrata in una manovra in cui
spicca un capitolo sulle liberalizzazioni,
non difetta certo di originalità: mai
nessuno, per garantire merito e
professionalità, era arrivato a sostenere il
criterio della estrazione a sorte.
Che dire? Ci auguriamo di cuore che,
sull'onda del probabile successo di questa
innovativa teoria liberista, la pratica non
venga estesa ad altre categorie "protette",
quale quella degli iscritti all'ordine dei
medici («Ha un tumore? Mi spiace, è stato
estratto un dentista...») o per la selezione
dei calciatori della nazionale.
In linea con lo spirito delle
liberalizzazioni, peraltro, è anche la
scelta delle liste regionali. Il
sottoscritto, fiorentino, in ossequio a
questa innovativa frontiera della libertà
economica, potrà continuare ad ambire a fare
il revisore al comune di Londra o di
Barcellona ma, ahimè, gli sarà preclusa, per
legge, la possibilità di essere prescelto
nel comune di La Spezia o di Bologna.
Interessanti anche i requisiti individuati
per entrare negli elenchi, tra i quali
spicca l'anzianità di iscrizione al registro
dei revisori legali (per poter essere
estratti nei comuni più grandi) e quello di
avere già svolto la funzione di revisore in
un ente locale per essere iscritto
nell'elenco (così da fugare il rischio che
un giovane possa ambire a tali incarichi).
Bene, peraltro, che i revisori siano
previsti anche per le Regioni, ma perché a
questi elenchi hanno accesso solo i revisori
legali dei conti e non anche gli iscritti
all'ordine dei dottori commercialisti ed
esperti contabili come negli enti locali?
Condividiamo l'idea che i revisori debbano
avere una professionalità specifica e
ritrovarsi in un apposito registro. È
fondamentale, però, che siano scelti in base
a criteri di merito e competenza, che ne
assicurino l'indipendenza. Pertanto è
necessario che siano nominati da un ente
terzo, preferibilmente dalla Corte dei
conti. L'estrazione a sorte è una opzione
grottesca, mortifica la professionalità ed è
destinata a squalificare una funzione di
controllo essenziale
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: MANOVRA
BIS/ Alleanze a ostacoli per 5mila Comuni
costretti a «sposarsi». Entro sei mesi i
Consigli dei mini-enti devono indicare alla
Regione con chi vogliono unirsi.
«A Cerlongo si parla come a Guidizzolo o
a Ceresara», più che come a Goito,
informava l'anno scorso la Gazzetta di
Mantova per spiegare una complicata vicenda
(per chi non è del posto) di frazioni
intenzionate a cambiare Comune, e di Comuni
incerti sulla Provincia a cui appartenere «sul
crinale fra Mantova e Brescia».
Con la crisi del debito sovrano e gli occhi
del mondo puntati sui rendimenti dei nostri
titoli di Stato, campanilismi come questi
vanno consegnati alle tradizioni locali. La
manovra-bis pubblicata sulla «Gazzetta
Ufficiale» di venerdì punta dritto sulla
"semplificazione" della Pubblica
amministrazione locale, imponendo
un'articolata ricetta di quasi-fusioni fra i
Comuni sotto i mille abitanti e di gestioni
associate obbligatorie per quelli che
superano i mille residenti ma non arrivano a
5mila.
Obiettivo dichiarato, tagliare il numero di
amministratori locali, con un complesso di
misure che cancella 32mila posti a partire
dal prossimo turno amministrativo, e
raggiungere economie di scala che facciano
risparmiare nella gestione dei servizi
pubblici. Ce la farà? A giudicare dalle
prime reazioni, tra minacce di ricorsi alla
Corte costituzionale e manifestazioni che
praticamente in tutte le Regioni hanno visto
sfilare i sindaci anche in pieno agosto,
fino al centinaio di primi cittadini
piemontesi che venerdì sono saliti a Pian
del Re per "salutare" i vertici
leghisti impegnati nel rito dell'ampolla.
A ostacolare il cammino delle nuove regole
verso l'applicazione concreta, però, non
sono tanto le questioni di Montecchi e
Capuleti che popolano il territorio
italiano, quanto piuttosto il fatto che la "semplificazione"
è nell'obiettivo della legge ma non nel
meccanismo pensato per attuarla.
Nella giostra di Unioni e associazioni
obbligatorie entrano 5.683 Comuni, il 70,2%
del totale, cui si aggiungono 1.192 enti fra
5mila e 10mila abitanti che perderanno due
consiglieri. Se gli abitanti del Comune non
arrivano a quota mille, il suo destino è
quello di confluire in un'Unione di almeno
5mila abitanti, soglia che scende a 3mila
quando l'ente è appartenuto a una Comunità
montana. L'Unione, soggetta al Patto di
stabilità dal 2014, deve gestire tutte le
attività e i servizi pubblici locali, fare
il bilancio e in pratica assorbire il ruolo
prima svolto singolarmente dai Comuni
partecipanti, i quali perdono la Giunta e
tre consiglieri comunali e si limita ai
poteri d'indirizzo nei confronti
dell'Unione.
Il cambio di rotta rispetto alla gestione
attuale è drastico, come dimostra la
complessità della fase di passaggio: i
Comuni devono decidere subito a quali vicini
unirsi, e in sei mesi devono deliberare in
consiglio e inviare alla propria Regione la
proposta di aggregazione.
La Regione, dopo aver sciolto il probabile
rebus di aggregazioni che le arriva dal
territorio, istituisce l'ordinamento delle
Unioni, che iniziano a scattare dalle prime
elezioni successive al 13.08.2012: quando il
primo Comune arriva al voto, con un effetto
domino fa decadere le Giunte anche negli
altri Comuni dell'Unione, dove quindi gli
assessori si vedrebbero tagliare il mandato
per le elezioni intervenute in un altro
Comune. Un passaggio ad alto rischio, in cui
il contenzioso è pressoché certo e gli esiti
per nulla scontati. Ammesso che lo scoglio
si superi, con le nuove Unioni a regime la
legge dello Stato potrebbe decidere che alle
elezioni successive si voti sia per il
consiglio del Comune sia per quello
dell'Unione, che in prima battuta è invece
composto dai sindaci e da due consiglieri
per ogni ente partecipante.
Un po' più semplice il percorso per i Comuni
che superano i mille residenti ma non i
5mila. In questo caso bisogna avviare entro
fine 2012 la gestione associata di tutte le
«funzioni fondamentali», dalla
burocrazia alla Polizia locale, dalla
viabilità ai servizi sociali, creando
alleanze che contino almeno 10mila
amministrati. Anche in questo caso i punti
interrogativi non mancano: a voler seguire
la lettera della legge, per esempio, i
Comuni dovrebbero associare il 70%
dell'amministrazione generale, con una
divisione che in termini pratici si fatica a
comprendere.
L'esperienza, poi, mostra che le gestioni
associate funzionano bene in alcuni settori,
Polizia locale in primis, ma spesso
zoppicano quando si tratta di mettere
insieme l'amministrazione generale, dagli
uffici tributi all'anagrafe. Dalle prossime
elezioni, anche questi enti dovranno
alleggerire Giunte e consigli (i dettagli
nel grafico qui sopra), e lo stesso accadrà
ai consigli dei Comuni fra 5mila e 10mila
abitanti.
L'obiettivo di questo enorme giro di
giostra, naturalmente, sono i risparmi.
Quelli sui «costi della politica», in
realtà, sono molto teorici, un po' perché
gettoni e indennità nei piccoli Comuni sono
ultraleggere (e spesso, soprattutto i
consiglieri, vi rinunciano), un po' perché
le nuove Unioni che sorgeranno
determineranno nuovi posti e nuove buste
paga, più "ricche" di quelle che
vanno a sostituire.
Più seria è la questione della
razionalizzazione per superare
un'architettura amministrativa troppo
frastagliata per essere efficiente. Il
compito, però, non è semplice. Per svolgerlo
occorre intervenire sulle strutture degli
uffici e sui punti di erogazione dei
servizi, ma sul punto la nuova norma non si
dilunga, preferendo concentrarsi su
consigli, giunte e regole politiche. Forse
perché parlare di 32mila posti da "politico
locale" tagliati è più efficace. Anche
se non si risparmia un euro
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: MANOVRA
BIS/ Gestioni associate senza regole.
PROBLEMI IRRISOLTI - Se le dimensioni dei
confinanti sono diverse non è chiaro come
procedere Mancano le sanzioni in caso di
inadempienza.
Assenza di indicazioni su quale forma di
gestione associata devono realizzare i
piccoli Comuni che confinano con altri di
maggiore dimensione; mancata previsione di
specifiche sanzioni per i municipi
inadempienti; cessazione delle forme di
gestione associata a cui i piccolissimi
Comuni (quelli fino a 1.000 abitanti)
attualmente partecipano; possibilità che il
presidente dell'Unione sia un consigliere di
minoranza: possono essere così sintetizzate
le principali criticità delle nuove regole
sulla gestione associata. Sicuramente alcune
delle anomalie maggiori contenute nel testo
iniziale sono state corrette: ma ne
rimangono molte e di rilevanti.
I centri con meno di 1.000 abitanti devono
dare vita alle Unioni o a convenzioni per la
gestione di tutte le funzioni e i servizi.
Il legislatore non ha però previsto che cosa
fare nell'ipotesi in cui uno di questi non
confini con altri che hanno la stessa
ridotta dimensione e quelli limitrofi -con
popolazione maggiore e che quindi non sono
obbligati a dare vita alla gestione
associata di tutte le proprie attività- non
vogliano aderire a queste Unioni.
Lo stesso problema si pone per i Comuni con
popolazione inferiore a 5.000 abitanti che
confinano solo con enti più grandi. È
sicuramente vero tutti questi potrebbero
dare corso a convenzioni e che per esse non
è previsto il vincolo di essere confinanti.
Ma quanto possono essere efficienti queste
gestioni?
Il testo finale della manovra non dispone, a
differenza delle previsioni contenute nel
decreto iniziale, la assai discutibile
istituzione di un nuovo soggetto giuridico,
quali dovevano essere le Unioni municipali.
Ma introduce una serie di modifiche alle
regole in vigore per le Unioni ordinarie. Ad
esempio, in quelle costituite dai Comuni
fino a 1.000 abitanti il presidente può non
essere un sindaco, essendo sufficiente
essere consigliere rappresentante del Comune
nell'Unione, mentre questo vincolo sussiste
per le Unioni ordinarie. Questa previsione
risulta incomprensibile anche alla luce del
vincolo che i componenti la giunta di queste
Unioni devono necessariamente essere
sindaci.
I centri con mano di 5.000 abitanti devono
gestire in forma associata tutte le funzioni
fondamentali. Il legislatore, mentre
stabilisce l'obbligo, non irroga
direttamente alcuna sanzione per le
amministrazioni inadempienti. E non è
prevista alcuna sanzione neppure per le
Regioni che non istituiranno le Unioni dei
piccolissimi Comuni.
La manovra di Ferragosto prevede che i
municipi con meno di 1.000 abitanti
cesseranno di fare parte di tutte le forme
di gestione associata a cui oggi
partecipano, come conseguenza automatica e
immediata dell'avvio delle nuove Unioni. Il
che risulta difficilmente comprensibile,
oltre a sollevare numerosi problemi di
applicazione e a limitare l'autonomia degli
enti: tra questi, per segnalarne uno, i
piccolissimi Comuni che hanno attualmente il
segretario in convenzione con altri centri
dovranno necessariamente mettersi insieme,
anche per questa attività, con l'ente o gli
enti con i quali danno vita all'Unione o
alla convenzione
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011
- tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nuovo piano
casa, tutto pronto per non replicare il flop
del primo. Ristrutturazioni al via dopo
l'ultima finestra per modificare le
disposizioni del dl sviluppo.
Traguardo più vicino per il rilancio
dell'edilizia. L'ultima versione del piano
casa, introdotta dal governo con il decreto
sviluppo, sembra ormai pronta a decollare. I
termini concessi alle amministrazioni locali
per non far scattare le deroghe in materia
di urbanistica, prg, ambiente ecc. previste
dall'intesa stato-regioni sono ormai
scaduti, e quindi i piani possono essere
attuati.
L'ultima finestra per mettere in
atto e/o modificare le disposizioni
contenute nel dl 70/2011 si è chiusa l'11.09.2011, in seguito a quanto previsto
dall'art. 5, commi da 9 a 14, del decreto,
che ha introdotto una normativa nazionale
quadro per la riqualificazione delle aree
urbane degradate. Sostanzialmente la norma
ha posto le basi per l'avvio del cd. «piano
per la città» con la previsione, a regime,
di disposizioni finalizzate a un concreto
processo di riqualificazione urbana
accompagnato da incentivi e dalla
semplificazione di alcune procedure.
Le disposizioni per il rilancio
dell'edilizia contenute nel dl 70/2011 fanno
seguito al piano casa 2, il quale aveva
previsto, attraverso un protocollo di intesa
tra stato e regioni stilato lo scorso aprile
2009, l'intervento da parte delle regioni
stesse al fine di regolamentare la
disciplina introdotta dal governo. Tutto
questo ha generato un vorticoso proliferare
di leggi e regolamenti regionali che, in
aggiunta alle ultime disposizioni introdotte
dal dl 70/2011, ha creato non poca
confusione circa l'individuazione dei
corretti ambiti in cui è possibile operare
all'interno delle amministrazioni locali per
fruire delle agevolazioni previste dal
governo.
Per esempio, Friuli-Venezia Giulia, Toscana
e Umbria hanno subordinato la realizzazione
degli interventi al miglioramento della
sicurezza antisismica ovvero della
sostenibilità energetico-ambientale. Altre
regioni, come la Puglia, il Lazio e il
Piemonte, hanno vietato gli ampliamenti in
alcune zone di pregio, su immobili
vincolati, in aree sottoposte a vincoli e
fasce di rispetto costiere o ad alta
pericolosità idraulica e geomorfologia.
Da altro punto di vista si può, inoltre,
constatare che la maggior parte delle
regioni ha provveduto a modificare la
normativa emanata con una serie di
provvedimenti attuativi (circolari
interpretative e delibere), nonché con
ulteriori leggi regionali, alcune delle
quali hanno riscritto integralmente la
disciplina introdotta (es. Piemonte) al fine
di facilitarne l'applicabilità; altre
(Marche, Campania, Umbria e Liguria) hanno
invece «allargato le maglie» del piano casa
2 o accresciuto gli incentivi in modo da
poterne rilanciare l'utilizzo; altre ancora
hanno prorogato le scadenze del piano casa
(Umbria, Campania, Marche, Sardegna,
Toscana).
Il piano casa 2. Lo scorso aprile 2009, il
governo aveva avviato alcune misure per il
rilancio del settore edilizio (cd. piano
casa 2).
In particolare, nell'intesa raggiunta in
sede di Conferenza stato-regioni dell'01.04.2009 le amministrazioni locali si
erano impegnate ad approvare proprie leggi
volte:
- a regolamentare interventi per migliorare
la qualità architettonica e/o energetica
degli edifici entro il limite del 20% della
volumetria esistente di edifici residenziali
uni-bi familiari;
- a disciplinare interventi straordinari di
demolizione e ricostruzione con ampliamento
per edifici a destinazione residenziale
entro il limite del 35% della volumetria
esistente, con finalità di miglioramento
della qualità architettonica e
dell'efficienza energetica.
Nella stessa intesa, il governo si era
impegnato a emanare un decreto-legge con
l'obiettivo di semplificare alcune procedure
di competenza esclusiva dello stato, al fine
di rendere più rapida ed efficace l'azione
amministrativa di disciplina dell'attività
edilizia.
In base all'intesa, in pratica, le regioni
si erano impegnate ad approvare entro e non
oltre 90 giorni proprie leggi che dovevano
prevedere alcune tipologie di interventi
edilizi, con l'obiettivo di migliorare la
qualità architettonica e/o energetica degli
edifici.
Anche se con tempi diversi, pertanto, tutte
le regioni (a eccezione della provincia
autonoma di Trento) hanno disciplinato la
materia, interpretando in vario modo
l'intesa del 1° aprile 2009: alcune hanno
ampliato i criteri definiti nell'intesa con
il governo, prevedendo ulteriori fattispecie
di edifici oltre a quelli residenziali, per
esempio edifici agricoli o produttivi non
utilizzati. Emblematici sono gli esempi
sopra richiamati delle regioni
Friuli-Venezia Giulia, Toscana, Umbria,
Puglia, Lazio, Piemonte.
---------------
Il
governo mette in campo buoni propositi. È la
risposta locale che tarda ad arrivare.
In aggiunta a quanto stabilito dal piano
casa, il dl 70/2011, così come convertito in
legge 12.07.2011 n. 106, all'art. 5,
comma 9, ha previsto da parte delle regioni
l'approvazione, entro 60 giorni dall'entrata
in vigore della legge di conversione
(avvenuta lo scorso 13.07.2011), di
proprie leggi al fine di incentivare la
razionalizzazione del patrimonio edilizio,
nonché di riqualificare le aree urbane
degradate in cui siano presenti «funzioni
eterogenee e tessuti edilizi disorganici o
incompiuti nonché edifici a destinazione non
residenziale dismessi o in via di
dismissione ovvero da rilocalizzare».
L'obiettivo era quello di fare in modo che
le amministrazioni locali dovessero tener
conto anche della necessità di favorire lo
sviluppo dell'efficienza energetica e delle
fonti rinnovabili. La normativa ha offerto
al riguardo la possibilità che tali azioni
potessero essere incentivate anche con
interventi di ricostruzione e demolizione.
Tali interventi dovrebbero prevedere:
- il riconoscimento di una volumetria
aggiuntiva come misura premiale;
- la possibilità di delocalizzare le
volumetrie in area o aree diverse;
- l'ammissibilità di modifiche di
destinazioni d'uso, purché compatibili o
complementari;
- la possibilità di modificare la sagoma in
caso di armonizzazione architettonica con
gli organismi edilizi esistenti.
La riqualificazione di aree urbane.
La
riqualificazione urbana di quartieri
degradati e aree dismesse tramite premi di
cubatura in deroga ai Prg è uno strumento
operativo già ampiamente presente nella
legislazione regionale attuativa del cd.
piano casa 2, in quanto rappresentava uno
dei punti per il rilancio del settore
edilizio previsto nell'intesa raggiunta in
sede di conferenza stato-regioni dell'01.04.2009.
In particolare, per la realizzazione degli
interventi di riqualificazione il dl 70/2011
ha introdotto alcune norme volte a
semplificare alcune procedure edilizie:
- decorso il termine di 60 giorni
dall'entrata in vigore della legge di
conversione del decreto e fino all'entrata
in vigore della normativa regionale nelle
regioni a statuto ordinario e speciale è
possibile richiedere il permesso di
costruire in deroga ai sensi dell'art. 14
del T.u. dell'edilizia (dpr n. 380/2001)
anche per il mutamento delle destinazioni
d'uso, fermo restando il rispetto degli
standard urbanistici, delle altre normative
di settore (sismica, sicurezza, antincedio,
igenico-sanitaria, efficienza energetica,
ambiente, beni culturali e paesaggio) (commi
11 e 12);
- decorso il termine di 120 giorni
dall'entrata in vigore della legge di
conversione del decreto e fino all'entrata
in vigore della normativa regionale nelle
regioni a statuto ordinario le disposizioni
statali sono immediatamente applicabili. In
tal caso il decreto prevede (comma 14) un
minimo di premialità garantito fissato:
a) nel limite massimo del 20% del volume
dell'edificio se a destinazione
residenziale;
b) nel limite massimo del 10% della
superficie coperta per gli edifici adibiti
ad uso diverso.
Resta fermo che tali limiti volumetrici
costituiscono un minimo garantito e non
condizionano la successiva attività
legislativa regionale.
Relativamente all'ambito di applicazione
della normativa il decreto esclude gli
edifici abusivi o siti nei centri storici o
in aree soggette a inedificabilità assoluta.
Gli interventi potranno, invece, essere
realizzati su immobili per i quali sia stato
rilasciato il titolo abilitativo edilizio in
sanatoria (comma 10).
Le semplificazioni.
Sempre nell'ambito del
piano città, sono state introdotte anche una
serie di semplificazioni procedurali, che,
diversamente dalle altre, hanno valenza
generale essendo rivolte a tutti gli
interventi edilizi e non solo a quelli di
riqualificazione.
In particolare, il dl 70/2011, all'art. 5,
comma 13, prevede che, decorsi 60 giorni
dall'entrata in vigore della legge di
conversione del decreto (ovvero dall'11.09.2011) e sino all'emanazione delle
leggi regionali, nelle regioni a statuto
ordinario si applicano le seguenti
disposizioni:
- ammissibilità del permesso di costruire in
deroga ai sensi dell'art. 14, dpr n.
380/2001 (T.u. edilizia) anche per il
mutamento di destinazione d'uso, purché si
tratti di destinazioni d'uso tra loro
compatibili o complementari;
- adozione e approvazione dei piani
attuativi conformi allo strumento
urbanistico generale in giunta comunale (in
luogo del consiglio comunale).
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Poche le
regioni puntuali.
L'11 settembre è scaduto il termine
assegnato alle regioni per i nuovi piani
casa, ma la maggioranza delle regioni non ha
ancora provveduto a dotarsi di una normativa
che adatti a livello territoriale i principi
fissati dal nuovo provvedimento
(ribattezzato piano città). Ed è difficile
che possano farlo in un breve lasso di
tempo.
La fotografia scattata attraverso la
ricognizione di ItaliaOggi Sette sui lavori
delle regioni non è, quindi, edificante e
sembra aprire le porte a un nuovo fallimento
del provvedimento ideato per rilanciare il
mercato immobiliare.
Le novità.
Il piano casa inserito nel
«decreto sviluppo» (decreto legge 70/2011)
allarga le maglie degli interventi per
superare le rigidità emerse nelle precedenti
edizioni. Così, tra le altre cose, viene
introdotta una premialità di almeno il 20%
sul volume dell'edificio, se a destinazione
residenziale, e del 10% per gli edifici a
uso diverso.
Come nelle prime versioni dei
piani casa, sono esclusi dagli interventi
gli immobili abusivi o situati nei centri
storici, ma non quelli che hanno ottenuto il
titolo abilitativo in sanatoria. Inoltre
vengono incentivate le operazioni di
abbattimento-ricostruzione dando inoltre più
libertà architettonica.
Lo stesso
provvedimento prevede che, entro 60 giorni
dall'entrata in vigore della legge 106/2011
di conversione del decreto (avvenuta il 13.07.2011), le regioni possono emanare
apposite leggi per interventi di
riqualificazione, prevedendo che le
demolizioni e ricostruzioni avvengano con
una volumetria premiale aggiuntiva, la
possibilità di delocalizzare le cubature in
aree diverse, l'ammissibilità di modifiche
alle sagome degli edifici. Se non lo fanno,
intervengono le disposizioni nazionali.
Nuove regole nel Lazio.
Tra le regioni che
hanno legiferato dopo il decreto sviluppo,
l'ultima in ordine di tempo è stata il
Lazio. Il 3 agosto il consiglio regionale ha
dato il via libera al disegno di legge che
modifica la legge regionale n. 21/2009. Il
provvedimento normativo si applica a tutti
gli edifici realizzati legittimamente (anche
quelli per i quali il titolo edilizio sia
stato rilasciato in sanatoria, compresi il
caso della formazione del silenzio assenso)
e a quelli non ultimati ma che abbiano
ricevuto il titolo abilitativo edilizio.
Tra
le principali novità rispetto alla legge
precedente c'è la sua validità anche nelle
zone agricole e in quelle più urbanizzate
delle aree naturali protette. Sono esclusi
gli insediamenti urbani storici, come
individuati dal piano territoriale
paesistico regionale, le aree di rischio
idrogeologico molto elevato, i casali e i
complessi rurali realizzati in epoca
anteriore al 1930, gli edifici costruiti
nelle aree del demanio marittimo.
Per gli
ampliamenti di edifici esistenti (ammessi in
aderenza o adiacenza rispetto al fabbricato
esistente, ma non in sopraelevazione) è
prevista la possibilità di monetizzare il
mancato rispetto degli standard urbanistici
nel caso sia impossibile realizzare le opere
di urbanizzazione secondaria necessarie,
possibilità invece esclusa per i cambi di
destinazione d'uso. I proprietari possono
ampliare fino al 20% e fino a 70 metri
quadri il proprio fabbricato, esclusi i
centri storici e le aree tutelate. Se i
lavori comportato l'impiego di fonti di
energia rinnovabile non inferiore a un
kilowatt, l'incremento di cubatura può
arrivare fino al 30%.
In caso di adeguamento
dell'intero edificio alla normativa
antisismica, le percentuali di ampliamento
variano a seconda della localizzazione degli
edifici stessi, con incrementi che possono
arrivare al 35%. Lo stesso limite del 20% è
previsto per gli edifici non residenziali,
per un massimo di 200 metri quadri per ogni
edificio. Nel caso di edifici con
destinazione ad attività produttive e
artigianali il limite è del 25%, per un
massimo di 500 metri quadri.
Puglia già a regime.
Il nuovo piano casa è
in vigore in Puglia già dal 2 agosto, data
di pubblicazione sul Bollettino Ufficiale
della legge regionale n. 21/2011 che
modifica e integra la n. 14/2009 «Misure
straordinarie e urgenti a sostegno
dell'attività edilizia e per il
miglioramento della qualità del patrimonio
edilizio residenziale». Il nuovo
provvedimento fissa al 31.12.2012 la
data limite per presentare la dia o la
richiesta di permesso di costruire per
realizzare gli interventi di ampliamento e
di demolizione e ricostruzione.
Per gli
interventi di ampliamento degli edifici
residenziali è confermato il limite del 20%
della volumetria complessiva e dei 200 metri
cubi. Sparisce, invece, il limite dei mille
metri cubi per la volumetria preesistenti.
Pertanto, anche gli edifici residenziali di
volumetria superiore ai mille metri cubi
potranno essere ampliati.
L'incremento
volumetrico può raggiungere i 350 metri cubi
a condizione che l'intero edificio, in
seguito dell'ampliamento, raggiunga un
punteggio minimo nei criteri di
sostenibilità fissati con la legge regionale
n. 13/2008. Fermo restando che sono
computabili solo i volumi legittimamente
realizzati, le volumetrie per le quali sia
stata rilasciata la sanatoria edilizia
straordinaria, sono ricomprese nella
volumetria complessiva esistente. Scompare
la condizione che prevedeva, nel caso in cui
fossero stati sanati degli ampliamenti, lo
scomputo della volumetria sanata, per cui le
volumetrie regolarizzate con un condono
concorrono al computo della volumetria
complessiva e, in definitiva,
dell'ampliamento.
Per gli interventi di
demolizione e ricostruzione è confermato il
limite del 35% di aumento di volumetria, ma
sparisce l'obbligo di coinvolgere
nell'intervento almeno il 75% del volume
complessivo. La legge precedente richiedeva
che gli edifici sui quali intervenire,
dovessero risultare accatastati entro il 31.03.2009: la condizione resta ma il limite
temporale viene cancellato.
La Toscana punta sulla semplificazione.
Più
limitati gli interventi in Toscana, che ha
puntato soprattutto sulla semplificazione
delle procedure e sulla rigenerazione
urbana. Tra le altre cose, viene dettagliata
la disciplina della Scia (Segnalazione
certificata di inizio attività), che si
affianca al permesso di costruire come
titolo edilizio, in luogo dei tre (Scia, superDia e permesso a costruire) previsti
dalla normativa nazionale.
La Regione ha
deciso, inoltre, di specificare gli
interventi finalizzati al riutilizzo e
recupero degli edifici con destinazione
d'uso produttiva (industriale o
artigianale), per i quali sono i Comuni a
stabilire incrementi massimi della
superficie utile lorda a titolo di premialità, comunque da collegarsi ad
aumenti della efficienza energetica e della
sostenibilità ambientale.
Quanto agli
obiettivi di rigenerazione urbana, i Comuni
dotati di un Piano strutturale possono
avviare la ricognizione delle aree
corredandola di specifiche schede sulle
condizioni di degrado presenti, sugli
obiettivi di riqualificazione che si
intendono conseguire, sui parametri di
riferimento per gli interventi e sugli
incrementi che non potranno superare
comunque il 35% della superficie utile lorda
esistente.
In Veneto sconti sui contributi di
costruzione.
La panoramica delle nuove leggi
regionali si conclude con il Veneto, che ha
prorogato al 30.11.2013 il termine per
la presentazione delle domande di
ampliamento, demolizione e ricostruzione. La
nuova legge regionale prevede uno sconto sul
contributo di costruzione per gli interventi
effettuati su edifici destinati a prima
abitazione e consente anche i lavori nei
centri storici, a patto che lo strumento
urbanistico non ponga vincoli di tutela e
preveda la possibilità di ristrutturazione
edilizia e urbanistica, nonché di
demolizione e ricostruzione.
È ammesso il
cambio di destinazione d'uso degli edifici,
a condizione che la nuova destinazione sia
consentita dalla disciplina di zona. La
norma concede un ulteriore premio
volumetrico del 15% per gli interventi che
prevedono la riqualificazione energetica
dell'intero edificio. Il bonus del 40% è
ammesso anche per le demolizioni e
ricostruzioni parziali. Anche in questo
caso, i Comuni sono chiamati a dare il loro
contributo: entro il prossimo 30 novembre
possono deliberare se e con quali modalità
consentire gli interventi. Dopo di che si
potrà intervenire in tutto il centro storico
limitatamente alla prima casa.
Valle d'Aosta in extremis.
L'ultimo giorno
disponibile è arrivata anche la legge della
Valle d'Aosta. Pur in assenza di scadenze
temporali nella vecchia normativa, la
regione ha deciso di intervenire per
attenuare alcune rigidità emerse. In linea
con quanto previsto dal dl sviluppo, ora
sono consentiti interventi di demolizione e
ricostruzione con aumento volumetrico fino
al 45%.
I cambi d'uso di unità immobiliari o
parti di ampliamento sono ammessi solo per
destinazioni previste dal piano regolatore.
Nel primo caso è richiesta la concessione
edilizia. La nuova legge regionale precisa
inoltre che l'ampliamento dell'edificio può
essere realizzato anche con più di un
intervento a condizione che non si superi il
limite del 20%
---------------
Ristrutturazioni,
incentivi a rischio tagli.
Chi ha intenzione di effettuare lavori in
casa farebbe bene ad attivarsi subito.
Infatti, tra le novità introdotte con
l'ultima manovra economica c'è la
prospettiva di un taglio lineare agli
incentivi se non saranno realizzati risparmi
di spesa su altre voci (in sostanza se entro
il 30.09.2013 non verranno adottati
provvedimenti legislativi in materia fiscale
e assistenziale riguardanti il riordino
della spesa in materia sociale).
Tra gli interventi interessati dagli taglio
figurano gli incentivi del 36% per le
ristrutturazioni e del 55% per la
riqualificazione energetica degli edifici
(articolo ItaliaOggi
Sette del 19.09.2011). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La sostanza dell’atto prevale sul
nomen iuris che la P.A. abbia inteso
utilizzare.
Secondo l’insegnamento della giurisprudenza
di questo Consiglio, l’atto amministrativo
va qualificato per il suo effettivo
contenuto e non già per la sola
qualificazione che l’autorità,
nell’emanarlo, eventualmente ed
espressamente gli conferisca: la sostanza
dell’atto prevale dunque sul nomen iuris
che la P.A. abbia inteso utilizzare (Cons.
Stato, Sez. IV, 12/12/2005, n. 7039; Cons.
Stato, Sez. IV, 22/11/2004, 7619; Cons.
Stato, Sez. V, 28/05/2009, n. 3284) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 16.09.2011 n. 5211 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Negato l’accesso a documenti di
natura privatistica in assenza del pubblico
interesse.
Non può garantirsi
l’accesso a contratti stipulati con aziende
private che non pongono in essere attività
di pubblico interesse.
Il principio è stato chiarito dal TAR
Lazio-Roma, Sez. III-bis, nella
sentenza 15.09.2011 n. 7296.
Nel caso di specie il collegio, da una
parte, richiama l’art. 22 L. 241/1990, nel
testo attualmente vigente, evidenziando il
punto in cui ammette il diritto di prendere
visione di documenti amministrativi detenuti
da una pubblica amministrazione intendendo
per tale anche il soggetto privato che per
la sua investitura abbia a svolgere attività
di pubblico interesse.
Dall’altro, circoscrive la portata del
diritto illustrandone i limiti distintivi
già individuati in altra sede dalla
giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. VI
09.03.2007, n. 1119), laddove è stato
riconosciuto l’accesso ai documenti dei
soggetti privati “solo in caso di
svolgimento di attività di interesse
pubblico e limitatamente agli atti
funzionalmente inerenti alla gestione di
interessi collettivi, per i quali sussiste
l’esigenza di garantire il rispetto del
principio di buon andamento, cui la
trasparenza è funzionale”.
Per tali ragioni è stato considerato
legittimo il diniego di accesso a
documentazione detenuta dall’Ente EUR s.p.a.
in quanto i contratti di cui la società
ricorrente intendeva ottenere la esibizione
inerivano ad accordi stipulati per la
realizzazione di alcune iniziative
(intrattenimenti musicali estivi) al di
fuori di ogni collegamento con interessi di
natura pubblicistica.
Infatti -il Collegio afferma- anche se alla
stessa EUR s.p.a. non può negarsi la
attribuzione di poteri di natura pubblica
allorquando agisce in tale veste, non
avviene altrettanto allorché il medesimo
Ente pone in essere attività riconducibile a
quella negoziale, a carattere
imprenditoriale (commento tratto da
www.diritto.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il silenzio rigetto alla domanda
di condono per un’opera abusiva non
esaurisce il procedimento.
La giurisprudenza è univoca nel ritenere che
in presenza di un’istanza di accertamento di
conformità o di condono, l'Amministrazione
non può adottare provvedimenti repressivi,
pena la violazione del principio di
economicità e coerenza dell'azione
amministrativa, non potendosi previamente
sanzionare ciò che potrebbe essere sanato
(Consiglio Stato, sez. IV, 06.07.2009 , n.
4335).
Anche la Sezione con recente sentenza ha
ribadito che l'ordine di demolizione
adottato in data successiva alla
presentazione della richiesta di
accertamento di conformità o di condono, in
assenza di preventiva determinazione su
quest'ultima, è illegittimo in quanto
l'amministrazione ha l'obbligo di
pronunciarsi su di essa prima di procedere
all'irrogazione delle sanzioni definitive
(TAR Sardegna, sez. II, 16.03.2011 n. 289).
Il silenzio-rigetto di cui all’articolo 16
della legge regionale 11.10.1985, n. 23, che
si forma dopo il sessantesimo giorno dalla
presentazione della domanda di accertamento
di conformità, non equivale a definizione
della domanda di sanatoria, ma costituisce
soltanto il presupposto per consentire
all’interessato di chiedere tutela,
attraverso l’impugnazione del silenzio
rigetto così formatosi, al fine di ottenere
un provvedimento espresso che accolga o
motivatamente respinga la richiesta di
sanatoria.
Non è conforme ai principi dell’ordinamento
che impongono la leale collaborazione fra
cittadino ed amministrazione che
un’Amministrazione pretenda di eludere il
dovere di pronunciarsi su una domanda del
cittadino di accertamento di conformità, a
fronte dell’obbligo di concludere il
procedimento con un provvedimento espresso,
come impone l’articolo 2 della legge
07.08.1990 n. 241.
Il cittadino ha il diritto di conoscere se
le opere realizzate siano, in tutto o in
parte, sanabili o meno e quali siano le
specifiche ragioni giuridiche ostative al
rilascio del titolo richiesto, anche al fine
di poter esperire i mezzi di tutela
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 14.09.2011 n. 926 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non sussiste una pregiudiziale
incompatibilità tra la destinazione agricola
di un'area e la sua utilizzazione a
parcheggio: la giurisprudenza
amministrativa, infatti, ha avuto occasione
di chiarire che la destinazione a zona
agricola di un'area, salva la previsione di
particolari vincoli ambientali o paesistici,
non impone un obbligo specifico di
utilizzazione effettiva in tal senso, avendo
solo lo scopo di evitare insediamenti
residenziali; essa, pertanto, non
costituisce ostacolo alla installazione di
opere che non riguardino l'edilizia
residenziale e che, per contro, si rivelino
per ovvi motivi incompatibili con zone
abitate e quindi necessariamente da
realizzare in aperta campagna.
Non è precluso al proprietario di un terreno
agricolo la “possibilità di sfruttamento
ulteriore e diverso da quello agricolo, ed
in particolare avendo riguardo ad
utilizzazioni intermedie rispetto all'uso
agricolo e quello edificatorio quali, ad
esempio, il parcheggio, la caccia, lo sport
e l'agriturismo.
Quanto alla non
utilizzabilità dell’area a fini diversi da
quelli agricoli, la Sezione si è già
pronunciata con la sentenza n. 178 del 2010,
nella quale ha evidenziato che “non
sussiste una pregiudiziale incompatibilità
tra la destinazione agricola di un'area e la
sua utilizzazione a parcheggio: la
giurisprudenza amministrativa, infatti, ha
avuto occasione di chiarire che la
destinazione a zona agricola di un'area,
salva la previsione di particolari vincoli
ambientali o paesistici, non impone un
obbligo specifico di utilizzazione effettiva
in tal senso, avendo solo lo scopo di
evitare insediamenti residenziali; essa,
pertanto, non costituisce ostacolo alla
installazione di opere che non riguardino
l'edilizia residenziale e che, per contro,
si rivelino per ovvi motivi incompatibili
con zone abitate e quindi necessariamente da
realizzare in aperta campagna (cfr., CdS,
Sez. V, 15.06.2001 n. 3178; TAR Veneto, Sez.
II, 31.10.2000 n. 1952 e Sez. III,
18.03.2002 n. 1108)”.
Anche la Corte di Cassazione è pacifica nel
ritenere che non è precluso al proprietario
di un terreno agricolo la “possibilità di
sfruttamento ulteriore e diverso da quello
agricolo, ed in particolare avendo riguardo
ad utilizzazioni intermedie rispetto all'uso
agricolo e quello edificatorio quali, ad
esempio, il parcheggio, la caccia, lo sport
e l'agriturismo" (cfr. Cass. SS.UU
10.11.2010 n. 22802, cass. n. 12862 del
2010; cass. n. 10280 del 2004)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 14.09.2011 n. 926 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI – Abbandono – Ordine di
rimozione e ripristino – Art. 192 d.lgs. n.
152/2006- Proprietari – Colpevolezza –
Accertamento.
L’articolo 192 del d.lgs. 152/2006 legittima
l’autorità amministrativa a ordinare la
rimozione dei rifiuti e il ripristino dello
stato dei luoghi nei confronti di chiunque
viola il divieto di abbandono dei rifiuti
medesimi e ciò, in solido con il
proprietario e con i titolari dei diritti
reali o personali di godimento dell’area, ai
quali tale violazione sia imputabile “a
titolo di dolo o colpa”.
La fattispecie di cui all’art. 192 è stata
quindi strutturata dal legislatore in
termini soggettivi, radicando solo sulla
presenza di colpevolezza del proprietario e
dei titolari dei diritti reali o personali
di godimento dell’area la loro concorrente
responsabilità: in difetto di accertamento
di una condotta colpevole di tali soggetti,
non è dato ricavare alcuna
responsabilizzazione per la rimozione e
l’avvio a smaltimento dei rifiuti (cfr.
Consiglio Stato, sez. V, 19.03.2009, n. 1612
e 25.08.2008, n. 40619) (TAR Emilia
Romagna-Parma,
sentenza 14.09.2011 n. 302 - link
a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Tassatività delle clausole di
esclusione.
Era prevedibile attendersi che la
giurisprudenza venisse chiamata a definire i
contorni del principio di tassatività delle
clausole di esclusione, come noto
recentemente introdotto con il decreto-legge
13.05.2011, n. 70 (c.d. decreto sviluppo).
Il TAR Veneto, con
sentenza 13.09.2011 n.
1376 infatti
stabilito l’illegittimità dell’esclusione di
una ditta nel caso in cui abbia presentato
una cauzione provvisoria di importo
insufficiente rispetto a quello richiesto
dalla lex specialis, ovvero una
cauzione incompleta, e non già assente,
visto che tale ipotesi di esclusione non è
contemplata dall’art. 46, comma 1-bis, del
D.Lgs n. 163/2006.
A ben guardare, il principio sancito dai
Giudici amministrativi, allo stato in linea
con il dettato normativo recentemente
innovato, probabilmente dovrà essere oggetto
di conferma o di rivisitazione una volta
attuato il disposto dell’art. 64, comma
4-bis, del D.lgs. 163/2006, secondo cui “I
bandi sono predisposti dalle stazioni
appaltanti sulla base di modelli
(bandi-tipo) approvati dall'Autorità, previo
parere del Ministero delle infrastrutture e
dei trasporti e sentite le categorie
professionali interessate, con l'indicazione
delle cause tassative di esclusione di cui
all'articolo 46, comma 1-bis. Le stazioni
appaltanti nella delibera a contrarre
motivano espressamente in ordine alle
deroghe al bando-tipo.”
In definitiva, nonostante il tenore
perentorio dell’art. 75 del D.lgs. 163/2006,
il quale impone che l'offerta sia corredata
da una garanzia, pari al due per cento del
prezzo base indicato nel bando o
nell'invito, sotto forma di cauzione o di
fideiussione, a scelta dell'offerente, i
Giudici veneti hanno ritenuto che, a seguito
dell’entrata in vigore dell’art. 46, comma
1, del codice dei contratti, la violazione
della predetta norma non determini
l’esclusione del concorrente, ma l’obbligo
della stazione appaltante di richiedere allo
stesso di integrare la cauzione.
Tuttavia è verosimile ritenere che i bandi
tipo, di cui all’art. 64, comma 4-bis, del
D.lgs. 163/2006, una volta emanati,
affronteranno la questione, facendo
definitiva chiarezza sul punto (commento
tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In caso di discordanza dei dati
del modulo di offerta per l’aggiudicazione
di un’opera per prezzi unitari prevale il
ribasso percentuale indicato in lettere.
La giurisprudenza ha avuto modo di
evidenziare che nel procedimento di
aggiudicazione di un appalto di opere
pubbliche con il sistema di offerta per
prezzi unitari, ai sensi dell’articolo 90
del D.P.R. 21.12.1999, n. 554, in caso di
discordanza fra i dati indicati nel modulo
di offerta e relativi sia al prezzo che alla
percentuale di ribasso, si deve dare
prevalenza al ribasso percentuale indicato
in lettere (C.d.S., sez. V, 17.09.2008, n.
4445), che costituisce il dato decisivo di
riferimento per la determinazione dei prezzi
unitari, consentendo sia l’identificazione
dell’offerta (art. 90, comma 6), sia la
correzione delle eventuali discordanze
(art.90, comma 79 (C.d.S., sez. V,
10.11.2003, n. 7134; 30.10.2003, n. 6767).
E’ stato anche evidenziato che le
disposizioni contenute nell’articolo 90 del
D.P.R. 21.12.1999, n. 554 delineano un
sistema volto a risolvere, nel rispetto dei
fondamentali canoni di certezza e
trasparenza delle operazioni di affidamento
degli appalti di lavori pubblici, ogni
incertezza derivante da un’offerta
articolata, qual è quella per prezzi unitari
per prevenire eventuali contestazioni circa
l’effettiva volontà della parte privata,
nell’ipotesi di discordanze tra le diverse
componenti dell’offerta (C.d.S., sez. VI,
11.07.2003, n. 4145) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 12.09.2011 n. 5095 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Password
di diritto a tutti i consiglieri.
I consiglieri hanno diritto di ottenere la
password per accedere alla visione del
programma di contabilità del Comune, e gli
uffici hanno il dovere di fornirla ai
richiedenti.
Così ha deciso il Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 08.09.2011 n. 5058, che ha riformato la
precedente sentenza del Tar Puglia-Bari, I,
n. 3859/2010, e ha stabilito un importante
principio sulle modalità del diritto di
accesso dei consiglieri.
Il caso riguardava una consigliera di
minoranza, che aveva chiesto la copia della
password di accesso al sistema informatico
del Comune relativo al programma di
contabilità. Il Comune non aveva risposto, e
la consigliera aveva proposto ricorso al Tar
contro il silenzio-rigetto. Il Tar l'aveva
però respinto, ritenendo persuasiva la tesi
del Comune che quel sistema informatico
poteva essere utilizzato solo per necessità
operative, e non aveva un profilo di
lettura.
La battagliera consigliera ha allora
proposto appello, che è stato accolto dal
Consiglio di Stato, per le seguenti
concatenate ragioni:
1. l'articolo 43, comma 2, del Testo unico
degli Enti locali stabilisce che: «I
consiglieri comunali e provinciali hanno
diritto di ottenere dagli uffici (...) tutte
le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all'espletamento del proprio
mandato»;
2. in conseguenza, i consiglieri possono
accedere a tutti gli atti e documenti e a
tutte le notizie e informazioni ivi
contenute, anche di tipo contabile, per un
miglior svolgimento del loro mandato
elettorale;
3. il programma di contabilità, anche se è
di carattere informatico, rientra nell'ampia
nozione di «documento», e a questo
programma può essere applicato il «profilo
di sola lettura»;
4. in conseguenza, i consiglieri hanno
diritto di ottenere la password del Comune
per accedere alla visione di un programma di
contabilità.
I giudici hanno analizzato la lettera e le
finalità della norma, e hanno puntualmente
applicato alla nuova fattispecie della
password il diritto dei consiglieri di
ottenere dagli uffici tutte le notizie e
tutte le informazioni in possesso dell'ente
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI:
Fino all’aggiudicazione
l’amministrazione può disporre la revoca del
bando di gara per concreti motivi di
interesse pubblico che ne rendano
inopportuna la prosecuzione.
Dopo aver indetto una gara per l’appalto
della manutenzione ordinaria delle aree a
verde pubblico e pubblicato il relativo
bando sulla Gazzetta Ufficiale pervenivano
ai competenti uffici del comune in causa i
plichi dei soggetti interessati alla gara.
Tuttavia, essendo necessario, secondo
l’amministrazione comunale, ampliare il
raggio di intervento il bando veniva
revocato. Gli appellanti contestano pertanto
la revoca dell’originaria gara per
l’affidamento della manutenzione ordinaria
delle aree a verde pubblico.
Giova al
riguardo, secondo i giudici del Consiglio di
Stato, rilevare che il primo comma dell’art.
21-quinquies della legge 07.08.1990, n.
241, al primo periodo, stabilisce che per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse
ovvero nel caso di mutamento della
situazione di fatto o di una nuova
valutazione dell’interesse pubblico
originario, il provvedimento amministrativo
ad efficacia durevole può essere revocato da
parte dell’organo che lo ha emanato ovvero
da altro organo previsto dalla legge,
aggiungendo al secondo periodo che la revoca
determina la inidoneità del provvedimento
revocato a produrre ulteriori effetti.
La
giurisprudenza ha avuto modo di chiarire,
continuano i giudici di Palazzo Spada, che,
secondo la predetta norma, tre sono i
presupposti che in via alternativa
legittimano l'adozione di un provvedimento
di revoca di un provvedimento amministrativo
ad efficacia durevole da parte dell'Autorità
emanante ovvero da altro organo previsto
dalla legge, cioè sopravvenuti motivi di
pubblico interesse, mutamento della
situazione di fatto e nuova valutazione
dell'interesse pubblico originario (C.d.S.,
sez. V, 18.01.2011, n. 283) e che deve
essere considerato legittimo il
provvedimento di revoca di una gara di
appalto, disposta in una fase non ancora
definita della procedura concorsuale, ancora
prima del consolidarsi delle posizioni delle
parti e quando il contratto non è stato
ancora concluso, motivato anche con
riferimento al risparmio economico che
deriverebbe dalla revoca stessa, ciò in
quanto la ricordata disposizione ammette un
ripensamento da parte della amministrazione
a seguito di una nuova valutazione
dell’interesse pubblico originario (C.d.S.,
sez. III, 13.04.2011, n. 2291).
Sempre
in tema di procedure ad evidenza pubblica è
stato evidenziato che fino a quando non sia
intervenuta l’aggiudicazione, rientra nel
potere discrezionale dell’amministrazione
disporre la revoca del bando di gara e degli
atti successivi, laddove sussistano concreti
motivi di interesse pubblico tali da rendere
inopportuna, o anche solo da sconsigliare,
la prosecuzione della gara, puntualizzando
che le ragioni tecniche nell’organizzazione
del servizio attinenti le modalità di presenziamento, il riassetto societario, la
volontà di provvedere in autoproduzione e
non mediante esternalizzazione, la necessità
di consentire attraverso tale scelta
organizzativa un maggior assorbimento di
personale in un quadro di attività
concertate in sede sindacale mirante alla
valorizzazione del personale interno, sono
tutti profili attinenti al merito
dell’azione amministrativa e di conseguenza
insindacabili da parte del giudice, in
assenza di palesi e manifesti indici di
irragionevolezza (C.d.S., sez. V, 09.04.2010,
n. 1997) (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 08.09.2011 n. 5050 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Non è necessario che i requisiti
e mezzi di partecipazione alla gara siano
già disponibili nel corso della procedura.
---------------
Le prescrizioni contenute nella "lex
specialis" della gara sono dirette ad
assicurare la trasparenza e l'imparzialità
dell'Amministrazione, nonché la parità di
condizioni tra i concorrenti, e devono
rispondere al comune canone di
ragionevolezza, in stretta relazione con i
richiamati principi.
Le clausole previste a pena di esclusione
vanno quindi interpretate seguendo il
criterio della stretta interpretazione, per
non ledere il contrapposto interesse alla
più ampia partecipazione dei concorrenti
alla procedura di gara.
Pertanto, di esse clausole va evitata
un'applicazione meccanica che contraddica,
alla luce delle specifiche circostanze del
caso concreto, la fondamentale ed immanente
esigenza di ragionevolezza dell'attività
amministrativa, finendo così per porsi in
contrasto con le stesse finalità di tutela
cui sono preordinati i generali canoni
applicativi delle regole della
contrattualistica pubblica.
Solo l'omessa allegazione di un documento o
di una dichiarazione previsti a pena di
esclusione può dunque considerarsi alla
stregua di un'irregolarità insanabile e,
quindi, non ne è permessa l'integrazione o
la regolarizzazione postuma; pertanto, alla
stazione appaltante è precluso sopperire,
con l'integrazione, alla totale mancanza di
un documento, mentre, ai sensi dell'art. 46,
d.lgs. n. 163/2006, deve ritenersi
consentita l'integrazione documentale
riguardante semplici chiarimenti di un
documento incompleto.
Una interpretazione finalistica e
teleologica delle disposizioni in tema di
requisiti di partecipazione alla gara, di
cui è espressione anche il principio di
avvalimento, porta a ritenere che, in sede
di gara, possa essere fornita la
dimostrazione in ordine al possesso, certo
ed incondizionato, al momento della stipula
del contratto e della successiva esecuzione,
dei requisiti e dei mezzi all'uopo
necessari.
Non è quindi necessario che i mezzi siano
già disponibili all'epoca della procedura,
mentre è invece necessario che nel corso
della procedura si dimostri che essi saranno
disponibili al momento dell'assunzione e
dell'esecuzione degli impegni negoziali.
Una diversa interpretazione che preveda
l'anticipazione al momento della procedura
del possesso dei mezzi, non è da considerare
effettuabile perché imporrebbe la
dispendiosa acquisizione di dotazioni
funzionali alla sola esecuzione dell'appalto
prima ancora che vi sia certezza in ordine
all'aggiudicazione, mentre l'interesse
dell'Amministrazione a non prendere in
considerazione offerte prive del crisma
della necessaria serietà deve ritenersi
soddisfatto dalla piena dimostrazione che
detti requisiti saranno certamente
disponibili al tempo all'uopo rilevante,
ossia al momento dell'effettiva contrazione
del vincolo negoziale (Consiglio Stato, sez.
VI, 23.12.2005, n. 7376).
---------------
Le prescrizioni
contenute nella "lex specialis" della
gara sono dirette ad assicurare la
trasparenza e l'imparzialità
dell'Amministrazione, nonché la parità di
condizioni tra i concorrenti, e devono
rispondere al comune canone di
ragionevolezza, in stretta relazione con i
richiamati principi.
Le clausole previste a pena di esclusione
vanno quindi interpretate seguendo il
criterio della stretta interpretazione, per
non ledere il contrapposto interesse alla
più ampia partecipazione dei concorrenti
alla procedura di gara.
Pertanto, di esse clausole va evitata
un'applicazione meccanica che contraddica,
alla luce delle specifiche circostanze del
caso concreto, la fondamentale ed immanente
esigenza di ragionevolezza dell'attività
amministrativa, finendo così per porsi in
contrasto con le stesse finalità di tutela
cui sono preordinati i generali canoni
applicativi delle regole della
contrattualistica pubblica.
Solo l'omessa allegazione di un documento o
di una dichiarazione previsti a pena di
esclusione può dunque considerarsi alla
stregua di un'irregolarità insanabile e,
quindi, non ne è permessa l'integrazione o
la regolarizzazione postuma; pertanto, alla
stazione appaltante è precluso sopperire,
con l'integrazione, alla totale mancanza di
un documento, mentre, ai sensi dell'art. 46,
d.lgs. n. 163/2006, deve ritenersi
consentita l'integrazione documentale
riguardante semplici chiarimenti di un
documento incompleto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.09.2011 n. 5040 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Partecipazione alle gare,
dichiarazione dell'amministratore di fatto
ok.
Devono essere inclusi nel novero dei
soggetti tenuti a rendere la dichiarazione
sul possesso dei requisiti generali per la
partecipazione alle gare di appalto quelle
persone in grado di impegnare la società
verso i terzi ed i procuratori ad negotia
laddove, a dispetto del nomen, l'estensione
dei loro poteri conduca a qualificarli come
amministratori di fatto. L’art. 38 del
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, prevede che la
dichiarazione sul possesso dei requisiti
generali per la partecipazione alle gare di
appalto debba essere resa dagli
amministratori muniti di potere di
rappresentanza.
In tale dizione, a parere del Collegio,
devono essere ricompresi tutti i soggetti
che possiedono poteri gestionali di ampiezza
tale che le conseguenze dei loro personali
comportamenti possano trasmettersi in capo
all’impresa partecipante alla gara.
La ratio della previsione di cui al
suddetto art. 38 é quella di evitare che
alle gare per l’affidamento di contratti
pubblici partecipino imprese la cui gestione
possa essere inquinata da comportamenti
antigiuridici da parte di coloro che
concorrono ad assumerne le decisioni, di
talché la suddetta partecipazione metta a
rischio sia il rispetto delle regole
fondamentali dell’evidenza pubblica, sia la
corretta esecuzione del contratto una volta
affidato.
E se tale è la ratio della norma in
questione, non vi è ragione di escludere dal
suo ambito di applicazione quei soggetti
che, pur essendo qualificati come meri
procuratori dell’impresa partecipante,
tuttavia possiedano poteri gestori ampi al
punto di poter influire sulle decisioni
aziendali.
Così opinando non viene consentita
un’integrazione postuma della legge di gara
come la ricorrente denuncia, ma si assume
un’interpretazione della stessa secondo un
canone di buona fede che vincola non solo
l’amministrazione ma anche il privato, e si
impone alle parti quale obbligo di lealtà.
Il rispetto di tale obbligo impone di
evitare le interpretazioni cavillose o
meramente letterali, per privilegiare invece
lo spirito delle disposizioni oggetto
dell'interpretazione.
La giurisprudenza dominante afferma infatti
che l’obbligo di rendere le dichiarazioni
sostitutive deve essere ricollegato
all'oggettiva sussistenza di poteri gestori
generali e continuativi ricavabili dalla
procura (C.d.S. VI, 12.10.2006 n. 6089), e
che l'identificazione delle persone fisiche
munite del potere di rappresentanza della
società partecipante alla gara pubblica e,
per questo, tenute a presentare la
dichiarazione medesima va effettuata non
solo in base alle qualifiche formali
rivestite, ma anche alla stregua dei poteri
sostanziali ad essi attribuiti.
Ne segue che devono essere inclusi nel
novero dei soggetti tenuti a rendere la
dichiarazione quelle persone in grado di
impegnare la società verso i terzi ed i
procuratori ad negotia laddove, a
dispetto del nomen, l'estensione dei
loro poteri conduca a qualificarli come
amministratori di fatto (C.d.S. V,
20.10.2010 n. 7578).
Come correttamente dedotto nel provvedimento
impugnato, nel caso di specie i procuratori
della ricorrente erano muniti non solo di
poteri rappresentativi, ma anche gestori, in
quanto entrambi dotati della capacità di
intrattenere ogni tipo di rapporto giuridico
con la stazione appaltante e di
sottoscrivere contratti senza che fosse
necessaria né in via preventiva, né in via
di ratifica, l’adesione del legale
rappresentante dell’impresa medesima.
Trattasi di una situazione in cui tali
soggetti sono procuratori solo nominalmente,
ma in via di fatto appaiono essere i veri
gestori della partecipazione dell’impresa
ricorrente alle gare di appalto.
Tale situazione non poteva non essere nota
all’impresa stessa che, conseguentemente,
avrebbe dovuto rendere la dichiarazione
anche con riferimento ai suddetti soggetti o
quantomeno chiedere in proposito chiarimenti
alla stazione appaltante.
Questo non è stato fatto e pertanto ritiene
il Collegio che legittimamente il Comune
intimato abbia disposto l’esclusione della
ricorrente dalla gara.
Il Collegio non ignora che una pronuncia del
Consiglio di Stato (C.d.S. V, 25.01.2011 n.
513) ha affermato principi diversi
sostenendo che, poiché l’art. 38 del d.lgs.
163/2006 richiede la compresenza della
qualifica di amministratore e del potere di
rappresentanza, la sua applicazione non
potrebbe essere estesa ai soggetti, quali il
procuratore, che amministratori non sono.
La normativa civilistica infatti riserva la
gestione dell’impresa esclusivamente a
questi ultimi mentre il procuratore ha solo
la sua rappresentanza di diritto comune.
L’assunto è suffragato dalla considerazione
che detta disposizione limita la
partecipazione delle imprese alle gare di
appalto e con essa la libertà di iniziativa
economica, sicché assumerebbe carattere
eccezionale e non sarebbe suscettibile di
applicazione analogica.
È discutibile che l’art. 38 del d.lgs.
163/2006 sia norma eccezionale.
La normativa sull’evidenza pubblica pone
infatti una serie di regole tendenti a
garantire che le gare per l’affidamento dei
pubblici contratti avvengano secondo criteri
di trasparenza e parità di trattamento
evitando che vi partecipino imprese le
quali, a causa del comportamento dei loro
amministratori, possono condizionarne
negativamente lo svolgimento.
Sotto questo profilo l’art. 38 del d.lgs.
163/2006 non sembra che tenda a restringere
la libertà d’impresa quanto invece a
tutelarla, impedendo che la stessa possa
essere incisa dal comportamento di imprese
che non danno garanzie di affidabilità.
Le sue disposizioni quindi non limitano, ma
anzi tutelano maggiormente la libertà
economica perché garantiscono che la
concorrenza, nell’ambito delle procedure per
l’affidamento dei contratti pubblici,
avvenga secondo regole certe e nel rispetto
del principio di parità di trattamento al
fine della costruzione di un mercato libero,
aperto, concorrenziale ed efficiente.
Non trattasi quindi di norma eccezionale e
pertanto nulla osta alla sua applicazione
analogica.
Peraltro nel caso di specie non vi è
necessità di ricorrere al procedimento
analogico poiché l’interpretazione secondo
buona fede della legge di gara, a parere del
Collegio, non poteva che condurre a
ricomprendere nel novero dei soggetti tenuti
ad autodichiarare l’assenza di condizioni
ostative alla partecipazione alla procedura
de qua anche coloro che, se pure non muniti
formalmente della qualifica di
amministratore, fossero tuttavia
concretamente dotati di poteri gestionali e
decisori in ordine alla politica aziendale
rispetto (quantomeno) alle gare per
l’affidamento di contratti pubblici.
L’assunto secondo il quale l’art. 38 del
d.lgs. 163/2006 non ricomprenderebbe i
procuratori muniti di potere gestorio ma non
qualificati come “amministratori” non
appare convincente poiché è ancorato
all’analisi formale dei poteri connessi alle
cariche rivestite dai soggetti che agiscono
in nome e per conto dell’impresa.
Le esigenze sottese alle previsioni di cui
alle norme ostative alla partecipazione alle
gare di appalto, consistenti nell’evitare
che le stesse vengano inquinate da imprese
che non diano garanzie di correttezza,
possono essere soddisfatte solo ove se ne
assuma un’interpretazione sostanzialistica
centrata sull’esame dei poteri concretamente
dispiegabili, caso per caso, da tali
soggetti.
Laddove un procuratore, in base alla procura
conferitagli, possieda come nel caso di
specie anche poteri gestori non può non
essere tenuto a rendere la dichiarazione
sostitutiva ex art. 38, d.lgs. 163/2006.
Trattasi, si ripete, di interpretazione
secondo buona fede della lex specialis
alla quale sono tenuti anche i soggetti
privati.
Deve infine essere rilevato che la stazione
appaltante non avrebbe legittimamente potuto
ammettere la ricorrente alla
regolarizzazione, poiché questa può essere
attivata per chiedere chiarimenti o
integrare dichiarazioni esistenti e giammai
per supplire alla mancanza di una
dichiarazione che l’impresa avrebbe dovuto
produrre entro un termine perentorio (C.d.S.
IV, 10.05.2007 n. 2254; TAR Piemonte I,
08.06.2010 n. 2722) (commento tratto da
www.ipsoa.it - TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 07.09.2011
n. 1381 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: La
tesoreria non deve pagare senza ok.
La banca perde per
inadempimento il contratto di tesoreria con
il Comune se paga un creditore senza
rispettare i vincoli imposti dall'ente. Non
solo. L'istituto di credito è anche tenuto a
risarcire il danno commisurato all'entità
dell'esborso.
Lo ha affermato la III Sez. civile della
Cassazione con la
sentenza
05.09.2011 n. 18105 (tratta da
www.entilocali.ilsole24ore.com)
che ha respinto il ricorso presentato da un
istituto di credito nei confronti di un
Comune del Lazio.
Quest'ultimo si era rivolto al tribunale
esponendo che un imprenditore aveva
intentato una procedura di espropriazione
presso terzi nei confronti del Comune e del
suo tesoriere che si era conclusa con
un'ordinanza di assegnazione nei confronti
del richiedente di una somma considerevole.
La somma doveva essere versata a condizione
che fossero rispettati i vincoli di
indisponibilità che l'ente locale avesse
imposto sui fondi a garanzia del pagamento
degli stipendi dei dipendenti e delle rate
di mutuo. La banca, però, non aveva
rispettato il vincolo e aveva versato
l'intera somma che non era stato più
possibile recuperare per il fallimento
dell'imprenditore. Per questo motivo l'ente
locale ha chiesto la risoluzione per
inadempimento del contratto di tesoreria e
il risarcimento dei danni subiti.
L'istituto di credito si è difeso sostenendo
di non essersi potuto sottrarre
all'esecuzione coattiva e che il pagamento
era perfettamente legittimo in quanto la
delibera di apposizione del vincolo non era
più operativa.
Il tribunale ha respinto la domanda, ma la
Corte di appello ha riformato la decisione
affermando che la delibera non aveva perso
alcuna validità nonostante fossero trascorsi
più di tre mesi e che era evidente
l'inadempimento colposo della banca che non
aveva seguito, prima di effettuare il
versamento, le istruzioni imposte dal
Comune. Per questo motivo ha condannato
l'istituto di credito a risarcire il danno
quantificato in misura pari al pagamento
effettuato maggiorato della rivalutazione e
degli interessi.
La questione si è quindi spostata in
Cassazione dove i giudici hanno confermato
la pronuncia di secondo grado rilevando che
il tesoriere, di fronte alla specifica
istruzione del Comune di non dar corso al
pagamento, aveva l'obbligo di valutare
l'operatività del vincolo e prendere una
decisione, assumendosi però il rischio, e
quindi la responsabilità, di sottrarsi
volontariamente a una specifica e motivata
istruzione dell'ente per il quale svolgeva
servizio di tesoreria
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La progettazione esterna non può
essere affidata ad un dipendente pubblico a
tempo pieno.
L’art. 53 d.lgs. n. 163 del 2006 prevede che
“quando il contratto ha per oggetto anche
la progettazione, ai sensi del comma 2, gli
operatori economici devono possedere i
requisiti prescritti per i progettisti,
ovvero avvalersi di progettisti qualificati,
da individuare nell’offerta, o partecipare
in raggruppamento con soggetti qualificati
per la progettazione. Il bando indica i
requisiti richiesti per i progettisti […]”.
L’art. 90, comma 1, lett. d) e ss., d.lgs. n
163 del 2006 a sua volta prevede che i
soggetti esterni ai quali può essere
affidata l’attività di progettazione sono
–in sintesi- i liberi professionisti
iscritti nel relativo albo professionale, le
società di professionisti o le società di
ingegneria.
Attesa la tassatività di un siffatto elenco
–da raccordare alla diretta
responsabilizzazione del soggetto della cui
prestazione ci si avvale- il soggetto “esterno”,
destinatario dell’incarico di progettazione
esterna, non può essere un pubblico
dipendente a tempo pieno. Quest’ultimo
invero non può esercitare la libera
professione e, quindi, non può assumere la
qualifica professionale che l’art. 90
richiede per i progettisti esterni.
In senso contrario non rileva
l’autorizzazione che l’Ing. ... aveva
ricevuto dall’Amministrazione di
appartenenza, perché tale autorizzazione non
poteva rimuovere la circostanza che la
prescrizione normativa da qui applicare
richiede in capo ai progettisti esterni un
vero e proprio status di libero
professionista (con tanto di iscrizione nel
relativo albo) e questo era precluso, nel
caso concreto, dall’esistenza di un rapporto
di lavoro a tempo pieno.
L’ing. ..., pertanto, non poteva essere un “progettista
qualificato” ai sensi dell’art. 53, né
un soggetto del quale la società incaricata
della progettazione si poteva avvalere,
anche solo come ausiliario, per integrare
parte dei requisiti di progettazione
richiesti dal bando di gara.
Inoltre, assume carattere assorbente
l’ulteriore e dirimente considerazione che
la pregressa attività svolta dall’Ing. ...
in qualità di dipendente pubblico non poteva
comunque essere utilizzata per integrare i
requisiti di progettazione richiesti dal
bando di gara.
La pregressa attività di progettazione
svolta per l’Amministrazione di appartenenza
è, infatti, esclusivamente riferibile a
quest’ultima.
Nemmeno, per escludere tale riferibilità
esclusiva, può valere la circostanza che i
progetti sono il frutto di un’attività umana
fondamentalmente intellettiva analoga
all’esercizio delle professioni liberali, in
quanto l’attività è svolta dal dipendente
ratione officii e non intuitu
personae e si risolve pertanto in una
modalità di svolgimento del rapporto di
pubblico impiego.
E’ da escludersi quindi che lo svolgimento
di tale attività consenta al dipendente di
acquisire in proprio un requisito di
qualificazione e, a maggior ragione, che
tale requisito di qualificazione possa poi
essere “prestato” o “ceduto” a
imprese private al fine di consentire la
partecipazione di queste ultime a gare di
appalto (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.09.2011 n. 5003 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Brunetta
rimandato alla Consulta. Deve difendere i
tagli di stipendio al dipendente che si
ammala. La Corte dovrà giudicare se è
legittimo sanzionare i lavoratori pubblici e
non i privati.
Le trattenute previste
dal decreto Brunetta che vengono applicate
ai docenti e agli Ata in caso di assenze per
malattia potrebbero essere incostituzionali.
Secondo il giudice del lavoro di Livorno,
ridurre la retribuzione al dipendente
pubblico è contro il principio di
uguaglianza, perché non è previsto per il
lavoratori del settore privato.
E in più viola il diritto alla salute, il
principio di retribuzione sufficiente e il
diritto di assistenza del lavoratore
inabile. Insomma, ce n'è abbastanza per
interrogare la Corte costituzionale. Che se
dovesse dare ragione al giudice di Livorno
potrebbe cancellare con un colpo di spugna
l'articolo 71 del decreto Brunetta: una
delle disposizioni più odiate dai dipendenti
pubblici, perché riduce la retribuzione,
anche se solo per la parte accessoria,
quando il lavoratore si assenta per
malattia. Una disposizione che interessa
tutto il pubblico impiego e la scuola in
particolare, che è il settore statale più
corposo con il suo milione di dipendenti.
L'ordinanza 05.08.2011
n. 1330/2010 r.g. è
motivata facendo riferimento a 4 norme
costituzionali: gli articoli 3, 36, 32 e 38
della Carta.
Il principio di
uguaglianza.
Il giudice di merito ha posto l'accento,
anzi tutto, sul fatto che la decurtazione
della retribuzione, che consiste nella
mancata attribuzione del compenso accessorio
per i primi 10 giorni di ogni episodio di
assenza (poche decine di euro), è prevista
solo per il personale della pubblica
amministrazione e non per i dipendenti del
settore privato.
Il tutto nonostante entrambe le tipologie di
personale siano caratterizzate da un
identico vincolo di subordinazione. E ciò,
secondo il giudice rimettente, viola il
principio di uguaglianza di cui all'art. 3
della Costituzione.
La retribuzione
sufficiente.
Il giudice ha fatto presente inoltre che,
per effetto dell'art. 71, il lavoratore
legittimamente ammalato si trova privato di
voci retributive che normalmente gli
spetterebbero in funzione del suo lavoro,
subendo pertanto una riduzione del
corrispettivo in busta paga.
«Riduzione che, dati gli stipendi che
percepiscono ad oggi i lavoratori del
comparto pubblico», si legge
nell'ordinanza «diventa tale da non
garantire al lavoratore una vita dignitosa.
Di fatto la malattia diventa un lusso che il
lavoratore non potrà più permettersi, e ciò
appare in contrasto con l'art. 36 della
Costituzione che prevede che sia garantita
una retribuzione proporzionata ed in ogni
caso sufficiente a garantire un'esistenza
libera e dignitosa».
Il diritto alla salute.
L'art. 71, inoltre, sempre secondo il
Tribunale di Livorno, incidendo pesantemente
sulla retribuzione del lavoratore malato,
crea di fatto un abbassamento della tutela
della salute del lavoratore che, spinto
dalle necessità economiche, viene di fatto
indotto a lavorare aggravando il proprio
stato di malattia. Il tutto in violazione
dell'art. 32 della Costituzione, che
qualifica il diritto alla salute come
diritto fondamentale.
Il diritto all'assistenza.
Il giudice rimettente, infine, ha fatto
riferimento anche all'art. 38 della
Costituzione. Che risulterebbe violato per
effetto del trattamento deteriore previsto
dal decreto Brunetta, perché la Costituzione
garantisce i mezzi di sostentamento al
lavoratore inabile al lavoro. La violazione
deriverebbe, appunto, dalla decurtazione
stipendiale, che priverebbe il lavoratore
parzialmente inabile di parte della
retribuzione utile al proprio sostentamento.
Sulla base di queste considerazioni il
giudice ha sospeso il giudizio ed ha
trasmesso gli atti alla Consulta. La palla
passa dunque alla Corte costituzionale che,
se dovesse dare ragione al giudice
rimettente, potrebbe cancellare la norma che
dispone le decurtazioni e tutto ritornerebbe
come prima della riforma
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2011).
---------------
Comunicato Stampa Unicobas 13.09.2011.
Il Giudice rinvia alla
Corte Costituzionale il Decreto Brunetta
ritenendo incostituzionali le decurtazioni
di stipendio in caso di malattia.
Il Giudice del Lavoro Jacqueline Magi, su
ricorso promosso dall’Unicobas e curato
dall’avv. Claudio Altini, ha inviato alla
Corte Costituzionale ed alle due Camere del
Parlamento il Decreto Brunetta (D.L.
112/2008 convertito nella legge 133/2008)
ritenendo illegittimo l’art. 71 riguardante
le decurtazioni stipendiali in caso di
malattia per i lavoratori della scuola e
tutti i pubblici dipendenti.
L’ordinanza di trasmissione depositata ad
agosto e che oggi rendiamo nota dichiara “la
non manifesta infondatezza della questione
di illegittimità costituzionale dell’art. 71
…. in relazione agli artt. 3, 32, 36 e 38
della Costituzione”.
Infatti detto articolo prevede che: “Per
i periodi di assenza per malattia, di
qualunque durata, ai dipendenti delle
pubbliche amministrazioni nei primi 10
giorni di assenza è corrisposto il
trattamento economico fondamentale con
esclusione di ogni indennità o emolumento,
comunque denominati, aventi carattere fisso
e continuativo, nonché di ogni altro
trattamento accessorio”.
Il Giudice ha osservato:
con riferimento all’art. 3
della Costituzione:
“Il D.L. 112 risulta in palese contrasto
con l’art. 3 della Costituzione il quale
tutela la persona e la sua dignità, e
stabilisce il principio generale di
eguaglianza dei cittadini di fronte
all’ordinamento.
L’art. 71 del citato decreto, applicabile ai
soli lavoratori del settore pubblico ...
determina un’illegittima disparità di
trattamento nel rapporto di lavoro dei
lavoratori del settore pubblico rispetto a
quelli del settore privato. “Infatti nel
settore privato non è prevista tale
decurtazione dello stipendio in caso di
malattia".
con riferimento all’art. 36
della Costituzione:
“Il lavoratore legittimamente ammalato,
si trova privato di voci retributive che
normalmente gli spetterebbero in funzione
del suo lavoro, subendo pertanto ima
riduzione dello stipendio in busta paga.
Riduzione che, dati gli stipendi che
percepiscono ad oggi i lavoratori del
comparto pubblico, diventa tale da non
garantire al lavoratore una vita dignitosa.
Di fatto la malattia diventa un “lusso” che
il lavoratore non potrà più permettersi, e
ciò appare in contrasto con l’art. 36 della
Costituzione che prevede che sia garantita
una retribuzione proporzionata ed in ogni
caso sufficiente a garantire un’esistenza
libera e dignitosa”.
con riferimento all’art. 32
della Costituzione:
Detto articolo garantisce la tutela della
salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della
collettività. “La norma in questione,
incidendo pesantemente sulla retribuzione
del lavoratore malato, crea di fatto un
abbassamento della tutela della salute del
lavoratore che, spinto dalle necessità
economiche, viene di fatto indotto a
lavorare aggravando il proprio stato di
malattia…”.
con riferimento all’art. 38
della Costituzione:
L’assenza di garanzia al lavoratore
malato di adeguati mezzi di mantenimento ed
assistenza costituisce inoltre violazione
dell’art. 38.
Questa ordinanza è una prima vittoria di
quei lavoratori che, su indicazione dell’Unicobas,
appena uscì questa norma liberticida, oltre
a manifestare e scioperare si rivolsero al
Tribunale di Livorno per ottenere giustizia.
Siamo coscienti di aver vinto per ora una
battaglia e non ancora la guerra ma siamo
sulla buona strada e non ci fermeremo finché
vedremo calpestati i diritti dei lavoratori
e dei cittadini, sia per quanto riguarda la
malattia sia per tutto il resto. La lotta
sindacale se condotta con coerenza e su
tutti i fronti alla fine paga. |
EDILIZIA PRIVATA - PRIVACY:
Non è reato riprendere il vicino
che realizzi un muretto di confine.
Con la
sentenza 24.06.2011 n. 25453 la
Corte di Cassazione, Sez. V penale,
interviene in materia di ripresa fotografica
e video ribadendone il carattere lecito
entro determinati limiti e condizioni.
Nel caso affrontato, padre e figlia sono
stati ritenuti dai giudici di merito
responsabili del reato di interferenze
illecite nella vita privata di cui
all’articolo 615-bis, in quanto hanno
captato immagini della vita privata altrui,
esteriorizzatasi nella specie attraverso la
realizzazione di un muretto di confine.
I giudici di Piazza Cavour, nella sentenza
n. 25453/2011, ribadiscono che per la
configurazione del reato di cui all’art.
615-bis del c.p. occorre che l’acquisizione
delle notizie o immagini attinenti alla vita
privata avvenga indebitamente, riservando a
quest’ultimo avverbio natura di parola
chiave della fattispecie astratta.
Infatti, in un astratto bilanciamento di
interessi, il legislatore, secondo i giudici
della Corte, ha inteso privilegiare la
privacy a condizione però che l’attività di
intrusione mediante riprese fotografiche o
filmate sia di per sé indebita. Ciò non si è
verificato nel caso affrontato, in cui il
titolare del domicilio non poteva vantare
nessuna pretesa al rispetto della
riservatezza data la condizione di agevole
osservabilità dall’esterno di quanto
compiuto anche in privata dimora (art. 614
cp).
Inoltre, nel caso specifico rileva un altro
aspetto decisivo. Infatti, il carattere
abusivo dell’attività interferenza è escluso
dal mancato carattere di liceità
dell’attività svolta in ambito privato,
potendo diversamente, l’intrusione
nell’altrui privacy ritenersi comunque
consentita, tanto più in presenza di un
diritto, il cui esercizio si intenda
garantire o la cui violazione si voglia
accertare o prevenire. L’innalzamento del
muretto da parte del vicino, in prossimità
di un confine prediale necessita il rispetto
delle prescrizioni di carattere civilistico.
Da questo punto di vista, è pur vero che il
privato, che ritenga di subire un
pregiudizio dall’attività del vicino
potrebbe adire l’autorità competente, ma,
secondo i Giudici della Cassazione è pur
vero che l’intervento della forza pubblica
potrebbe rivelarsi del tutto vano, qualora
quell’attività sia legittima sul piano
amministrativo, per il possesso di titolo di
autorizzazione e nondimeno illecita sul
versante civilistico, per l’inosservanza
delle anzidette prescrizioni.
In questo caso, al privato resterebbe solo
l'esperimento delle azioni civili previste a
tutela della proprietà ed anche del
possesso, ma pure in questa prospettiva
avrebbe innegabile diritto a documentare,
con ogni mezzo (non esclusa appunto la
ripresa fotografica o filmata), l'epoca
dell'altrui costruzione, essendo, peraltro,
risaputo che, ai fini dell'ordinaria azione
di nunciazione (denuncia di nuova opera) di
cui all'art. 1170 c.c., è necessario il
rispetto del termine di un anno dall'inizio
della nuova opera.
Pertanto, la Corte ha ritenuto che il reato
di cui all’articolo 615-bis non sussista nel
caso specifico, con il conseguente
annullamento senza rinvio della sentenza
impugnata perché il fatto non sussiste (link
a www.altalex.com). |
SICUREZZA LAVORO:
Ruolo del coordinatore per
l’esecuzione.
Prevenzione infortuni
Sicurezza in cantiere - Lavoro in quota
Caduta a terra del lavoratore - Omessa
predisposizione e dotazione di misure di
protezione individuale e collettiva - Omesso
controllo del CSE Responsabilità -
Valutazione.
È responsabile L’azione di controllo del
Coordinatore per l’esecuzione costituisce il
contenuto tipico e specifico degli obblighi
sullo stesso gravanti, e la ragione della
creazione di tale figura, che non vuole
essere, e non è, una duplicazione di quella
del datore di lavoro o del responsabile
delle imprese appaltatrici e dei lavoratori
autonomi, trova la sua propria ragione
d’essere ed un proprio ruolo nella specifica
situazione della compresenza di più soggetti
che operano nel medesimo cantiere, rendendo
necessario quel coordinamento che è
connaturale al ruolo del CSE.
--------------
COMMENTO
L’infortunio di
un lavoratore è avvenuto all’interno di uno
stabilimento industriale, nel corso di
lavori di ampliamento dello stesso.
Il responsabile dei lavori, coordinatore per
la progettazione e coordinatore per
l’esecuzione dei lavori nominato dal
committente e il titolare dell’impresa
esecutrice dei lavori erano stati condannati
per l’infortunio occorso al dipendente.
L’operaio era salito sulla copertura del
capannone, costituita in parte da pannelli
in vetroresina traslucidi non calpestabili,
senza alcun mezzo di protezione, né
individuale né collettivo, e, poggiando il
proprio peso su uno di questi pannelli in
vetroresina, ne aveva provocato lo
sfondamento precipitando al suolo da
un’altezza di circa dieci metri, con
conseguente immediato decesso.
Prima dell’inizio dei lavori di ampliamento
del capannone era stata tenuta una riunione
tecnica di coordinamento durante la quale
era stato stabilito che l’impresa esecutrice
avrebbe dovuto prestare assistenza alla
ditta incaricata della fornitura e del
montaggio delle strutture prefabbricate del
nuovo capannone, con particolare riferimento
alla rimozione della scossalina che
ricopriva il tetto del vecchio capannone.
Quindi, erano lavori che dovevano essere
eseguiti ”in quota” e il POS
dell’impresa esecutrice aveva previsto la
predisposizione di dispositivi di protezione
individuali e collettivi, contro il rischio
di caduta dall’alto, risultati del tutto
assenti nel caso concreto.
L’impresa di prefabbricazione aveva
comunicato che il capannone commissionato
presentava lucernai a raso, ottenuti
mediante distanziamento dei tegoli, non
pedonabili; pertanto, aveva consigliato di
collocare una rete anticaduta sotto le
lastre traslucide, al di sotto delle quali
non era presente alcuna struttura, e questo
«al fine di scongiurare spiacevoli eventi».
Il CSE era assolutamente consapevole della
natura dei lavori che dovevano essere
eseguiti "in quota” nel vecchio
capannone e della peculiare pericolosità
degli stessi e non aveva provveduto a
verificare l’applicazione delle disposizioni
del POS, con opportune azioni di controllo
effettivo, tanto più necessarie nella fase
iniziale di questi lavori (che risultavano
essere stati avviati appena due giorni prima
del verificarsi dell’evento mortale nel
cantiere).
Circa il nesso causale, la presenza di
presidi di sicurezza individuali (cinture di
sicurezza con bretelle collegate a
dispositivi di trattenuta) ovvero di mezzi
di protezione collettiva (come, per esempio,
la predisposizione di reti di
protezione in corrispondenza delle lastre
traslucide), avrebbe evitato l’evento
mortale; quindi, se il CSE fosse intervenuto
sui luoghi verificando l’assenza dei
dispositivi di trattenuta, l’evento non
sarebbe accaduto.
È vero che il CSE non aveva un obbligo di
presenza costante in cantiere; tuttavia, era
mancata una condotta di effettivo (anche se
non necessariamente costante) controllo del
cantiere sull’esecuzione dei lavori.
Con il ricorso per Cassazione:
● il CSE aveva dedotto, tra l’altro,
l’inesistenza di un dovere di controllo
costante, con una presenza continua e
giornaliera in cantiere, nonché l’abnormità
della condotta del lavoratore, il quale
aveva deciso di salire improvvidamente e
negligentemente sulla copertura del
capannone, ponendosi al di fuori del
cestello elevatore all’interno del quale
avrebbe potuto lavorare in condizioni di
massima sicurezza (consentendo, questo
stesso mezzo, lo spostamento sul fronte del
capannone e la rimozione della scossalina,
oggetto della lavorazione al momento del
sinistro);
● l’impresa esecutrice aveva sostenuto che
all’interno del cantiere le fosse stata
affidata solo l’esecuzione di lavori
prettamente edili che dovevano essere svolti
esclusivamente a terra e non in quota
(tant’è che la collocazione dei lucernari
sul tetto del nuovo capannone era stata
oggetto di un formale contratto di appalto
alcuni mesi dopo l’infortunio).
La Cassazione ha rigettato entrambi i
ricorsi, così motivando:
● quanto alla posizione del CSE, ritenendo
che questi era assolutamente consapevole
della natura dei lavori che la ditta avrebbe
dovuto eseguire ”in quota” nel
vecchio capannone e della peculiare
pericolosità degli stessi, ma non aveva
provveduto a verificare l’applicazione delle
disposizioni del POS, con opportune azioni
di controllo effettivo, tanto più necessarie
nella fase iniziale di questi lavori.
In effetti, i dispositivi di protezione
individuali e collettivi contro il rischio
di caduta dall’alto, la cui predisposizione
era stata prevista nel POS e che, se
esistenti, avrebbero impedito l’evento,
erano risultati del tutto assenti. Dunque,
anche ammesso che potesse esservi stata una
imprudenza del lavoratore, restava il fatto
oggettivo che la mancanza di una adeguata
protezione aveva reso possibile il
verificarsi dell’incidente.
Tra l’altro era emerso che la vittima
avrebbe dovuto necessariamente portarsi sul
tetto del capannone, quindi, uscendo dal
cestello elevatore, per eseguire parte del
compito lavorativo affidatogli, il che
impediva di configurare l’eventuale
imprudenza del lavoratore imprevedibile e
abnorme, tale da interrompere il rapporto di
causalità con l’evento infortunistico;
● quanto alla posizione del titolare
dell’impresa esecutrice, ritenendo le
doglianze espresse, come relative ad
apprezzamenti di merito sul fatto, pertanto,
non deducibili in sede di legittimità. In
ogni caso la Suprema Corte ha puntualizzato
che il compito del datore di lavoro è
molteplice e articolato e va dalla
istruzione dei lavoratori sui rischi di
determinati lavori e dalla conseguente
necessità di adottare certe misure di
sicurezza alla predisposizione di queste
misure e, soprattutto, al controllo
continuo, pressante, per imporre che i
lavoratori rispettino quelle norme, si
adeguino alla misure previste nelle stesse e
sfuggano alla superficiale tentazione di
trascurarle.
Il datore di lavoro deve avere la cultura e
la forma mentis del garante del bene
costituzionalmente rilevante costituito
dalla integrità del lavoratore e, quindi,
non deve limitarsi a informare i lavoratori
sulle norme antinfortunistiche previste, ma
deve attivarsi e controllare, sino alla
pedanteria, che queste norme siano
assimilate dai lavoratori nella ordinaria
prassi di lavoro
(tratto da Ambiente & Sicurezza n. 17/2011 -
Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 18.01.2011 n. 1225
- link a www.altalex.com). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Il
concetto di “molestia”, cui si riferiva già
l’originaria destinazione dell’area di
proprietà di parte ricorrente, sulla quale
si è richiesta l’autorizzazione all’apertura
di un forno discontinuo a camera stitica per
l’incenerimento di animali di piccola taglia
e successiva consegna delle ceneri ai
proprietari, è molto più ampio di quello di
“insalubrità”, comprendendo qualunque
situazione di fastidio, disagio o disturbo
alle persone, determinato da qualsiasi tipo
di emissione o immissione. In altre parole,
un’industria insalubre è sicuramente
un’impresa molesta, rientrante, quindi,
nell’originario divieto.
---------------
Le scelte dell'Amministrazione nell'adozione
dello strumento urbanistico sono connotate
da alta discrezionalità e non necessitano di
specifica motivazione, e, a fronte di
aspettative di mero fatto, le scelte di
natura, tanto ambientale quanto urbanistica
rimesse all'Amministrazione nell'interesse
generale, sono di regola sufficientemente
motivate con l'indicazione dei profili
generali e dei criteri che hanno sorretto la
previsione in variante, senza necessità di
una motivazione puntuale e mirata.
Le scelte urbanistiche in variante
richiedono puntuale motivazione
esclusivamente quando incidono su zone
territorialmente circoscritte, ledendo
legittime aspettative dei privati
proprietari, in conseguenza di statuizioni
giurisdizionali passate in giudicato, nonché
di accordi con l'ente locale e di
convenzioni di lottizzazione.
Peraltro, il principio secondo il quale in
sede di pianificazione generale non è
necessaria una specifica motivazione delle
scelte urbanistiche, che non sia quella dei
criteri posti a base del piano e desumibile
dall'insieme dello stesso, non trova
applicazione nel solo caso delle varianti
limitate o ad oggetto specifico non coerenti
con quella della pianificazione generale,
come ad esempio nel caso in cui una
specifica industria insalubre di prima
classe, ai sensi dell'art. 216 r.d. n. 1265
del 1934 e del d.m. 02.03.1987, fosse
obbligata a trasferirsi altrove.
---------------
L'art. 216 t.u.l.s., approvato con r.d.
27.07.1934, n. 1265, che indica le
manifatture o fabbriche che producono
vapori, gas o altre lavorazioni insalubri o
che possono riuscire in qualche modo
pericolose alla salute degli abitanti, va
letto tenendo conto delle modifiche
legislative intervenute in materia di
pianificazione del territorio, in base alle
quali non risulta più possibile applicare la
disposizione che impone alle industrie
insalubri di prima classe di essere isolate
nelle campagne, dato che non è più
consentita la realizzazione di edifici anche
industriali, al di fuori delle zone
destinate dai piani regolatori alla
edificazione; conseguentemente, quindi, le
suindicate industrie insalubri possono
essere realizzate soltanto nelle parti del
territorio classificate da P.R.G., in sede
di zonizzazione, quali aree omogenee
destinate ad impianti industriali o ad essi
assimilabili, alla cui categoria generale
sono appunto riconducibili.
Si deve rilevare, preliminarmente, che il
concetto di “molestia”, cui si
riferiva già l’originaria destinazione
dell’area di proprietà di parte ricorrente,
sulla quale si è richiesta l’autorizzazione
all’apertura di un forno discontinuo a
camera stitica per l’incenerimento di
animali di piccola taglia e successiva
consegna delle ceneri ai proprietari, è
molto più ampio di quello di “insalubrità”,
comprendendo qualunque situazione di
fastidio, disagio o disturbo alle persone,
determinato da qualsiasi tipo di emissione o
immissione (cfr., ad esempio, le ipotesi di
cui agli artt. 674 c.p., 844 e 1170 c.c.,
come osserva correttamente parte
resistente).
Pertanto, sulla base di tale definizione di
“impresa molesta”, l’area in esame
era già oggetto di un divieto ai sensi
dell’originaria formulazione della norma di
piano impugnata, divieto comprendente
indubitabilmente anche tutte le attività che
possono essere definite insalubri, tra cui
quelle di cui all’art. 216, t.u.l.s. n. 1265
del 1934, che impone di tenere le industrie
insalubri di prima classe lontane dalle
abitazioni.
In altre parole, un’industria insalubre è
sicuramente un’impresa molesta, rientrante,
quindi, nell’originario divieto.
---------------
Come è noto, le
scelte dell'Amministrazione nell'adozione
dello strumento urbanistico sono connotate
da alta discrezionalità e non necessitano di
specifica motivazione, e, a fronte di
aspettative di mero fatto, le scelte di
natura, tanto ambientale quanto urbanistica
rimesse all'Amministrazione nell'interesse
generale, sono di regola sufficientemente
motivate con l'indicazione dei profili
generali e dei criteri che hanno sorretto la
previsione in variante, senza necessità di
una motivazione puntuale e mirata.
Le scelte urbanistiche in variante
richiedono puntuale motivazione
esclusivamente quando incidono su zone
territorialmente circoscritte, ledendo
legittime aspettative dei privati
proprietari, in conseguenza di statuizioni
giurisdizionali passate in giudicato, nonché
di accordi con l'ente locale e di
convenzioni di lottizzazione (cfr. Consiglio
di Stato, sez. IV, 21.12.2009, n. 8514), il
che non si verifica nel caso di specie,
atteso che parte ricorrente, come emerge in
parte narrativa, non svolgeva alcuna
attività di impresa di tipo insalubre e,
dunque, non poteva vantare alcuna legittima
aspettativa al mantenimento di tale attività
che, come detto, non sussisteva.
Peraltro, il principio secondo il quale in
sede di pianificazione generale non è
necessaria una specifica motivazione delle
scelte urbanistiche, che non sia quella dei
criteri posti a base del piano e desumibile
dall'insieme dello stesso, non trova
applicazione nel solo caso delle varianti
limitate o ad oggetto specifico non coerenti
con quella della pianificazione generale,
come ad esempio nel caso in cui una
specifica industria insalubre di prima
classe, ai sensi dell'art. 216 r.d. n. 1265
del 1934 e del d.m. 02.03.1987, fosse
obbligata a trasferirsi altrove (cfr. TAR
Emilia Romagna, Parma, 24.09.2002, n. 632).
---------------
Nel caso di
specie (variante al vigente PRG) si vietano
solo nuovi insediamenti, conservando
preesistenti e consentendone, come detto,
gli ampliamenti.
Tale norma appare coerente con il recente
principio giurisprudenziale secondo cui
l'art. 216 t.u.l.s., approvato con r.d.
27.07.1934, n. 1265, che indica le
manifatture o fabbriche che producono
vapori, gas o altre lavorazioni insalubri o
che possono riuscire in qualche modo
pericolose alla salute degli abitanti, va
letto tenendo conto delle modifiche
legislative intervenute in materia di
pianificazione del territorio, in base alle
quali non risulta più possibile applicare la
disposizione che impone alle industrie
insalubri di prima classe di essere isolate
nelle campagne, dato che non è più
consentita la realizzazione di edifici anche
industriali, al di fuori delle zone
destinate dai piani regolatori alla
edificazione (cfr. TAR Toscana, sez. II,
13.09.2005, n. 4417); conseguentemente,
quindi, le suindicate industrie insalubri
possono essere realizzate soltanto nelle
parti del territorio classificate da P.R.G.,
in sede di zonizzazione, quali aree omogenee
destinate ad impianti industriali o ad essi
assimilabili, alla cui categoria generale
sono appunto riconducibili
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 15.02.2010 n. 944 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per la definizione di impresa
artigiana non può che farsi ricorso alla
specifica normativa di settore, cioè, più
precisamente, agli artt. 2, 3 e 4 della
legge-quadro per l’artigianato 08.08.1985 n.
443 che, nel qualificare come imprenditore
artigiano “colui che esercita personalmente,
professionalmente e in qualità di titolare,
l’impresa artigiana, assumendone la piena
responsabilità … e svolgendo in misura
prevalente il proprio lavoro, anche manuale,
nel processo produttivo”, stabiliscono che
l’impresa è artigiana quando sia esercitata
da un imprenditore artigiano, sia contenuta
in determinati limiti dimensionali ed abbia
per scopo la produzione di beni o servizi
(indipendentemente, dunque, dall’entità dei
risultati della produzione), consentendo che
sia esercitata anche presso l’abitazione
dell’imprenditore. Parametri, questi, la cui
sussistenza nel caso in esame è certa e,
peraltro, nemmeno è oggetto di
contestazione.
Il fatto che si tratti di artigianato e non
di industria esclude di per sé la
qualificazione dell’attività ai fini della
conformità urbanistica come “industria”
insalubre di seconda classe di cui al n. 16
della lett. c) dell’apposito elenco previsto
dall’art. 216 del testo unico delle leggi
sanitarie approvato con r.d. 27.07.1934 n.
1265. Pertanto, giustamente il TAR ha
escluso l’operatività del divieto e, nel
contempo, la necessità che il Comune
svolgesse istruttoria sul punto.
La Sezione è dell’avviso che il divieto di
localizzazione di industrie e la limitazione
dell’assentibilità alle sole attività
artigianali poste dall’art. 32 delle
richiamate N.T.A. non possano che essere
letti in coerenza con il significato
tecnico-giuridico delle dizioni utilizzate,
senza che sia consentito all’interprete di
estendere a queste ultime la preclusione
dettata in ordine le prime sulla base di
eventuali elementi non contemplati all’uopo.
In particolare, per la definizione di
impresa artigiana non può che farsi ricorso
alla specifica normativa di settore, cioè,
più precisamente, agli artt. 2, 3 e 4 della
legge-quadro per l’artigianato 08.08.1985 n.
443 che, nel qualificare come imprenditore
artigiano “colui che esercita
personalmente, professionalmente e in
qualità di titolare, l’impresa artigiana,
assumendone la piena responsabilità … e
svolgendo in misura prevalente il proprio
lavoro, anche manuale, nel processo
produttivo”, stabiliscono che l’impresa
è artigiana quando sia esercitata da un
imprenditore artigiano, sia contenuta in
determinati limiti dimensionali ed abbia per
scopo la produzione di beni o servizi
(indipendentemente, dunque, dall’entità dei
risultati della produzione), consentendo che
sia esercitata anche presso l’abitazione
dell’imprenditore. Parametri, questi, la cui
sussistenza nel caso in esame è certa e,
peraltro, nemmeno è oggetto di
contestazione.
Infine, il fatto che si tratti di
artigianato e non di industria esclude di
per sé la qualificazione dell’attività ai
fini della conformità urbanistica come “industria”
insalubre di seconda classe di cui al n. 16
della lett. c) dell’apposito elenco previsto
dall’art. 216 del testo unico delle leggi
sanitarie approvato con r.d. 27.07.1934 n.
1265. Pertanto, giustamente il TAR ha
escluso l’operatività del divieto e, nel
contempo, la necessità che il Comune
svolgesse istruttoria sul punto.
---------------
Sotto altro ed alternativo aspetto,
l’appellante ribadisce che, anche ove
l’attività tipografica in parola possa
configurarsi come artigianale, ugualmente la
norma urbanistica ne porrebbe il divieto
laddove richiede che i relativi impianti non
producano rumori od odori pur semplicemente
“molesti” che, invece,
caratterizzerebbero la stessa attività.
Ma a tal proposito soccorre l’istruttoria
compiuta dal Comune mediante l’acquisizione
del parere favorevole, condizionato
all’installazione dei pannelli
fonoassorbenti e dei serramenti isolanti
descritti nella relazione tecnica,
dell’Azienda Usl territorialmente e
funzionalmente competente, che esclude
l’automatica qualificazione come “moleste”
(ossia percepibili sensorialmente) delle
immissioni, il resto rilevando eventualmente
a fini privatistici per il caso del
superamento di fatto della “normale
tollerabilità, anche avuto riguardo alla
condizione dei luoghi” di cui all’art. 844
cod. civ..
Del resto, opinare diversamente
significherebbe precludere pressoché
totalmente in zona residenziale la
localizzazione di laboratori artigiani,
quali officine, lavanderie, gelaterie,
panifici, pasticcerie, ecc.. Infine, quanto
alla nocività (che è cosa ben diversa dalla
“molestia”) delle stesse immissioni,
è questione che esula dalla conformità
dell’impugnata concessione alla rispettiva
normativa locale e nazionale e, dunque,
dalla competenza comunale, sicché al
riguardo nulla può addebitarsi all’Ente
concedente (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.12.2009 n. 8877 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
l'art. 216 r.d. 27.07.1934 n. 1265 le
industrie insalubri di prima classe devono
essere di regola isolate nelle campagne e
tenute lontane dalle abitazioni. Il d.m. del
Ministero della Sanità 05.09.1994 classifica
gli allevamenti di animali tra le industrie
insalubri di prima classe e, quindi,
legittima l’applicazione alle stalle della
prescrizione del t.u. sanitario sopra
citata.
La preesistenza di una stalla è situazione
ostativa all’edificazione di un edificio
residenziale, poiché “l'art. 216 r.d.
27.07.1934 n. 1265, nel prescrivere che le
industrie insalubri di prima classe devono
essere isolate dalle campagne e tenute
lontane dall'abitazione, non fissa
specifiche distanze; pertanto, se il
titolare dimostra che, per l'introduzione di
nuovi metodi o speciali cautele, l'esercizio
dell'attività non reca nocumento alla salute
del vicinato, le distanze eventualmente
prescritte dal p.r.g. possono essere
derogate".
---------------
Il d.m. 05.09.1994, che definisce le
industrie insalubri, si limita ad indicare
come tale sia l’allevamento di animali che
la stalla di sosta per il bestiame senza
fissare un numero minimo di animali perché
si possa integrare la definizione in parola.
Né si può sostenere che questa limitazione
si ricava dal linguaggio comune, atteso che
in esso non si è formata alcuna accezione
nel senso che tre animali non costituiscano
stalla.
Le asprezze della normativa in parola sono
state, in effetti, temperate dalla
giurisprudenza che, per evitare di incorrere
in situazioni aberranti, ha ritenuto che “la
tenuta di pochi capi "da cortile" e "da
compagnia" in un'area recintata a fianco
dell'abitazione del ricorrente non
costituisce violazione del locale
regolamento di igiene che vieta di tenere
animali che arrechino pregiudizio alla
salubrità e alla tranquillità delle
abitazioni e disturbo al vicinato quando gli
animali siano in ottima salute, in numero
trascurabile in rapporto all'entità e al
tipo di area in cui vengono tenuti e a una
distanza congrua dagli edifici ad uso
abitativo della borgata, per cui risulta
illegittima per carenza dei presupposti
normativi l'ordinanza assessorile che ne
impone l'allontanamento” .
Il secondo motivo di ricorso, in cui
si afferma che la esistenza della stalla non
è di ostacolo alla costruzione di un
edificio destinato a residenza perché il
regolamento d’igiene vieterebbe
l’edificazione di nuove stalle vicine ad
abitazioni preesistenti ma non (viceversa)
di nuove abitazioni vicine a stalle
preesistenti, non è fondato.
Il punto di partenza è la prescrizione
contenuta nell'art. 216 r.d. 27.07.1934 n.
1265 secondo cui le industrie insalubri di
prima classe devono essere di regola isolate
nelle campagne e tenute lontane dalle
abitazioni.
Il d.m. del Ministero della Sanità
05.09.1994 classifica gli allevamenti di
animali tra le industrie insalubri di prima
classe, e quindi legittima l’applicazione
alle stalle della prescrizione del t.u.
sanitario sopra citata.
La norma del regolamento d’igiene del Comune
di Selvino è quindi applicazione di un
principio generale espresso dalla fonte
normativa primaria.
Nella lettura che ne dà la ricorrente essa
non recherebbe divieto di installazione di
nuove abitazioni in prossimità ad una stalla
preesistente. Ma tale lettura, che nega
significato alla preesistenza di un
edificio, comporterebbe come conseguenza
che, una volta insediata la residenza ed
effettuata la valutazione di compatibilità
tra l’insediamento residenziale autorizzato
e la stalla preesistente, qualora l’esito di
tale accertamento sia negativo, sia la
stalla a doversi allontanare in quanto
industria insalubre.
In realtà, la preesistenza di una stalla è
situazione ostativa all’edificazione di un
edificio residenziale, poiché “l'art. 216
r.d. 27.07.1934 n. 1265, nel prescrivere che
le industrie insalubri di prima classe
devono essere isolate dalle campagne e
tenute lontane dall'abitazione, non fissa
specifiche distanze; pertanto, se il
titolare dimostra che, per l'introduzione di
nuovi metodi o speciali cautele, l'esercizio
dell'attività non reca nocumento alla salute
del vicinato, le distanze eventualmente
prescritte dal p.r.g. possono essere
derogate” (CdS, IV, 6648/2004).
Ne consegue che, al più, il ricorrente, una
volta ricevuto nei 30 gg. dalla
presentazione della d.i.a. l’inibizione a
svolgere l’attività, lungi dal poter
contestare tout court il
provvedimento impugnato, avrebbe dovuto
dimostrare l’inesistenza di una situazione
di incompatibilità ed attivare un dialogo
con l’amministrazione che (in astratto)
avrebbe potuto anche portare alla
edificazione dei quattro edifici
residenziali in progetto.
---------------
Nel terzo motivo di ricorso si deduce
che, in realtà, non vi sarebbe alcuna stalla
nelle vicinanze ma solo la tenuta di un
allevamento di pochi animali (segnatamente,
3 mucche) non classificabile peraltro come
stalla.
In realtà, nella normativa non vi sono
appigli utili per sostenere tale tesi. Il
d.m. 05.09.1994, che definisce le industrie
insalubri, si limita ad indicare come tale
sia l’allevamento di animali che la stalla
di sosta per il bestiame (allegato A,
lettera C, numeri 1 e 2) senza fissare un
numero minimo di animali perché si possa
integrare la definizione in parola.
Né si può sostenere che questa limitazione
si ricava dal linguaggio comune, atteso che
in esso non si è formata alcuna accezione
nel senso che tre animali non costituiscano
stalla.
Le asprezze della normativa in parola sono
state, in effetti, temperate dalla
giurisprudenza che, per evitare di incorrere
in situazioni aberranti, ha ritenuto che “la
tenuta di pochi capi "da cortile" e "da
compagnia" in un'area recintata a fianco
dell'abitazione del ricorrente non
costituisce violazione del locale
regolamento di igiene che vieta di tenere
animali che arrechino pregiudizio alla
salubrità e alla tranquillità delle
abitazioni e disturbo al vicinato quando gli
animali siano in ottima salute, in numero
trascurabile in rapporto all'entità e al
tipo di area in cui vengono tenuti e a una
distanza congrua dagli edifici ad uso
abitativo della borgata, per cui risulta
illegittima per carenza dei presupposti
normativi l'ordinanza assessorile che ne
impone l'allontanamento” (Tar Parma
02.07.1996, n. 215).
Nel caso in esame, peraltro, non si versa
però nella situazione che la giurisprudenza
amministrativa ha individuato come limite
all’applicazione della normativa del testo
unico delle leggi sanitarie in quanto non si
può sostenere che tre mucche costituiscano
capi “da cortile” e “da compagnia”.
Senza obliterare la circostanza che il
numero di mucche tenute può anche cambiare
nel corso degli anni, ciò che è decisivo è
che vi siano –come nel caso in esame non è
contestato- locali appositamente apprestati
per ospitarle in modo stabile
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 19.11.2009 n. 2217 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 19.09.2011 |
ã |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Linee di indirizzo per
la progettazione delle opere di difesa del
suolo in Regione Lombardia (Regione
Lombardia, settembre 2011). |
SICUREZZA LAVORO: Addetti
alle pulizie: guida alla valutazione dei
rischi, liste di controlli.
Gli addetti alle pulizie prestano servizio
in svariati settori, al chiuso e all’aperto,
in aree pubbliche, spesso di notte o al
mattino presto, talvolta da soli. Proprio
per questo sono spesso soggetti a svariati
tipologie di rischi e pericoli per la
sicurezza sui luoghi di lavoro.
Disturbi muscolo-scheletrici, cadute
dall’alto, inalazione di polveri pericolose
e scosse elettriche sono solo alcuni dei
rischi a cui vanno incontro i lavoratori
impegnati nelle attività di pulizia.
L’Agenzia europea per la sicurezza e la
salute sul lavoro, OSHA, ha pubblicato una
guida, con lo scopo di informare sia i
datori di lavoro che i lavoratori del
settore delle pulizie sui pericoli insiti in
questa attività e di come è possibile
prevenire i rischi.
Il documento, oltre alla parte generale
relativa alla valutazione dei rischi,
contiene due casi studio e una check list
dei controlli da eseguire
(15.09.2011 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Norme
tecniche per le costruzioni e responsabilità
del direttore dei lavori e del collaudatore.
La guida agli adempimenti.
Le Norme Tecniche per le Costruzioni (D.M.
14.01.2008) introducono importanti novità
che richiedono alla Direzione Lavori e al
Collaudatore, e più in generale a tutte le
figure impegnate nella realizzazione delle
opere, una maggiore consapevolezza nel
controllo dei materiali e delle tecnologie
connesse all’utilizzo del cemento armato.
In particolare, il Capitolo 11 delle NTC
riguarda le procedure di qualificazione e di
accettazione in cantiere; i materiali devono
essere:
● identificati univocamente dal produttore
(ad es. attraverso il cartellino
identificativo o ddt);
● qualificati a cura del produttore
(attraverso le prove sperimentali);
● accettati dal Direttore dei Lavori
(attraverso verifica documentale e prove di
accettazione).
Il Direttore dei Lavori ha l'obbligo di
accettare tutti i materiali di uso
strutturale con le procedure prescritte
dalle norma attraverso la verifica
documentale, prima del loro impiego, e i
controlli sperimentali di accettazione, al
momento della posa in opera.
Il Collaudatore statico ha, invece,
l’obbligo di verificare che tutti i
materiali per uso strutturale impiegati
nell’esecuzione di un'opera siano stati
correttamente identificati e qualificati
sotto la responsabilità del produttore e
accettati correttamente dal Direttore dei
Lavori.
Ricordiamo brevemente i controlli di
accettazione obbligatori sul calcestruzzo e
sugli acciai ...
(15.09.2011 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO: Valutazione
dei rischi: cosa vuol dire
AUTOCERTIFICAZIONE?
Autocertificare la
valutazione dei rischi non significa che il
datore di lavoro non debba provvedere a
valutare i rischi, ma che, una volta
effettuata tale valutazione, il datore di
lavoro deve elaborare un documento dal
contenuto sia pure meno analitico rispetto
al DVR.
Lo ha stabilito la
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
rigettando un ricorso presentato dal datore
di lavoro di un’azienda che era stato
condannato dai Giudici di prime cure per non
aver effettuato la valutazione dei rischi
(secondo le disposizioni dell’art. 4 del
D.Lgs. n. 626/1994).
In particolare, la Cassazione ha ribadito
che l’obbligo di valutazione dei rischi e di
elaborazione del relativo documento è ora
confermato dal D.Lgs. n. 81/2008 con gli
artt. 17, 28 ed art. 29 comma 5, e che il
Decreto prevede modalità semplificate di
adempimento di tale obbligo per i datori di
lavoro che occupino fino a dieci dipendenti.
Pertanto, anche autocertificando la
valutazione dei rischi, è sempre opportuno
redigere un documento, seppur semplificato!
(15.09.2011 - link a www.acca.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
ENTI LOCALI - VARI: G.U.
16.09.2011 n. 216 "Testo
del decreto-legge 13.08.2011, n. 138,
coordinato con la legge di conversione
14.09.2011, n. 148, recante:
«Ulteriori misure urgenti per la
stabilizzazione finanziaria e per lo
sviluppo»".
---------------
Per comodità di lettura delle modifiche
introdotte dalla legge di conversione del
decreto-legge, si legga anche
il seguente testo comparato (prima e
dopo la conversione in legge). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI SERVIZI:
M. Lombardo,
La governance delle società a controllo
pubblico: riflessioni a margine della nuova
disciplina normativa dei servizi pubblici
locali (link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
F. Scura,
La "nuova" disciplina dei servizi pubblici
locali nella "manovra di Ferragosto"
(link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno
indiretto, prescrizione dalla data del
pagamento.
Il dies a quo della prescrizione dell'azione
di responsabilità dinanzi alla Corte dei
conti per il risarcimento del danno
indiretto va individuato nella data di
emissione del titolo di pagamento al terzo
danneggiato.
È questo l'importante principio
espresso dalle Sezz. unite della Corte dei Conti con la recente
sentenza
05.09.2011 n. 14.
È danno indiretto quello cagionato
(generalmente da un dipendente o
amministratore pubblico) non direttamente
all'ente ma ad un terzo nei cui confronti la
p.a. è tenuta al risarcimento. L'ipotesi più
frequente di danno indiretto si verifica,
quindi, quando la p.a. procede al
risarcimento del danno nei confronti di un
terzo per effetto di una sentenza civile o
amministrativa.
Il danno indiretto può tuttavia scaturire
anche da altre fattispecie quali, per
esempio accordi transattivi, lodi arbitrali
o riconoscimenti di debito. In tutti questi
casi spetta alla Corte dei conti stabilire
quanta parte dell'esborso subito dalla p.a.
debba essere addebitata al dipendente o
all'amministratore pubblico sempre che
sussistano i presupposti di imputazione (per
esempio, colpa grave).
Considerato che, ai sensi dell'art. 1, comma
2, della legge 20/1994, nell'ambito della
giurisdizione contabile, il diritto al
risarcimento del danno si prescrive in 5
anni decorrenti dalla data in cui si è
verificato il fatto dannoso, esiste da tempo
un contrasto giurisprudenziale in relazione
alla individuazione dell'inizio del termine
prescrizionale in ipotesi di danno
indiretto: secondo una prima tesi (finora
prevalente in quanto espressa in passato
dalle stesse sezioni riunite) la
prescrizione decorre dal momento del
passaggio in giudicato della sentenza di
condanna, secondo altra tesi è invece
rilevante la data di effettivo pagamento al
terzo danneggiato.
Con la sentenza in argomento la Corte dei
conti, considerato che la prescrizione
inizia a decorrere, per effetto della regola
generale prevista dall'art. 2935 del codice
civile, dal giorno in cui il diritto può
essere fatto valere e cioè da quando il
danno è divenuto certo, concreto ed attuale
e che non è pertanto sufficiente l'insorgere
del semplice obbligo giuridico di pagare,
afferma che è rilevante la diminuzione
patrimoniale dell'ente e quindi l'effettivo
pagamento.
Le sezioni riunite hanno infatti precisato
che occorre distinguere tra il
perfezionamento dell'obbligazione
risarcitoria (che si verifica con il
passaggio in giudicato della sentenza) e la
concretizzazione del danno (che si verifica
con il soddisfacimento del terzo) in quanto
prima del pagamento sussiste solo una
situazione di danno potenziale
(articolo ItaliaOggi del 16.09.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Paletti
alle assunzioni aggirabili. Direttiva di
giunta per superare i vincoli ai contratti a
termine. La decisione delle sezioni unite
sul tetto del 20% lascia spazi di
discrezionalità.
Una direttiva della giunta comunale e
provinciale degli enti locali soggetti al
patto di stabilità, per superare i vincoli
alle assunzioni a tempo determinato
scaturenti dalla
delibera
29.08.2011 n. 46/2011 delle
sezioni riunite di controllo della Corte dei conti.
L'interpretazione fornita dalla magistratura
contabile agli effetti dell'articolo 14,
comma 9, della legge 122/2010, secondo la
quale il limite della spesa per nuove
assunzioni, pari al 20% delle cessazioni
dell'anno precedente, si applica anche ai
rapporti di lavoro a tempo determinato,
oltre a non risultare convincente, si presta
ad applicazioni discrezionali difficilmente
sanzionabili.
Tanto che la regola di rigorosità posta
dalle sezioni riunite potrebbe risultare
tamquam non esset.
Somma urgenza e servizi infungibili ed
essenziali. La ricostruzione proposta dalle
sezioni riunite è, infatti, inficiata dal
tentativo di ammorbidire gli effetti
eccessivamente restrittivi sull'autonomia
organizzativa, derivanti dal comprendere nel
limite del 20% anche le assunzioni a tempo
determinato. Effetti restrittivi che le
stesse sezioni riunite ammettono
verificarsi, ritenendo, però, che spetti al
legislatore correggere.
Tuttavia, la
delibera n. 46/2011, preoccupata
dell'eccessività della tesi proposta,
ritiene che non rientrano nel vincolo del
20% le assunzioni a tempo determinato che si
rendessero necessarie per assicurare
interventi di somma urgenza e per assicurare
servizi infungibili ed essenziali.
La
delibera, tuttavia, non affronta, perché non
potrebbe, il problema di individuare quali
siano tali servizi «infungibili» ed
«essenziali», dei quali manca totalmente
nell'ordinamento non solo un'elencazione, ma
anche una definizione. Si tratta, infatti,
di una fattispecie di «diritto creativo»,
ripresa dalla circolare 18.11.2011, n.
10/122/CR6/C1 della Conferenza delle regioni
e delle province autonome: un atto, cioè,
privo in modo totale ed assoluto di
qualsiasi carattere di fonte normativa ed
interpretativa ufficiale e vincolante.
Direttive locali. Naturalmente, con questa
interpretazione si aprono spazi immensi alla
discrezionalità degli enti. Ai quali,
soprattutto per l'innesto di diritto nuovo,
nulla pare vietare di esercitare una piena
funzione di direttiva organizzativa,
individuando preventivamente con un
provvedimento di giunta i servizi da
ritenere infungibili ed essenziali,
nell'ambito dei quali è possibile assumere
dipendenti a tempo determinato, senza il
limite finanziario del 20% della spesa
complessiva delle cessazioni di personale
dell'anno precedente.
In quanto ai servizi essenziali, è possibile
fare riferimento all'elencazione dei servizi
qualificati appunto come essenziali per
comuni e province dalla legge delega sul
federalismo fiscale, la 42/2009. Basta che
nelle direttive generali della giunta si
faccia riferimento alle previsioni contenute
nell'articolo 21 della citata legge 42/2009,
per individuare una gamma amplissima in cui,
secondo le sezioni riunite, è in re ipsa
consentita la deroga alla regola del 20%. La
somma urgenza, al contrario, va ovviamente
di volta in volta dimostrata con i singoli
provvedimenti.
Forzatura. Il potere che la delibera 46/2011
dà alla discrezionalità delle
amministrazioni è di per sé la dimostrazione
della forzatura della tesi ivi sostenuta.
È piuttosto evidente che l'articolo 14,
comma 9, della legge 122/2010,
contrariamente a quanto forza a leggere la
delibera 46/2011, riferisce il limite della
spesa per cessazioni al 20% ai soli rapporti
a tempo indeterminato, per una serie fin
troppo lunga di ragioni. In primo luogo, si
l'articolo 9, comma 28, della legge 122/2010
ha escluso le amministrazioni locali
dall'obbligo di ridurre le spese per
personale a tempo determinato del 50%
rispetto al 2009. Per via interpretativa non
è ammesso appesantire addirittura tale onere
a carico degli enti locali, minando la loro
autonomia organizzativa riconosciuta dalla
Costituzione.
In secondo luogo, l'articolo 1, comma 557,
della legge 296/2006 qualifica come
principio il «contenimento della spesa
per il lavoro flessibile»: trattandosi
di un principio, non è evidentemente
possibile che al tempo stesso l'ordinamento
imponga la misura percentuale del
contenimento della spesa per il lavoro
flessibile
(articolo ItaliaOggi del 16.09.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Efficienza energetica con gara.
I comuni devono garantire la concorrenza nei
bandi. L'Autorità di vigilanza sui
contratti pubblici fissa i paletti per la
correttezza degli affidamenti.
I contratti di efficienza energetica con
finanziamento privato hanno natura di
partenariato pubblico-privato e oggetto
misto di progettazione, realizzazione dei
lavori, fornitura e gestione dell'impianto
energetico; le amministrazioni devono però
definire accuratamente il contenuto dei
bandi e dei disciplinari di gara per
garantire una maggiore concorrenza e per
tutelare gli interesse pubblici.
È quanto afferma l'Autorità per la vigilanza
sui contratti pubblici con la
deliberazione
06.07.2011 n.
71 in cui approfondisce gli elementi
essenziali che caratterizzano i contratti di
global service aventi ad oggetto
l'efficienza energetica, realizzati con
finanziamento tramite terzi.
Al di là del caso concreto esaminato, la
delibera inquadra questa tipologia di
contratti partendo dall'esame dell'istituto
del finanziamento tramite terzi che sta
prendendo piede nel settore energetico dopo
che la Commissione europea nel 2005 ha
adottato il Libro verde sull'efficienza
energetica.
In concreto il contratto di efficienza
energetica si configura come una modalità di
partenariato pubblico-privato che consente
ad alcuni soggetti qualificati di favorire
gli interventi di razionalizzazione
energetica senza fondi pubblici, ma con
capitale privato. Questi contratti di norma
hanno ad oggetto una fornitura globale di
servizi (studio, progettazione, gestione) e
la realizzazione di lavori. Le prestazioni
del privato consistono infatti nel
progettare, finanziare, realizzare, gestire
e mantenere in efficienza l'impianto, per
poi consegnarlo all'utente in buono stato di
conservazione allo scadere del contratto,
dopo che sia stato ripagato l'investimento e
realizzato il profitto con il risparmio
ottenuto.
L'amministrazione, invece, si
impegna a garantire un utilizzo costante
dell'energia prodotta dall'impianto, nei
modi, forme e tempi in base ai quali è stato
elaborato lo studio di fattibilità
tecnico-economico, nonché a corrispondere
alla società di servizi un canone mensile
basato su una quota del valore dell'energia
risparmiata, canone cui la società ha
diritto in virtù del contratto. In questo
settore l'Autorità ha notato come vi sia una
«carente definizione dei bandi di gara e una
conseguente difficile lettura da parte dei
concorrenti dell'effettivo modello
contrattuale» che finisce spesso per
determinare «una scarsa partecipazione da
parte delle potenziali ditte interessate,
che spesso crea la condizione per
l'aggiudicazione dell'appalto alla ditta
precedentemente affidataria».
In ogni caso l'Autorità evidenzia la
necessità che le amministrazioni prestino
particolare attenzione alla «definizione dei
consumi energetici storici (diagnosi
energetica) e alla adeguata progettazione
(studio di fattibilità o progetto
preliminare) di un piano di ammortamento e
di ripartizione dei programmati risparmi, in
modo che il contratto chiarisca bene gli
specifici ruoli dei contraenti stabilendo e
regolamentando le reciproche responsabilità,
la ripartizione dei benefici, dei rischi e
definendo anche le garanzie».
In particolare è poi opportuno, dice
l'Authority, individuare e concordare, a
monte dell'appalto, la base di calcolo del
canone e prevedere le ipotesi di
integrazione, rimozione o sostituzione degli
impianti. Infine per quel che riguarda la
fase di esecuzione del contratto l'Autorità
raccomanda agli enti pubblici di accertare
che il fornitore installi gli impianti nei
tempi stabiliti, che gli impianti siano
installati correttamente e che funzionino
come da progetto, di verificare il valore
monetario dei risparmi energetici ottenuti e
i rispettivi sistemi di calcolo, ma anche di
effettuare il monitoraggio sui risultati e
predisporre eventuali azioni correttive per
ripristinare o mantenere la performance e
effettuare report di confronto tra risparmio
ottenuto e risparmio previsto
(articolo ItaliaOggi del 16.09.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
NEWS |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Poltrone, sì a tagli fai-da-te.
Giunte ridotte solo modificando lo statuto.
Il Tuel prevede un numero
massimo di assessori, ma non un numero
minimo.
È possibile nominare un numero di assessori
provinciali inferiore al minimo fissato
dallo statuto?
Ai sensi del comma 2 dell'art. 47 del Tuel,
«gli statuti, nel rispetto di quanto
previsto dal comma 1, possono fissare il
numero degli assessori ovvero il numero
massimo degli stessi»; il comma 1 prevede il
numero massimo nella misura di un terzo e
comunque non superiore a 12 unità.
Nel demandare all'autonomia statutaria la
determinazione numerica degli assessori, il
legislatore statale ha legittimato la
possibilità di prevedere un numero fisso
ovvero flessibile, senza fissare il numero
minimo, ma stabilendo un limite massimo
inderogabile.
Prevedendo «che lo statuto possa stabilire
il numero effettivo degli assessori
nominabili», lo stesso legislatore impone
«una verifica in sede locale
dell'individuazione del numero ottimale di
componenti della giunta» (Consiglio di
stato. V, 31/12/2003, n. 9315) che,
presupponendo una ponderata valutazione
politico-amministrativa delle esigenze
dell'ente, consente la nomina del numero di
assessori reputato ottimale .
Nell'ambito del delineato criterio di
riferimento definito nel citato art. 47, si
deduce che la norma dello statuto che
stabilisce il numero dei componenti della
giunta diviene vincolante per l'ente locale
e può essere derogata solo attraverso una
modifica della medesima disposizione.
A tal fine giova il riferimento alla
sentenza n. 3357/2009, con la quale il
Consiglio di stato, pronunziatosi sul quorum
di maggioranza necessario per modificare il
regolamento per il funzionamento del
consiglio comunale, ha affermato il
principio che «una volta adottato il
regolamento contenente una specifica
previsione in ordine alle maggioranze
occorrenti per le proprie modifiche,
l'adozione di queste non può che trovare
disciplina in quelle norme di cui il
consiglio stesso si è dotato, alle quali
l'ente deve attenersi essendo ben noto come
una pubblica amministrazione non possa
disapplicare le regole da essa poste, se non
previo ritiro ed ancorché illegittime».
Ove quindi si delinei la volontà politica di
ridurre la compagine degli assessori
occorrerà procedere, preliminarmente, ad una
apposita modifica della disposizione
statutaria inerente la quantificazione degli
stessi, nel senso ritenuto
(articolo ItaliaOggi del 16.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Numero assessori
comunali.
Un comune può nominare due assessori in più
rispetto al numero massimo previsto dalla
vigente normativa, se la norma statutaria
tuttora vigente prevede un limite massimo
superiore?
La determinazione numerica degli assessori
rientra nella materia «organi di governo»
dei comuni rimessa, ai sensi dell'art. 117,
comma 2, lett. p) della Costituzione, alla
potestà legislativa esclusiva dello stato.
Quest'ultima, invero, per il profilo
considerato riconosce a comuni e province,
quale unico spazio di autonomia, la
possibilità di individuare nello statuto una
misura fissa ovvero flessibile di assessori,
purché, in entrambi i casi, entro il limite
massimo prescritto, che non può mai essere
superato.
La disposizione statutaria, essendo
incompatibile con le intervenute modifiche
normative, non può trovare applicazione,
anche in relazione a quanto disposto
dall'art. 1, comma 3, del dlgs n. 267, per
il quale «l'entrata in vigore di nuove leggi
che enunciano espressamente i principi che
costituiscono limite inderogabile per
l'autonomia normativa dei comuni e delle
province abroga le norme statutarie con essi
incompatibili. I consigli comunali e
provinciali adeguano gli statuti entro
centoventi giorni dalla data di entrata in
vigore delle leggi suddette».
Inoltre, come ha evidenziato la circolare
del ministero dell'interno prot. n. 2915 del
18.02.2011, a decorrere dal 2011, in
occasione del successivo rinnovo elettorale,
il numero dei consiglieri sarà ridotto del
20% e di conseguenza, nel caso dei comuni
con più di 30 mila abitanti, il numero
massimo degli assessori dovrà essere
calcolato su 25 unità (24 consiglieri più il
sindaco).
Nel caso di specie, pertanto, non è
possibile la nomina di ulteriori assessori
(articolo ItaliaOggi del 16.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Le leggi della p.a. codificate.
Sì al ddl.
Al via l'iter per la realizzazione di un
Codice delle leggi amministrative e di
quelle che regolano l'azione e
l'organizzazione delle pubbliche
amministrazioni e del pubblico impiego.
Dopo
il senato della repubblica, ieri, la camera
dei deputati ha infatti approvato (con 259
voti a favore, 200 voti contrari e 40
astenuti) il disegno di legge delega per la
codificazione delle leggi in materia di
pubblica amministrazione.
Con questa delega
il governo può iniziare il lavoro di
ricognizione, organizzazione e coordinamento
delle disposizioni in materia ed è tenuto ad
adottare, entro dodici mesi dalla data di
entrata in vigore della legge, tutti i
decreti legislativi necessari a provvedere
alla raccolta in appositi codici o testi
unici delle disposizioni vigenti in materia.
Le disposizioni interessate dalla delega,
come spiega il primo comma dell'articolo
unico che compone il ddl, sono quelle
vigenti nelle materie di cui alla legge 07.08.1990, n. 241, che ha valore di legge
di princìpi generali per le amministrazioni
pubbliche; al testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di
documentazione amministrativa, di cui al dpr
28.12.2000, n. 445; al decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165; e al
decreto legislativo 27.10.2009, n. 150.
I decreti legislativi di attuazione che
saranno necessari, si legge al comma 3,
dovranno essere emanati «su proposta del
ministro per la pubblica amministrazione e
l'innovazione, di concerto con il ministro
per la semplificazione normativa, previa
acquisizione del parere della Conferenza
unificata di cui all'articolo 8 del decreto
legislativo 28.08.1997, n. 281, e
successive modificazioni, e,
successivamente, del parere della
Commissione parlamentare per la
semplificazione, di cui all'articolo 14,
comma 19, della legge 28.11.2005, n. 246, e
successive modificazioni. Si applicano le
disposizioni di cui al citato articolo 14,
commi 22 e 23, della legge n. 246 del 2005,
e successive modificazioni».
Il ddl è frutto dello stralcio di una
quarantina di articoli in materia di
semplificazione di cui si componeva il testo
originario
(articolo ItaliaOggi del 16.09.2011). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
MANOVRA BIS/ Chi
più spende meno guadagna.
Al dirigente il 30% in meno della
retribuzione di risultato. L'imperativo è ridurre i
costi. Dal taglio degli organici si
risparmierà il 10% della massa salariale.
Molteplici le misure che interessano la
pubblica amministrazione e gli enti locali
contenute nel dl n. 138/2011 che ieri sera è
stato definitivamente convertito in legge
dalla camera.
Rispetto al testo di Ferragosto, per le
amministrazioni statali che non conseguono
gli obiettivi di risparmio non si toccherà
più la tredicesima dei dipendenti, bensì si
opererà un taglio del 30% della retribuzione
di risultato del dirigente responsabile del
mancato risparmio.
I dipendenti delle p.a., tranne il personale
non contrattualizzato, potranno essere
destinati ad effettuare la prestazione di
lavoro in altra sede sulla base di motivate
esigenze produttive. Un trasferimento solo
in ambito regionale, tranne che per il
personale del Viminale. Si prevede una
riduzione del 10% degli statali.
In pratica, si dovrà operare un taglio degli
organici che permetta un risparmio di spesa
della massa salariale del 10%, rispetto a
quella attuale. Restano festive le solennità
civili del 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno e
quella relativa al Santo Patrono di Roma.
Anche gli enti tra 1.000 e 5.000 abitanti
saranno soggetti al patto di stabilità.
Inoltre, le regioni del meridione, potranno
escludere dal Patto i finanziamenti del
Fondo Fas.
Dal 2012, i sindaci potranno diversificare
l'addizionale Irpef secondo scaglioni di
reddito.
Avranno però l'obbligo di ricalcare le
stesse fasce di reddito stabilite per
l'Irpef. Prevista anche una soglia di
esenzione. La manovra prevede che negli enti
con meno di 15.000 abitanti, giunte,
consigli e commissioni si svolgano in un
arco temporale che non coincida con lo
svolgimento dell'attività lavorativa dei
suoi componenti.
Si prevede, poi, che i lavoratori
dipendenti, pubblici e privati, che siano
amministratori locali, da oggi possono
assentarsi dal posto di lavoro solo il tempo
necessario per partecipare ai lavori
dell'assemblea e per il tempo che occorre a
raggiungere l'aula consiliare. Gli enti con
meno di mille abitanti si salvano dalla
soppressione, ma hanno l'obbligo di
associarsi per svolgere tutte le funzioni
amministrative e tutti i servizi pubblici
loro spettanti. Previste riduzioni anche nel
numero degli amministratori. Salta, infine,
la soppressione delle province, rinviata a
un ddl costituzionale che l'esecutivo ha
varato la scorsa settimana.
Il governo, poi, dovrà varare la
riorganizzazione della spesa pubblica che,
tra gli obiettivi, presenta l'accorpamento
degli enti di previdenza (di fatto una «Super
Inps») e l'integrazione operativa delle
agenzie fiscali (articolo ItaliaOggi del
15.09.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimazione a svolgere
attività edilizia – Art. 11 d.P.R. n.
380/2001 – Titolo per richiedere il permesso
di costruire – Diritto di proprietà, diritti
reali e personali di godimento.
L'espressione legislativa "titolo per
richiederlo" contenuta nell’art. 11 del
d.P.R. n. 380/2001, in punto di
legittimazione a svolgere attività edilizia
è stata intesa dalla giurisprudenza nel
senso di posizione che civilisticamente
costituisca titolo per esercitare sul fondo
un'attività costruttiva (Cons. Stato, sez.
V, 15.03.2001, n. 1507).
Tale posizione soggettiva non coincide con
il solo diritto di proprietà, ma anche con
altri diritti reali o addirittura personali
di godimento, purché attribuiscano al
titolare la facoltà di attuare interventi
sull'immobile (Cons. Stato, sez. V,
28.05.2001, n. 2882). Di conseguenza, la
mancanza del diritto di proprietà o di altro
titolo idoneo preclude il rilascio del
titolo edilizio.
Legittimazione a
svolgere attività edilizia – Comune –
verifica del titolo sostanziale – Ricerca di
fattori limitativi, preclusivi o estintivi –
Necessità – Esclusione.
Al Comune spetta soltanto la verifica, in
capo al richiedente, di un titolo
sostanziale idoneo a costituire la c.d. "posizione
legittimante" a svolgere attività
edilizia, senza alcuna ulteriore e minuziosa
indagine che si estenda fino alla ricerca di
eventuali fattori limitativi, preclusivi o
estintivi del titolo di disponibilità
dell'immobile, allegata da chi presenta
l’istanza (Cons. Stato, sez. V, 04.02.2004,
n. 368; TAR Sicilia-Catania, sez. I,
12.10.2010, n. 4084; TAR Lombardia-Milano,
sez. II, 31.03.2010, n. 842), salvo che, la
sussistenza di detti fattori ostativi non
emerga, con pari grado di certezza, dagli
atti del procedimento eventualmente
introdotti da chi ne abbia interesse (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 15.09.2011 n. 2220 -
link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: E'
pacifico in giurisprudenza il principio
secondo il quale il concorrente in una gara
d'appalto è titolare di un vero e proprio
interesse sostanziale a non subire i
pregiudizi derivanti dalla segnalazione
all'Autorità per la Vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture ed
dalla successiva annotazione nel casellario
informatico della sua esclusione, sempre che
abbia assolto l'onere di impugnare il
provvedimento di esclusione da cui sia
evincibile la ragione a supporto della
relativa adozione.
Tale segnalazione non ha natura
provvedimentale e non risultia pertanto,
direttamente e immediatamente lesiva per
l'impresa coinvolta; si tratta in sostanza
di una comunicazione circa fatti
verificatisi o accertati in relazione ad una
gara (e/o in corso di essa), rispetto alla
quale potranno derivare effetti
pregiudizievoli per l'impresa interessata
solo a seguito dell'annotazione nel
Casellario informatico”, per cui “ne deriva
che l'impugnazione della segnalazione
all'Autorità di Vigilanza deve ritenersi
inammissibile per carenza di interesse, non
avendo tale comunicazione alcuna immediata
lesività per i ricorrenti.
---------------
La giurisprudenza tende ad escludere la
necessità, per la stazione appaltante, di
assumere atti ulteriori (quali la
segnalazione all'Autorità per la Vigilanza
sui contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture) rispetto alla fisiologica
esclusione dell'impresa dalla gara, tutte le
volte in cui emerga la “buona fede”
dell’impresa stessa.
Tuttavia, secondo TAR Trentino Alto Adige
Trento, 09.02.2011, n. 34 si deve trattare
di casi caratterizzati dalla palmare
(corsivo dell’estensore) buona fede
dell'impresa, che abbia errato in ordine
alla interpretazione del bando o della
normativa generale ed abbia ritenuto di
possedere il requisito in realtà carente o
contestato.
Il Collegio osserva in rito che “è
pacifico in giurisprudenza il principio
secondo il quale il concorrente in una gara
d'appalto è titolare di un vero e proprio
interesse sostanziale a non subire i
pregiudizi derivanti dalla segnalazione
all'Autorità per la Vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture ed
dalla successiva annotazione nel casellario
informatico della sua esclusione, sempre che
abbia assolto l'onere di impugnare il
provvedimento di esclusione da cui sia
evincibile la ragione a supporto della
relativa adozione” (così, da ultimo, TAR
Sicilia, Catania, sez. III, 13.06.2011, n.
1460, che richiama sul punto, per tutte, TAR
Lazio Roma, sez. III, 21.09.2009, n. 9039);
nello stesso senso e sempre di recente si è
pronunciato il TAR Campania-Napoli (sez.
VIII, 09.02.2011, n. 762), il quale
-richiamando a sua volta TAR Toscana, sez.
I, n. 2331 del 2008- ha espressamente
ritenuto che “tale segnalazione non abbia
natura provvedimentale e non risulti,
pertanto, direttamente e immediatamente
lesiva per l'impresa coinvolta; si tratta in
sostanza di una comunicazione circa fatti
verificatisi o accertati in relazione ad una
gara (e/o in corso di essa), rispetto alla
quale potranno derivare effetti
pregiudizievoli per l'impresa interessata
solo a seguito dell'annotazione nel
Casellario informatico”, per cui “ne
deriva che l'impugnazione della segnalazione
all'Autorità di Vigilanza deve ritenersi
inammissibile per carenza di interesse, non
avendo tale comunicazione alcuna immediata
lesività per i ricorrenti”.
---------------
Il Collegio
rileva che la giurisprudenza (si veda ancora
lo stesso precedente sopra richiamato per
primo: Tar Catania, n. 1460/2011, e le altre
pronunce ivi menzionate) tende ad escludere
la necessità, per la stazione appaltante, di
assumere atti ulteriori (quali la
segnalazione all'Autorità per la Vigilanza
sui contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture) rispetto alla fisiologica
esclusione dell'impresa dalla gara, tutte le
volte in cui emerga la “buona fede”
dell’impresa stessa.
Tuttavia, secondo TAR Trentino Alto Adige
Trento, 09.02.2011, n. 34 –richiamata nella
predetta sentenza del Tar Catania– si deve
trattare di casi caratterizzati dalla
palmare (corsivo dell’estensore) buona fede
dell'impresa, che abbia errato in ordine
alla interpretazione del bando o della
normativa generale ed abbia ritenuto di
possedere il requisito in realtà carente o
contestato (cfr., altresì, in termini: TAR
Lazio, Roma, sez. II, 06.03.2009, n. 2341;
TAR Piemonte, sez. I, 23.05.2009, n. 1482)
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 15.09.2011 n. 1314 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Con
riferimento agli enti locali, va ritenuto
che decorre dall'01.01.2010 l'applicabilità
dell'art. 62 d.lgs. 27.10.2009 n. 150, nella
parte in cui stabilisce che le progressioni
tra aree avvengono tramite concorso
pubblico, ferma la possibilità per
l'amministrazione di destinare al personale
interno, in possesso dei titoli di studio
richiesti per l'accesso dall'esterno, una
riserva di posti comunque non superiore al
50% di quelli messi a concorso. Ne segue che
l'art. 91 t.u.e.l. nella parte in cui
prevede concorsi interamente riservati al
personale dipendente, deve ritenersi
abrogato per incompatibilità con il d.lg.
27.10.2009 n. 150.
Pertanto, la previsione del concorso
pubblico quale sistema di reclutamento del
personale degli enti pubblici per la
copertura dei posti disponibili nella
dotazione organica è da ritenersi principio
generale immediatamente applicabile, fatta
salva la possibilità della riserva di un
numero di posti non superiore al 50% dei
posti a concorso a favore del personale
interno, purché in possesso dei titoli di
studio richiesti per l'accesso dall'esterno.
L’art. 52, comma 1-bis, del D.L.vo 165/2001,
come introdotto dall’art. 62 del D.L.vo
27.10.2009 n. 150 (c.d. riforma Brunetta)
prevede che “I dipendenti pubblici, con
esclusione dei dirigenti e del personale
docente della scuola, delle accademie,
conservatori e istituti assimilati, sono
inquadrati in almeno tre distinte aree
funzionali. Le progressioni all'interno
della stessa area avvengono secondo principi
di selettività, in funzione delle qualità
culturali e professionali, dell'attività
svolta e dei risultati conseguiti,
attraverso l'attribuzione di fasce di
merito. Le progressioni fra le aree
avvengono tramite concorso pubblico, ferma
restando la possibilità per
l'amministrazione di destinare al personale
interno, in possesso dei titoli di studio
richiesti per l'accesso dall'esterno, una
riserva di posti comunque non superiore al
50 per cento di quelli messi a concorso. La
valutazione positiva conseguita dal
dipendente per almeno tre anni costituisce
titolo rilevante ai fini della progressione
economica e dell'attribuzione dei posti
riservati nei concorsi per l'accesso
all'area superiore”.
Sul punto, il Collegio condivide
l’orientamento espresso dalla Corte dei
Conti secondo il quale “Con riferimento
agli enti locali, va ritenuto che decorre
dall'01.01.2010 l'applicabilità dell'art. 62
d.lgs. 27.10.2009 n. 150, nella parte in cui
stabilisce che le progressioni tra aree
avvengono tramite concorso pubblico, ferma
la possibilità per l'amministrazione di
destinare al personale interno, in possesso
dei titoli di studio richiesti per l'accesso
dall'esterno, una riserva di posti comunque
non superiore al 50% di quelli messi a
concorso. Ne segue che l'art. 91 t.u.e.l.
nella parte in cui prevede concorsi
interamente riservati al personale
dipendente, deve ritenersi abrogato per
incompatibilità con il d.lg. 27.10.2009 n.
150" (Corte Conti, sez. riun.,
29.04.2010, n. 10).
Pertanto, la previsione del concorso
pubblico quale sistema di reclutamento del
personale degli enti pubblici per la
copertura dei posti disponibili nella
dotazione organica è da ritenersi principio
generale immediatamente applicabile, fatta
salva la possibilità della riserva di un
numero di posti non superiore al 50% dei
posti a concorso a favore del personale
interno, purché in possesso dei titoli di
studio richiesti per l'accesso dall'esterno.
Nel caso di specie, quindi, la
determinazione n. 207 del 18.05.2010 del
Responsabile del Settore Amministrativo del
Comune di Monte San Giovanni Campano è
illegittima perché prevede una procedura
selettiva interna per la copertura di n. 1
posto di Comandante – Categoria D posizione
giuridica D3, anziché quella normativamente
imposta del concorso pubblico.
Né può ritenersi rispettata la norma con la
previsione (con delibera di G. C. n. 118 del
15.09.2009) di una ulteriore assunzione
nella categoria giuridica D3, sia perché
tale seconda assunzione riguarda un posto
part time, quindi non equiparabile a un
posto a tempo pieno, sia perché il posto di
Comandante (nella fattispecie della Polizia
Municipale) rappresenta una posizione
apicale, che non può prefigurare posizioni
equivalenti a cui applicare la riserva del
50% dei posti a concorso a favore del
personale interno
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 15.09.2011 n. 689 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Pratiche edilizie, è peculato
l'appropriazione del geometra.
Commette il reato di peculato il geometra
del comune che si appropria del denaro che i
cittadini hanno versato per la definizione
di pratiche edilizie.
È quanto ribadito dalla Corte di Cassazione
che, con la
sentenza 14.09.2011 n. 34086, ha confermato la condanna
nei confronti di un geometra del comune di
Genova che si era appropriato dei soldi
versato dai cittadini per un condono
edilizio.
In particolare la Corte d'appello del
capoluogo ligure lo aveva condannato anche
per truffa. Per aver incassato e tenuto per
sé anche i soldi estorti agli utenti, non
dovuti effettivamente.
Contro la doppia conforme di merito il
professionista ha presentato ricorso in
Cassazione ma al Palazzaccio ha perso
definitivamente la causa. Ad avviso della
difesa il reato di peculato non avrebbe
potuto configurarsi in quanto l'attività
illecita si svolgeva al di fuori della
disciplina sulla riscossione dei crediti
dell'ente locale. Attività, questa, che
potrebbe essere svolta soltanto dai
cassieri.
La tesi non ha convinto la sezione
penale feriale che, nel rendere definitiva
la condanna nei confronti del geometra, ha
chiarito che «l'eventuale agire in
violazione delle norme interne dell'ente
sulla esazione dei crediti non può avere la
conseguenza di elidere i presupposti del
peculato, che si verifica tanto se il
pubblico ufficiale o l'incaricato di
pubblico servizio abbia la disponibilità
giuridica quanto semplicemente quella
materiale del denaro altrui. Il possesso di
tale denaro per ragioni di ufficio,
presupposto dei delitto in questione, si
verifica sia se avvenga secondo le regole
che disciplinano i pagamenti all'ente sia se
si realizzi con violazione delle
disposizioni organizzative dell'ufficio al
riguardo, potendo tale violazione costituire
un illecito disciplinare che si aggiunge al
peculato».
E ciò perché è irrilevante per la
consumazione del reato contestato che
l'appropriazione derivi da un corretto e
legittimo esercizio delle funzioni
esercitate da parte del geometra o
dall'esercizio di fatto e arbitrario di tali
funzioni, «dovendosi escludere il peculato
solo quando il possesso sia meramente
occasionale, cioè dipendente da evento
fortuito o legato al caso». Di certo, non
può sussistere l'occasionalità quando
l'affidamento riposto dal privato nella
qualifica pubblica del soggetto ha favorito
l'insorgere del presupposto del reato (articolo ItaliaOggi del
15.09.2011). |
APPALTI:
Cessione d'azienda: le
dichiarazioni ex 38, lettere b) e c),
gravano anche sui titolari delle cariche
dell’azienda ceduta.
Gli obblighi dichiarativi previsti dal
menzionato art. 38, lettere b) e c), gravano
anche sui soggetti, titolari delle relative
cariche, facenti parte della compagine
dell’azienda ceduta.
Viene sottolineata, invero, la portata
sostanziale, e non meramente formale, della
disposizione in esame, in quanto finalizzata
a garantire che le stazioni appaltanti siano
messe in grado di verificare la sussistenza
di tutti i requisiti di moralità in capo ai
partecipanti alle procedure di affidamento
di appalti pubblici, così da prevenire il
rischio di influenza da parte di cedenti
eventualmente privi di detti requisiti
(massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it -
TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 14.09.2011 n.
1643 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Esami di abilitazione alla
professione forense: è sufficiente
l'attribuzione del punteggio numerico.
Il voto numerico attribuito dalle competenti
commissioni alle prove scritte ed orali di
un concorso pubblico, esprime e sintetizza
il giudizio tecnico-discrezionale della
commissione stessa, contenendo in sé la sua
stessa motivazione, senza bisogno di
ulteriori spiegazioni e chiarimenti
Il TAR ha ritenuto in particolare che la
motivazione espressa numericamente assicuri
la necessaria spiegazione delle valutazioni
di merito compiute dalla commissione e
consenta il sindacato sul potere
amministrativo esercitato, specie quando la
commissione abbia predisposto -come nel
caso che ci occupa- i criteri in base ai
quali procederà alla valutazione delle
prove; e che la sottocommissione, la quale
ha proceduto alla correzione delle prove
scritte, ha indicato, sia pure
sinteticamente, il giudizio in calce ai due
elaborati valutati negativamente
Detto orientamento è stato avallato, da
ultimo, dalla Corte Costituzionale, che, con
sentenza n. 175/2011 (sopra citata), ha
dichiarato infondate le questioni di
legittimità costituzionale -sollevate in
riferimento agli artt. 3, 4, 24, 41, 97 e
117 della Costituzione- degli articoli
17-bis, comma 2, 23, quinto comma, 24, primo
comma, del R.D. n. 37/1934 (massima tratta
da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 14.09.2011 n.
1642 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In sede di partecipazione a gara
d'appalto, la cauzione incompleta, non già
assente, non comporta automaticamente
l'estromissione dalla gara ma semplicemente
che il partecipante sia previamente invitato
ad integrare la cauzione, emendando così
l’errore compiuto.
L’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. n.
163/2006, aggiunto dall’art. 4, II comma, n.
2, lett. “d” del DL n. 70/2011, ha
introdotto il principio di tassatività delle
cause di esclusione dei concorrenti dalle
procedure concorsuali, tra le quali non
rientra la prestazione di una cauzione
provvisoria di importo deficitario.
Nel caso di specie -ove peraltro la cauzione
era incompleta, non già assente- l’odierna
ricorrente non poteva essere automaticamente
estromessa dalla gara, ma doveva essere
previamente invitata ad integrare la
cauzione, emendando così l’errore compiuto.
Ciò stante, va accolto il ricorso (per
motivi aggiunti) dd. 21.07.2011 e,
conseguentemente, annullato l’impugnato
provvedimento 19.07.2011 n. 344409 di
esclusione della ricorrente dal “prosieguo
della gara d’appalto” (TAR Veneto, Sez.
I,
sentenza 13.09.2011 n. 1376 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: A
fronte di una graduatoria valida ed
efficace, l’Amministrazione non può
trascurare, con l’indizione di una nuova
procedura concorsuale, le posizioni di
soggetti già in precedenza selezionati come
idonei, quanto meno in carenza di valide
ragioni giustificatrici ed in presenza di
una graduatoria ancora efficace, non potendo
ritenersi il reclutamento degli idonei
(giudicati tali con regolare procedura
concorsuale, in rapporto all’esercizio di
determinate funzioni) contrastante con il
principio di cui all’art. 97, terzo comma,
della Costituzione e rispondendo tale
reclutamento al principio di economicità
dell’azione amministrativa.
La questione da valutare è stata
recentemente oggetto di ordinanza di
remissione all’Adunanza Plenaria (Cons. St.,
sez. VI, ord. coll. n. 1839/2011 del
25.03.2011), al fine di porre in discussione
l’orientamento prevalente del Consiglio di
Stato, secondo cui la determinazione
amministrativa di avviare nuove procedure
concorsuali –in presenza di una graduatoria
di idonei ancora valida ed efficace–
costituirebbe espressione di un potere
ampiamente discrezionale, non richiedente
specifica motivazione in corrispondenza
della prioritaria regola del concorso per
l’assegnazione di funzioni pubbliche, a
norma dell’art. 97 della Costituzione (Cons.
St., sez. V, 19.11.2009, n. 7243 e
18.12.2009, n. 8369; Cons. St., sez. IV,
27.07.2010, n. 4911).
Si è ritenuto infatti che non potesse
ignorarsi il diverso indirizzo –recepito con
maggiore ampiezza dal Giudice Amministrativo
di primo grado, nonché dalla Corte di
Cassazione– secondo cui, a fronte di una
graduatoria valida ed efficace,
l’Amministrazione non potrebbe trascurare,
con l’indizione di una nuova procedura
concorsuale, le posizioni di soggetti già in
precedenza selezionati come idonei, quanto
meno in carenza di valide ragioni
giustificatrici ed in presenza di una
graduatoria ancora efficace, non potendo
ritenersi il reclutamento degli idonei
(giudicati tali con regolare procedura
concorsuale, in rapporto all’esercizio di
determinate funzioni) contrastante con il
principio di cui all’art. 97, terzo comma,
della Costituzione e rispondendo tale
reclutamento al principio di economicità
dell’azione amministrativa (cfr. in tal
senso Cass. SS.UU. 29.09.2003, n. 14529 e
09.02.2009, n. 3055; TAR Sardegna,
19.10.1999, n. 1228; TAR Lazio, 30.01.2003,
n. 536 e 15.09.2009, n. 8743; TAR Puglia,
Lecce, 10.10.2005, n. 4452; TAR Lombardia,
15.09.2008, n. 4073).
La seconda posizione sopra indicata risulta
comunque preferibile nel caso di specie, in
presenza di una specifica previsione del
bando –relativo al concorso, nell’ambito del
quale le attuali appellate sono state
classificate idonee– che ad avviso del
Collegio rendeva più stringente l’obbligo
dell’Amministrazione di motivare in modo
rigoroso la scelta di avviare una nuova
procedura concorsuale, senza procedere a
scorrimento della graduatoria.
Si deve ritenere pacifico, in effetti, che a
detto scorrimento non corrisponda un
diritto, ma un interesse legittimo (cfr. in
tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. III,
13.12.2010, n. 5205; Cons. St., sez. IV,
18.06.2009, n. 3998), ma va anche detto che
tale interesse deve essere rapportato alla
specificità delle norme attributive del
potere, o al regime corrispondente a forme
di autolimitazione dell’Amministrazione.
Di conseguenza, ove lo scorrimento di cui
trattasi corrisponda ad una mera facoltà
dell’Amministrazione, nei termini
generalmente disciplinati dall’art. 8 del
D.P.R. 10.01.1957, n. 3, come integrato con
legge 08.07.1975, n. 305, deve ritenersi che
tale facoltà sia esercitabile, in via
eccezionale, in funzione esclusiva della
potestà di auto-organizzazione
dell’Amministrazione stessa, ispirata a
principi di economicità in rapporto alle più
lunghe e costose procedure concorsuali, con
possibile impugnativa solo per manifesta
irragionevolezza o contraddittorietà (cfr.
in tal senso, per il principio, Cons. St.,
sez. V, 16.10.2002, n. 5611 e 10.01.2007, n.
53; Cons. St., sez. IV, 12.09.2006, n. 5320;
Cons. St., sez. VI, 11.10.2005, n. 5637).
In altri casi il legislatore ha, viceversa,
prescritto il medesimo scorrimento come un
vero e proprio obbligo, tale da configurare
la natura vincolata del provvedimento
autoritativo da emanare al riguardo (cfr.
art. 23 L. 29.01.1986, n. 23; art. 13, comma
6, D.L. 25.03.1997, n. 67, convertito in
legge 23.05.1997, n. 71; art. 9, comma 17,
L. 18.11.1998, n. 415).
Nelle fattispecie sopra indicate non è
richiesta con ogni evidenza –benché per
ragioni opposte– una motivazione
particolarmente stringente, mentre ad
opposte conclusioni si deve pervenire
quando, come nella situazione in esame, lo
scorrimento sia previsto dal bando di
concorso, non come modalità gestionale di
auto-organizzazione (per inconferenza della
“sedes materiae”), ma come esplicita
“chance” occupazionale per gli
idonei, in caso di disponibilità di posti in
organico nel biennio successivo
all’approvazione della graduatoria.
Nell’ultima ipotesi indicata deve
ammettersi, ad avviso del Collegio, che in
presenza di nuovi posti in organico, che
l’Amministrazione intenda ricoprire –ed in
presenza di una graduatoria di idonei ancora
efficace– detti idonei abbiano titolo
prioritario per l’immissione in ruolo, a
meno di esigenze straordinarie, puntualmente
motivate
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.09.2011 n. 5112 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI:
Via gli ambulanti.
Lontani dal centro e dalla metro. Lecito il
divieto del comune per tutelare monumenti.
Commercio ambulante fuori dal centro
storico, ma solo per tutelare i siti di
interesse archeologico e i monumenti a cielo
aperto. Vittoria parziale per il Comune di
Roma, che ottiene la conferma del divieto di
attività di vendita itinerante nel Municipio
I, quello che racchiude le più importanti
vestigia della latinità antica.
E altrettanto vale per l'off-limits imposto
alle aree a meno di 200 metri da tutte le
stazioni della metropolitana e delle
ferrovie cittadine. La disposizione non vale
invece in altri quartieri che, pure storici
e non periferici, sono portatori di valori
urbani non omogenei e dunque non richiedono
la stessa assoluta tutela.
È quanto emerge
dalla
sentenza
12.09.2011 n. 5087 della IV sezione del
Consiglio di Stato.
Città d'arte. La necessità di difendere le
aree archeologiche non è sentita soltanto
nella Città Eterna, ma anche nel Nordest: ha
di recente superato lo scrutino di
costituzionalità, infatti, una legge veneta
che introduce il divieto per gli ambulanti
nei centri storici dei Comuni della Regione
con più di 50 mila abitanti. E la soluzione
prescelta costituisce un ragionevole
bilanciamento fra la libertà dell'esercizio
del commercio e la necessità di tutelare le
grandi città d'arte.
L'illegittimità della
delibera romana, dunque, è esclusa dal Cds
con riferimento al Municipio I perché il
divieto risulta in linea con il disposto
dell'articolo 28, comma 16, del dlgs
114/1998, che impone la puntuale
individuazione del singolo sito da
proteggere: nella Capitale l'unico
territorio off-limits corrisponde a
quello racchiuso entro le Mura Aureliane,
che ospita anche le più rilevanti sedi
istituzionali.
Né si può legittimamente
sostenere che le norme restrittive siano
cadute con la liberalizzazione del commercio
introdotta dal dl 223/2006 (convertito dalla
legge 248/2006). È poi escluso che la delibera
dell'amministrazione romana presenti profili
discriminatori: lo stop vale per tutti gli
operatori e non solo gli aspiranti nuovi
entranti.
Stazioni sicure. Legittimo, infine, il
divieto di aprire le bancarelle a meno di
200 metri dalle stazioni di metrò e ferrovia
rientra nei poteri discrezionali
dell'amministrazione: l'articolo 28, comma
16, del dlgs 114/1998 consente al Comune
restrizioni motivate dalla tutela di un
preciso interesse pubblico come quello alla
sicurezza (articolo ItaliaOggi del
15.09.2011). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
mobilità volontaria prevista dal D.Lgs.
03.02.1993, n. 29, art. 33, come modificato
dalla L. 28.11.2005, n. 246, art. 16,
integra una modificazione soggettiva del
rapporto di lavoro, con il consenso di tutte
le parti, e quindi una cessione del
contratto”.
Il Comune di Taranto con apposito avviso
pubblico ha indetto una procedura di
mobilità volontaria ai sensi dell’articolo
30 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, per la
copertura a tempo pieno ed indeterminato di
n. 4 posti di dirigente della propria
dotazione organica, cui erano ammessi a
partecipare (art. 1) i dirigenti di ruolo
con rapporto di lavoro a tempo indeterminato
presso le amministrazioni pubbliche di cui
all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 30.03.2001,
n. 165, individuando i requisiti e
precisando (art. 3) che i candidati ammessi
sarebbero stati invitati ad un colloquio “finalizzato
alla valutazione della professionalità e
delle attitudini professionali” e che la
valutazione del curriculum e del colloquio
sarebbe stata affidata ad una apposita
commissione (che disponeva di 100 punti, di
cui 50 punti utilizzabili per la valutazione
del curriculum e 50 punti attribuibili alla
valutazione del colloquio)
L’art. 30, comma 1, del D.Lgs. 30.03.2001,
n. 165, stabilisce che “le
amministrazioni possono ricoprire posti
vacanti in organico mediante cessione di
contratto di lavoro dei dipendenti
appartenenti alla stessa qualifica in
servizio presso altre amministrazioni, che
facciano domanda di trasferimento”,
aggiungendo che “le amministrazioni
devono in ogni caso rendere pubbliche le
disponibilità dei posti in organico da
ricoprire attraverso passaggio diretto di
personale da altre amministrazioni, fissando
preventivamente i criteri di scelta”;
La procedura indetta dal Comune di Taranto
non comporta la costituzione di un nuovo
rapporto di lavoro con i soggetti
selezionati, ma soltanto la cessione del
contratto di lavoro già in essere con la
originaria amministrazione di appartenenza,
non potendosi condividere la tesi
dell’appellante secondo cui la valutazione
del curriculum e del colloquio
integri una vera e propria procedura
paraconcorsuale, trattandosi di strumenti
atti semplicemente a verificare la concreta
rispondenza dei candidati alle specifiche
esigenze dell’amministrazione attraverso
l’apprezzamento delle loro attitudini e
professionalità.
Sussiste pertanto nel caso di specie, come
rilevato dai primi giudici, la giurisdizione
del giudice ordinario, come di recente
ulteriormente confermato dalla Corte di
Cassazione (SS.UU. 09.09.2010, n. 19251),
secondo cui “la mobilità volontaria
prevista dal D.Lgs. 03.02.1993, n. 29, art.
33, come modificato dalla L. 28.11.2005, n.
246, art. 16, integra una modificazione
soggettiva del rapporto di lavoro, con il
consenso di tutte le parti, e quindi una
cessione del contratto”; infatti “in
materia di riparto di giurisdizione nelle
controversie relative al pubblico impiego
contrattualizzato solo le procedure
selettive di tipo concorsuale per
l'attribuzione a dipendenti di p.a. della
qualifica superiore, che comportino il
passaggio da un'area ad un'altra, hanno una
connotazione peculiare e diversa,
assimilabile alle "procedure concorsuali per
l'assunzione", e valgono a radicare -ed
ampliare- la fattispecie eccettuata rimessa
alla giurisdizione del giudice
amministrativo di cui al comma 4, dell'art.
63 citato D.Lgs.; fuori da questa ipotesi
non opera detta fattispecie eccettuata del
comma 4, dell'art. 63 e conseguentemente si
riespande la regola del primo comma della
medesima disposizione, che predica in
generale la giurisdizione del giudice
ordinario nelle controversie aventi ad
oggetto il lavoro pubblico privatizzato”,
con la conseguenza che “le procedure di
mobilità volontaria interna, che comportino
una mera modificazione soggettiva del
rapporto di lavoro e non già la costituzione
di un nuovo rapporto mediante una procedura
selettiva concorsuale…”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.09.2011 n. 5085 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Trattamento economico nel
pubblico impiego.
In materia di prescrizione dei crediti
pecuniari dei dipendenti della Pubblica
Amministrazione, solo nel caso in cui l'atto
interruttivo derivi da una iniziativa del
lavoratore creditore esso può considerarsi
esteso anche al credito relativo agli
accessori, mentre l’eventuale riconoscimento
del debito da parte della pubblica
amministrazione debitrice non è, in genere,
idoneo ad interrompere la prescrizione dei
crediti vantati dal dipendente a titolo di
accessori (interessi legali e rivalutazione
monetaria).
In tema di spettanze retributive al pubblico
dipendente il termine di prescrizione
decennale può trovare applicazione solo
quando spetti all’amministrazione di
riconoscere e determinare la sussistenza del
diritto vantato, previo accertamento delle
condizioni necessarie per la sua
liquidazione, e non già allorché il credito
(cui accede la richiesta di interessi legali
e rivalutazione monetaria) derivi
direttamente da disposizioni di legge o di
contratti collettivi di lavoro.
Sempre in materia di prescrizione dei
crediti pecuniari dei dipendenti della
Pubblica Amministrazione, solo nel caso in
cui l'atto interruttivo derivi da una
iniziativa del lavoratore creditore esso può
considerarsi esteso anche al credito
relativo agli accessori, mentre l’eventuale
riconoscimento del debito da parte della
pubblica amministrazione debitrice non è, in
genere, idoneo ad interrompere la
prescrizione dei crediti vantati dal
dipendente a titolo di accessori (interessi
legali e rivalutazione monetaria); inoltre
il pagamento della sola sorte capitale
operato da una pubblica amministrazione
creditrice ha solo un effetto estintivo del
debito per il capitale, senza alcun
significato univoco di riconoscimento del
debito relativo agli accessori, salvo che
all'atto del pagamento l'amministrazione
espressamente indichi che si tratta di un
pagamento parziale, in acconto o salvo
conguaglio (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.09.2011 n.
5077 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Il tratto distintivo della
concessione dall’appalto di servizi.
È la modalità della remunerazione il tratto
distintivo della concessione dall’appalto di
servizi:
si avrà concessione quando l’operatore si
assuma in concreto i rischi economici della
gestione del servizio, rifacendosi
essenzialmente sull’utenza per mezzo della
riscossione di un qualsiasi tipo di canone o
tariffa, mentre si avrà appalto quando
l’onere del servizio stesso venga a gravare
sostanzialmente sull’amministrazione.
Le concessioni, nel quadro del diritto
comunitario, si distinguono dagli appalti
non per il titolo provvedimentale
dell’attività, né per il fatto che ci si
trovi di fronte ad una vicenda di
trasferimento di pubblici poteri o di
ampliamento della sfera giuridica del
privato (che sarebbe un fenomeno tipico
della concessione in una prospettiva
coltivata da tradizionali orientamenti
dottrinali), né per la loro natura
autoritativa, o provvedimentale, rispetto
alla natura contrattuale dell’appalto, ma
per il fenomeno di traslazione dell’alea
inerente una certa attività in capo al
soggetto privato.
Quando l’operatore privato si assume i
rischi della gestione del servizio,
percependone il corrispettivo dall’utente
mediante la riscossione di un qualsiasi tipo
di canone o tariffa, allora si ha
concessione: è la modalità della
remunerazione, quindi, il tratto distintivo
della concessione dall’appalto di servizi.
Così, si avrà concessione quando l’operatore
si assuma in concreto i rischi economici
della gestione del servizio, rifacendosi
essenzialmente sull’utenza per mezzo della
riscossione di un qualsiasi tipo di canone o
tariffa, mentre si avrà appalto quando
l’onere del servizio stesso venga a gravare
sostanzialmente sull’amministrazione.
Tale assunto, è stato più volte confermato
dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia CE, la quale ha ribadito che si è
in presenza di una concessione di servizi
allorquando le modalità di remunerazione
pattuite consistono nel diritto del
prestatore di sfruttare la propria
prestazione ed implicano che quest’ultimo
assuma il rischio legato alla gestione dei
servizi in questione (Corte Giustizia CE,
Sez. III, 15.10.2009, C-196/08), mentre in
caso di assenza di trasferimento al
prestatore del rischio legato alla
prestazione, l’operazione rappresenta un
appalto di servizi (Corte Giustizia CE, Sez.
III, 10.09.2009, C-206/08) (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 09.09.2011 n.
5068 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sul criterio distintivo tra
concessione di servizi e appalto di servizi.
Il servizio di trasporto scolastico deve
essere inquadrato nella categoria degli
appalti.
Le concessioni, nel quadro del diritto
comunitario, si distinguono dagli appalti
non per il titolo provvedimentale
dell'attività, né per il fatto che ci si
trovi di fronte ad una vicenda di
trasferimento di pubblici poteri o di
ampliamento della sfera giuridica del
privato, né per la loro natura autoritativa
o provvedimentale rispetto alla natura
contrattuale dell'appalto, ma per il
fenomeno di traslazione dell'alea inerente
una certa attività in capo al soggetto
privato. La giurisprudenza della Corte di
Giustizia CE ha ribadito che si è in
presenza di una concessione di servizi
allorquando le modalità di remunerazione
pattuite consistono nel diritto del
prestatore di sfruttare la propria
prestazione ed implicano che quest'ultimo
assuma il rischio legato alla gestione dei
servizi in questione, mentre in caso di
assenza di trasferimento al prestatore del
rischio legato alla prestazione,
l'operazione rappresenta un appalto di
servizi.
Il servizio di trasporto scolastico deve
essere inquadrato nella categoria degli
appalti e non già in quella dei servizi di
trasporto pubblico locale. Pertanto, nel
caso di specie, legittimamente
l'amministrazione comunale ha esperito una
procedura di gara invece di procedere
all'affidamento diretto del servizio, atteso
che i presupposti normativi non le
consentivano tale scelta (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 09.09.2011 n. 5068 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla legittimità
dell'incameramento della cauzione
provvisoria prestata da un concorrente
conseguente all'inadempimento dell'obbligo
assunto con la sottoscrizione del patto
d'integrità.
Secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, il patto d'integrità
configura un sistema di condizioni (o
requisiti) la cui accettazione è presupposto
necessario e condizionante la partecipazione
delle imprese alla specifica gara di cui
trattasi. Con la sottoscrizione del patto
d'integrità, al momento della presentazione
della domanda, l'impresa concorrente accetta
regole del bando che rafforzano
comportamenti già doverosi per coloro che
sono ammessi a partecipare alla gara e che
prevedono, in caso di violazione di tali
doveri, sanzioni di carattere patrimoniale,
oltre alla conseguenza, ordinaria a tutte le
procedure concorsuali, della estromissione
della gara.
L'incameramento della cauzione non ha,
quindi, carattere di sanzione
amministrativa, come tale riservata alla
legge, ma costituisce la conseguenza
dell'accettazione di regole e doveri
comportamentali, accompagnati dalla
previsione di una responsabilità
patrimoniale, aggiuntiva alla esclusione
dalla gara, assunti su base pattizia,
rinvenendosi la loro fonte nel Patto
d'integrità accettato dal concorrente con la
sottoscrizione. Pertanto, nel caso di specie
è legittimo l'incameramento della polizza
fideiussoria prestata dal concorrente, sul
rilievo della sussistenza di un collegamento
sostanziale tra quest'ultimo ed altra
impresa partecipante alla gara, e quindi
della violazione del patto di integrità
debitamente accettato e sottoscritto.
Infatti, il collegamento sostanziale rientra
nel novero degli accordi finalizzati a
limitare la concorrenza, che l'impresa aveva
dichiarato insussistenti all'atto di
partecipare alla gara (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 09.09.2011 n. 5066 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La trasmissione dei documenti via
telefax.
I documenti trasmessi da chiunque ad una
pubblica amministrazione tramite fax, o con
altro mezzo telematico o informatico idoneo
ad accertarne la fonte di provenienza,
soddisfano il requisito della forma scritta
e la loro trasmissione non deve essere
seguita da quella del documento originale.
Con riferimento alla possibilità dell’uso
del fax quale strumento di comunicazione di
un atto idoneo a determinarne la legale
conoscenza da parte del destinatario si
osserva che la tesi favorevole al suo
impiego deriva non solo dalla universale
accettazione del fax quale mezzo di
comunicazione, ma anche dalle
caratteristiche tecniche di detto strumento,
non ultima delle quali la possibilità di
munirsi di prova del buon fine della
trasmissione tale dovendo considerarsi,
invero, il c.d. “report” indicativo
dello status del documento inviato.
Tutti questi elementi hanno portato,
nell’art. 43, comma 6, del D.P.R. n. 445 del
28.12.2000, alla disposizione normativa che
permette l’utilizzazione del fax per la
trasmissione di documenti ad una pubblica
amministrazione (invero, si è previsto che:
“i documenti trasmessi da chiunque ad una
pubblica amministrazione tramite fax, o con
altro mezzo telematico o informatico idoneo
ad accertarne la fonte di provenienza,
soddisfano il requisito della forma scritta
e la loro trasmissione non deve essere
seguita da quella del documento originale”)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 09.09.2011 n.
1569 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Solo l'omessa allegazione di un
documento previsto a pena di esclusione è da
ritenersi alla stregua di un'irregolarità
insanabile e, quindi, non ne è consentita
l'integrazione ovvero la regolarizzazione
postuma.
Le prescrizioni contenute nella "lex
specialis" di gara sono dirette ad
assicurare la trasparenza e l'imparzialità
dell'Amministrazione, nonché la parità di
condizioni tra i concorrenti, e devono
rispondere al comune canone di
ragionevolezza, in stretta relazione con i
richiamati principi.
Le clausole previste a pena di esclusione
vanno quindi interpretate seguendo il
criterio della stretta interpretazione, onde
non ledere l'interesse alla più ampia
partecipazione dei concorrenti alla
procedura di gara. Pertanto, di esse va
evitata un'applicazione meccanica che
contraddica la primaria esigenza di
ragionevolezza dell'attività amministrativa,
finendo per porsi in contrasto con le stesse
finalità di tutela cui sono preordinati i
canoni applicativi delle regole concernenti
la contrattualistica pubblica.
Solo l'omessa allegazione di un documento o
di una dichiarazione previsti a pena di
esclusione è da ritenersi alla stregua di
un'irregolarità insanabile e, quindi, non ne
è consentita l'integrazione ovvero la
regolarizzazione postuma. Pertanto, alla
stazione appaltante è precluso sopperire,
con l'integrazione, alla totale mancanza di
un documento, mentre, ai sensi dell'art. 46,
d.lgs. n. 163/2006, la stessa deve ritenersi
consentita, se riguardante semplici
chiarimenti relativi ad un atto incompleto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.09.2011 n. 5040 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: La
segnalazione all’Autorità è una mera
comunicazione circa fatti verificatisi o
accertati in relazione ad una gara, rispetto
alla quale potranno derivare effetti
pregiudizievoli per l'impresa interessata
solo a seguito di annotazione nel Casellario
informatico.
La segnalazione nel casellario informatico
non produce alcun effetto, che non sia
l’avvio del procedimento presso l’Autorità
di Vigilanza. L’unico atto conclusivo con
valenza provvedimentale è rappresentato
dalla eventuale annotazione disposta
dall’Autorità di Vigilanza.
La segnalazione all’Autorità è una mera
comunicazione circa fatti verificatisi o
accertati in relazione ad una gara, rispetto
alla quale potranno derivare effetti
pregiudizievoli per l'impresa interessata
solo a seguito di annotazione nel Casellario
informatico (cfr. di recente Tar Campania,
sez. VIII, 09.02.2011, n. 762)
(TAR
Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 07.09.2011 n. 7143 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
requisito della moralità professionale
richiesto per la partecipazione alle gare
pubbliche di appalto risulta mancante
nell'ipotesi di commissione di un reato
specifico connesso al tipo di attività che
il soggetto deve svolgere.
La nozione di gravità del reato deve essere
valutata non in relazione alla
considerazione penalistica del reato, ma
all’interesse dell’Amministrazione al
corretto adempimento delle obbligazioni
oggetto del contratto. Ne deriva che la
gravità del reato, ai sensi dell’art. 38,
non è esclusa dalla lieve pena edittale
prevista nella fattispecie penale o dalla
natura contravvenzionale del reato. La
gravità del reato anche deve essere valutata
in relazione alla incidenza del reato sulla
moralità professionale; il contenuto del
contratto oggetto della gara assume allora
importanza fondamentale al fine di
apprezzare il grado di "moralità
professionale" del singolo concorrente. Di
conseguenza, è irrilevante rispetto a tale
valutazione della stazione appaltante la
gravità del reato sanzionato in sede penale
in relazione alla pena edittale o al fatto
che si tratti di contravvenzioni.
L'art. 38,
comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006,
nel testo applicabile al momento dello
svolgimento della gara, prevedeva alla
lettera c) la esclusione dalla
partecipazione alle procedure di affidamento
delle concessioni e degli appalti di lavori,
forniture e servizi dei soggetti: “nei
cui confronti è stata pronunciata sentenza
di condanna passata in giudicato, o emesso
decreto penale di condanna divenuto
irrevocabile, oppure sentenza di
applicazione della pena su richiesta, ai
sensi dell'articolo 444 del codice di
procedura penale, per reati gravi in danno
dello Stato o della Comunità che incidono
sulla moralità professionale”.
La giurisprudenza ha interpretato la
incidenza sulla moralità professionale, nel
senso della rilevanza dell'interesse
dell'Amministrazione a non contrarre
obbligazioni con soggetti che non
garantiscano adeguata moralità professionale
in relazione al tipo di contratto oggetto
della gara.
Il requisito della moralità professionale
richiesto per la partecipazione alle gare
pubbliche di appalto è stato considerato
mancante nell'ipotesi di commissione di un
reato specifico connesso al tipo di attività
che il soggetto deve svolgere (cfr.
Consiglio Stato, sez. V, 12.04.2007, n.
1723, proprio rispetto alla condanna per
violazione della normativa antinfortunistica
in una gara di appalto di lavori).
Anche la nozione di gravità del reato deve
essere valutata non in relazione alla
considerazione penalistica del reato, ma
all’interesse dell’Amministrazione al
corretto adempimento delle obbligazioni
oggetto del contratto.
Ne deriva che la gravità del reato, ai sensi
dell’art. 38, non è esclusa dalla lieve pena
edittale prevista nella fattispecie penale o
dalla natura contravvenzionale del reato.
La gravità del reato anche deve essere
valutata in relazione alla incidenza del
reato sulla moralità professionale; il
contenuto del contratto oggetto della gara
assume allora importanza fondamentale al
fine di apprezzare il grado di "moralità
professionale" del singolo concorrente.
Di conseguenza, è irrilevante rispetto a
tale valutazione della stazione appaltante
la gravità del reato sanzionato in sede
penale in relazione alla pena edittale o al
fatto che si tratti di contravvenzioni (cfr.
Consiglio Stato, sez. VI, 04.06.2010, n.
3560 rispetto alla condanna per violazione
delle norme sulla disciplina igienica della
produzione e della vendita di sostanze
alimentari rispetto alla gara per un
servizio di ristorazione).
Nel caso di specie, si deve, quindi,
ritenere legittima la valutazione della
stazione appaltante che ha escluso la
impresa ricorrente da una gara di appalto di
lavori di manutenzione stradale, in
relazione ad un decreto penale per un reato
relativo alla violazione di norme sulla
sicurezza dei lavoratori.
La norma dell’art. 38 fa salva
l'applicazione dell'art. 178 del codice
penale.
La giurisprudenza, anche di questa sezione,
ha, dunque, considerato rilevante, sotto
tale profilo, la pronuncia di
riabilitazione, per escludere che una
pronuncia di condanna continui ad incidere
sulla moralità professionale di una impresa
(cfr. Consiglio Stato, sez. V, 25.01.2011,
n. 513; TAR Lazio Roma, sez. III,
22.05.2009, n. 5194).
Come è noto, l’orientamento
giurisprudenziale ritiene, altresì, che la
riabilitazione (o l'estinzione del reato per
cui è stata applicata la pena su richiesta,
per decorso del termine di legge) debba
essere giudizialmente dichiarata, poiché il
giudice dell'esecuzione è l'unico soggetto,
al quale l'ordinamento conferisce la
competenza a verificare che siano venuti in
essere tutti i presupposti e sussistano
tutte le condizioni per la relativa
declaratoria (Consiglio Stato, sez. V,
20.10.2010, n. 7581) (TAR
Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 07.09.2011 n. 7143 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Alla
Pa richiesta del danno in tempi brevi.
Rinviato alla Corte costituzionale il
termine per domandare il risarcimento
relativo a un atto illegittimo.
A un anno di distanza dal nuovo Codice del
processo amministrativo, si riapre la
partita sulle azioni di risarcimento del
danno causato da un atto amministrativo
illegittimo. Infatti il TAR Sicilia-Palermo,
Sez. I,
ordinanza 07.09.2011 n. 1628,
ha rimesso alla Corte Costituzionale la
questione di costituzionalità del termine di
120 giorni per proporre davanti al giudice
amministrativo l'azione risarcitoria dopo
che l'atto è stato annullato con sentenza
passata in giudicato (articolo 30, comma 5).
La controversia riguarda il caso di un
sindaco di un'azienda ospedaliera designato
dal ministero della Salute e poi
illegittimamente revocato. Ottenuto
l'annullamento con sentenza definitiva,
l'interessato richiede i danni per i
compensi non percepiti. Se non che questa
azione è proposta ben oltre 120 giorni. Da
qui la questione di costituzionalità di un
termine di decadenza molto più breve
rispetto a quello di prescrizione di cinque
anni previsto per le azioni risarcitorie
ordinarie.
Per inquadrare la questione bisogna partire
dallo scontro tra il giudice amministrativo
e il giudice ordinario in tema di azioni
risarcitorie. Quest'ultimo riteneva questa
particolare azione collegata a provvedimenti
illegittimi come una normale azione di
risarcimento del danno da lesione di diritti
soggettivi. Da qui due conseguenze: la
possibilità di proporre in via autonoma
l'azione risarcitoria, senza cioè necessità
di proporre in parallelo l'azione di
annullamento; il termine di prescrizione
quinquennale.
Il giudice amministrativo, invece,
considerava l'azione risarcitoria come un
mero complemento dell'azione di annullamento
che resta il rimedio principale. Da qui due
conseguenze: pregiudizialità tra azione di
annullamento e azione di risarcimento, nel
senso che la seconda non è ammessa se non è
stata proposta la prima; termine di
decadenza di 60 giorni stabilito per
l'azione di annullamento.
Il Codice ha optato per una soluzione
compromissoria. Da un lato ha ammesso
l'azione risarcitoria autonoma; dall'altro
la comprime entro il termine di 120 giorni
(articolo 30, comma 3).
Il Tar Palermo dubita della costituzionalità
del termine di decadenza: ha una ragion
d'essere per l'azione di annullamento perché
c'è l'esigenza di certezza e stabilità dei
rapporti di diritto pubblico regolati da un
atto amministrativo. L'azione di
risarcimento, invece, non incide su di essi,
ma riguarda, secondo il Tar, solo uno «spostamento
di ricchezza conseguente all'illecito».
Inoltre, come ha chiarito la Corte
Costituzionale (sentenze 204/2004 e
191/2006), l'azione risarcitoria nei
confronti degli atti illegittimi è ormai
costituzionalmente necessaria. Ma la sua
attribuzione al giudice amministrativo per
esigenze di concentrazione dei giudizi non
può essere assoggettata a «condizioni di
accesso alla tutela assolutamente (e senza
ragione) restrittive».
Il Tar distingue tra il termine di 120
giorni per proporre l'azione dopo il
giudicato di annullamento (comma 5),
ritenuto incostituzionale, e quello, sempre
di 120 giorni, per l'azione risarcitoria
autonoma (comma 3). Quest'ultimo potrebbe
giustificarsi per il fatto che questa
azione, al pari di quella di annullamento,
mira ad accertare, sia pur in via
incidentale, l'illegittimità dell'atto causa
del danno. Nel caso del comma 5, invece,
l'illegittimità è già accertata dalla
sentenza di annullamento e restano profili
solo patrimoniali.
Non è detto che questa distinzione sia
accolta dalla Corte Costituzionale che ben
potrebbe sollevare d'ufficio la questione di
costituzionalità del comma 5 e riaprire per
intero la partita
(articolo
Il Sole 24 Ore del 18.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: E'
perentorio il termine sul controllo dei
requisiti ex art. 48, co. 2, D.Lgs.
163/2006.
La giurisprudenza è pressoché uniformemente
orientata ad affermare la perentorietà del
termine di cui al primo comma dell’ art. 48
D.Lgs. 163/2006. Quanto al secondo comma,
parte della giurisprudenza (confortata anche
dalla determinazione dell'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici n. 5/2009)
ritiene che esso non preveda un termine
perentorio entro il quale la documentazione
comprovante i requisiti deve essere fornita
(in tal senso si è espresso anche questo
Tribunale nella sentenza della sez. II
03.07.2009 n. 1171); mentre l'opposto
orientamento è stato seguito, ad esempio, da
TAR Palermo, sez. III, 08.10.2009 n. 1608;
TAR Lazio, sez. III, 23.07.2009 n. 7493; TAR
Bari, sez. I, 14.08.2008 n. 1971.
Il Collegio, nel confronto tra le opposte
tesi, ritiene più convincente quella da
ultimo richiamata, sulla base delle seguenti
considerazioni: l'esigenza di assicurare
tempi certi e celeri vale sia durante lo
svolgimento della gara, sia dopo
l'aggiudicazione provvisoria e in vista
della conclusione del procedimento;
confligge con tale esigenza la mancanza di
un termine perentorio per la presentazione
della documentazione comprovante i requisiti
dell’aggiudicatario; sotto il profilo
letterale il richiamo del comma 2 alla "richiesta
di cui al comma 1" va riferito alla
richiesta "di comprovare, entro dieci
giorni dalla data della richiesta medesima,
il possesso dei requisiti di capacità
economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa" e dunque anche al
termine di 10 giorni ivi indicato,
pacificamente ritenuto perentorio; da ciò
consegue che l'impugnata esclusione della
ricorrente risulta legittimamente disposta
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 07.09.2011 n. 1380 -
link a www.mediagraphic.it). |
APPALTI:
L'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006
esclude una valutazione discrezionale da
parte della P.A., in ordine alla gravità o
meno della violazione concernente gli
obblighi tributari.
Ai fini della configurabilità del requisito
della regolarità fiscale, va escluso ogni
rilievo alla modestia dell'entità del debito
definitivamente accertato non essendo
previsto, da parte della stazione
appaltante, alcun apprezzamento
discrezionale in merito alla gravità ed
all'elemento psicologico della violazione,
in quanto la formulazione dell'art. 38 del
d.lgs. n. 163/2006 è riferita a qualsivoglia
violazione, anche di importo esiguo, senza
che sia consentito all'amministrazione
procedente, né al concorrente, valutarne la
rilevanza e la buona o mala fede del
contribuente, giacché tale valutazione è
stata effettuata dal legislatore al fine di
garantire l'affidabilità dell'offerta e
nell'esecuzione del contratto, nonché la
correttezza e serietà del concorrente.
Un'interpretazione opposta del citato art.
38 comporterebbe il conferimento alla P.A.
di un potere discrezionale in ordine alla
gravità dell'infrazione, anche in settori in
cui è positivamente esclusa. Pertanto, anche
una violazione quantitativamente non ampia
degli obblighi tributari risulta sufficiente
per determinare l'esclusione del concorrente
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 07.09.2011 n. 1380 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
L'interdittiva antimafia non
obbedisce a finalità di accertamento di
responsabilità, bensì di massima
anticipazione dell'azione di prevenzione,
rispetto alla quale risultano rilevanti
anche fatti e vicende solo sintomatiche ed
indiziarie.
In materia di interdittiva antimafia
prevista dall'art. 4 d.lgs. n. 490/1994, e
art. 10 d.P.R. 03.06.1998 n. 252, è stato
più volte ribadito dalla giurisprudenza
amministrativa che l'interdittiva non
obbedisce a finalità di accertamento di
responsabilità, bensì di massima
anticipazione dell'azione di prevenzione,
rispetto alla quale risultano rilevanti
anche fatti e vicende solo sintomatiche ed
indiziarie.
Conseguentemente non occorre che sia provata
l'esistenza di tentativi di infiltrazione
mafiosa, essendo invece sufficiente, secondo
un giudizio prognostico latamente
discrezionale, la mera possibilità di
interferenze della criminalità rivelate da
fatti sintomatici o indiziari.
Inoltre, gli elementi raccolti non vanno
considerati separatamente dovendosi
piuttosto stabilire se sia configurabile un
quadro indiziario complessivo, dal quale
possa ritenersi attendibile l'esistenza di
un condizionamento da parte della
criminalità (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 06.09.2011 n. 5019 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Per
l'impugnazione degli atti delle procedure di
affidamento, ivi comprese le procedure di
affidamento di incarichi e concorsi di
progettazione e di attività
tecnico-amministrative ad esse connesse,
relativi a pubblici lavori, servizi o
forniture, il ricorso e i motivi aggiunti
devono essere proposti nel termine di 30
giorni; tale termine normalmente decorre
dalla ricezione della comunicazione di cui
all'art. 79 d.lgs. 12.04.2006 n. 163, salva
ovviamente l'ipotesi della piena conoscenza
dell'atto, acquisita con altre modalità,
come d'altronde ribadito dall'art. 41 del
codice: fra queste ipotesi, rientra quella
in cui all'atto dell'esclusione dalla gara
sia presente un rappresentante della impresa
esclusa.
Alla presenza in sede di gara ben può essere
equiparata la consegna di copia del
provvedimento ad un soggetto che, per la
qualificazione spesa, ben poteva ritenersi
legittimato al ricevimento, secondo il
principio generalmente affermato con
riferimento al dipendente dell’impresa che
abbia ricevuto la notifica o la raccomandata
inviata a mezzo posta (essendo sufficiente
che esista una relazione tra consegnatario e
destinatario idonea a far presumere che il
primo porti a conoscenza del secondo l'atto
ricevuto).
Il Collegio ritiene che la comunicazione
dell’avvenuta aggiudicazione, effettuata a
mani di una dipendente dell’impresa
ricorrente e risalente all’11.10.2010, fosse
idonea a far decorrere il termine per
l’impugnazione, atteso che il contenuto
della stessa deve ritenersi sufficiente a
garantire la piena conoscenza dell’atto
lesivo, in specie con riferimento agli
specifici elementi di lesività dedotti,
chiaramente conoscibili addirittura sin
dalla pubblicazione del bando di gara.
E’ pur vero, infatti, che nel caso di uso di
modalità di comunicazione diverse da quelle
espressamente previste dall’art. 79 del
d.lgs. 163/2006, non vi è presunzione di
piena conoscenza del contenuto dell’atto con
cui è stata disposta l’aggiudicazione, ma
ciò non esclude che sia comunque possibile
dimostrare che la modalità utilizzata abbia
consentito la piena conoscenza, così da far
decorrere, da tale momento, il termine per
l’impugnazione.
In tal senso si è già espressa la
giurisprudenza, con la sentenza del TAR
Puglia, Bari, I, 01.03.2011, n. 359, nella
quale si afferma il principio, che questo
Collegio ritiene di poter condividere,
secondo cui “Per l'impugnazione degli
atti delle procedure di affidamento, ivi
comprese le procedure di affidamento di
incarichi e concorsi di progettazione e di
attività tecnico-amministrative ad esse
connesse, relativi a pubblici lavori,
servizi o forniture, il ricorso e i motivi
aggiunti devono essere proposti nel termine
di trenta giorni; tale termine normalmente
decorre dalla ricezione della comunicazione
di cui all'art. 79 d.lgs. 12.04.2006 n. 163,
salva ovviamente l'ipotesi della piena
conoscenza dell'atto, acquisita con altre
modalità, come d'altronde ribadito dall'art.
41 del codice: fra queste ipotesi, rientra
quella in cui all'atto dell'esclusione dalla
gara sia presente un rappresentante della
impresa esclusa”.
Alla presenza in sede di gara ben può essere
equiparata la consegna di copia del
provvedimento ad un soggetto che, per la
qualificazione spesa, ben poteva ritenersi
legittimato al ricevimento, secondo il
principio generalmente affermato con
riferimento al dipendente dell’impresa che
abbia ricevuto la notifica o la raccomandata
inviata a mezzo posta (essendo sufficiente
che esista una relazione tra consegnatario e
destinatario idonea a far presumere che il
primo porti a conoscenza del secondo l'atto
ricevuto, come chiarito da Cassazione
civile, sez. lav., 10.01.2007, n. 239).
Ne consegue che, nel caso di specie, deve
ritenersi raggiunta la piena conoscenza del
provvedimento lesivo sin dalla consegna di
copia del provvedimento di aggiudicazione
alla dipendente dell’impresa che ne ha
sottoscritto copia per ricevuta
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 01.09.2011 n. 1296 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Se la lex specialis induce in
errore omissivo il concorrente,
correttamente l'amministrazione deve
ammettere quest'ultimo ad integrare
successivamente la documentazione carente.
Nel caso di specie, risultava evidente
dall’esame della modulistica allegata, che
questa era carente in ordine alla
dichiarazione da rendere, ai sensi dell’art.
38 del decreto legislativo n. 163 del 2006,
relativamente ad alcune dichiarazioni prese
in considerazione dall’articolo suddetto,
per cui l’appellante, in presenza di un
modello da seguirsi necessariamente, ma
carente, ha voluto adeguarsi al modello
medesimo, per non patire in concreto la
comminatoria dell’esclusione dalla gara.
Il complesso degli atti predisposto
dall’Amministrazione, avendo ingenerato
l’equivoco, ha determinato l’errore omissivo
dell’appellante; pertanto, correttamente la
stessa amministrazione, prendendo atto
dell’equivocità delle proprie
determinazioni, ha considerato l’omissione
in parola frutto della non coerenza del
bando ed ha conseguentemente ammesso la
stessa ricorrente ad integrare
successivamente la dichiarazione carente,
cosa che è stata fatta e da cui è risultata
la inesistenza della sanzione.
In presenza di questa situazione, in cui la
stessa amministrazione aveva determinato
l’errore dell’appellante, si appalesa
corretta la successiva integrazione, la
quale non può ritenersi violativa del
principio della “par condicio” fra i
concorrenti, in quanto si è, al contrario,
proprio con l’integrazione successiva, posto
rimedio ad uno sbilanciamento iniziale e si
è ripristinata proprio quella “par
condicio” che il soggetto appellato
ritiene violata, con il risultato di avere
quella pluralità di candidati cui il
principio di concorrenza tende nelle
procedure concorsuali della pubblica
amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.08.2011 n. 4861 -
link a www.mediagraphic.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
I consiglieri comunali godono di
un non condizionato diritto di accesso a
tutti gli atti che possano essere d'utilità
all'espletamento del loro mandato.
Il diritto di accesso dei Consiglieri
comunali non è soggetto ad alcun onere
motivazionale.
I consiglieri comunali godono di un non
condizionato diritto di accesso a tutti gli
atti che possano essere d'utilità
all'espletamento del loro mandato; ciò al
fine di permettere di valutare -con piena
cognizione- la correttezza e l'efficacia
dell'operato dell'Amministrazione, nonché
per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio e per
promuovere, anche nell'ambito del Consiglio
stesso, le iniziative che spettano ai
singoli rappresentanti del corpo elettorale
locale. Il diritto di accesso loro
riconosciuto ha, infatti, una ratio
diversa da quella che contraddistingue il
diritto di accesso ai documenti
amministrativi riconosciuto alla generalità
dei cittadini ovvero a chiunque sia
portatore di un "interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso": è strettamente funzionale
all'esercizio del mandato, alla verifica e
al controllo del comportamento degli organi
istituzionali decisionali dell'ente locale
ai fini della tutela degli interessi
pubblici ed è peculiare espressione del
principio democratico dell'autonomia locale
e della rappresentanza esponenziale della
collettività.
Il diritto di accesso dei Consiglieri
comunali non è soggetto ad alcun onere
motivazionale giacché diversamente opinando
sarebbe introdotto una sorta di controllo
dell'ente, attraverso i propri uffici,
sull'esercizio del mandato del consigliere
comunale; gli unici limiti all'esercizio del
diritto di accesso dei consiglieri comunali
si rinvengono, per un verso, nel fatto che
esso debba avvenire in modo da comportare il
minor aggravio possibile per gli uffici
comunali e, per altro verso, che non deve
sostanziarsi in richieste assolutamente
generiche ovvero meramente emulative, fermo
restando che la sussistenza di tali
caratteri debba essere attentamente e
approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente
inammissibili limitazione al diritto stesso
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.08.2011 n. 4829 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sul procedimento di scelta da
parte della P.A. del soggetto con cui
concludere un contratto di appalto.
La scelta da parte della P.A. del soggetto
con cui concludere un contratto di appalto
si realizza attraverso una serie
procedimentale, regolata da norme
pubblicistiche, preordinate
all'individuazione del miglior contraente,
dal punto di vista soggettivo e oggettivo, e
la serie procedimentale si impernia sui
postulati di trasparenza ed imparzialità
che, a loro volta, si concretizzano nel
principio di par condicio tra tutti i
concorrenti, realizzata attraverso la previa
predisposizione del bando di gara, e nel
principio di concorsualità, segretezza,
completezza, serietà, autenticità e
compiutezza delle offerte formulate rispetto
alle prescrizioni ed alle previsioni delle
lex specialis, nonché nella previa
predisposizione, da parte
dell'Amministrazione appaltante, dei criteri
di valutazione delle offerte.
Tali principi, dunque, sono preordinati a
finalità pubblicistiche tali da vincolare al
loro rispetto non solo la P.A., ma anche
coloro che intendono partecipare alla gara:
su questi ultimi incombe, infatti, l'obbligo
di presentare offerte che, al di là del loro
profili tecnico-economico, devono avere le
caratteristiche della compiutezza, della
completezza, della serietà, della
indipendenza e della segretezza, le quali
soltanto assicurano quel gioco della libera
concorrenza e del libero confronto
attraverso cui giungere all'individuazione
del miglior contraente possibile (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 25.08.2011 n. 4809 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Cantieri temporanei e mobili.
Lavori in corso, senza segnalazione rischio
responsabilità penale.
La segnalazione di
lavori in corso di esecuzione e
l'interdizione al pubblico dell'accesso alla
zona dagli stessi interessata, non
richiedendo alcuna autorizzazione, comporta
la responsabilità penale per la violazione
dell'art. 673 c.p. nel caso in cui un
cantiere non sia delimitato in alcun modo
con apposizione di reti o paletti, ciò in
quanto l'omessa collocazione di segnali atti
ad impedire pericoli alle persone in
transito (o comunque l'adozione di idonee
cautele volte a scongiurare qualsiasi vulnus
all'incolumità pubblica) costituisce preciso
obbligo spettante a coloro che abbiano la
gestione dei lavori nel cantiere.
Interessante pronuncia della Corte di
Cassazione sul tema della responsabilità
penale per il reato previsto dall'art. 673
c.p. applicato alla normativa
antinfortunistica. Il caso, come si vedrà,
alquanto banale, riguardava il
danneggiamento di un veicolo in sosta
provocato dalla mancata apposizione della
cartellonistica di sicurezza in un cantiere
ove erano in corso lavori di manutenzione
straordinaria in un centro commerciale.
La Corte, nel disattendere le doglianze
difensive, ritiene invece responsabili
coloro cui spettava la gestione del cantiere
medesimo per i danni cagionati al veicolo in
sosta, affermando l'importante principio di
diritto secondo cui l'omessa collocazione di
segnali atti ad impedire pericoli alle
persone in transito (o comunque l'adozione
di idonee cautele volte a scongiurare
qualsiasi vulnus all'incolumità pubblica)
costituisce preciso obbligo spettante a
coloro che abbiano la gestione dei lavori
nel cantiere.
Il caso.
Il caso La vicenda processuale, come già
evidenziato, vedeva imputati il legale
rappresentante di una s.r.l., impresa
esecutrice dei lavori di manutenzione
straordinaria in corso di svolgimento in un
centro commerciale, unitamente al direttore
dei suddetti lavori, ritenuti colpevoli
della violazione dell'art. 673 c.p. ad essi
contestato per avere, nelle rispettive
qualità, omesso di collocare «segnali e/o
ripari prescritti dalla legge e
dall'Autorità per impedire pericoli alle
persone in luogo di pubblico transito» e
segnatamente di aver omesso di collocare
segnaletica atta a delimitare l'area in cui
svolgevano lavori con mezzi pesanti
(sollevatore idraulico), che si ribaltava
danneggiando un veicolo in sosta.
La responsabilità dei due imputati, in
particolare, veniva fondata in sede di
merito valorizzando in particolare le
dichiarazioni rese da alcuni agenti della
polizia municipale che, accorsi sul posto
nell'immediatezza del fatto, avevano
riferito che il cantiere di lavoro non era
delimitato in alcun modo, da ciò desumendosi
che i due imputati avevano omesso di
collocare segnali o ripari (reti, paletti),
atti a delimitare e comunque a segnalare, in
orizzontale e in verticale, l'area
interessata da una possibile caduta
accidentale del mezzo meccanico impiegato
(sollevatore), evento ritenuto prevedibile e
prevenibile.
In particolare il Tribunale aveva escluso
che gli imputati potessero utilmente
invocare la buona fede in ragione della
supposta inerzia dell'autorità
amministrativa, ritenendo «ovvio che
un'attività pericolosa come quella di
sollevare bancali di guaine isolanti o
mattonelle del peso anche di cinque o sei
quintali richiedesse attenzioni particolari
e misure di salvaguardia e di interdizione
rigorose nei confronti di chiunque si
trovasse a passare, tenuto conto che si
trattava di operazioni temporalmente
circoscritte (della durata complessiva di
20-30 minuti) e che dunque si risolvevano in
tempo accettabile».
Il ricorso.
Resistevano alla condanna ambedue gli
imputati. Per quanto di interesse in questa
sede, il direttore dei lavori sosteneva,
tenuto conto anche di quanto risultante
dalle deposizioni di alcuni operai presenti
in cantiere, che erano state adottate le
dovute precauzioni, consistite nella
collocazione di un nastro rosso e bianco
lungo tutto il perimetro della superficie
interessata alle operazioni di fissaggio di
una guaina impermeabile sul tetto del centro
commerciale, nastro che, essendosi rotto a
seguito della caduta del mezzo meccanico,
come riferito dai predetti testi, era stato
immediatamente rimosso dopo il sinistro, per
non intralciare le operazioni di soccorso
dell'operaio che manovrava il sollevatore
idraulico, rimasto bloccato al posto di
comando.
Senza contare che, come pure riferito
dall'imputato e dai summenzionati testi, il
responsabile dei lavori aveva incaricato
alcuni dipendenti dell'impresa di adoperarsi
affinché nessun passante si avvicinasse o
sostasse nell'area interessata alle
operazioni di fissaggio e sollevamento del
materiale utilizzato per l'esecuzione dei
lavori, specificandosi nel ricorso, tra
l'altro, che lo stesso direttore dei lavori
aveva invitato anche il proprietario del
veicolo poi danneggiato dal ribaltamento del
sollevatore, a spostarlo, ricevendo un
rifiuto a ragione del motivo che lo stesso
sarebbe rimasto in sosta solo un attimo.
Soprattutto, però, la difesa del direttore
dei lavori sosteneva che lo scopo perseguito
dalla norma incriminatrice (art. 673 c.p.),
imponendo l'adozione di segnalazioni e
ripari, è quello di evitare un pericolo alle
persone, sicché, posto che nel caso di
specie, come emerso dall'istruttoria
dibattimentale, erano stati adottati
accorgimenti più che adeguati allo scopo, in
quanto perfettamente idonei alla tutela del
bene protetto (delimitazione del cantiere
con un nastro rosso e bianco; presenza di
dipendenti incaricati di impedire l'accesso
ai passanti nell'area delimitata, non
transennarle con delimitazioni fisse),
l'evento accaduto non poteva assolutamente
venire addebitato ad una condotta omissiva
degli imputati, tanto più che lo stesso
doveva ritenersi cagionato, come precisato
dall'imputato, da un imprevisto ed
imprevedibile «malfunzionamento» del
macchinario di sollevamento, posto che il
principale tipo di rischio staticamente
connesso alla utilizzazione di tale mezzo
meccanico è quello della caduta verticale
del carico e non certo quello del
ribaltamento del mezzo meccanico, specie ove
si consideri che a fronte di una portata
massima di venti quintali il carico
sollevato il giorno del sinistro non
superava i cinque o sei quintali.
In ordine al ricorso proposto dal titolare
dell'impresa esecutrice dei lavori, in
particolare, veniva sottolineata la non
configurabilità a carico dell'esecutore del
lavori, ma semmai a carico del committente,
di un obbligo di osservanza delle
prescrizioni in materia di sicurezza.
La decisione della
Cassazione.
I giudici di legittimità, nel ritenere
infondati i motivi di impugnazione, hanno
rigettato ambedue i ricorsi proposti
nell'interesse degli imputati. Come di
consueto, è utile un inquadramento normativo
della questione. Nella specie è stato
contestato agli imputati il reato
contravvenzionale previsto dall'art. 673
c.p., norma inserita nel Libro 3°, sez. II,
del codice penale, dedicata alle
contravvenzioni concernenti l'incolumità
pubblica e, più specificamente, di quelle
concernenti l'incolumità delle persone nei
luoghi di pubblico transito o nelle
abitazioni.
L'art. 673 c.p, in particolare, prevede
-sotto la rubrica Omesso collocamento o
rimozione di segnali o ripari- due diverse
condotte, sanzionate penalmente con la pena
alternativa dell'arresto o dell'ammenda: 1)
quella di chiunque omette di collocare i
segnali o i ripari prescritti dalla legge o
dall'autorità per impedire pericoli alle
persone in un luogo di pubblico transito,
ovvero rimuove i segnali o i ripari
suddetti, o spegne i fanali collocati come
segnali; 2) quella di chi rimuove apparecchi
o segnali diversi da quelli indicati nella
disposizione precedente e destinati a un
servizio pubblico o di pubblica necessità,
ovvero spegne i fanali della pubblica
illuminazione.
In merito ai profili di ricorso, in
particolare, osservano gli Ermellini, quanto
al profilo dell'esistenza di una posizione
di garanzia tale da giustificare l'esistenza
della responsabilità penale sotto il profilo
causale, che indubbiamente la stessa grava
sul legale rappresentante dell'impresa
esecutrice dei lavori ed utilizzatrice del
mezzo meccanico ribaltatosi, non rilevando
la circostanza che questi non fosse il
committente dei lavori.
Sul punto, evidenziano correttamente i
giudici di Piazza Cavour, non osta
all'affermazione della responsabilità penale
dell'esecutore quella giurisprudenza in tema
di infortuni sul lavoro in un cantiere edile
(Cass. pen., sez. 3, 21.02.2007, n. 7209,
imp. B., in Ced Cass. 235882), secondo cui
il committente (dei lavori) rimane il
soggetto obbligato in via principale
all'osservanza degli obblighi imposti in
materia di sicurezza, non escludendosi
affatto, nell'eventualità -pacificamente
verificatasi nel caso in esame- di nomina di
un responsabile dei lavori -inteso come
soggetto incaricato dell'esecuzione dei
lavori- la sussistenza della responsabilità
penale di quest'ultimo.
Quanto, poi, al secondo profilo inerente lo
scopo della norma violata, sottolineano i
giudici come fosse pacifico che il cantiere
non risultasse delimitato in alcun modo con
apposizione di reti o paletti: orbene,
precisa la Corte, la segnalazione dei lavori
e l'interdizione al pubblico dell'accesso
alla zona interessata non richiedeva alcuna
autorizzazione, e comunque -ove la si fosse
ritenuta necessaria- l'asserita inerzia nel
suo rilascio da parte delle autorità
preposte non valeva in ogni caso ad
escludere la responsabilità degli imputati.
Trattasi di principio, quest'ultimo,
assolutamente condivisibile, che trova un
suo specifico precedente in una remota
decisione (Cass. pen., Sez. 1, 14.01.1998,
n. 425, imp. C., in Ced. Cass. 209436)
secondo cui rientra nella nozione di "riparo",
prevista dall'art. 673 c.p., l'esecuzione di
tutte quelle opere atte ad impedire pericoli
alle persone in un luogo di pubblico
transito: ne consegue che deve ritenersi
sussistente il reato in questione
ogniqualvolta il soggetto destinatario delle
prescrizioni dettate dall'Autorità non
esegua le suddette opere nei termini
stabiliti o, in mancanza, in un termine
ragionevole.
Né la responsabilità può ritenersi esclusa
nel caso che le opere da eseguire siano
soggette ad eventuali provvedimenti di
autorizzazione da parte dell'Autorità,
atteso che è compito del soggetto,
destinatario dell'ordine, di adoperarsi
sollecitamente per rimuovere gli eventuali
ostacoli di natura burocratica che si
frappongano alla rapida esecuzione delle
opere.
Il principio, si noti, è stato recentemente
ribadito da altra recentissima decisione
(Cass. pen., Sez. 1, n. 5098
dell'11.02.2011, imp. V., in Ced Cass.
249798) che ha ritenuto sussistente il reato
in questione ogniqualvolta il soggetto
destinatario delle prescrizioni dettate
dall'Autorità sulla sicurezza delle strade
non esegua le opere necessarie allo scopo
nei termini stabiliti, anche qualora tali
opere siano soggette a provvedimenti
autorizzativi di terzi, essendo compito del
soggetto preposto di adoperarsi
sollecitamente per rimuovere gli eventuali
ostacoli che si frappongano all'attuazione
dell'adempimento (commento tratto da
www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale,
sentenza 21.07.2011 n. 29156
- link a http://olympus.uniurb.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Sulla caduta massi è responsabile
l'Anas... ma entro quali limiti?
Spetta all'ANAS impedire
la caduta massi anche se non è tenuta a
sigillare l'intera scarpata sottostante.
E' quanto ha stabilito dalla Corte di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 18.07.2011 n. 15720, con
la quale si afferma che, se la frana ha
avuto origine da un luogo diverso da quello
in custodia dell'ANAS, l'evento deve
considerarsi imprevedibile.
Il caso vedeva un automobilista essere
travolto da grossi massi mentre era alla
guida del proprio mezzo. In particolare, il
materiale roccioso era franato da terreni di
proprietà di terzi, a monte, per qualche
centinaio di metri rispetto alla strada
statale. Tra la strada e i suddetti terreni,
sempre a monte, correva una linea
ferroviaria con il relativo muro di
contenimento, innalzato dalle ferrovie,
rispetto all'originario muro, dopo la
precedente caduta di massi i quali,
provenienti dai terreni dei terzi suddetti,
avevano spostato i binari e danneggiato il
muro di contenimento.
Secondo l'orientamento dominante nella
giurisprudenza di legittimità, richiamato
dagli ermellini, la responsabilità ex art.
2051 c.c. sussiste in relazione a tutti i
danni da essa cagionati, sia per la sua
intrinseca natura, sia per l’insorgenza in
essa di agenti dannosi, essendo esclusa solo
dal caso fortuito, che può essere
rappresentato -con effetto liberatorio
totale o parziale- anche dal fatto del
danneggiato, avente un'efficacia causale
tale da interrompere del tutto il nesso
eziologico tra la cosa e l'evento dannoso o
da affiancarsi come ulteriore contributo
utile nella produzione del danno.
In relazione alle strade aperte al pubblico
transito si ritiene che la disciplina di cui
all'art. 2051 c.c. sia applicabile in
riferimento alle situazioni di pericolo
connesse alla struttura o alle pertinenze
della strada, essendo configurabile il caso
fortuito in relazione a quelle situazioni
provocate dagli stessi utenti, ovvero da una
repentina e non specificamente prevedibile
alterazione dello stato della cosa che,
nonostante l'attività di controllo e la
diligenza impiegata allo scopo di garantire
un intervento tempestivo, non possa essere
rimossa o segnalata, per difetto del tempo
strettamente necessario a provvedere.
Ai fini del giudizio sulla prevedibilità o
meno della repentina alterazione della cosa,
occorre, secondo il giudice nomofilattico,
aver riguardo, per quanto concerne pericoli
derivanti da situazioni strutturali e dalle
caratteristiche della cosa, al tipo di
pericolosità che ha provocato l'evento di
danno e che, ove si tratti di una strada,
può atteggiarsi diversamente, in relazione
ai caratteri specifici di ciascun tratto ed
agli eventi analoghi che lo abbiano in
precedenza interessato.
Nel caso di specie la Terza Sezione ha
ritenuto imprevedibile la frana di maggiore
consistenza, che ha determinato
l'alterazione dello stato della cosa in
custodia, sebbene abbia riconosciuto che
negli anni precedenti si erano verificate
frane, proprio provenienti dai terreni a
monte, che la stessa ANAS, negli anni
precedenti, aveva predisposto opere per far
fronte allo stesso problema e che nella zona
intermedia a monte, di spettanza delle
Ferrovie, erano già state predisposte delle
opere.
Tali circostanze, concludono gli ermellini,
avrebbero dovuto condurre ad interrogarsi
sul se l'alterazione della cosa per via
della frana fosse, piuttosto, prevedibile e
se da parte dell'ANAS erano state poste in
essere le idonee misure di sicurezza sulla
strada (link a www.altalex.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
D.I.A. edilizia, se la relazione
e' falsa scatta la responsabilità penale. La
dichiarazione ha natura certificativa.
La relazione di
accompagnamento alla D.I.A. edilizia (che
costituisce parte integrante ed essenziale
della dichiarazione stessa di inizio
dell'attività) ha natura di "certificato"
per quanto riguarda la descrizione dello
stato attuale dei luoghi, la ricognizione
degli eventuali vincoli esistenti sull'area
o sull'immobile interessati dall'intervento
e la rappresentazione delle opere che si
intende realizzare e l'attestazione della
conformità delle stesse agli strumenti
urbanistici ed al regolamento edilizio.
Interessante decisione quella di seguito
commentata, affrontando la Corte di
Cassazione un tema interessante costituito
dalla natura giuridica della relazione
tecnica di accompagnamento della D.I.A.
edilizia.
La Corte, prendendo posizione rispetto ad un
contrasto giurisprudenziale che da qualche
tempo si affaccia nelle nostre aule
giudiziarie, opta motivatamente per la
natura di "certificato" di tale
documento, con riferimento in particolare
alla parte progettuale della relazione di
accompagnamento ed alla dichiarazione di
conformità alla pianificazione comunale
delle opere da realizzarsi, giungendo quindi
a ritenere configurabile l'illecito penale
previsto dall'art. 481 c.p. a carico del
professionista che rediga detta relazione
inserendovi dati ideologicamente falsi.
Il fatto.
La vicenda processuale oggetto di esame da
parte dei giudici di Piazza Cavour trae
origine da una sentenza di condanna,
confermata in grado d'Appello, emessa nei
confronti di un architetto in qualità di
direttore dei lavori, in relazione ad un
intervento edilizio di totale demolizione di
un manufatto preesistente ad unica
elevazione e realizzazione di un nuovo
fabbricato a tre piani completamente diverso
per sagoma, tipologia, forma, struttura,
superficie e volumetria complessive.
Questi, secondo l'accusa, aveva asseverato
falsamente, in una perizia tecnica allegata
ad una D.I.A., che i lavori da eseguirsi
avrebbero riguardato il risanamento
conservativo di un fabbricato esistente e
che l'intervento sarebbe stato eseguito con
la tecnica del "cuci-scuci" senza
porsi in contrasto con la normativa
urbanistica, il regolamento edilizio e lo
strumento urbanistico.
Il professionista, inoltre, in altra perizia
giurata conseguente a sospensione dei lavori
disposti con ordinanza comunale, aveva
attestato falsamente la regolarità
dell'intervento eseguito.
Il ricorso.
Contro la sentenza di condanna proponeva
ricorso per cassazione la difesa
dell'imputato, deducendo, per quanto qui di
interesse, l'inconfigurabilità del reato di
cui all'art. 481 c.p., in quanto la
relazione tecnica asseverata da allegarsi
alla D.I.A. non avrebbe natura di
"certificato", "riflettendo essa, per la
parte progettuale, non una realtà oggettiva
ma una semplice intenzione".
In relazione, poi, alla perizia giurata, la
difesa sosteneva che il professionista non
avrebbe attestato la regolarità
dell'intervento, ma si sarebbe limitato ad
affermare che l'originaria struttura muraria
sarebbe stata ripristinata e le dimensioni
in pianta dell'edificio e la sua sagoma
sarebbero rimaste invariate, manifestando
ancora una volta "una semplice intenzione
o, comunque, la previsione di un fatto
futuro". Quanto, infine, alle opere
effettivamente realizzate, non vi sarebbe
stata una totale "demolizione e
ricostruzione della struttura preesistente",
avendo tale attività riguardato, invece,
"una piccola parte del fabbricato".
La decisione della
Cassazione.
La terza sezione penale della Corte Suprema,
investita del ricorso, ha rigettato il
ricorso confermando la responsabilità penale
del professionista. Sul punto, come
anticipato, si registra un contrasto
giurisprudenziale che la Corte supera
agevolmente con un'analisi cui non può che
convintamente aderirsi.
Come di consueto è utile prendere le mosse
dall'inquadramento normativo della
questione. L'art. 481 c.p. punisce la
condotta di colui il quale ponga in essere
una falsità ideologica in certificati
commessa nell'esercizio di una professione
forense, sanitaria o di altro servizio di
pubblica necessità. In relazione a tale
previsione sanzionatoria, l'art. 29, comma
3, del d.P.R. n. 380/2001 (c.d. Testo Unico
dell'Edilizia) prevede che «Per le opere
realizzate dietro presentazione di denuncia
di inizio attività, il progettista assume la
qualità di persona esercente un servizio di
pubblica necessità ai sensi degli articoli
359 e 481 del codice penale. In caso di
dichiarazioni non veritiere nella relazione
di cui all'articolo 23, comma 1,
l'amministrazione ne dà comunicazione al
competente ordine professionale per
l'irrogazione delle sanzioni disciplinari».
La giurisprudenza di legittimità afferma,
senza contrasti, che il progettista o,
comunque, il tecnico abilitato che
predispone la relazione di accompagnamento,
all'interno del procedimento che la legge
prescrive per la presentazione della D.I.A.
in materia edilizia, assume la qualifica di
persona esercente un servizio di pubblica
necessità ex art. 359 c.p.
L'art. 481 c.p. prevede, però, che la falsa
attestazione dei fatti dei quali l'atto sia
destinato a provare la verità sia contenuta
all'interno di un "certificato" e da
ciò discende la necessità di individuare se
la relazione di accompagnamento alla D.I.A.
edilizia abbia o meno natura di "certificato".
Sul punto la giurisprudenza della Cassazione
ha affermato, con consolidato orientamento,
che costituisce "certificazione" la
descrizione dello stato dei luoghi
antecedente alle opere da realizzare (v., da
ultimo: Cass. pen., Sez. 3, n. 27699 del
16.07.2010, imp. C. e altro, in Ced. Cass.
247927).
Tesi non convergenti sono state espresse,
invece, quanto alla parte progettuale della
relazione allegata alla DIA edilizia. In
relazione a tale parte del documento si e'
sostenuto, infatti, che essa rifletterebbe
non una realtà oggettiva ma una semplice
intenzione dell'interessato di realizzare le
opere in essa descritte ed ancora
inesistenti e, per quanto riguarda
l'eventuale attestazione dell'assenza di
vincoli, solamente un giudizio espresso dal
dichiarante, come tale non necessariamente
fondato su dati di fatto certi e sicuri vedi
(v., sul punto, tra le più recenti: Cass.
pen., Sez. 5, n. 7408 del 24.02.2010, imp.
F., in Ced. Cass. 246094).
A divergenti conclusioni è pervenuta,
invece, la terza Sezione della Corte di
Cassazione (Sez. 3, n. 1818 del 19/01/2009,
imp. B., in Ced Cass. 242478) ritenendosi
invece che, dalla lettura coordinata e
sistematica della normativa di riferimento (d.P.R.
n. 380/2001, art. 23, commi 1 e 6, e art.
29, comma 3), emergerebbe un "sostanziale
affidamento" riposto dall'ordinamento sulla
relazione tecnica che accompagna il progetto
e sulla sua veridicità, atteso che "quella
relazione si sostituisce, in via ordinaria,
ai controlli dell'ente territoriale ed offre
le garanzie di legalità e correttezza
dell'intervento". In tale prospettiva,
la relazione del tecnico abilitato
costituisce un atto non solo idoneo ad
integrare la dichiarazione di inizio
dell'attività, ma anche dotato di piena
autonomia e di valore pubblicistico,
assumendo valore sostitutivo del titolo
edilizio abilitante e quindi certificativo.
Quanto alla dichiarazione di conformità
delle opere da realizzare agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi
vigenti, a fronte dell'orientamento secondo
il quale si tratterebbe soltanto di un mero
giudizio del dichiarante, la stessa è stata
ricondotta, invece, da certa giurisprudenza,
all'attività certificativa (v., la già cit.,
sez. 3, n. 27699/2010).
A fronte degli orientamenti
giurisprudenziali dianzi delineati, con
riferimento alla parte progettuale della
relazione di accompagnamento alla DIA
edilizia ed alla dichiarazione di conformità
delle opere realizzande alla pianificazione
comunale, ritiene la sentenza qui commentata
di aderire alle argomentazioni ed alle
conclusioni cui è pervenuto il più rigoroso
orientamento sostenuto dalla già citata Sez.
3, n. 1818/2009.
In tale sentenza è stato, infatti,
condivisibilmente evidenziato che la già
richiamata norma dell'art. 29, comma 3, del
d.P.R. n. 380/2001 dev'essere letta in
necessaria correlazione con quella posta dal
precedente art. 23, il quale prescrive che
la D.I.A. dev'essere accompagnata da una
relazione del progettista "che asseveri
la conformità delle opere da realizzare agli
strumenti urbanistici approvati e non in
contrasto con quelli adottati ed ai
regolamenti edilizi vigenti" (comma 1),
precisando che il dirigente o responsabile
dell'ufficio tecnico comunale, "in caso
di falsa attestazione del professionista
abilitato, informa l'autorità giudiziaria e
il consiglio dell'ordine di appartenenza"
(comma 6) e che, ultimato l'intervento, "il
progettista o un tecnico abilitato rilascia
un certificato di collaudo finale ... con il
quale si attesta la conformità dell'opera al
progetto presentato con la denuncia di
inizio attività" (comma 7).
Il progettista, dunque, sottolineano i
giudici di Piazza Cavour, ha un duplice
obbligo: a) redigere una relazione
preventiva in cui si assume l'onere di "asseverare"
tra l'altro la conformità delle opere agli
strumenti urbanistici approvati e la
mancanza di contrasto con quelli adottati e
con i regolamenti edilizi; b) rilasciare al
termine dei lavori (ove non lo faccia altro
tecnico abilitato) un certificato di
collaudo circa la conformità di quanto
realizzato al progetto iniziale.
E, quanto al primo aspetto di detta condotta
doverosa, è stato esattamente osservato che
il termine "asseverare" ha il
significato di "affermare con solennità",
e cioè di porre in essere una dichiarazione
di particolare rilevanza formale e di
particolare valore nei confronti dei terzi
quanto alla verità ed alla affidabilità del
contenuto. Il progettista si pone come "persona
esercente un servizio di pubblica necessità"
proprio perché assume una posizione di
particolare rilievo in un procedimento
(quello di D.I.A.) che prevede la
sostituzione con una dichiarazione del
privato di ogni autorizzazione
amministrativa comunque denominata.
La principale caratteristica della D.I.A.,
infatti, consiste nella sostituzione dei
tradizionali modelli procedimentali in tema
di autorizzazione con uno schema diverso
ispirato alla liberalizzazione delle
attività economiche private, con la
conseguenza che per l'esercizio delle stesse
non è più necessaria l'emanazione di un
titolo provvedimentale di legittimazione.
A seguito della denuncia, il potere di
verifica di cui dispone l'amministrazione -a
differenza di quanto accade nel regime a
previo atto amministrativo- non e'
finalizzato all'emanazione di un
provvedimento amministrativo di consenso
all'esercizio dell'attività, ma al
controllo, privo di discrezionalità, della
corrispondenza di quanto dichiarato
dall'interessato rispetto ai canoni
normativi stabiliti per l'attività in
questione. Con la D.I.A., quindi, al
principio autoritativo si sostituisce il
principio dell'autoresponsabilità
dell'amministrato, che è legittimato ad
agire in via autonoma, valutando l'esistenza
dei presupposti richiesti dalla normativa in
vigore.
Il ricorso al procedimento della D.I.A.,
conseguentemente, porta con sé una
particolare assunzione di responsabilità, in
relazione al particolare affidamento che
l'ordinamento pone sulla relazione tecnica
che accompagna il progetto e sulla sua
veridicità, atteso che quella relazione si
sostituisce, in via ordinaria, ai controlli
dell'ente territoriale ed offre le garanzie
di legalità e correttezza dell'intervento.
Proprio in considerazione di questo
affidamento la condotta del professionista
abilitato assume una specifica rilevanza
pubblicistica (d.P.R. n. 380/2001, art. 29,
comma 3) che si connette alle previsioni del
precedente art. 23, commi 1 e 6.
L'articolo 23, comma 6, in particolare,
dispone che, in caso di "falsa
attestazione" del professionista, il
funzionario comunale ha l'obbligo di
inoltrare segnalazione informativa
all'autorità giudiziaria, sicché e' evidente
che la "falsa attestazione" in
parola, riferita dal comma 6 alla "assenza
di una o più delle condizioni stabilite",
risulta strettamente correlata alle
prescrizioni poste dal medesimo art. 23,
comma 1, ove la relazione del progettista
integra la dichiarazione stessa di inizio
attività, che e' atto dotato di piena
autonomia.
Dalla delineata costruzione della D.I.A.,
come atto fidefacente a prescindere
dal controllo della P.A. e riconnesso alla
delega di potestà pubblica ad un soggetto
qualificato, discende che la relazione
asseverativa del progettista, sulla quale si
fonda l'eliminazione dell'intermediazione
del potere autorizzatorio dell'attività del
privato da parte della pubblica
amministrazione, assume valore sostitutivo
del provvedimento amministrativo e quindi "certificativo",
con conseguente responsabilità penale del
professionista che dichiari in essa il falso
(commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.07.2011 n. 23072 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Relazione di accompagnamento alla
DIA - Natura e funzione - Principio dell'autoresponsabilità
dell'amministrato - Violazione - Fattispecie
- Art. 481 cod. pen. - Falsità ideologica in
certificati commessa da persone esercenti un
servizio di pubblica necessità.
La relazione di accompagnamento alla DIA
edilizia (che costituisce parte integrante
ed essenziale della dichiarazione stessa di
inizio dell'attività) ha natura di "certificato"
per quanto riguarda: sia la descrizione
dello stato attuale dei luoghi, sia la
ricognizione degli eventuali vincoli
esistenti sull'area o sull'immobile
interessati dall'intervento, sia la
rappresentazione delle opere che si intende
realizzare e l'attestazione della conformità
delle stesse agli strumenti urbanistici ed
al regolamento edilizio.
Con la DIA, quindi, al principio
autoritativo si sostituisce il principio
dell'autoresponsabilità dell'amministrato,
che è legittimato ad agire in via autonoma,
valutando l'esistenza dei presupposti
richiesti dalla normativa in vigore.
(Nella specie, l'imputato, non era soltanto
progettista ma anche direttore dei lavori,
sicché aveva il dovere di costante controllo
della conformità delle opere che
progressivamente venivano realizzate
rispetto a quelle denunziate con la DIA).
DIA edilizia - Relazione
di accompagnamento - Natura di "certificato"
- Qualifica di persona esercente un servizio
di pubblica necessità - Falsa attestazione
dei fatti - Obbligo di comunicazioni
all’autorità giudiziaria - Sanzioni
disciplinari - Artt. 23, cc. 1 e 6, e 29, c.
3, D.P.R. n. 380/2001 - Artt. 359 e 481 cod.
pen..
Ai sensi dell'art. 29, 3° comma, del D.P.R.
n. 380/2001, il progettista o, comunque, il
tecnico abilitato che predispone la
relazione di accompagnamento, all'interno
del procedimento che la legge prescrive per
la presentazione della DIA in materia
edilizia, assume la qualifica di persona
esercente un servizio di pubblica necessità
ex art. 359 cod. pen. [Cass. Sez. V,
04.10.2010, n. 35615, D'Anna; 24.02.2010, n.
7408, Frigé; Cass. sez. III. 16.07.2010, n.
27699, Coppola e altro; 19.01.2009, n. 1818,
Baldessari]. Costituendo "certificazione",
anche ai sensi dell'art. 481 cod. pen., la
descrizione dello stato dei luoghi
antecedente alle opere da realizzare [Cass.:
sez. V, n. 35615/2010, D'Anna; sez. III, n.
27699/2010, Coppola e altro].
In conclusione, dalla lettura coordinata e
sistematica della normativa di riferimento
(art. 23, commi 1 e 6, e art. 29, comma 3,
del D.P.R. n. 380/2001), emergerebbe un "sostanziale
affidamento" riposto dall'ordinamento
sulla relazione tecnica che accompagna il
progetto e sulla sua veridicità, atteso che
"quella relazione si sostituisce, in via
ordinaria, ai controlli dell'ente
territoriale ed offre le garanzie di
legalità e correttezza dell'intervento".
In tale prospettiva la relazione del tecnico
abilitato costituisce un atto non solo
idoneo ad integrare la dichiarazione di
inizio dell'attività, ma anche dotato di
piena autonomia e di valore pubblicistico,
assumendo valore sostitutivo del titolo
edilizio abilitante e quindi certificativo.
Il dirigente o responsabile dell'ufficio
tecnico comunale, "in caso di falsa
attestazione del professionista abilitato,
informa l'autorità giudiziaria e il
consiglio dell'ordine di appartenenza"
(comma 6); che, ultimato l'intervento,
"il progettista o un tecnico abilitato
rilascia un certificato di collaudo finale
... con il quale si attesta la conformità
dell'opera al progetto presentato con la
denuncia di inizio attività" (comma 7).
(Fattispecie relativa al reato di cui
all'articolo 481 c.p. commesso da architetto
direttore dei lavori) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.07.2011 n. 23072 -
link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Danno per lesione di interessi
legittimi: è indipendente dall'invalidità
dell’atto.
Nel caso in esame il ricorrente ha richiesto
l’annullamento della variante al P.R.G. del
Comune di Oristano, rilevando che l’area di
sua proprietà era già stata vincolata a “Servizi
Pubblici - Scuola Materna” con una
precedente variante al P.R.G., e confutando
i presupposti ed il contenuto della variante
impugnata.
Il Comune resistente, in via preliminare,
eccepisce l’improcedibilità del ricorso, e
il TAR Sardegna accoglie la censura.
Il ricorrente in primo grado propone quindi
appello, asserendo che il TAR non avrebbe
considerato “i riflessi sulla tutela
dell’interesse a proporre la domanda
risarcitoria in via autonoma” e
avanzando nuovamente le censure già spiegate
in primo grado.
Il Consiglio di stato, in sede
giurisdizionale, accoglie l’appello e per
l’effetto dichiara l’illegittimità della
impugnata variante al P.R.G. del Comune di
Oristano, condividendo quanto dedotto
dall’appellante circa l’interesse alla
proposizione della domanda risarcitoria in
via autonoma. Il collegio rammenta il
proprio orientamento in materia (C.d.S.,
Sezione IV, 21.04.2009, n. 2435), confermato
dal nuovo codice del processo amministrativo
(art. 34, comma terzo, d.lgs. n. 104 del
2010) che autorizza il giudice
all’accertamento dell’illegittimità
dell’atto, pure nelle ipotesi in cui non
sussista più alcuna utilità
all’annullamento, a condizione che sussista
comunque interesse al risarcimento.
Il Consiglio di Stato ritiene sussistente
l’interesse al risarcimento in capo
all’appellante, giustificato dai dinieghi
del Comune nei confronti dell’istanza di
rilascio della concessione edilizia, che lo
stesso appellante aveva più volte avanzato.
Infatti, per accertare l’illegittimità della
variante impugnata, l’appellante contesta, a
ragione, la mancanza dello sviluppo
demografico, sulla base del quale il Comune
aveva motivato l’adozione della variante,
destinando l’area di proprietà
dell’appellante stesso nella zona destinata
a “servizi pubblici,scuola materna”
da acquisire attraverso lo strumento
dell’espropriazione.
Nei fatti non si era verificato l’incremento
demografico che il Comune aveva ipotizzato.
Pertanto l’istanza risarcitoria proposta per
lesione di interessi legittimi deve
ritenersi ammissibile pure in ipotesi di
declaratoria di improcedibilità della
domanda di annullamento dell’atto, alla
quale dovrebbe ricondursi la lesione.
La distinzione tra pronuncia sulla
legittimità dell’atto impugnato
(improcedibilità anziché annullamento) e
valutazione dell’istanza risarcitoria, non
pregiudica la ragione sostanziale di un
danno risarcibile per fatto “illegale”
della Pubblica amministrazione (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 07.07.2011 n. 4064 -
link a www.altalex.com). |
AGGIORNAMENTO AL 15.09.2011 |
ã |
NOVITA' NEL
SITO |
Inserito nel sito il seguente
nuovo DOSSIER:
●
Segretari comunali. |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Performance governativa:
l'odissea del contributo di solidarietà
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 13.09.2011). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Performance governativa: misure
di sostengo alla contrattazione "di
prossimità"
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 12.09.2011). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
C. Rapicavoli,
Nuove disposizioni in materia di convenzioni
CONSIP e DURC (link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Miele,
Nota a TAR Campania, Sez. V, 19.05.2011, n.
2800 - Ordinanze comunali contingibili ed
urgenti in materia di rimozione rifiuti
(link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
R. Schiavone,
Riordino di congedi, aspettative e permessi
(link a www.ipsoa.it). |
QUESITI &
PARERI |
APPALTI:
Ribasso dell'utile.
Domanda.
E' consentito nelle procedure di appalto il
ribasso dell'utile?
Risposta.
La possibilità di ribassare la percentuale
dell'utile è consentita, soprattutto in
appalti pubblici di importo elevato, pur
escludendosi che un'impresa possa proporre
un'offerta economica sguarnita da qualsiasi
previsione di utile, né è possibile fissare
una quota di utile rigida al di sotto della
quale la proposta dell'appaltatore debba
considerarsi per definizione incongrua.
Assume invece rilievo la circostanza che
l'offerta si appalesi seria e cioè non
animata dall'intenzione di trarre lucro dal
futuro inadempimento delle obbligazioni
contrattuali dovendosi ritenere
ingiustificabile solo l'utile pari a zero (13.09.2011
- tratto da www.ipsoa.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Certificati di malattia online.
Da domani gestione telematizzata anche per i
privati. Circolare Inps precisa le novità.
Se l'infermità è lunga serve la firma del
medico del Ssn.
Al via la gestione online della malattia. A
partire da domani anche nel settore privato
(cosa che già succede in quello pubblico)
entra pienamente a regime la procedura
telematica tra aziende e medici sullo
scambio dei certificati di malattia dei
lavoratori. Lavoratori che, di conseguenza,
tali certificati non devono più consegnare
né all'Inps né alle proprie aziende.
L'uniformità tra pubblico e privato è totale
e vale pure in merito agli stessi
certificati. Tanto che, se l'infermità è
lunga (oltre dieci giorni) o se è la terza
in un anno, deve ora essere certificata
esclusivamente da un medico del Ssn anche
quando riguarda lavoratori privati.
A
precisarlo è l'Inps nella
circolare 09.09.2011 n.
117.
Dal 14 settembre. A ricordare l'entrata a
regime dalla procedura telematica è stato
ieri pure il ministero della funzione
pubblica, spiegando in un comunicato stampa
che oggi è l'ultimo giorno in cui è
possibile utilizzare la carta per i
certificati medici di malattia dei
dipendenti privati. Diversamente da quanto
annunciato il 2 settembre, il comunicato
spiega che scatta da mercoledì 14 (e non da
oggi) l'applicazione al settore privato
delle nuove regole.
A partire da domani,
pertanto, il datore di lavoro non potrà più
richiedere al proprio lavoratore l'invio
della copia cartacea dell'attestazione di
malattia, ma dovrà prenderne visione
avvalendosi dei servizi resi disponibili
dall'Inps.
Le altre novità.
E l'Inps è intervenuto ieri con la circolare
n. 117/2011 per spiegare le altre novità
dell'equiparazione tra pubblico e privato in
ordine alla disciplina dei certificati di
malattia. La legge n. 183/2010 (il collegato
lavoro), spiega l'Inps, ha fatto rimando
integrale ed esplicito all'articolo 55-septies del dlgs n. 165/2001 (tu pubblico
impiego), così uniformando totalmente il
regime dei dipendenti dei settori pubblico e
privato, ivi compresi gli aspetti
sanzionatori riferiti ai medici del Ssn o
con esso convenzionati.
Successivamente,
aggiunge l'Inps, con l'entrata in vigore (06.07.2011) del dl n. 98/2011 sono state
introdotte delle innovazioni in materia di
assenze per malattia dei pubblici dipendenti
per cui «nel caso in cui l'assenza per
malattia abbia luogo per l'espletamento di
visite, terapie, prestazioni specialistiche
o esami diagnostici l'assenza è giustificata
mediante la presentazione di attestazione
rilasciata dal medico o dalla struttura,
anche privati, che hanno svolto la visita o
la prestazione».
Questa norma, spiega
l'Inps, introduce un regime speciale,
rispetto a quello generale dell'articolo 55-septies. Pertanto, nei casi di assenza per
malattia superiori a dieci giorni e comunque
nei casi di eventi successivi al secondo,
nel corso dell'anno solare, anche per il
lavoratore del settore privato vige
l'obbligo di produrre idonea certificazione
rilasciata unicamente dal medico del Ssn o
con esso convenzionato, con esclusione delle
assenze per malattia per l'espletamento di
visite, terapie, prestazioni specialistiche
o diagnostiche per le quali la
certificazione giustificativa può essere
rilasciata anche da medico o struttura
privata. Certificazione che, sino
all'adeguamento del sistema di trasmissione
telematica, potrà essere prodotta in forma
cartacea.
---------------
Visite fiscali
tramite web.
Dal 1° ottobre le richieste di visita medica
di controllo dei dipendenti in malattia (la
«visita fiscale») dovranno essere inoltrate
all'Inps mediante canale telematico. In fase
di prima attuazione, tuttavia, vigerà un
periodo transitorio, fino al 30 novembre,
durante il quale le richieste inviate
secondo i canali tradizionali saranno
considerate utili agli effetti giuridici.
Lo
rende noto l'Inps nella
circolare 12.09.2011
n. 118.
La novità interessa tutti i datori di
lavoro, sia pubblici che privati, inclusi
quelli i cui dipendenti non pagano i
contributi di malattia. Da ieri, 12
settembre (data di pubblicazione della
circolare), tutti i soggetti già dotati di
Pin sono stati automaticamente abilitati al
nuovo servizio. I datori di lavoro che
intendano affidarsi a un soggetto devono
tempestivamente comunicarlo all'Inps, che
provvederà a modificare i profili
autorizzativi. La richiesta di visita medica
di controllo può essere effettuata per un
solo lavoratore e per una sola visita alla
volta. È possibile richiedere anche una
visita di controllo ambulatoriale Inps, per
casi eccezionali e motivati.
Come accennato, in fase di prima attuazione
del processo telematizzato è concesso un
periodo transitorio fino al 30 novembre,
durante il quale le richieste di visita
medica di controllo inviate attraverso i
canali tradizionali. Alla scadenza (dal 1°
dicembre), dunque, il canale telematico
diventa esclusivo
(articolo ItaliaOggi del 13.09.2011
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Controllo della malattia: al via
la procedura telematica. Termine del periodo
transitorio a novembre.
Dall'01.10.2011 le
richieste di visita medica di controllo
dovranno essere inoltrate attraverso il
canale telematico, che diverrà lo strumento
esclusivo con decorrenza 30.11.2011. Fino a
tale ultima data saranno accettate le
richieste anche tramite i canali
tradizionali.
A decorrere dall'01.10.2011, viene attivata,
per i datori di lavoro pubblici e privati
(compresi quelli i cui dipendenti non sono
tenuti al versamento della contribuzione di
finanziamento dell’indennità economica di
malattia all’Inps), la modalità di
presentazione telematica della richiesta del
servizio di controllo (domiciliare e/o
ambulatoriale) dello stato di salute dei
propri dipendenti in malattia, in
ottemperanza del disposto di cui alla legge
30.07.2010, n. 122, art. 38, comma 5.
Il sistema fornirà una ricevuta (stampabile
e recante il protocollo) e darà anche la
possibilità di verificare l’esito della
visita medica. La presentazione della
richiesta dovrà essere effettuata attraverso
il portale WEB dell’Istituto - servizio di “Richiesta
Visita Medica di controllo”, con accesso
tramite PIN e previa autorizzazione
all’accesso al servizio.
Nel dettaglio:
- a partire dal 12.09.2011 tutti i soggetti
già dotati di PIN ed attualmente in grado di
consultare gli attestati di malattia saranno
automaticamente abilitati al servizio;
- i datori di lavoro o loro incaricati, non
ancora abilitati ai servizi di consultazione
degli attestati di malattia, per poter
acceder al servizio, devono presentare
domanda presso una Sede Inps utilizzando il
modulo a tale fine predisposto
dall’Istituto;
- i datori di lavoro o loro incaricati che
intendano affidare il servizio di “Richiesta
Visita Medica di controllo” ad un
soggetto diverso da quello attualmente
dotato di abilitazione per la consultazione
degli attestati di malattia, dovrà
tempestivamente comunicarlo all’INPS, che
provvederà a modificare i relativi profili
autorizzativi.
Al verificarsi della cessazione
dell’attività, della sospensione o del
trasferimento in altra struttura
dell’intestatario del PIN, i datori di
lavoro o loro incaricati in possesso di PIN,
sono tenuti a chiedere tempestivamente la
revoca dell’autorizzazione.
L’INPS provvederà a cessare, con effetto
immediato, l’abilitazione. Inoltre, viene
specificato che:
- la richiesta di visita medica di
controllo, che viene indirizzata in
automatico alla Sede competente per
residenza/domicilio o reperibilità del
lavoratore, può essere effettuata per un
solo lavoratore e per una sola visita alla
volta.
- è possibile richiedere anche una visita di
controllo ambulatoriale INPS, per casi
eccezionali e motivati, cui fa seguito una
verifica di fattibilità, da un punto di
vista organizzativo-temporale, da parte
della Sede INPS destinataria (commento
tratto www.ipsoa.it - INPS,
circolare 12.09.2011
n. 118). |
NEWS |
ENTI LOCALI:
MANOVRA-BIS/ Lombardia, Per
Nosate e gli altri «piccoli» la
sopravvivenza è la fusione.
Razionalizzazione in arrivo per 327 consigli
comunali.
Con chi si allea Nosate? Come parteciperà
l'unico mini-Comune che in provincia di
Milano non raggiunge i mille abitanti alla
girandola di novità previste dalla
manovra-bis, che solo in Lombardia dovrebbe
cancellare dagli ordinamenti locali 1.392
posti da consigliere o assessore comunale?
Per carità, non è solo un problema di ...
(articolo
Il Sole 24 Ore del 14.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
MANOVRA BIS/
Fare causa costa caro.
Fare causa costa tanto, e più di prima della
crisi. Le punte più alte si registrano nel
settore del contenzioso amministrativo sugli
appalti. Il contributo unificato si paga
anche in settori prima esenti per le cause
di lavoro e per separazioni e divorzi. E se
negli atti gli avvocati non riportano il
numero di fax e l'indirizzo di posta
elettronica certificata, il conto diventa
ancora più alto.
L'articolo 13 del Testo unico sulle spese di
giustizia, dlgs 115/2002, è stato
rivoluzionato dal decreto 98/2011 e anche
dal decreto 138/2011: due interventi per
fare cassa mediante l'aumento del balzello
sulle cause, anche quelle tributarie. Ecco
come cambia la normativa: per le cause di
lavoro, è dovuto il contributo da chi ha un
reddito superiore a 31.884,48 euro. Sotto
questa soglia le cause rimangono esenti.
Sopra soglia per iniziare la causa bisogna
versare allo stato.
Le controversie di previdenza e assistenza
obbligatorie, nonché quelle individuali di
lavoro o concernenti rapporti di pubblico
impiego le parti che sono titolari di un
reddito imponibile ai fini dell'imposta
personale sul reddito, risultante
dall'ultima dichiarazione, superiore a tre
volte l'importo previsto dalla soglia di
ammissione al gratuito patrocinio, sono
soggette al contributo unificato.
La soglia di ammissione al gratuito
patrocinio è stabilita dall'articolo 76 del
Testo unico delle spese di giustizia:
reddito imponibile ai fini dell'imposta
personale sul reddito, risultante
dall'ultima dichiarazione, non superiore a
10.628,16 euro. Quindi la soglia per il
contributo unificato è di 31.884,48 euro.
La dichiarazione di esenzione o di
assoggettamento al contributo dovrà essere
fatta dall'avvocato nelle conclusioni del
ricorso: l'avvocato potrà cautelarsi
facendosi rilasciare, nei casi dubbi, una
dichiarazione liberatoria da parte del
proprio cliente.
Nelle altre cause il contributo si paga in
relazione al valore della causa e in alcune
ipotesi in base al valore della causa.
Il contributo unificato è di 37 euro per i
processi di valore fino a 1.100 euro; 85
euro per i processi di valore superiore a
1.100 euro e fino a 5.200 euro; di 206 euro
per i processi di valore superiore a 5.200
euro e fino a 26 mila euro e per i processi
contenziosi di valore indeterminabile di
competenza esclusiva del giudice di pace; di
450 euro per i processi di valore superiore
a 26 mila euro e fino a 52 mila euro e per i
processi civili di valore indeterminabile;
di 660 euro per i processi di valore
superiore a 52 mila euro e fino a 260 mila
euro; di 1.056 euro per i processi di valore
superiore a 260 mila euro e fino a 520 mila
euro; di 1.466 euro per i processi di valore
superiore a 520 mila euro. Per i processi di
esecuzione immobiliare il contributo dovuto
è pari a 242 euro. Per gli altri processi
esecutivi lo stesso importo è ridotto della
metà. Per i processi esecutivi mobiliari di
valore inferiore a 2.500 euro il contributo
dovuto è pari a 37 euro. Per i processi di
opposizione agli atti esecutivi il
contributo dovuto è pari a 146 euro.
Il contributo è ridotto alla metà per i
processi speciali sommari (ingiunzione,
sfratti, cautelari), compreso il giudizio di
opposizione a decreto ingiuntivo e di
opposizione alla sentenza dichiarativa di
fallimento e per le controversie individuali
di lavoro o concernenti rapporti di pubblico
impiego, con il limite reddituale di cui si
è detto. Ai fini del contributo dovuto, il
valore dei processi di sfratto per morosità
si determina in base all'importo dei canoni
non corrisposti alla data di notifica
dell'atto di citazione per la convalida e
quello dei processi di finita locazione si
determina in base all'ammontare del canone
per ogni anno.
Per la procedura fallimentare, che è la
procedura dalla sentenza dichiarativa di
fallimento alla chiusura, il contributo
dovuto è pari a 740 euro. Se manca la
dichiarazione di valore (che deve essere
fatta nell'atto) si applica l'importo
massimo di 1.466 euro.
---------------
MANOVRA BIS/
Chi sbaglia paga. E tanto.
Se l'avvocato sbaglia il contributo lievita.
Questo l'effetto della manovra correttiva di
luglio (decreto 98/2011) e dell'articolo 2,
comma 35-ter del decreto 138/2011 (manovra
di ferragosto), come modificato dal
maxiemendamento del governo. La disposizione
modifica in particolare l'articolo 125 del
codice di procedura civile relativo alla
compilazione degli atti giudiziari: ora il
difensore è obbligato a indicare anche il
proprio indirizzo di posta elettronica
certificata e il proprio numero di fax. E se
non lo fa può scattare una indiretta
sanzione pecuniaria.
Questo vale anche per il processo tributario
e per quello amministrativo.
L'importo del contributo unificato nel
processo amministrativo, infatti, è
aumentato della metà se il difensore omette
la comunicazione della posta elettronica
certificata e del fax.
La legge precisa che l'onere del contributo
grava sulla parte soccombente anche nel caso
di compensazione giudiziale delle spese e
anche nel caso in cui la stessa non si sia
costituita in giudizio. Per il processo
tributario l'aumento è previsto nel caso in
cui il legale non indica il proprio
indirizzo di posta elettronica certificata
oppure qualora la parte ometta di indicare
il codice fiscale nel ricorso.
La sanzione per l'omissione formale non
riguarda alcun elemento relativo al
contributo unificato. Il contributo aumenta,
ma per la violazione di un adempimento che è
finalizzato a consentire, non il recupero
del gettito del contributo unificato stesso,
ma una cosa del tutto diversa: si vuole
realizzare di un sistema di comunicazione
meno oneroso per gli uffici giudiziari.
L'aumento del contributo unificato è il
prezzo che i legali distratti saranno
chiamati a pagare perché il servizio
giustizia possa spendere di meno inviando
comunicazioni telematiche e con fax (anziché
con ufficiale giudiziario o con il servizio
postale).
Il meccanismo di calcolo della sanzione (50%
del contributo unificato) implica che una
stessa violazione (omessa indicazione della
Pec e del fax) può essere punita
diversamente: con euro 18,50 (metà del
contributo dovuto per lo scaglione più basso
di valore della lite) o con 733 euro
(scaglione più alto) o ancora con 2 mila
euro (metà del contributo per i processi
sugli appalti).
Il contributo unificato è dovuto dalla
parte, che però può rivalersi sul proprio
legale.
---------------
MANOVRA BIS/
Ricorsi sugli appalti al raddoppio.
Per impugnare un appalto si deve versare il
contributo unificato di 4 mila euro. E
questo vale per il ricorso principale, ma
anche per i ricorsi incidentali e in caso di
proposizione di motivi aggiuntivi che
introducono nuove domande. Quindi se si
impugna un appalto si pagano 4 mila euro e
se poi bisogna presentare motivi aggiunti
con una nuova domanda si deve ripetere il
pagamento.
Sul contributo unificato il testo
dell'articolo 13 del testo Unico delle spese
di giustizia, risultante dalle manovre
d'estate, prevede che per i ricorsi sugli
appalti (articolo 119, comma 1, lettere a) e
b) del codice del processo amministrativo, dlgs 104/2010), il contributo dovuto è di 4
mila euro. La cifra è stata raddoppiata,
rispetto all'originario importo di 2000
euro.
Anche le pubbliche amministrazioni dovranno
fare molta attenzione al contenzioso. Una
eventuale soccombenza comporterà per l'ente
pubblico o comunque per la stazione
appaltante il rischi di un potenziale
rimborso di somme molto alte: anche il solo
rimborso del contributo unificato può
raggiungere cifre salate: si pensi al
rimborso del contributo pagato per il
ricorso e per un successivo atto di motivi
aggiunti e la restituzione tocca già 8 mila
euro. Ma è l'intero settore dei processi
amministrativi che è stato rivisitato.
Grazie a una disposizione del decreto
138/2011 viene elevato da 450 a 600 euro
l'importo del contributo unificato per i
processi amministrativi di valore
indeterminabile
(articolo ItaliaOggi
Sette del 12.09.2011). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Malattia, è giunta
l'ora dell'online.
Il datore non può più chiedere le
certificazioni su carta. Termina il periodo
transitorio. Dal 13 settembre le
informazioni mediche disponibili sul sito Inps.
Al via la nuova disciplina sulle
certificazioni mediche di malattia dei
dipendenti pubblici e privati. A partire dal
13 settembre anche nel settore privato
diventeranno definitivamente operative la
gestione telematica (online) tra datori di
lavoro e medici sullo scambio dei
certificati medici dei lavoratori ammalati.
Da tale data, pertanto, anche il datore di
lavoro privato (come già succede nel settore
pubblico) non potrà più richiedere al
lavoratore l'invio della copia cartacea
dell'attestazione di malattia ma potrà/dovrà
prendere visione avvalendosi dei servizi
resi disponibili dall'Inps. Resta ferma per
il datore di lavoro del settore privato la
possibilità di chiedere ai propri dipendenti
di comunicare il numero di protocollo
identificativo del certificato inviato
online dal medico. L'ok decisivo all'entrata
a regime del sistema telematico è arrivato
dal Comitato tecnico di monitoraggio, nella
riunione dello scorso 2 settembre.
Stop alla carta. È dal 3 aprile dell'anno
scorso che i medici dipendenti del sistema
sanitario nazionale in regime di convenzione
sono tenuti a trasmettere all'Inps, per il
tramite del Sac (Sistema di accoglienza
centrale), i
certificati di malattia dei lavoratori
rilasciandone copia cartacea agli
interessati. Il certificato così trasmesso
viene ricevuto dall'Inps che lo mette a
disposizione del lavoratore, sul proprio
sito internet (indirizzo www.inps.it) previa
identificazione con pin, nonché (sempre su
internet) al datore di lavoro, pubblico o
privato.
Nel settore pubblico la telematizzazione delle certificazioni
mediche ha avuto effetti più immediati; nel
settore privato, invece, è stato vigente un
periodo transitorio.
Infatti, il collegato
lavoro ha posto l'estensione della
disciplina pubblica al settore privato dall'01.01.2010; ma la legge n. 183/2010 è
entrata in vigore il 24 novembre che
rappresenta la data a partire dalla quale
deve ritenersi uniformato il regime legale
del rilascio e della trasmissione dei
certificati di malattia per tutti i
dipendenti, sia pubblici che privati. Con
circolare ministeriale congiunta (funzione
pubblica/lavoro) è stato previsto uno
speciale regime transitorio per i datori di
lavoro privati consentendo, per tre mesi
successivi «alla data di pubblicazione»
della stessa circolare, la possibilità di
continuare a far valere le vecchie regole.
Dunque, l'entrata a regime delle nuove
regole scatta dal 13 settembre.
Niente più comunicazioni all'Inps. Prima
dell'entrata in vigore della procedura
telematica, i lavoratori che si ammalavano
erano tenuti a due obblighi fondamentali
(oltre a quello di avvisare l'azienda
dell'assenza):
a) far pervenire una copia del certificato
medico all'Inps, entro due giorni;
b) far pervenire una copia del certificato
medico al proprio datore di lavoro, entro
due giorni.
Entrambi gli adempimenti risultano
modificati dalla legge n. 311/2004 che ha
previsto la procedura telematica. In
sostanza, i lavoratori dipendenti non hanno
più l'obbligo di trasmettere una copia del
certificato all'Inps (primo adempimento) e,
dal 13 settembre, non devono nemmeno più
consegnare al datore di lavoro (che non può
più pretenderlo) una copia cartacea
dell'attestazione di malattia.
La novità non
fa venir meno il diritto delle aziende alle
relative informazioni; ma i datori di lavoro
dovranno prendere visione avvalendosi dei
servizi telematici resi disponibili
dall'Inps (in pratica possono decidere di
prendere visione delle attestazioni di
malattia dei propri dipendenti sul sito
internet oppure di riceverle tramite posta
elettronica). Rimane invece riconosciuta,
per il datore di lavoro del settore privato,
la possibilità di richiedere ai propri
dipendenti di comunicare il numero di
protocollo identificativo del certificato
inviato online dal medico.
---------------
Un sms per comunicare il protocollo.
La nuova disciplina sulle certificazioni di
malattia implica l'aggiornamento delle
regole contrattuali fra aziende e lavoratori
attualmente previste dai vigenti contratti
collettivi di lavoro. Ma l'operazione potrà
avvenire soltanto in sede di rinnovo dei
contratti. Pertanto, in vista dell'entrata a
regime della nuova disciplina, alcune
confederazioni di imprese hanno siglato con
i sindacati accordi quadri al fine di
coordinare le nuove regole con le discipline
dei ccnl mediante disposizioni specifiche
che resteranno operative fino a quando non
saranno stati i singoli ccnl ad armonizzare
le nuove modalità. È il caso, per esempio,
di Confindustria, Confapi, Cgil, Cisl e Uil.
In pratica, dal 13 settembre il medico non
potrà più rilasciare al lavoratore il
certificato di malattia in forma cartacea (è
la novità principale del nuovo sistema), che
viene sostituito da un «numero
identificativo» (il protocollo) che il
medico è obbligato a consegnare al
lavoratore. I recenti accordi stabiliscono
che il lavoratore è tenuto a comunicare
questo numero alla propria azienda entro i
termini fissati dai vigenti ccnl per l'invio
della certificazione di malattia su carta
(praticamente c'è lo scambio tra certificato
e numero), potendo utilizzare i mezzi
tecnologici quali, per esempio, e-mail o sms.
L'obbligo di comunicazione del numero
identificativo scatta in presenza di
espressa richiesta da parte dell'azienda; se
manca invece il lavoratore può astenersi.
Resta fermo infine l'obbligo del lavoratore
di comunicare tempestivamente al suo datore
di lavoro l'assenza per malattia ed ogni
eventuale variazione d'indirizzo per
consentire la visita fiscale.
---------------
Il cervellone si chiama Sac.
La procedura telematica gestita dall'Inps
funziona in questo modo. Il medico curante,
attraverso il collegamento internet,
trasmette all'Inps le informazioni relative
alla certificazione di malattia che ha
rilasciato a un lavoratore, accedendo al
Sistema di accoglienza centrale (Sac) del
ministero dell'economia.
Le certificazioni telematiche si compongono
di: a) un attestato di malattia per il
datore di lavoro, privo di diagnosi; b) un
certificato di malattia per l'assistito
(cioè il lavoratore) con i dati della
diagnosi e/o il codice nosologico.
Completato l'invio, il Sac restituisce al
medico un numero di protocollo attribuito
all'operazione (al certificato); il medico
procede, se possibile, alla stampa del
certificato e dell'attestato da consegnare,
entrambi, al lavoratore.
Se si trova
impossibilitato ad effettuare la stampa
della certificazione, il medico è tenuto
soltanto a comunicare al lavoratore il
numero di protocollo della certificazione
affinché successivamente il lavoratore possa
recuperare copia della certificazione su
internet. L'Inps, ricevuto il certificato
dal Sac, mette il relativo attestato di
malattia a disposizione del datore di lavoro
(privato e pubblico) sul proprio portale
web.
Lo stesso fa anche per il lavoratore,
il quale può accedere sempre dal sito web
dell'Inps ai dati di tutti i certificati a
lui intestati (accesso tramite codice Pin) o
al singolo attestato di malattia (attraverso
l'inserimento del codice fiscale personale e
del numero identificativo del certificato).
Imprese e lavoratori, inoltre, possono
registrarsi all'Inps per ottenere una copia
delle certificazioni mediche via Pec (Posta
elettronica certificata) (articolo ItaliaOggi Sette
del 12.09.2011). |
VARI:
Interventi edilizi in agrodolce.
Detrazioni fiscali semplificate ma i tagli
sono anticipati. Effetto congiunto di
decreto sviluppo e manovra-bis. Al varo
anche l'istituzione dell'Imu.
Settembre è il mese caldo dei lavori di
ristrutturazione e ammodernamento per
abitazioni ed edifici. Sia perché si
effettuano quegli interventi, in programma
da tempo, che si è preferito rimandare al
rientro in città dopo le vacanze. Sia perché
si devono ultimare entro fine anno tutte le
pratiche burocratiche relative alle
detrazioni fiscali da iscrivere nella
dichiarazione dei redditi.
Nel corso dell'estate tuttavia si sono
susseguite diverse novità normative e
giurisprudenziali sui lavori domestici che
riguardano sia le modalità di fruizione
degli incentivi sia le procedure per la loro
richiesta, che meritano di essere
approfondite. Non ultimo il decreto
correttivo –attualmente in fase di
preparazione– sull'avvio dell'Imu
(l'Imposta municipale unica), destinata a
sostituire (riformandola) l'Ici. Ma vediamo
nel dettaglio le principali novità e come
attrezzarsi al meglio per cogliere tutte le
opportunità.
Le detrazioni fiscali diventano più
semplici. Il decreto legge 70/2011 (il
cosiddetto decreto sviluppo) stabilisce che
per usufruire dell'agevolazione relativa
alle ristrutturazioni edilizie (bonus 36%)
non è più necessaria la comunicazione
preventiva dei lavori al Centro operativo di
Pescara dell'Agenzia delle entrate. Occorre
solo l'indicazione nella dichiarazione dei
redditi. Il decreto inoltre elimina l'onere
di indicare nelle fatture il costo della
manodopera impiegata.
La nuova norma non si
applica ai lavori iniziati e alle fatture
emesse prima del 14.05.2011, data in cui
è entrato in vigore l'articolo 7, comma 2,
lettere r) e q), del decreto sviluppo. In
riferimento poi all'indicazione del costo
della manodopera in fattura, le Entrate
hanno stabilito che la semplificazione viene
applicata a tutte le fatture emesse a
partire dal 14.05.2011. Anche nel caso
in cui si riferiscano a lavori o interventi
conclusi in data anteriore.
Per quel che
invece concerne le comunicazioni dei lavori
a cavallo d'anno da effettuare annualmente
entro il 31 marzo, le Entrate hanno
confermato che questa comunicazione non va
inviata se i pagamenti sono effettuati
interamente nell'anno della fine dei lavori.
Nessuna comunicazione è dovuta anche nel
caso in cui i lavori sono iniziati e
terminati nello stesso anno e i pagamenti
sono tutti effettuati nell'anno successivo.
L'Agenzia ha anche precisato che per gli
interventi di riqualificazione globale degli
edifici esistenti e per l'installazione di
cappotti verticali o orizzontali è
necessario acquisire la certificazione
energetica dell'edificio, così come
individuata ai sensi dell'articolo 6 del
decreto legislativo n. 192/2005, dalla
regione o dall'ente locale ovvero a livello
nazionale. Ad esempio, in Lombardia i
certificatori seguiranno la disciplina
regionale, mentre in Veneto applicheranno
quella nazionale.
Ridotta la ritenuta d'acconto sui bonifici.
Un'ulteriore semplificazione è stata
introdotta dall'art.23, comma 8 del decreto
legge 98/2011. In questo caso si tratta di
una riduzione dal 10 al 4% della ritenuta a
titolo d'acconto trattenuta da banche e
poste sui bonifici effettuati a favore dei
soggetti esecutori dei lavori di
ristrutturazione e risparmio energetico.
Banche e poste, quindi, applicheranno
all'importo netto, scorporato dell'Iva al
20%, la ritenuta a titolo d'acconto del 4%
se il beneficiario della detrazione è un
soggetto privato. Nessuna ritenuta invece
sarà applicata se il soggetto beneficiario è
un'impresa. In quest'ultimo caso, infatti,
per usufruire del beneficio non è
obbligatorio il pagamento a mezzo bonifico.
Anticipati di un anno i tagli per le
detrazioni fiscali. L'anticipo di un anno
dei tagli alle detrazione fiscali è al
centro della manovra bis (decreto legge n.
138 del 13.08.2011) in discussione in
Parlamento per la conversione in legge. La
manovra correttiva di luglio (legge
111/2011) aveva stabilito tagli lineari del
5% per il 2013 e del 20% dal 2014 per tutte
le detrazioni fiscali vigenti in Italia, tra
le quali anche le detrazioni Irpef del 36%
per le ristrutturazioni edilizie. Ma
l'ultima manovra economica ha modificato il
comma 1, art. 40 della legge 111/2011,
anticipando al 2012 i tagli del 5% e al 2013
quelli del 20%.
La Finanziaria di luglio non
prevedeva inoltre l'attuazione di questi
tagli nell'ipotesi in cui entro il 30.09.2013 si fossero applicati dei
provvedimenti legislativi in materia di
riforma fiscale e assistenziale, in grado di
generare un risparmio per lo Stato non
inferiore a 4 miliardi di euro per il 2013
(ora 2012) e di 20 miliardi di euro per il
2014 (ora 2013). Con la manovra bis il
termine per il varo della riforma fiscale,
che potrebbe salvare alcune detrazioni dai
tagli, viene anticipato al 30.09.2012. I tagli anticipati andrebbero a
colpire la detrazione fiscale del 36% sulle
ristrutturazioni, che –se non ulteriormente
prorogata– dovrebbe restare in vigore fino
al 31.12.2012, mentre non
riguarderebbe il bonus del 55% sulle
riqualificazioni energetiche, in scadenza il
31 dicembre di quest'anno e la cui eventuale
proroga non è sicura.
Non è chiaro, inoltre,
se i tagli avranno effetto retroattivo per
le quote di lavori già effettuati negli anni
precedenti. Un'altra agevolazione sulla casa
che potrebbe subire i tagli anticipati è la
cedolare secca, appena introdotta. L'imposta
sostitutiva sui canoni di locazione per gli
immobili a uso abitativo è stata introdotta
dal recente decreto sul federalismo fiscale
municipale e prevede per i proprietari il
pagamento di un'aliquota del 21%. Ma la
percentuale dovrebbe aumentare prima al 22%
nel 2012 e quindi al 25% a partire dal 2013.
Imu potenziata e anticipata al 2012. È
infine in preparazione il decreto correttivo
che dovrebbe anticipare l'istituzione dell'Imu
a gennaio 2012 invece che al 2014, come
previsto nel decreto sul federalismo
fiscale. La tassa, che sostituirà l'Ici,
comprenderà l'attuale Tarsu/Tia (tassa sulla
spazzatura) e colpirà anche le prime case,
ma solo per la parte relativa allo
smaltimento dei rifiuti. Secondo alcuni
calcoli, con l'Imu e l'aumento dell'Irpef
locale ogni famiglia potrebbe pagare in
media 1000 euro in più all'anno.
Con il
federalismo municipale, infatti, già dal
2011 è possibile per i comuni aumentare
l'aliquota Irpef fino allo 0,8% nel 2012. Un
altro aumento può arrivare dalle regioni,
dato che nel 2012 e 2013 l'addizionale può
salire fino all'1,4% e dal 2014 fino al 2%.
Peggio ancora nel 2015, quando potrà
arrivare fino al 3% (articolo ItaliaOggi Sette del
12.09.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO: Un
freno per chi resta al lavoro. Sul
«trattenimento» silenzio-diniego della Pa al
dipendente.
LIBERA SCELTA -
Confermata anche la possibilità di
risoluzione unilaterale anticipata verso chi
ha raggiunto 40 anni di anzianità
contributiva.
La manovra di Ferragosto è intervenuta su
due importanti istituti che attengono al
collocamento a riposo dei lavoratori
pubblici e che possono essere utilizzati
discrezionalmente dalla Pa: il trattenimento
in servizio del dipendente in età compresa
tra i 65 e i 67 anni (articolo 16 del Dlgs
503/1992) e la risoluzione anticipata del
rapporto di lavoro a decorrere dal
compimento dell'anzianità massima
contributiva di 40 anni (articolo 72, comma
11 del 112/2008).
La disciplina di questi due istituti
evidenzia un potere organizzativo e
gestionale della Pa di realizzare politiche
che incidono sul numero di personale in
servizio e sembra andare in controtendenza
rispetto a tutti gli interventi del
legislatore volti ad ampliare la permanenza
in attività lavorativa. Sul trattenimento in
servizio dai 65 ai 67 anni (ora regolato
dall'articolo 1, comma 17, del Dl
138/2011) era già intervenuto il Dl 112/2008,
che aveva reso discrezionale l'accoglimento
da parte della Pa della richiesta presentata
dal lavoratore, accoglimento che era prima
obbligatorio.
La manovra di agosto rafforza
il potere datoriale in quanto tramuta la
domanda di trattenimento presentata dal
lavoratore in mera dichiarazione di
disponibilità a essere trattenuto. A fronte
di questa dichiarazione l'amministrazione ha
facoltà, sulla base delle proprie esigenze
organizzative e funzionali, di trattenere in
servizio il dipendente, tenuto conto della
particolare esperienza professionale
acquisita in determinati o specifici ambiti
e in funzione dell'efficiente andamento dei
servizi.
La nuova formulazione letterale voluta dalla
manovra di Ferragosto, modificando la
richiesta del lavoratore in mera
dichiarazione, non obbliga l'amministrazione
a dare un riscontro alla sua richiesta se
non intende trattenere in servizio il
dipendente: in sostanza, si esprimerà
soltanto laddove intenda avvalersi della sua
disponibilità e vorrà trattenerlo. È utile
ricordare che il Dl 78/2010 (articolo 9,
comma 31) prevede che questi trattenimenti
in servizio possono essere disposti
esclusivamente nell'ambito delle facoltà
assunzionali consentite dalla legislazione
tenendo conto delle cessazioni del
personale, destinando le risorse finanziarie
necessarie alla stessa stregua di una nuova
assunzione.
La Pa, di fronte alla disponibilità di un
dipendente a essere trattenuto dai 65 ai 67
anni, ha la facoltà di decidere se avvalersi
di una professionalità esperta e consolidata
oppure di assumere un giovane disoccupato.
Va sottolineato che, qualora
l'amministrazione volesse trattenere il
dipendente, dovrebbe finanziare
un'assunzione per due anni, mentre se
destinasse il finanziamento a una nuova
assunzione potrebbe avvalersene,
normalmente, per la vita lavorativa del
nuovo assunto.
Inoltre, per chi matura il diritto al
pensionamento di vecchiaia è prevista già la
cosiddetta finestra mobile (articolo 12 del
Dl 78/2010). Per come è regolata la materia,
l'istituto del trattenimento non appare una
scelta molto conveniente, data l'onerosità,
e come ratio non è in linea con le
disposizioni che tendono ad adeguare i
requisiti di accesso al trattamento
pensionistico agli incrementi della speranza
di vita.
Analogo discorso,sotto quest'aspetto, si può
fare per il secondo istituto, quello della
risoluzione unilaterale anticipata dal
rapporto di lavoro e dal contratto
individuale con il personale che ha
raggiunto l'anzianità massima contributiva
di 40 anni, salvo il preavviso di sei mesi,
a prescindere dall'età del lavoratore.
Questo istituto era previsto per il triennio
2009-2011 e la manovra di agosto lo
ripropone anche per il prossimo triennio
2012-2014 (articolo 1, comma 16, del Dl
138/2011).
È espressione di un forte potere
datoriale e il legislatore si è preoccupato
di precisare questa natura disponendo che
non necessita di ulteriore motivazione
laddove l'amministrazione abbia
preventivamente determinato in via generale
appositi criteri applicativi con atto di
organizzazione interna, sottoposto agli
organi di controllo competenti (articolo 16,
comma 11, del Dl 98/2011). Anche in questo
caso si applica la finestra mobile che fa
slittare il collocamento a riposo.
---------------
Punto per punto
01 | IL TRATTENIMENTO
In base all'articolo 1, comma 17, del
decreto legge 138/2011, la pubblica
amministrazione di appartenenza è tenuta a
rispondere al dipendente che comunica la
propria disponibilità a essere trattenuto in
servizio nel periodo intercorrente fra i 65
e i 67 anni di età solamente nel caso in cui
intenda avvalersi di tale disponibilità.
In caso di mancata risposta, pertanto, il
dipendente non potrà essere trattenuto in
servizio.
02 | IN ANTICIPO
In base all'articolo 1, comma 16, del
decreto legge 138/2011, anche per il
triennio 2012-2014 la pubblica
amministrazione potrà optare per la
risoluzione unilaterale anticipata del
rapporto con il personale che ha raggiunto
l'anzianità massima contributiva di 40 anni,
salvo il preavviso di sei mesi, a
prescindere dall'età del dipendente.
03 | LA MOBILITÀ
Secondo l'articolo 1, comma 29, del decreto
legge 138/2011, «i dipendenti delle
amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, esclusi i
magistrati, su richiesta del datore di
lavoro, sono tenuti a effettuare la
prestazione in luogo di lavoro e sede
diversi sulla base di motivate esigenze,
tecniche, organizzative e produttive con
riferimento ai piani della performance o ai
piani di razionalizzazione, secondo criteri
e ambiti regolati dalla contrattazione
collettiva di comparto...»
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il comune paga i danni per il
dosso non segnalato. Responsabilità anche se
l'opera è realizzata da privati.
Il comune è responsabile dei danni riportati
dal pedone che inciampa su un dosso non
segnalato, anche se l'opera è stata compiuta
da privati a sua insaputa.
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione con
la sentenza n. 15389/2011.
La suprema Corte ha accolto il ricorso di un
pedone che aveva riportato lesioni cadendo
per la strada a causa della presenza di un
dosso posizionato per rallentare la velocità
delle auto. I giudici di merito avevano
respinto ...
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI:
Dall’omissione della stazione
appaltante di un elemento obbligatorio del
disciplinare di gara non consegue
l’esclusione del concorrente che non abbia
formulato la dichiarazione prevista dalla
legge.
---------------
Sebbene l'allegazione di un documento di
identità ad una dichiarazione sostitutiva
dell'atto di notorietà non costituisca un
vuoto formalismo, rappresentando un
fondamentale elemento della fattispecie
normativa diretta a comprovare, oltre alle
generalità del dichiarante,
l'imprescindibile nesso di imputabilità
soggettiva della dichiarazione a una
determinata persona fisica, è stato tuttavia
osservato che detta prescrizione, pure
essenziale, di carattere formale deve essere
applicata verificando se nel contesto dei
singoli casi lo scopo della normativa non
sia comunque raggiunto, evitando
interpretazioni che in concreto possano
risultare di sproporzionato e perciò inutile
rigore, venendo con ciò a ledere, per
converso, l'altresì rilevante principio
della massima partecipazione alle procedure
competitive.
Quanto alla dedotta mancata dichiarazione di
insussistenza delle cause ostative di cui
alla lettera m)-ter, dell’art. 38 del D.Lgs.
12.04.2006, n. 163, deve evidenziarsi che,
indipendentemente da ogni questione in
ordine alla dedotta assoluta vincolatività
del modello di domanda (che non prevedeva la
dichiarazioni in questione e che, d’altra
parte, secondo la stazione appaltante
appellata, doveva essere utilizzato a pena
di esclusione, costituendo un completamento
della lex specialis, neppure
impugnata), se è pur vero, come sostenuto
dall’appellante, che qualora la stazione
appaltante ometta di inserire nella
disciplina di gara un elemento previsto come
obbligatorio dall'ordinamento giuridico,
soccorre il meccanismo di integrazione
automatica, analogamente a quanto avviene
nel diritto civile ai sensi degli artt. 1374
e 1339 c.c., colmandosi in via suppletiva le
eventuali lacune del provvedimento adottato
dalla p.a., a ciò tuttavia non consegue in
modo diretto ed automatico l’esclusione
dalla gara del concorrente che, come nel
caso di specie, non abbia formulato la
dichiarazione espressamente prevista dalla
legge, dovendo tenersi conto che, non solo
fondamentali esigenze di certezza del
diritto e tutela della par condicio dei
concorrenti impediscono all'amministrazione
di disattendere i precetti fissati nella
normativa di gara dalla stessa formulata, ma
soprattutto del principio di affidamento
(formalmente elevato al rango di principio
generale dell'azione amministrativa
dall'art. 1, comma 1, della legge
07.08.1990, n. 241) che impedisce che sul
cittadino possano ricadere gli errori
dell'amministrazione (in termini, C.d.S.,
Sezione VI, 13.06.2008, n. 2959).
Di conseguenza, a tutto voler concedere, i
componenti avrebbe dovuto essere invitati a
integrare il requisito mancante non per loro
colpa, ma per omissioni e lacune della
lex specialis della gara addebitabili
all’amministrazione pubblica; peraltro, come
già rilevato in precedenza e come
evidenziato dai primi giudici, non è stato
provato dall’appellante che in capo ai
componenti del R.T.I. aggiudicatario
sussistessero le cause ostative indicate
nella più volte ricordata lett. m-ter),
dell’articolo 38 del D. Lgs. 12.04.2006, n.
163, così che anche sotto tale profilo la
prospettata sanzione di esclusione che
avrebbe dovuto ricollegarsi a tale omissione
è da ritenersi illogica, irragionevole ed
esorbitante.
---------------
Quanto infine all’allegazione di un
documento di identità scaduto alla
dichiarazione resa da uno dei soggetti
rilevanti (tale sig. David Selby), la
Sezione osserva che, sebbene detta
allegazione non costituisca un vuoto
formalismo, rappresentando un fondamentale
elemento della fattispecie normativa diretta
a comprovare, oltre alle generalità del
dichiarante, l'imprescindibile nesso di
imputabilità soggettiva della dichiarazione
a una determinata persona fisica (C.d.S.,
sez. V, 21.05.2009, n. 3165; 07.11.2007, n.
5761), è stato tuttavia osservato che detta
prescrizione, pure essenziale, di carattere
formale deve essere applicata verificando se
nel contesto dei singoli casi lo scopo della
normativa non sia comunque raggiunto,
evitando interpretazioni che in concreto
possano risultare di sproporzionato e perciò
inutile rigore, venendo con ciò a ledere,
per converso, l'altresì rilevante principio
della massima partecipazione alle procedure
competitive (C.d.S, sez. VI, 22.10.2010, n.
7608).
Nel caso di specie, ad avviso della Sezione,
è decisivo rilevare che il documento di
identità, ancorché di validità scaduta, era
stato effettivamente allegato alla
dichiarazione e che l’appellante neppure nel
presente grado di appello ha messo in dubbio
la riferibilità della dichiarazione in
questione al soggetto che l’ha resa, essendo
stato così raggiunto il fine stabilito dalla
norma; così che, a tutto voler concedere,
l’amministrazione avrebbe potuto chiedere la
produzione di un documento di identità
valido, ma giammai escludere dalla gara il
raggruppamento per effetto di tale
irregolarità (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.09.2011 n. 5073 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Al
servizio di trasporto scolastico deve essere
applicata la normativa sugli appalti.
La vicenda in commento nasce dalla delibera
con cui il Consiglio di un Comune veneto
disponeva di vendere il ramo d’azienda “Trasporto
scolastico” di proprietà di una propria
controllata (100%) a un’altra società.
Con “Protocollo d’Intesa” si
conveniva fra le parti che “allo spirare
del succitato termine fissato per
l’affidamento del servizio, il Comune
procederà all’esperimento di idonea
procedura di gara, garantendo alla società
acquirente. il diritto di prelazione
…..laddove i presupposti normativi lo
consentissero, si procederà in luogo
dell’esperimento della procedura di gara
come sopra prevista, all’affidamento diretto
del servizio alla predetta società per
almeno un quinquennio (se consentito), in
conformità alle disposizioni allora vigenti,
fermo restando il perseguimento dei
summenzionati obbiettivi e standard
qualitativi”.
Alla scadenza dell’affidamento diretto del
servizio di scuolabus, la società acquirente
faceva presente al Comune che allo spirare
del termine stabilito lo stesso avrebbe
dovuto, per effetto degli obblighi
negoziali, provvedere all’affidamento del
servizio di trasporto scolastico
direttamente alla società partecipata per
almeno un quinquennio. Sennonché il Comune
rigettava l’istanza ad ottemperare perché “l’attuale
disciplina di cui all’art. 23-bis del D.L.
112/2008, convertito in L. 133/2008, nel
testo modificato dall’art. 15 del D.L.
135/2009, non consente siffatta procedura di
affidamento diretto”, e per il motivo
che “detto servizio correttamente deve
essere inquadrato nella categoria degli
appalti e non già in quella dei servizi di
trasporto pubblico locale”.
La società acquirente proponeva, pertanto,
ricorso al Tar per il Veneto, che lo
respingeva dando luogo all’appello in
rassegna. Il Consiglio di Stato, in
proposito, ha rilevato senza indugio come la
questione non sia sussumibile nella
categoria della concessione di servizio
pubblico (diversamente da quanto ritenuto
dall’appellante), ma piuttosto in quella
dell’appalto.
Al riguardo, infatti, la giurisprudenza
dello stesso Consiglio ha già avuto modo di
precisare che le concessioni, nel quadro del
diritto comunitario, si distinguono dagli
appalti non per il titolo provvedimentale
dell’attività, né per il fatto che ci si
trovi di fronte ad una vicenda di
trasferimento di pubblici poteri o di
ampliamento della sfera giuridica del
privato, (che sarebbe un fenomeno tipico
della concessione in una prospettiva
coltivata da tradizionali orientamenti
dottrinali), né per la loro natura
autoritativa o provvedimentale rispetto alla
natura contrattuale dell’appalto, ma per il
fenomeno di traslazione dell’alea inerente
una certa attività in capo al soggetto
privato (cfr. Sez. VI 15.05.2002, n. 2634).
Quando l’operatore privato si assume i
rischi della gestione del servizio, spiegano
i giudici di Palazzo Spada, percependone il
corrispettivo dall’utente mediante la
riscossione di un qualsiasi tipo di canone o
tariffa, allora si ha concessione: è la
modalità della remunerazione, quindi, il
tratto distintivo della concessione
dall’appalto di servizi. Così, si avrà
concessione quando l’operatore si assuma in
concreto i rischi economici della gestione
del servizio, rifacendosi essenzialmente
sull’utenza per mezzo della riscossione di
un qualsiasi tipo di canone o tariffa,
mentre si avrà appalto quando l’onere del
servizio stesso venga a gravare
sostanzialmente sull’amministrazione.
E tale assunto, è stato più volte confermato
dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia CE, la quale ha ribadito che si è
in presenza di una concessione di servizi
allorquando le modalità di remunerazione
pattuite consistono nel diritto del
prestatore di sfruttare la propria
prestazione ed implicano che quest’ultimo
assuma il rischio legato alla gestione dei
servizi in questione (Corte Giustizia CE,
Sez. III, 15.10.2009, C-196/08), mentre in
caso di assenza di trasferimento al
prestatore del rischio legato alla
prestazione, l’operazione rappresenta un
appalto di servizi (Corte Giustizia CE, Sez.
III, 10.09.2009, C-206/08).
A ciò aggiungasi che l’art. 23 del D.Lgs n.
163/2006 esclude l’applicabilità della
normativa sugli appalti nel caso in cui
oggetto della gara sia il servizio al
pubblico di trasporto mediante autobus, e
tale non può ragionevolmente essere inteso
il servizio di trasporto scolastico.
Una cosa, infatti, è il servizio pubblico
degli autobus, offerto ad un pubblico
indifferenziato che vi accede liberamente
mediante il semplice pagamento del
biglietto, altra è il servizio di trasporto
scolastico che, viceversa, è dedicato
esclusivamente agli alunni degli istituti
considerati e comporta, quindi, ben precise
e limitate modalità di accesso
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 09.09.2011 n. 5068 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La sottoscrizione del “Patto
d’integrità” può comportare l’incameramento
della cauzione a favore della stazione
appaltante.
Il ricorrente della controversia in rassegna
aveva partecipato a una gara indetta da un
Comune lombardo per i lavori di integrazione
e completamento di un progetto di
riqualificazione urbana.
Il bando disponeva che le concorrenti alla
gara erano tenute, a pena di esclusione, a
sottoscrivere ed a presentare, unitamente
all’offerta, il “Patto d’integrità”
per il tramite del quale si impegnavano, tra
l’altro, “a non accordarsi con altri
partecipanti alla gara per limitare in alcun
modo la concorrenza”. Per questa
ragione, il Comune, escludeva la società
ricorrente, avendo rilevato elementi tali da
far presumere forme di collegamento
sostanziale in violazione a quanto previsto
dal bando di gara e dal Patto d’integrità.
Il Comune, inoltre, stante “la gravità
degli indizi”, comunicava che avrebbe
provveduto ad applicare l’ulteriore sanzione
dell’escussione della polizza fideiussoria,
in conformità al Patto d’integrità
sottoscritto dai partecipanti della gara.
La ditta ricorrente, nella pronuncia in
commento, appella pertanto tanto
l’escussione della polizza fideiussoria,
quando l’esclusione dalla gara non avendo
ricevuto soddisfazione dal Tribunale
Amministrativo Regionale della Lombardia.
Respingendo l’appello i giudici del
Consiglio di Stato ricordano che secondo
l’insegnamento ormai consolidato della
stessa sezione il Patto d’integrità
configura un sistema di condizioni (o
requisiti) la cui accettazione è presupposto
necessario e condizionante la partecipazione
delle imprese alla specifica gara di cui
trattasi.
Con la sottoscrizione del Patto d’integrità,
al momento della presentazione della
domanda, l’impresa concorrente accetta
regole del bando che rafforzano
comportamenti già doverosi per coloro che
sono ammessi a partecipare alla gara e che
prevedono, in caso di violazione di tali
doveri, sanzioni di carattere patrimoniale,
oltre alla conseguenza, ordinaria a tutte le
procedure concorsuali, della estromissione
della gara.
L’incameramento della cauzione non ha quindi
carattere di sanzione amministrativa, come
tale riservata alla legge, ma costituisce la
conseguenza dell’accettazione di regole e
doveri comportamentali, accompagnati dalla
previsione di una responsabilità
patrimoniale, aggiuntiva alla esclusione
dalla gara, assunti su base pattizia,
rinvenendosi la loro fonte nel Patto
d’integrità accettato dal concorrente con la
sottoscrizione. Legittimamente, pertanto,
secondo i giudici di Palazzo Spada, il
Comune ha escusso la polizza fideiussoria
prestata dall’appellante sul rilievo (in
questa sede incontestato ed ormai
incontestabile) della sussistenza di un
collegamento sostanziale tra quest’ultima ed
altra impresa partecipante alla gara, e
quindi della violazione del Patto di
integrità debitamente accettato e
sottoscritto dall’appellante stessa.
Diversamente ritenendo, il Patto si
risolverebbe in una generica enunciazione di
obblighi quasi tutti privi di qualsiasi
conseguenza in caso di loro inosservanza, in
palese ed insanabile contrasto con le
finalità perseguite dal Patto stesso
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 09.09.2011 n. 5066 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Il
diritto d’accesso dei consiglieri si estende
all’ottenimento di una password mediante la
quale accedere alla visione di un programma
di contabilità.
I consiglieri comunali possono
accedere a tutti gli atti (pure di tipo
contabile) la cui conoscenza si riveli utile
(art. 43, d.lgs. n. 267/2000) per un
migliore espletamento del loro mandato
elettorale (cfr. C.S., sezione V, dec. n.
5264/2007 e dec. n. 5020/2007), per cui, nel
loro caso, il titolo all’accesso si
configura come corredato da un’ulteriore
connotazione rispetto a quello riconosciuto
alla generalità dei cittadini, potendo esso
legittimamente sostenersi sull’esigenza di
assumere anche solo semplici informazioni
non contenute in formali documenti o di
natura riservata (fermo restando il vincolo
del segreto al quale sono tenuti i
consiglieri comunali), nel rispetto
dell’orientamento condivisibilmente seguito
dalla Commissione per l’accesso incardinata
presso la Presidenza del Consiglio dei
Ministri (v. risoluzioni 03.02.2009 e
16.03.2010).
E tanto deve dirsi pure per l’ottenimento di
una password mediante la quale accedere alla
visione di un programma di contabilità:
vantaggioso sistema che permette di non
aggravare l’ordinaria attività
amministrativa e che, nella specie, avrebbe
potuto trarre giovamento dall’esperito e
fruttuoso tentativo della Giannoccaro di
ottenere dal competente centro assistenza
clienti dell’A.P. System ogni informazione
utile per poter configurare la semplice
procedura necessaria per esercitare il
discusso accesso in sola lettura (come
desiderato dall’originaria ricorrente ed
attuale appellante), sanzionato anche
penalmente per il caso di eventuali
tentativi truffaldini di manomissione dei
dati.
Al che deve aggiungersi che il documento c’è
(approvato ed esistente, sebbene caducato
per omessa pubblicazione) e non viene meno
per il fatto che sia di carattere
informatico, come tale rientrante nell’ampia
nozione di “documento”, nel senso più
ampio del termine, senza eccezioni.
---------------
Nella
controversia in commento un consigliere di
minoranza presso un comune pugliese aveva
proposto istanza per avere copia della
password di accesso al sistema informatico
dell’ente locale concernente il programma di
contabilità, impugnando poi, dinanzi al Tar
di Bari, il silenzio-rigetto formatosi su
detta domanda per l’inutile decorso dei
trenta giorni.
I giudici del Tribunale amministrativo di
Bari respingevano il ricorso così che
l’appellante, riproponendo le stesse censure
già dedotte in prima istanza, deduceva
l’errore di giudizio commesso nella
pronuncia contestata, richiedendo
l’intervento dell’impresa autrice del
programma informatico-contabile usato dal
Comune, per dimostrare l’assenza di un
pericolo d’indebita quanto occultata
alterazione dei dati eventualmente
riscontrati da chi vi acceda.
L’ente intimato si costituiva in giudizio ed
eccepiva l’impossibilità di evadere le
numerosissime richieste di accesso, in pochi
mesi formulate dal consigliere senza alcuna
considerazione per le limitate risorse
operative comunali e l’esigenza di non
appesantirne eccessivamente la funzionalità,
in relazione ad un sistema informatico
adoperabile solo per necessità operative e
non semplicemente informative, nonché privo
di un (benché applicabile -per quanto non
agevolmente- ma non applicato) profilo di
sola lettura, contrariamente alle sommarie
informazioni (tardivamente dedotte a titolo
di censura d’appello), asseritamente
ottenute dalla ditta interpellata.
Considerando l’appello fondato i giudici del
Consiglio di Stato ricordano che i
consiglieri comunali possono accedere a
tutti gli atti (pure di tipo contabile) la
cui conoscenza si riveli utile (art. 43,
d.lgs. n. 267/2000) per un migliore
espletamento del loro mandato elettorale
(cfr. C.S., sezione V, dec. n. 5264/2007 e
dec. n. 5020/2007), per cui, nel loro caso,
il titolo all’accesso si configura come
corredato da un’ulteriore connotazione
rispetto a quello riconosciuto alla
generalità dei cittadini, potendo esso
legittimamente sostenersi sull’esigenza di
assumere anche solo semplici informazioni
non contenute in formali documenti o di
natura riservata (fermo restando il vincolo
del segreto al quale sono tenuti i
consiglieri comunali), nel rispetto
dell’orientamento condivisibilmente seguito
dalla Commissione per l’accesso incardinata
presso la Presidenza del Consiglio dei
Ministri (v. risoluzioni 03.02.2009 e
16.03.2010).
E lo stesso deve dirsi, secondo i giudici di
Palazzo Spada, pure per l’ottenimento di una
password mediante la quale accedere alla
visione di un programma di contabilità:
vantaggioso sistema che permette di non
aggravare l’ordinaria attività
amministrativa e che, nella specie, avrebbe
potuto trarre giovamento dall’esperito e
fruttuoso tentativo del consigliere di
ottenere dal competente centro assistenza
clienti dell’impresa autrice del programma
ogni informazione utile per poter
configurare la semplice procedura necessaria
per esercitare il discusso accesso in sola
lettura (come desiderato dall’originaria
ricorrente ed attuale appellante),
sanzionato anche penalmente per il caso di
eventuali tentativi truffaldini di
manomissione dei dati
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 08.09.2011 n. 5058 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ogni
procedimento avviato ad istanza di parte
deve concludersi con un provvedimento
esplicito adottato nei termini di legge
(art. 2, legge n. 241/1990), per cui, ove la
p.a. rimanga inerte, avverso il suo silenzio
si potranno proporre le stesse doglianze
deducibili contro l’atto che avrebbe dovuto
essere emanato.
Ogni procedimento avviato ad
istanza di parte deve concludersi con un
provvedimento esplicito adottato nei termini
di legge (art. 2, legge n. 241/1990), per
cui, ove la p.a. rimanga inerte, avverso il
suo silenzio si potranno proporre le stesse
doglianze deducibili contro l’atto che
avrebbe dovuto essere emanato (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 08.09.2011 n. 5058 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Raggruppamento orizzontale e
raggruppamento verticale – Nozione –
Differenze – Art. 37 d.lgs. n. 163/2006.
Nel raggruppamento orizzontale, di cui
all’art. 37, c. 2, d.lgs. n. 163/2006,
ciascuna delle imprese riunite è
responsabile nei confronti
dell’amministrazione committente dell’intera
prestazione: in tal caso la distribuzione
del lavoro per ciascuna impresa non rileva
all’esterno (C.d.S., sez. V, 28.03.2007, n.
1440; 24.04.2002, n. 2208; 04.11.1999, n.
1805); nel raggruppamento verticale, invece,
un’impresa, ordinariamente capace per la
prestazione prevalente, si associa ad altre
imprese provviste della capacità per le
prestazioni scorporabili (Cd.S., sez. V,
28.03.2007, n. 1440).
Mentre nel raggruppamento di tipo
orizzontale, in cui tutte le imprese sono in
possesso di un’identica specializzazione
rispetto all’oggetto dell’appalto, la
suddivisione delle prestazioni è quindi
meramente quantitativa, nel raggruppamento
di tipo verticale la suddivisione delle
prestazioni tra le varie imprese è di
carattere qualitativo; a tale distinzione
corrisponde poi anche una diversa
articolazione della responsabilità tra
amministrazione appaltante e l’A.T.I., nel
senso che mentre nell’associazione di tipo
orizzontale tutti gli operatori economici
sono solidalmente responsabili nei confronti
dell’amministrazione appaltante per tutte le
obbligazioni nascenti dal contratto di
appalto, nell’associazione di tipo verticale
la sola mandataria resta responsabile
dell’intero appalto, mentre le mandanti sono
responsabili solo per le attività
scorporabili da esse prestate.
Appalti di lavori -
A.T.I. mista – Nozione.
In tema di appalto di lavori, è ammessa
anche la figura di A.T.I. mista, che ricorre
allorquando, in presenza di un appalto
complesso, le opere della categoria
prevalente siano assunte, invece che dalla
sola impresa capogruppo, da un’associazione
orizzontale composta da essa con taluna
delle imprese mandanti ovvero allorquando le
opere scorporabili siano assunte in tutto o
in parte orizzontalmente dalle imprese
mandanti.
A.T.I. mista –
Esecuzione della prestazione principale –
Riserva alla sola mandataria –
Individuazione della prestazione principale
- Scelta discrezionale dell’amministrazione
– Specifiche finalità dell’affidamento.
La pur ampia flessibilità che deve essere
riconosciuta allo strumento del
raggruppamento temporaneo di imprese, con
particolare riferimento all’ipotesi di
A.T.I. mista, non può giungere al
travolgimento e alla sostanziale abrogazione
della espressa norma che riserva alla sola
mandataria, nel caso di appalto di forniture
e servizi, l’esecuzione della prestazione
principale: si tratta di una previsione che
affida alla scelta discrezionale
dell’amministrazione, in rapporto alle
specifiche finalità che essa intende
perseguire con l’affidamento all’esterno del
servizio oggetto di gara, l’individuazione
della prestazione principale che deve essere
eseguita dalla mandataria, consentendole
quindi un pregnante controllo
sull’affidabilità della stessa e sulle
conseguenti responsabilità per le
obbligazioni derivanti dal contratto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.09.2011 n. 5051 -
link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RUMORE – INQUINAMENTO ACUSTICO -
Attività di fornaio - Superamento dei limiti
di emissioni sonore - Esercizio di
professione o mestiere rumoroso -
Superamento dei limiti massimi o
differenziali di rumore - Art. 659 cod. pen.
– L. n. 447/1995 - Art. 9 L. n. 689/1981.
Nell'ipotesi di esercizio di professione o
mestiere rumoroso contro le disposizioni
della legge o le prescrizioni dell'Autorità,
la carica di lesività del bene giuridico
protetto è individuabile nell'art. 659,
comma secondo, cod. pen., sia nell'art. 10,
comma secondo, della legge 26.10.1995 n. 447
(legge quadro sull'Inquinamento acustico),
consistente nella quiete e tranquillità
pubblica, è presunta "ope legis" ed è
racchiusa, per intero, nel precetto della
disposizione codicistica, che tuttavia cede,
di fronte alla configurazione dello speciale
illecito amministrativo previsto dall'art.
10 citato, qualora l'inquinamento acustico
si concretizzi nel mero superamento dei
limiti massimi o differenziali di rumore
fissati dalle leggi e dai decreti
presidenziali in materia (Cass. Sez. l, n.
23866 del 09/06/2009, dep. 10/06/2009,
Valvassore).
La contravvenzione di cui al secondo comma
dell'art. 659 c.p., dunque, a differenza di
quella prevista dal primo comma, deve
intendersi parzialmente depenalizzata, in
forza del principio di specialità di cui
all'art. 9 della legge n. 689 del 1981,
laddove si accerti, come nella specie, la
perfetta identità fattuale della violazione
contestata ai sensi della menzionata norma
del codice penale e di quella sanzionata
solo in via amministrativa (superamento dei
limiti di emissioni sonore), a norma
dell'art. 10, comma 2, legge n. 447/1955,
cit. (Cass. Sez. l, n. 44167 del 27/10/2009,
dep. 18/11/2009, Fiumara).
RUMORE – INQUINAMENTO
ACUSTICO - Disturbo delle occupazioni e del
riposo delle persone - Esercizio di
professione o mestiere rumoroso - Autonome
fattispecie contravvenzionali - Art. 659
cod. pen..
L'art. 659 cod. pen. prevede due autonome
fattispecie contravvenzionali: il reato di
cui al primo comma -disturbo delle
occupazioni e del riposo delle persone-
richiede l'accertamento che i rumori
superino la normale tollerabilità ed
investano un numero indeterminato di
persone, disturbando le loro occupazioni o
il riposo; mentre quello previsto dal
secondo comma -esercizio di professione o
mestiere rumoroso- prescinde dalla
verificazione del disturbo, essendo tale
evento presunto "iuris et de iure"
ogni volta che l'esercizio del mestiere
rumoroso si verifichi fuori dal limiti di
tempo, di spazio e di modo imposti dalla
legge, dai regolamenti o da altri
provvedimenti adottati dalle competenti
autorità (Cass., Sez. 1, n. 532 del
28/09/1994, dep. 20/01/1995, Amato; Cass.
Sez. 1, n. 4820 del 17/12/1998, dep.
16/04/1999, Marinelli) (Corte di Cassazione,
Sez. I penale,
sentenza 05.09.2011 n. 33072 -
link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Al fine di rendere rilevanti le
mansioni superiori adempiute da un pubblico
dipendente, non è invocabile l'art. 2126,
c.c., il quale, oltre a non dare rilievo
alle mansioni svolte in difformità dal
titolo invalido, riguarda il fenomeno del
tutto diverso (lo svolgimento di attività
lavorativa da parte di chi non sia
qualificabile come pubblico dipendente) ed
afferma il principio della retribuibilità
del lavoro prestato sulla base di un atto
nullo o annullato. Esso, pertanto, non
incide in alcun modo sui principi
concernenti la portata dei provvedimenti che
individuano il trattamento giuridico ed
economico dei dipendenti pubblici e non
consente di disapplicare gli atti di nomina
o di inquadramento emanati in conformità a
leggi e regolamenti.
---------------
Le funzioni di cancelliere
dell'ufficio di conciliazione del dipendente
pubblico non giustificano inquadramenti
automatici in qualifiche superiori.
La giurisprudenza (cfr. C.S., Ad. pl., dec.
n. 22/1999) ha chiarito che, al fine di
rendere rilevanti le mansioni superiori
adempiute da un pubblico dipendente, non è
invocabile l'art. 2126, c.c., il quale,
oltre a non dare rilievo alle mansioni
svolte in difformità dal titolo invalido,
riguarda il fenomeno del tutto diverso (lo
svolgimento di attività lavorativa da parte
di chi non sia qualificabile come pubblico
dipendente) ed afferma il principio della
retribuibilità del lavoro prestato sulla
base di un atto nullo o annullato. Esso,
pertanto, non incide in alcun modo sui
principi concernenti la portata dei
provvedimenti che individuano il trattamento
giuridico ed economico dei dipendenti
pubblici e non consente di disapplicare gli
atti di nomina o di inquadramento emanati in
conformità a leggi e regolamenti.
Inoltre, è da tempo pacifico, nella
giurisprudenza amministrativa, il carattere
supplementare ed integrativo dell'art. 2103,
c.c., come sostituito dall'art. 13, legge
20.05.1970 n. 300 (c.d. statuto dei
lavoratori), per quanto riguarda l'obbligo
di adeguare il trattamento economico alle
mansioni esercitate (cfr. C.S., sez. V, dec.
n. 274/1989), sicché tale norma può essere
applicata soltanto nei limiti previsti da
norme speciali (cfr. C.S., sez. IV, n.
113/2006).
È stato anche rilevato che la pretesa al
riconoscimento di mansioni superiori non può
trovare diretto fondamento nell'art. 36,
Cost., che sancisce il principio di
corrispondenza della retribuzione alla
qualità ed alla quantità del lavoro
prestato, non potendo la norma trovare
incondizionata applicazione nel rapporto di
pubblico impiego, concorrendo in detto
ambito altri principi di pari rilevanza
costituzionale (cfr. C.S. Ad. pl., dec. n.
22/1999, cit.; sez. V, dec. n. 1722/2007 e
dec. n. 4236/2010).
Va anche richiamata la giurisprudenza che,
in fattispecie analoghe a quella in esame,
ha affermato che, in applicazione del
principio d’irrilevanza delle mansioni
espletate di fatto, ai fini
dell'inquadramento di un pubblico
dipendente, le funzioni di cancelliere
dell'ufficio di conciliazione, conferite dal
presidente del tribunale ad un operatore
amministrativo dipendente comunale, non
costituiscono un incarico formale, non
interagiscono sulla posizione di lavoro già
assegnata all'impiegato in seno
all'organizzazione burocratica dell'ente e
non danno titolo all'attribuzione di una
qualifica funzionale superiore a quella
rivestita, a ciò non ostando l'art. 34,
d.P.R. 03.08.1990 n. 333, che ascrive alla
VII qualifica funzionale la figura
professionale del cancelliere, ma che può
tornare utile solo se, nell'organizzazione
dell'ente, esista già la formale istituzione
di siffatta posizione di lavoro, non mai per
giustificare inquadramenti automatici in
qualifiche superiori (cfr. C.S., sez. V, dec.
06.02.2001 n. 476).
Anche volendo limitare la pretesa al mero
inquadramento economico, si osserva che il
citato art. 34 non consentiva neanche tale
riconoscimento e la domanda diretta ad
ottenere l'accertamento del diritto a
percepire la pretesa retribuzione,
consistente nelle differenze retributive
corrispondenti alle superiori mansioni
svolte, poteva essere accolta solo in
presenza di una norma speciale, legittimante
tale assegnazione e la connessa
maggiorazione retributiva, senza che potesse
assumere un rilievo diretto l'art. 36, Cost.
(cfr. C.S., Ad. pl., dec. 18.11.1999 n. 22,
sopra cit.). Nel caso di specie, mancava una
norma speciale contemplante il diritto ad
ottenere le differenze retributive, con
correlativa infondatezza dell'invocata
pretesa diretta a percepire il superiore
trattamento economico (cfr. C.S., sez. V,
dec. n. 5696/2010) (Consiglio di Stato, Sez.
V, sentenza 05.09.2011
n. 4986 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Non sussiste contraddittorietà
tra gli atti del procedimento quando i
provvedimenti, pur riguardanti lo stesso
oggetto, siano adottati all'esito di
procedimenti indipendenti.
La contraddittorietà tra gli atti del
procedimento, figura sintomatica
dell'eccesso di potere, si può rinvenire
solo allorquando sussista tra più atti
successivi un contrasto inconciliabile tale
da far sorgere dubbi su quale sia
l'effettiva volontà dell'amministrazione
(Consiglio Stato, sez. IV, 06.07.2004, n.
5013), mentre non sussiste quando si tratti
di provvedimenti che, pur riguardanti lo
stesso oggetto, siano adottati all'esito di
procedimenti indipendenti
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.09.2011 n. 4982 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il privato sanzionato con
l'ordine di demolizione per la costruzione
di un'opera edilizia abusiva non può
invocare l'applicazione a suo favore
dell'art. 12, comma 2, della l. n. 47/1985,
che comporta l'applicazione della sola
sanzione pecuniaria nel caso in cui
l'ingiunta demolizione non possa avvenire
senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, se non fornisce seria ed idonea
dimostrazione del pregiudizio stesso sulla
struttura e sull'utilizzazione del bene
residuo, a nulla valendo che la demolizione
implicherebbe una notevole spesa e potrebbe
incidere sulla funzionalità del manufatto,
perché per impedire l'applicazione della
sanzione demolitoria occorre un effettivo
pregiudizio alla restante parte
dell'edificio, consistente in una
menomazione della intera stabilità del
manufatto.
L’applicazione
della sanzione pecuniaria consentita
dall’art. 12 della l. n. 47/1985 non ha
valenza ripristinatoria dell’assetto
edilizio violato: la norma è, quindi,
derogatoria rispetto alla normativa generale
al riguardo, con la conseguenza che deve
essere interpretata in maniera restrittiva.
Pertanto, il privato sanzionato con l'ordine
di demolizione per la costruzione di
un'opera edilizia abusiva non può invocare
l'applicazione a suo favore dell'art. 12,
comma 2, della l. n. 47/1985, che comporta
l'applicazione della sola sanzione
pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta
demolizione non possa avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in
conformità, se non fornisce seria ed idonea
dimostrazione del pregiudizio stesso sulla
struttura e sull'utilizzazione del bene
residuo, a nulla valendo che la demolizione
implicherebbe una notevole spesa e potrebbe
incidere sulla funzionalità del manufatto
(Consiglio Stato, sez. V, 12.11.1999, n.
1876), perché per impedire l'applicazione
della sanzione demolitoria occorre un
effettivo pregiudizio alla restante parte
dell'edificio, consistente in una
menomazione della intera stabilità del
manufatto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.09.2011 n. 4982 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’interpretazione del bando di
gara soggiace alle stesse regole dettate dal
codice civile per l’interpretazione dei
contratti.
Secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, l’interpretazione degli
atti amministrativi (ivi compreso il bando
di gara) soggiace alle stesse regole dettate
dall’art. 1362 e ss. c.c. per
l’interpretazione dei contratti, tra le
quali assume carattere preminente quella
collegata all’interpretazione letterale (in
quanto compatibile con il provvedimento
amministrativo), dovendo in ogni caso il
giudice ricostruire l’intento
dell’amministrazione ed il potere che essa
ha inteso esercitare in base al contenuto
complessivo dell’atto e tenendo conto del
rapporto tra le premesse ed il suo
dispositivo (C.d.S., sez. V, 09.11.2010, n.
7966; 16.06.2009, n. 3880); occorre poi
aggiungere, per un verso, che secondo il
criterio di interpretazione di buona fede
(ex art. 1366 c.c.) gli effetti degli atti
amministrativi devono essere individuati
solo in base a ciò che il destinatario può
ragionevolmente intendere, anche in ragione
del principio costituzionale di buon
andamento che impone alla P.A. di operare in
modo chiaro e lineare, in modo da fornire ai
cittadini regole di condotte certe e sicure,
soprattutto quando da esse possano derivare
conseguenze negative (C.d.S., sez. V,
19.11.2010, n. 7260) e, per altro verso, che
solo in caso di oscurità ed equivocità delle
clausole del bando (e degli atti che
regolano i rapporti tra cittadini e P.A.)
può ammettersi una lettura idonea a tutela
dell’affidamento degli interessati in buona
fede, non potendo generalmente addebitarsi
al cittadino un onere di ricostruzione
dell’effettiva volontà dell’amministrazione
attraverso complesse indagini ermeneutiche
ed integrative (C.d.S., sez. V, 17.10.2008,
n. 5064; 28.03.2007, n. 1141) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 05.09.2011 n. 4980 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Licenze
edilizie senza costrizioni. Palazzo Spada dà
ragione al proprietario.
Proprietario del fondo batte comune. E il
bello è che la vittoria si consuma sul
terreno della programmazione del territorio,
dove invece gli enti locali la fanno da
padroni. Il fatto è che attribuire
all'insieme degli atti amministrativi a
valenza urbanistica la possibilità di
incidere sul diritto dominicale, senza che
la legge lo preveda, è senz'altro fuor
d'opera: quella del titolare del fondo è una
prerogativa tutelata dalla Costituzione.
Lo
precisa la
sentenza
30.08.2011 n. 4870 pubblicata di recente
dalla IV sezione del Consiglio di stato.
Palazzo Spada ha bocciato la
tesi dell'amministrazione secondo cui
l'inserimento dell'area nel Pur, il
programma urbano di riqualificazione,
legittimerebbe il rilascio della concessione
edilizia contro il volere del proprietario
del fondo. La sentenza del Tar non ha
considerato il regime proprietario esistente
al momento del rilascio della concessione
edilizia, con il risultato di consentire di
fatto la dislocazione dell'intera volumetria
assentibile in una sola area del programma
urbanistico, senza che fosse stata valutata
la mutata situazione di fatto dell'area
(c'era stato un trasferimento di proprietà).
Sbaglia il giudice di primo grado ad
affermare che «il programma di
riqualificazione ha assoggettato la
particella in questione e ne ha conformato
in maniera definitiva la valenza giuridica,
asservendone le potenzialità edificatorie
alla realizzazione del fabbricato ricadente
su di un terreno contiguo»: ciò significa
indicare nella convenzione a base del piano
un titolo idoneo a privare il privato della
disponibilità della volumetria che grava
nell'area. E non si può invece riconoscere a
ogni tipo di intervento pianificatorio un
valore in un certo qual modo espropriativi
che invece il legislatore ha ritenuto
mantenere, giusta il canone di tassatività
degli effetti degli atti amministrativi, in
categorie ben indicate di provvedimenti.
Insomma: è illegittima la concessione
edilizia assentita senza tenere conto del
necessario raccordo tra diritto dominicale e
possibilità edificatoria. E viene dunque
risolta la vicenda del soggetto proprietario
del fondo che ha visto attribuire il proprio
diritto edificatorio a terzi in ragione di
un pregresso atto amministrativo, seppur
fondato su una base negoziale, che è stato
ritenuto a questi opponibile dal tribunale
amministrativo regionale
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2011). |
APPALTI:
Gare, insindacabili le
valutazioni tecniche della commissione.
Nelle gare di appalto, le valutazioni
tecniche espresse dalla Commissione di gara
sono insindacabili in sede giurisdizionale
ove non inficiate da profili di erroneità,
illogicità e sviamento.
La segnalata decisione affronta la notoria
tematica relativa alla censurabilità in sede
giurisdizionale delle valutazioni tecniche
espresse da una Commissione di valutazione
in sede di celebrazione di una gara di
appalto.
La ricorrente partecipava a una gara
d’appalto mediante procedura aperta indetta
da una civica amministrazione per
l’esecuzione di alcuni lavori; il bando
prevedeva l’aggiudicazione con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa
ex art. 83, D.Lgs 12.04.2006, n. 163, previa
valutazione anche di eventuali proposte
migliorative che, per espressa previsione
della lex specialis, non dovevano
integrare varianti o alternative
progettuali, dovendosi conformare ai sub
criteri fissati dal disciplinare di gara.
Poiché si classificava al secondo posto
nella graduatoria finale, la deducente ha
impugnato l’aggiudicazione definitiva
dell’appalto in favore della
controinteressata, avendo quest’ultima
conseguito un maggior punteggio.
Ha formulato, oltre al resto, censure
relative alle valutazioni rese dalla
Commissione di gara all’offerta tecnica
presentata dalla ditta aggiudicatrice, in
quanto presuntivamente non conforme alle
previsioni del bando, nonché l’omessa
valutazione da parte del medesimo organo
degli elementi migliorativi della propria
offerta tecnica.
Con atto di motivi aggiunti, inoltre, la
ditta interessata ha contestato che il
procuratore speciale dell’aggiudicataria,
avendo assunto -in virtù di apposita
procura- amplissimi poteri decisionali,
gestionali e di rappresentanza della
società, avrebbe dovuto rendere le
dichiarazioni ex art. 38, D.Lgs. n.
163/2006, pena l’esclusione dalla gara.
La controinteressata, da par sua, ha
proposto ricorso incidentale con cui ha
contestato l’ammissione alla gara della
ricorrente principale.
Il TAR di Bari ha dapprima ritenuto il
ricorso introduttivo manifestamente
infondato e, pertanto, ha proceduto
all’esame prioritario dello stesso, pur a
fronte della proposizione del ricorso
incidentale "paralizzante" (cfr.
Cons. Stato, Ad. Plen., 07.04.2011, n. 4).
Orbene, l’adito G.A., richiamando il
principio in massima, ha precisato come le
valutazioni tecniche espresse dalla
Commissione di gara sono insindacabili in
sede giurisdizionale ove non inficiate -come
nella specie- da profili di erroneità, di
illogicità e di sviamento.
Tanto, sulla scorta della considerazione per
cui le scelte dell’amministrazione
aggiudicatrice in materia di valutazione
dell’offerta tecnica sono ampiamente
discrezionali e, pertanto, si sottraggono al
sindacato giurisdizionale qualora non
manifestamente irragionevoli, arbitrarie,
contraddittorie o sproporzionate.
Siffatta impostazione, ha osservato il
Collegio, è stata del resto ampiamente
recepita in giurisprudenza, la quale in
argomento ha precisato che: "Nell’ambito
di una procedura di appalto-concorso,
condotta secondo il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, la
valutazione in ordine all’idoneità ed alla
qualità di un progetto costituisce
espressione paradigmatica di lata
discrezionalità tecnica, con conseguente
insindacabilità del merito di dette
valutazioni ove non inficiate da profili di
erroneità, di illogicità e di sviamento"
(ex multis, Cons. Stato, Sez. V,
21.01.2009, n. 282).
Di conseguenza, nella vicenda sottoposta
alla sua delibazione, il giudicante ha
osservato che le deficienze e gli aspetti
tecnici del progetto dell’aggiudicataria su
cui sono state incentrate le censure della
ricorrente principale non erano supportate
da idonei elementi di prova ai sensi
dell’art. 64, comma 1 c.p.a., risolvendosi
in mere affermazioni sull’inidoneità del
progetto della controinteressata: indi,
rispetto alle stesse non era configurabile
un sindacato sostitutivo del Giudice
amministrativo.
A non differente conclusione il G.A. barese
è giunto anche per quel che attiene la
censura relativa al tempo impiegato dalla
Commissione (meno di un’ora e mezza) per
l’esame delle offerte tecniche presentate
dalle concorrenti; ha ritenuto, infatti, che
l’elemento temporale, in sé considerato, non
si manifesta affatto sintomatico di
un’illegittimità dell’azione amministrativa
(cfr. TAR Puglia, Bari, 06.04.2010, n.
1279).
Per quanto concerne le eccezioni portate dal
ricorso per motivi aggiunti, i Giudici
baresi le hanno rigettate, atteso che, come
recentemente precisato dal Supremo Consesso
amministrativo: "L’art. 38, D.Lgs.
12.04.2006, n. 163, nell’individuare i
soggetti partecipanti a gare pubbliche e
tenuti a rendere la dichiarazione di
onorabilità, fa riferimento soltanto agli
amministratori muniti di potere di
rappresentanza, ossia a soggetti titolari di
ampi e generali poteri di amministrazione,
con la conseguenza che una valutazione
ampliativa, e quindi non ancorata a precisi
criteri prestabiliti per legge circa
l’ampiezza dei poteri attribuiti con la
procura, finirebbe per scalfire la garanzia
di certezza del diritto sotto il profilo, di
estrema rilevanza per la libertà di
iniziativa economica delle imprese, della
possibilità di partecipare ai pubblici
appalti" (Cons. Stato, Sez. V,
24.03.2011, n. 1782; idem, 25.01.2011, n.
513, per cui: "I procuratori speciali
della società muniti di poteri di
rappresentanza non rientrano del novero dei
soggetti di cui all’art. 38, D.Lgs. n.
163/2006 tenuti alle dichiarazioni
sostitutive finalizzate alla verifica del
possesso dei requisiti di moralità della
società stessa"; e ancora, Cons. Stato,
Sez. IV, 12.01.2011, n. 134).
Per tal ragione, si è pure precisato che
nelle gare pubbliche indette per
l’aggiudicazione di appalti con la pubblica
amministrazione, i c.d. “procuratori
speciali” possono farsi rientrare fra
gli amministratori muniti di potere di
rappresentanza, sui quali incombe l’obbligo
di dichiarazione ex art. 38 cit., solo ove
titolari di poteri gestori generali e
continuativi ricavabili dalla procura, e non
per effetto del conferimento a essi del mero
potere di rappresentanza negoziale della
società, ivi compresa la facoltà di
partecipare alle gare e stipulare contratti.
Sicché, nello specifico, il Tribunale
amministrativo di Bari ha concluso come il
procuratore speciale della controinteressata
non fosse munito di poteri generali e
continuativi di gestione tali da farlo
assimilare a un amministratore della
società, obbligato in quanto tale a rendere
le dichiarazioni di cui al richiamato art.
38 e, da tanto, ne ha fatto derivare la
reiezione del gravame principale e
aggiuntivo (commento tratto da www.ipsoa.it
- TAR Puglia-Bari,
sentenza 30.08.2011 n. 1244 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Tar
Umbria: ammessi i controlli a sorpresa.
L'ordinanza del sindaco contro
l'inquinamento acustico non richiede la
preventiva comunicazione dell' avvio del
procedimento.
Così ha stabilito il TAR
Umbria,
sentenza 26.08.2011 n. 271,
che ha evidenziato un nuovo diritto della Pa
nello svolgimento delle sue attività
istituzionali.
Il caso riguardava una società di mangimi
per animali, la cui lavorazione produceva
forti rumori, che danneggiavano la salute
degli abitanti di un edificio residenziale
situato di fronte allo stabilimento. Il
sindaco aveva emanato un'ordinanza ai sensi
dell'articolo 50, comma 5 del Tuel e aveva
ordinato alla società di adeguare le
emissioni acustiche ai limiti normativi. La
società aveva impugnato l' ordinanza,
sostenendo, tra l'altro, che non vi era
stata la preventiva comunicazione dell'avvio
del procedimento e delle misurazioni
programmate dall'Arpa.
Il Tar ha però respinto il ricorso, con
queste motivazioni: 1) l'organo pubblico
incaricato dei controlli ha il «diritto alla
sorpresa» nello svolgimento delle attività
istituzionali, per evitare che il preavviso
consenta al controllato di «non farsi
cogliere sul fatto»; 2) il controllato ha
però il diritto di verificare e contestare,
anche successivamente, la veridicità e
l'idoneità degli accertamenti compiuti.
La sentenza è esatta. Il "diritto alla
sorpresa" della Pa controllante è consentito
dal l'articolo 7 della legge 241/1990, che
stabilisce che non è necessario l'avvio del
procedimento allorché «sussistano ragioni di
impedimento derivanti da particolari
esigenze di celerità del procedimento».
Si potrebbe obiettare che il contraddittorio
deve essere osservato "nel momento"
in cui il controllo è effettuato, e non in
momenti successivi. Ma l'obiezione non
sarebbe persuasiva. Infatti, vi è qui una
situazione vincolata, perché, se vi è
l'avvio del procedimento, il controllato può
sfuggire al controllo; se non vi è l'avvio
del procedimento, il controllo si svolge
senza contraddittorio.
I giudici hanno perciò esattamente stabilito
che il contraddittorio è necessario, ma può
avvenire anche in momenti successivi
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.09.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE –
Comitati – Legittimazione ad agire –
Insussistenza.
Deve essere esclusa la legittimazione ad
agire dei comitati istituiti in forma
associativa temporanea, con scopo specifico
e limitato, costituenti una mera proiezione
degli interessi dei soggetti che ne fanno
parte, e che quindi non sono portatori in
modo continuativo di interessi diffusi
radicati nel territorio, in quanto,
diversamente, si consentirebbe una sorta di
azione popolare, non ammessa dal vigente
ordinamento (cfr. Cons. Stato, VI,
20.05.2005, n. 2534; Cons. Stato, VI, 05.12.
2002, n. 6657; TAR Liguria, II, 27.03.2008,
n. 439; TAR Veneto, I, 04.04.2005, n. 1261).
LEGITTIMAZIONE
PROCESSUALE – Associazioni diverse da quelle
rientranti nella previsione di cui all’art.
13 della L. n. 349/1986 – Legittimazione ad
agire – Possibile sussistenza – Esclusione.
Dopo l’entrata in vigore della legge n.
349/1986, non vi è più spazio per il
riconoscimento della legittimazione
processuale in capo ad associazioni diverse
da quelle rientranti nella previsione
dell’art. 13 della medesima legge,
indipendentemente dalla sussistenza, in
concreto o meno, dei requisiti che la
giurisprudenza anteriore richiedeva ai
soggetti che si qualificavano esponenziali
di interessi “diffusi” (cfr. Cons.
Stato, IV, 28.03.2011, n. 1876).
Una volta che il legislatore è intervenuto a
disciplinare direttamente la materia
attraverso la previsione di una speciale
legittimazione ex lege, quest’ultima
esaurisce l’ambito della tutela processuale
riconosciuta dall’ordinamento, escludendo
qualsiasi possibilità di ammettere la
legittimazione in capo a soggetti ulteriori
e diversi da quelli ai quali la legge ha
espressamente inteso riferirsi (cfr. in
termini Cons. Stato, IV, 28.03.2011, n.
1876).
LEGITTIMAZIONE
PROCESSUALE – Soggetto singolo –
Impugnazione di provvedimenti esplicanti i
propri effetti nell’ambiente in cui il
soggetto vive – Legittimazione - Vicinitas –
Sufficienza – Esclusione.
Il soggetto singolo che intenda insorgere in
sede giurisdizionale contro un provvedimento
amministrativo esplicante i suoi effetti
nell'ambiente in cui vive ha l'obbligo di
identificare, innanzitutto, il bene della
vita che dalla iniziativa dei pubblici
poteri potrebbe essere pregiudicato (il
paesaggio, l'acqua, l'aria, il suolo, il
proprio terreno) e, successivamente,
dimostrare che non si tratta di un bene che
pervenga identicamente ed indivisibilmente
ad una pluralità più o meno vasta di
soggetti, nessuno dei quali ne ha però la
totale ed esclusiva disponibilità (la quale
costituisce invece il connotato essenziale
dell'interesse legittimo), ma che rispetto
ad esso egli si trova in una posizione
differenziata tale da legittimarlo ad
insorgere "uti singulus" a sua
difesa.
Ne discende che il requisito della
vicinitas non è di per sé solo
sufficiente a dimostrare l’esistenza
dell’interesse ad agire (Cons. Stato, n.
1600/2003; TAR Liguria, II, 27.3.2008, n.
439; Cons. Stato, VI, 19.10.2007, n. 5453)
(massima tratta da www.ambientediritto.it - TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 03.08.2011 n. 1343 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Manufatto in
parte abusivo - Beneficio della sospensione
condizionale della pena alla demolizione -
Assenza di specifica impugnazione del P.M. -
Violazione del principio del divieto della "reformatio
in pejus" di cui all'art. 597 c.p.p., c. 3 –
Art. 44, lett. b), 64, 65, 71, 72, 93, 94 e
95 D.P.R. n. 380/2001.
La realizzazione di un manufatto costituito
da tre elevazioni fuori terra, di cui quella
al primo piano ed al secondo piano erano
abusive il tutto anche in violazione delle
prescrizioni attinenti alla disciplina
antisismica ed alle opere in conglomerato di
cemento armato, configurano gli elementi
costitutivi, soggettivi ed oggettivi, dei
reati di cui al Decreto del Presidente della
Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44,
lettera b), articoli 64, 65, 71, 72, 93, 94
e 95.
Mentre, nella specie, la subordinazione
della sospensione condizionale della pena
alla demolizione del manufatto abusivo
applicata dalla C.A. d’ufficio (in assenza
di specifica impugnazione del PM) è
illegittima perché in palese violazione del
principio del divieto della "reformatio
in pejus" di cui all'articolo 597 c.p.p.,
comma 3 (Corte di cassazione, Sez. 3 penale,
sentenza 02.08.2011 n. 30557 -
link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Rifiuti abusivamente
ammassati su un’area - Deposito
incontrollato - Configurabilità del reato -
Elementi - Art. 256, c. 2, D. L.vo n.
152/2006.
In tema di rifiuti, si integra il reato di
deposito incontrollato quando venga
accertata un'attività di stoccaggio e
smaltimento di materiali, costituiti anche
in parte da rifiuti, abusivamente ammassati
su una determinata area, che rientri nella
disponibilità dell'imputato (Cass. Sez. 3,
n. 11802 del 29/01/2009, Berardi) e non e'
necessario che tutti i rifiuti abbandonati
siano pericolosi, essendo sufficiente
l'accertamento dei tale qualità di almeno
uno di essi (Cass. Sez. 3, n. 14750
dell'11/03/2008, Gardini e altro).
RIFIUTI - Gestione dei
rifiuti - Deposito di rifiuti - Mancanza dei
requisiti fissati dalla legge -
Configurabilità di: abbandono, deposito
incontrollato, deposito preliminare, messa
in riserva in attesa di recupero e mancanza
di autorizzazione - Artt. 183, 255 e 256, D.
L.vo n. 152/2006.
In tema di gestione dei rifiuti, quando il
deposito di rifiuti non possiede i requisiti
fissati dalla legge (Decreto Legislativo
03.04.2006, n. 152, articolo 183) per essere
qualificato quale temporaneo, si realizza
secondo i casi:
a) un abbandono ovvero un deposito
incontrollato sanzionato, secondo i casi,
dal Decreto Legislativo 152 del 2006,
articolo 255, e articolo 256, comma 2);
b) un deposito preliminare, necessitante
della prescritta autorizzazione in quanto
configura una forma di gestione dei rifiuti;
c) una messa in riserva in attesa di
recupero, anch'essa soggetta ad
autorizzazione in quanto forma di gestione
dei rifiuti (per le ipotesi b) e c) la
mancanza di autorizzazione è sanzionata
Decreto Legislativo n. 152 del 2006, ex
articolo 256, comma 1) (Cass. Sez. 3, n.
39544 del 11/10/2006, Tresolat).
RIFIUTI - Smaltimento di
rifiuti - Stoccaggio e deposito temporaneo -
Definizione legislativa - Operazioni di
deposito preliminare - Operazioni di messa
in riserva di materiali - Art. 183, D. L.vo
n. 152/2006.
A norma del Decreto Legislativo n. 152 del
2006, articolo 183, lettera I),
rappresentano stoccaggio quelle attività di
smaltimento consistenti nelle operazioni di
deposito preliminare di rifiuti (di cui al
punto D15 dell'All. B alla parte 4 del
Decreto), nonché le attività di recupero
consistenti nelle operazioni di messa in
riserva di materiali (di cui al punto R13
dell'All. C alla medesima parte quarta); in
base alla lettera m) del citato articolo
183, rappresenta deposito temporaneo il
raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima
della raccolta, nel luogo in cui gli stessi
sono prodotti, alle specifiche condizioni
elencate nella disposizione, tra le quali,
per ciò che rileva nel caso di specie, che i
rifiuti pericolosi vengano raccolti ed
avviati alle operazioni di recupero o di
smaltimento secondo determinate modalità, da
scegliersi in via alternativa, ma, quanto
meno, con cadenza bimestrale,
indipendentemente dalle quantità in
deposito, mentre per i rifiuti non
pericolosi, che ciò avvenga quanto meno con
cadenza trimestrale; inoltre "il deposito
temporaneo deve essere effettuato per
categorie omogenee di rifiuti e nel rispetto
delle relative norme tecniche, nonché, per i
rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme
che disciplinano il deposito delle sostanze
pericolose in essi contenute" (punto 4)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.07.2011 n. 28890 -
link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ARIA – INQUINAMENTO ATMOSFERICO -
Gestore dell’impianto o dell’attività -
Emissioni in atmosfera - Inosservanza del
progetto e delle prescrizioni in materia -
Reato di cui all’art. 279, c. 2°, D.L.vo n.
152/2006 – Configurabilità - Art. 271,
D.L.vo n. 152/2006.
Tra le prescrizioni di cui all’art. 279,
comma 2, Decreto Legislativo n. 152/2006, la
cui inosservanza dà luogo a sanzione penale,
vanno ricomprese le disposizioni che
impongono adempimenti prodromici alla messa
in esercizio dell’impianto, tra le quali,
rientrano, anche, quelle, come nel caso di
specie, attinenti all'osservanza del
progetto relativo all'esercizio delle
emissioni in atmosfera dell’impianto di
compostaggio biomasse e compost.
Inoltre, il gestore dell’impianto o della
attività è tenuto a osservare le
prescrizioni indicate direttamente
nell’autorizzazione: quelle contenute
nell’Allegato I del Codice dell’Ambiente;
quelle indicate nei piani, nei programmi e
nella normativa di cui all’art. 271, Decreto
Legislativo n. 152/2006; nonché, qualunque
altra prescrizione imposta dalla autorità
competente ai sensi del Titolo I, Parte V,
del Codice ambientale. Fattispecie:
inosservanza delle prescrizioni in materia e
mancata installazione all’interno
dell’impianto del meccanismo (pressostato
differenziale) atto a misurare la
depressione che c’è a monte e a valle tra il
biofiltro, che permette di garantire il
passaggio di aria e l'abbattimento delle
particelle di polvere, cosi che l’aria sia
davvero pulita, con ciò violando quanto
previsto dal progetto approvato con atto
SUAP (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 27.07.2011 n. 29967 -
link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA: E'
legittimo che il comune faccia "cassa"
con le aree a standard ricevute
gratuitamente nell'ambito di piani
attuativi.
Un’area di proprietà pubblica destinata a
“verde pubblico” non costituisce un’opera di
urbanizzazione primaria, né un bene
strumentale all’esercizio delle funzioni
istituzionali dell’ente proprietario, fino a
quando su di essa non siano state realizzate
concrete opere di trasformazione volte a
rendere fruibile il verde pubblico da parte
della collettività, imprimendo al bene una
destinazione di fatto conforme a quella
astrattamente prevista dal piano: solo in
presenza di tali opere il bene acquista
carattere strumentale rispetto ai fini
dell’ente e rientra a far parte del
patrimonio indisponibile dello stesso, ai
sensi dell’art. 826, ultimo comma c.c., in
quanto bene di proprietà pubblica
concretamente destinato ad un pubblico
servizio.
In altre parole, affinché un bene di
proprietà pubblica possa definirsi
strumentale al perseguimento degli scopi
istituzionali dell’ente proprietario, con
conseguente inclusione nel patrimonio
indisponibile dell’ente medesimo, non è
sufficiente la mera manifestazione di
volontà dell’ente pubblico di destinarlo ad
un pubblico servizio, ma è altresì
necessario che a quella manifestazione di
volontà abbiano fatto seguito concrete opere
di trasformazione dirette ad imprimere al
bene un’effettiva funzionalizzazione ad un
pubblico servizio.
E’ stato affermato, a
questo riguardo, che l'appartenenza di un
bene al patrimonio indisponibile dello
Stato, dei comuni o delle province, a meno
che non si tratti di beni riservati, per
loro natura, a tale patrimonio, dipende
soprattutto dalle caratteristiche oggettive
e funzionali del bene e presuppone, quindi,
oltre che l'acquisto in proprietà del bene
da parte dell'ente pubblico (cosiddetto
requisito soggettivo), una concreta
destinazione dello stesso ad un pubblico
servizio (cosiddetto, requisito oggettivo)
che, proprio per l'esigenza di un reale
legame con le oggettive caratteristiche del
bene, non può dipendere da un mero progetto
di utilizzazione della p.a. o da una
risoluzione che, ancorché espressa in un
atto amministrativo, non incide, di per sé,
sulle oggettive caratteristiche funzionali
del bene. Pertanto, nei casi in cui il bene
sia privo dei caratteri strutturali
necessari per il servizio, occorre almeno
che il provvedimento di destinazione sia
seguito dalle opere di trasformazione che in
qualche modo possano stabilire un reale
collegamento di fatto, e non meramente
intenzionale, del bene alla funzione
pubblica).
Sulla scorta di tali principi, è stato
affermato che i terreni destinati a verde
pubblico dal piano regolatore acquistano la
condizione di beni del patrimonio
indisponibile dell'ente pubblico (e, quindi,
di beni strumentali al perseguimento dei
fini istituzionali dell’ente stesso) solo
dal momento in cui, essendo stati acquistati
da questo in proprietà, sono trasformati ed
in concreto utilizzati secondo la propria
destinazione, non essendo all'uopo
sufficiente né il piano regolatore generale,
che ha solo funzione programmatoria e
l'effetto di attribuire alla zona, o anche
ai terreni in esso eventualmente indicati,
una vocazione da realizzare attraverso gli
strumenti urbanistici di secondo livello o
ad essi equiparati, e la successiva attività
di esecuzione di questi strumenti, né il
provvedimento di approvazione del piano di
lottizzazione, che individua solo il terreno
specificamente interessato dal progetto di
destinazione pubblica, né la convenzione di
lottizzazione, che si inserisce nella fase
organizzativa del processo di realizzazione
del programma urbanistico e non nella fase
della sua materiale esecuzione).
Anche nel caso in cui l’area fosse stata in
concreto trasformata in senso conforme alle
previsioni di piano (verde pubblico), il
Comune avrebbe comunque conservato il potere
di modificare tale destinazione, sia con un
provvedimento amministrativo di carattere
pianificatorio destinato ad incidere sulla
destinazione urbanistica del bene, sia anche
sulla base di atti o comportamenti
concludenti incompatibili con la
destinazione del bene a pubblico servizio,
con il duplice limite rappresentato dalla
necessità di rispettare i limiti minimi
inderogabili in materia di standards
urbanistici di cui al d.m. n. 1444 del 1968
e dall’impossibilità giuridica di incidere
sulla destinazione pubblica dei beni facenti
parte (ma non è questo il caso) del demanio
c.d. necessario dell’ente pubblico, di cui
all’art. 822, 1° comma c.c.. La stessa
previsione di cui all’art. 58, comma 2, L.
133/2008, nella parte in cui stabilisce che
“l’inserimento degli immobili nel piano ne
determina la conseguente classificazione
come patrimonio disponibile”, è chiaramente
sintomatica del potere dell’ente pubblico di
far cessare la destinazione a pubblico
servizio di beni del proprio patrimonio, e,
unitamente ad essa, il rapporto di
strumentalità di quei beni rispetto ai
propri fini istituzionali.
---------------
Il Comune rimane libero di dare una diversa
destinazione urbanistica alle aree acquisite
in sede di convenzioni urbanistiche al fine
della realizzazione di opere di
urbanizzazione.
---------------
Le scelte urbanistiche, che di norma non
comportano la necessità di specifica
giustificazione oltre quella desumibile dai
criteri generali di impostazione del piano o
della sua variante, necessitano di congrua
motivazione quando incidono su aspettative
dei privati particolarmente qualificate,
come quelle ingenerate da impegni già
assunti dall'amministrazione mediante
approvazione di piani attuativi o stipula di
convenzioni; in tali evenienze, la
completezza della motivazione costituisce,
infatti, lo strumento dal quale deve
emergere l'avvenuta comparazione tra il
pubblico interesse cui si finalizza la nuova
scelta e quello del privato, assistito
appunto da una aspettativa giuridicamente
tutelata.
---------------
E’ la legge ad imporre ai Comuni di adottare
una specifica variante dello strumento
urbanistico generale per stabilire la
destinazione urbanistica dei beni inclusi
nel proprio piano delle alienazioni e
valorizzazioni immobiliari: ciò si evince
dall’art. 58, comma 2, della L. 133/2008,
nel testo risultante dopo la sentenza della
Corte Costituzionale 16.12.2009, n. 340;
quest’ultima ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale della norma citata nella
parte in cui originariamente prevedeva che
l’approvazione del piano delle alienazioni e
valorizzazioni costituiva essa stessa
variante allo strumento urbanistico
generale; per effetto della predetta
decisione del giudice delle leggi, è venuto
meno l’effetto di variante automatica
originariamente associato alla delibera di
approvazione del piano delle alienazioni,
sicché, allo stato, i Comuni che approvino
un piano di dismissione immobiliare, hanno
l’onere di attivare un separato procedimento
di variante del proprio strumento
urbanistico (che salvaguardi, in tal modo,
le competenze della Regione, pretermesse
nella formulazione originaria della norma).
Con il
primo motivo, i ricorrenti hanno
dedotto vizi di eccesso di potere per
difetto dei presupposti, travisamento,
errore essenziale, contraddittorietà ed
illogicità manifeste, nonché vizi di
violazione di legge sotto plurimi profili:
secondo i ricorrenti, la variante n. 10 del P.R.G.C. approvata dal consiglio comunale il
12.10.2010 sarebbe illegittima nella parte
in cui ha modificato la destinazione
urbanistica dell’area di via Asti da “verde
pubblico” a “residenziale”; ciò in quanto la
predetta variante sarebbe stata redatta al
solo fine di declassare l’area a bene non
strumentale all’esercizio delle funzioni
istituzionali dell’ente, consentendone in
tal modo l’inclusione nel piano di
dismissione; sennonché, osservano i
ricorrenti, l’area in questione non poteva
subire tale declassamento dal momento che
essa costituisce un’opera di urbanizzazione
primaria la quale, per sua natura, è
necessariamente strumentale all’esercizio
delle funzioni istituzionali dell’ente
comunale, tra le quali vanno ricomprese
quelle di programmazione e di governo del
territorio e, in particolare, quelle volte a
garantire che l’edificazione avvenga di pari
passo con la posa delle necessarie
infrastrutture; pertanto, le opere di
urbanizzazione non sono suscettibili di
essere incluse nei piani di alienazione di
cui all’art. 58 della L. n. 133/2008, in
quanto beni necessariamente strumentali
all’esercizio delle funzioni istituzionali
dell’ente civico.
La difesa del controinteressato -e, da
ultimo, anche quella del Comune– hanno
eccepito la tardività della predetta censura
in quanto diretta a contestare l’inclusione
dell’area di via Asti nel piano comunale di
alienazioni e valorizzazioni immobiliari:
inclusione già decisa dal Comune con la
delibera consiliare n. 15 del 18.02.2010, non impugnata dai ricorrenti nel
termine di legge.
Osserva il collegio che l’eccezione non può
essere condivisa, dal momento che la lesione
della posizione giuridica soggettiva dei
ricorrenti è divenuta attuale solo in
conseguenza dell’approvazione della variante
n. 10 del P.R.G.C., per effetto della quale
l’area in questione, già destinata a verde
pubblico, è stata resa in gran parte
edificabile: la semplice inclusione
dell’area nel piano comunale di dismissioni
immobiliari e la stessa vendita del bene a
terzi (benché illegittimi, secondo la
prospettazione dei ricorrenti, perché aventi
ad oggetto un bene insuscettibile di
dismissione in quanto strumentale
all’esercizio delle funzioni istituzionali
dell’ente civico), non avrebbero comunque
arrecato ai ricorrenti alcun pregiudizio
concreto fintantoché il bene avesse
conservato la propria destinazione a verde
pubblico; è soltanto il mutamento di
destinazione urbanistica ad aver reso
attuale e concreto il pregiudizio per i
ricorrenti, rendendo differenziata la loro
posizione giuridica e facendo sorgere negli
stessi la legittimazione e l’interesse a
ricorrere.
Nel merito, peraltro, il motivo di gravame è
infondato e va respinto.
I ricorrenti muovono dal presupposto che
un’area di proprietà pubblica destinata a
“verde pubblico” secondo le previsioni del
piano regolatore generale o di uno strumento
urbanistico di secondo livello, costituisca,
per ciò stesso, un bene strumentale
all’esercizio delle funzioni istituzionali
dell’ente proprietario, con la conseguenza
che quest’ultimo non potrebbe far cessare la
predetta destinazione né includere il bene
in un piano di dismissioni immobiliari,
avuto riguardo al fatto che la normativa di
settore prevede che gli enti pubblici
possono includere nei propri piani di
alienazione soltanto beni “non strumentali
all’esercizio delle proprie funzioni
istituzionali”.
Osserva il collegio che tale presupposto è
infondato.
Un’area di proprietà pubblica destinata a
“verde pubblico” non costituisce un’opera di
urbanizzazione primaria né un bene
strumentale all’esercizio delle funzioni
istituzionali dell’ente proprietario, fino a
quando su di essa non siano state realizzate
concrete opere di trasformazione volte a
rendere fruibile il verde pubblico da parte
della collettività, imprimendo al bene una
destinazione di fatto conforme a quella
astrattamente prevista dal piano: solo in
presenza di tali opere il bene acquista
carattere strumentale rispetto ai fini
dell’ente e rientra a far parte del
patrimonio indisponibile dello stesso, ai
sensi dell’art. 826, ultimo comma c.c., in
quanto bene di proprietà pubblica
concretamente destinato ad un pubblico
servizio.
In altre parole, affinché un bene di
proprietà pubblica possa definirsi
strumentale al perseguimento degli scopi
istituzionali dell’ente proprietario, con
conseguente inclusione nel patrimonio
indisponibile dell’ente medesimo, non è
sufficiente la mera manifestazione di
volontà dell’ente pubblico di destinarlo ad
un pubblico servizio, ma è altresì
necessario che a quella manifestazione di
volontà abbiano fatto seguito concrete opere
di trasformazione dirette ad imprimere al
bene un’effettiva funzionalizzazione ad un
pubblico servizio.
E’ stato affermato, a
questo riguardo, che l'appartenenza di un
bene al patrimonio indisponibile dello
Stato, dei comuni o delle province, a meno
che non si tratti di beni riservati, per
loro natura, a tale patrimonio, dipende
soprattutto dalle caratteristiche oggettive
e funzionali del bene e presuppone, quindi,
oltre che l'acquisto in proprietà del bene
da parte dell'ente pubblico (cosiddetto
requisito soggettivo), una concreta
destinazione dello stesso ad un pubblico
servizio (cosiddetto, requisito oggettivo)
che, proprio per l'esigenza di un reale
legame con le oggettive caratteristiche del
bene, non può dipendere da un mero progetto
di utilizzazione della p.a. o da una
risoluzione che, ancorché espressa in un
atto amministrativo, non incide, di per sé,
sulle oggettive caratteristiche funzionali
del bene.
Pertanto, nei casi in cui il bene
sia privo dei caratteri strutturali
necessari per il servizio, occorre almeno
che il provvedimento di destinazione sia
seguito dalle opere di trasformazione che in
qualche modo possano stabilire un reale
collegamento di fatto, e non meramente
intenzionale, del bene alla funzione
pubblica (Cass. civ., sez. II, 09.09.1997, n. 8743; in senso analogo, Cass. Civ. SS.UU. 28.06.2006, n. 14865).
Sulla scorta di tali principi, è stato
affermato che i terreni destinati a verde
pubblico dal piano regolatore acquistano la
condizione di beni del patrimonio
indisponibile dell'ente pubblico (e, quindi,
di beni strumentali al perseguimento dei
fini istituzionali dell’ente stesso) solo
dal momento in cui, essendo stati acquistati
da questo in proprietà, sono trasformati ed
in concreto utilizzati secondo la propria
destinazione, non essendo all'uopo
sufficiente né il piano regolatore generale,
che ha solo funzione programmatoria e
l'effetto di attribuire alla zona, o anche
ai terreni in esso eventualmente indicati,
una vocazione da realizzare attraverso gli
strumenti urbanistici di secondo livello o
ad essi equiparati, e la successiva attività
di esecuzione di questi strumenti, né il
provvedimento di approvazione del piano di
lottizzazione, che individua solo il terreno
specificamente interessato dal progetto di
destinazione pubblica, né la convenzione di
lottizzazione, che si inserisce nella fase
organizzativa del processo di realizzazione
del programma urbanistico e non nella fase
della sua materiale esecuzione (Cassazione
civile, sez. II, 09.09.1997, n.
8743).
Nel caso di specie, è pacifico tra le parti
che l’area di via Asti, benché destinata dal
piano regolatore generale a verde pubblico,
non ha mai ricevuto, in concreto, tale
destinazione: a tutt’oggi, si tratta di
un’area allo stato di “prativo non
attrezzato”.
In mancanza di una concreta destinazione a
pubblico servizio, l’area di cui si discute
ha continuato a far parte del patrimonio
disponibile del Comune di San Mauro
Torinese, che proprio in ragione di tale
natura l’ha potuta includere nel proprio
piano di dismissioni in quanto bene non
strumentale all’esercizio delle proprie
funzioni istituzionali.
Peraltro, va altresì osservato che anche nel
caso in cui l’area fosse stata in concreto
trasformata in senso conforme alle
previsioni di piano, il Comune avrebbe
comunque conservato il potere di modificare
tale destinazione, sia con un provvedimento
amministrativo di carattere pianificatorio
destinato ad incidere sulla destinazione
urbanistica del bene, sia anche sulla base
di atti o comportamenti concludenti
incompatibili con la destinazione del bene a
pubblico servizio (cfr. Consiglio Stato,
sez. IV, 05.11.2004, n. 7245), con il
duplice limite rappresentato dalla necessità
di rispettare i limiti minimi inderogabili
in materia di standards urbanistici di cui
al d.m. n. 1444 del 1968 e
dall’impossibilità giuridica di incidere
sulla destinazione pubblica dei beni facenti
parte (ma non è questo il caso) del demanio
c.d. necessario dell’ente pubblico, di cui
all’art. 822, 1° comma c.c..
La stessa previsione di cui all’art. 58,
comma 2, L. 133/2008, nella parte in cui
stabilisce che “l’inserimento degli immobili
nel piano ne determina la conseguente
classificazione come patrimonio
disponibile”, è chiaramente sintomatica del
potere dell’ente pubblico di far cessare la
destinazione a pubblico servizio di beni del
proprio patrimonio, e, unitamente ad essa,
il rapporto di strumentalità di quei beni
rispetto ai propri fini istituzionali.
Alla stregua di tali considerazioni, il
primo motivo di ricorso è infondato e va
disatteso.
---------------
Con il secondo
motivo, i ricorrenti hanno dedotto la
violazione e l’errata applicazione degli
artt. 39, 43 e 45 della L.R. n. 56/1977,
nonché vizi di eccesso di potere per
contraddittorietà, illogicità manifesta e
difetto di motivazione: hanno lamentato, in
particolare, la contraddittorietà del
comportamento dell’amministrazione comunale,
la quale, mentre al momento
dell’approvazione del P.E.C. del 1987 ha
ritenuto che la realizzazione delle opere di
urbanizzazione indicate nei progetti e in
convenzione fosse assolutamente necessaria,
ai sensi dell’art. 43 della L.R. n. 56/1977,
per far fronte all’aumento del carico
urbanistico derivante dalla collocazione sul
sito di nuovi edifici residenziali, adesso,
a distanza di diversi anni, ha adottato
provvedimenti di senso contrario che, da un
lato comporteranno l’aumento del carico
antropico dell’area e dall’altro ridurranno
in maniera consistente le aree a verde; né
rileva, secondo i ricorrenti, la circostanza
che le aree a verde presenti sull’intero
territorio comunale siano eventualmente
sovrabbondanti rispetto alla standard minimo
di cui all’art. 21 della L.R. n. 56/1977, dal
momento che la previsione contenuta nel P.E.C. del 1987 era volta ad assolvere ad
esigenze proprie dell’area circostante alla
via Asti, esigenze che negli anni successivi
non sono certo venute meno.
La censura è infondata e va disattesa.
La giurisprudenza ha avuto più volte
occasione di affermare che il Comune rimane
libero di dare una diversa destinazione
urbanistica alle aree acquisite in sede di
convenzioni urbanistiche al fine della
realizzazione di opere di urbanizzazione
(Cassazione civile, sez. II, 14.08.2007,
n. 17698; Cassazione civile, sez. II, 28.08.2000, n. 11208; Cassazione civile,
sez. II, 09.03.1990 n. 1917; Cassazione
civile, sez. II, 25.07.1980 n. 4833;
TAR Abruzzo L'Aquila, 16.07.2004, n.
835).
Più in generale, la facoltà del Comune di
modificare il regime delle aree a servizi è
previsto dalla legge urbanistica regionale
piemontese n. 56/1977 la quale, all’art. 17,
comma 4, lett. b), attribuisce al Comune il
potere di ridurre, mediante varianti
strutturali, la quantità globale delle aree
a servizi per più di 0,5 metri quadrati per
abitante; l’unico limite è rappresentato
dalla necessità di rispettare i cd. standards urbanistici che, nella
pianificazione generale, attengono ai
rapporti massimi tra spazi edificabili e
spazi riservati all'utilizzazione per scopi
pubblici e sociali: standards che, dovendo
essere previsti in un limite minimo
inderogabile dal d.m. 02.04.1968,
assolvono ad una funzione di equilibrio
dell'assetto territoriale e di salvaguardia
dell'ambiente e della qualità della vita.
Nel caso di specie, non solo i ricorrenti
non hanno contestato il mancato rispetto
degli standards, ma è altresì documentato
che il Comune, prima di adottare la variante
n. 10 del PRGC, ha svolto una specifica
istruttoria per accertare il rispetto di
tali parametri inderogabili; detta verifica
ha consentito al Comune di accertare che la
dotazione complessiva di aree a verde nel
distretto urbanistico “Oltrepo”, in cui si
colloca l’area di via Asti, avrebbe
conservato, dopo l’attuazione della
variante, un rapporto di sostanziale
equilibrio rispetto al fabbisogno (doc. 3 e
4.1. fascicolo Comune).
---------------
Con il terzo
motivo, i ricorrenti hanno dedotto il vizio
di eccesso di potere per difetto di
motivazione: secondo i ricorrenti, la
decisione dell’amministrazione di modificare
la destinazione urbanistica dell’area
avrebbe imposto alla stessa di motivare
adeguatamente le ragioni di tale scelta,
evidenziando, in particolare, da quali
preminenti interessi pubblici essa fosse
giustificata; e ciò in quanto la disciplina
attuale dell’area era stata dettata nella
convenzione edilizia del 1987, la quale
aveva ingenerato nei privati una aspettativa
qualificata al rispetto della destinazione
pattuita; tale motivazione, tuttavia, è
mancata del tutto, il che integra il vizio
di illegittimità dedotto in rubrica.
La censura è infondata e va disattesa.
E’ noto che le scelte urbanistiche, che di
norma non comportano la necessità di
specifica giustificazione oltre quella
desumibile dai criteri generali di
impostazione del piano o della sua variante,
necessitano di congrua motivazione quando
incidono su aspettative dei privati
particolarmente qualificate, come quelle
ingenerate da impegni già assunti
dall'amministrazione mediante approvazione
di piani attuativi o stipula di convenzioni;
in tali evenienze, la completezza della
motivazione costituisce infatti lo strumento
dal quale deve emergere l'avvenuta
comparazione tra il pubblico interesse cui
si finalizza la nuova scelta e quello del
privato, assistito appunto da una
aspettativa giuridicamente tutelata
(Consiglio Stato, sez. IV, 09.06.2008,
n. 2837).
Se ciò è vero, è anche vero, però, che nel
caso di specie l’unica aspettativa tutelata
sorta in capo ai ricorrenti con la
sottoscrizione dalla convenzione Sicignano
del 29.12.1987 attuativa del PEC, è
stata quella avente ad oggetto la
realizzazione dell’intervento edificatorio:
ma tale aspettativa, allo stato, è già stata
integralmente soddisfatta, dal momento che
il PEC è stato attuato già da molti anni.
Per contro, dalla predetta convenzione non è
sorta anche un’aspettativa qualificata dei
ricorrenti a che il Comune realizzasse le
opere di urbanizzazione primaria a fronte
della cessione gratuita delle relative aree,
dal momento che, come giustamente osservato
dalla difesa comunale, nel contesto di
quella convenzione edilizia la cessione
gratuita delle aree non trovava il suo
corrispettivo e la sua causa nella
realizzazione delle opere di urbanizzazione,
ma nel rilascio delle concessioni edilizie,
fermo restando il potere del Comune,
nell’esercizio dei propri insindacabili
poteri di pianificazione e di gestione del
territorio, di imprimere eventualmente a
quelle aree una diversa destinazione
urbanistica sulla base di una rinnovata o di
una sopravvenuta diversa valutazione
dell’interesse pubblico.
Pertanto, non incidendo la variante di piano
su aspettative giuridicamente qualificate
dei ricorrenti, non si imponeva la necessità
di una specifica motivazione, oltre quella
desumibile dai criteri generali di
impostazione della variante medesima.
---------------
Con il quarto
motivo, i ricorrenti hanno dedotto il vizio
di eccesso di potere per difetto dei
presupposti e sviamento: secondo i
ricorrenti, la variante del Piano Regolatore
è uno strumento tipico che l’amministrazione
comunale può utilizzare soltanto per
perseguire finalità di carattere
urbanistico; nel caso di specie, invece,
esso sarebbe stato utilizzato al solo fine
di alienare il bene, e quindi per perseguire
finalità (“di cassa”) del tutto estranee a
quelle tipiche in funzione delle quali la
legge ha attribuito al Comune il relativo
potere: la variante approvata sarebbe dunque
viziata da sviamento di potere.
Anche tale censura è infondata.
E’ la legge
ad imporre ai Comuni di adottare una
specifica variante dello strumento
urbanistico generale per stabilire la
destinazione urbanistica dei beni inclusi
nel proprio piano delle alienazioni e
valorizzazioni immobiliari: ciò si evince
dall’art. 58, comma 2, della L. 133/2008,
nel testo risultante dopo la sentenza della
Corte Costituzionale 16.12.2009, n.
340; quest’ultima ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale della norma
citata nella parte in cui originariamente
prevedeva che l’approvazione del piano delle
alienazioni e valorizzazioni costituiva essa
stessa variante allo strumento urbanistico
generale; per effetto della predetta
decisione del giudice delle leggi, è venuto
meno l’effetto di variante automatica
originariamente associato alla delibera di
approvazione del piano delle alienazioni, sicché, allo stato, i Comuni che approvino
un piano di dismissione immobiliare, hanno
l’onere di attivare un separato procedimento
di variante del proprio strumento
urbanistico (che salvaguardi, in tal modo,
le competenze della Regione, pretermesse
nella formulazione originaria della norma).
Alla luce di tali considerazioni, nessuno
sviamento di potere può essere attribuito
nel caso in esame al Comune di San Mauro
Torinese, avendo esso utilizzato il
procedimento di variante urbanistica in
doverosa attuazione di una norma di legge e
per il perseguimento di finalità previste
dalla legge
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.07.2011 n. 805 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Concorsi pubblici, arte e cultura
senza autocertificazione.
I titoli
artistico-culturali e professionali non
possono essere oggetto di autocertificazione
nei concorsi pubblici: tali titoli se non
allegati non possono essere oggetto di
integrazione successiva.
Il ricorrente in primo grado risultava
escluso dalla graduatoria finale a seguito
della mancata valutazione dei titoli
artistico-culturali, che risultavano oggetto
solo di dichiarazione sostitutiva dell’atto
di notorietà.
La sentenza di primo grado aveva
riconosciuto l’illegittimità delle norme
concorsuali che –nel prevedere la necessaria
allegazione dei titoli– avrebbero violato le
disposizioni del D.P.R. n. 445/2000, nonché
la Direttiva Ministeriale n. 1672/2002,
secondo cui avrebbe dovuto essere
sufficiente la presentazione, da parte dei
candidati alla selezione, di un curriculum
in cui si specificassero i titoli posseduti.
Secondo la tesi fatta propria dal TAR, le
certificazioni relative a “stati, qualità
personali e fatti”, di cui all’art. 46
D.P.R. n. 445/2000, rientranti nella diretta
conoscenza dell’interessato, potrebbero
essere sostituite da dichiarazioni rese e
sottoscritte dal medesimo, in base ai
principi dell’autoresponsabilità del
dichiarante e dell’equivalenza funzionale di
dette dichiarazioni rispetto ai certificati
e agli atti sostituiti.
Il Consiglio di Stato, pur riconoscendo che,
anche nel caso in cui le norme in materia di
autocertificazione non fossero richiamate
dal bando dovrebbe sempre ammettersi la
certificazione semplificata e sostitutiva
prevista dal Testo Unico, ha affermato
alcuni limiti a tale principio.
Secondo la sentenza in esame,
l’autocertificazione costituisce, infatti,
solo modalità di semplificazione
procedimentale in rapporto a dimostrazioni
che il privato sarebbe tenuto ad offrire
tramite documenti pubblici, ma non può
sostituire atti non riconducibili a mere
attestazioni, la cui acquisizione sia
prevista a fini di diretta valutazione di
contenuto da parte dell’Amministrazione
stessa.
Con riguardo ai titoli artistico-culturali e
professionali risulta pertanto legittima la
disposizione del bando di concorso che ne
imponga l'allegazione da parte dei
concorrenti al momento di presentazione
della domanda, senza possibilità di
ricorrere alla autocertificazione. Tale
previsione, riferita ad esempio alle
pubblicazioni scientifiche, consente infatti
alla commissione di concorso di valutarle,
escludendo la possibilità di una mera
elencazione fornita dall’interessato
(commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.07.2011 n. 4195 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi, immobili senza
agibilità. Impossibile esercitarvi qualsiasi
attività.
Il TAR ha messo in
evidenza che gli abusi edilizi realizzati su
un immobile sono condizione che non permette
il rilascio del certificato di agibilità. Lo
stesso TAR ha anche stabilito che in tale
immobile non è possibile l'esercizio di
alcuna attività. Sulla strega di tali
considerazioni ha ritenuto legittima la
sospensione di un'autorizzazione
amministrativa per ristorazione-pizzeria, a
suo tempo regolarmente rilasciata, in quanto
l'attività si svolgeva in locale ove erano
stati realizzati degli abusi edilizi non
condonati.
E' interessante il TAR Calabria-Catanzaro,
Sez. II, con
sentenza 09.07.2011 n. 1009 che
ha stabilito un principio fondamentale sulla
valenza e sinergia degli atti giuridici.
Nello specifico del governo dei fenomeni di
abusivismo edilizio, non sanati, escludendo
la possibilità di rilascio del certificato
di agibilità per gli stessi immobili.
La vicenda dedotta in giudizio è quella di
un titolare di autorizzazione amministrativa
per attività di ristorazione-pizzeria che,
con ordinanza del Comandante della Polizia
Municipale, si è visto sospendere
l'autorizzazione sine die, ovvero
sino alla presentazione del certificato di
agibilità dei locali nei quali l'esercente
espletava la propria attività.
Elementi essenziale e decisionale della
causa, per il Collegio, è stato individuato
nella circostanza, dedotta dal Comune
resistente e consistente nell'esistenza di
un'ordinanza di demolizione di due corpi di
fabbricati, nei quali era allocato
l'esercizio di attività di
ristorazione-pizzeria.
Precisa l'Ente che detta ordinanza non è
stata opposta, di contro invece è stata
oggetto di successiva richiesta di rilascio
di permesso di costruire in sanatoria, così
accettando pacificamente la realizzazione
dell'abuso edilizio.
Il Giudicante ha sottolineato che gli artt.
24, comma 3, D.P.R. n. 380 del 06.06.2001 e
35, comma 20, L. n. 47 del 28.02.1965, il
rilascio del certificato di agibilità non
può avvenire per i fabbricati abusivi o per
quelli che presentano abusi non condonati in
quanto la regolarità urbanistica ed edilizia
è un presupposto essenziale per il rilascio
dello stesso certificato di agibilità.
A sostegno dell'assunto il Collegio ha
richiamato la giurisprudenza costantemente
assunta dal Consiglio di Stato e, da ultimo,
con Quinta Sezione, Dec. n. 2760 del
30.04.2009.
Con tale configurazione, che celebra nel
contesto fattuale giuridico che è scenario
della vicenda processuale, l'essenzialità
della conformità urbanistica dell'immobile
viene meno qualsiasi ipotesi di silenzio
assenso, invocata da parte ricorrente in
ordine alla propria richiesta di rilascio
del certificato di agibilità, risultata non
evasa dal Comune.
Pari importanza ha l'accertamento dell'abuso
edilizio per confermare la legittimità
dell'atto impugnato da parte ricorrente e,
non servono a porre in criticità la
legittimità dello stesso atto, neppure gli
accertamenti effettuati che possono anche
attestare il rispetto e la conformità del
locale alla normativa di igiene e sicurezza,
ma che a nulla valgono per un locale
abusivo.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la
Calabria con la sentenza di cui discutiamo
ha precisato che allorquando, come nel caso
di specie, la Pubblica Amministrazione,
dovesse rilasciare autorizzazione
amministrativa all'esercizio di un'attività
in un determinato locale non ha assentito
altro che delle condizioni soggettive che
legittimano all'esercizio dell'attività
stessa.
Tuttavia, tale rilascio di autorizzazione
amministrativa non può far sorgere
l'affidamento dl privato sulla regolarità di
fatti estranei ed esterni al rapporto
autorizzativo come, nel nostro caso la
regolarità dell'immobile.
Di contro è proprio la non regolarità
dell'immobile, che è stato realizzato con la
concretizzazioni di abusi edilizi, ad
inibire la possibilità di utilizzo dello
stesso in quanto privo di certificato di
agibilità e ben ha operato la Polizia
Municipale che non ha annullato o revocato
l'autorizzazione amministrativa per attività
di ristorazione-pizzeria, ma si è
semplicemente limitata al sospendere e così
operando ha dato la possibilità di sanare
gli abusi edilizi perpetrati e presenti
sull'immobile de qua (commento tratto
da www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
balcone aggettante può essere ricompreso nel
computo della distanza minima di mt. 10,00
tra fabbricati solo nel caso in cui una
norma di piano preveda ciò.
Le norme di cui al D.M. 1444/1968, emanate
in forza dell’art. 17 della legge n.
765/1967, traggono da questa la forza di
integrare con efficacia precettiva il regime
delle distanze nelle costruzioni, sicché
l’inderogabile distanza di metri 10 tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti vincola anche i Comuni in sede di
formazione e di revisione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con
l’anzidetto limite minimo è illegittima e va
annullata ove oggetto di impugnazione o,
secondo l’indirizzo prevalente, comunque
disapplicata, stante la sua automatica
sostituzione con la clausola legale dettata
dalla fonte sovraordinata.
La giurisprudenza ha ormai chiarito la
natura di norma di ordine pubblico dell’art.
9 del D.M. 1444/1968, che prescrive la
distanza minima di 10 mt. lineari tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti,
precisando tuttavia che il balcone
aggettante può essere ricompreso nel computo
della predetta distanza solo nel caso in cui
una norma di piano preveda ciò (cfr., Cons.
Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381; TAR
Lazio, 31.03.2010 n. 5319; TAR Liguria,
Genova, sez. I, 10.07.2009 n. 1736).
E tale norma nel caso di specie non è
rinvenibile.
Vi è, peraltro, una norma (art. 3, comma 6,
delle N.T.A. del P.R.G.) che detta la
definizione di “Distanza dai confini”,
stabilendo che “è la distanza fra le
proiezioni orizzontali dei fabbricati per la
parte fuori terra e i confini escluse le
terrazze e gli aggetti di carattere
ornamentale e strutturale con sporgenze
inferiori o uguali a mt. 2,00”.
Dunque, se la terrazza non supera i due
metri di sporgenza non viene computata ai
fini delle distanze dai confini.
E tale disposizione, ancorché non dettata ai
fini del calcolo della distanza minima di 10
mt. lineari tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti, di cui al ripetuto
art. 9 del D.M. 1444/1968, in assenza di una
norma di piano ad hoc, può comunque
fungere da utile parametro di riferimento
per il computo della distanza in questione.
Ne consegue che nella fattispecie in esame
le terrazze non sono computabili ai fini
delle distanze fra edifici, in quanto hanno
una sporgenza di ml. 1,76 e sono
completamente aperte.
Le considerazioni sin qui svolte sono
assorbenti di ogni altra e determinano la
reiezione del ricorso principale, senza che
occorra verificare la portata delle norme
tecniche di attuazione operanti nel caso di
specie, in quanto, per consolidata
giurisprudenza, le norme di cui al ripetuto
D.M. 1444/1968, emanate in forza dell’art.
17 della legge n. 765/1967, traggono da
questa la forza di integrare con efficacia
precettiva il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l’inderogabile distanza
di metri 10 tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti vincola anche i Comuni
in sede di formazione e di revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l’anzidetto limite minimo è
illegittima e va annullata ove oggetto di
impugnazione o, secondo l’indirizzo
prevalente, comunque disapplicata, stante la
sua automatica sostituzione con la clausola
legale dettata dalla fonte sovraordinata
(cfr., Cons. Stato, sez. IV, 12.06.2007 n.
3094)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 09.06.2011 n. 993 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ATMOSFERICO -
Diffusione di polveri nell'atmosfera - Getto
di cose ed emissione – Differenza - Reato di
getto di cose pericolose art. 674 c.p. –
Fattispecie: getto di particolato.
La diffusione di polveri nell'atmosfera
rientra nella nozione di "versamento di
cose" ai sensi della prima ipotesi
dell'art. 674 cod. pen. e non in quella di "emissione
di fumo" contemplata dalla seconda
ipotesi, in quanto mentre il fumo è sempre
prodotto della combustione, la polvere è
prodotto di frantumazione e non di
combustione. (Cass. Sez. 3^, sentenza n.
16286 del 2009, Del Balzo).
Tale principio opera a fortiori per il getto
del particolato, della cui natura di "cosa"
non può certo dubitarsi. Ciò significa che
sia per il getto del particolato sia per
l'emissione delle polveri che ricadevano sul
terreno trova applicazione la prima parte
dell'ipotesi prevista dall'art. 674 c.p. e
non debbono essere presi in esame ai fini
della responsabilità gli ulteriori requisiti
fissati dalla seconda parte del medesimo
articolo. Fattispecie: getto di
particolato con conseguenze dannose con
riferimento alle autovetture, alle colture,
ai materiali plastici.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO
- Emissioni autorizzate e contenute nei
limiti - Molestie alle persone e cose –
Accorgimenti tecnici utilizzabili per un
loro ulteriore abbattimento – Omissione –
Configurabilità del reato ex art. 674 c.p. -
Emissioni anomale - Doveri di attenzione e
di intervento del gestore dell'impianto
industriale - Reato di danneggiamento
aggravato - Art. 635 c.p. - D.P.R. n.
203/1988.
Il mantenimento delle emissioni entro i
limiti consentiti non è di per sé
sufficiente ad escludere l'esistenza della
contravvenzione contestata ex art. 674 c.p.,
potendo assumere rilevanza l'omessa adozione
delle misure tecniche in grado di impedire
il verificarsi di molestie alle persone
(Cass. sentenza n. 15734 del 2009, Bua).
Sicché, anche in presenza di emissioni
autorizzate e contenute nei limiti "residuano
doveri di attenzione e di intervento del
gestore dell'impianto industriale, il quale,
in presenza di ricadute ulteriori e diverse
dalle emissioni sull'ambiente e sulle
persone, è chiamato ad adottare quegli
accorgimenti tecnici ragionevolmente
utilizzabili per un loro ulteriore
abbattimento” (Cass. sentenza n. 41582
del 2007, Saetti e altri).
Pertanto, per le ricadute oleose sussiste la
violazione dell'art. 674 c.p.
indipendentemente dal superamento delle
soglie di emissione in atmosfera, posto che
l'oggetto dell'art. 674 c.p. (e cioè la
tutela di cose e persone da molestie e
imbrattamento) differisce da quello previsto
dal d.P.R. n. 203/2088 (tutela
dell'atmosfera e dell'ambiente).
Inoltre, la frequenza delle emissioni
anomale, la presenza di odori acri e di
forti rumori comportino nel loro insieme
quel turbamento della tranquillità e quelle
molestie superiori alla normale tranquillità
che la giurisprudenza considera sufficiente
ad integrare la contravvenzione.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO
- Emissioni - Molestie alle persone e cose -
Responsabilità penale ex art. 40
dell'amministratore privo di delega –
Riforma diritto societario - D.L.gs. n.
6/2003.
Pur nell'ambito dei più ristretti limiti di
responsabilità fissati per l'amministratore
privo di delega con la riforma societaria
introdotta con il D.Lgs. n. 6 del 2003,
afferma il principio secondo cui "l'amministratore
(con o senza delega) è penalmente
responsabile, ex art. 40, comma secondo,
cod. pen., per la commissione dell'evento
che viene a conoscere (anche al di, fuori
dei prestabiliti mezzi informativi) e che,
pur potendo, non provvede ad impedire (Cass.
pen. Sez. 5^ sentenza n. 21581 del 2009, PM
in proc. Mare). Pertanto, la responsabilità
può derivare dalla dimostrazione della
presenza di segnali significativi in
relazione all'evento illecito nonché del
grado di anormalità di questi sintomi, non
in linea assoluta ma per l'amministratore
privo di delega."
Tale principio, per quanto fissato con
riferimento ad altra disciplina, appare
decisivo nella parte in cui evidenzia come
la responsabilità dell'amministratore
residui comunque, indipendentemente dal
regime delle deleghe, quando egli si sia
sottratto ai propri doveri di controllo e di
intervento in presenza di "anormalità"
che egli era in grado di apprezzare e di
affrontare. Fattispecie: omessa adozione
delle misure tecniche in grado di impedire
emissioni in atmosfera e il verificarsi di
molestie alle persone (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.04.2011 n. 16422 -
link a www.ambientediritto.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Il
diritto di accesso riconosciuto ai
rappresentanti del corpo elettorale comunale
ha una ratio diversa da quella che
contraddistingue il diritto di accesso ai
documenti amministrativi che è riconosciuto
a tutti i cittadini come pure, in termini
più generali, a chiunque sia portatore di un
“interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l'accesso”.
Invero, la finalizzazione dell'accesso
all'espletamento del mandato costituisce, al
tempo stesso, il presupposto legittimante
l'accesso ed il fattore che ne delimita la
portata.
Le disposizioni richiamate, infatti,
collegano l'accesso a tutto ciò che può
essere effettivamente funzionale allo
svolgimento dei compiti del singolo
consigliere comunale e provinciale e alla
sua partecipazione alla vita
politico-amministrativa dell'ente, come
confermato dalla giurisprudenza di
legittimità che ha precisato che il
consigliere può accedere non solo ai
“documenti” formati dalla pubblica
amministrazione di appartenenza ma, in
genere, a qualsiasi “notizia” od
“informazione” utili ai fini dell'esercizio
delle funzioni consiliari.
Inoltre, a differenza dei soggetti privati,
il consigliere non è tenuto a motivare la
richiesta, né l'Ente ha titolo per sindacare
il rapporto tra la richiesta di accesso e
l'esercizio del mandato, altrimenti gli
organi dell'amministrazione sarebbero
arbitri di stabilire essi stessi l'ambito
del controllo sul proprio operato.
Il diritto di avere
dall'ente tutte le informazioni che siano
utili all'espletamento del mandato non
incontra alcuna limitazione derivante dalla
loro natura riservata, in quanto il
consigliere è vincolato all'osservanza del
segreto.
---------------
Anche a voler ritenere che le norme
regolamentari comunali pongano limitazioni
al diritto d’accesso dei consiglieri
comunali, le stesse andrebbero disapplicate
a prescindere da una formale impugnazione,
ponendosi in contrasto con l’art. 43 del
D.Lgs. n. 267/2000, e cioè una disposizione
di rango superiore.
-------------
Il diritto di accesso del consigliere
comunale non riguarda soltanto le competenze
attribuite al consiglio comunale ma, essendo
riferito all'espletamento del mandato,
investe l'esercizio del munus in tutte le
sue potenziali implicazioni per consentire
la valutazione della correttezza ed
efficacia dell'operato dell'amministrazione
comunale.
In proposito è stato altresì precisato che
“Allorché una richiesta di accesso è
avanzata per l'espletamento del mandato
risulta, invero, insita nella stessa
l'utilità degli atti richiesti al fine
dell'espletamento del mandato. Il
riferimento alle notizie ed alle
informazioni "utili" contenuto nella norma
in esame, non costituisce affatto una
limitazione, se appena si considera l'intero
contesto della disposizione. Il diritto di
accesso è stato, infatti, attribuito ai
consiglieri comunali per "tutte le notizie e
le informazioni... utili all'espletamento
del proprio mandato" e, quindi, per tutte le
notizie ed informazioni ritenute utili,
senza alcuna limitazione. Dal termine
"utili" contenuto nella norma in oggetto non
consegue, quindi, alcuna limitazione al
diritto di accesso dei consiglieri comunali,
bensì l'estensione di tale diritto a
qualsiasi atto ravvisato utile
all'espletamento del mandato”.
Ai fini di un compiuto esame dell’appello il
Collegio ritiene opportuno richiamare alcune
considerazioni sul diritto di accesso
riconosciuto dall’ordinamento giuridico ai
consiglieri comunali e provinciali, alla
luce della più recente giurisprudenza della
Sezione sull’argomento (cfr., ex multis,
Cons. Stato, sez. V, 20.10.2005 n. 5879).
In particolare, l’art. 43, comma 2, del
Testo unico degli enti locali -D.L.vo
18.08.2000 n. 267- statuisce: “I
consiglieri comunali e provinciali hanno
diritto di ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato. Essi
sono tenuti al segreto nei casi
specificamente determinati dalla legge”.
La disposizione ha i suoi più immediati
antecedenti nell’articolo 24 della L. n.
816/1985 -Esercizio delle funzioni
consiliari- secondo cui “I consiglieri
comunali, i consiglieri provinciali e i
componenti delle assemblee delle unità
sanitarie locali e delle comunità montane,
per l'effettivo esercizio delle loro
funzioni hanno diritto di prendere visione
dei provvedimenti adottati dall'ente e degli
atti preparatori in essi richiamati nonché
di avere tutte le informazioni necessarie
all'esercizio del mandato”, e
nell’articolo 31, comma 5, L. n. 142/1990
-Consigli comunali e provinciali– secondo
cui “I consiglieri comunali e provinciali
hanno diritto di ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato. Essi
sono tenuti al segreto nei casi
specificamente determinati dalla legge”.
Il diritto (soggettivo pubblico) codificato
da tali disposizioni –come è possibile
evincere dalla chiara littera legis-
è espressione del principio democratico
dell'autonomia locale e della rappresentanza
esponenziale della collettività, ed in
quanto tale è direttamente funzionale non
tanto ad un interesse personale del
consigliere comunale o provinciale, quanto
alla cura di un interesse pubblico connesso
al mandato conferito (cfr. la locuzione “ampia
e qualificata posizione di pretesa
all'informazione spettante ratione officii
al consigliere comunale” in Cons. Stato,
sez. V, 08/09/1994, n. 976).
Emerge chiaramente, infatti, che i
consiglieri comunali hanno un non
condizionato diritto di accesso a tutti gli
atti che possano essere d'utilità
all'espletamento del loro mandato, ciò anche
al fine di permettere di valutare -con piena
cognizione- la correttezza e l'efficacia
dell'operato dell'Amministrazione, nonché
per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio, e per
promuovere, anche nell'ambito del Consiglio
stesso, le iniziative che spettano ai
singoli rappresentanti del corpo elettorale
locale.
Il diritto di accesso riconosciuto ai
rappresentanti del corpo elettorale
comunale, pertanto, ha una ratio
diversa da quella che contraddistingue il
diritto di accesso ai documenti
amministrativi che è riconosciuto a tutti i
cittadini (articolo 10 -Diritto di
accesso e di informazione- del D.L.vo n.
267/2000) come pure, in termini più
generali, a chiunque sia portatore di un “interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso” (cfr. gli art. 22 e ss. della
legge 07.08.1990, n. 241 come recentemente
modificata dalla legge 11.02.2005, n. 15 -
Modifiche ed integrazioni alla legge
07.08.1990, n. 241, concernenti norme
generali sull'azione amministrativa).
Invero, la finalizzazione dell'accesso
all'espletamento del mandato costituisce, al
tempo stesso, il presupposto legittimante
l'accesso ed il fattore che ne delimita la
portata.
Le disposizioni richiamate, infatti,
collegano l'accesso a tutto ciò che può
essere effettivamente funzionale allo
svolgimento dei compiti del singolo
consigliere comunale e provinciale e alla
sua partecipazione alla vita
politico-amministrativa dell'ente, come
confermato dalla giurisprudenza di
legittimità che ha precisato che il
consigliere può accedere non solo ai “documenti”
formati dalla pubblica amministrazione di
appartenenza ma, in genere, a qualsiasi “notizia”
od “informazione” utili ai fini
dell'esercizio delle funzioni consiliari
(cfr. Cass. Civ. Sez. III, sent. 03.08.1995
n. 8480, in materia di acquisizione della
registrazione magnetofonica di una seduta
consiliare).
Inoltre, a differenza dei soggetti privati,
il consigliere non è tenuto a motivare la
richiesta, né l'Ente ha titolo per sindacare
il rapporto tra la richiesta di accesso e
l'esercizio del mandato, altrimenti gli
organi dell'amministrazione sarebbero
arbitri di stabilire essi stessi l'ambito
del controllo sul proprio operato (Cons.
Stato, V Sez. 07.05.1996 n. 528, Cons.
Stato, V Sez. 22.02.2000 n. 940, Cons.
Stato, V Sez. 26.09.2000 n. 5109).
Infine, il diritto di avere dall'ente tutte
le informazioni che siano utili
all'espletamento del mandato non incontra
alcuna limitazione derivante dalla loro
natura riservata, in quanto il consigliere è
vincolato all'osservanza del segreto (Cons.
Stato, V Sez. 20.02.2000 n. 940 e Consiglio
di Stato, Sezione V, 04.05.2004, n. 2716).
---------------
Nel terzo motivo d’appello si assume che un
pieno diritto di accesso del consigliere
comunale sarebbe in ogni caso escluso dal
regolamento comunale sul diritto
all’accesso, il quale prevede all’art. 13,
comma 7, che l’accesso a documenti riservati
“può essere consentito ai consiglieri
comunali, previa autorizzazione del sindaco,
purché venga dimostrata l’utilità ai fini
dell’espletamento del loro mandato” e
dal regolamento comunale per la valutazione
dei dirigenti, il quale prevede all’art, 1,
comma 4 che ӏ riconosciuta al dirigente
il diritto alla riservatezza limitandosi la
conoscibilità dell’esito della valutazione,
sia con riferimento ai singoli profili sua
con riferimento al giudizio sintetico
finale, ai soli soggetti valutatori di prima
e di seconda istanza, al Sindaco e alla
Giunta”.
Va in primo luogo rilevato che alle suddette
disposizioni può darsi un’interpretazione
che tenga conto della disciplina legislativa
concernente il diritto d’accesso dei
consiglieri comunali, così come è stato
fatto dal Tar con riferimento al regolamento
comunale sul diritto di accesso ai
documenti.
In ogni caso si deve considerare che, anche
a voler ritenere che le suddette norme
regolamentari pongano limitazioni al diritto
d’accesso dei consiglieri comunali, le
stesse andrebbero disapplicate a prescindere
da una formale impugnazione, ponendosi in
contrasto con l’art. 43 del D.Lgs. n.
267/2000, e cioè una disposizione di rango
superiore (V. le decisioni di questo
Consiglio, sez. IV n. 59 del 26.01.1999,
sez. V n. 6293 del 13.11.2002 e sez. V n.
2966 dell’11.05.2004).
Tale disapplicazione può peraltro essere
effettuata anche in grado d’appello, venendo
in considerazione un giudizio in cui si
tratta di accertare l’esistenza dei
presupposti per riconoscere il diritto
dell’attuale appellato all’accesso.
---------------
Con il quarto motivo d’appello il Comune di
Ancona contesta che la conoscenza della
valutazione dei dirigenti possa avere una
qualche utilità per l’espletamento
dell’incarico di consigliere comunale.
Anche quest’ultima censura è infondata.
Va infatti considerato che il diritto di
accesso del consigliere comunale non
riguarda soltanto le competenze attribuite
al consiglio comunale ma, essendo riferito
all'espletamento del mandato, investe
l'esercizio del munus in tutte le sue
potenziali implicazioni per consentire la
valutazione della correttezza ed efficacia
dell'operato dell'amministrazione comunale
(cfr.: Cons. Stato, V Sez. 21.02.1994 n.
119, Cons. Stato, V Sez. 26.09.2000 n. 5109,
Cons. Stato, V Sez. 02.04.2001 n. 1893).
In proposito è stato altresì precisato
(Cons. Stato, V Sez., 04.05.2004, n. 2716)
che “Allorché una richiesta di accesso è
avanzata per l'espletamento del mandato
risulta, invero, insita nella stessa
l'utilità degli atti richiesti al fine
dell'espletamento del mandato. Il
riferimento alle notizie ed alle
informazioni "utili" contenuto nella norma
in esame, non costituisce affatto una
limitazione, se appena si considera l'intero
contesto della disposizione. Il diritto di
accesso è stato, infatti, attribuito ai
consiglieri comunali per "tutte le notizie e
le informazioni... utili all'espletamento
del proprio mandato" e, quindi, per tutte le
notizie ed informazioni ritenute utili,
senza alcuna limitazione. Dal termine
"utili" contenuto nella norma in oggetto non
consegue, quindi, alcuna limitazione al
diritto di accesso dei consiglieri comunali,
bensì l'estensione di tale diritto a
qualsiasi atto ravvisato utile
all'espletamento del mandato”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.10.2007 n. 5264 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
I terreni acquisiti dal Comune,
nell’ambito di un piano di lottizzazione,
quale corrispettivo della concessione
edilizia, per la esecuzione di opere di
urbanizzazione, sono sempre suscettibili di
subire le modificazioni di destinazione che
il Comune ritiene ad essi di imprimere, per
cui, per tale motivo, non può riconoscersi
all’originario proprietario dei terreni
ceduti il diritto alla retrocessione.
Per giurisprudenza costante, i terreni
acquisiti dal Comune, nell’ambito di un
piano di lottizzazione, quale corrispettivo
della concessione edilizia, per la
esecuzione di opere di urbanizzazione, sono
sempre suscettibili di subire le
modificazioni di destinazione che il Comune
ritiene ad essi di imprimere (Corte di
Cassazione civ., sez. II, 28.08.2000, n.
11208), per cui, per tale motivo, non può
riconoscersi all’originario proprietario dei
terreni ceduti il diritto alla retrocessione
(nella specie, peraltro, si tratta pur
sempre di destinazioni per interessi
pubblici).
Se ciò vale per i lotti A e B ceduti al
Comune in attuazione di convenzione di
lottizzazione, per quanto riguarda i lotti C
e D v’è da osservare che la situazione è
diversa, ricadenti essi, come detto nel PIP.
Per quanto riguarda il lotto C, acquisito
nell’ambito di procedura espropriativa e
destinato a verde pubblico mai realizzato,
il Comune lo ha escluso dall’impugnato atto
di vendita, prevedendo la possibilità della
sua retrocessione; per quanto riguarda,
invece, il lotto D, esso faceva parte di un
lotto più ampio assegnato ad un’industria
insediatasi e destinato a parcheggio, ma poi
riacquistato dal Comune a seguito di permuta
con altra area, per cui, nella specie, non
si è verificato il presupposto della
retrocessione, consistente nella mancata
esecuzione dell’opera pubblica.
Con l’atto impugnato, inoltre, il Comune
procede all’assegnazione mediante vendita
dei tre lotti di cui si chiede la
retrocessione per consentire insediamenti
produttivi, e, quindi, pur sempre per
finalità di pubblico interesse, nella specie
legittima e consentita in base alle nuove
destinazioni urbanistiche impresse ai
terreni in questione, non impugnate dai
ricorrenti (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 16.07.2004 n. 835 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 12.09.2011 |
ã |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L.
Bellagamba,
L’esecuzione dei lavori a scomputo di
importo inferiore alla soglia comunitaria,
fra terzo correttivo e decreto “sviluppo” (link a www.linobellagamba.it). |
APPALTI SERVIZI:
A. Avino,
Quale destino per le società miste alla luce
dell’art. 4 del D.L. 138/2011?
(link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
F. Gavioli,
Gare, forme e termini per le offerte: come
funziona la pubblicità legale
(link a www.ipsoa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
N. Durante,
Spoils system e dirigenza pubblica
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CORTE DEI
CONTI |
INCARICHI PROGETTUALI:
Se di importo superiore ai
5.000,00 euro, anche incarichi inerenti ai
servizi di architettura e di ingegneria di
cui al D.Lgs. n. 163/2006 debbano essere
trasmessi alla Sezione regionale di
controllo della Corte dei Conti.
L’esclusione dall’obbligo di invio dei
provvedimenti di conferimento di incarichi
inerenti ai servizi di architettura e di
ingegneria discendeva dall’art. 1, comma 42,
della legge 30.12.2004, n. 311, che
originariamente prevedeva la trasmissione
alla Corte dei conti degli incarichi di
studio o di ricerca, ovvero di consulenze a
soggetti estranei all'amministrazione,
espressamente escludendo gli incarichi di
cui alla legge n. 109/1994 e successive
modificazioni.
La Sezione delle Autonomie della Corte dei
conti, nelle linee guida approvate con
deliberazione 02.03.2006 n. 4, ha
evidenziato come la nuova disciplina di cui
alla legge n. 266/2005 avesse sostituito ed
abrogato, per evidenti motivi di
incompatibilità, l’art. 1, commi 11 e 42,
della legge n. 311 del 2004.
Conseguentemente, non contemplando le
disposizioni di cui al comma 173 dell’art. 1
della legge n. 266/2005 alcuna eccezione per
gli atti di cui alla richiesta di parere, si
ritiene che, se di importo superiore ai
5.000,00 euro, anche incarichi inerenti ai
servizi di architettura e di ingegneria di
cui al D.Lgs. n. 163/2006 debbano essere
trasmessi alla Sezione regionale di
controllo della Corte dei Conti (cfr.:
parere 13.03.2009 n. 7 della
Sez. regionale del controllo per l’Emilia
Romagna; parere n. 3/Par/2007 e relazione
approvata con delibera n. 13/2010/SRCPIE/VSGF
del 23.02.2010 della Sezione regionale di
controllo per il Piemonte) (Corte dei Conti,
Sez. controllo Basilicata,
parere 01.09.2011 n. 32). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Parere in materia di incentivi al
personale per la progettazione interna (art.
92 del d.lgs 163/2006). Profili funzionali
(rapporto con la progettazione interna ed
esterna), modalità di individuazione della
quota parte spettante al responsabile
tecnico, computabilità o meno di tali
incentivi tra le spese di personale.
L'incentivo di cui al comma 6, art.
92, D.Lgs. 163/2006 può essere attribuito al
personale dipendente solo ed esclusivamente
nel caso in cui l'atto di pianificazione sia
stato redatto da personale interno??
Inoltre, tale incentivo può essere
attribuito al responsabile del procedimento
ed eventuali collaboratori interni anche nel
caso di redazione dell'atto di
pianificazione da parte di un professionista
esterno??
L'art. 92, comma 6, del D.Lgs. 163/2006
recita che "Il trenta per cento della
tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione
comunque denominato è ripartito, con le
modalità e i criteri previsti nel
regolamento di cui al comma 5 tra i
dipendenti dell'amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto.".
La genericità del riferimento del
comma 6 a chi “abbia redatto” e non già a
chi abbia “progettato” consente certamente
di estendere la partecipazione all’incentivo
anche a chi non sia specificamente
progettista del “piano”, ma abbia
partecipato comunque (con un ruolo
qualificato) alla sua “redazione”: e ciò
similmente a quanto stabilito dalla norma in
esame per la partecipazione all’incentivo in
materia di lavori pubblici quando il comma 5
richiede al dirigente “l’accertamento
positivo delle specifiche attività svolte
dai predetti dipendenti”.
Qual'è il
rapporto tra il massimo dell'incentivo pari
al 30% della tariffa professionale
attribuibile al personale interno e la spesa
sostenuta per il professionista esterno che
ha redatto l'atto??
Spetta al
regolamento comunale –in mancanza del quale “… è
illegittimo il comportamento
dell’amministrazione che proceda al
pagamento dell’incentivo” Autorità di
Vigilanza sui Lavori Pubblici (ora Autorità
di Vigilanza sui Contratti Pubblici di
Lavori, Servizi e Forniture)
deliberazioni 12.04.2001 n. 123 e
22.06.2005 n. 70- stabilire, con
le modalità ed i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata, la misura della
quota parte spettante al responsabile del
procedimento tecnico, senza che a questi
possa essere liquidata, in caso di mancato
svolgimento dell’attività da parte di
questi, la quota relativa alla
pianificazione esterna o che questa possa
essere in essa assorbita.
Discende, invero, dal precetto normativo che
la pianificazione, se affidata a privati
professionisti (cd. esterna) o ad uffici di
altre amministrazioni pubbliche di cui
l’ente si possa avvalere (cd. interna),
determina comunque economie di bilancio
nell’applicazione dell’incentivo e
presuppone l’utilizzo degli ulteriori fondi
previsti (in termini, cfr. Corte dei conti,
Sezione regionale di controllo per la
Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
L’analogia col comma 5 in caso di lavori
implica quindi il doveroso frazionamento
dell’incentivo totale della “redazione di
atti urbanistici” in quote di
prestazioni parziali, sì da poter
corrispondere l’incentivo -anche in caso di
prestazioni parzialmente esternalizzate-
limitatamente a quelle svolte da personale
interno.
Tale somma per la
redazione degli atti di pianificazione
rientra nel più ampio concetto degli "incentivi per la
progettazione interna" non computati ai
fini dell'aggregato "spesa di personale"
come indicato nella Delibera della Corte dei
Conti in Sezione delle Autonomie n.
16/2009??
La qualificazione della spesa in questione
deve tenere conto delle coordinate
ermeneutiche di fondo in cui essa si
inserisce, alla luce di quanto evidenziato
dalla Sezione autonomie della Corte dei
conti con
delibera 13.11.2009 n. 16/2009:
essa non deve, pertanto, essere computata come
spesa del personale qualora vi sia una
diversa natura degli incentivi de quibus
rispetto alla generica spesa per il
personale (come nel caso di cc.dd. "incentivi
per la progettazione interna"); oppure
si tratti di compensi pagati con fondi che
si autoalimentano con i frutti dell'attività
svolta dai dipendenti, e, di conseguenza,
non comportano un effettivo aumento di
spesa, come nel caso dei diritti di rogito e
degli incentivi per il recupero dell'ICI.
Sotto il profilo considerato,
l’assimilazione fatta in termini di appalto
di servizi per gli incarichi esterni, e lo
stesso richiamo fatto dal comma 6
dell’articolo al comma 5 dell’art. 92 del
d.lgs. 163/2006, inducono a ritenere che
l’ipotesi presenta marcate analogie con
quella dei cc.dd. "incentivi per la
progettazione interna", dal momento che si
tratta di norme speciali e derogatorie alla
disciplina generale del trattamento
accessorio del personale.
--------------
2. L’art. 92 del dlgs. 163/2006, rubricato
dall'articolo 2, comma 1, lettera t), d.lgs.
n. 152 del 2008, Corrispettivi, incentivi
per la progettazione e fondi a disposizione
delle stazioni appaltanti (artt. 17 e 18,
legge n. 109/1994; art. 1, co. 207, legge n.
266/2005), cosi recita: (…) 5. Una somma
non superiore al due per cento dell'importo
posto a base di gara di un'opera o di un
lavoro, comprensiva anche degli oneri
previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione, a valere direttamente
sugli stanziamenti di cui all'articolo 93,
comma 7, è ripartita, per ogni singola opera
o lavoro, con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione
decentrata e assunti in un regolamento
adottato dall'amministrazione, tra il
responsabile del procedimento e gli
incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori. La percentuale effettiva, nel
limite massimo del due per cento, è
stabilita dal regolamento in rapporto
all'entità e alla complessità dell'opera da
realizzare. La ripartizione tiene conto
delle responsabilità professionali connesse
alle specifiche prestazioni da svolgere. La
corresponsione dell'incentivo è disposta dal
dirigente preposto alla struttura
competente, previo accertamento positivo
delle specifiche attività svolte dai
predetti dipendenti; limitatamente alle
attività di progettazione, l'incentivo
corrisposto al singolo dipendente non può
superare l'importo del rispettivo
trattamento economico complessivo annuo
lordo; le quote parti dell'incentivo
corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a
personale esterno all'organico
dell'amministrazione medesima, ovvero prive
del predetto accertamento, costituiscono
economie. I soggetti di cui all'articolo 32,
comma 1, lettere b) e c), possono adottare
con proprio provvedimento analoghi criteri
(comma così modificato dall'articolo 1,
comma 10-quater, della legge n. 201 del
2008).
6. Il trenta per cento della tariffa
professionale relativa alla redazione di un
atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità e i criteri
previsti nel regolamento di cui al comma 5
tra i dipendenti dell'amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto (comma
così modificato dall'articolo 3 del d.lgs.
n. 6 del 2007) (…).
La scarna formulazione del comma 6, nel
perseguire l’ottimale utilizzo delle
professionalità interne in funzione di un
risparmio di spesa sugli oneri per
affidamenti esterni, può indurre a ritenere,
nel suo riferimento testuale, che la
remunerazione aggiuntiva possa essere
corrisposta al solo personale dell’Ente che
abbia materialmente redatto un atto di
pianificazione .
3. Per un corretto inquadramento della
questione, è peraltro necessario operare
alcune valutazioni che attengono alla
definizione dei contorni della fattispecie
sottoposta all’esame.
La Sezione pone preliminarmente in evidenza
al riguardo come nell’individuazione,
scaturente dalla formulazione della norma,
dei soggetti potenzialmente beneficiari
dell’incentivo, puntualmente enumerati in
materia di lavori pubblici, in materia
urbanistica si ha invece un impreciso e
generico riferimento ai “dipendenti
dell’amministrazione aggiudicatrice che ….
abbiano redatto”… “un atto di
pianificazione comunque denominato”.
3.1 Il richiamo fatto dal comma 6, in
realtà, non sembra riferito solo alle
modalità di liquidazione dell’incentivo, ma
ha una valenza ben più ampia, esprimendo la
qualificazione, operata dalla vigente
normativa, dell’attività di pianificazione
urbanistica e la similitudine con la
progettazione di lavori pubblici:
infatti, anche le prestazioni professionali
relative alla redazione degli strumenti
urbanistici rientrano, letteralmente, nella
sfera degli appalti pubblici di servizi:
essi infatti sono inclusi nei servizi di cui
all’allegato II A del Codice dei contratti
di cui al d.lgs. n. 163/2006 e s.m., ed in
particolare nella categoria 12 (CPV n.
74250000-6, n. 74251000-3), dove sono
enumerati i servizi assoggettati
integralmente alla disciplina del Codice
stesso (cfr. art. 20, comma 2, del Codice):
né pare dirimente la natura imprenditoriale
del prestatore di servizi che, di volta in
volta, viene in rilievo. Invero, la
definizione comunitaria di prestatore di
servizi è ampia ed include ogni persona
fisica o giuridica, privata o pubblica. Non
è dunque coerente con i principi del diritto
comunitario valorizzare, al fine di
determinare l’ambito di applicazione della
normativa sugli appalti pubblici, la natura
anfibologica della prestazione (contratto
d’opera se espletata da un professionista
singolo, appalto se espletata da un’impresa)
(Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture
Deliberazione n. 296 - Adunanza del
25.10.2007).
Dalla disciplina sommariamente delineata
emerge come il legislatore, nel configurare
l'istituto dell’incarico esterno di
pianificazione, consideri la relativa
prestazione come inerente non già ad una
attività professionale intellettuale di
lavoro autonomo (con assunzione in proprio
dei relativi rischi e diritto al
corrispettivo calcolato sulla base di
apposite tariffe professionali), bensì a un
vero e proprio appalto di servizi: è infatti
qualificante, per la definizione comunitaria
di appalto, esclusivamente il carattere
oneroso del contratto e la circostanza che
l’oggetto del contratto stesso rientri negli
elenchi di cui agli allegati II A e II B al
Codice dei contratti: a questo riguardo, si
veda sia l’art. 3, comma 10, sulla
definizione di appalto di servizio, sia lo
stesso art. 3, comma 22, che comprende nel
genus degli operatori economici,
l’imprenditore, il fornitore ed il
prestatore di servizi, mentre la circostanza
che l’art. 34 del Codice (soggetti a cui
possono essere affidati i contratti
pubblici) non contempli espressamente la
figura del libero professionista, non appare
decisiva, anche alla luce del fatto che il
successivo art. 91, comma 1, lett. d),
contempla i liberi professionisti nel novero
degli operatori, conferitari dei (similari)
servizi tecnici attinenti i lavori pubblici.
Ne consegue che anche per l’affidamento di
tali servizi è necessario far riferimento
alle disposizioni dettate dal Codice dei
contratti pubblici (Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture Deliberazione n. 296 -
Adunanza del 25.10.2007): in guisa che i
predetti incarichi esterni dovranno essere
conferiti, quindi, ai sensi dell’art. 91 del
Codice, a mezzo di convenzione e nel
rispetto delle specifiche procedure
previste, nel caso di incarico di importo
pari o superiore a 100.000 Euro, per gli
appalti di servizi di rilevanza comunitaria
e, per gli appalti di importo inferiore alla
soglia comunitaria, dagli artt. 124 e 125
del Codice stesso (modificato ora dall’art.
d.l. 70/2011 convertito in legge 106/2011).
3.2 La norma in esame, peraltro, esprime
indiscutibilmente un favor per l'affidamento
di detti incarichi a soggetti interni
all’Ente: ne è riprova l’elencazione
tassativa dei casi in cui il ricorso alla
progettazione esterna è consentito (cfr.
art. 90, comma 6, del Codice).
Invero, solo in presenza di una delle
ipotesi indicate dal legislatore (carenza in
organico di personale tecnico, difficoltà di
rispettare i tempi della programmazione dei
lavori o di svolgere le funzioni di
istituto, lavori di particolare complessità,
necessità dell'apporto di una pluralità di
competenze specialistiche) è possibile, per
l’Ente, avvalersi di collaborazioni esterne;
né è peraltro inopportuno che l’ente si doti
di una disciplina di dettaglio per gli
incarichi in questione, sul presupposto che
determinati elementi requisito della materia
potrebbero trovare, in tal modo, una
migliore specificazione: un regolamento
dell’ente potrebbe disciplinare le modalità
con le quali il responsabile del
procedimento accerti e certifichi la
sussistenza degli elementi richiesti dal
comma 6 dell’art. 90 citato al fine di
conferire l’incarico in questione a soggetto
esterno; così come potrebbero essere
regolate le concrete modalità di pubblicità
del conferimento degli incarichi
(Deliberazione Corte dei Conti - sez.
regionale di controllo per la Toscana
parere 22.07.2009 n. 198/2009).
Con riguardo, invece, agli incarichi
interni, emerge in modo parimenti nitido la
ratio della norma che condiziona la
corresponsione di un compenso da ripartire
tra i dipendenti più specificamente
interessati alle esaminate attività a una
finalità esclusivamente incentivante e
premiale per l'espletamento di servizi
propri dell'ufficio pubblico. Dal confronto
tra le diverse misure delle incentivazioni,
indicate rispettivamente al comma 5 e 6
dell’art. 92, si ricava altresì con
chiarezza la maggiore complessità della
specifica prestazione da svolgere
nell’ambito della pianificazione urbanistica
rispetto a quella di progettazione .
La predetta qualificazione in termini di
appalto di servizi, con relativo
outsourcing di prestazioni, assume
peraltro diretta rilevanza ai fini della
fattispecie sottoposta all’esame della
Sezione. Se ne deduce, infatti, che, in caso
di affidamento esterno, dovrà comunque farsi
luogo alla nomina di un R.u.p. a cui
affidare i compiti stabiliti dagli artt. 7 e
segg. del D.Lgs.163/2006. L’art. 4 della l.
n. 241/1990 fa, del resto, obbligo più in
generale alle pubbliche amministrazioni di
individuare l’unità organizzativa
responsabile del procedimento:
l’individuazione è di natura preventiva ed
astratta, la cui ratio risiede
nell’esigenza di <<individuazione di
un’autorità che funga da guida per il
procedimento […] gestisca le connessioni tra
le fasi […] dialogando da un lato con i
soggetti privati e dall’altro con gli uffici
e organi coinvolti nell’iter>> (
Relazione della Commissione Cassese).
4. Alla luce della premesse, si può, ora,
infatti, procedere alla disamina dei quesiti
formulati con la nota anzidetta ed in
particolare se l'incentivo
di cui al comma 6, art. 92, D.Lgs. 163/2006
possa essere attribuito al personale
dipendente solo ed esclusivamente nel caso
in cui l'atto di pianificazione sia stato
redatto da personale interno, e inoltre se
tale incentivo possa essere attribuito al
responsabile del procedimento ed eventuali
collaboratori interni anche nel caso di
redazione dell'atto di pianificazione da
parte di un professionista esterno.
Preliminarmente, occorre puntualizzare che
ogni Amministrazione è tenuta ad adottare,
dopo apposita contrattazione decentrata,
specifico Regolamento attuativo,
conformandolo –in virtù dell’espresso rinvio
che fa il comma 6– al sopra enunciato
principio che impone di graduare la misura
dell’incentivo in funzione dell’entità
dell’opera, della sua complessità e delle
responsabilità professionali connesse alle
specifiche prestazioni da svolgere:
complessità che appare, come detto, nella
valutazione del legislatore, superiore nel
caso di pianificazione urbanistica rispetto
a quella di progettazione di opera pubblica.
Dall'insieme delle disposizioni testé
esaminate è dato, inoltre, ravvisare una
netta distinzione tra le ipotesi in cui le
prestazioni richieste vengano riferite ad
uffici (e per essi alle persone fisiche ivi
addette) propri delle Amministrazioni
aggiudicatrici ovvero di altre
Amministrazioni pubbliche di cui le prime si
possono avvalere (progettazione cosiddetta “interna”)
e le ipotesi in cui le stesse
Amministrazioni, sussistendo determinate
condizioni specificamente individuate, si
avvalgano dell'opera professionale di
soggetti privati estranei al proprio
apparato organizzativo o all'organizzazione
amministrativa in generale (progettazione
cosiddetta “esterna”).
Da tali premesse deriva altresì la
conseguenza che (nel caso di progettazione
interna) l'attività tecnica prestata dai
dipendenti addetti ai competenti uffici, per
essere riferita direttamente all’Ente di
appartenenza, è da considerare svolta “ratione
offici” e non “intuitu personae”,
risolvendosi in una modalità di svolgimento
del rapporto di pubblico impiego nel cui
ambito vanno, pertanto, individuati e
risolti i termini della relativa
retribuzione, in conformità ai principi
stabiliti in sede di contrattazione
collettiva nazionale e decentrata
(stipendio, straordinario, premi di
produttività etc.).
Le premesse finora svolte consentono di
fornire gli elementi su cui, nella autonomia
costituzionalmente garantita, l’Ente potrà
operare le proprie valutazioni, ai fini
della corresponsione degli incentivi di che
trattasi.
La Sezione non può esimersi dal
sottolineare, infatti, come la
qualificazione dell’attività di
progettazione urbanistica come prestazione
di servizi implica una complessa
partecipazione multispecialistica che porta
ad allargare necessariamente le figure
professionali coinvolte (oltre a ingegneri,
architetti, urbanisti non possono mancare
geologi, economisti, esperti di mobilità e
infrastrutture, ecc.). Ne è esplicita
conferma in tal senso, del resto, la norma
dell’art. 10 della L.R. 11/2004 che richiede
un quadro conoscitivo, preliminare alla
progettazione, inteso come “il sistema
integrato delle informazioni e dei dati
necessari alla comprensione delle tematiche
svolte dagli strumenti di pianificazione
territoriale ed urbanistica. Le basi
informative che costituiscono il quadro
conoscitivo sono parte del sistema
informativo comunale, provinciale, regionale
e dei soggetti pubblici e privati, ivi
compresi i soggetti gestori di impianti di
distribuzione di energia, che svolgono
funzioni di raccolta, elaborazione e
aggiornamento di dati conoscitivi e di
informazioni relativi al territorio e
all'ambiente; dette basi informative
contengono dati ed informazioni finalizzati
alla conoscenza sistematica degli aspetti
fisici e socio-economici del territorio,
della pianificazione territoriale e della
programmazione regionale e locale”.
La realizzazione del quadro conoscitivo
richiede, quindi, il coinvolgimento di
molteplici figure professionali, per via dei
temi da analizzare che riguardano la
generalità delle caratteristiche del
territorio comunale: alle “Analisi
urbanistiche di rito” (edificazioni,
urbanizzazioni primarie, servizi secondari,
edilizia pubblica, presenza di aree e/o
manufatti di interesse ambientale storico
monumentali, archeologico, interessate da
una puntuale schedatura), si aggiungono le
analisi ambientali, idrogeologiche e
sull’inquinamento; i due profili si
integrano a vicenda per un idoneo risultato
di analisi e di V.A.S. e si aggiungono alle
professionalità afferenti alla gestione
informatizzata di banche dati
georeferenziate G.I.S. (ing. Informatico/
programmatore analista ecc… ) e le
professionalità afferenti la rilevazione e
l’aggiornamento cartografico topografico. Né
va sottaciuto l’aspetto normativo di
attuazione delle scelte di Piano per il
quale è sempre più necessaria una verifica
da parte di un esperto legale con
specializzazione nelle materie urbanistiche.
Peraltro, agli uffici Comunali, anche nel
caso non siano direttamente coinvolti nella
specifica progettazione, è spesso affidato,
oltre al compito istituzionale di “Verifica
tecnica“ legata alla approvazione finale
degli atti da parte del Consiglio Comunale,
una attività di ricerca, organizzazione e
trasmissione ai progettisti dei dati
storici, dell’attività edilizia,
urbanistica, ambientale dell’Ente: in
particolare, quando le diverse “analisi”
e “verifiche” sono affidate a
professionisti e ditte specializzate con
incarichi separati, molto spesso all’Ufficio
compete una non trascurabile attività di
coordinamento delle diverse attività.
Ne consegue, ad avviso della Sezione, che la
genericità del riferimento del comma 6 a chi
“abbia redatto” e non già a chi abbia
“progettato” consente certamente di
estendere la partecipazione all’incentivo
anche a chi non sia specificamente
progettista del “piano”, ma abbia
partecipato comunque (con un ruolo
qualificato) alla sua “redazione”: e
ciò similmente a quanto stabilito dalla
norma in esame per la partecipazione
all’incentivo in materia di lavori pubblici
quando il comma 5 richiede al dirigente “l’accertamento
positivo delle specifiche attività svolte
dai predetti dipendenti”.
La Sezione delle Autonomie della Corte dei
conti, in sede di risoluzione di questione
di massima, con la
deliberazione 08.05.2009 n.
7/SEZ/AUT/2009/QMIG ha, infatti,
osservato al riguardo che “L’aver(…)
legato la provvista delle risorse ad ogni
singola opera con riferimento all’importo a
base di gara e aver previsto la ripartizione
delle somme così determinata per ogni
singola opera, evidenzia il chiaro intento
di stabilire una diretta corrispondenza di
natura sinallagmatica tra incentivo ed
attività compensate.
Ed invero la Suprema Corte ha ritenuto che
il diritto all’incentivo di cui si sta
trattando, costituisce un vero e proprio
diritto soggettivo di natura retributiva
(Cass. Sez. Lav., sent. N. 13384 del
19.07.2004) che inerisce al rapporto di
lavoro in corso, nel cui ambito va
individuato l’obbligo per l’Amministrazione
di adempiere, a prescindere dalle condizioni
e dai presupposti per rendere concreta
l’erogazione del compenso (…).
In sostanza dal compimento dell’attività
nasce il diritto al compenso (…). Ciò
perché, ai fini della nascita del diritto
quello che rileva è il compimento effettivo
dell’attività; dovendosi, anzi, tenere
conto, per questo specifico aspetto, che per
le prestazioni di durata, cioè quelle che
non si esauriscono in una puntuale attività,
ma si svolgono lungo un certo arco di tempo,
dovrà considerarsi la frazione temporale di
attività compiuta (…)".
Se, infatti, l'incentivo è liquidabile
soltanto ai soggetti che hanno realmente e
documentalmente svolto le attività per le
quali lo stesso è previsto, appare evidente
che l’attività del Responsabile unico del
procedimento, ove non supportata da quella
di altri suoi collaboratori, potrebbe essere
maggiormente valorizzata in sede
regolamentare, anche se non potrebbe, in
nessun caso, assorbire l'incentivazione
correlata all’apporto di liberi
professionisti o di altre Amministrazioni
pubbliche senza tradire il principio secondo
il quale le prestazioni affidate a personale
esterno all’organico dell’Ente determinano
corrispondenti economie di bilancio (Corte
Dei Conti, Sezione Regionale di Controllo
per la Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
La giurisprudenza ha chiarito, del resto,
sia pure nell’ambito della realizzazione di
un'opera pubblica, che costituisce danno
erariale la liquidazione integrale
dell'incentivo ex art. 18, comma 1, legge n.
109 del 1994 (ora art. 92, comma 5, d.lgs.
n. 193 del 2006) quando parte delle
prestazioni progettuali sono affidate a
tecnici esterni all'amministrazione (Corte
dei conti, Sez. Calabria,
sentenza 28.09.2007 n. 801).
5. Chiariti i su descritti profili
funzionali, si possono illustrare gli
ulteriori profili normativi dell’art. 92,
comma 6, che consentono di circoscrivere
l’ambito entro il quale l’Ente può
esercitare correttamente il potere
discrezionale di commisurazione del compenso
incentivante spettante a propri dipendenti:
e quindi rispondere al terzo quesito
afferente quale sia il
rapporto tra il massimo dell'incentivo pari
al 30% della tariffa professionale
attribuibile al personale interno e la spesa
sostenuta per il professionista esterno che
ha redatto l'atto.
Dalle premesse sin qui svolte, e in
particolare dal fatto che il fondo
incentivante per i dipendenti degli enti
pubblici non può essere attribuito senza lo
stretto riferimento alle concrete attività
prestate dal funzionario (Corte dei conti,
Sez. Calabria,
sentenza 28.09.2007 n. 801),
emerge con chiarezza che spetterà al
Regolamento –in mancanza del quale “… è
illegittimo il comportamento
dell’amministrazione che proceda al
pagamento dell’incentivo” Autorità di
Vigilanza sui Lavori Pubblici (ora Autorità
di Vigilanza sui Contratti Pubblici di
Lavori, Servizi e Forniture)
deliberazioni 12.04.2001 n. 123 e
22.06.2005 n. 70- stabilire con
le modalità ed i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata la misura della
quota parte spettante al responsabile del
procedimento tecnico, senza che a questi
possa essere liquidata, in caso di mancato
svolgimento dell’attività da parte di
questi, la quota relativa alla
pianificazione esterna o che questa possa
essere in essa assorbita.
Discende, invero, dal precetto normativo che
la pianificazione, se affidata a privati
professionisti (cd. esterna) o ad uffici di
altre amministrazioni pubbliche di cui
l’ente si possa avvalere (cd. interna),
determina comunque economie di bilancio
nell’applicazione dell’incentivo e
presuppone l’utilizzo degli ulteriori fondi
previsti (in termini, cfr. Corte dei conti,
Sezione regionale di controllo per la
Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008).
L’analogia col comma 5 in caso di lavori
implica quindi il doveroso frazionamento
dell’incentivo totale della “redazione di
atti urbanistici” in quote di
prestazioni parziali, sì da poter
corrispondere l’incentivo -anche in caso di
prestazioni parzialmente esternalizzate-
limitatamente a quelle svolte da personale
interno.
6. E’ quindi possibile procedere ora alla
disamina del quarto quesito, inerente
cioè la circostanza se tale
somma per la redazione degli atti di
pianificazione rientri nel più ampio
concetto degli "incentivi per la
progettazione interna" non computati ai
fini dell'aggregato "spesa di personale"
come indicato nella Delibera della Corte dei
Conti in Sezione delle Autonomie n. 16/2009.
La qualificazione della spesa in questione
deve tenere conto delle coordinate
ermeneutiche di fondo in cui essa si
inserisce, alla luce di quanto evidenziato
dalla Sezione autonomie della Corte dei
conti con
delibera 13.11.2009 n. 16/2009:
essa non deve pertanto essere computata come
spesa del personale qualora vi sia una
diversa natura degli incentivi de quibus
rispetto alla generica spesa per il
personale (come nel caso di cc.dd. "incentivi
per la progettazione interna"); oppure
si tratti di compensi pagati con fondi che
si autoalimentano con i frutti dell'attività
svolta dai dipendenti, e, di conseguenza,
non comportano un effettivo aumento di
spesa, come nel caso dei diritti di rogito e
degli incentivi per il recupero dell'ICI.
Sotto il profilo considerato,
l’assimilazione fatta in termini di appalto
di servizi per gli incarichi esterni, e lo
stesso richiamo fatto dal comma 6
dell’articolo al comma 5 dell’art. 92 del
d.lgs. 163/2006, inducono a ritenere che
l’ipotesi presenta marcate analogie con
quella dei cc.dd. "incentivi per la
progettazione interna", dal momento che
si tratta di norme speciali e derogatorie
alla disciplina generale del trattamento
accessorio del personale (Corte dei Conti,
Sez. controllo Veneto,
parere 26.07.2011 n. 337). |
PUBBLICO IMPIEGO:
1. Il conferimento di incarichi
dirigenziali anche a soggetti esterni
all’amministrazione, ex art. 19, commi 6 e
6-bis, del D. Lgs. n. 165/2001, impone che
questi abbiano, oltre ai requisiti
professionali richiesti, il titolo di studio
della laurea previsto dall’art. 28 del
D.Lgs. n. 165/2001.
2. Con riferimento all’ambito entro il quale
deve essere verificata l’assenza di soggetti
dotati di comprovata e particolare
qualificazione professionale, onde poter
procedere al conferimento dell’incarico a
soggetti “esterni”, l’aver ammesso che tra
questi soggetti vi possano essere coloro
che, oltre a possedere il titolo di studio
indicato, abbiano maturato concrete
esperienze lavorative per almeno un
quinquennio, anche presso la stessa
amministrazione che conferisce l’incarico,
in posizione funzionale prevista per
l’accesso alla dirigenza, induce a ritenere
che la locuzione “non rinvenibile nei ruoli
dell’amministrazione” sia da circoscrivere
ai soli ruoli “dirigenziali” della stessa.
1.
... Le argomentazioni sopra riportate non
possono essere condivise, né può essere
condivisa la conclusione che l’incarico
dirigenziale di cui tratta il comma 6
del’art. 19 del TUIP, nei termini in cui è
ora applicabile anche agli Enti locali,
possa essere conferito a soggetti privi di
laurea che, tuttavia, "abbiano svolto
attività in organismi ed enti pubblici o
privati o aziende pubbliche o private con
esperienza acquisita per almeno un
quinquennio in funzioni dirigenziali”,
così da acquisire una particolare e
comprovata qualificazione professionale.
La tesi dell’Ente istante si fonda sulla
interpretazione meramente testuale, se non
addirittura lessicale, della “lettera”
della disposizione. Tuttavia, un’esegesi
fondata sul solo dato letterale della
disposizione non appare appagante e le
conclusioni cui, per questa via, si perviene
restano incerte. Si consideri, in proposito,
che la Sezione di controllo per la
Lombardia, con la
delibera 12.11.2009 n. 1001, è
giunta alla conclusione che il dato “testualmente”
ricavabile dalla lettera dell’art. 19, c. 6,
del TUIP, come novellato dal D.Lgs. n.
150/2009, depone nel senso della necessaria
compresenza di entrambi i requisiti, titolo
di laurea ed esperienza lavorativa.
In verità la questione posta dalla Provincia
di Potenza in sede consultiva, negli stessi
termini ora prospettati, è già stata
affrontata dalla Corte dei conti in sede di
controllo preventivo di legittimità, ancora
prima della estensione della disposizione
alle Autonomie locali.
La Sezione del controllo di legittimità su
atti del Governo, nell’adunanza congiunta
del I e II Collegio del 09.01.2003, con la
delibera 04.02.2003 n. 3/2003, ha
ricusato il visto del provvedimento di
nomina a dirigente di seconda fascia di un
soggetto esterno al ruolo per mancanza del
titolo adeguato di studio.
Osservava la Sezione che “il criterio
secondo il quale il legislatore ha inteso
disciplinare l’immissione nell’esercizio di
funzioni dirigenziali di soggetti, quali
essi siano, in precedenza già non investiti
di tale qualifica, risulta evidentemente
informato alla volontà di acquisire
professionalità estranee, tali da presentare
qualità aggiuntive e comunque non minori
rispetto ai già elevati requisiti previsti
per le nomine di funzionari appartenenti ai
ruoli dirigenziali.
Tanto premesso, consegue da ciò attraverso
una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6°,
che la facoltà da tale norma prevista
richiede, nei suoi destinatari, il
concorrente possesso di una particolare
specializzazione, sia professionale, che
culturale e scientifica; quando si passi
all’accertamento di tali requisiti, in
relazione alle funzioni da attribuire,
l’interprete, dal canto suo, non può
sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo,
della presenza di tutti gli elementi che
complessivamente rendono il soggetto idoneo
all’incarico.
Ne discende che, ferma rimanendo l’esigenza
dell’accertamento di un livello di
formazione culturale identificabile nel
possesso della laurea, gli elementi che
configurano e completano in estranei il
profilo della professionalità debbano,
insieme ad altri, ricavarsi dal già
disimpegnato esercizio di funzioni almeno di
pari rilevanza di quelle previste nel nuovo
compito.
Quindi, oltre all’accertato possesso di
sufficiente formazione culturale, in un
contesto normativo in cui è però prevista
l’attribuzione di incarichi dirigenziali
previa verifica della sussistenza di livelli
di formazione particolarmente elevati,
occorre che la valutazione venga estesa ad
un puntuale esame dei curricula degli
incaricandi”.
Le argomentazioni così svolte sono state
condivise anche in sede consultiva, sia
prima (Sezione di controllo Lombardia,
parere 31.10.2006 n. 20) che
successivamente alla parziale riscrittura
dell’art. 19 del TUIP ad opera del D.Lgs. n.
150/2009 (Sezione regionale Veneto
parere 24.11.2010 n. 275).
Ad analoghe conclusioni è giunto anche il
Dipartimento per la funzione pubblica che,
con
parere 30.05.2008 n. 35, ha
osservato che per gli Enti locali il
requisito di studio richiesto dalla legge
per il conferimento di incarico dirigenziale
è lo stesso disposto, in generale, dall’art.
28 del D.Lgs. n. 165/2001, e consiste nel
titolo di laurea. In precedenza, a proposito
delle Camere di Commercio, si era espresso
in termini identici lo stesso Dipartimento
col
parere 15.01.2003
n. 169/2003 di prot..
A conferma delle argomentazioni sostenute
per ritenere la laurea titolo di studio
necessario per il conferimento di incarichi
dirigenziali anche presso gli Enti locali,
giova osservare che proprio la Corte
Costituzionale, con la decisione n. 324 del
2010, ricordata dall’Ente istante, ha
ritenuto che la disciplina dettata dall’art.
19, commi 6 e 6-bis, del D.Lgs. n. 165/2001,
riguardi tutte le amministrazioni pubbliche,
anche quelle locali, e attiene (tra l’altro)
ai requisiti soggettivi che devono essere
posseduti dal contraente privato, requisiti
che, dunque, non possono che essere identici
per tutte le fattispecie in cui si dà luogo
a un incarico dirigenziale.
Conclusivamente, ritiene la Sezione che il
conferimento di incarichi dirigenziali anche
a soggetti esterni all’amministrazione,
impone che questi abbiano, oltre ai
requisiti professionali richiesti, i titoli
di studio previsti dall’art. 28 del D.Lgs.
n. 165/2001.
2.
... Con riferimento all’ambito entro il
quale deve essere verificata l’assenza di
soggetti dotati di comprovata e particolare
qualificazione professionale, onde poter
procedere al conferimento dell’incarico a
soggetti “esterni”, ritiene la
Sezione che l’aver ammesso che tra questi
soggetti vi possano essere coloro che, oltre
a possedere il titolo di studio indicato,
abbiano maturato concrete esperienze
lavorative per almeno un quinquennio, anche
presso la stessa amministrazione che
conferisce l’incarico, in posizione
funzionale prevista per l’accesso alla
dirigenza, induce a ritenere che la
locuzione “non rinvenibile nei ruoli
dell’amministrazione” sia da
circoscrivere ai soli ruoli “dirigenziali”.
Del resto, la disposizione dettata dal comma
6 del citato art. 19 TUIP consente, entro
limiti percentuali stretti, di conferire
incarichi dirigenziali a soggetti che sono
al di fuori del ruolo dei dirigenti di cui
all’art. 23 TUIP. Ciò lascia ragionevolmente
intendere che la limitazione del diritto del
dirigente (di ruolo) all’ottenimento di un
incarico presuppone che, per esso, non vi
siano professionalità rinvenibili tra i
dirigenti di ruolo dell’amministrazione.
Diversamente, se si dovesse ritenere che i “ruoli”
dell’amministrazione, mancanti della
particolare qualificazione professionale,
siano quelli in cui è inquadrato tutto il
personale della amministrazione, verrebbe
meno la possibilità stessa di rendere
applicabile quella parte della disposizione
sopra citata.
Argomenti in questo senso possono essere
tratti dalla delibera n. 13/2004 della
Sezione centrale di controllo di
legittimità, resa nell’adunanza del
25.11.2004 (Corte dei Conti, Sez. controllo
Basilicata,
parere 21.06.2011 n. 29). |
UTILITA' |
ENTI LOCALI - VARI:
ddl AC 4612 "Disegno di legge: S. 2887 - "Conversione
in legge, con modificazioni, del decreto
legge 13.08.2011, n. 138, recante ulteriori
misure urgenti per la stabilizzazione
finanziaria e per lo sviluppo. Delega al
Governo per la riorganizzazione della
distribuzione sul territorio degli uffici
giudiziari" (dossier centro studi 535 - link a
www.camera.it).
---------------
Schede di lettura per comprendere al
meglio la portata di ogni singolo articolo e
comma del testo siccome approvato da Senato.
Verosimilmente, il testo sarà approvato tal
quale dalla Camera questa settimana poiché
il Governo porrà l'ennesima questione di
fiducia.
Per comodità di lettura, si legga anche il
testo originario e il nuovo testo a
confronto
cliccando qui (link a
www.leggioggi.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Documentazione
da tenere in cantiere. Ecco il quadro
completo.
Conservare la documentazione in cantiere
rappresenta uno degli adempimenti più
importanti e delicati per la gestione della
sicurezza.
La documentazione risulta molto spesso
cospicua: si va dai documenti a carattere
generale (notifica preliminare, piani di
sicurezza, piani di lavoro, tesserini di
riconoscimento, etc.) fino alla
documentazione specifica relativa ai
macchinari e alle attrezzature
(dichiarazioni CE delle attrezzature,
registri di controllo, etc.).
Il Coordinamento dei CPT della Lombardia, al
fine di garantire la sicurezza per i
lavoratori dei cantieri edili, ha pubblicato
un documento contenente il quadro sinottico
della principale documentazione che deve
essere tenuta in cantiere.
Il documento, chiaro e sintetico, fornisce
indicazioni su tutta la documentazione con
indicazioni su chi deve emetterla, chi è il
destinatario e il punto normativo di
riferimento, oltre alle note
(08.09.2011 - link a www.acca.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Controllo preventivo per gli atti
della p.a.. Pubblicata la circolare delle
Ragioneria generale dello stato.
Atti della p.a. passati ai raggi X. Tutti
gli atti che hanno riflesso sui bilanci
dello stato, delle altre amministrazioni
pubbliche e degli organismi pubblici, devono
passare il vaglio del controllo preventivo.
In casi di irregolarità, l'ufficio che
esamina il documento deve restituirlo
all'amministrazione procedente che ha 30
giorni di tempo per rimuoverle e
contemporaneamente notiziare l'ufficio di
controllo della Corte dei conti dei rilievi
sollevati.
Sono alcune delle precisazioni
contenute nella
circolare
07.09.2011 n. 25 della
Ragioneria generale dello stato con cui si forniscono le prime
indicazioni applicative delle disposizioni
contenute nel dlgs n. 123/2011, (si veda
ItaliaOggi del 05.07.2011), entrato in vigore
lo scorso 18 agosto. E che ha operato un
riordino delle norme di controllo e
regolarità amministrativa e contabile per
gli atti della p.a.
La sottoposizione al controllo preventivo
riguarda tutti gli atti delle p.a. dai quali
derivino effetti finanziari per le casse
erariali. Alcune amministrazioni sono
espressamente esentate da questa procedura.
Si tratta degli organi costituzionali e di
quelli a rilevanza costituzionale (per
esempio, Camera, Senato, Consiglio di stato
e Corte dei conti). Gli uffici deputati al
controllo preventivo sono quelli della
stessa Ragioneria generale dello stato per
quanto riguarda le amministrazioni centrali,
per il tramite degli uffici centrali del
bilancio e le ragionerie territoriali
dislocate sul territorio. Queste ultime
eserciteranno la vigilanza sugli atti
emanati dalle amministrazioni periferiche.
Le fasi del controllo interessano sia quello
amministrativo che contabile, in un contesto
comunque unico.
Di particolare importanza il
controllo contabile, afferente alla fase
dell'impegno di spesa, nell'ottica del
potenziamento degli strumenti di controllo e
di monitoraggio già in essere presso la
Ragioneria generale dello Stato. In
particolare, qualora l'atto violi
disposizioni che prevedono limiti a talune
tipologie di spesa (per esempio, i tetti di
spesa) l'iter si blocca e l'ufficio di
controllo li deve restituire
all'amministrazione, senza che operi la
regola del cosiddetto silenzio-assenso.
La fase del controllo amministrativo è
quella che verifica la concordanza degli
atti con la normativa vigente, al termine
della quale, in caso di esito positivo, si
appone il visto di regolarità amministrativa
e contabile. Se sussistono rilievi,
l'ufficio muove una formale osservazione,
indicando le violazioni e richiedendo la
risposta del dirigente della p.a. entro 30
giorni. In caso di inerzia il provvedimento
viene restituito senza alcun visto.
L'osservazione non resta fine a se stessa.
Infatti, tra le previsioni vi è quella di
trasmettere all'ufficio di controllo della
Corte dei conti, gli atti di spesa sotto
«inchiesta».
Non viene lesa, poi, la possibilità di
procedere a un controllo «successivo». Il dlgs n. 123/2011 infatti prevede la
possibilità di procedere al riscontro di
regolarità, secondo un programma sulla
scorta di criteri che saranno definiti con
apposito decreto ministeriale. Il controllo
sui rendiconti si conclude con il discarico
del contabile, se il rendiconto è regolare,
ovvero con l'invio di una nota di
osservazione al contabile, in caso di
irregolarità, cui lo stesso dovrà rispondere
con «controdeduzioni». Senza dimenticare che
il rendiconto «traballante» dovrà
essere trasmesso alla competente sezione
regionale di controllo della Corte dei conti
(articolo ItaliaOggi del
09.09.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
NEWS |
PUBBLICO IMPIEGO: MANOVRA
BIS/ Dirigenti sulla graticola (ma non
tutti). Chi è a tempo determinato dribbla i
vincoli alle assunzioni posti alle p.a..
Dirigenti sulla
graticola, ma quelli a tempo determinato
dribblano i vincoli alle assunzioni posti
alle amministrazioni statali.
Non c'è, ormai, manovra finanziaria che non
intervenga sulla retribuzione dei dirigenti
e sul reclutamento di quelli a contratto. Il
dl 138/2011, come integrato dal
maxiemendamento, non fa eccezione.
Mancato rispetto degli
obiettivi di risparmio.
Nel caso in cui i ministeri manchino il
raggiungimento degli obiettivi di risparmio,
ai sensi del secondo periodo del comma 12
dell'articolo 10 del dl 98/2011, convertito
in legge 111/2011, sarà applicata una
riduzione della retribuzione di risultato
dei dirigenti responsabili nella misura del
30%.
Secondo il Servizio studi del senato la
norma, contenuta nell'articolo 1, comma 7,
del dl 138/2011 si sarebbe dovuta applicare
a tutte le pubbliche amministrazioni. Il
nuovo testo derivante dal maxiemendamento,
che elimina il riferimento all'articolo 1,
comma 2, del dlgs 165/2001, convince,
invece, il Servizio studi della camera che
la disposizione valga solo per le
amministrazioni dello stato. I cui
dirigenti, dunque, dovranno prestare
particolare occhio agli obiettivi indicati
per l'anno considerato dal Documento di
economia e finanza (Def) e da eventuali
aggiornamenti, come approvati dalle relative
risoluzioni parlamentari, nonché agli
obiettivi di risparmio in termini di saldo
netto da finanziare e indebitamento netto
per i ministeri.
La norma, tuttavia, non chiarisce se e come
la sanzione per i dirigenti possa essere
scongiurata, laddove lo scostamento dagli
obiettivi possa essere conseguenza
dell'applicazione di direttive imposte dai
ministri stessi, causa non secondaria del
mancato conseguimento di risparmi. Il che
potrebbe portare a pensare che si tratti o
di una norma «di facciata», in
effetti inapplicabile, oppure di uno scudo
di responsabilità: pagheranno comunque i
dirigenti, anche per scelte dei ministri non
proprio in linea con la programmazione
economica.
Dirigenti a tempo
determinato.
Chi, invece, resta accuratamente fuori da
tagli e vincoli è la dirigenza a tempo
determinato. L'articolo 1, comma 4, del dl
138/2011 impone alle amministrazioni statali
un ulteriore taglio alla dotazione organica
dei dirigenti e dei dipendenti delle altre
qualifiche, comminando alle amministrazioni
inadempienti la sanzione del divieto di
procedere ad assunzioni di personale a
qualsiasi titolo e con qualsiasi contratto.
Ma, da tale divieto saranno esclusi gli
incarichi dirigenziali conferiti a soggetti
esterni all'amministrazione di riferimento,
ai sensi dell'art. 19, commi 5-bis e 6, del
dlgs 165/2001.
Insomma, nonostante le ristrettezze
economiche, i contributi di solidarietà e la
contrazione delle dotazioni, allo spoil
system, del quale gli incarichi a
contratto costituiscono uno strumento
attuativo fondamentale, proprio non si
rinuncia. Anche quando un'amministrazione
risulti poco virtuosa nel tagliare le
dotazioni organiche.
Si fanno salvi gli incarichi a contratto
nonostante la Corte costituzionale abbia
considerato contrari alla Costituzione
incarichi dirigenziali sorretti da un
rapporto fiduciario e nonostante
recentissimamente il Tar Lazio abbia
pesantemente censurato l'abuso dell'articolo
19, comma 6, del dlgs 165/2001 per assegnare
incarichi dirigenziali a funzionari interni,
precludendo del tutto una selezione seria di
nuove competenze, mediante concorsi
(articolo ItaliaOggi del
10.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI: MANOVRA
BIS/ Utility, liberalizzazioni spuntate. La
soglia di 900 mila euro per l'in house è
troppo elevata. I rilievi della camera. A
rischio l'apertura alla concorrenza a causa
di comportamenti elusivi.
Altro che
liberalizzazioni delle utility.
L'ammissibilità degli affidamenti in house
per contratti di valore pari o inferiore a
900 mila euro annui rischia di non centrare
l'obiettivo di aprire alla concorrenza i
servizi pubblici locali. Tale soglia,
infatti, «è oggettivamente troppo elevata» e
si presta «facilmente a comportamenti
elusivi da parte delle amministrazioni che
non intendono procedere agli affidamenti
tramite gara».
Ad affermarlo è il servizio bilancio della
camera che ha passato al setaccio le norme
della manovra bis appena arrivate a
Montecitorio per il varo definitivo.
Ed è proprio la parte relativa alle
liberalizzazioni quella che maggiormente non
convince i Fini-boys. L'art. 4 del dl 138,
solo in minima parte modificato dal
maxiemendamento del governo, riscrive la
disciplina spazzata via dai referendum di
giugno.
L'affidamento tramite gara non è più un
obbligo ma viene chiesto agli enti locali di
limitare l'attribuzione di diritti di
esclusiva alle «ipotesi in cui, in base a
una analisi di mercato, la libera iniziativa
economica privata non risulti idonea a
garantire un servizio rispondente ai bisogni
della comunità». Ragion per cui i motivi
che inducono gli enti a decidere di
sottrarre un servizio alla liberalizzazione
dovranno essere esplicitati chiaramente in
una delibera quadro.
La manovra non cancella gli affidamenti in
house ma stabilisce un limite di valore al
di sotto del quale possono essere disposti a
favore di società a capitale interamente
pubblico che abbiano i requisiti richiesti
dall'ordinamento europeo. Ma è proprio
l'aver fissato l'asticella a 900 mila euro a
non convincere i tecnici della Camera. E non
solo. Perché sul punto si è già espressa a
fine agosto, con analoghe argomentazioni,
l'Autorità garante della concorrenza e del
mercato.
In entrambi i casi i dubbi vertono
sull'ammontare della soglia, considerato da
un lato troppo alto («tale da poter
determinare, per alcuni settori di attività
economica, una sottrazione quasi integrale
dai necessari meccanismi di concorrenza per
il mercato») e dall'altro non
sufficiente a evitare condotte elusive.
Basterebbe infatti frazionare gli
affidamenti in tante tranche, ciascuna di
valore inferiore a 900.000 euro annui, per
poterle poi attribuire tutte direttamente a
controllate in house. Una
considerazione che ha portato l'Antitrust a
ritenere il sistema introdotto meno efficace
di quello previgente, ma al tempo stesso non
migliorabile con modifiche al ribasso della
soglia «data l'arbitrarietà con cui
qualsiasi valore verrebbe eventualmente
determinato».
Non convince anche il regime transitorio per
gli affidamenti diretti. Il comma 32
dell'articolo 4 prevede che gli affidamenti
diretti, relativi a servizi il cui valore
economico superi i 900.000 euro annui,
cessano improrogabilmente al 31.03.2012; per
i servizi di valore inferiore a 900.000
annui vale la scadenza originaria
dell'affidamento. Perché allora fissare una
soglia di valore? Se lo chiede anche
l'Autorità garante presieduta da Antonio
Catricalà.
«Appare del tutto inconferente un valore
predeterminato del servizio quale criterio
per giustificare la prosecuzione degli
affidamenti, effettuati in house, sino alla
loro scadenza naturale». «Inoltre»,
prosegue, «la norma, per come formulata,
stabilisce l'esenzione dalla scadenza
anticipata per tutti gli affidamenti
diretti, non solamente per quelli in house,
ampliando ulteriormente, rispetto a quanto
previsto dal comma 13 per i nuovi
affidamenti, la platea dei soggetti che
possono continuare a gestire servizi
pubblici locali senza aver vinto alcuna gara»
(articolo ItaliaOggi del 10.09.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO: MANOVRA
BIS/ Festività, dubbi sulla sorte di Santo
Stefano e Pasquetta.
Salvate dall'oblio le festività civili più
rappresentative dell'Unità e della storia
d'Italia, 25 aprile, 1° maggio e 2 giugno,
resta da capire quali potranno essere,
allora, le giornate di festa che un decreto
del presidente del consiglio da adottare
entro il 30 novembre di ogni anno avrà il
potere di far cadere il venerdì precedente o
il lunedì seguente la prima domenica
successiva, ovvero la domenica successiva
stessa, ai sensi dell'articolo 1, comma 24,
della manovra finanziaria.
La possibilità di accorpare le festività per
evitare i ponti lunghi e assicurare un
incremento di produttività del lavoro e del
pil esclude le feste introdotte con legge
dello stato conseguenti ad accordi con la
Santa sede, in altre parole le «feste
religiose», che sono la maggioranza.
Ad elencarle è l'articolo 2 del dpr
792/1985, ai sensi del quale sono festività
religiose tutte le domeniche, il 1° gennaio
(Maria Santissima Madre di Dio), il 6
gennaio (Epifania del Signore), il 15 agosto
(Assunzione della Beata Vergine Maria), il
1° novembre (tutti i Santi), l'8 dicembre
(Immacolata Concezione della Beata Vergine
Maria), il 25 dicembre (Natale del Signore)
e, solo per il comune di Roma il 29 giugno
(SS. Pietro e Paolo).
Non sono, dunque, festività scaturenti da
accordi con la Santa Sede oltre alle
festività «civili» che il
maxiemendamento ha salvato, il giorno di
lunedì dopo Pasqua e il 26 dicembre. Dunque,
il decreto del Presidente del consiglio si
dovrebbe limitare a spostare solo queste due
feste, oltre a quelle dei santi patroni.
Tanto rumore per nulla, o quasi, si potrebbe
dire. Accorpare, infatti, il lunedì di
Pasqua al lunedì non ha oggettivamente molto
senso. Rendere festivo il venerdì
precedente, legato alla Passione di Cristo è
impensabile. Accorpare il lunedì di Pasqua
alla domenica servirebbe solo a mettere in
forte difficoltà le famiglie, che si
vedrebbero costrette a sacrificare un giorno
di ferie per stare a casa con i figli
studenti, visto che le vacanze pasquali
scolastiche non le tocca nessuno. Lo stesso
avverrebbe per il 26 dicembre. Eliminando,
per altro, questa festa, solitamente legata
al «recupero» psicofisico dal cenone
natalizio servirebbe proprio poco alla causa
dell'incremento del pil.
Probabilmente, visto la limitata portata
dell'intervento del dpcm sulle festività e
la ancor minore influenza sul pil, sarebbe
stato meglio eliminare del tutto il comma
24. La cui unica maggiore produttività
appare, oggettivamente, la sola attività
burocratica necessaria per emanare un
decreto del Presidente del consiglio, fonte
giuridica che meriterebbe miglior spolvero
(articolo ItaliaOggi del 10.09.2011). |
APPALTI: Appalti
pubblici: arrivano i bandi-tipo.
Al via i bandi-tipo per gli appalti pubblici
di lavori, forniture e servizi e la messa a
punto dei costi standard per il settore
della sanità. Il passaggio alla definizione
concreta dei bandi-tipo per gli appalti
pubblici è stato deciso ieri dal Consiglio
dell'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici presieduta da Sergio Santoro.
Ora l'iter prevede il passaggio per
l'audizione che si terrà il 29 settembre,
quando saranno sentiti gli operatori del
settore e i rappresentanti delle principali
stazioni appaltanti che porteranno le loro
osservazioni sul documento di consultazione
diffuso sul sito dell'Authority
(www.avcp.it). Gli aspetti di maggiore
rilievo oggetto della consultazione
riguarderanno la tassatività delle clausole
a pena di esclusione al fine di ridurre i
costi degli adempimenti amministrativi e del
contenzioso; il peso del costo del lavoro
nella valutazione delle offerte per
garantire in ogni caso il rispetto dei
minimi salariali, con particolare attenzione
alla fase di esecuzione delle commesse nella
quale si può sviluppare una efficace e reale
azione di contrasto al lavoro nero e al
lavoro sottopagato.
Scopo del lavoro
dell'Autorità è quello di ridurre
sensibilmente i costi finanziari e gli oneri
amministrativi a carico delle stazioni
appaltanti e delle imprese, generati dai
meccanismi delle attuali procedure di
affidamento e gestione dei contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture. Per
realizzare questo scopo l'Autorità ritiene
necessario costruire un efficace sistema di
controllo della gestione e della esecuzione
dei singoli contratti, funzionale all'avvio
dei cicli di spending review, in modo
da ottimizzare l'impiego delle risorse
finanziarie pubbliche, evidenziando quelle
allocate su progetti non operativi e dando
così certezze sia dei tempi di pagamento,
che del finanziamento di nuovi progetti di
sviluppo.
L'Autorità ha altresì in corso, in
collaborazione con le altre pubbliche
amministrazione interessate, le attività per
l'elaborazione dei costi standard, così come
prescritto per il settore della sanità dal
dl 98/2011 che prevede debbano essere
operativi a partire dal primo luglio 2012
(articolo ItaliaOggi del
09.09.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi
pubblici, vale tutto il servizio. Sentenza
della Corte di giustizia Ue.
L'esclusione del
servizio a termine dai requisiti di un
concorso pubblico costituisce
discriminazione vietata dal diritto
comunitario.
Lo stabilisce la Corte di giustizia Ue nella
sentenza n. C/177 emessa ieri in relazione
alla Direttiva 1999/70 sul lavoro a tempo
determinato.
In particolare, la pronuncia
stabilisce che non è possibile subordinare
il diritto alla promozione interna nel
pubblico impiego, aperta ai dipendenti di
ruolo, alla condizione che i candidati
abbiano prestato servizio per un certo
periodo in qualità di dipendenti di ruolo ma
escludendo di prendere in considerazione
quei periodi compiuti, invece, come
dipendenti a tempo determinato. La questione
verte, fondamentalmente, sul divieto di
discriminazione previsto dalla direttiva Ue
tra lavoratori a termine e lavoratori a
tempo indeterminato.
In primo luogo, la
Corte di giustizia ricorda che la direttiva
1999/70 si applica pure ai contratti e ai
rapporti di lavoro a tempo determinato
conclusi nel settore pubblico. Quindi
aggiunge che l'accordo esige che sia esclusa
ogni disparità di trattamento tra dipendenti
di ruolo e dipendenti temporanei, a meno che
un trattamento diverso sia giustificato da
ragioni oggettive (spetta stabilirlo al
giudice nazionale). Al fine di determinare
se, in un caso concreto, l'eventuale mancato
riconoscimento dei periodi di lavoro
compiuti dal lavoratore in qualità di
dipendente a termine costituisca
discriminazione, la Corte rinvia al giudice
di stabilire, in primo luogo, se il
lavoratore si trovava, nel momento in cui
esercitava le sue funzioni in qualità di
dipendente temporaneo, in una situazione
paragonabile a quella dei dipendenti di
ruolo ammessi al concorso.
In tale verifica,
il giudice deve prendere in particolare
considerazione la natura delle funzioni
svolte dal lavoratore come dipendente
temporaneo e la qualità dell'esperienza che
egli ha a questo titolo acquisito. Solo se
le funzioni corrispondono è possibile che il
lavoratore abbia subito o sia esposto a
discriminazioni
(articolo ItaliaOggi del
09.09.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: MANOVRA
BIS/ Mini-enti, bilanci
in compagnia.
Approvazione dei conti tramite unioni o
convenzioni. I comuni sotto i 1.000 abitanti
devono svolgere in forma associata funzioni
amministrative e servizi.
Tutte le funzioni amministrative, ivi
compresa l'approvazione del bilancio, devono
essere gestite da parte dei comuni con
popolazione inferiore a 1.000 abitanti
tramite unioni dei comuni ovvero tramite
convenzioni a partire dal prossimo 2013.
L'ambito di tali unioni è fissato dalle
regioni su proposta dei comuni e ad esse
sono trasferiti i dipendenti ed i rapporti
giuridici dei municipi.
In questi centri viene abolita la giunta,
per cui gli organi di governo sono solo il
sindaco ed il consiglio.
Possono essere così
riassunte le principali disposizioni dettate
dal nuovo testo dell'articolo 16 del dl n.
138/2011 approvato dal senato e che dovrebbe
diventare legge nei prossimi giorni. Vi sono
significative novità rispetto al testo
iniziale del provvedimento; si deve
sottolineare che vengono chiariti buona
parte dei tanti dubbi sollevati dal testo
iniziale. Ma si deve anche sottolineare che
rimangono numerosi aspetti poco chiari, come
la possibilità che le superstiti comunità
montane possano gestire funzioni associate
delegate dai comuni e quali funzioni
permangano in capo ai piccolissimi comuni, e
pesa non poco il fatto che il testo non sia
inserito in una norma di riassetto
istituzionale.
Il provvedimento conferma invece le scelte
dettate per i comuni con popolazione
compresa tra 1.001 e 5 mila abitanti:
l'obbligo della gestione associata di tutte
le funzioni fondamentali scatta dal 31.12.2012 e la soglia minima di abitanti
che deve essere in tal caso raggiunta è
fissata in 10 mila abitanti, soglia che la
regione può modificare entro i due mesi
successivi alla conversione del decreto.
Tutte queste disposizioni si applicheranno
anche ai comuni delle regioni a statuto
speciale con le stesse modalità previste per
il federalismo fiscale, cioè con norme di
attuazione da dettare entro i due anni
successivi alla scadenza del termine per
l'adozione dei decreti attuativi previsti
dalla legge n. 42/2009.
I comuni con
popolazione inferiore a 1.000 abitanti
devono necessariamente gestire in forma
associata tutte le funzioni amministrative e
tutti i servizi pubblici loro spettanti. Per
cui in capo ai singoli comuni non dovrebbe
residuare alcun tipo di compiti e non si
capisce quindi perché il testo adombri tale
possibilità. La forma indicata dal
legislatore per la gestione associata è
l'unione dei comuni disciplinata
dall'articolo 32 del dlgs n. 267/2000 (per
cui viene superata la indicazione del testo
iniziale di dare vita ad una nuova
istituzione, l'unione municipale).
Questa
unione ha una serie di peculiarità che la
differenziano dalle altre: non si applicano
tutte le regole dettate dal legislatore, in
particolare la loro autonomia statutarie è
rigidamente vincolata nella composizione del
consiglio (il sindaco e due consiglieri per
ogni comune aderente), il legislatore potrà
stabilire l'elezione diretta dei suoi
organi, il presidente deve essere uno dei
componenti il consiglio (e non
necessariamente un sindaco) e dura per due
anni e mezzo rinnovabili, la giunta è
nominata da parte del presidente ed i suoi
componenti devono essere necessariamente
sindaci. Ed ancora lo statuto è approvato
dal consiglio dell'unione e non dai consigli
comunali.
Altra peculiarità assai rilevante
è che esse sono istituite dalla regione
entro la fine del 2012, sulla base della
proposta avanzata dai consigli comunali
entro i sei mesi successivi alla entrata in
vigore della legge di conversione. A queste
unioni possono aderire anche i comuni con
popolazione superiore a 1.000 abitanti,
scegliendo se delegare ad esse solamente la
gestione delle funzioni fondamentali o di
tutte le funzioni ed i servizi pubblici.
Esse devono avere la soglia minima di 5 mila
abitanti, che scende a 3 mila nelle zone
montane, fatte salve diverse deliberazioni
delle regioni.
Queste nuove unioni dovranno
nascere non prima del 2013, cioè della prima
elezione successiva al 13.08.2012 nel
primo comune interessato dal rinnovo del
consiglio comunale. Da tale data decadranno
automaticamente tutte le giunte dei comuni
aderenti alla unione, ivi comprese quelle
dei comuni che avranno delegato alla unione
tutte le proprie funzioni amministrative. I
consigli avranno solo poteri di indirizzo
rispetto alla unione, che approverà l'unico
bilancio, mentre i consigli dei comuni si
dovranno limitare ad approvare un documento
programmatico di indirizzo. Alla unione
passeranno per le funzioni trasferite tutti
i dipendenti e tutti i rapporti giuridici. A
decorrere da tale data le unioni a cui
partecipano comuni al di sotto di 1.000
abitanti dovranno applicare le nuove regole
e cesserà automaticamente la partecipazione
dei piccolissimi comuni a convenzioni e
consorzi.
I comuni con popolazione inferiore a 1.000
abitanti possono sottrarsi a questo vincolo
se alla data del 30.09.2012 tutte le
loro funzioni amministrative e i servizi
saranno gestiti in modo associato tramite
convenzioni, il che dovrà essere dai singoli
comuni dimostrato tramite una attestazione
da trasmettere al Ministero dell'interno.
Per i comuni con popolazione superiore a
1.000 abitanti ed inferiore a 5 mila viene
fissato l'obbligo della gestione associata
tramite unione o tramite convenzione di
tutte le sei funzioni fondamentali entro la
fine del 2012 e di almeno due entro la fine
del 2011. Le gestioni associate, salvo
diversa decisione delle regioni, devono
avere la soglia minima di 10 mila abitanti
(articolo ItaliaOggi del
09.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI: MANOVRA
BIS/
Cessano gli affidamenti diretti superiori a
900 mila euro. Vincoli per le società in
house. Esclusi tpl, acqua, energia, gas e farmacie
comunali. Utility, liberalizzazioni dal 2012.
Entro metà 2012 e il 2015 dovranno essere
riviste le modalità di affidamento delle
gestioni dei servizi pubblici locali.
Previste le condizioni per la
liberalizzazione dei servizi. Ammesse le
gestioni in esclusiva ma con scelta del
gestore in gara. Vincoli per le società in
house; escluso il servizio idrico,
l'energia, il trasporto locale, le farmacie
e il gas naturale.
Sono questi alcuni dei punti principali
della disciplina in materia di servizi
pubblici locali dettata dall'articolo 4
della manovra approvata dal senato. Un primo
dato di rilievo riguarda le modalità con le
quali si deve perseguire il processo di
liberalizzazione dei servizi; la
disposizione, fatta salva la proprietà
pubblica delle reti, invita infatti ad
attuare una gestione concorrenziale che deve
però essere realizzata «compatibilmente con
le caratteristiche di universalità e
accessibilità del servizi».
Nei casi in cui si dovesse mantenere un
regime di esclusiva, ciò dovrà avvenire in
base ad una analisi di mercato (da
effettuare entro un anno dall'entrata in
vigore della legge e ogni volta che si
intende conferire o rinnovare una gestione)
da cui si desuma che l'inidoneità della
«libera iniziativa economica privata» a
garantire un servizio rispondente ai bisogni
della comunità.
In ogni caso l'attribuzione di diritti
speciali di esclusiva al gestore deve
avvenire a seguito di procedure competitive
ad evidenza pubblica cui possono partecipare
anche società interamente pubbliche o
straniere, a condizione di reciprocità. La
legge definisce anche specifici contenuti
(in gran parte cogenti) per i bandi di gara
ed alle lettere di invito relative le
procedure competitive ad evidenza pubblica,
con prescrizioni ulteriori quando i bandi di
gara e le lettere di invito hanno ad oggetto
la qualità di socio, cui conferire una
partecipazione non inferiore al 40%,
unitamente all'attribuzione di specifici
compiti operativi connessi alla gestione del
servizio.
Queste ultime disposizioni potranno essere
derogate laddove il valore economico del
servizio oggetto dell'affidamento sia pari o
inferiore alla somma complessiva di 900 mila
euro annui, consentendo l'affidamento (non
si tratta di «gara») a favore di società a
capitale interamente pubblico che abbiano i
requisiti richiesti dall'ordinamento europeo
per la gestione cosiddetta «in house» (c.d.
controllo analogo). Dopo avere dettato
diversi divieti ed incompatibilità per
nomine e gli incarichi da conferire,
l'articolo 4 prevede un articolato regime
transitorio degli affidamenti non conformi a
quanto stabilito dalla norma stessa.
Il 31.03.2012 cessano gli affidamenti
diretti relativi a servizi di valore
economico superiore a 900 mila euro annui,
nonché tutti gli affidamenti diretti che non
rientrano nei casi successivi.
Il 30.06.2012 cessano le gestioni
affidate direttamente a società a
partecipazione mista, qualora la selezione
del socio sia avvenuta mediante procedure
competitive ad evidenza pubblica, ma senza
aver avuto ad oggetto la qualità di socio e
l'attribuzione dei compiti operativi
connessi alla gestione del servizio.
Alla scadenza prevista nel contratto di
servizio, cessano invece le ipotesi di cui
ai casi precedente, quando le relative
procedure competitive abbiano avuto ad
oggetto, al tempo stesso, la qualità di
socio e l'attribuzione dei compiti operativi
connessi alla gestione del servizio. Alla
scadenza prevista nel contratto di servizio
cessano anche gli affidamenti diretti
assentiti alla data dell'01.10.2003 a
società a partecipazione pubblica già
quotate in borsa a tale data e a quelle da
esse controllate, a condizione che la
partecipazione pubblica si riduca anche
progressivamente.
Il 30.06.2013 o il
31.12.2015 cessano gli affidamenti diretti
già affidati alla data di inizio 2003, ove
non siano rispettate le previste condizioni
di riduzione della partecipazione pubblica
alle scadenze previste (articolo ItaliaOggi del
09.09.2011). |
ENTI LOCALI: Patto orizzontale, ultima chance.
Il ritardo del dm attuativo rischia di
precluderne gli effetti. Se il testo non
sarà approvato in Unificata gli enti
potranno applicare solo il patto verticale.
Il ritardo nell'emanazione del decreto
ministeriale attuativo rischia di
precludere, per il 2011, l'applicazione del
patto regionale orizzontale; in tal caso,
per vedersi allentare i vincoli di finanza
pubblica, comuni e province potrebbero
contare solo su quello verticale.
Per alleggerire il patto di stabilità
interno degli enti locali le regioni possono
avvalersi di due strumenti:
1) il patto regionale «verticale», che
consente loro di autorizzare un
peggioramento del saldo programmatico di
comuni e province, via aumento dei pagamenti
in conto capitale, compensandolo con una
riduzione di pari importo dell'obiettivo
regionale di cassa o di competenza;
2) il patto regionale «orizzontale»,
attraverso cui le stesse regioni possono
operare compensazioni fra gli obiettivi di
comuni e province, fermo restando l'importo
dell'obiettivo complessivamente determinato
per gli enti locali di ciascuna regione.
Per ognuno di questi due strumenti, la legge
di stabilità 2011 (legge 220/2010 e s.m.i.)
ha previsto meccanismi applicativi
parzialmente differenti.
Per il patto regionale verticale si è
previsto che siano gli enti locali a doversi
attivare, comunicando alla propria regione
l'entità dei pagamenti da sbloccare. Ciò
entro il 15 settembre (giovedì prossimo),
anche se alcune regioni hanno anticipato la
tempistica, avvalendosi delle proprie
prerogative normative in materia.
In effetti, l'art. 1, c. 138-bis, della
legge 220/2010 (come modificata, sul punto,
dalla legge 10/2011) prevede che ciascuna
regione possa disciplinare autonomamente i
criteri di intervento e le modalità
operative, previo confronto in sede di
Consiglio delle autonomie locali e, ove non
istituito, con i rappresentanti regionali
delle stesse.
Per il patto regionale orizzontale,
viceversa, il successivo comma 141 ha
previsto che i criteri attuativi debbano
essere stabiliti con decreto del ministero
dell'economia e delle finanze, d'intesa con
la Conferenza unificata. Sui contenuti di
tale provvedimento, nei mesi scorsi si è
aperto un dibattito piuttosto acceso, che ha
visto contrapporsi dapprima comuni e
province (con i primi fermamente contrari al
riconoscimento di un ruolo di coordinamento
a favore delle seconde) e successivamente
Mef e regioni speciali (con queste ultime a
rivendicare il rispetto della maggiore
autonomia loro concessa dai rispettivi
statuti).
Il varo del decreto, quindi, è stato più
volte rimandato e tale ritardo rischia di
compromettere, almeno per quest'anno,
l'applicazione dello strumento.
Per espressa previsione dell'art. 1, comma
142 della legge 220/2010, infatti, gli
interventi regionali devo essere definiti
prima del 31 ottobre. Entro tale termine,
espressamente qualificato come perentorio,
le regioni sono chiamate a numerosi
adempimenti: ricevere le segnalazioni degli
enti locali (sia quelli disposti a cedere
quote del proprio obiettivo, sia quelli,
prevedibilmente più numerosi, che richiedano
un sostegno), concordare con le autonomie
locali le modalità di azione, rimodulare,
con proprio provvedimento, gli obiettivi dei
comuni e delle province interessati e,
infine, comunicare al Mef gli elementi
informativi occorrenti per la verifica del
mantenimento dell'equilibrio dei saldi di
finanza pubblica.
Il tempo, quindi, sta per scadere, anche
perché, come chiarito nei giorni scorsi dal
Mef in risposta a un quesito, in mancanza
del decreto attuativo le regioni non possono
agire, neppure quelle che (come la Toscana o
l'Emilia Romagna) abbiano adottato una legge
che disciplina dettagliatamente la materia.
Il punto, invero, è un po' delicato,
considerato che, per consolidata
giurisprudenza costituzionale, il patto
afferisce al coordinamento della finanza
pubblica, ovvero ad un ambito di competenza
legislativa concorrente. Ma via XX Settembre
non sembra intenzionata a fare sconti.
Verosimilmente, la prossima Conferenza
unificata, calendarizzata per il 22
settembre, rappresenta l'ultima chiamata
possibile, anche perché la successiva seduta
è fissata per il 13 ottobre, decisamente
troppo in là.
Senza le compensazioni orizzontali, gli
unici sconti sul patto 2011 saranno quelli
concessi verticalmente dalle regioni, anche
perché non sembrano esservi margini,
malgrado le pressioni in tal senso di Anci e
Upi, per lo sblocco di una quota dei residui
passivi in conto capitale
(articolo ItaliaOggi del
09.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Unioni libere di gestirsi.
L'ente decide autonomamente sul recesso. Non
rappresenta un ostacolo il fatto che lo
statuto disponga diversamente.
Lo statuto di un'Unione di comuni, per la
gestione del servizio di polizia locale,
prevede che gli enti locali aderenti possano
recedere dall'Unione impegnandosi ad
individuare, entro i termini di legge,
un'altra forma associativa cui affidare tale
servizio. Nel caso in cui, successivamente
al recesso, gli enti aderenti abbiano
espresso diverso intendimento, manifestando
la volontà di differirne gli effetti,
l'Unione dei comuni può recepire con propria
decisione tale volontà e derogare alla
disciplina statutaria e alle relative
convenzioni?
L'Unione dei comuni si configura, con la
previsione dell'art. 32 del Testo unico per
gli enti locali, come una forma di
associazione volontaria tra comuni, la quale
dà vita ad un ente locale a tutti gli
effetti, distinto dai comuni che la
compongono, attraverso l'adozione dell'atto
costitutivo e dello statuto, sottoposto
all'approvazione di tutti i consigli
comunali. Tale ente gode di un'ampia potestà
organizzativa e funzionale, posto che il
legislatore ha delineato solo gli elementi
essenziali, inderogabili dell'istituto,
demandando all'autonomia statutaria e
regolamentare la disciplina degli organi e
della propria organizzazione.
Nel caso di specie, le modalità di recesso
dall'Unione sono state puntualmente
disciplinate dallo statuto, nonché dalla
convenzione per la gestione del servizio di
polizia locale, ma i comuni aderenti,
inizialmente uniformatisi a tali previsioni,
hanno successivamente deliberato su un
aspetto non previsto né disciplinato, ossia
il differimento del termine recesso; in tal
caso, qualora l'Unione prenda atto della
nuova, diversa volontà degli enti, deve
recepire tale intendimento e decidere di
prorogare gli effetti del recesso dei comuni
con propria deliberazione, in quanto le
decisioni adottate su aspetti organizzativi
e funzionali, per i quali l'ente gode di
potestà decisionale, seppure assunte, come
nella fattispecie, non in conformità a
quanto previsto dalla disciplina statutaria
e, pertanto, suscettibili di eventuali
contestazioni, devono essere necessariamente
ricondotte alla autonoma volontà dell'Unione
(articolo ItaliaOggi del
09.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Indennità.
Come va rideterminata l'indennità di
funzione da corrispondere agli
amministratori comunali?
Con l'art. 1, comma 54, della legge
finanziaria 2006 è stata introdotta una
disposizione che, di fatto, ha prodotto un
effetto di «sterilizzazione permanente» del
sistema di determinazione delle indennità e
dei gettoni di presenza. Tale sistema, ha
successivamente trovato una decisiva
conferma negli artt. 61, comma 10, secondo
periodo, e 76, comma 3, del decreto legge 25.06.2008, n. 112.
L'amministrazione
finanziaria, con il parere espresso in data
17.12.2009, ha confermato la vigenza
di tale norma. Anche la Corte dei conti,
sezione regionale di controllo per la
Lombardia, con il parere n. 1042/2010, ha
evidenziato che, con il citato dl 112/2008,
è stata cancellata la possibilità di
incrementare, con delibera di giunta e di
consiglio, le indennità di funzione degli
amministratori locali, anche se al limitato
scopo di allinearle al limite massimo
previsto dal dm 119/2000.
In ogni caso, il
decreto legge 31.05.2010, n. 78,
concernente misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di
competitività economica, dispone, all'art.
5, comma 7, che, con decreto del ministro
dell'interno, di prossima adozione, vengano
rideterminati in diminuzione, ai sensi
dell'articolo 82, comma 8, del testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n, 267, gli importi delle
indennità degli amministratori locali già
determinate ai sensi dello stesso articolo
82, comma 8.
Gli enti locali che corrispondono
attualmente ai propri amministratori importi
inferiori a quelli previsti dal citato
decreto ministeriale, potranno,
successivamente all'entrata in vigore
dell'emanando provvedimento, rideterminare
l'indennità mensile di funzione del sindaco
fino a concorrenza dell'importo massimo
stabilito nel provvedimento medesimo
(articolo ItaliaOggi del
09.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI: Servizi pubblici locali, torna l'affidamento
con gara. La manovra-bis ha riscritto la
disciplina dopo i referendum di giugno.
Passo in avanti nella riforma dei servizi
pubblici locali a rilevanza economica: dopo
il referendum abrogativo dell'art. 23-bis
del dl 112/2008 il governo riscrive con la
manovra bis la disciplina dei servizi
pubblici locali.
L'art. 4 del dl 13/08/2011 n. 138, passato
all'esame della camera dei deputati dopo
l'approvazione del disegno di legge di
conversione da parte del senato, detta le
nuove regole in materia di liberalizzazione
dei servizi pubblici locali riproponendo il
principio generale previsto nel precedente
art. 23-bis dell'affidamento con gara.
Tra i numerosi punti affrontati dal
provvedimento si riportano di seguito gli
aspetti generali relativi alle modalità di
affidamento e al regime transitorio.
Il comma 1 dell'articolo in esame prescrive
che gli enti locali affidanti debbano
procedere «nel rispetto dei principi di
concorrenza, di libertà di stabilimento e di
libera prestazione dei servizi» a una
verifica circa la possibilità di realizzare
una «gestione concorrenziale» dei servizi
pubblici locali a rilevanza economica
«liberalizzando tutte le attività economiche
compatibilmente con le caratteristiche di
universalità e accessibilità del servizio» e
limitando l'attribuzione dei diritti di
esclusiva soltanto nei casi in cui,
attraverso un'analisi di mercato, si
riscontri che «la libera iniziativa
economica privata non risulti idonea a
garantire un servizio rispondente ai bisogni
della comunità». Come disposto dai
successivi commi 2, 3 e 4 tale verifica, da
adottare con delibera degli enti e da
trasmettere all'Autorità garante della
concorrenza e del mercato, dovrà essere
espletata entro 12 mesi dall'entrata in
vigore del decreto in esame e, comunque, al
momento del conferimento o del rinnovo della
gestione del servizio.
Il comma 8 sancisce il principio generale
dell'affidamento con gara disponendo che il
conferimento della gestione dei servizi
pubblici a rilevanza economica «avviene in
favore di imprenditori o di società in
qualunque forma costituite individuati
mediante procedure competitive a evidenza
pubblica, nel rispetto dei principi del
Trattato sul funzionamento dell'Unione
europea e dei principi generali relativi ai
contratti pubblici e, in particolare, dei
principi di economicità, imparzialità,
trasparenza, adeguata pubblicità, non
discriminazione, parità di trattamento,
mutuo riconoscimento e proporzionalità».
Accanto al modello dell'affidamento con gara
l'art. 4, dopo avere fornito alcuni principi
generali da adottarsi nei bandi di gara o
nelle lettere di invito alla base delle
procedure ad evidenza pubblica, ripropone
per l'affidamento del servizio anche il
modello di gestione delle società a capitale
misto pubblico–privato.
Al comma 12, infatti, a integrazione delle
disposizioni contenute nei commi 8, 9, 10 e
11, menziona l'ipotesi del socio privato
selezionato con gara al quale deve essere
riconosciuta una partecipazione al capitale
non inferiore al 40% e devono essere
attribuiti specifici compiti operativi
connessi alla gestione del servizio.
Il successivo comma 13, in aggiunta, in
deroga alla modalità ordinaria di
affidamento con gara riconosce agli enti
locali la possibilità di procedere ad
affidamenti diretti. Dispone, infatti, che
laddove il valore economico del servizio
oggetto dell'affidamento sia pari o
inferiore alla somma complessiva di euro 900
mila annui gli enti locali possono affidare
direttamente il servizio a società a totale
partecipazione pubblica in possesso dei
requisiti, ormai consolidati nella normativa
comunitaria e nazionale, richiesti per la
qualificazione delle cosiddette gestioni «in
house» («controllo analogo da parte degli
enti titolari a quello esercitato sui propri
servizi» e «esercizio della parte più
importante della attività con gli enti
titolari» oltre al capitale detenuto dagli
enti affidanti).
Si riportano infine le nuove indicazioni
contenute nel comma 32 relative al regime
transitorio per gli affidamenti in essere
non conformi alla nuova disciplina.
Per gli affidamenti diretti relativi a
servizi di valore superiore alla predetta
soglia di 900 mila euro annui se ne prevede
improrogabilmente la scadenza entro la data
del 31/03/2012; analoga scadenza è prevista
per tutti gli altri affidamenti diretti non
rientranti nei casi successivamente
illustrati.
È previsto, invece, il maggior termine del
30/06/2012 per la cessazione degli
affidamenti a favore delle società miste
pubblico–privato in cui il privato sia stato
selezionato con procedure ad evidenza
pubblica espletate nel rispetto dei principi
generali della gara di cui al comma 8 ma che
non abbiano avuto ad oggetto anche la
qualità di socio e l'attribuzione dei
compiti operativi connessi alla gestione del
servizio; diversamente per i casi in cui la
selezione del partner privato risulti
conforme ai principi generali di cui al
comma 8 e questa abbia avuto ad oggetto
anche la qualità del socio e l'attribuzione
dei compiti operativi è previsto il
mantenimento della scadenza originaria
dell'affidamento.
Per gli affidamenti diretti assentiti alla
data dell'01/10/2003 a società a
partecipazione pubblica già quotate in borsa
a tale data e a quelle da esse controllate
ai sensi dell'art. 2359 del codice civile, è
prevista la possibilità di mantenimento
della scadenza del contratto di servizio a
condizione che la partecipazione pubblica si
riduca anche progressivamente, attraverso
procedure ad evidenza pubblica ovvero forme
di collocamento privato presso investitori
qualificati e operatori industriali, a una
quota non superiore al 40% entro il
30/6/2013 e non superiore al 30% entro il
31/12/2015. Tali affidamenti cessano
improrogabilmente alle date del 30/6/2013 o
del 31/12/2015 nel caso di mancato rispetto
delle predette condizioni.
Si ricorda, infine, come riportato nel comma
34, che sono esclusi dall'applicazione della
nuova disciplina il servizio idrico
integrato (salvo le disposizioni contenute
nei commi da 19 a 27), il servizio di
distribuzione del gas naturale, il servizio
di distribuzione dell'energia elettrica, il
servizio di trasporto ferroviario regionale
e la gestione delle farmacie comunali.
Restano salve, inoltre, le procedure di
affidamento avviate alla data di entrata in
vigore del decreto in esame
(articolo ItaliaOggi del
09.09.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: MANOVRA
BIS/ Collocamento obbligatorio più
facile. Via libera alla compensazione
automatica.
Via libera alle compensazione delle
assunzioni obbligatorie anche nel settore
pubblico. Infatti, le pa possono essere
autorizzate, su loro motivata richiesta, ad
assumere in un'unità produttiva una quota di
lavoratori aventi diritto al collocamento
obbligatorio superiore a quella prescritta
dalla legge e a portare le eccedenze a
compenso del minor numero di lavoratori
assunti in altre unità produttive.
A
prevederlo è la manovra-bis (articolo 9 del
dl n. 138/2011), che modifica la legge n.
68/1999 (norme per il diritto al lavoro dei
disabili).
Collocamento obbligatorio. La manovra bis
interviene sulla richiamata legge n. 68/1999
per modificare, in parte, gli obblighi a
carico dei datori di lavoro alle assunzioni
di soggetti disabili. La citata legge, in
particolare, prevede che tutti i datori di
lavoro, pubblici e privati, che occupano
almeno 15 dipendenti sono obbligati ad
assumere un numero di soggetti appartenenti
alle cosiddette categorie protette,
variabile in funzione del numero di
lavoratori occupati (che costituisce la
forza lavoro):
● un solo soggetto protetto, se la forza
lavoro è compresa da 15 a 35 lavoratori;
● due soggetti protetti, se la forza lavoro
è compresa da 36 a 50 lavoratori;
● soggetti protetti pari al 7% dei
lavoratori occupati quando la forza lavoro
supera il numero di 50 lavoratori.
La compensazione territoriale. Una prima
modifica riguarda l'istituto della
cosiddetta compensazione territoriale, in
virtù del quale le imprese aventi aziende o
unità locali dislocate in diverse sedi
provinciali possono effettuare una (appunto)
compensazione territoriale dell'obbligo di
assunzione di soggetti protetti. Con questa
compensazione, in altre parole, in una o più
sedi possono effettuare assunzioni di
disabili in numero superiore a quello
previsto dalla legge per portare la quota
eccedente (le assunzioni in eccesso dei
soggetti protetti) a compenso del minor
numero di assunzioni obbligatorie effettuate
nelle altre sedi. Fino al 12 agosto le
imprese con un numero di dipendenti fino a
50 potevano valutare liberamente in quale
sede effettuare le assunzioni in quota
eccedente da compensare; quelle con un
numero di dipendenti inferiore a 50, invece,
erano prima tenute a richiedere, e quindi a
ottenere, una specifica autorizzazione.
È su
questa disciplina che interviene la
manovra-bis.
La novità è una: la previsione
dell'automaticità delle compensazioni per
tutte le aziende e con riferimento a tutto
il territorio nazionale. In particolare, la
nuova norma del comma 8, dell'articolo 5,
della legge n. 68/1999 stabilisce che
l'obbligo di assunzione di disabili va
rispettato a livello nazionale e che, ai
fini del rispetto di tale obbligo, i datori
di lavoro privati che occupano personale in
diverse unità produttive, nonché i datori di
lavoro privati di imprese che sono parte di
un gruppo possono assumere in un'unità
produttiva o in un'impresa del gruppo avente
sede in Italia, un numero di lavoratori
disabili (aventi cioè diritto al
collocamento mirato) superiore a quello
prescritto portando in via automatica
l'eccedenza a compenso del minor numero di
lavoratori (disabili) assunti nelle altre
unità produttive o nelle altre imprese del
gruppo aventi sede in Italia.
In sostanza,
dal 13 agosto non è più necessario
richiedere né ottenere l'autorizzazione,
perché la compensazione opera in via
automatica a livello nazionale e opera, non
solo nei confronti delle imprese, ma anche
dei gruppi di imprese. Vale la pena
ricordare che, anche in caso di utilizzo
della nuova compensazione, c'è un unico
adempimento da osservare, in caso di
utilizzo della nuova compensazione
automatica. E cioè la trasmissione, in via
telematica, del «prospetto informativo» a
ciascuno dei servizi competenti delle
province in cui sono presenti le unità
produttive dell'impresa o le sedi delle
diverse imprese facenti parte del gruppo.
Da
tale prospetto dovrà risultare che è stato
osservato l'adempimento dell'obbligo a
livello nazionale sulla base dei dati
riferiti a ciascuna unità produttiva o a
ciascuna impresa appartenente al gruppo. Il
termine per la trasmissione del prospetto è
fissato al 31 gennaio dell'anno seguente
quello per il quale ci sono state modifiche
all'obbligo o alla quota di riserva.
Compensazione anche nel
pubblico.
L'altra modifica della manovra bis è
un'assoluta novità: l'estensione
dell'istituto di compensazione al settore
del lavoro pubblico, previa autorizzazione e
su base regionale (e non automatica e su
base nazionale, come nel privato).
Infatti, il nuovo comma 8-ter introdotto
all'articolo 5 della legge n. 68/1999,
prevede che i datori di lavoro pubblici
possano essere autorizzati su loro motivata
richiesta ad assumere in unità produttiva un
numero di lavoratori protetti superiore a
quello prescritto, portando le eccedenze a
compenso del minor numero di lavoratori
assunti in altre unità produttive della
medesima regione
(articolo ItaliaOggi del
09.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
VARI: Nuove
regole d'autunno per l'autovelox.
Arriverà a giorni il decreto
interministeriale che dovrà ridefinire
compiutamente le modalità di impiego dei
sistemi elettronici per il controllo della
velocità dei veicoli. Ma solo dopo il via
libera della Conferenza stato–città e con il
possibile stralcio della norma che avrebbe
dovuto dare il via libera definitivo alla
divisione dei proventi autovelox tra i
controllori e i gestori delle strade.
Sono
queste le annunciate novità autunnali in
materia di controllo della velocità, tutor,
laser o autovelox. La riforma dell'autovelox
introdotta con la legge 120/2010 richiede un
decreto ad hoc per disciplinare la
ripartizione dei proventi e per ridefinire
nel dettaglio le modalità di collocazione ed
uso dei temuti sistemi elettronici.
In
pratica il governo in questi giorni è
chiamato a sciogliere definitivamente la
vicenda dell'impossibilità tecnica di
attivare uno dei punti più qualificanti
della riforma ovvero la divisione dei
proventi autovelox tra organo accertatore ed
ente proprietario della strada. Oltre a
oggettive difficoltà tecniche di contabilità
pubblica l'ostacolo maggiore è rappresentato
in questo caso dal fatto che la riforma non
avrebbe trovato applicazione sulla rete
stradale Anas, in quanto strada in
concessione. Ma anche le forti resistenze
politiche delle autonomie locali
all'attivazione della stringente riforma
hanno giocato il loro peso.
Il ministero dei
trasporti e quello dell'interno nel
frattempo hanno già predisposto la bozza
della nuova circolare. A quanto risulta ad ItaliaOggi
non sono previste però modifiche sostanziali
all'attuale disciplina sull'uso degli
strumenti elettronici di controllo. La
questione più discussa resta quella degli
strumenti automatici in sede fissa che dopo
la modifica introdotto con l'art. 25 della
legge 120/2010 possono essere attivati,
fuori dai centri abitati, a una distanza di
almeno un chilometro dal segnale che impone
il limite di velocità.
In particolare è stata la circolare del
ministero dell'interno del 29.12.2010 a
creare maggior sconcerto. Questa distanza,
ha spiegato l'organo di coordinamento dei
servizi di polizia stradale, deve essere
osservata anche a ogni incrocio. Quindi se
il box fisso è troppo vicino a una
intersezione non si possono elevare più
sanzioni in automatico. Sembra che sia allo
studio qualche miglioria al riguardo che
possa permettere la riaccensione di alcuni
sistemi automatici, nel frattempo spenti.
Solo i Tutor autostradali infatti non hanno
subito l'effetto della legge 120/2010 e
continuano a funzionare a pieno regime. La
stragrande maggioranza dei box autovelox
posizionati sulle strade ordinarie ora
invece sono spenti oppure utilizzati con la
presenza costante degli operatori di polizia
(articolo ItaliaOggi
dell'08.09.2011). |
VARI: L'automobilista
può evitare la delazione.
L'automobilista che propone ricorso contro
una multa contenente anche l'invito alla
comunicazione dei dati del trasgressore non
è tenuto a rispondere positivamente alla
richiesta della polizia. Ovvero è
sufficiente che l'interessato specifichi di
aver proposto censure all'autorità
competente per non incorrere in ulteriori
penalità almeno fino alla conclusione dei
rimedi difensivi previsti dalla legge. In
ogni caso l'invito alla delazione andrà
rinnovato in ipotesi di rigetto del ricorso
oppure meglio dettagliato nel verbale per
essere efficace.
Lo ha ribadito il Ministero dell'interno con
la
circolare
05.09.2011 n. 300/a/7157/11/109/16.
L'organo di coordinamento
dei servizi di polizia stradale ha fornito
una prima interpretazione sulla questione
con una circolare del 29.04.2011. In
pratica si trattava di chiarire se l'utente
che propone ricorso contro una multa
notificata per posta con invito a dichiarare
i dati dell'effettivo conducente può
attendere l'esito della vertenza o deve
adempiere tempestivamente alla richiesta. Il
ministero non ha dubbi in proposito. Si
ritiene, specifica infatti la nota di aprile
«che la presentazione di un ricorso avverso
il verbale di contestazione costituisca un
giustificato e documentato motivo di
omissione dell'indicazione delle generalità
del conducente».
In buona sostanza la polizia stradale in
questo caso non può procedere a notificare
la seconda multa di 269 euro per omessa
delazione ma deve attendere l'esito della
vertenza. Operativamente questa disposizione
ha suscitato parecchie difficoltà e per
questo motivo il ministero è dovuto tornare
sull'argomento con la circolare settembrina.
Con l'inserimento nel corpo del verbale
dell'invito alla delazione «entro 60 giorni
dalla notifica del verbale stesso ovvero del
provvedimento con cui si sono conclusi i
rimedi giurisdizionali o amministrativi
previsti dalla legge» risulta superata ogni
perplessità procedurale connessa alla
difficoltà di monitorare costantemente i
procedimenti sanzionatori.
Circa la supposta autonomia del procedimento
di comunicazione dei dati rispetto
all'illecito principale il ministero
mantiene un orientamento favorevole
all'automobilista.
Non si può gravare con una seconda multa il
cittadino che comunica alla polizia di aver
proposto ricorso contro il verbale
contenente l'intimazione alla delazione
(articolo ItaliaOggi dell'08.09.2011). |
VARI: MULTE
STRADALI/ Dimezzati i tempi per i ricorsi.
Infrazioni annullate se la p.a. non deposita
copia degli atti. Le disposizioni frutto
dello schema di decreto sui procedimenti civili.
Dimezzati i termini per proporre ricorso al
giudice di pace contro le multe stradali che
seguiranno lo schema processuale del rito
del lavoro. Si profilano però nuove ipotesi
di annullamento delle infrazioni quando la
pubblica amministrazione omette di
depositare copia degli atti di accertamento
prima della data dell'udienza.
Sono queste
alcune delle conseguenze derivanti dalla
definitiva approvazione parte del consiglio
dei ministri dell'01.09.2011 dello
schema di decreto legislativo recante
disposizioni complementari al codice di
procedura civile in materia di riduzione e
semplificazione dei procedimenti civili di
cognizione, ai sensi dell'art. 54 della
legge 18.06.2009, n. 69 (si veda ItaliaOggi del
02/09/2011).
L'importante
provvedimento, in corso di pubblicazione,
razionalizza la normativa speciale in
materia civile riconducendo i riti ai tre
principali modelli procedimentali ovvero il
rito del lavoro, quello sommario e quello
ordinario. In realtà la riforma non
modificherà sostanzialmente il rito stradale
che di fatto è già molto assimilato a quello
speciale del lavoro e particolarmente
semplificato. Ma non mancano le novità
formali degne di essere considerate.
Innanzitutto la novella sgombera il campo
dagli intrecci troppo complessi tra la legge
689/1981 e il codice stradale. Almeno per
quanto riguarda lo schema processuale di
riferimento.
Con l'entrata in vigore del dlgs, infatti, si chiarirà definitivamente
che la procedura di opposizione
all'ordinanza ingiunzione (sia stradale che
non stradale), troverà compiuta disciplina
nel nuovo articolo 6 del decreto legislativo
e non più negli artt. 22 e seguenti della
legge 689/1981. Diversamente, per quanto
riguarda il ricorso in sede giurisdizionale
contro una multa stradale il nuovo articolo
204-bis del codice della strada rinvierà
all'articolato previsto dall'art. 7 del dlgs
in corso di pubblicazione. Come specificato
anche nella relazione illustrativa, si è
reso necessario evitare dubbi interpretativi
di sorta e per questo le due procedure, per
quanto simili, sono state differenziate e
specificate.
Per quanto riguarda
innanzitutto il ricorso contro le multe al
giudice di pace non sono poi così tante le
modifiche. A parte il dimezzamento dei
termini per proporre censure che scenderanno
a 30 giorni. Per il resto, eccetto il
richiamo al rito del lavoro, «ove non
diversamente stabilito», una delle novità
favorevoli alla linea difensiva è
riscontrabile nel nono comma del nuovo art.
7 del dlgs. Se l'opponente o il suo
difensore non si presentano all'udienza
senza giustificati motivi il giudice
convaliderà la multa «salvo che la
illegittimità del provvedimento risulti
dalla documentazione allegata
dall'opponente, ovvero l'autorità che ha
emesso il provvedimento impugnato abbia
omesso il deposito dei documenti».
In buona
sostanza si apre la possibilità di ottenere
vittoria anche solo sulla base della
negligenza della pubblica amministrazione
che non ha depositato gli atti oppure se la
vicenda è palesemente a favore del
trasgressore. Letteralmente questa opzione
sembra potersi esercitare solo se la pa non
si presenta ma sul punto sono già sorti
dubbi interpretativi.
Novità anche sul
fronte della sospensione dell'efficacia del
provvedimento impugnato. Dopo la stretta
introdotta con la legge 120/2010 nell'agosto
scorso le cose si complicano ulteriormente e
il rinvio all'art. 5 del dlgs evidenzia
l'intenzione del legislatore per una maggior
severità nella concessione del beneficio.
Sul fronte del ricorso al prefetto, esperite
inutilmente (entro 60 giorni) censure contro
una sanzione stradale, il trasgressore
manterrà sempre la possibilità di
presentarsi al giudice per contestare la
decisione del prefetto.
Con la novella anche
questo rito, individuato dall'art. 205 cds,
verrà semplificato e rielaborato, con
esplicito rinvio al nuovo articolo 6 del
decreto legislativo specificamente dedicato
alle opposizioni contro tutte le ordinanze
ingiunzione. Ma in questo caso la riforma
non tratta solo di multe stradali, ma di
qualsiasi infrazione amministrativa
disciplinata dalla legge di depenalizzazione
che ormai da 30 anni continua a
rappresentare un riferimento importante
nell'attività di polizia
(articolo ItaliaOggi
dell'08.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Fabbricati
rurali, scadenze inutili.
Impossibile definire l'accatastamento entro
il 30 settembre. Circolare dei geometri sul
decreto sviluppo: manca il decreto sulle
modalità applicative.
Nessuna modalità operativa e numerose
perplessità sul tema dell'accampionamento,
vale a dire l'accatastamento, dei fabbricati
rurali nelle categorie A/6 e D/10, imposto
dal decreto cosiddetto «Sviluppo», stante la
mancata emanazione del decreto attuativo
prescritto, rendono impraticabile il
rispetto della scadenza del prossimo 30
settembre.
Questo il grido di allarme che si
è alzato dalle categorie professionali e
riassunte, dal Consiglio nazionale dei
geometri e dei geometri laureati, nella
circolare 06.09.2011
n. 8600 di prot.,
avente a oggetto l'esenzione da imposte dei
fabbricati rurali, di cui al comma 3 e
3-bis, dell'art. 9, dl n. 557/1993 e
successive modificazioni e integrazioni. Ma
ieri rispondendo a un'interrogazione in
Commissione finanze alla Camera, il
sottosegretario all'Economia Bruno Cesario
ha reso noto che il decreto previsto dal dl
70/2011 risulta essere stato predisposto
proprio in questi giorni ed è ora all'esame
dei diversi uffici competenti
dell'amministrazione finanziaria: sarà
emanato, ha spiegato Cesario, tenendo conto
dei termini di cui al comma 2-bis dell'art.
7 del dl 70/2011.
Con i commi 2-bis, ter e
quater dell'art. 7, dl n. 70/2011,
convertito nella legge n. 106/2011, il
legislatore tributario ha accolto la tesi
della Suprema Corte di Cassazione (tra le
altre, sentenze n. 18565 e 18570 del 2010)
che ha affermato la necessità, al fine di
poter ottenere l'esenzione da tributi (Irpef
e Ici, in particolare), di accatastare i
fabbricati rurali, abitativi e strumentali,
rispettivamente nelle categorie A/6 e D/10,
nonostante il sistematico diniego
dell'Agenzia del Territorio.
Tale diniego è
stato ritenuto corretto dalla stessa
dottrina e dalla categoria dei
professionisti tecnici, poiché la categoria
A/6, destinata agli abitativi, risulta
superata ed effettivamente soppressa dalla
stessa agenzia (1993) che l'aveva dichiarata
inesistente sul territorio, mentre la
categoria D/10, destinata ai fabbricati
strumentali, non permette un'estensiva
applicazione, poiché le caratteristiche
richieste sono tali da non consentire
destinazioni d'uso diverse da quelle per cui
sono state edificate.
Il comma 2-bis,
dell'art. 7 del decreto sviluppo permette
(in sanatoria) di presentare un'istanza da
parte dell'interessato (proprietario e/o
titolare di diritti reali) al fine di
variare la categoria attribuita alla
costruzione, con l'ottenimento del classamento appena indicato, nel rispetto
dei requisiti di ruralità, di cui all'art.
9, dl n. 557/1994; a detta domanda, però,
deve essere allegata un'autocertificazione
dei soggetti interessati che attestino, con
ripercussioni di ordine penale in caso di
mendacità, la sussistenza dei requisiti
indicati dal citato art. 9, dl 557/1993 per
«almeno cinque anni continuativi».
Inoltre, il successivo comma (2-quater) del
decreto richiamato dispone che le modalità
operative e applicative saranno chiarite da
un apposito decreto ministeriale, alla data
odierna ancora da emanare, soprattutto per
gli accertamenti dell'agenzia e del comune;
la conseguenza è che i proprietari e,
naturalmente, i professionisti delegati,
allo stato attuale non sono ancora in
condizione di predisporre alcunché, in
quanto non è stato definito se
l'aggiornamento dovrà essere effettuato con
la procedura tradizionale (DOCFA) o con una
procedura semplificata, stante il fatto che
la disposizione parla esclusivamente di
«domanda» e non di denuncia o dichiarazione,
con la possibile previsione (tesi dei
geometri) che detto aggiornamento possa
essere sviluppato con la presentazione di
una mera istanza «generica», allegando
l'autocertificazione indicata, stante
l'obbligo destinato ai soli fini fiscali.
Sul punto, peraltro, una serie di
perplessità sono state individuate anche
dalla circolare in commento (si veda anche
Italia Oggi del 16-17/06/2011 e 01/08/2011) con
particolare riferimento alla necessità di
accampionare anche quei fabbricati ancora
censiti nel catasto terreni in quanto non
hanno subito variazioni sostanziali (circ.
96/T/2008), per quelli ancora in
costruzione, ma si aggiunge anche per quanto
concerne il requisito da attestare la
continuità di possesso «quinquennale» e «non
discontinuo» dei requisiti di ruralità e per
quanto concerne la fine dei contenziosi
ancora aperti.
Sul possibile accampionamento
dei fabbricati rurali non ancora trasferiti
al catasto fabbricati e di quelli ancora da
accatastare o in corso di accampionamento,
proprio per l'ottenimento dei benefici
fiscali, i geometri ritengono che, allo
stato attuale, una possibile soluzione sia
quella di produrre un apposito modello DOCFA
«semplificato», ancorché nutrano
giustificate perplessità sulla possibilità
che il Territorio respinga le domande
presentate, mentre per quelli già censiti ma
in altre categorie lo stesso consiglio
nazionale suggerisce la presentazione di
un'istanza «generica» al Territorio e
al Comune interessato
(articolo ItaliaOggi
dell'08.09.2011). |
ENTI LOCALI: MANOVRA BIS/ La Scia per aprire.
L'attività inizia con una segnalazione.
Liberalizzata anche la vendita
di tabacchi e giornali.
Per la vendita di quotidiani, periodici e
tabacchi, per l'apertura di una sala giochi,
una discoteca o un'agenzia di affari non
sarà più necessaria l'autorizzazione formale
da parte del comune o del questore. Sarà,
infatti, sufficiente presentare una Scia,
ovvero la segnalazione certificata di inizio
attività che dal luglio 2010 ha sostituito
la Dia introdotta nell'ordinamento con la
legge 241/1990, con il fine di liberalizzare
l'esercizio delle attività economiche.
La navetta. Il Senato, con l'approvazione ieri della
legge di conversione del dl 138 licenziato
dal Governo due giorni prima di ferragosto e
per la quale ha richiesto all'aula il voto
di fiducia, ha fatto da apripista alla ormai
prossima seduta dell'altro ramo del
Parlamento, licenziando il testo contenente
sia il maxi-emendamento del Governo che le
modifiche approvate dalla Commissione
bilancio del Senato.
La libertà d'impresa. Al di là di quello che
sarà effettivamente l'ambito di applicazione
della legge e che soltanto il Giudice potrà
legittimamente delimitare, è possibile, fin
da ora, da una prima lettura delle nuove
disposizioni rilevare che nell'immediato
futuro il tradizionale rapporto tra il
futuro imprenditore e la pubblica
amministrazione sarà destinato ad essere
complessivamente rivoluzionato.
Infatti,
entro un anno dalla data di entrata in
vigore della legge di conversione del
decreto 138/2011 ed in corso di
approvazione, Stato, regioni, comuni e
province devono adeguare i rispettivi
ordinamenti al principio secondo cui
l'iniziativa e l'attività economica privata
sono libere ed è permesso tutto ciò che non
è espressamente vietato dalla legge.
I vincoli. Uniche eccezioni, tra le diverse
individuate dall'articolo 3 del dl in corso
di conversione, i vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario, i principi
fondamentali della Costituzione; il danno
alla sicurezza, alla libertà, alla dignità
umana, il contrasto con l'utilità sociale.
Insomma, un campo che sembra ben più
delimitato rispetto quello attualmente
previsto dall'articolo 41 della Costituzione
il quale prevede, più genericamente, che «la
legge determina i programmi e i controlli
opportuni perché l'attività economica
pubblica e privata possa essere indirizzata
e coordinata a fini sociali».
Decolla la Scia. In pratica, fermo restando
che la disciplina delle attività economiche
è oggi di competenza esclusiva delle
regioni, entro un anno Stato ed enti locali
dovranno fare la loro parte per adeguare i
rispettivi ordinamenti ai principi contenuti
al comma 1 dell'articolo 3 del dl 138/2011.
Dopo di che le autorizzazioni saranno
sostituite da una Scia, ovvero da un mero
adempimento attraverso il quale
l'imprenditore dimostrando di possedere i
requisiti ed i presupposti previsti dalla
disciplina di riferimento, potrà aprire
immediatamente la propria bottega.
I regolamenti del Governo. Nel
maxi-emendamento è stata proposta anche
l'introduzione, all'articolo 3, comma 3, di
un ulteriore inciso il quale prevede la
delega al Governo per la redazione di
regolamenti di delegificazione che
contengano anche l'elenco delle disposizioni
abrogate. Tuttavia, se il fine consentirebbe
di accelerare il processo di
liberalizzazione e di certezza del diritto,
d'altro canto la norma non tiene conto che
la Consulta, con diverse sentenze (333/95;
482/95; 376/2002), ha affermato che i
regolamenti di delegificazione non possono
incidere sulle materie di competenza
regionale.
Ciò in quanto tale strumento, che
ha il solo fine di semplificare ciò che era
già disciplinato dalle leggi statali e che
dunque solo su queste può incidere, può
operare su fonti di diversa natura, tra le
quali vi è un rapporto di competenza e non
di gerarchia. E quindi non può essere
delegificato ciò che appartiene all'ambito
legislativo regionale, a meno che lo Stato
non decida di vietare determinati limiti
come del resto è stato fatto con i commi 8 e
9 del medesimo articolo 3 del dl 138/2011
che ha individuato le restrizioni vietate,
integrando l'elenco dei divieti già fissati
con il dlgs 59/2010 di recepimento della
direttiva Servizi
(articolo ItaliaOggi
dell'08.09.2011). |
ENTI LOCALI: MANOVRA BIS/
Revisori longa manus della Corte conti.
Revisori come longa manus delle sezioni
regionali di controllo della Corte dei
conti.
L'articolo 14 del dl 138/2011, come
riscritto dal maxi-emendamento passato ieri
al senato incide profondamente sulle
funzioni dell'organo di revisione contabile
degli enti locali. Infatti, stabilisce per
la prima volta un contatto diretto tra i
componenti dell'organo e le sezioni
regionali di controllo della magistratura
contabile, prevedendo che «il collegio, ai
fini del coordinamento della finanza
pubblica, opera in raccordo con le sezioni
regionali di controllo della corte dei
conti», creando un collegamento molto chiaro
tra i controlli interni di natura preventiva
e relativi alla gestione durante il suo
evolversi ed i controlli esterni, successivi
alla conclusione della gestione medesima.
È il tentativo, da parte del legislatore, di
rinvigorire il sistema dei controlli negli
enti locali, pesantemente svuotato e messo
in discussione dalle leggi Bassanini,
trasformando in maniera molto forte il ruolo
dei revisori dei conti, che da garanti del
corretto operare dell'organo di governo e,
in particolare del consiglio, si trasformano
in veri e propri controllori della
legittimità della spesa, in ossequio alle
indicazioni della Corte dei conti, che
finisce per avvalersi dei revisori per
svolgere le proprie funzioni di controllo.
Che da successivo e collaborativo, si
trasformano sempre più in attività di
controllo interno e piena ingerenza su tutte
le questioni connesse alla gestione
contabile e al patto di stabilità, tra cui
non solo le regole di bilancio, ma anche le
verifiche sulla correttezza di voci di spesa
rilevanti, quali quelle connesse al
personale.
In conseguenza di questo nuovo ruolo, cambia
il sistema di reclutamento dei revisori.
Potranno essere nominati solo soggetti in
possesso dei requisiti previsti dai principi
contabili internazionali, della qualifica di
revisori legali come disciplinata dal dlgs
39/2010 e di specifica qualificazione
professionale (da dimostrare evidentemente
col curriculum) in materia di contabilità e
finanza pubblica locale, sulla base di
criteri di professionalità che saranno
stabiliti dalla Corte dei conti, ad
ulteriore conferma dello strettissimo
collegamento tra la magistratura contabile e
il nuovo corso degli organi di revisione.
Il sistema di nomina viene in parte
modificato: infatti, i componenti
dell'organo di revisione non potranno essere
più scelti sulla base della mera iscrizione
al registro professionale ed alla
candidatura presentata al consiglio, ma
estratti da un elenco composto da tutti i
soggetti in possesso dei requisiti di cui
sopra.
Di estrazione parlava anche il precedente
testo della norma. La gran parte dei primi
interpreti ha letto la previsione nel senso
che i revisori debbano essere estratti a
sorte. Il che, in effetti, consentirebbe di
evidenziare l'indipendenza dalla compagine
di governo dell'ente locale.
Tuttavia, tale chiave di lettura, per quanto
non esclusa dalla norma, non appare del
tutto convincente. Infatti, la legge si
limita a parlare di estrazione, non fa
riferimento ad un'estrazione a sorte, né vi
è alcuna modifica, espressa o tacita, alla
procedura di nomina prevista dall'articolo
234 del dlgs 267/2000, che assegna ai
consigli il compito di individuare i
revisori.
Probabilmente, la norma deve essere più
correttamente intesa nel senso che i
consigli potranno incaricare solo i revisori
in possesso dei requisiti indicati prima ed
inseriti negli elenchi appositamente
predisposti.
L'indipendenza del loro operato, a questo
punto, non risiederà tanto sul meccanismo
della nomina. Tra l'altro, l'estrazione a
sorte lascia parecchie perplessità,
considerando che un revisore iscritto
potrebbe non gradire per una serie di
ragioni l'incarico toccatogli per ventura in
una sede magari lontana o poco nota.
È, invece, il raccordo con la Corte dei
conti la vera novità, lo strumento per
trasformare definitivamente il collegio dei
revisori in un organo del tutto autonomo
dalla politica, visto che i revisori dei
conti risponderanno per primi davanti alla
magistratura contabile delle responsabilità
per il loro operato contrario alle regole
tecniche contabili
(articolo ItaliaOggi
dell'08.09.2011). |
ENTI LOCALI - CONSIGLIERI COMUNALI: MANOVRA BIS/ In consiglio si
va nel tempo libero.
Riunioni da tenere preferibilmente fuori
dall'orario di lavoro. Gli enti sotto i 1.000 abitanti
sopravvivono. Ma dovranno esercitare le
funzioni in forma associata.
Nei comuni con meno di 15.000 abitanti, le
sedute di giunta, consiglio e lo svolgimento
di commissioni non saranno più previste
obbligatoriamente nelle ore serali, ma
preferibilmente in orario che non coincida
con l'attività lavorativa dei rispettivi
componenti.
Dal prossimo rinnovo dei consigli comunali,
negli enti con meno di 1.000 abitanti, la
forma di governo della comunità locale è
prevista da solo sei consiglieri, oltre al
sindaco. Negli enti da 1.000 a 3.000
abitanti, invece, oltre al sindaco e sei
consiglieri è previsto un numero massimo di
due assessori. Numeri che passano a sette
consiglieri e tre assessori, negli enti da
3.000 a 5.000 abitanti, mentre da 5.000 a
10.000 abitanti, gli enti saranno governati
da un sindaco, dieci consiglieri e quattro
assessori. Infine, scampano la soppressione
gli enti con meno di mille abitanti, i
quali, però dovranno obbligatoriamente
esercitare, in forma associata, tutte le
funzioni amministrative e i servizi pubblici
loro spettanti. Alle neo unioni, pertanto,
saranno trasferite tutte le risorse umane e
strumentali relative alle funzioni ed ai
servizi loro affidati, nonché i relativi
rapporti finanziari risultanti dal bilancio.
Queste alcune delle disposizioni contenute
nel testo del maxi-emendamento che il
governo ha presentato in senato alla manovra
di Ferragosto (dl 138/2011). Entriamo nel
dettaglio delle previsioni che riguardano
molti enti locali.
Consigli e giunte dopo il lavoro.
È durata pochi giorni l'originaria
previsione formulata nel testo del relatore
in commissione bilancio che prevedeva, nei
comuni con meno di 15.000 abitanti, che lo
svolgimento delle sedute di consiglio
comunale, giunta e delle commissioni
consiliari dovessero svolgersi nelle ore
serali (si veda ItaliaOggi del 03/09/2011).
Con un emendamento posto dai senatori della
Lega Nord, Massimo Garavaglia e Gianvittore
Vaccari, approvato dalla commissione
bilancio al termine della seduta-fiume di
domenica scorsa e ripreso dal governo nel
maxi-emendamento, adesso le sedute dovranno
«preferibilmente» svolgersi in un arco
temporale non coincidente con l'orario di
lavoro dei partecipanti.
Trova fondamento,
pertanto, l'ipotesi formulata da ItaliaOggi
che la ratio di tale disposizione si
fondasse nella previsione di non far cadere
la produttività per quei datori di lavoro,
pubblici e privati, che abbiano alle loro
dipendenze lavoratori che espletano il
mandato elettivo. Quello che emerge dalla
nuova formulazione, però, è l'uso
dell'avverbio «preferibilmente».
Quindi, a
rigor di logica, non vi è l'obbligo di
convocare le sedute in orari incompatibili
con l'attività lavorativa degli
amministratori, senza dimenticare che,
stante le diverse professioni (lavoratori
dipendenti o autonomi) rappresentate
all'interno dei consigli comunali o delle
giunte, trovare un orario che possa
soddisfare tutti i suoi componenti è, a
prima vista, molto difficile. Non è stata
invece modificata la disposizione contenuta
nel testo uscito dalla commissione bilancio,
che prevede il permesso retribuito per i
consiglieri che siano dipendenti di
assentarsi per la sola durata della seduta e
per il tempo strettamente necessario per
raggiungere il luogo di svolgimento.
Cessa,
pertanto, dall'entrata in vigore della legge
di conversione del dl n. 138/2011, la
concessione del permesso retribuito per
l'intera giornata di svolgimento del
consiglio comunale e la previsione di un
ulteriore giorno di assenza dal lavoro
(retribuito) qualora la seduta di consiglio
dovesse protrarsi oltre la mezzanotte.
Consigli a dieta.
L'articolo 16 del maxi-emendamento rinnova
altresì le disposizioni in materia di numero
di amministratori, nell'ottica di un deciso
contenimento dei costi della politica a
carico della collettività amministrata. Si
prevede che a decorrere dal primo rinnovo di
ciascun consiglio comunale successivo alla
data di entrata in vigore della manovra di
ferragosto, per i comuni con popolazione
fino a 1.000 abitanti, il consiglio comunale
è composto, oltre che dal sindaco, da sei
consiglieri.
Nei comuni con popolazione
superiore a 1.000 e fino a 3.000 abitanti,
invece, il consiglio comunale sarà composto,
oltre che dal sindaco, da sei consiglieri ed
il numero massimo degli assessori è
stabilito in due. Negli enti locali tra
3.000 e 5.000 abitanti, il consiglio
comunale è composto, oltre che dal sindaco,
da sette consiglieri ed un numero massimo di
tre assessori. Infine, nei comuni tra 5.000
e fino a 10.000 abitanti, il consiglio
comunale sarà composto, oltre che dal
sindaco, da dieci consiglieri ed un numero
massimo di quattro assessori.
Piccoli comuni, uniti si risparmia.
Sempre nell'ottica di contenere i costi,
l'articolo 16 prevede, salvandoli
dall'originaria soppressione, che i comuni
con popolazione fino a 1.000 abitanti
avranno l'obbligo di esercitare in forma
associata tutte le funzioni amministrative e
tutti i servizi pubblici loro spettanti,
mediante un'unione di comuni la cui
popolazione residente, di norma, sia
superiore a 5.000 abitanti. Detto limite
scende a 3.000 se i comuni che ne faranno
parte appartengono o siano appartenuti a
comunità montane. A detta unione, la norma
prevede la facoltà di aderire anche da parte
di comuni con popolazione superiore a 1.000
abitanti. Da queste disposizioni, ne restano
escluse le isole minori e l'enclave di
Campione d'Italia.
Tra i compiti che dovrà svolgere l'unione,
quella della programmazione
economico-finanziaria e la gestione
contabile. I comuni che ne fanno parte,
concorrono alla predisposizione del bilancio
di previsione dell'unione per l'anno
successivo mediante la deliberazione di
consiglio, da adottarsi entro il 30
novembre, di un documento programmatico,
nell'ambito del piano generale di indirizzo
deliberato dall'unione entro il precedente
15 ottobre.
L'unione, poi, succede a tutti gli effetti
nei rapporti giuridici in essere che siano
inerenti alle funzioni ed ai servizi ad essa
affidati. Per le predette attività, la norma
prevede anche il trasferimento di tutte le
risorse umane e strumentali. Inoltre, dal
2014, le unioni dei mini enti saranno
soggette al patto di stabilità interno per
gli enti locali, nella formulazione prevista
«per i comuni aventi corrispondente
popolazione».
Gli organi dell'unione saranno il consiglio,
il presidente e la giunta. Il consiglio sarà
composto da tutti i sindaci membri dei
comuni costituenti e, in prima battuta, da
due consiglieri comunali per ogni comune che
ne fa parte, con l'obbligo che uno dei due
appartenga alle opposizioni. Inoltre, fino
all'elezione del presidente dell'unione (il
cui mandato dura due anni e mezzo ed è
rinnovabile), il sindaco del comune che ha
il maggior numero di abitanti tra quelli che
sono membri dell'unione, esercita tutte le
funzioni di competenza dell'unione.
Infine,
la giunta, composta dal presidente e dagli
assessori, nominati dallo stesso fra i
sindaci componenti il consiglio e che non
dovranno essere più di quelli previsti per i
comuni aventi corrispondente popolazione.
Spese di rappresentanza più trasparenti.
Saranno più trasparenti le spese di
rappresentanza sostenute dagli organi di
governo degli enti locali. Scatta, infatti,
l'obbligo di elencarle, per ciascun anno, in
un apposito prospetto allegato al rendiconto
di gestione. Il predetto prospetto, poi,
dovrà essere trasmesso alla sezione
regionale di controllo della Corte dei conti
ed è pubblicato, entro dieci giorni
dall'approvazione del rendiconto, sul sito
internet dell'ente locale.
Sarà un
provvedimento interministeriale Interno-Economia,
che sarà emanato entro novanta giorni dalla
conversione in legge del dl n.138/2011, ad
adottare uno schema tipo del prospetto
relativo alle spese di rappresentanza
(articolo ItaliaOggi
dell'08.09.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO: MANOVRA BIS/
Statali, salva la tredicesima di lavoratori
e dirigenti.
Tredicesima salva per i dipendenti statali,
nel caso in cui le amministrazioni non
conseguano gli obiettivi di risparmio
fissati annualmente dall'articolo 10, comma
12, del dl 8/2011 convertivo in legge
111/2011.
Il maxi-emendamento riscrive
l'articolo 1, comma 7, del dl 138/2011,
cancellando la penalizzazione che avrebbe
coinvolto tutti i dipendenti delle
amministrazioni, nel caso di mancato
raggiungimento di obiettivi gestionali, per
altro non imputabile ai dipendenti, ma
semmai agli organi di governo ed alla
dirigenza.
Il nuovo articolo 1, comma 7,
salva dalla posticipazione della tredicesima
anche i dirigenti, ma modifica la norma
ripensandola in maniera più corretta e
coercitiva proprio nei confronti dei vertici
delle amministrazioni. Il testo, infatti,
prevede che nel caso l'amministrazione
competente manchi gli obiettivi di risparmio
previsti, in base ad una comunicazione del
ministero dell'economia e delle finanze,
dovrà essere prevista «la riduzione della
retribuzione di risultato dei dirigenti
responsabili, nella misura del 30 per
cento».
Si passa, dunque, da una misura che
colpiva indiscriminatamente tutti i
lavoratori incidendo, per altro, sulla
retribuzione fissa, della quale la
tredicesima mensilità è parte integrante, ad
un sistema sanzionatorio, posto a colpire
esclusivamente i dirigenti direttamente
responsabili del mancato ottenimento dei
risparmi previsti, incidendo, come è
corretto che sia, non sullo stipendio
tabellare, ma sulla retribuzione di
risultato. Quella, cioè, direttamente
connessa alla capacità dimostrata dal
dirigente di conseguire gli obiettivi posti
dalla legge e dall'amministrazione. Appare
certamente più corretto agire in via
sanzionatoria sul salario accessorio e non
su quello fisso, oltre che incidere in modo
selettivo solo sui dipendenti effettivamente
responsabili dei mancati risultati.
Resta la questione dell'ambito di
applicazione della norma. Il servizio studi
del senato, sulla base della stesura
originaria dell'articolo 1, comma 7, che
conteneva un espresso riferimento alla
possibilità di differire la tredicesima ai
«dipendenti delle pubbliche amministrazioni
di cui all'articolo 1 comma 2 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165», ha
sostenuto che esso si applichi anche a
regioni ed enti locali.
Ora che l'articolo
1, comma 7, del dl 138/2011 viene del tutto
riscritto dal maxi-emendamento che cancella
sia il differimento della tredicesima, sia
il riferimento alle amministrazioni
pubbliche elencate dall'articolo 1, comma 2,
del dlgs 165/2001, dovrebbe risultare
indubbio che esso non trova applicazione per
regioni ed enti locali
(articolo ItaliaOggi
dell'08.09.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Antincendio. Gli
estintori ovunque in azienda.
Rischia la condanna penale il datore di
lavoro che non mette gli estintori in tutta
l'azienda, incluse le zone che non sono a
rischio incendio.
Lo ha sancito la Corte di
cassazione che, con la
sentenza
07.09.2011 n. 33294, ha confermato la condanna
nei confronti di un imprenditore di
Catanzaro che non aveva messo gli estintori
nell'area esterna della sua autofficina
destinata al lavaggio degli automezzi.
L'imprenditore si è difeso sostenendo che i
dispositivi, presenti in tutta l'azienda,
mancavano soltanto nel cortile esterno,
destinato al lavaggio delle auto e dunque
sempre a contatto con l'acqua. Ma la tesi
non ha convinto il Tribunale e la Corte
d'appello di Catanzaro che hanno confermato
quel capo della sentenza.
Ora la quarta
sezione penale lo ha reso definitivo
precisando che «in materia di omissione
colposa di cautele o difese contro disastri
o infortuni sul lavoro (art. 451 c.p.) -mirando la norma a limitare i danni
derivanti da incendio, disastro o infortuni
sul lavoro nelle ipotesi in cui detti eventi
si dovessero verificare- la condotta
punibile è quella soltanto che consiste
nella omessa collocazione ovvero nella
rimozione, ovvero ancora nella resa
inidoneità allo scopo degli apparecchi e
degli altri mezzi predisposti alla
estinzione dell'incendio nonché al
salvataggio o al soccorso delle persone. Ne
consegue che non si richiede anche che si
verifichi in concreto uno degli eventi, i
cui ulteriori danni la norma mira ad
impedire o, comunque, a limitare».
La
deduzione di fatto circa la mancata adozione
dei presidi antincendio in una zona in cui
non sussisterebbe pericolo di incendio non è
stata considerata dalla Corte distrettuale.
Se per l'esercizio di una certa attività
come questa, la legge prescrive l'adozione
di determinate misure antinfortunistiche in
tutti i luoghi dell'azienda e ovunque venga
svolta l'attività, «non può essere rimessa
alla discrezionale volontà del gestore
individuare le zone ove il pericolo di
incendio sussiste e quelle ove non
sussiste». Infatti, è opinabile dire che,
«laddove sussiste una situazione di umidità
o di bagnato, l'incendio non potrebbe mai
verificarsi e che, quindi, manca l'elemento
del pericolo richiesto dalla norma incriminatrice»
(articolo ItaliaOggi
dell'08.09.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Politica sociale - Direttiva
77/187/CEE- Mantenimento dei diritti dei
lavoratori in caso di trasferimento di
imprese.
Il diritto dell'UE osta a che i lavoratori
trasferiti, compresi quelli che si trovano
alle dipendenze di una pubblica autorità di
uno Stato membro e che sono riassunti da
un'altra pubblica autorità, subiscano, per
il solo fatto del trasferimento, un
peggioramento retributivo sostanziale.
La riassunzione, da parte di una pubblica
autorità di uno Stato membro, del personale
dipendente di un'altra pubblica autorità,
addetto alla fornitura, presso le scuole, di
servizi ausiliari comprendenti, in
particolare, compiti di custodia e
assistenza amministrativa, costituisce un
trasferimento di impresa ai sensi della
direttiva del Consiglio 14.02.1977,
77/187/CEE, concernente il ravvicinamento
delle legislazioni degli Stati membri
relative al mantenimento dei diritti dei
lavoratori in caso di trasferimenti di
imprese, di stabilimenti o di parti di
stabilimenti, quando detto personale è
costituito da un complesso strutturato di
impiegati tutelati in qualità di lavoratori
in forza dell'ordinamento giuridico
nazionale di detto Stato membro.
Quando un trasferimento ai sensi della
direttiva 77/187 porta all'applicazione
immediata, ai lavoratori trasferiti, del
contratto collettivo vigente presso il
cessionario e inoltre le condizioni
retributive previste da questo contratto
sono collegate segnatamente all'anzianità
lavorativa, l'art. 3 di detta direttiva osta
a che i lavoratori trasferiti subiscano,
rispetto alla loro posizione immediatamente
precedente al trasferimento, un
peggioramento retributivo sostanziale per il
mancato riconoscimento dell'anzianità da
loro maturata presso il cedente, equivalente
a quella maturata da altri lavoratori alle
dipendenze del cessionario, all'atto della
determinazione della loro posizione
retributiva di partenza presso quest'ultimo.
È compito del giudice del rinvio esaminare
se, all'atto del trasferimento in questione
nella causa principale, si sia verificato un
siffatto peggioramento retributivo (Corte di
giustizia europea, Grande Sezione,
sentenza 06.09.2011 n. C-108/10 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Cause di esclusione.
La disciplina di cui all'art. 38, comma
primo, lett. m-ter del Codice dei Contratti
Pubblici, introdotta dall'art. 2 della legge
n. 94 del 2009, introduce una nuova autonoma
causa di esclusione dalle procedure di
aggiudicazione, ma non fa venire meno la
vigente disciplina in materia di
informazioni antimafia. Ciò rilevato,
pertanto, la circostanza che un determinato
accadimento possa risultare, in concreto,
inidoneo ad integrare la fattispecie di cui
al menzionato art. 38, non impedisce affatto
che esso possa essere considerato quale
univoco elemento indiziario ai fini
dell'adozione dell'informativa antimafia.
L'intervenuto annullamento giurisdizionale
di una informativa antimafia per difetto di
istruttoria e di motivazione, non preclude
alla competente Amministrazione di svolgere
un nuovo procedimento, che conduca ad un
completo ed approfondito rinnovo della
valutazione dei fatti. In tale contesto
deve, pertanto, escludersi qualsiasi intento
elusivo del giudicato, da parte
dell'Amministrazione, in quanto certamente
titolare, in seguito all'annullamento
dell'originaria informativa, del potere di
svolgere un nuovo procedimento valutativo,
correlato alla acquisizione di ulteriori
elementi istruttori.
Il rinnovo del
procedimento, semmai, costituisce proprio
uno degli effetti conformativi della
pronuncia di annullamento, ferma restando la
eventuale sindacabilità della nuova
determinazione, anche alla luce dei vincoli
derivanti dal giudicato (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 05.09.2011 n.
5014 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In sede di applicazione sinergica della
norma igienico-sanitaria di cui all'art.
216, R.D. n. 1265 del 1934 e della norma
urbanistica demandata al Comune, ciò che
rileva è la dimostrazione da parte
dell'imprenditore che l'esercizio
dell'industria insalubre, per l'introduzione
di nuovi metodi o speciali cautele, non
arrechi nocumento alla salute del vicinato e
non tanto la formale osservanza di una
determinata distanza imposta dalla medesima
norma urbanistica.
È legittimo il provvedimento di concessione
edilizia rilasciato dal Comune ad un
insediamento di un complesso artigianale
esercente attività di industria insalubre di
prima classe avente ad oggetto il
collocamento dello stesso ad una distanza
inferiore ai 150 metri dagli insediamenti
abitativi qualora non recante alcun
pregiudizio agli abitanti della zona, preso
atto delle tecniche di lavorazione
all'interno del complesso. La circostanza
ricorre, in particolare, nella fattispecie
concreta, laddove la competente ASL ha
ritenuto che le attività di cui alla
concessione edilizia contestata (ossia
rifinitura di lastre di marmo e deposito
delle stesse) sono ammissibili da un punto
di vista igienico-sanitario, stante
l'intervenuta prova da parte
dell'interessato, che l'esercizio
dell'attività, per l'introduzione di nuovi
metodi o speciali cautele, non reca
nocumento alla salute del vicinato.
Come avvertito
dalla più recente giurisprudenza,
l'installazione nell'abitato di una
industria insalubre non è di per sé vietata
in assoluto, dal momento che l'art. 216
T.U.LL.SS. n. 1265 del 1934 lo consente se
la stessa installazione è accompagnata
dall'introduzione di particolari metodi
produttivi o cautele in grado di escludere
qualsiasi rischio di compromissione della
salute del vicinato (cfr. TAR Umbria
Perugia, sez. I, 04.09.2007, n. 661), tenuto
conto che l'inclusione di un'attività
nell'elenco delle industrie insalubri non
comporta automaticamente il diniego
dell'autorizzazione richiesta, atteso che la
pericolosità per la salute di talune
attività produttive deve essere considerata
non già in astratto, bensì in concreto,
avendo riguardo alle misure e alle cautele
suggerite dal progresso tecnico -e
concretamente dispiegate dall'imprenditore-
che possono essere tali da rendere innocua,
grazie ad opportuni accorgimenti, anche
un'attività potenzialmente nociva (cfr. TAR
Trentino Alto Adige, Sezione di Trento, n.
241 dell'08.07.2006).
Peraltro, induce il Collegio a confermarsi
nel convincimento sin qui espresso l’avviso
ricavabile sempre dalla giurisprudenza di
questo Consiglio (cfr. sez. V, n. 1794 del
19.04.2005) alla stregua del quale gli art.
216 e 217 del T.U.LL.SS., che non fissano
una determinata distanza da osservare,
conferiscono al Comune, ben vero, ampi
poteri in materia di industrie insalubri,
anche prescindendo da situazioni di
emergenza, a condizione però che siano
dimostrati, da congrua e seria istruttoria,
gli inconvenienti igienico-sanitari che
eventualmente impediscano l’installazione di
un tale tipo di industria.
Nel caso in esame, l’attività industriale
esercitata dall’appellante Società può
ritenersi correttamente autorizzata in
quanto, allo stato, essa è supportata dal
parere positivo espresso dalla competente
Autorità sanitaria, avendo preordinato
l’imprenditore specifiche cautele tecniche
(cfr. parere citato) e, quindi, della
sussistenza delle condizioni individuate, a
ben vedere, non solo dalla norma statuale
citata, ma anche da quella urbanistica, se
sinergicamente interpretate per il comune
scopo perseguito.
In conclusione, come già osservato da
ulteriore condivisibile giurisprudenza di
questo Consiglio (cfr. Sez. V, 13.10.2004,
n. 6648), ciò che rileva in sede di
applicazione sinergica della norma
urbanistica e della norma igienico-sanitaria
di legge è proprio la dimostrazione da parte
dell'imprenditore che l'esercizio
dell'industria insalubre, per l'introduzione
di nuovi metodi o speciali cautele, non
arrechi nocumento alla salute del vicinato e
non tanto la formale osservanza di una
determinata distanza
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.09.2011 n.
4952 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Differimento dell'accesso agli atti
di gara.
Il
Consiglio di Stato, Sez. V, con
sentenza 01.09.2011 n.
4905 ha precisato che in un appalto
pubblico l’accesso al contenuto delle
valutazioni della commissione, in merito
alla verifica delle anomalie, deve essere
differito fino al momento
dell’aggiudicazione definitiva.
Per una migliore comprensione della
decisione si precisa che l’articolo 13
(Accesso agli atti e divieti di
divulgazione) del d.lgs. 163/2006 nel suo
comma 2 prevede, in particolare, il
differimento del diritto di accesso: “…c) in
relazione alle offerte, fino
all'approvazione dell'aggiudicazione; c-bis)
in relazione al procedimento di verifica
della anomalia dell'offerta, fino
all'aggiudicazione definitiva”.
La sentenza in commento è stata pronunciata
in seguito ad un ricorso in materia di
accesso presentato da una società che, non
avendo positivamente superato la valutazione
di congruità dell’offerta, aveva chiesto il
rilascio della copia dei verbali relativi
alle valutazioni effettuate dalla
commissione di gara.
Questa istanza veniva differita dalla
stazione appaltante, ai sensi dell’articolo
13, comma 2, lett. c-bis, fino
all’aggiudicazione definitiva.
Avverso questa decisione la società
presentava ricorso dinanzi al TAR
Sardegna, il quale accoglieva il gravame sul
presupposto che il differimento contenuto
nell’articolo 13 del codice dei contratti
pubblici non trovasse applicazione alle
offerte presentate dallo stesso ricorrente.
In seguito all’appello presentato dalla
stazione appaltante, e in riforma della
decisione del giudice di prime cure, il
Consiglio di Stato ha chiarito come le
previsioni dell’articolo 13 hanno “…un
contenuto precettivo generale e non
derogabile, come si deduce anche dal fatto
che il cit. art 13, al co. 3, dispone che
gli atti richiamati non possono essere resi
"in qualsiasi altro modo noti", mentre le
possibilità di deroga alle prescrizioni in
esso contenute (v. co. riferimento al co.
5, lett. a) e b)) sono specificamente
individuate.
Del resto, le disposizioni trovano logica
giustificazione nell’esigenza che proceda
alla valutazione delle offerte senza
possibili turbative, che potrebbero derivare
dalla conoscenza, all’esterno, delle
valutazioni adottate prima della conclusione
del procedimento; il differimento, poi, non
comprime la tutela degli interessati, perché
riguarda atti endoprocedimentali, non
autonomamente impugnabili”.
sezione ha ulteriormente sottolineato come
il differimento sia del tutto in linea con
le disposizioni contenute nell’articolo 79 (informazioni circa i mancati inviti, le
esclusioni e le aggiudicazioni) il quale nel
suo comma 5-quater fa salvi i provvedimenti
di differimento dell’accesso adottati ai
sensi dell’articolo 13.
In conclusione i giudici della V sezione
hanno chiarito come sia legittima la
decisione di una stazione appaltante che
decida di differire l’accesso al contenuto
delle valutazioni della commissione, in
merito alla verifica delle anomalie, sino al
momento dell’aggiudicazione definitiva (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
In caso di abbandono o
deposito incontrollato di rifiuti, il
destinatario dell'ordinanza sindacale di
rispristino è colui cui è riconducibile il
fatto. Conseguentemente, l'ordinanza in parola non può
essere adottata laddove risulti del tutto
indimostrata la circostanza di cui sopra,
specie se permangono difficoltà
nell'individuare competenze e imputazioni.
L'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006
richiede che il destinatario dell'ordinanza
sia colui cui è riconducibile l'abbandono o
il deposito incontrollato del rifiuto. Ne
consegue che l'ordinanza in parola non può
essere adottata laddove, come accaduto nella
fattispecie in esame, risulti del tutto
indimostrata la circostanza di cui sopra,
specie se permangono difficoltà
nell'individuare competenze e imputazioni.
Deve pronunciarsi dichiarazione di
inammissibilità dei motivi aggiunti qualora,
a seguito dell'impugnazione di un dato
provvedimento, ci siano stati solo degli
accertamenti successivi non sfociati in
altri provvedimenti definitivi, bensì in
meri atti interprocedimentali e, dunque, non
lesivi (TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 01.09.2011 n. 1375
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il provvedimento di esclusione dell'impresa
dalla gara pubblica deve essere sottoposto ad
impugnazione entro 30
giorni dall'acquisita conoscenza del
medesimo, configurandosi, in caso contrario,
una impugnazione tardiva.
Il provvedimento di esclusione dell'impresa
dalla gara pubblica, in quanto atto della
procedura, deve essere sottoposto ad
impugnazione, a norma dell'art. 120, comma
quinto, D.Lgs. n. 104 del 2010, entro trenta
giorni dall'acquisita conoscenza del
medesimo, configurandosi, in caso contrario,
una impugnazione tardiva.
La tardiva impugnazione del provvedimento di
esclusione dalla gara pubblica determina il
consolidamento e la definitiva
inoppugnabilità del medesimo, nonché, da un
lato, il sopravvenuto difetto di interesse
in capo all'escluso riguardo alla gara di
riferimento e, dall'altro, la insussistenza
di ogni obbligo dell'Amministrazione
procedente in merito all'esame della domanda
di autotutela formulata, in relazione alla
quale deve, pertanto, ritenersi legittimo il
silenzio serbato (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 30.08.2011
n. 1264 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Devono svolgersi in seduta
pubblica gli adempimenti concernenti la
verifica dell'integrità dei plichi
contenenti l'offerta.
E' principio inderogabile in qualunque tipo
di gara quello secondo cui devono svolgersi
in seduta pubblica gli adempimenti
concernenti la verifica dell'integrità dei
plichi contenenti l'offerta, sia che si
tratti di documentazione amministrativa che
di documentazione riguardante l'offerta
tecnica ovvero l'offerta economica, e
conseguentemente è da valutare illegittima
l'apertura in segreto di plichi.
Il mancato rispetto del principio di
pubblicità delle sedute della Commissione,
con riguardo alla fase dell'apertura dei
plichi contenenti le offerte e delle buste
contenenti le offerte economiche dei
partecipanti, integra quindi un vizio del
procedimento che comporta l'invalidità
derivata di tutti gli atti di gara, giacché
la pubblicità delle sedute risponde
all'esigenza di tutela non solo della parità
di trattamento dei concorrenti, ai quali dev'essere
permesso di effettuare gli opportuni
riscontri sulla regolarità formale degli
atti prodotti e di avere così la garanzia
che non siano successivamente intervenute
indebite alterazioni, ma anche
dell'interesse pubblico alla trasparenza ed
all'imparzialità dell'azione amministrativa,
le cui conseguenze negative sono
difficilmente apprezzabili ex post
una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi
in mancanza di un riscontro immediato, senza
che rilievi l'assenza di prova
dell'effettiva lesione sofferta dai
concorrenti (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.08.2011 n. 4806 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
CONDOMINIO: Stop ai
danni immaginari.
Lavori in casa, la tranquillità non è un
diritto. La Cassazione dichiara non
meritevoli di risarcimento disagi, fastidi e ansie.
La tranquillità in casa è «sacrosanta». Ma
secondo la Cassazione è un diritto
«immaginario», perciò non risarcibile. In
particolare se nel condomino si
intraprendono lavori lunghi e fastidiosi,
disturbando con immissioni sonore continue
le altre famiglie, non si è tenuti a
risarcire loro il danno non patrimoniale.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione che,
con la
sentenza
19.08.2011 n. 17427,
ha accolto il ricorso di una coppia di
Milano che ha impiegato molti mesi per
ristrutturare il suo appartamento,
provocando così fastidiose immissioni sonore
e di polveri. Per questo motivo i
dirimpettai hanno citato in causa la coppia
chiedendo, oltre ai danni patrimoniali,
anche quelli morali, biologici ed
esistenziali. I lavori inoltre hanno causato
anche gravi danni al piano di calpestio
dell'intero locale prospiciente il cortile
del fabbricato.
Il Tribunale meneghino ha accolto l'istanza
sia sul fronte del danno morale sia sul
fronte di quello patrimoniale, liquidando 35
mila euro. La Corte d'appello ha confermato
il verdetto, riducendo tuttavia la misura
del risarcimento a 23 mila euro, fra danni
morali, alla serenità familiare e biologici.
Ma il verdetto è stato ribaltato dalla terza
sezione civile della Cassazione. La Suprema
corte infatti, seguendo quel filone
giurisprudenziale che ha cancellato il danno
esistenziale come figura autonoma, ha
bocciato i cosiddetti danni «immaginari»,
come quello alla serenità familiare.
Il danno non patrimoniale, motivano i
Consiglieri, anche quando sia determinato
dalla lesione di diritti inviolabili della
persona, costituisce danno conseguenza, che
deve essere allegato e provato. In tal caso
non si può parlare di danno evento nel senso
che il pregiudizio non si verifica per il
solo fatto che i lavori siano stati
fastidiosi ma vanno accertate le effettive
sofferenze patite dagli altri condomini.
Insomma, spiega la Corte, «il danno
biologico ha portata tendenzialmente
onnicomprensiva, in quanto il cosiddetto
danno alla vita di relazione ed i pregiudizi
di tipo esistenziale concernenti aspetti
relazionali della vita, conseguenti a
lesioni dell'integrità psicofisica, possono
costituire solo voci del danno biologico,
mentre sono da ritenersi non meritevoli
dalla tutela risarcitoria, quei pregiudizi
che consistono in disagi, fastidi,
disappunti, ansie e in ogni altro tipo di
insoddisfazione concernente gli aspetti più
disparati della vita quotidiana né possono
qualificarsi come diritti risarcibili
diritti del tutto immaginari, come il
diritto alla qualità della vita, allo stato
di benessere, alla serenità. Al di fuori dei
casi determinati dalla legge ordinaria, solo
la lesione di un diritto inviolabile della
persona concretamente individuato è fonte di
responsabilità risarcitoria non
patrimoniale».
Nell'udienza, tenutasi lo scorso 12 maggio,
la Procura generale aveva sollecitato una
soluzione opposta e cioè la conferma del
risarcimento di tutti i danni
(articolo ItaliaOggi
dell'08.09.2011). |
EDILIZIA PRIVATA: Ordinariamente,
non sussistono ragioni tecniche perché una
sopraelevazione abusiva non possa essere
demolita senza pregiudizio della parte
inferiore.
Ricorre il sig. ... per avversare il
provvedimento con cui il Comune di Reggio
Calabria gli ha intimato di demolire le
opere abusive meglio descritte in epigrafe.
Va respinta l’argomentazione difensiva
secondo la quale la demolizione sarebbe di
pregiudizio per la parte conforme del
fabbricato e dunque andrebbe irrogata una
pena pecuniaria: anche in tal caso, avrebbe
dovuto la parte ricorrente supportare, con
gli opportuni mezzi di prova, l’affermazione
(che, in difetto rimane meramente generica)
circa il rischio di una compromissione della
parte non abusiva dell’immobile (a tacere
della circostanza che, ordinariamente, non
sussistono ragioni tecniche perché una
sopraelevazione non possa essere demolita
senza pregiudizio della parte inferiore:
cfr. in ordine agli aspetti appena indicati,
TAR Reggio Calabria, 25.05.2011, nr. 451).
Quanto al vizio dell’atto costituito dalla
erronea fissazione di un termine di 30
giorni in luogo dei sessanta giorni, la
censura, meramente formale, non sorregge
l’annullamento, in quanto l’interessato
conserva il termine di legge per provvedere,
termine che, essendo elemento essenziale
dell’atto, si sostituisce di diritto a
quello inferiore erroneamente stabilito
dall’Autorità (TAR Lazio, Roma, II,
10.05.2010, nr. 516, richiamata dalla difesa
del Comune)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 12.08.2011 n. 668 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In materia di procedure
selettive, le clausole di esclusione sono di
stretta interpretazione, in forza del
preminente interesse alla massima
partecipazione, tanto più al cospetto di
previsioni non del tutto chiare.
In materia di procedure selettive, le
clausole di esclusione sono di stretta
interpretazione, in forza del preminente
interesse alla massima partecipazione, tanto
più al cospetto di previsioni non del tutto
chiare e non prive di margini di ragionevole
incertezza. Pertanto, nel caso di specie,
sulla base del dato testuale della
disciplina di gara e muovendo dalla premessa
che la procedura aveva ad oggetto
l'affidamento del servizio di vigilanza e
prevenzione armata e che il servizio di
portierato costituiva solamente un'opzione
eventuale, è illegittima l'esclusione dalla
gara di una società per non essere iscritta
alla camera di commercio per il servizio di
portierato.
L'inciso racchiuso nell'art. 3 del
capitolato -secondo cui i candidati
avrebbero dovuto dichiarare ai sensi
dell'art. 39 del D.Lgs. 163/2006 di essere
iscritti al Registro della camera di
commercio- deve infatti essere interpretato
per coerenza sistematica, nella sua indubbia
genericità, come riferito alla sola attività
principale oggetto dell'appalto, concernente
la vigilanza armata (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 04.08.2011 n. 4665 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla definizione di c.d. società
di terzo grado e applicabilità alle medesime
dell'art. 13 del D.L. n. 223 del 2006:
limiti.
Le c.d. società di terzo grado sono quelle
società caratterizzate da forme di
partecipazione indiretta o mediata, che non
sono state costituite da amministrazioni
pubbliche e non sono finalizzate a
soddisfare esigenze strumentali delle
medesime.
Il presupposto per l'eventuale applicazione
del divieto contenuto nell'art. 13 del d.l.
n. 223 del 2006, anche nei confronti delle
società di terza generazione o cd società di
terzo grado è che la società costituita o
posseduta dall'ente locale svolga servizi
strumentali per lo stesso. In presenza di
tale circostanza la finalità del d.l. n.
223, di evitare effetti distorsivi della
libera concorrenza, si persegue non solo
vietando le attività diverse da quelle
classificabili come strumentali rispetto
alle finalità dell'ente pubblico, ma anche
vietando la partecipazione delle società
strumentali ad altre società.
In effetti, l'alterazione della libera
concorrenza può realizzarsi anche in via
mediata, ossia fruendo dei vantaggi
derivanti dall'investimento del capitale di
una società strumentale in altro soggetto
societario costituito con finalità neppure
indirettamente strumentali, ma anzi
intrinsecamente imprenditoriali. Tale
principio si evince in particolare dalla
decisione n. 326 del 2008 della Corte
costituzionale, che ha ritenuto il divieto
imposto alle società strumentali di detenere
partecipazioni in altre società volto ad
evitare che le società in questione svolgano
indirettamente, attraverso proprie
partecipazioni o articolazioni, attività
loro precluse.
Divieto, peraltro, che la Corte ha ritenuto
non esteso alla detenzione di qualsiasi
partecipazione o alla adesione a qualsiasi
ente, bensì circoscritto alla detenzione di
partecipazioni in società o enti che operino
in settori preclusi alle società stesse.
---------------
Sono applicabili alle società controllate da
società strumentali e costituite con
capitale di queste gli stessi limiti che
valgono per le società controllanti, ove si
tratti di attività inerenti a settori
precluse a queste ultime. Infatti,
l'utilizzazione di capitali di una società
strumentale per partecipare, attraverso la
creazione di una società di terzo grado, a
gare ad evidenza pubblica comporterebbe, sia
pure indirettamente, l'elusione del divieto
di svolgere attività diverse da quelle
consentite a soggetti che godano di una
posizione di mercato avvantaggiata.
Né può costituire valido argomento a
contrario la previsione dello scorporo di
attività non più consentite alle società
strumentali di cui al c. 3 dell'art. 13 del
"Decreto Bersani", dovendosi tale
disposizione intendere nell'unico senso
compatibile con il divieto imposto alle
società strumentali di partecipare ad enti,
sancito dal comma 1 del medesimo articolo e
cioè come volta a costituire un nuovo
soggetto societario, destinato a concorrere
in pubbliche gare per lo svolgimento di un
servizio di interesse generale, che non
comporti l'intervento finanziario dell'ente
strumentale.
Tale interpretazione trova del resto
conferma nella circostanza che l'obbligo di
cessione a terzi delle società e delle
partecipazioni vietate, abrogato dalla l.
finanziaria 2007 (art. 1, c. 720, l.
27.12.2006, n. 296), è stato poi
ripristinato dalla l. finanziaria 2008 (l.
24.12.2007, n. 244, art. 3, c. 29), con la
previsione di un termine di adempimento più
volte prorogato, da ultimo con l'art. 71, co.
1, lett. e) della l. 18.06.2009, n. 69
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 04.08.2011 n. 17 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
SICUREZZA LAVORO: Il
datore di lavoro può licenziare il
lavoratore impossibilitato ad indossare le
scarpe antinfortunio?
In linea generale, il licenziamento di un
lavoratore impossibilitato ad utilizzare i
dispositivi individuali di sicurezza per
malformazioni fisiche è legittimo solo se il
datore dimostri la non reperibilità sul
mercato di altri DPI idonei e compatibili
con la disabilità del dipendente.
Nella questione in esame, un datore di
lavoro ha licenziato un lavoratore che non
riusciva ad indossare le scarpe
antinfortunistiche per una malformazione al
piede che è stata dimostrata in sede
processuale.
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza 25.07.2011 n. 16195, ha
ritenuto illegittimo il licenziamento perché
il datore di lavoro avrebbe dovuto provare
la non reperibilità sul mercato di scarpe
antinfortunistiche adatte a consentire in
sicurezza l'espletamento del lavoro.
In definitiva, prima di licenziare un
lavoratore perché impossibilitato ad usare
Dispositivi di Protezione Individuale per un
qualsiasi impedimento fisico, il datore di
lavoro deve adoperarsi a reperire sul
mercato altri DPI utilizzabili dal
dipendente che possano comunque garantire la
sicurezza richiesta dalla legge.
Solo se tali DPI dovessero risultare non
esistenti sul mercato, il datore di lavoro
sarà in grado di fornire la prova richiesta
per giustificare il licenziamento del
proprio dipendente
(link a www.acca.it). |
APPALTI SERVIZI:
E' illegittima la clausola di un
bando per l'affidamento del servizio di
refezione scolastica, che impone ai
partecipanti l'effettiva disponibilità di un
centro di cottura nel territorio comunale o
di allestirlo esclusivamente in una data
area.
L'autorizzazione sanitaria per la gestione
di un centro cottura deve risultare
necessariamente intestata direttamente al
soggetto che svolge il servizio.
In caso di appalto del servizio di refezione
scolastica, il richiedere l'effettiva
disponibilità di un centro di cottura nel
territorio comunale alla data di
presentazione della domanda, senza
consentire all'impresa di organizzarsi
all'esito della vittoriosa partecipazione,
equivarrebbe a riservare la gara stessa alla
sole imprese che già operano nel territorio,
in palese violazione delle disposizioni
comunitarie e che, peraltro, è illegittima
per irragionevolezza e contrasto con i
principi comunitari di massima tutela della
concorrenza tra imprese, il bando per
l'affidamento del servizio di refezione
scolastica, che impone ai partecipanti di
allestire un centro per la cottura e la
preparazione dei pasti esclusivamente in una
data area, tutte le volte in cui tale
prescrizione non sia utile ai fini della
individuazione del miglior contraente e non
sia giustificabile con addotte finalità di
controllo dell'attività di confezionamento,
dal momento che contrasta con i principi di
economicità e di risparmio su scala
aziendale, in quanto si determina un
indubbio favoritismo per i pochi (o unici)
soggetti che già sono presenti in quel
preciso ambito territoriale, dovendo
considerarsi sufficiente, per le specifiche
finalità dell'amministrazione, solo una
clausola che stabilisca i tempi massimi di
trasporto dei pasti e la possibilità, da
parte dell'Amministrazione, di verificare il
loro rispetto.
L'autorizzazione sanitaria per la gestione
di un centro cottura deve risultare
necessariamente intestata direttamente al
soggetto che svolge il servizio, poiché la
responsabilità del titolare
dell'autorizzazione sanitaria (che viene
rilasciata intuitu personae e sulla
base dei requisiti del solo soggetto
richiedente) è personale e l'Amministrazione
non può consentire che tale autorizzazione
sia intestata a soggetti terzi (TAR
Abruzzo-Pescara,
sentenza 22.07.2011 n. 476 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Istituzione della Commissione
edilizia comunale e suoi poteri.
L’art. 4 del d.P.R. n. 380/2001 (T.U.E.L.),
nel delineare i contenuti dei regolamenti
edilizi comunali adottati ai sensi
dell'articolo 2, comma 4, prevede che, nel
caso in cui il Comune intenda istituire la
commissione edilizia, il regolamento indica
gli interventi sottoposti al preventivo
parere di tale organo consultivo. In base a
tale disposizione, pertanto, non vi è alcun
limite imposto agli enti locali in ordine
al’obbligatorietà della istituzione della
Commissione in discorso né, tampoco, in
ordine ai casi in cui può essere richiesto
il parere dell’organo tecnico, che vanno
previsti dal regolamento edilizio comunale.
Il T.U. 380/2001 prevede la facoltà del
Comune di individuare, a mezzo del
regolamento edilizio comunale, i casi di
rimessione alla Commissione per la qualità
architettonica e il paesaggio affinché essa
renda pareri facoltativi, in aggiunta alle
ipotesi in cui l’organismo tecnico è tenuto
a rendere i pareri obbligatoriamente; ciò
purché si tratti di attività edilizia che
richiede il rilascio di un titolo edilizio.
Inoltre, nulla vieta che l’Amministrazione
comunale, in casi particolarmente delicati,
possa interpellare la Commissione anche su
casi diversi da quelli espressamente
previsti, su segnalazione dell’ufficio
competente per materia (1).
---------------
(1) Alla stregua del principio nella
specie è stata respinta la censura con la
quale si era sostenuto che era illegittimo
il parere espresso (su di una domanda di
permesso di costruire) dalla Commissione per
la qualità architettonica e il paesaggio,
nella cui competenza consultiva non
rientrerebbero, ai sensi del d.P.R.
380/2001, tutti gli interventi che invece il
Comune ha inteso attribuirgli, in tal modo
tutelando il territorio "a posteriori", caso
per caso, esaminando le singole domande di
titoli edilizi (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - TAR Emilia
Romagna-Parma,
sentenza 12.07.2011 n. 252 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento che ingiunge la demolizione è
atto vincolato e, quindi, non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati. Presupposto per la
sua adozione è, infatti, soltanto la
constatata esecuzione dell'opera in
difformità dalla concessione o in assenza
della medesima, con la conseguenza che tale
provvedimento, ove ricorrano i predetti
requisiti, è sufficientemente motivato con
l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse
pubblico alla sua rimozione né, trattandosi
di atti del tutto vincolati, è necessaria
una comparazione di interessi e una
motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione. Trattandosi, poi, di atti
dovuti a contenuto sostanzialmente
vincolato, secondo la giurisprudenza
prevalente, non necessitano di preventiva
comunicazione di avvio del procedimento.
Come è ampiamente noto, il provvedimento che
ingiunge la demolizione è atto vincolato e,
quindi, non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati. Presupposto per la
sua adozione è, infatti, soltanto la
constatata esecuzione dell'opera in
difformità dalla concessione o in assenza
della medesima, con la conseguenza che tale
provvedimento, ove ricorrano i predetti
requisiti, è sufficientemente motivato con
l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa
l'interesse pubblico alla sua rimozione né,
trattandosi di atti del tutto vincolati, è
necessaria una comparazione di interessi e
una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione (vd. Tar Lazio, I, 06.04.2011 n.
3047; Cons. St., V, 07.09.2009 n. 5229).
Trattandosi, poi, di atti dovuti a contenuto
sostanzialmente vincolato, secondo la
giurisprudenza prevalente, non necessitano
di preventiva comunicazione di avvio del
procedimento (vd., da ult., Tar Salerno, II,
13.04.2011 n. 702)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 11.08.2011 n. 647 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
posizionamento di un cancello non concreta
un "abuso edilizio" della specie di quelli
soggetti a demolizione: nessuna norma
prescrive, infatti, che per realizzare
l'opera in questione (un cancello con
funzione di apertura e chiusura del varco di
accesso ad una proprietà privata, opera che
per sua stessa conformazione non determina
volumetria) occorra preventivamente munirsi
del permesso di costruire.
Secondo un
orientamento giurisprudenziale consolidato,
il posizionamento del cancello non concreta
un "abuso edilizio" della specie di
quelli soggetti a demolizione: nessuna norma
prescrive, infatti, che per realizzare
l'opera in questione -un cancello con
funzione di apertura e chiusura del varco di
accesso ad una proprietà privata, opera che
per sua stessa conformazione non determina
volumetria- occorra preventivamente munirsi
del permesso di costruire (cfr., tra le
tante, Tar Brescia, I, 18.04.2011 n. 574;
Tar Lazio, II, 06.10.2008 n. 8777).
Il Tribunale ritiene, inoltre, che la parte
abbia sufficientemente provato come la
chiusura a mezzo di cancello posto al
confine della proprietà condominiale lato
Vico La Russa non sia un fatto nuovo, ma si
sia concretizzata nella sostituzione di un
preesistente cancello.
Ne consegue che ai sensi dell’art. 5 D.l.
25.03.2010 n. 40, conv. con modif. in l.
20.06.2010 n. 73, la sostituzione del
cancello, quale intervento di manutenzione
ordinaria, è ascrivibile nell’attività
edilizia libera, come sostenuto nel motivo
5. di ricorso.
Come già affermato dalla giurisprudenza,
infatti, "la sostituzione o il
rinnovamento di serramenti e, quindi, di
infissi, serrande, finestre e abbaini,
rientra nel concetto di finiture di edifici,
come tale configurabile in termini di
manutenzione ordinaria ai sensi dell'art. 3
lett. a) T.U. 06.06.2001, n. 380 e, cioè, di
attività libera e non soggetta a denuncia di
inizio attività ai sensi dell'art. 6, lett.
a), dello stesso decreto, e ciò sia che
vengano impiegati gli stessi materiali
componenti, sia che la sostituzione o il
rinnovamento venga effettuata con materiali
diversi" (Tar Piemonte, I, 02.03.2009 n.
620; Id, 12.04.2010 n. 1761 e Tar Catanzaro,
01.07.2008 n. 1027 con specifico riferimento
alla sostituzione di un cancello)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 11.08.2011 n. 647 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Tassa sulle gare, versamento
senza esclusioni.
L'unica prescrizione
imposta dalla legge ai fini
dell'ammissibilità dell'offerta, è
l'effettivo versamento del contributo,
restando del tutto irrilevante le modalità
attraverso le quali tale versamento viene di
fatto eseguito.
Con la sentenza che si presenta, il giudice
amministrativo si pronuncia in ordine alla
disciplina, in sede di bando di gara, delle
modalità di versamento della cosiddetta "tassa
sulle gare", ovvero il contributo dovuto
all'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture, ex
art. 1, comma 67, L. 23.12.2005, n. 266.
Invero, tale contributo è dovuto per la
partecipazione agli appalti pubblici, e va
versato secondo le modalità, nell'ammontare
e nei termini indicati dalla stessa
Autorithy, con apposita delibera e relative
istruzioni operative.
In particolare, va fatto osservare che le
sopra richiamate modalità sono fissate in un
atto di normazione secondaria (la suddetta
deliberazione).
I soggetti vigilati, infatti, nell'adempiere
all'onere di effettuare il versamento delle
contribuzioni, debbono attenersi alle
istruzioni operative pubblicate sul sito
dell'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture.
Inoltre, esse sono generalmente ribadite nel
bando di gara predisposto dalla stazione
appaltante.
E' jus receptum che il versamento
della predetta tassa è condizione
d'ammissibilità alla procedura di selezione
del contraente, e che la
mancata/insufficiente effettuazione del
citato versamento costituisce ope legis
legittima causa d'estromissione dalla gara
d'appalto.
Infatti, il dibattito giurisprudenziale si è
più di recente orientato sui vizi relativi
alle modalità del versamento per opera dei
partecipanti, piuttosto che alla relativa
disciplina da parte della stazione
appaltante.
S'inserisce in tale dibattito la
sentenza 08.07.2011 n. 591,
pronunciata dal TAR Emilia Romagna-Bologna,
Sez. I, nella quale si afferma che il
versamento della tassa sulle gare effettuato
con modalità diverse da quelle impartite nel
bando di gara può rappresentare una mera
irregolarità, ma non una violazione di
gravità tale da esigere un'apposita norma di
esclusione del concorrente dalla procedura
concorsuale.
Secondo il giudice emiliano, infatti,
l'unica prescrizione imposta dalla legge ai
fini dell'ammissibilità dell'offerta, è
l'effettivo versamento del contributo,
restando del tutto irrilevante le modalità
attraverso le quali tale versamento viene di
fatto eseguito e, conseguentemente, deve
ritenersi illegittima la clausola del
disciplinare di gara che impone, a pena
d'esclusione, l'osservanza di specifiche
modalità del versamento anzidetto, così
attribuendo rilievo a condotte non
espressamente previste dalla legge e
oltretutto violando il generale principio
del favor partecipationis.
In altri termini: è illegittima la clausola
di un bando che disponga l'esclusione da una
gara d'appalto per versamento del contributo
all'AVCP effettuato con modalità differenti
rispetto a quelle richieste dalla lex
specialis.
Dalla statuizione deriva l'inefficacia ex
tunc del contratto stipulato con la
ditta risultata aggiudicataria dell'appalto,
stante l'annullamento degli atti presupposti
e conseguenti allo svolgimento della gara
medesima, con obbligo di riammissione del
ricorrente alla selezione, prima
ingiustamente pretermesso, per il
riesercizio, da parte dell'Amministrazione,
dell'attività tecnico-valutativa concernente
le offerte presentate e la conseguente nuova
aggiudicazione (commento tratto da
www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pareti finestrate, distanze
legali da interpretare.
La Corte di legittimità ritorna sulle
insidiose problematiche delle distanze
legali e sui criteri interpretativi al
riguardo delle norme regolamentari locali.
Ai fini dell'osservanza delle distanze
legali, ove sia applicabile il d.m. n.
1444/1968 in quanto recepito negli strumenti
urbanistici, l'obbligo del rispetto della
distanza minima assoluta di dieci metri tra
pareti finestrate di edifici antistanti,
deve essere applicato anche nel caso in cui
una sola delle pareti che si fronteggiano
sia finestrata, mentre l'altra risulti
parzialmente composta da un avancorpo cieco
di altezza inferiore all'edificio
finestrato, atteso che la norma in esame è
finalizzata alla salvaguardia dell'interesse
pubblico-sanitario a mantenere una
determinata intercapedine tra gli edifici
che si fronteggiano quando uno dei due abbia
una parete finestrata e non, quindi, a
salvaguardare l'interesse privato del
frontista alla riservatezza.
In altri termini, il citato d.m. n. 1444 del
1968, che, in applicazione dell'art.
41-quinquies della legge urbanistica, come
modificato dall'art. 17 della cosiddetta
legge ponte, detta i limiti di densità,
altezza, distanza tra i fabbricati, pone
all'art. 9, secondo comma, una prescrizione
tassativa ed inderogabile, e cioè che negli
edifici ricadenti in zone territoriali
diverse dalla zona "A" debba essere
rispettata in tutti i casi una distanza
minima di dieci metri tra pareti finestrate
e pareti di edifici antistanti,
indipendentemente dalla circostanza che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia
finestrata e che tale parete sia quella del
nuovo edificio o dell'edificio preesistente,
o che si trovi alla medesima o a diversa
altezza rispetto all'altra.
E’ stato, in proposito, precisato che
l'indicato art. 9 del d.m. 02.04.1968 n.
1444 in materia di distanze fra fabbricati
va interpretato nel senso che la distanza
minima di dieci metri è richiesta anche nel
caso che una sola delle pareti
fronteggiantisi sia finestrata e che è
indifferente se tale parete sia quella del
nuovo edificio o quella dell'edificio
preesistente, essendo sufficiente per
l'applicazione di tale distanza che le
finestre esistano in qualsiasi zona della
parete contrapposta ad altro edificio,
ancorché solo una parte di essa si trovi a
distanza minore da quella prescritta.
Infine la giurisprudenza di legittimità ha
puntualizzato che la distanza minima di
dieci metri tra le costruzioni stabilita
dall'articolo 9, n. 2, del d.m. 02.04.1968
n. 1444, traente la sua efficacia precettiva
inderogabile dall'articolo 41-quinquies
della legge 17.08.1942 n. 1150 (come
modificato dall'articolo 17 della legge
06.08.1967 n. 765) -"ratione temporis"
applicabile-, deve osservarsi in modo
assoluto e che, pertanto essa va applicata
indipendentemente dall'altezza degli edifici
antistanti e dall'andamento parallelo delle
pareti di questi, purché sussista almeno un
segmento di esse tale che l'avanzamento di
una o di entrambe le facciate medesime porti
al loro incontro, sia pure per quel limitato
segmento.
Per utili riferimenti sul principio
essenziale affermato dalla S.C. cfr. Cass.
n. 1984 del 1999; Cass. n. 1108 del 2001 e,
da ultimo, Cass. n. 20574 del 2007 (commento
tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione
civile, sentenza 20.06.2011 n. 13547). |
APPALTI:
La tesi secondo cui dopo 30
giorni dall’aggiudicazione provvisoria, in
assenza di un provvedimento espresso, si
determinerebbe l’aggiudicazione definitiva
per implicito, pur sostenuta da un’isolata
pronuncia giurisprudenziale, appare peraltro
poco condivisibile anche alla stregua di
quanto disposto dall’art. 11 dello stesso
codice dei contratti pubblici, che, proprio
nel disciplinare le fasi delle procedure di
affidamento, sancisce, al quinto comma, che
«la stazione appaltante, previa verifica
dell’aggiudicazione provvisoria ai sensi
dell’art. 12, comma 1, provvede
all’aggiudicazione definitiva».
La norma distingue dunque nettamente
l’aggiudicazione provvisoria (con
l’appendice dell’approvazione) da quella
definitiva, in conformità del costante
insegnamento, alla stregua del quale la
seconda si pone in rapporto di autonomia con
la prima, tanto che viene ritenuto evento
del tutto fisiologico quello per cui ad
un’aggiudicazione provvisoria può non fare
seguito quella definitiva, inidoneo di per
sé ad ingenerare qualsiasi affidamento
meritevole di tutela.
Ne consegue che la mancata approvazione
espressa dell’aggiudicazione provvisoria ai
sensi e nei termini dell’art. 12, comma 1,
del codice dei contratti pubblici comporta
come effetto solamente quello
dell’approvazione automatica della stessa
aggiudicazione provvisoria, senza produrre
un “salto procedimentale”, con
perfezionamento dell’aggiudicazione
definitiva.
In altri termini, il meccanismo del
“silenzio assenso” prefigurato dall’art. 12,
comma 1, riguarda solo l’approvazione
dell’aggiudicazione provvisoria, mentre
l’aggiudicazione definitiva richiede una
manifestazione di volontà espressa
dell’Amministrazione, implicante, da parte
dell’organo amministrativo dotato di
competenza esterna, il rinnovato esame delle
valutazioni già compiute dall’organo tecnico
in sede di selezione della migliore offerta.
Anche a fronte di un’approvazione tacita
dell’aggiudicazione provvisoria la Stazione
appaltante conserva il potere discrezionale
di procedere o meno all’aggiudicazione
definitiva; e si tratta di un provvedimento
adottato da Autorità diversa (da quella che
ha disposto l’aggiudicazione provvisoria),
nell’esercizio di un potere e sulla base di
presupposti non assimilabili a quelli
relativi all’aggiudicazione provvisoria.
---------------
Il diniego di aggiudicazione definitiva,
intervenuto dopo più di un anno
dall’aggiudicazione provvisoria, non viola
di per sé i principi di buona
amministrazione.
Come evidenziato dalla giurisprudenza
formatasi sull’art. 2 della legge n. 241 del
1990, il mancato rispetto del termine finale
del procedimento non determina di per sé
l’illegittimità del provvedimento,
trattandosi di termine acceleratorio, o,
meglio, ordinatorio (pur con taluni profili
comminatori, evincibili ad esempio
nell’ultimo comma del predetto art. 2) per
la definizione del procedimento.
Peraltro, occorre precisare che il codice
dei contratti pubblici non enuclea uno
specifico termine per l’aggiudicazione
definitiva (l’art. 12, come visto,
riguardando l’aggiudicazione provvisoria).
Il fondamento di razionalità dell’omessa
previsione di un termine per
l’aggiudicazione definitiva va
verosimilmente rinvenuto nella non
prevedibilità a priori degli adempimenti
necessari, pur non potendosi tale termine
verosimilmente disancorare dal tempo di
efficacia dell’offerta, che è quella
indicata dal bando, ovvero di 180 giorni
dalla scadenza del termine per la sua
presentazione, prendendo a riferimento
l’ultima richiesta e l’ultimo adempimento.
---------------
La definitiva individuazione del concorrente
cui affidare l’appalto risulta consacrata
solamente con l’aggiudicazione definitiva;
può anzi dirsi che le fasi procedimentali di
passaggio fra l’aggiudicazione provvisoria e
quella definitiva sono preordinate proprio
alla verificazione della prima. Ciò viene
sovente tradotto nell’affermazione secondo
cui l’aggiudicazione provvisoria ha natura
di atto endoprocedimentale, ad effetti
ancora instabili ed interinali, e
l’aggiudicazione definitiva non costituisce
atto meramente confermativo della prima.
Spetta all’aggiudicazione definitiva, in
quanto epilogo del procedimento di gara,
procedere al controllo ed alla verifica di
regolarità delle operazioni di gara.
---------------
L’aggiudicazione provvisoria di un contratto
con l’Amministrazione non genera alcun
affidamento qualificato e risulta esposta a
revisioni che possono anche condurre al suo
annullamento, che non trova ostacoli
insuperabili, salvo l’obbligo di
motivazione. L’aggiudicazione provvisoria fa
sorgere, in capo all’aggiudicatario
provvisorio, solamente un’aspettativa alla
conclusione del procedimento.
L’attualità e la specificità dell’interesse
pubblico che sorregge il potere di
autotutela devono essere calibrate in
funzione della fase procedimentale in cui lo
stesso interviene, ed, in definitiva,
dell’affidamento ingenerato nel privato
avvantaggiato dal provvedimento; è, dunque,
anche diverso l’onere motivazionale
richiesto dalla giurisprudenza per procedere
all’annullamento degli atti di gara, a
seconda della circostanza che sia
intervenuta l’aggiudicazione definitiva od
addirittura la stipula del contratto, ovvero
che il procedimento di valutazione
comparativa concorrenziale non sia giunto
completamente a termine.
A prescindere dal fatto che, in astratto, la
revoca priva di indennizzo non sarebbe
illegittima, salva la possibilità di
azionare la pretesa patrimoniale, occorre
comunque considerare che l’indennizzo spetta
sempre che la revoca (legittima) incida su
di un provvedimento amministrativo ad
efficacia durevole, od anche istantanea, ma
comunque definitivo, ed in quanto tale
idoneo ad esprimere la propria effettualità.
Tale non è il caso dell’aggiudicazione
provvisoria, la quale è, come più volte
ripetuto, atto endoprocedimentale, con
effetti ancora instabili e del tutto
interinali; ciò comporta che, quand’anche al
provvedimento gravato di diniego
dell’aggiudicazione definitiva volesse
attribuirsi una portata revocatoria, non
sarebbe dovuto l’indennizzo.
---------------
L’aggiudicazione provvisoria è inidonea ad
ingenerare un qualunque affidamento
tutelabile con conseguente obbligo
risarcitorio, qualora non sussista
un’illegittimità nell’operato
dell’Amministrazione.
Se l’aggiudicazione provvisoria,
naturalmente temporanea, è inidonea ad
ingenerare un qualunque affidamento
tutelabile, bene si comprende come il
ritardo, ove per ipotesi configurabile,
nell’adozione del diniego del provvedimento
di aggiudicazione definitiva difficilmente
può produrre un danno ingiusto, e dunque
risarcibile.
Occorre preliminarmente enucleare l’esatta
natura giuridica del provvedimento
impugnato, formalmente recante il diniego di
approvazione dell’aggiudicazione
provvisoria, precedentemente disposta in
favore della società ricorrente, ma che, ad
avviso di quest’ultima, deve essere inteso
come annullamento di un’aggiudicazione
definitiva tacitamente formatasi.
Dall’art. 12, comma 1, del codice dei
contratti pubblici, si evince che
l’aggiudicazione provvisoria è soggetta ad
approvazione dell’organo competente nel
rispetto dei termini previsti dai singoli
ordinamenti, ed, in mancanza, entro trenta
giorni; il termine è interrotto dalla
richiesta di chiarimenti e documenti, ed
inizia nuovamente a decorrere allorché tali
chiarimenti o documenti pervengano
all’organo richiedente; decorso il termine,
l’aggiudicazione si intende approvata.
Anche se la disposizione da ultimo indicata
non specifica chiaramente quale
aggiudicazione debba intendersi approvata
con l’inutile decorso del termine entro il
quale va esercitato il potere di controllo,
non può comunque trascurarsi di considerare
che il comma entro cui la disposizione è
inserita concerne l’aggiudicazione
provvisoria.
Va altresì aggiunto che l’art. 12 del d.lgs.
n. 163 del 2006, nel disciplinare i “controlli
sugli atti delle procedure di affidamento”,
ha riguardo all’approvazione
dell’aggiudicazione provvisoria e poi del
contratto (per il quale è prevista anche
un’ulteriore fase di controllo
dell’approvazione), e non si occupa mai
dell’aggiudicazione definitiva.
La tesi secondo cui dopo trenta giorni
dall’aggiudicazione provvisoria, in assenza
di un provvedimento espresso, si
determinerebbe l’aggiudicazione definitiva
per implicito, pur sostenuta da un’isolata
pronuncia giurisprudenziale (cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 04.05.2010, n. 2554), appare
peraltro poco condivisibile anche alla
stregua di quanto disposto dall’art. 11
dello stesso codice dei contratti pubblici,
che, proprio nel disciplinare le fasi delle
procedure di affidamento, sancisce, al
quinto comma, che «la stazione
appaltante, previa verifica
dell’aggiudicazione provvisoria ai sensi
dell’art. 12, comma 1, provvede
all’aggiudicazione definitiva».
La norma distingue dunque nettamente
l’aggiudicazione provvisoria (con
l’appendice dell’approvazione) da quella
definitiva, in conformità del costante
insegnamento, alla stregua del quale la
seconda si pone in rapporto di autonomia con
la prima, tanto che viene ritenuto evento
del tutto fisiologico quello per cui ad
un’aggiudicazione provvisoria può non fare
seguito quella definitiva, inidoneo di per
sé ad ingenerare qualsiasi affidamento
meritevole di tutela (tra le tante, Cons.
Stato, Sez. VI, 27.07.2010, n. 4902; Sez. VI,
06.04.2010, n. 1907; Sez. V, 15.02.2010, n.
808).
Ne consegue che la mancata approvazione
espressa dell’aggiudicazione provvisoria ai
sensi e nei termini dell’art. 12, comma 1,
del codice dei contratti pubblici comporta
come effetto solamente quello
dell’approvazione automatica della stessa
aggiudicazione provvisoria (Cons. Stato,
Sez. V, 12.07.2010, n. 4483; Sez. V,
07.05.2008, n. 2089), senza produrre un “salto
procedimentale”, con perfezionamento
dell’aggiudicazione definitiva.
In altri termini, il meccanismo del “silenzio
assenso” prefigurato dall’art. 12, comma
1, riguarda solo l’approvazione
dell’aggiudicazione provvisoria, mentre
l’aggiudicazione definitiva richiede una
manifestazione di volontà espressa
dell’Amministrazione, implicante, da parte
dell’organo amministrativo dotato di
competenza esterna, il rinnovato esame delle
valutazioni già compiute dall’organo tecnico
in sede di selezione della migliore offerta.
Resta da aggiungere come anche a fronte di
un’approvazione tacita dell’aggiudicazione
provvisoria la Stazione appaltante conserva
il potere discrezionale di procedere o meno
all’aggiudicazione definitiva; e si tratta
di un provvedimento adottato da Autorità
diversa (da quella che ha disposto
l’aggiudicazione provvisoria),
nell’esercizio di un potere e sulla base di
presupposti non assimilabili a quelli
relativi all’aggiudicazione provvisoria
(così, da ultimo, TAR Lazio, Sez. I,
28.02.2011, n. 1809).
---------------
Con riguardo alla violazione del principio
di buon andamento e dei canoni di efficacia
ed efficienza, compendiati nell’art. 1 della
legge n. 241 del 1990, è indubbio che sia
passato un termine piuttosto ampio tra
l’aggiudicazione provvisoria, risalente al
25.11.2009, ed il diniego di aggiudicazione
definitiva, intervenuto il 25.01.2011, ma,
ragionando in astratto, come evidenziato
dalla giurisprudenza formatasi sull’art. 2
della legge n. 241 del 1990, il mancato
rispetto del termine finale del procedimento
non determina di per sé l’illegittimità del
provvedimento, trattandosi di termine
acceleratorio, o, meglio, ordinatorio (pur
con taluni profili comminatori, evincibili
ad esempio nell’ultimo comma del predetto
art. 2) per la definizione del procedimento
(tra le tante, Cons. Stato, Sez. VI,
01.12.2010, n. 8371; TAR Campania, Napoli,
Sez. IV, 27.12.2010, n. 28062).
Occorre peraltro precisare che il codice dei
contratti pubblici non enuclea uno specifico
termine per l’aggiudicazione definitiva
(l’art. 12, come visto, riguardando
l’aggiudicazione provvisoria); ciò trova
conferma indiretta nel fatto che il
successivo art. 79, comma 5, prevede la
comunicazione ex officio
dell’aggiudicazione definitiva, e tale
disposizione è particolarmente significativa
perché la comunicazione individua il dies
a quo per la proposizione del ricorso
giurisdizionale (cfr. art. 120, comma 5, del
cod. proc. amm.), e da tale comunicazione
decorre pure il termine di sospensione
sostanziale (di 35 giorni) per la
stipulazione del contratto (art. 11, comma
10, del d.lgs. n. 163 del 2006).
Il fondamento di razionalità dell’omessa
previsione di un termine per
l’aggiudicazione definitiva va
verosimilmente rinvenuto nella non
prevedibilità a priori degli adempimenti
necessari, pur non potendosi tale termine
verosimilmente disancorare dal tempo di
efficacia dell’offerta, che è quella
indicata dal bando, ovvero di centottanta
giorni dalla scadenza del termine per la sua
presentazione (cfr. art. 11, comma 6, del
d.lgs. n. 163 del 2006).
Se così è, prendendo a riferimento l’ultima
richiesta e l’ultimo adempimento del
settembre 2010, il termine non risulta
ancora spirato al momento dell’adozione del
provvedimento gravato.
---------------
Quanto all’asserita violazione dei principi
di trasparenza ed imparzialità, nella
prospettiva che spetti solamente alla
Commissione giudicatrice, nel rispetto della
sequenza procedimentale che impone di
esaminare l’offerta tecnica prima di quella
economica, valutare se l’offerta della
ricorrente costituisse un’ammissibile “proposta
tecnica migliorativa ed integrativa”,
ovvero si traducesse in una non consentita
difformità dal bando di gara, si tratta di
doglianza sostanzialmente infondata, atteso
che la definitiva individuazione del
concorrente cui affidare l’appalto risulta
consacrata solamente con l’aggiudicazione
definitiva (in termini, tra le tante, Cons.
Stato, Sez. V, 08.03.2011, n. 1446); può
anzi dirsi che le fasi procedimentali di
passaggio fra l’aggiudicazione provvisoria e
quella definitiva sono preordinate proprio
alla verificazione della prima (così Cons.
Stato, Sez. V, 27.04.2011, n. 2479). Ciò
viene sovente tradotto nell’affermazione
secondo cui l’aggiudicazione provvisoria ha
natura di atto endoprocedimentale, ad
effetti ancora instabili ed interinali, e
l’aggiudicazione definitiva non costituisce
atto meramente confermativo della prima.
Spetta all’aggiudicazione definitiva, in
quanto epilogo del procedimento di gara,
procedere al controllo ed alla verifica di
regolarità delle operazioni di gara (TAR
Veneto, Sez. I, 04.08.2010, n. 3447).
---------------
L’aggiudicazione provvisoria di un contratto
con l’Amministrazione non genera alcun
affidamento qualificato e risulta esposta a
revisioni che possono anche condurre al suo
annullamento, che non trova ostacoli
insuperabili, salvo l’obbligo di motivazione
(Cons. Stato, Sez. V, 27.04.2011, n. 2479).
L’aggiudicazione provvisoria fa sorgere, in
capo all’aggiudicatario provvisorio,
solamente un’aspettativa alla conclusione
del procedimento.
L’attualità e la specificità dell’interesse
pubblico che sorregge il potere di
autotutela devono essere calibrate in
funzione della fase procedimentale in cui lo
stesso interviene, ed, in definitiva,
dell’affidamento ingenerato nel privato
avvantaggiato dal provvedimento; è, dunque,
anche diverso l’onere motivazionale
richiesto dalla giurisprudenza per procedere
all’annullamento degli atti di gara, a
seconda della circostanza che sia
intervenuta l’aggiudicazione definitiva od
addirittura la stipula del contratto, ovvero
che il procedimento di valutazione
comparativa concorrenziale non sia giunto
completamente a termine.
Nel caso di specie il provvedimento è
adeguatamente motivato, in proporzione al
livello di affidamento ingenerato
dall’aggiudicazione provvisoria, che è atto
intermedio del procedimento di gara, e non
richiede quindi un’approfondita comparazione
tra l’interesse pubblico e l’interesse
privato.
Come già esposto, in corso di procedura è
più ampio e libero lo spazio di riesame da
parte dell’Amministrazione, non essendovi
ancora titolari di posizioni consolidate
(così anche TAR Sardegna, Sez. I,
11.11.2010, n. 2582).
A questo riguardo, occorre precisare che
tanto l’art. 21-nonies, quanto l’art.
21-quinquies hanno riguardo, essenzialmente,
al provvedimento “definitivo”, e solo
marginalmente agli atti intermedi; ciò lo si
evidenzia anche con riferimento all’assunto
di parte ricorrente, secondo cui si
verterebbe al cospetto di una revoca,
mancante però del prescritto indennizzo.
In realtà, ad avviso del Collegio, a
prescindere dal fatto che, in astratto, la
revoca priva di indennizzo non sarebbe
illegittima, salva la possibilità di
azionare la pretesa patrimoniale, occorre
comunque considerare che l’indennizzo spetta
sempre che la revoca (legittima) incida su
di un provvedimento amministrativo ad
efficacia durevole, od anche istantanea, ma
comunque definitivo, ed in quanto tale
idoneo ad esprimere la propria effettualità
(Cons. Stato, Sez. VI, 17.03.2010, n. 1554;
TAR Sardegna, Sez. I, 11.11.2010, n. 2582;
Sez. I, 12.06.2009, n. 976).
Tale non è il caso dell’aggiudicazione
provvisoria, la quale è, come più volte
ripetuto, atto endoprocedimentale, con
effetti ancora instabili e del tutto
interinali; ciò comporta che, quand’anche al
provvedimento gravato di diniego
dell’aggiudicazione definitiva volesse
attribuirsi una portata revocatoria, non
sarebbe dovuto l’indennizzo.
---------------
Viene anche in rilievo, seppure con qualche
specificità, il problema, ancora irrisolto,
della natura giuridica del danno da ritardo,
se cioè lo stesso sia configurabile per il
fatto del mero superamento del termine
finale del procedimento (c.d. danno da mero
ritardo), o si richieda un quid pluris,
come ritenuto, in passato, da Cons. Stato,
Ad. Plen., 15.09.2005, n. 7, e cioè il
sopraggiungere di un provvedimento di
accoglimento dell’istanza, vale a dire
satisfattivo dell’interesse pretensivo
azionato in giudizio.
Peraltro, nella fattispecie in esame, anche
a voler ritenere che il tempo sia di per sé
un bene della vita per il soggetto privato
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 28.02.2011, n.
1271), non può trascurarsi di considerare
che l’aggiudicazione provvisoria è inidonea
ad ingenerare un qualunque affidamento
tutelabile con conseguente obbligo
risarcitorio, qualora non sussista
un’illegittimità nell’operato
dell’Amministrazione (così Cons. Stato, Sez.
VI, 27.07.2010, n. 4902; Sez. VI,
06.04.2010, n. 1907; Sez. V, 15.02.2010, n.
808).
Se l’aggiudicazione provvisoria,
naturalmente temporanea, è inidonea ad
ingenerare un qualunque affidamento
tutelabile, bene si comprende come il
ritardo, ove per ipotesi configurabile,
nell’adozione del diniego del provvedimento
di aggiudicazione definitiva difficilmente
può produrre un danno ingiusto, e dunque
risarcibile
(TAR Umbria,
sentenza 16.06.2011 n. 172 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Anche
con riferimento al disposto di cui all’art.
146 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, il termine
per rendere il parere (come già quello
perentorio di sessanta giorni di cui
all'art. 159, comma 3, del d.Lgs. n.
42/2004, previsto per l'esercizio del potere
di annullamento dell'autorizzazione
paesaggistica) decorre dalla completa
ricezione, da parte della Soprintendenza,
dell'autorizzazione rilasciata e della
documentazione tecnico-amministrativa, sulla
cui base il provvedimento è stato adottato.
Ove la documentazione sia incompleta, la
Soprintendenza ha il potere ed anche il
dovere di chiederne l’integrazione, ma non
può per tale ragione limitarsi ad annullare
l’atto sottoposto al suo esame dalla
autorità subdelegata.
L'art. 6, comma 6-bis, del d.m. 13.06.1994,
n. 495, e l'art. 159, comma 2, del d.lgs.
22.01.2004, n. 42, possono ritenersi
ricognitivi del principio generale secondo
cui la Soprintendenza può effettuare
richieste istruttorie, idonee ad incidere
sul termine perentorio di sessanta giorni:
oltre all'ipotesi di documentazione non
trasmessa ed utilizzata in sede di rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, tali
richieste possono riguardare anche
accertamenti, chiarimenti ed elementi
integrativi di giudizio.
I rischi di elusione del termine perentorio
e di attribuzione alla Soprintendenza del
potere di annullamento, altrimenti
esercitabile senza termine certo, vengono
evitati attraverso il contenimento
temporale, risultante dalla lettura
combinata delle due disposizioni.
Ciò non significa che ogni richiesta
istruttoria sia idonea ad interrompere il
termine perentorio, in quanto resta anche
ferma la possibilità di dedurre in giudizio
la manifesta insussistenza dei descritti
presupposti, in base ai quali la richiesta
può essere ritenuta legittima (Sez. VI,
26.11.2007, n. 6032).
La tesi di fondo, secondo cui alla
Soprintendenza sarebbe preclusa ogni
richiesta di integrazione anche istruttoria.
e che la stessa, ogni qualvolta riscontri
una sia pure modesta insufficienza
documentale debba rendere parere
sfavorevole, appare non aderente al dato
normativo (e alla regola generale contenuta
nell’art. 6 della legge n. 241 del 1990) e
comunque si manifesta illogica, in quanto
foriera di un continuo proliferare di
richieste di riesame, oltre che in contrasto
col principio di leale collaborazione tra le
Autorità preposte alla gestione del vincolo
paesaggistico.
In conclusione, conserva attualità anche con
riferimento al disposto di cui all’art. 146
del d.Lgs. n. 42 del 2004 il principio
secondo cui il termine per rendere il parere
(come già quello perentorio di sessanta
giorni di cui all'art. 159, comma 3, del
d.Lgs. n. 42 del 2004, previsto per
l'esercizio del potere di annullamento
dell'autorizzazione paesaggistica) decorre
dalla completa ricezione, da parte della
Soprintendenza, dell'autorizzazione
rilasciata e della documentazione
tecnico-amministrativa, sulla cui base il
provvedimento è stato adottato (tra le
tante,Consiglio Stato, Sez. VI, 04.09.2007,
n. 4632).
Ove la documentazione sia incompleta, la
Soprintendenza ha il potere ed anche il
dovere di chiederne l’integrazione, ma non
può per tale ragione limitarsi ad annullare
l’atto sottoposto al suo esame dalla
autorità subdelegata
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.05.2011 n. 2611 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
puntuale indicazione degli elementi ostativi
all’accoglimento della richiesta di
sanatoria esclude innanzitutto la
sussistenza del dedotto vizio di difetto di
motivazione, risultando in concreto
assicurata la conoscenza delle ragioni di
fatto e di diritto che hanno determinato le
scelte dell’amministrazione e garantita
quindi la loro sindacabilità attraverso la
ricostruzione dell’iter logico–giuridico ad
esse sotteso.
Il diniego di sanatoria delle opere abusive
per incompatibilità ambientale è espressione
di una valutazione tecnica ampiamente
discrezionale, tipica manifestazione del
potere autoritativo dell’amministrazione,
che come tale si sottrae al sindacato di
legittimità, tranne le ipotesi di manifesta
illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza,
irrazionalità ovvero di macroscopico
travisamento dei fatti.
---------------
Per un verso, lo stato di degrado e
disordine ambientale (riferito
nell’impugnato parere della competente
Commissione per la tutela dei beni
ambientali e peraltro neppure contestato,
anzi sostanzialmente confermato, dagli
appellanti) non può costituire motivo di
giustificazione della costruzione abusiva
(atteso che diversamente opinando non
avrebbe senso neppure l’imposizione del
relativo vincolo, finalizzato proprio a
prevenire l’aggravamento della situazione e
di perseguire il possibile recupero, mentre
per altro verso, è sufficiente ricordare
che, in tema di rilascio di nulla-osta
paesaggistico, l’attività di verifica della
correttezza del giudizio espresso
dall’amministrazione preposta alla tutela
del vincolo e del conseguente provvedimento
comunale non implica necessariamente il
compimento di un effettivo sopralluogo, ben
potendo limitarsi alla valutazione
documentale della condotta tenuta dalle
amministrazioni interessate.
---------------
L'ordinanza di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia, è atto vincolato che non richiede
una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né una motivazione
sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l’esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare.
Ciò esclude qualsiasi rilevanza del vizio di
eccesso di potere per asserita sproporzione
tra l’abuso commesso e la sanzione, anche in
ragione del tempo trascorso tra il primo ed
il diniego di sanatoria.
Occorre premettere che il parere negativo
(decisione n. 604 del 05.06.1990) reso dalla
Commissione per la tutela dei beni
ambientali sulla domanda di condono
edilizio, è motivato sulla circostanza che “…i
manufatti e le opere riguardano un punto di
elevatissimo interesse ambientale e
paesistico, nei confronti del quale
costituiscono una presenza di degrado
estetico per la natura e la forma dei
manufatti, e costituiscono altresì una
presenza preoccupante per i rischi derivanti
all’ambiente da un incontrollato aumento del
carico antropico”.
La puntuale indicazione degli elementi
ostativi all’accoglimento della richiesta
sanatoria esclude innanzitutto la
sussistenza del dedotto vizio di difetto di
motivazione, risultando in concreto
assicurata la conoscenza delle ragioni di
fatto e di diritto che hanno determinato le
scelte dell’amministrazione e garantita
quindi la loro sindacabilità attraverso la
ricostruzione dell’iter logico–giuridico ad
esse sotteso.
Né può condividesi la pur suggestiva tesi,
secondo cui l’onere motivazionale incombente
sull’amministrazione sarebbe stato
rispettato solo formalmente, e non già
sostanzialmente, a causa della concreta
inidoneità e genericità delle ragioni
esposte (anche al fine di consentire
l’adeguato sindacato giurisdizionale sulle
contestata scelte amministrative): una
simile ricostruzione è frutto di un evidente
equivoco sulla natura giuridica della
valutazione di compatibilità ambientale
delle opere abusive e sui limiti del
relativo sindacato giurisdizionale.
Invero, il diniego di sanatoria delle opere
abusive per incompatibilità ambientale è
espressione di una valutazione tecnica
ampiamente discrezionale, tipica
manifestazione del potere autoritativo
dell’amministrazione, che come tale si
sottrae al sindacato di legittimità, tranne
le ipotesi di manifesta illogicità,
arbitrarietà, irragionevolezza,
irrazionalità ovvero di macroscopico
travisamento dei fatti (C.d.S., sez. VI,
07.10.2008, n. 4823), che non si rinvengono
nel caso di specie e che peraltro non sono
state neppure dedotte e provate dagli
appellanti.
Le contestazioni di genericità del parere
della Commissione per la tutela dei beni
ambientali, fatto proprio
dall’amministrazione comunale di Orbetello,
in ordine alla forma ed ai materiali delle
opere realizzate (degrado estetico), nonché
sullo stato di degrado della zona,
sull’insanabile contrasto con la bellezza
dell’ambiente e sull’incontrollato aumento
del carico antropico pertanto, lungi
dall’evidenziare eventuali effettivi vizi di
formazione del giudizio
dell’amministrazione, si atteggiano a mere
opinioni dissenzienti, volte a sovrapporre
e/o sostituire alle valutazioni
dell’amministrazione competente le proprie
soggettive considerazioni, cosa che le rende
gratuite ed apodittiche, prive di qualsiasi
elemento obiettivo di riscontro.
---------------
Quanto al
dedotto vizio di istruttoria per la
denunciata circostanza che il parere
negativo espresso dall’amministrazione
preposta al vincolo ed il successivo diniego
dell’amministrazione comunale, che non
sarebbero stati supportati da un’ispezione
dello stato dei luoghi ovvero da un apposito
sopralluogo, volto ad appurare l’effettiva
consistenza delle opere realizzate e il loro
inserimento nell’ambiente specifico della
zona interessata, peraltro già antropizzata
ed urbanizzata e già segnata
dall’insediamento di una struttura
ricettivo–turistica, esso è privo di
qualsiasi fondamento.
Deve essere infatti rilevato, per un verso,
che lo stato di degrado e disordine
ambientale (riferito nell’impugnato parere
della competente Commissione per la tutela
dei beni ambientali e peraltro neppure
contestato, anzi sostanzialmente confermato,
dagli appellanti) non può costituire motivo
di giustificazione della costruzione abusiva
(atteso che diversamente opinando non
avrebbe senso neppure l’imposizione del
relativo vincolo, finalizzato proprio a
prevenire l’aggravamento della situazione e
di perseguire il possibile recupero, C.d.S.,
sez. V, 27.03.2000, n. 1761; 27.04.2010, n.
2377), mentre per altro verso, è sufficiente
ricordare che, in tema di rilascio di
nulla-osta paesaggistico, l’attività di
verifica della correttezza del giudizio
espresso dall’amministrazione preposta alla
tutela del vincolo e del conseguente
provvedimento comunale non implica
necessariamente il compimento di un
effettivo sopralluogo, ben potendo limitarsi
alla valutazione documentale della condotta
tenuta dalle amministrazioni interessate
(C.d.S., sez. VI, 27.04.2010, n. 2377).
---------------
Quanto alla legittimità del provvedimento di
demolizione, la Sezione osserva che esso,
come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest’ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di
fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare (C.d.S., sez. IV, 01.10.2007, n.
5049; 10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n.
3955; sez. V, 07.09.2009, n. 5229).
Ciò esclude qualsiasi rilevanza del vizio di
eccesso di potere per asserita sproporzione
tra l’abuso commesso e la sanzione, anche in
ragione del tempo trascorso tra il primo ed
il diniego di sanatoria (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 27.04.2011 n. 2511 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROGETTUALI: Anche
il professionista tecnico, al pari di tutte
le altre figure professionali, incorre in
responsabilità contrattuale, qualora nello
svolgimento dell’incarico ricevuto non tenga
una condotta conforme alla diligenza
prevista dall’art. 1176, 2° co. C.C.. Punto
di partenza è necessariamente la nozione di
“diligenza professionale”; attraverso tale
criterio, infatti, è possibile misurare in
concreto il contenuto delle obbligazioni che
derivano dal contratto d’opera intellettuale
e, quindi, valutare i presupposti in
presenza dei quali si verifica
l’inadempimento del professionista. Il
progettista è tenuto a realizzare disegni
rappresentativi ed elaborati accessori al
progetto. Qualora l’attività svolta presenti
vizi tali da non consentire un’esatta
esecuzione dell’opera progettata, il
professionista risponde ai sensi dell’art.
1218 C.C..
L’obbligo cui è tenuto l’incaricato della
redazione del progetto di costruzione di un
edificio, consistente nell’accertare
preventivamente e con assoluta precisione le
dimensioni, i confini e le altre
caratteristiche, anche sotto il profilo
delle limitazioni urbanistiche, dell’area
sulla quale debba eseguirsi la costruzione
medesima, sussiste come dato prodromico
essenziale per il corretto espletamento del
mandato professionale, ancorché tali
prestazioni non abbiano formato oggetto di
uno specifico incarico del cliente. Tale
responsabilità non richiede la colpa grave,
non implicando l’individuazione dei confini
o l’acquisizione e l’osservanza di norme
regolamentari pubbliche la soluzione di
problemi tecnici di speciale difficoltà,
tanto da essere detta attività ricompresa
anche nella competenza delle professioni
tecniche minori.
Se dall’edificazione di una costruzione in
violazione delle norme sulle distanze legali
sia derivato l’obbligo del committente della
riduzione in pristino, sussiste il diritto
di rivalsa del committente nei confronti del
progettista qualora l’irregolare ubicazione
della costruzione sia conforme al progetto e
non sia stata impedita dal professionista
medesimo in sede di esecuzione dei lavori.
Anche il professionista tecnico, al pari di
tutte le altre figure professionali, incorre
in responsabilità contrattuale, qualora
nello svolgimento dell’incarico ricevuto non
tenga una condotta conforme alla diligenza
prevista dall’art. 1176, 2° co. C.C.
Punto di partenza è necessariamente la
nozione di “diligenza professionale”;
attraverso tale criterio, infatti, è
possibile misurare in concreto il contenuto
delle obbligazioni che derivano dal
contratto d’opera intellettuale e, quindi,
valutare i presupposti in presenza dei quali
si verifica l’inadempimento del
professionista.
Il progettista è tenuto a realizzare disegni
rappresentativi ed elaborati accessori al
progetto. Qualora l’attività svolta presenti
vizi tali da non consentire un’esatta
esecuzione dell’opera progettata, il
professionista risponde ai sensi dell’art.
1218 C.C.
Nel caso concreto non vi è dubbio che nella
condotta del ... sia ravvisabile la colpa
(come incidentalmente riconosciuto dallo
stesso Tribunale e non contestato
dall’appellante incidentale e
dall’assicuratore).
Trattandosi di responsabilità contrattuale,
ai fini del riparto dell’onere probatorio,
l’attore deve limitarsi a provare il
contratto ed allegare l’inadempimento del
debitore, astrattamente idoneo a provocare
il danno lamentato. Competerà al debitore
dimostrare o che tale inadempimento non vi è
stato ovvero che, pur esistendo, esso non è
stato eziologicamente rilevante.
Nella specie la società committente ha
dedotto che il professionista era incorso in
errore non scusabile nell’individuazione
delle distanze della costruzione rispetto al
confine e che tale errore era stato
determinato dall’omesso rispetto del
regolamento edilizio comunale. A tale
allegazione il convenuto non ha replicato in
modo specifico, limitandosi a contestare
(genericamente) “…in ogni caso la
fondatezza della domanda…” e a
concentrare le proprie difese sulla
inopponibilità della transazione conclusa
dalla F.lli Rossi con i confinanti e sulla
non giustificabilità di certe spese, di cui
si chiedeva il rimborso.
Deve ritenersi che l’ingegnere progettista
sia responsabile dello sconfinamento della
costruzione progettata. Ed invero, l’obbligo
cui è tenuto l’ingegnere incaricato della
redazione del progetto di costruzione di un
edificio, consistente nell’accertare
preventivamente e con assoluta precisione le
dimensioni, i confini e le altre
caratteristiche, anche sotto il profilo
delle limitazioni urbanistiche, dell’area
sulla quale debba eseguirsi la costruzione
medesima, sussiste come dato prodromico
essenziale per il corretto espletamento del
mandato professionale, ancorché tali
prestazioni non abbiano formato oggetto di
uno specifico incarico del cliente (C.
89/3476).
E’ inoltre certo che tale responsabilità non
richiede la colpa grave, non implicando
l’individuazione dei confini o
l’acquisizione e l’osservanza di norme
regolamentari pubbliche la soluzione di
problemi tecnici di speciale difficoltà,
tanto da essere detta attività ricompresa
anche nella competenza delle professioni
tecniche minori.
In base a indagine tecnica (svolta nel
giudizio possessorio) è emerso che la
porzione di edificio destinata a cantine,
autorimesse e relativa area di manovra per
le autovetture, fuoriuscendo parzialmente
dal piano di campagna, avrebbe dovuto essere
presa in considerazione ai fini del rispetto
delle distanze dal confine, come imposto
dagli artt. 58 e 59 del regolamento edilizio
del Comune di Rignano sull’Arno, e che,
conseguentemente, risultando edificata in
violazione di tali disposizioni, fondata era
la pretesa della sua demolizione e/o
arretramento. Come detto, tali risultanze
non sono state oggetto di contestazione ad
opera delle altre due parti in causa.
Se dall’edificazione di una costruzione in
violazione delle norme sulle distanze legali
sia derivato l’obbligo del committente della
riduzione in pristino, sussiste il diritto
di rivalsa del committente nei confronti del
progettista qualora l’irregolare ubicazione
della costruzione sia, come nella specie,
conforme al progetto e non sia stata
impedita dal professionista medesimo in sede
di esecuzione dei lavori
(Corte d'Appello-Firenze, Sez. II,
sentenza 25.02.2010 n. 93). |
AGGIORNAMENTO ALL'08.09.2011 |
ã |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
URBANISTICA:
Approvazione dei piani attuativi conformi.
Secondo quanto disposto dall’art. 5, comma
13, del D.L. n. 70/2011, convertito in legge
12.07.2011, n. 106, a decorrere
dall’11.09.2011 e “sino all’entrata in
vigore della normativa regionale, … i piani
attuativi … conformi allo strumento
urbanistico generale vigente, sono approvati
dalla giunta comunale”.
Va chiarito preliminarmente che il termine “approvati”,
in coerenza con gli obiettivi di
semplificazione perseguiti dal legislatore
statale, è da intendersi comprensivo anche
della fase di adozione del piano attuativo.
Per effetto della disposizione statale sopra
riportata, irrompe nell’ordinamento
urbanistico regionale un riparto di
competenze diverso rispetto a quanto
previsto dalla vigente legislazione
regionale in materia di approvazione dei
piani attuativi conformi.
Come noto, infatti, la L.R. n. 12/2005
prevede, salvo puntuali eccezioni, la
competenza del Consiglio comunale, sia per i
Comuni che versano tuttora in fase
transitoria (art. 25, comma 8-bis), sia per
i Comuni già dotati di PGT (art. 14, commi
1, 4 e 4-bis). Per come è formulata, la
sopraggiunta disposizione statale prevale
sulla disciplina regionale vigente,
quantomeno fino al perfezionamento di un
nuovo intervento legislativo regionale.
Pertanto, a far tempo dall’11.09.2011,
spetta alla Giunta comunale l’adozione dei
piani attuativi conformi al PRG o al PGT,
come pure l’approvazione definitiva degli
stessi, quand’anche fossero stati
precedentemente adottati dal Consiglio
comunale in ossequio a quanto previsto dalla
L.R. n. 12/2005.
Milano, 07.09.2011.
L’Assessore al Territorio e Urbanistica,
Daniele Belotti - Il Direttore Generale,
Bruno Mori (link a
www.territorio.regione.lombardia.it).
---------------
Al riguardo, si legga un primo commento
di Alice Galbiati:
Piani Attuativi: di chi è la competenza dopo
il Decreto Sviluppo? (link a
http://studiospallino.blogspot.com). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
La manovra-bis di ferragosto:
lavoratori a rischio licenziamento. Qual'è
il principale pericolo nascosto?
(CSA Lombardia,
nota settembre 2011). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
G. Bertagna e M. G. Galgani,
Il blocco della retribuzione del singolo
dipendente
(tratto
dalla newsletter di www.publika.it n. 44 -
settembre 2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Frigo,
La riqualificazione urbana nel decreto
sviluppo. Semplificazione o complicazione
del procedimento? (link a http://venetoius.myblog.it). |
URBANISTICA: L.
Spallino,
La pubblicazione on-line degli elaborati
tecnici degli strumenti urbanistici
(link a www.webimpossibile.net). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni
con vincolo ampio. Il limite del 20% vale
per ogni tipologia contrattuale. Delibera
della Corte dei conti a sezioni riunite
precisa l'applicazione per gli enti locali.
Negli enti locali
sottoposti al patto di stabilità, nei quali
l'incidenza delle spese di assunzione non è
superiore al 40% delle spese di personale,
il vincolo di spesa per assunzioni del 20
per cento, imposto dall'articolo 14, comma
9, della manovra correttiva dei conti
pubblici del 2010, si intende riferito alle
assunzioni di personale a qualsiasi titolo e
con qualsiasi tipologia contrattuale, in
quanto, nell'ordinamento vigente, non esiste
un principio di «favor» nei confronti delle
assunzioni temporanee o precarie rispetto a
quelle a tempo indeterminato.
Lo hanno precisato le Sezioni riunite della
Corte dei conti, in sede di controllo, nel
testo della
deliberazione 29.08.2011 n. 46,
che hanno così risolto alcune difformità di
interpretazione delle disposizioni contenute
al citato articolo 14, comma 9 del dl n.
78/2010.
Tale norma prevede, a decorrere
dall'01/01/2011 con riferimento alle
cessazioni intervenute nel 2010, che è fatto
divieto agli enti nei quali l'incidenza
delle spese di assunzione è pari o superiore
al 40% delle spese correnti di procedere ad
assunzioni di personale a qualsiasi titolo e
con qualsivoglia tipologia contrattuale,
mentre i restanti enti possono procedere ad
assunzioni di personale nel limite del 20%
della spesa corrispondente alle cessazioni
dell'anno precedente.
Sul punto sono intervenute alcune sezioni
della stessa magistratura contabile, per
dirimere la questione se il via libera alle
assunzioni (per la quota parte del 20%),
fossa da intendere esclusivamente a
tipologie di contratto a tempo
indeterminato, ovvero all'instaurazione di
altre tipologie di lavoro e, visto che sono
stati registrati differenti orientamenti, la
sezione lombarda della Corte ha chiesto alle
Sezioni riunite un intervento di massima.
È pacifico, hanno rilevato le Ss.rr., che la
norma in osservazione è finalizzata a
contenere la spesa di personale senza
incidere sulle modalità organizzative degli
enti interessati. Pertanto il vincolo di
spesa del 20% deve essere riferito alle
assunzioni di personale avvenute a qualsiasi
titolo e con qualsivoglia tipologia
contrattuale. Ne è prova la sua collocazione
(all'interno della disciplina del patto di
stabilità), che induce a ritenere che la
percentuale del 20% sia di natura
strutturale e riferita all'intero complesso
delle spese di personale.
Quindi, ammettono le Ss.rr., appare
indifferente la tipologia contrattuale,
rilevando esclusivamente il risultato in
termini di saldi economici e finanziari.
Peraltro, nell'ordinamento vigente non
esiste un principio di favor nei confronti
delle assunzioni temporanee o precarie
rispetto a quelle a tempo indeterminato. Ma,
nella predetta percentuale non devono essere
incluse le assunzioni obbligatorie per
legge, gli interventi caratterizzati da
somma urgenza e lo svolgimento di servizi «infungibili
ed essenziali». Tuttavia, la norma
appare «rigida» nella presunzione
assoluta che si possa fronteggiare
adeguatamente la riduzione dell'80% della
spesa afferente al turnover complessivo
negli enti soggetti al patto di stabilità.
Sussiste, quindi, l'esigenza e l'opportunità
di una migliore graduazione. Infine, nel
complesso della spesa presa a riferimento
per quantificare la percentuale del 20%
vanno inclusi anche stanziamenti non
utilizzati inerenti al personale a tempo
indeterminato cessato e non sostituito nel
2010
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti:
dopo il Dlgs 141/2011 - Tre vie d'uscita per
gli incarichi a contratto.
Per la Corte dei Conti del Lazio sono fuori
dalle limitazioni dell'articolo 19, comma 6,
le assunzioni di dirigenti a contratto
effettuate "a monte" con procedure
selettive.
Il
parere 09.08.2011
n. 47 giunge pochi giorni prima
dell'adozione definitiva del Dlgs 141/2011,
ovvero il correttivo alla riforma Brunetta,
e rischia di creare non poca confusione.
La questione degli incarichi dirigenziali
riguarda l'applicabilità del contingente
dell'8% previsto dall'articolo 19 del Dlgs
165/2001 anche agli incarichi a contratto di
cui all'articolo 110 del Testo unico degli
enti locali (Tuel). Le sezioni riunite hanno
creato un netto spartiacque: gli incarichi
dirigenziali in dotazione organica,
disciplinati dal comma 1, sono di fatto
limitati all'8%, mentre rimane in vita la
possibilità, prevista al comma 2, di
affidare incarichi extra-dotazione organica,
ma nel limite del 5% della stessa.
Per la Corte dei conti del Lazio le cose
stanno un po' diversamente. I magistrati
affermano che l'orientamento delle sezioni
riunite è riferibile solo agli incarichi
conferibili ex articolo 110, comma 1, in via
residuale mediante «contratti di diritto
privato».
Quindi, per il conferimento di incarichi «con
provvedimento fiduciario» oppure «intuitu
personae», indipendentemente dai
soggetti che ne sono destinatari, vanno
rispettati i rigorosi limiti di cui
all'articolo 19, comma 6; qualora invece vi
sia una selezione "a monte", tali
limiti scompaiono in virtù dell'autonomia
dell'ente locale.
L'amministrazione potrebbe quindi
disciplinare la necessità di una
selezione/concorso per l'accesso
all'incarico dirigenziale ex articolo 110,
comma 1, e in questo caso superare ogni
contingente di legge.
La tesi lascia certamente qualche dubbio.
Non va infatti dimenticato che tutte le
ultime disposizioni normative puntano a una
riduzione della dirigenza a contratto, e
certamente non a un suo ampliamento, come
potrebbe accadere con disposizioni
regolamentari appropriate. Una procedura
selettiva garantisce imparzialità, ma il
legislatore sembra aver puntato a un secco
contingentamento piuttosto che a individuare
modalità diverse di accesso al pubblico
impiego. La prova è anche nel riscritto
comma 557 della Finanziaria 2007, che
individua proprio nella riduzione delle aree
dirigenziali una forte azione per il
contenimento della spesa di personale.
A chiudere la vicenda ha comunque pensato il
Dlgs 141/2011. Il decreto correttivo
permette agli enti locali virtuosi nel
rispetto del patto di stabilità di innalzare
la percentuale per cui possono avvalersi di
dirigenti a tempo determinato fino al 18%,
precisando espressamente «ai sensi
dell'articolo 110, comma 1» del Tuel.
Un secondo intervento fa invece salvi i
contratti dirigenziali a termine stipulati
prima del 09.03.2011 anche oltre la
limitazione vigente, purché realizzati nel
rispetto delle norme sulle spese di
personale e delle assunzioni a tempo
determinato.
Vi sono quindi scaglioni temporali ben
chiari che si possono così riassumere:
- gli incarichi affidati entro il 9 marzo,
anche se superiori all'8%, sono validi fino
a scadenza;
- gli incarichi affidati dopo il 9 marzo
superiori all'8% non rispettano le norme
vigenti (potrebbero rientrare nella
casistica gli incarichi affidati dalle
amministrazioni che sono andate al voto
quest'anno);
- solamente quando usciranno i decreti per
stabilire gli enti virtuosi, si potrà
passare dall'8% al 18 per cento.
Vi è poi un altro punto critico. Possono
infatti beneficiare del 18% esclusivamente
gli enti collocati nelle fasce di
virtuosità, previste, però, solo per gli
enti soggetti a patto di stabilità. Ma cosa
accade agli incarichi dirigenziali a termine
nelle amministrazioni non soggette a patto?
(articolo Il Sole 24
Ore del 05.09.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
NEWS |
AMBIENTE-ECOLOGIA: MANOVRA
BIS/ Il Sistri resuscita, ma da febbraio.
L'obbligo dal 2012. Con deroghe per i
rifiuti non pericolosi. La commissione
bilancio al Senato reintroduce il sistema di
tracciabilità, ma ordina un check up.
Obbligatorietà del
Sistri a partire dal febbraio 2012, con
deroghe per gestori di rifiuti non
pericolosi a bassa criticità ambientale e
semplificazioni per operatori che
conferiscono coattivamente i beni a fine
vita a consorzi di recupero. Il tutto previa
verifica tecnica del sotteso sistema
informatico e sua eventuale modifica.
Ad aprire la strada per il ripristino del
sistema di tracciamento telematico dei
rifiuti cancellato il precedente 13 agosto
alla vigilia del suo esordio dal Dl 138/2011
è un emendamento allo stesso decreto
d'urgenza approvato all'unanimità dalla
Commissione bilancio del Senato il
05.09.2011 in sede d'esame (referente)
nell'iter di conversione del provvedimento.
Il ripristino del Sistri.
La richiesta della Commissione permanente,
accolta con soddisfazione nella stessa
giornata dal ministro dell'ambiente, fissa
nella secca data del 09.02.2012 l'inizio
dell'operatività del sistema di tracciamento
dei rifiuti, prevedendo così un unico
termine iniziale per tutti gli operatori
coinvolti, e ciò in luogo delle precedenti
(ed abrogate) norme Sistri che ne diluivano
invece la partenza tra il 1° settembre ed il
02.01.2012.
Le deroghe e le
semplificazioni.
Parallelamente alla reviviscenza del
sistema, l'emendamento della Commissione del
Senato prevede un (doppio) ammorbidimento
delle regole Sistri.
In primo luogo la proposta di modifica al Dl
138/2011 impegna il MinAmbiente ad
individuare con proprio decreto specifiche
tipologie di rifiuti alle quali, in
considerazione della quantità e dell'assenza
di specifiche caratteristiche di criticità
ambientale potranno essere applicate le
procedure (Sistri) previste per i rifiuti
speciali non pericolosi; con ciò chiedendo
(in sostanza) di rendere per gli operatori
che gestiscono tali rifiuti facoltativa e
non obbligatoria l'adozione del sistema di
tracciamento telematico.
In secondo luogo, l'emendamento della
Commissione prevede per gli operatori che
producono esclusivamente rifiuti soggetti a
ritiro obbligatorio da parte di sistemi di
filiera ex lege la possibilità di
delegare ai consorzi di recupero (secondo le
modalità previste per le associazioni di
categoria) i propri adempimenti Sistri.
L'implementazione del
sistema.
A corredo del ripristino del Sistri e
dell'alleggerimento delle relative regole la
Commissione Bilancio prevede infine anche un
«check» tecnico delle componenti
hardware e software necessarie al
funzionamento del sistema, obbligando il
dicastero dell'Ambiente ad un test di
funzionamento da effettuare in
collaborazione con le associazioni di
categoria maggiormente rappresentative.
Il tutto (anche) per una eventuale
semplificazione tecnologica delle procedure
informatiche che gli operatori dovranno
osservare per il tracciamento dei rifiuti.
L'iter dell'emendamento «pro
Sistri».
Le richieste della Commissione del Senato
dovranno trovare accoglimento in sede di
Assemblea plenaria sia dell'una che
dell'altra Camera entro il prossimo
12.10.2011 (deadline per la conversione del
decreto d'urgenza) ma dovranno soprattutto
essere tradotte in una formulazione tecnica
che permetta di ripristinare giuridicamente
l'ablazione operata dal dl 138/2011 di tutte
le principali norme «di sistema» del
Sistri.
Il provvedimento in questione ha infatti
dallo scorso 13.08.2011 stabilito
l'abrogazione delle seguenti disposizioni:
comma 2, lettera a), dell'articolo 188-bis,
articoli 188-ter e 260-bis del dlgs 152/2006
(cd. «Codice ambientale»); dm
Ambiente 17.12.2009 (primo provvedimento
regolamentare Sistri); Dm Ambiente
18.02.2011 n. 52 (cd. «testo unico Sistri»).
Fino al futuro e nuovo assetto del Dl
138/2011, lo ricordiamo, continueranno ad
applicarsi le (tradizionali) norme sulla
gestione dei rifiuti previste
dall'ordinamento giuridico nella loro
versione «pre Sistri», obbligando
dunque gli operatori a tenuta dei registri
di carico e scarico, formulario di
identificazione del trasporto dei beni a
fine vita, denuncia Mud
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: SISTRI,
ok anche dalla Commissione Bilancio.
Dopo il parere favorevole espresso dalla
Commissione Ambiente sull'ipotesi di
ripristino del SISTRI (abrogato dai commi 2
e 3 dell'art. 6 del D.L. n. 138/2011), è
stata la volta della Commissione Bilancio,
la quale, nel votare le proposte emendative
riferite all'art. 6, ha approvato
l'emendamento 6.15 (testo 3), che prevede
l'avvio dell'operatività del SISTRI dal
09.02.2012, nonché la programmazione di una
fase di verifica tecnica di software e
hardware e test di funzionamento ad ampia
partecipazione degli utenti, da effettuarsi
tra l'entrata in vigore della legge di
conversione della Manovra di ferragosto e il
15.12.2011.
Il partito del SISTRI segna un altro punto a
favore: alla Commissione Bilancio, uno degli
emendamenti al DDL di conversione del D.L.
n. 138/2011 (A.S. n. 2887) presentati sul
SISTRI riesce a passare, prefigurando un “ripristino”
del nuovo Sistema informatico di controllo
della tracciabilità dei rifiuti.
L’emendamento è il n. 6.15 col quale si
propone di sostituire i due commi della
Manovra che hanno decretato la soppressione
del SISTRI.
Di seguito ne riportiamo il testo:
Proposta di modifica n. 6.15 al DDL n. 2887
6.15 (testo 3) FLERES, D'ALÌ, ORSI,
MASCITELLI, DE ANGELIS, MERCATALI, BONFRISCO,
AGOSTINI, CARLONI, GIARETTA, LEGNINI, LUMIA,
LUSI I commi 2 e 3, ferma restando la
vigenza delle norme indicate nel medesimo
comma 2, sono sostituiti dai seguenti: «2.
Al fine di garantire un adeguato periodo
transitorio per consentire la progressiva
entrata in operatività del Sistema di
controllo della tracciabilità dei rifiuti,
nonché l'efficacia del funzionamento delle
tecnologie connesse al SISTRI, il Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio
e del mare, attraverso il concessionario
SISTRI, assicura, a decorrere dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione
del presente decreto-legge e sino al
15.12.2011, la verifica tecnica delle
componenti software e hardware, anche ai
fini dell'eventuale implementazione di
tecnologie di utilizzo più semplice rispetto
a quelle attualmente previste, organizzando,
in collaborazione con le associazioni di
categoria maggiormente rappresentative, test
di funzionamento con l'obiettivo della più
ampia partecipazione degli utenti.
Conseguentemente, fermo quanto previsto
dall'articolo 6, comma 2, lettera f-octies
del decreto-legge 13.05.2011, n. 70,
convertito, con modificazioni, dalla legge
12.07.2011, n. 106 per i soggetti di cui
all'articolo 1, comma 5, del decreto del
Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare 26.05.2011, per gli
altri soggetti di cui all'articolo 1 del
predetto decreto del Ministro dell'ambiente
e della tutela del territorio e del mare
26.05.2011, il termine di entrata in
operatività del SISTRI è il 09.02.2012.
Dall'attuazione della presente disposizione
non devono derivare nuovi o maggiori oneri a
carico della finanza pubblica.
3. Con decreto del Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio e del Mare, di
concerto con il Ministro per la
semplificazione normativa, sentite le
categorie interessate, entro novanta giorni
dall'entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto, sono
individuate specifiche tipologie di rifiuti,
alle quali, in considerazione della quantità
e dell'assenza di specifiche caratteristiche
di criticità ambientale, sono applicate, ai
fini del sistema di controllo di
tracciabilità dei rifiuti, le procedure
previste per i rifiuti speciali non
pericolosi». 3-bis. Gli operatori che
producono esclusivamente rifiuti soggetti a
ritiro obbligatorio da parte di sistemi di
gestione regolati per legge, possono
delegare la realizzazione dei propri
adempimenti relativi al SISTRI ai consorzi
di recupero, secondo le modalità già
previste per le associazioni di categoria.».
Le novità rispetto al testo originario della
Manovra sono dirompenti.
Innanzitutto, il testo implica una netta
marcia indietro del Governo sulla decisione
di sopprimer il SISTRI e tutte le norme ad
esso relative. Poi, si prevede la necessità
di una “verifica tecnica delle componenti
software e hardware, anche ai fini
dell'eventuale implementazione di tecnologie
di utilizzo più semplice rispetto a quelle
attualmente previste, organizzando, in
collaborazione con le associazioni di
categoria maggiormente rappresentative, test
di funzionamento con l'obiettivo della più
ampia partecipazione degli utenti”.
In altre parole, semplificazione del sistema
previo utilizzo di tecnologie “di utilizzo
più semplice” e nuovi test da condurre con
la collaborazione delle maggiori
associazioni di categoria.
Infine, la proroga dell’avvio del SISTRI al
09.02.2012, mantenendo ferma la previsione
del decreto Sviluppo (D.L. n. 70/2011, art.
6, comma 2, lettera f-octies) che aveva
stabilito che per i soggetti di cui all'art.
1, comma 5, D.M. 26.05.2011 (ossia i
produttori di rifiuti con max 10
dipendenti), la data di partenza dovesse
essere stabilita con successivo d.m. ma
comunque non potesse essere antecedente
all'01.06.2012.
Come è noto, però, l’iter di conversione in
legge della Manovra è ancora “lungo”
–anche se il Presidente della Repubblica ne
ha sollecitato una velocizzazione– ed il
testo, dopo il passaggio alla Commissione
Bilancio, passerà prima all’aula del Senato
e poi alla Camera (06.09.2011 -
tratto da www.ipsoa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Pa,
contratti con i legali al ribasso. Parcelle
da contrattare, forfetarie e anche sotto i
minimi. La manovra di ferragosto spinge gli
enti locali a risparmiare dovunque, pure
sulle spese.
Tariffari calmierati per
i legali delle amministrazioni locali. Ai
professionisti si chiede di tenere basse le
parcelle. La manovra-bis (decreto legge
138/2011) spinge gli enti pubblici, sempre
alla ricerca di un difficile equilibrio tra
bisogno di consulenza e assistenza legale e
vincoli di finanza pubblica, a preferire
risparmi di spesa.
L'articolo 5, comma 5, lettera d), del
decreto legge 138/2011, infatti, assoggetta
al tariffario forense le prestazioni legali
a favore di un ente pubblico, ma solo se
l'ente non abbia pattuito con il
professionista deroghe al tariffario stesso,
anche nei minimi. Quindi all'ente conviene
stipulare un contratto con tariffe derogate.
Al comune e all'ente locale rimane sempre
un'altra possibilità e cioè la gestione
associata di un ufficio avvocatura: è la
strada preferita dai piccoli enti.
Peraltro, anche prima del decreto 138/2011,
si è, ormai, affermata la procedura della
selezione tra professionisti per
l'affidamento di incarichi legali. E proprio
nei bandi di selezione saltavano fuori
alcune sorprese per gli avvocati.
Soprattutto quanto al riconoscimento
economico.
Estrapolando dai bandi per l'affidamento di
incarichi (ad hoc oppure per la
formazione di un elenco di professionisti,
cui affidare di volta in volta gli
incarichi), pubblicati e reperibili su
internet, di regola, si chiede all'avvocato
di impegnarsi ad applicare e a percepire i
minimi tariffari per diritti, onorari e
spese.
Talvolta questa richiesta è accompagnata
anche alla riduzione percentuale del livello
minino. Con ciò l'avvocato si impegna
contrattualmente ad andare sotto i minimi di
tariffa.
Tra l'altro il compenso assume sempre più la
natura forfetaria.
Molto spesso i bandi impegnano l'avvocato,
al momento dell'affidamento del singolo
incarico, a fare pervenire
all'amministrazione il preventivo di spesa
in forma forfetaria. In sostanza si chiede
al professionista di formulare un
preventivo, immaginando le possibili fasi
processuali future. Anche se il giudizio
potrà avere svolte difficilmente
prevedibili.
Ma se, come previsto nei bandi, nulla verrà
versato dall'ente per qualunque tipo di
attività suppletiva che il legale incaricato
non avesse prima comunicato e concordato con
l'amministrazione, allora si tenderà a
formulare un preventivo con tutte le
attività in astratto possibili, gonfiando
così il preventivo e rischiando di non
prendere l'incarico. A meno che il legale
non si accontenti, pur di prendere
l'incarico, di compensi sottostimati.
Del tutto penalizzanti per l'avvocato sono,
poi, alcune clausole che consentono all'ente
locale di non pagare o pagare parzialmente
il compenso stabilito contrattualmente.
Per esempio si può leggere in alcuni bandi
che, in caso di soccombenza della
controparte con contestuale e conseguente
condanna alle spese di lite, il legale
nominato deve procedere in primo luogo a
recuperare presso la parte soccombente le
sue spettanze e solo in caso di insolvenza
di quest'ultima avrà diritto a essere
soddisfatto dall'ente suo cliente.
Con regole di questo tipo, quindi, si
inserisce una clausola di preventiva
escussione del soccombente, prima di poter
chiedere il saldo all'ente. Peraltro, anche
nell'interesse dell'ente, sarebbe opportuno
che di volta in volta si valutasse la
possibilità effettiva di recupero. In caso
di soggetto inesigibile, ad esempio perché
irreperibile, sarebbe meglio, anche per
l'ente, evitare costose procedure esecutive.
Anche perché in questi casi all'ente
verranno alla fine comunque addebitate sia
le spese per il procedimento di cognizione
sia per quello esecutivo (necessario a
fronte dell'obbligo di preventiva escussione
del soccombente): insomma, l'ente pagherà le
spese legali del processo terminato e
pagherà gli onorari del processo di
esecuzione terminato senza recupero dal
soggetto inesigibile.
All'obbligo di preventiva escussione si
aggiunge, talvolta, la riduzione del
compenso pattuito a quello liquidato dal
giudice: per esempio si stabilisce che il
legale incaricato dall'ente potrà esigere
dall'ente stesso il compenso nella cifra
minore tra quella liquidata dal giudice e
quella definita in contratto e non potrà
pretendere ulteriori somme dall'ente a
qualsiasi titolo.
Una tale riduzione assume criteri di
illogica sottostima dell'attività del legale
nel caso in cui il giudice compensi
parzialmente le spese. Si prenda il caso in
cui il giudice valuti una soccombenza
parziale dell'ente a causa della
illegittimità degli atti o delle condotte
dei pubblici funzionari e quindi l'ipotesi
in cui il giudice stabilisca che l'ente
possa recuperare solo una percentuale delle
spese sostenute per la difesa, liquidando
conseguentemente le cifre dovute per
l'intervento del legale: sarebbe paradossale
che l'avvocato incassasse di meno a causa
delle negligenze dell'amministrazione o dei
propri funzionari, che hanno determinato la
soccombenza parziale.
Più in generale non corrisponde a un
corretto equilibrio contrattuale che il
valore del compenso dovuto all'avvocato sia
determinato dal giudice (nella liquidazione
delle spese ripetibili dal soccombente) e
che, quindi, l'accordo contrattuale diventi
carta straccia.
Non a caso in altri bandi più correttamente
si prevede che il compenso stabilito
contrattualmente rimane fermo e che lo
stesso può essere aumentato nella più alta
misura della liquidazione contenuta nel
provvedimento giurisdizionale definitivo e
non più impugnabile. Tra l'altro, in
quest'ultima ipotesi, l'ente non potrebbe
pretendere di tenere per sé la maggiore
cifra liquidata dal giudice, visto che la
stessa è determinata per remunerare
l'attività di rappresentanza in giudizio.
In altri bandi lo scopo di abbassare la
parcella dell'avvocato si ottiene chiedendo
al legale di rinunciare ad alcune poste
previste dal Tariffario forense, ad esempio
il rimborso forfetario delle spese generali
(calcolato al 12,5% di diritti e onorari).
Altre tecniche usate tendono ad agganciare
il compenso al risultato: un collegamento di
questo tipo risponde a un criterio di
applicazione del Tariffario (si deve tenere
conto dell'esito del giudizio).
Bisognerebbe, comunque, capire se tale
regola sia in grado di legittimare riduzioni
del compenso sotto i minimi tariffari in
relazione a esiti di parziale o totale
soccombenza dell'ente: a questo scopo
bisogna tenere conto della possibilità di
derogare ai livelli minimi di tariffa (dl n.
223/2006 , «Decreto Bersani»).
Una possibilità ampiamente confermata dal
decreto dall'articolo 3 del decreto
138/2011. Questa disposizione impone un
contratto scritto tra ente pubblico e
avvocato (e fin qui niente di nuovo) e
ammette pattuizione di compensi in deroga
alle tariffe. Se non c'è pattuizione
espressa si applica il tariffario forense
(con minimi e massimi). Peraltro proprio il
richiamo ai minimi tariffari, in caso di
mancata pattuizione, porterà le
amministrazioni a trattare al ribasso con il
professionista.
Anzi vi è da chiedersi se l'ente non sia
obbligata a trattare al ribasso, in quanto
altrimenti si troverebbe esposta al rischio
di responsabilità erariale per avere scelto
un professionista più caro di altri. Anche
se così facendo sarebbe completamente
azzerato il principio della fiduciarietà del
rapporto tra cliente (anche se ente
pubblico) e avvocato. Rapporto fiduciario
che ha, comunque, una chance: l'ente
pubblico può determinarsi, con apposita
motivazione, a scegliere il professionista
(non solo in base al fattore prezzo), ma
anche in base alla professionalità e alla
specializzazione, mediante valutazione del
curriculum e delle esperienze
(articolo ItaliaOggi
Sette del 05.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Bandi
di gara senza pretese inutili. Negli appalti
niente clausole a pena di esclusione oltre i
presupposti di riferimento. Dl sviluppo.
Cambia anche la valutazione delle offerte da
parte dell'ente che dovrà avvenire
sottraendo al ribasso i costi del lavoro.
Le stazioni appaltanti
non possono inserire clausole a pena di
esclusione che non rispettino i presupposti
di riferimento indicati dalla normativa in
materia di appalti e devono valutare le
offerte sottraendo al ribasso i costi del
lavoro.
In base alle novità introdotte nel Codice
dei contratti pubblici dal decreto Sviluppo
(Dl 70/2011) e dalla sua legge di
conversione (106/2011), le amministrazioni
devono impostare gli atti di gara con regole
che non prevedano adempimenti inutili, tali
da ostacolare gli operatori economici,
mentre questi ultimi sono tenuti a formulare
le loro proposte con valori che non possono
andare al di sotto dei minimi salariali.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici (Avcp) ha aperto una consultazione
su questi temi (sul sito www.avcp.it, alla
voce «Consultazioni online»), che si
chiuderà il 10 settembre: le imprese e le Pa
possono produrre le loro osservazioni in
merito.
I limiti.
Il primo profilo di attenzione è determinato
dal neo-introdotto comma 1-bis dell'articolo
46, il quale stabilisce che nei bandi di
gara e nelle lettere di invito possono
essere inserite clausole a pena di
esclusione solo se collegate a obblighi
previsti da norme del Codice, del
regolamento attuativo o di altre leggi,
oppure se volte a garantire il corretto
sviluppo delle operazioni di gara (con
riferimento alla certezza della provenienza
e del contenuto dell'offerta, all'integrità
dei plichi, alla segretezza e alla
completezza delle offerte). Le stazioni
appaltanti non possono inserire altre
clausole escludenti, poiché sono nulle, in
quanto non sostenute da un presupposto
normativo.
L'Avcp sta predisponendo i bandi-tipo
(previsti dall'articolo 64, comma 4-bis del
Codice), che conterranno le clausole
tassative a pena di esclusione, ma nel
documento di consultazione chiede la
collaborazione dei soggetti pubblici e
privati impegnati negli appalti per
risolvere alcuni aspetti critici (come
l'esclusione in caso di mancata
effettuazione del sopralluogo, per il quale
la normativa non prevede un obbligo
specifico).
L'Autorità ha peraltro già definito alcune
clausole tipo, relative a specifici obblighi
previsti dal Codice, con riferimento
particolare a quelle inerenti al termine di
ricezione delle offerte e alla cauzione
provvisoria: tali elementi possono già
essere assunti dalle stazioni appaltanti per
l'elaborazione dei bandi di gara in questa
fase transitoria.
Nuovo criterio.
La seconda grande novità introdotta
nell'articolo 81 del Codice riguarda la
previsione (comma 3-bis) che le
amministrazioni devono determinare l'offerta
migliore al netto delle spese relative al
costo del personale, valutato sulla base dei
minimi salariali definiti dalla
contrattazione collettiva nazionale di
settore, e delle misure di adempimento delle
disposizioni in materia di salute e
sicurezza nei luoghi di lavoro.
Su questo dato normativo si sono formate due
linee interpretative.
La prima, elaborata dal gruppo di lavoro
degli esperti delle Regioni (www.itaca.org),
sostiene che la stazione appaltante dovrebbe
indicare "ex ante" nel bando di gara
l'importo del costo del lavoro. Di
conseguenza, l'importo complessivo posto a
base di gara dovrebbe essere suddiviso in
tre parti: una parte pari al costo del
lavoro (tempo previsto per esecuzione del
lavoro moltiplicato per i minimi salariali),
una parte pari al costo della sicurezza e
una parte pari al costo dei materiali, dei
noli a caldo e a freddo, delle attrezzature
e delle spese generali, nonché all'utile
delle imprese.
Il secondo orientamento è invece quello
elaborato dall'Avcp nel documento di
consultazione, nel quale l'Autorità afferma
che l'obiettivo della disposizione
(contrastare il lavoro nero e il lavoro
sottopagato) verrebbe perseguito in modo più
efficace verificando il rispetto della
normativa sulla manodopera, nella fase di
esecuzione delle commesse
(articolo Il Sole 24
Ore del 05.09.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: Stipendi
pubblici solo al rialzo. La busta paga non
può peggiorare nel passaggio ad altre p.a.
La Corte di giustizia europea annulla
l'interpretazione autentica della
Finanziaria 2006.
La busta paga del
dipendente pubblico non può peggiorare nel
passaggio di ruolo da una p.a. ad altra,
perché questa riassunzione costituisce
trasferimento d'impresa per il quale è
salvaguardato il diritto dei lavoratori a
conservare presso il nuovo datore di lavoro
la posizione acquisita presso il vecchio
datore di lavoro. Così, il bidello di un
comune che, dopo un tot numero di anni,
ottiene il passaggio nella scuola, conserva
un salario non inferiore a quello già goduto
presso l'ente locale.
Lo stabilisce la corte di giustizia europea
nella
sentenza 06.09.2011 n. C-108/10 emessa
ieri.
La pronuncia annulla, di fatto,
l'interpretazione autentica fornita dalla
legge 266/2005 (Finanziaria 2006) sul
trattamento salariale dei dipendenti nel
trasferimento.
La vicenda.
La vicenda riguarda una dipendente di un
comune trasferita anni fa nei ruoli del
personale Ata dello Stato. Con il
trasferimento, la lavoratrice è stata
inquadrata in una fascia retributiva
corrispondente a nove anni di anzianità, in
misura inferiore rispetto ai 20 anni
maturati presso l'ente locale da cui
proveniva. In questo modo la lavoratrice ha
sofferto una riduzione della sua
retribuzione, per cui si è rivolta al
Tribunale per ottenere il riconoscimento
integrale dell'anzianità.
Il Tribunale ha rimesso la questione alla
Corte di giustizia europea con due
richieste: 1) se l'ipotesi della lavoratrice
sia assimilabile al «trasferimento di
impresa»; 2) se ai fini del calcolo del
salario dei lavoratori trasferiti il nuovo
datore di lavoro (cessionario) deve tener
conto dell'anzianità lavorativa maturata dai
lavoratore presso il vecchio datore di
lavoro (cedente).
La sentenza.
In buona sostanza, il Tribunale ha chiesto
di sapere se il «passaggio del dipendente
da una pubblica amministrazione a un'altra»
sia assimilabile all'ipotesi del
trasferimento di impresa. Ipotesi per la
quale (vigente nel settore privato) è
previsto il diritto del lavoratore a
mantenere con il nuovo datore di lavoro
(cessionario) la posizione acquisita presso
il vecchio datore di lavoro (cedente)
nonostante il lavoratore sia assoggettato,
nella nuova impresa, al relativo ccnl da
questa applicato. La corte di giustizia
sentenzia positivamente su entrambe le
questioni.
Secondo la corte Ue la riassunzione da parte
di una pa del personale dipendente di
un'altra pa costituisce un «trasferimento
d'impresa» se detto personale è
costituito dal complesso strutturato di
impiegati tutelati in qualità di lavoratori
in forza dell'ordinamento giuridico
nazionale dello stato. Di conseguenza (la
seconda risposta) ne deriva che in virtù del
trasferimento, e dell'applicazione del nuovo
contratto collettivo, il lavoratore non può
soffrire una posizione (retributiva) meno
favorevole rispetto a quella di cui godeva
in precedenza.
Infine, la corte precisa che è compito del
giudice nazionale esaminare se, all'atto del
trasferimento, si sia verificato un
peggioramento retributivo
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La destinazione
urbanistica della zona non rileva ai fini
del cambio di destinazione d'uso
dell’immobile ivi localizzato, che ha
assunto una utilizzazione economica diversa
(quella commerciale), che giustifica il
pagamento delle spese di urbanizzazione ai
sensi dell'art. 9, lett. b), della L. n.
10/1977.
Con il
secondo motivo si sostiene che il cambio di
destinazione d'uso dell'immobile, da
magazzino ad attività commerciale, non
avrebbe giustificato il pagamento delle
spese di urbanizzazione per la nuova
destinazione perché l'immobile ricadrebbe in
zona M/2 destinata ad attrezzature di
servizi generali e locali, e quindi, il
mutamento di destinazione non era soggetto a
concessione edilizia ma a mera
autorizzazione.
La censura è infondata perché la
destinazione urbanistica della zona non
rileva ai fini del cambio di destinazione
d'uso dell’immobile ivi localizzato, che ha
assunto una utilizzazione economica diversa
(quella commerciale), che giustifica il
pagamento delle spese di urbanizzazione ai
sensi dell'art. 9, lett. b), della L. n.
10/1977
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 01.09.2011 n. 4906 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione in sanatoria. Se la domanda ha
dichiarazioni infedeli non si forma il
silenzio assenso.
Vi sono nella domanda di condono una serie
notevole ed articolata di infedeli
dichiarazioni, puntualmente esaminate e
considerate tali dall’apposita commissione
preposta all’esame delle domande di condono
(realizzazione del piano terra adibito a
garage – da inquadrare nella tipologia 1 e
non nella 7, ampliamento del primo e del
secondo piano per uso residenziale, da
inquadrare anch’esso nella tipologia 1 e non
nella 3, realizzazione di una mansarda ad
uso residenziale, da inquadrare nella
tipologia 1 e non nella 3) la cui relazione
è specificamente richiamata nel
provvedimento impugnato, mentre la difesa
del ricorrente si limita a smentire la
dolosa manifestazione di volontà, senza che
però fornisca prove convincenti in ordine a
tale affermazione.
Relativamente alla pretesa dell’essersi
formato il silenzio-assenso, non può non
rilevarsi che in presenza di una domanda di
condono ritenuta dolosamente infedele,
l’effetto del silenzio-assenso non si
produce, ai sensi dell’art. 40, comma 1,
della legge n. 47 del 1985.
Infine, anche il motivo relativo alla
contraddittorietà dell’integrazione
dell’oblazione con il diniego di condono è
infondato, in quanto proprio il fatto di
aver fatto applicazione dell’art. 40, comma
1, della legge n. 47 del 1985 (domanda
dolosamente infedele) non esclude la
determinazione in via definitiva
dell’oblazione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 01.09.2011 n. 4903 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Informativa antimafia, divieto
d'accesso sempre da motivare.
E' illegittimo, per
difetto di motivazione e per violazione del
diritto difesa, il diniego opposto dal
Prefetto in merito a un'istanza ostensiva
avanzata da una società privata tendente a
ottenere copia di un'informativa prefettizia
antimafia con cui e' stata comunicata la
risoluzione di alcuni contratti di appalto.
Con apposita istanza di accesso, una società
subappaltatrice ha chiesto alla competente
Prefettura di prendere visione ed estrarre
copia dell’informativa antimafia ex art. 10
del D.P.R. n. 252/1998, nonché di tutta la
documentazione a essa connessa posta alla
base della risoluzione dei contratti di
appalto dalla medesima stipulati con alcune
società appaltatrici e subappaltatrici.
L’istanza veniva rigettata sulla scorta
delle disposizioni di cui all’art. 24 della
L. n. 241/1990, al D.P.R. n. 352/1992 e al
D.M. n. 415/1994.
Avverso quest’ultimo provvedimento di
diniego è insorta la ditta esonerata.
Il TAR di Catanzaro, in via preliminare, ha
sottolineato come la questione dedotta in
giudizio concerna esclusivamente
l’accessibilità degli atti istruttori posti
alla base dell’informativa prefettizia
sfavorevole, adottata ai sensi della vigente
legislazione di contrasto e prevenzione dei
fenomeni di infiltrazione malavitosa delle
attività imprenditoriali, in conseguenza
della quale, rispettivamente, le società
appaltatrici e subappaltatrici avevano
comunicato alla ricorrente la risoluzione
dei contratti di appalto precedentemente
stipulati.
In particolare, l’adito G.A., ravvisando
l’applicabilità alla specie del D.M.
10.05.1994, n. 415 (Regolamento per la
disciplina delle categorie di documenti
sottratti al diritto di accesso ai documenti
amministrativi), ha evidenziato come il
presupposto art. 24 della L. n. 241/1990
costituisca la fonte di rango primario di
riferimento: difatti, il comma 2 della
menzionata disposizione sancisce
l’emanazione di uno o più decreti intesi a
disciplinare le modalità di esercizio del
diritto di accesso e gli altri casi di
esclusione di tale diritto in relazione
all’esigenza di salvaguardare "l’ordine
pubblico e la prevenzione e repressione
della criminalità" (lett. c); e ancora,
il successivo comma 4 prevede che: "Le
singole Amministrazioni hanno l’obbligo di
individuare, con uno o più regolamenti da
emanarsi entro i sei mesi successivi, le
categorie di documenti da esse formati o
comunque rientranti nella loro disponibilità
sottratti all’accesso per le esigenze di cui
al comma 2".
I criteri per l’attuazione della norma testé
richiamata, ha soggiunto il giudicante, sono
stati stabiliti con l’art. 8 del D.P.R. n.
352/1992, il cui comma 5, lett. c) prevede
che i documenti amministrativi possono
essere sottratti all’accesso quando: "riguardino
le strutture, i mezzi, le dotazioni, il
personale e le azioni strettamente
strumentali alla tutela dell’ordine
pubblico, alla prevenzione e alla
repressione della criminalità con
particolare riferimento alle tecniche
investigative, alla identità delle fonti di
informazione e alla sicurezza dei beni e
delle persone coinvolte, nonché all’attività
di polizia giudiziaria e di conduzione delle
indagini".
Di conseguenza, l’adito G.A., alla stregua
dell’illustrato quadro normativo, non ha
mancato di sottolineare come in linea
generale la sottrazione all’accesso, per
espressa previsione del menzionato art. 8,
comma 5, debba avvenire nel rispetto della
norma (art. 8, comma 2) secondo cui: "I
documenti non possono essere sottratti
all'accesso se non quando essi siano
suscettibili di recare un pregiudizio
concreto agli interessi indicati nell'art.
24 della legge 07.08.1990, n. 241. I
documenti contenenti informazioni connesse a
tali interessi sono considerati segreti solo
nell'ambito e nei limiti di tale
connessione. A tale fine, le amministrazioni
fissano, per ogni categoria di documenti,
anche l'eventuale periodo di tempo per il
quale essi sono sottratti all'accesso".
Sicché il Collegio, in relazione ai
documenti chiesti in ostensione dalla
ricorrente, ha ritenuto opportuno premettere
la sostanziale differenza tra l’informativa
antimafia, generalmente consistente nella
mera formula rituale con la quale il
Prefetto, sulla base delle risultanze in suo
possesso afferma la sussistenza di elementi
interdittivi a carico dell'impresa -atto per
sua natura pienamente ostensibile- e le
risultanze istruttorie "a monte", cui
ha attinto l'Autorità prefettizia per
pervenire al giudizio sfavorevole formulato
a carico della ditta medesima.
Orbene, in relazione a tali atti istruttori
"a monte", il TAR calabrese ha
chiarito come l'accesso poteva essere
escluso solo per quelle parti della
documentazione in possesso
dell'Amministrazione coperte da segreto
istruttorio in quanto afferente a indagini
preliminari o procedimenti penali in corso,
oppure se e nella misura in cui avesse
coinvolto, a qualunque titolo, terzi
soggetti interessati dalle informative di
polizia di sicurezza, ovvero, ancora, ove
potevano essere addotti specifici motivi
ostativi riconducibili a imprescindibili
esigenze di tutela di accertamenti -in corso
di svolgimento- di polizia di sicurezza e di
contrasto alla delinquenza organizzata (in
tal senso, TAR Campania, Napoli, Sez. V,
14.06.2006, n. 6985).
Nel caso di specie, il Collegio ha
evidenziato come il diniego opposto alla
ricorrente non fosse coerente con quanto
statuito nelle norme illustrate, atteso che
la motivazione del provvedimento negativo
contiene uno sterile richiamo alle norme
legislative e regolamentari sopra
scrutinate, senza però alcuna
puntualizzazione in ordine alla “idoneità
del documento”, di cui è stata chiesta
l’esibizione, a pregiudicare in concreto
l’interesse alla salvaguardia dell’ordine
pubblico, come espressamente previsto
dall’art. 24, comma 2, lett. c), della L. n.
241 del 1990.
Di conseguenza, a opinione del G.A. di
Catanzaro, la mancata ostensione
dell’informativa antimafia ex art. 10 del
D.P.R. n. 252 del 1998 nonché della
documentazione a essa connessa, poiché non
motivata con riferimento alle concrete
ragioni che impedivano la divulgazione del
documento, anche, eventualmente, nelle forme
"deboli" della mera visione ovvero
dell’estrazione di copia con tecniche di
mascheramento, ha pregiudicato il diritto di
difesa della ricorrente società (art. 24
Cost.), non consentendole di contestare nel
merito le ragioni effettive su cui si
fondava il provvedimento lesivo che aveva
dato luogo alla risoluzione dei contratti di
appalto stipulati (commento tratto da
www.ipsoa.it - TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 24.08.2011
n. 1146 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Anche
le società possono configurarsi come
imprenditori agricoli a titolo principale ed
usufruire, quindi, dei benefici previsti per
i soggetti rientranti in tale categoria. A
questo riguardo va rilevato che il
regolamento comunitario n. 797 del 1985,
relativo al miglioramento dell’efficienza
delle strutture agrarie, ricomprende
esplicitamente nella sua sfera di
applicazione anche le persone giuridiche,
qualora rispondano a determinati requisiti
fissati nello stesso regolamento e alla
definizione, demandata alla legge nazionale,
di imprenditore agricolo a titolo
principale.
Orbene, nella legislazione italiana non è
enunciata la nozione di imprenditore
agricolo a titolo principale, con
riferimento alle «persone diverse dalle
persone fisiche». Come già rilevato da
questo Consiglio in fattispecie analoga, in
tale silenzio, sarebbe tuttavia illegittimo
negare l'attribuzione di un beneficio a
coloro, ivi comprese le società, che la
stessa normativa comunitaria riconosce come
potenziali titolari del diritto al
conseguimento del beneficio medesimo.
Diversamente opinando si potrebbe verificare
una disparità di trattamento all’interno
della Comunità europea fra soggetti
destinatari dello stesso beneficio.
La società ricorrente sostiene, in
difformità a quanto ritenuto dal Comune di
Menfi, di avere diritto, con riguardo alla
struttura realizzata, all’esonero dal
pagamento degli oneri concessori.
L’esenzione dal contributo di concessione,
prevista dalla lett. a) dell’art. 9 della l.
10/1977, come riproposto all’art. 17
D.P.R.380/2001, è posta in ragione della
destinazione dell’immobile alla conduzione
del fondo e alle esigenze dell’imprenditore
agricolo a titolo principale. In tale
categoria può e deve essere ricompreso
–sussistendo gli altri presupposti- non solo
l’imprenditore agricolo/persona fisica, ma
anche tanto la persona giuridica.
La censura merita condivisione, secondo
l’orientamento del Consiglio di Stato da cui
la Sezione ritiene di non doversi discostare
(cfr. Consiglio di Stato Sez. V, 30.08.2005
n. 4424), quantunque si registrano in primo
grado differenti orientamenti che danno
tuttavia atto della opinabilità di una
diversa ricostruzione dell’istituto qui in
evidenza (cfr. TAR Piemonte Torino, sez. I,
01.03.2010, n. 1302).
In primo luogo, come già anticipato in sede
cautelare, dalla documentazione versata in
atti risulta provata la natura “agricola”
della società ricorrente, precondizione
sottolineata dalla stessa Amministrazione al
fine di dare applicazione alle norme di
legge che consentono lo sgravio per il
pagamento degli oneri quali contributo di
concessione.
Né appare incontestabile la società
ricorrente possa ritenersi imprenditore
agricolo a titolo principale e professionale
in quanto uno dei soci amministratori
esercita attività dedica all’attività
agricola –direttamente o nella qualità di
socio- almeno del 50% del proprio tempo di
lavoro complessivo e ricava in specie il
100% del proprio reddito globale di lavoro.
Come già premesso, sul punto centrale della
questione –relativa all’ambito di
operatività dell’art. 9, comma 1, lett. A)
della l. 10/1977- il Consiglio di Stato, in
contrario avviso al giudice di prime cure,
ha chiarito che “anche le società possono
configurarsi come imprenditori agricoli a
titolo principale ed usufruire, quindi, dei
benefici previsti per i soggetti rientranti
in tale categoria (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
28.10.1996, n. 1156). A questo riguardo va
rilevato che il regolamento comunitario n.
797 del 1985, relativo al miglioramento
dell’efficienza delle strutture agrarie,
ricomprende esplicitamente nella sua sfera
di applicazione anche le persone giuridiche,
qualora rispondano a determinati requisiti
fissati nello stesso regolamento e alla
definizione, demandata alla legge nazionale,
di imprenditore agricolo a titolo
principale.
Orbene, nella legislazione italiana (cfr. in
particolare artt. 12 e 13 della L.
09.05.1975 n. 153; art. 8 della L.
10.05.1976 n. 352 e allegato all'art. 2
della L. reg. Piemonte 28.10.1986 n. 44) non
è enunciata la nozione di imprenditore
agricolo a titolo principale, con
riferimento alle «persone diverse dalle
persone fisiche». Come già rilevato da
questo Consiglio in fattispecie analoga, in
tale silenzio, sarebbe tuttavia illegittimo
negare l'attribuzione di un beneficio a
coloro, ivi comprese le società, che la
stessa normativa comunitaria riconosce come
potenziali titolari del diritto al
conseguimento del beneficio medesimo.
Diversamente opinando si potrebbe verificare
una disparità di trattamento all’interno
della Comunità europea fra soggetti
destinatari dello stesso beneficio. (cfr.
Cons. Stato, VI Sez., 31.12.1987 n. 1057 e
21.11.1988 n. 1247; cfr. anche Cass. civ., I
Sez., 20.04.1995 n. 4451 e Comm. centrale
imposte sez. XVI, 07.07.1994 n. 2511)”.
I principi appena esporsi hanno trovato
riscontro anche in sede comunitaria, laddove
si è affermato che una diversità di
trattamento tra soggetti giuridici
dell’ordinamento, basata esclusivamente
sulle forme nelle quali queste sono
costituite, sia contraria al principio di
non discriminazione previsto dall’art. 40 n.
3 del trattato C.E.E. e come pertanto,
l’art. 2, n. 5, del regolamento n. 797 del
1985 vada interpretato nel senso che non è
concesso agli Stati membri, nel definire la
nozione di imprenditore agricolo a titolo
principale, di escludere da questa nozione
le società di capitali per il solo motivo
della loro forma giuridica (Corte giustizia
C.E.E., II Sez., 15.10.1992 n. 162).
A ciò si aggiunge, come correttamente
evidenziato dai ricorrenti, che con l’art. 2
D.Lgs. 99/2004 il legislatore ha stabilito
che la ragione sociale o la denominazione
sociale delle società, che hanno quale
oggetto sociale l'esercizio esclusivo delle
attività di cui all'articolo 2135 del codice
civile, deve contenere l'indicazione di “società
agricola”.
Nel caso in specie, dalla documentazione
versata in atti (come già evidenziato in
sede cautelare), non è revocabile in dubbio
la natura agricola dell’azienda ricorrente.
Il che postula, alla stregua di quanto
evidenziato, la fondatezza della prima
cesura articolata nel ricorso in esame
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 05.08.2011 n. 1554 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull’ordinanza sindacale di
rimozione della tombinatura sul corso di un
torrente decide il Tribunale superiore delle
acque pubbliche.
Nel caso in discussione, con una ordinanza
sindacale, era stato ingiunto ai ricorrenti
di rimuovere, entro il termine di 30 giorni,
la tombinatura costituente attraversamento
su un torrente, eseguita in corrispondenza
dei terreni di loro proprietà, a causa del
potenziale pericolo in caso di abbondanti
piogge.
I giudici del Tribunale amministrativo di
Milano, nel declinare la propria
giurisdizione, ricordano sul punto che
l’art. 143, comma 1, lett. a), r.d. 11.12.1933
n. 1775 (recante «Testo unico delle
disposizioni di legge sulle acque e impianti
elettrici»), nella parte in cui
individua nel Tribunale superiore delle
acque pubbliche l'organo giurisdizionale al
quale spetta la cognizione in materia di
ricorsi per incompetenza, eccesso di potere
e violazione di legge avverso i
provvedimenti definitivi presi
dall'amministrazione in materia di acque
pubbliche, si applica anche alle situazioni
in cui l'azione amministrativa, pur andando
ad incidere su interessi più generali e
diversi rispetto a quelli specifici relativi
alla demanialità delle acque o ai rapporti
concessori di beni del demanio idrico,
riguarda comunque l'ambito materiale in
questione, nel senso che l'attribuzione
sussiste non solo quando si esplica un
potere strettamente legato allo sfruttamento
della risorsa idrica, ma anche quando si
discute di opere destinate ad influire
sull'utilizzazione e, in definitiva, sul
regime delle acque pubbliche, con la
conseguenza che devono intendersi devoluti
alla cognizione del Tribunale superiore
delle acque pubbliche i provvedimenti
caratterizzati da incidenza diretta sulla
materia delle acque pubbliche, nel senso che
concorrano in concreto a disciplinare la
gestione, l'esercizio delle opere
idrauliche, i rapporti con i concessionari,
oppure a determinare i modi di acquisto dei
beni necessari all'esercizio e alla
realizzazione delle opere stesse o a
stabilire o modificare la localizzazione di
esse o ad influire nella loro realizzazione
mediante sospensione o revoca dei relativi
provvedimenti (Cass., SU., 24.04.2007 n.
9844; Consiglio Stato, sez. IV, 12.06.2009
n. 3701).
E’ stato, inoltre, sottolineato, insistono i
giudici meneghini, come l’assetto
distributivo della giurisdizione sia stato
trasformato dall'entrata in vigore della
legge 05.01.1994 n. 36 "Disposizioni in
materia di risorse idriche" che, da un
lato, ha introdotto la nozione di servizio
idrico integrato, "costituito
dall'insieme dei servizi pubblici di
captazione, adduzione e distribuzione di
acqua ad usi civili, di fognatura e di
depurazione delle acque reflue" (art. 4,
comma 1, lett. f), e dall'altro ha ampliato
la nozione di acqua pubblica, precisando,
all'art. 1, che "tutte le acque
superficiali e sotterranee, ancorché non
estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e
costituiscono una risorsa che è
salvaguardata ed utilizzata secondo criteri
di solidarietà”.
Il detto impianto risulta peraltro trasfuso,
senza modificazioni per quanto qui
rilevante, nel vigente d.lgs. 03.04.2006, n.
152 "Norme in materia ambientale".
Dal nuovo assetto, si evince che sono
ricompresi nell'ambito del concetto in
disamina anche le modalità di eventuale
riutilizzo e di trattamento delle acque
reflue urbane (Consiglio di Stato, sez. IV,
26.01.2004 n. 242).
Pertanto, appartiene alla giurisdizione del
Tribunale superiore delle acque pubbliche,
prevista dall'art. 143 r.d. 11.12.1933 n.
1775 la cognizione sui provvedimenti che,
similmente a quello impugnato, pur se
promananti da autorità diverse da quelle
specificamente preposte alla tutela delle
acque, incidono direttamente sul regolare
regime delle acque pubbliche, la cui tutela
ha carattere inderogabile in quanto
informata alla ragione pubblicistica di
assicurare la possibilità di sfruttamento
delle acque demaniali e il libero deflusso
delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti,
canali e scolatoi pubblici (commento tratto
da www.documentazione.ancitel.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 01.08.2011 n.
2078 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Infiltrazioni?
Paghi metà danno. Spese da dividere quando
il solaio dei box è via d'accesso. Una
sentenza della Cassazione ridisegna la
ripartizione dei lavori di ripristino tra
condomini.
Per le infiltrazioni
d'acqua nel box il proprietario del cortile
sovrastante paga la metà delle spese. Non un
terzo come avviene in caso di lastrico
tradizionale.
È il nuovo principio affermato dalla Corte
di Cassazione con la
sentenza 19.07.2011 n. 15841, che
accoglie il ricorso della proprietaria di un
box auto interessato da infiltrazioni
d'acqua provenienti dal terrazzo-cortile
sovrastante.
Il caso.
A patire le conseguenze dannose dell'umidità
è uno dei box sottostanti al cortile di
proprietà esclusiva di una società. Non si
tratta, tuttavia, di un lastrico
tradizionale. Oltre a svolgere la funzione
di copertura delle autorimesse, l'area è
utilizzata anche come via d'accesso
all'edificio condominiale e vi passano le
auto per fare manovra. Ed è chiaro che
l'usura della pavimentazione è dovuta
all'insieme delle attività, motivo per cui
sarebbe illogico accollare ai proprietari
dei box sottostanti solo un terzo delle
spese necessarie alla riparazione.
Scatta così l'interpretazione analogica
dell'articolo 1125 cc, che divide gli
esborsi a metà fra proprietario del piano
superiore e quello del piano inferiore. Al
primo le riparazioni del pavimento, al
secondo l'intonaco. L'applicazione del
principio di diritto, spiegano i giudici,
non è ostacolata dalla circostanza che il
cortile, seppure di uso comune, sia di
proprietà singolare. Sarà il giudice del
rinvio a mettere la parola «fine»
all'intricata vicenda
(articolo ItaliaOggi
Sette del 05.09.2011). |
APPALTI:
Gare d'appalto, per impugnare
l'esclusione solo motivi specifici. Valida
la valutazione sintetica della commissione.
Non e' sufficiente
dedurre genericamente il difetto di
motivazione del provvedimento di esclusione
da una procedura di gara qualora la
commissione non si sia limitata ad
attribuire un mero punteggio numerico, ma
abbia -sia pure sinteticamente- evidenziato
per ogni offerta e per ciascuno dei criteri
di valutazione, i punti di forza e quelli di
debolezza.
L’oggetto della decisione in esame concerne
l’impugnazione del provvedimento di
esclusione di una ditta da una procedura di
gara per l’affidamento del servizio di
pulizia e sanificazione presso le strutture
dell’Azienda sanitaria unica regionale,
nonché del relativo bando di gara.
Nello specifico, con il provvedimento
impugnato l’A.S.U.R. aveva disposto
l’esclusione della società ricorrente dalla
fase di valutazione delle offerte economiche
in quanto la stessa non aveva conseguito il
punteggio tecnico minimo richiesto dal
bando.
Di conseguenza, la predetta ditta ha gravato
il menzionato provvedimento, eccependo,
oltre al resto, che la lex specialis,
pur indicando i criteri e sub-criteri di
valutazione, non specificava i criteri
motivazionali a cui la commissione si
sarebbe dovuta attenere, così impedendo la
verifica dei percorsi argomentativi con cui
aveva assegnato i punteggi.
Tanto, a opinione della ricorrente, in
violazione dell’obbligo di motivazione di
cui agli artt. 79 e 83 del D.Lgs. n.
163/2006.
Con gravame aggiuntivo, la deducente, alla
luce dell’avvenuta conoscenza dei verbali di
gara, ha contestato il difetto di
motivazione degli stessi provvedimenti,
nonché l’illegittima introduzione da parte
della commissione di un criterio di
valutazione non previsto dal bando (e questo
con specifico riferimento all’assegnazione
del punteggio per la voce “numero dei
dipendenti e monte ore annuo di servizio”).
Il Collegio di Ancona, in relazione alle
censure afferenti il merito delle
valutazioni compiute dalla commissione, ha
ritenuto infondate tutte le obiezioni
sollevate dalla deducente.
Sul punto, ha dapprima rigettato il motivo
con cui si era lamentato che la commissione
avesse introdotto un nuovo criterio di
valutazione non previsto dal bando in
relazione al “Numero dei dipendenti e
monte ore annuo di servizio” e che non
aveva comunque motivato congruamente il
punteggio assegnato alla ricorrente.
Al riguardo, hanno precisato i Giudici
marchigiani, tenuto conto della
denominazione letterale del criterio, un
parziale accoglimento del ricorso sarebbe
stato “inverosimile”, poiché del
tutto logico è apparso il criterio secondo
cui, a fronte di un maggior numero di
addetti e di ore annue, l’offerta doveva
essere premiata in termini di punteggio.
Inoltre, per quel che concerne gli altri
punteggi, l’adito TAR ha evidenziato come, a
livello generale, non apparisse sufficiente,
ai fini dell’accoglimento del ricorso,
dedurre genericamente il difetto di
motivazione, tanto più laddove la
commissione non si era limitata ad
attribuire il punteggio numerico, ma, sia
pure sinteticamente, aveva evidenziato per
ogni offerta e per ciascuno dei criteri di
valutazione, i punti di forza e quelli di
debolezza.
E infatti, ha precisato che, nella vicenda
sottoposta al suo vaglio, la commissione,
dopo aver evidenziato i punti di forza del
progetto tecnico presentato dalla
ricorrente, ha altresì sottolineato come le
carenze dello stesso avevano determinato
l’assegnazione di un punteggio tecnico
inferiore a quello minimo richiesto dal
bando di gara.
Da siffatta analisi, ha soggiunto il
Collegio, le censure circa un presunto
difetto di motivazione dei provvedimenti
impugnati non meritavano accoglimento in
quanto non si poteva ritenere che la
commissione avesse operato in modo
superficiale o che non avesse dato conto
delle ragioni per le quali aveva assegnato
alle varie parti delle offerte certi
punteggi anziché altri.
Invero, ha concluso il G.A. di Ancona, la
ricorrente, al fine di mettere in dubbio
l’operato della commissione, avrebbe dovuto
procedere alla verifica dei singoli punteggi
assegnati ai vari progetti tecnici
presentati, nonché dei criteri di
valutazione previsti dal bando e, qualora
avesse riscontrato anomalie, avrebbe dovuto
dedurre censure specifiche, in modo da
indurre il Tribunale ad annullare gli atti
di gara o, quantomeno, a disporre una
consulenza tecnica per chiarire i punti
controversi.
Diversamente, l’impugnazione in questione ha
assunto un mero carattere “esplorativo”,
in quanto, agli effetti finali, è stato
chiesto al giudice di sostituire proprie
valutazioni a quelle dell’organo a ciò
preposto, le quali, oltre tutto,
presentavano un margine di opinabilità
soggettiva non sindacabile in sede
giudiziaria.
Sotto tali profili, il ricorso è stato
respinto, con conseguente declaratoria di
legittimità degli atti impugnati e
compensazione delle spese legali in ragione
della complessità della questione esaminata
(commento tratto da www.ipsoa.it - TAR
Marche,
sentenza
07.07.2011 n. 576 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Addio
al risarcimento per l'acqua in cantina se
l'impresa chiude. Il Tribunale di Piacenza:
per i coniugi oltre 4 mila euro di spese
giudiziarie.
Infiltrazioni d'acqua in
cantina, se il costruttore-venditore chiude
niente ristoro ai proprietari. Non ha
infatti diritto al risarcimento per le
infiltrazioni d'acqua il proprietario della
cantina se il venditore-costruttore ha
chiuso i battenti.
Lo ha sancito il TRIBUNALE di Piacenza (sentenza
14.04.2011 n. 313) che ha negato il
ristoro ai proprietari di un locale cantina
danneggiato dalle infiltrazioni d'acqua.
In particolare una coppia di coniugi,
proprietaria di una cantina infiltrata
dall'acqua per via delle grondaie e delle
fogne, fa causa alla società
costruttrice-venditrice, ai soci e al
condominio. Ma non viene risarcita e anzi
paga anche le spese di giudizio. L'azienda
immobiliare risulta infatti essere stata
sciolta prima della riforma ex articolo dlgs
6/2003, che, modificando l'articolo 2495,
comma 2, sancisce l'estinzione della società
al momento dell'iscrizione della
cancellazione nel registro delle imprese. E
ciò, diversamente che in passato,
indipendentemente dall'esaurimento o meno
del procedimento di liquidazione e dal
persistere o meno di debiti o crediti
sociali. Risultato: l'impresa
costruttrice-venditrice non può essere
citata in giudizio.
Per le cancellazioni effettuate in epoca
precedente all'01.01.2004, è da quest'ultima
data che deve comunque ritenersi avvenuta
l'estinzione della società. Inutile poi
pretendere dai soci della compagine
disciolta l'eliminazione dei vizi della
cantina laddove la domanda proposta ex
articolo 1669 cc legittima i proprietari
dell'immobile a chiedere il risarcimento del
danno e non la riduzione in pristino:
l'azione di esatto adempimento è collegata a
un rapporto contrattuale e non può essere
espressione della responsabilità
extracontrattuale.
Idem per il condominio, chiamato in causa ex
articolo 2051 cc: anche la responsabilità da
custodia ha natura contrattuale. Per
ottenere una pronuncia giudiziale che
imponesse l'esecuzione dei lavori la coppia
di coniugi avrebbe dovuto adire l'autorità
giudiziaria ex articolo 1105 ultimo comma
cc. Alla fine non solo la cantina è rimasta
così com'era. Ma i coniugi proprietari
devono pagare anche oltre 4 mila euro di
spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi
Sette del 05.09.2011). |
CONDOMINIO: Reflue
in casa, niente bonus a chi non ne prende
possesso.
Niente agevolazioni fiscali per chi non
prende possesso della casa per via delle
infiltrazioni. Il contribuente che non va ad
abitare nell'immobile acquistato entro i 18
mesi successivi al rogito, motivando la
mancata presa di possesso dell'abitazione
con delle infiltrazione d'acqua provenienti
dal piano superiore, non avrà diritto alle
agevolazioni «prima casa».
Lo ha sancito la Corte di Cassazione che,
con la
sentenza 26.01.2010 n. 1392,
ha respinto il ricorso dell'acquirente di un
immobile che non aveva preso la residenza
nella nuova abitazione a causa delle
infiltrazioni d'acqua provenienti dal piano
superiore.
La sezione tributaria ha completamente
capovolto il verdetto di merito che, sia in
primo sia in secondo grado, era stato
favorevole ai contribuenti. I giudici di
legittimità hanno così motivato la sentenza:
«A prescindere da ogni altra
considerazione una infiltrazione di acque
reflue in un appartamento non rappresenta in
sé un impedimento avente le caratteristiche
della forza maggiore se non in caso di prova
del momento della sua insorgenza, del suo
protrarsi, ovvero di eventuali complicanze
idonee a rendere particolarmente lunga e
difficile la riparazione e a impedire in
modo assoluto e per tutto il tempo a
disposizione non solo la presenza
nell'immobile ma, in ogni caso,
l'ottenimento del trasferimento della
residenza anagrafica»
(articolo ItaliaOggi
Sette del 05.09.2011). |
AGGIORNAMENTO AL 05.09.2011 |
ã |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
M. Urbani,
“Molto
rumore per nulla” - Una possibile
interpretazione dell'art. 81, comma 3-bis,
del codice introdotto dalla Legge 12.07.2011
n. 106 di conversione del decreto-legge
13.05.2011 n. 70. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Manovra d'estate: previdenza - Quali effetti
per la previdenza integrativa dei dipendenti
pubblici? (link a www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: T.
Tessaro,
Una nuova tutela dei terzi nella c.d. SCIA
voluta dal d.l. 138/2011
(link a www.diritto.it). |
UTILITA' |
PUBBLICO IMPIEGO: La
tua postura durante il lavoro è corretta?
Come valutarla e come prevenire i disturbi
muscolo-scheletrici.
Una postura di lavoro corretta rappresenta
un requisito fondamentale per prevenire
disturbi muscolo-scheletrici legati
all’attività lavorativa.
Quando un’articolazione si sposta dalla
propria posizione naturale, è necessario un
maggiore sforzo muscolare per ottenere la
stessa forza e si produce quindi fatica
muscolare, assumendo una posizione non
neutra che può accrescere le sollecitazioni
di tendini, legamenti e nervi.
Le posture scorrette, quindi, sono quelle in
cui varie parti del corpo non si trovano
nella loro posizione naturale e vanno
assolutamente evitate in quanto posso
generare disturbi muscolo-scheletrici.
L’Agenzia Europea per la Sicurezza e la
Salute sul Lavoro ha pubblicato una guida
finalizzata alla prevenzione delle posture
scorrette.
Il documento, certamente utile sia per la
valutazione della propria postura che di
quella dei propri lavoratori, è così
strutturato:
● Introduzione, contenente descrizioni e
immagini relative a posture scorrette;
● Liste di controllo per la prevenzione;
● Esempi di misure preventive
(01.09.2011 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO: Compiti
e responsabilità del committente. La guida
al cantiere impeccabile!
“Devi fare un lavoro? Devi aprire un
cantiere? … Allora sei un committente!”
Chiunque, dal privato cittadino al datore di
lavoro di un’azienda, all’amministratore di
condominio, può diventare un committente nel
momento in cui inizia un lavoro.
La materia degli obblighi del committente
relativamente alla sicurezza sul lavoro
risulta vasta, complessa e piena di insidie.
Le USLL 18 e 19 di Rovigo, in collaborazione
con gli Ordini professionali e INAIL, hanno
pubblicato una guida di orientamento rivolta
in primo luogo a chi si accinge a diventare
un committente, ma certamente utile per
tutti gli operatori del settore.
La guida contiene tutte le informazioni
sulla figura del committente, sugli
obblighi, gli adempimenti e responsabilità
ed è corredata da schemi, tabelle e
immagini.
Oltre agli obblighi, suddivisi anche in base
alla fase di esecuzione dei lavori, vi è una
parte dedicata alle sanzioni
(01.09.2011 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
nuova Guida alle detrazioni del 55% e
chiarimenti sulle ritenute d’acconto
dall’Agenzia delle Entrate.
L’agevolazione fiscale per la
riqualificazione energetica consiste nel
riconoscimento di detrazioni d’imposta pari
al 55% delle spese sostenute.
Si tratta di riduzioni dall’Irpef (Imposta
sul reddito delle persone fisiche) e dall’Ires
(Imposta sul reddito delle società) concesse
per interventi che aumentino il livello di
efficienza energetica degli edifici
esistenti e che riguardano, in particolare,
le spese sostenute per:
► la riduzione del fabbisogno energetico per
il riscaldamento;
► il miglioramento termico dell’edificio
(finestre, comprensive di infissi,
coibentazioni, pavimenti);
► l’installazione di pannelli solari
termici;
► la sostituzione degli impianti di
climatizzazione invernale.
I limiti d’importo sui quali calcolare la
detrazione variano in funzione del tipo di
intervento, come indicato nella seguente
tabella:
TIPO DI INTERVENTO |
DETRAZIONE MASSIMA |
riqualificazione energetica di edifici esistenti |
100.000 euro
(55% di 181.818,18 euro) |
involucro edifici (pareti, finestre, compresi gli
infissi, su edifici esistenti) |
60.000 euro
(55% di 109.090,90 euro) |
installazione di pannelli solari |
60.000 euro
(55% di 109.090,90 euro) |
sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale |
30.000 euro
(55% di 54.545,45 euro) |
A seguito delle modifiche apportate dal
Decreto Sviluppo e dalla Manovra Finanziaria
in materia di detrazioni fiscali, l’Agenzia
delle Entrate ha pubblicato
la nuova guida (luglio 2011)
alle agevolazioni relative agli interventi
di riqualificazione energetica (detrazione
del 55%).
La Guida ripercorre le principali novità in
vigore fino al 31.12.2011, tra cui
l’eliminazione dell’obbligo di separata
indicazione in fattura del costo della
manodopera utilizzata per l’esecuzione degli
interventi (estesa anche alle detrazioni del
55%)
Infine, la Manovra Finanziaria di luglio
2011 ha ridotto dal 10% al 4% la ritenuta
d'acconto applicata da banche e poste sui
bonifici relativi alle spese che consentono
di fruire delle detrazioni fiscali del 36%
(ristrutturazioni edilizie) e del 55%
(risparmio energetico negli edifici).
Al riguardo, l’Agenzia ha pubblicato anche
la
circolare 05.08.2011 n. 41/E che
chiarisce che banche e Poste Italiane sono
tenute ad applicare la nuova ritenuta del 4%
a decorrere dalla data di entrata in vigore
del decreto, cioè a partire dal 06.07.2011.
Inoltre, prevede il rimborso della
differenza del 6% qualora banche e Poste
Italiane abbiano continuato ad operare la
ritenuta del 10%
(01.09.2011 - link a www.acca.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
ENTI LOCALI: G.U.
02.09.2011 n. 204 "Disposizioni attuative
degli articoli 2, comma 4, e 14, comma 10,
del decreto legislativo 14.03.2011, n. 23,
recante disposizioni in materia di
federalismo fiscale municipale, in materia
di attribuzione ai comuni delle regioni a
statuto ordinario della compartecipazione al
gettito dell’imposta sul valore aggiunto per
l’anno 2011"
(D.P.C.M.
17.06.2011). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 35 del
31.08.2011 "(Modalità per l’acquisizione
al patrimonio regionale di aree ad alta
valenza naturale, localizzate all’interno
del sistema delle aree protette regionali e
strumentali all’attività degli enti gestori
interessati"
(deliberazione
G.R. 04.08.2011 n. 2109). |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 35 del
31.08.2011, "Approvazione del “Bando per
l’erogazione di contributi agli enti locali
per la redazione e l’aggiornamento dei piani
di emergenza comunali, ai sensi dell’art. 2
della legge regionale 22.05.2004, n.16
‘Testo unico delle disposizioni regionali in
materia di protezione civile"
(decreto
D.U.O. 29.08.2011 n. 7831). |
APPALTI: G.U.
29.08.2011 n. 200 "Stazione Unica
Appaltante, in attuazione dell’articolo 13
della legge 13.08.2010, n. 136 - Piano
straordinario contro le mafie"
(D.P.C.M. 30.06.2011).
---------------
Centrale regionale per
gli appalti. Stazione unica territoriale per
le forniture, i servizi e i lavori. In
Gazzetta Ufficiale sbarca il Dpcm che
individua l'organo di gestione delle
committenze.
La stazione unica appaltante come centrale
di committenza a livello regionale per la
gestione di appalti di forniture, servizi e
lavori, non sarà obbligatoria ma
facoltativa; rimarrà comunque un utile
strumento per il controllo, anche antimafia,
degli appalti e per rendere più omogenee le
procedure di gara a livello territoriale.
È quanto si desume dalla lettura del Dpcm
30.06.2011 (pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 200 del 29.08.2011) che
istituisce la stazione unica appaltante in
attuazione dell'articolo 13 della legge
13.08.2010, n. 136 relativo al Piano
straordinario contro le mafie approvato dal
Consiglio dei ministri il 28.01.2010.
Il provvedimento, sul quale si era espressa
positivamente la Conferenza unificata lo
scorso 25 maggio, prima della firma del
decreto avvenuta il 2 luglio, è finalizzato
a promuovere l'istituzione in ambito
regionale, provinciale e comunale di una o
più stazioni uniche appaltanti con
l'obiettivo di rendere più penetrante
l'attività di prevenzione e contrasto ai
tentativi di condizionamento della
criminalità mafiosa, favorendo la celerità
delle procedure, l'ottimizzazione delle
risorse e il rispetto della normativa in
materia di sicurezza sul lavoro.
Va però segnalato che se il provvedimento ha
la finalità di incentivare «una maggiore
diffusione anche attraverso la
sensibilizzazione delle amministrazioni
aggiudicatrici», nei fatti tale finalità
potrebbe essere vanificata dalla natura
facoltativa della costituzione della Sua. Il
ricorso alla stazione unica appaltante (una
o più su base regionale) non rappresenterà
infatti un obbligo per le amministrazioni
che saranno sempre libere di scegliere se
aderire o meno.
Il provvedimento riguarda lo stato, le
regioni, gli enti pubblici territoriali, gli
altri enti pubblici non economici, gli
organismi di diritto pubblico, le
associazioni, unioni e concorsi di enti
pubblici, le imprese pubbliche e i soggetti
che operano in virtù di un diritto speciale
o di esclusiva. La Sua ha natura giuridica
di centrale di committenza e, come prevede
il Codice dei contratti pubblici, ha il
compito di procedere all'acquisizione di
forniture, lavori e servizi destinati ad
altre amministrazioni e all'aggiudicazione
di appalti o alla conclusione di accordi
quadro.
Nei fatti deve quindi deve gestire la
procedura di gara, compito che si
concretizza, ad esempio, nella cura della
fase di pubblicità e nell'invio delle
comunicazioni agli interessati,
nell'effettuazione delle verifiche in ordine
al possesso dei requisiti di partecipazione,
nella nomina della commissione giudicatrice
(in caso di aggiudicazione con offerta
economicamente più vantaggiosa) e nella
gestione degli eventuali contenziosi.
La Sua dovrà anche collaborare con l'ente
che ha ad essa aderito per quanto attiene
alla messa a punto dello schema di
contratto, alla scelta della procedura di
gara, alla predisposizione dei capitolati
speciali e generali, alla scelta del
criterio di aggiudicazione da utilizzare e
alla predisposizione di tutti gli atti di
gara (bando, disciplinare e lettere di
invito) e del contratto. Il rapporto fra la
Sua e gli enti aderenti viene regolato da
una convenzione di cui il Dpcm definisce i
contenuti essenziali della convenzione. In
particolare dovranno essere definite le
procedure interessate, ma anche l'aspetto
relativo al rimborso dei costi sostenuti, la
suddivisione degli oneri concernenti i
contenziosi.
L'ente che ha aderito alla stazione unica
sarà tenuto alla trasmissione, alla Sua e
alla prefettura, dei contratti stipulati e
delle varianti intervenute nel corso
dell'esecuzione dei contratti.
Per rendere incisivi i controlli sugli
appalti si prevede un collegamento
stringente fra la competente prefettura, ove
affluiranno tutte le informazioni e i dati
utili alla prevenzione delle infiltrazioni
della criminalità organizzata, e la Sua che
dovrà mettere a disposizione della
prefettura ogni dato utile concernente le
imprese partecipanti alla gara. Prevista la
delega del compito di verifica dei progetti
e dell'esame delle varianti al
Provveditorato interregionale per le opere
pubbliche
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2011).
---------------
Stazioni uniche
appaltanti ''centrali'' di legalità.
Il decreto è finalizzato a promuovere
l'istituzione in ambito regionale di una o
più Stazioni uniche appaltanti, denominate
''SUA'', con modalità che ne incentivino una
maggiore diffusione anche attraverso la
sensibilizzazione delle amministrazioni
aggiudicatrici, in modo da perseguire
l'obiettivo di rendere più penetrante
l'attività di prevenzione e contrasto ai
tentativi di condizionamento della
criminalità mafiosa, favorendo al contempo
la celerità delle procedure,
l'ottimizzazione delle risorse e il rispetto
della normativa in materia di sicurezza sul
lavoro.
La stazione unica appaltante (SUA) con le
funzioni previste dall'articolo 33 del
decreto legislativo n. 163/2006, come
richiamato dall'articolo 13 della legge
13.08.2010, n. 136, può svolgere un ruolo
essenziale per promuovere ed attuare
interventi idonei a creare condizioni di
sicurezza, trasparenza e legalità favorevoli
al rilancio dell'economia e dell'immagine
delle realtà territoriali ed al ripristino
delle condizioni di libera concorrenza,
anche assicurando, con un costante
monitoraggio, la trasparenza e la celerità
delle procedure di gara e l'ottimizzazione
delle risorse e dei prezzi.
L'individuazione delle attività e dei
servizi della SUA, unitamente
all'indicazione degli elementi essenziali
delle convenzioni tra i soggetti che vi
aderiscono, mira ad agevolarne una maggiore
diffusione, in modo da perseguire
l'obiettivo di rendere più penetrante
l'attività di prevenzione e contrasto ai
tentativi di condizionamento della
criminalità mafiosa, favorendo al contempo
la celerità delle procedure,
l'ottimizzazione delle risorse e il rispetto
della normativa in materia di sicurezza sul
lavoro.
Sono fatte salve le normative regionali che
disciplinano moduli organizzativi e
strumenti di raccordo tra gli enti
territoriali per l'espletamento delle
funzioni e delle attività di cui al presente
decreto, aventi lo scopo di garantire
l'integrazione, l'ottimizzazione e
l'economicità delle stesse funzioni,
attraverso formule convenzionali,
associative o di avvalimento nell'ambito
delle risorse umane, strumentali e
finanziarie disponibili a legislazione
vigente.
Il Governo, le regioni e le province
autonome, le province e i comuni, in sede di
Conferenza unificata, si scambiano
annualmente, ai sensi dell'articolo 9, comma
2, lettera e), del decreto legislativo
28.08.1997, n. 281, dati ed informazioni
relativi all'attuazione del decreto, con
riguardo ai rispettivi ambiti di competenza.
Ferme restando le forme di monitoraggio e di
controllo degli appalti previste dalla
normativa vigente, le Prefetture-UTG possono
chiedere alla SUA di fornire ogni dato e
informazione ritenuta utile ai fini di
prevenzione delle infiltrazioni della
criminalità organizzata. I dati e le
informazioni ottenute possono essere
utilizzate dal Prefetto anche ai fini
dell'esercizio del potere di accesso e di
accertamento nei cantieri delle imprese
interessate all'esecuzione dei lavori
pubblici (30.08.2011 - commento
tratto da www.ipsoa.it).
---------------
Stazione unica
appaltante: pubblicato in Gazzetta ufficiale
il DPCM.
Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 200
del 29.08.2011 il Decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri del 30.06.2011 avente
ad oggetto l’istituzione delle Stazioni
Uniche Appaltanti a livello regionale, in
attuazione dell’articolo 13 della legge
13.08.2010, n. 136 – Piano straordinario
contro le mafie.
Si tratta di un provvedimento suddiviso in 6
articoli che stabilisce finalità, compiti e
raggio d’azione della Stazione Unica
Appaltante (SUA).
A livello regionale dovranno essere
istituite una o più SUA con l’obiettivo di
rendere più penetrante l’attività di
prevenzione e contrasto ai “tentativi di
condizionamento della criminalità mafiosa,
favorendo al contempo la celerità delle
procedure, l’ottimizzazione delle risorse e
il rispetto della normativa in materia di
sicurezza sul lavoro.”
L’art. 2 elenca i soggetti che potranno
aderire, in via facoltativa, alle SUA,
ovvero: le Amministrazione dello Stato, le
regioni, gli enti locali, gli enti pubblici
territoriali, gli altri enti pubblici non
economici, gli organismi di diritto
pubblico, le associazioni, unioni, consorzi,
e gli altri soggetti di cui all’articolo 32
del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163,
nonché le imprese pubbliche e i soggetti che
operano in virtù di diritti speciali o
esclusivi concessi loro dall’autorità
competente secondo le norme vigenti.
Il successivo art. 3 stabilisce quale dovrà
essere l’attività delle SUA. Si tratta
infatti di centrali di committenza con il
compito di:
a) collaborare con l'ente aderente alla
corretta individuazione dei contenuti dello
schema del contratto, tenendo conto che lo
stesso deve garantire la piena rispondenza
del lavoro, del servizio e della fornitura
alle effettive esigenze degli enti
interessati;
b) concordare con l'ente aderente la
procedura di gara per la scelta del
contraente;
c) collaborare nella redazione dei
capitolati di cui all'articolo 5, comma 7,
del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163,
laddove l'ente aderente non sia una
Amministrazione aggiudicatrice statale e non
abbia adottato il capitolato generale di cui
al comma 8 del medesimo articolo 5;
d) collaborare nella redazione del
capitolato speciale;
e) definire, in collaborazione con l'ente
aderente, il criterio di aggiudicazione ed
eventuali atti aggiuntivi;
f) definire in caso di criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, i criteri di
valutazione delle offerte e le loro
specificazioni;
g) redigere gli atti di gara, ivi incluso il
bando di gara, il disciplinare di gara e la
lettera di invito;
h) curare gli adempimenti relativi allo
svolgimento della procedura di gara in tutte
le sue fasi, ivi compresi gli obblighi di
pubblicità e di comunicazione previsti in
materia di affidamento dei contratti
pubblici e la verifica del possesso dei
requisiti di ordine generale e di capacità
economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa;
i) nominare la commissione giudicatrice in
caso di aggiudicazione con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa;
l) curare gli eventuali contenziosi insorti
in relazione alla procedura di affidamento,
fornendo anche gli elementi
tecnico-giuridici per la difesa in giudizio;
m) collaborare con l'ente aderente ai fini
della stipulazione del contratto;
n) curare, anche di propria iniziativa, ogni
ulteriore attività utile per il
perseguimento degli obiettivi di cui
all'articolo 1, comma 2;
o) trasmettere all'ente aderente le
informazioni di cui all'articolo 6, comma 2,
lettera a).
Il decreto (art. 4) stabilisce inoltre che i
rapporti tra e l’ente aderente dovranno
essere regolati da convenzioni che
definiranno l’ambito di operatività della
SUA, le modalità di rimborso dei costi da
essa sostenuti, la spettanza degli eventuali
oneri in ordine ai contenziosi nonché
l’obbligo per l’ente aderente di comunicare
alla SUA l’elenco dei contratti per i quali
si prevede l’affidamento, oltre a qualsiasi
altra informazione utile relativa
all’esecuzione dei contratti.
Gli articoli 5 e 6 mettono invece in luce i
compiti delle Prefetture, che dovranno
esercitare delle forme di controllo
sull’attività delle SUA, richiedendo “ogni
dato e informazione ritenuta utile ai fini
di prevenzione delle infiltrazioni della
criminalità organizzata”, e monitorando ogni
passaggio della procedura di gara
(commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
APPALTI: G.U.U.E.
27.08.2011 n. L 222/1 "REGOLAMENTO
DI ESECUZIONE (UE) N. 842/2011 DELLA
COMMISSIONE del 19.08.2011 che
stabilisce modelli di formulari per la
pubblicazione di bandi e avvisi nel settore
degli appalti pubblici e che abroga il
regolamento (CE) n. 1564/2005".
---------------
Appalti, nuovi formulari
per la pubblicazione in GUUE. Cambiano i
modelli di formulari per la pubblicazione di
bandi e avvisi nel settore degli appalti
pubblici.
Le direttive 89/665/CEE e 2004/18/CE
stabiliscono che le forniture, i lavori e i
servizi pubblici devono essere pubblicizzati
nella Gazzetta ufficiale dell'Unione
europea.
Occorre che gli avvisi di queste
pubblicazioni comprendano le informazioni
stabilite in tali direttive.
Le direttive 92/13/CEE e 2004/17/CE
stabiliscono che gli appalti pubblici nei
settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e delle telecomunicazioni devono
essere pubblicizzati nella Gazzetta
ufficiale dell'Unione europea.
Occorre che gli avvisi di queste
pubblicazioni comprendano le informazioni
stabilite in tali direttive.
A norma della direttiva 2009/81/CE alcuni
appalti di lavori, di forniture e di servizi
nel settore della difesa e della sicurezza
sono pubblicizzati nella Gazzetta ufficiale
dell'Unione europea.
Occorre che gli avvisi di questa
pubblicazione comprendano le informazioni
stabilite in tale direttiva.
Il regolamento (CE) n. 1564/2005 della
Commissione, del 07.09.2005, che stabilisce
modelli di formulari per la pubblicazione di
bandi e avvisi relativi a procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici,
stabilisce i modelli di formulari di cui
alle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE e
alle direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE.
Al fine di soddisfare le prescrizioni della
direttiva 2009/81/CE e di garantire la piena
efficacia delle direttive 89/665/CEE,
92/13/CEE, 2004/17/CE e 2004/18/CE, occorre
adattare ed integrare i formulari allegati
al regolamento (CE) n. 1564/2005.
Occorre inoltre aggiornare alcuni elementi
dei modelli di formulari per tenere conto
del progresso tecnico.
Dati il numero e la portata degli
adeguamenti necessari, è opportuno
sostituire il regolamento (CE) n. 1564/2005
(29.08.2011 - commento tratto da
www.ipsoa.it).
---------------
Nuovi formulari per bandi e avvisi da
pubblicare in GUUE.
E’ stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale
dell’Unione europea del 27.08.2011 (L 222)
il “Regolamento di esecuzione (UE) n.
842/2011 della Commissione, del 19.08.2011,
che stabilisce modelli di formulari per la
pubblicazione di bandi e avvisi nel settore
degli appalti pubblici e che abroga il
regolamento (CE) n. 1564/2005”.
Nell’attesa che siano pubblicati
dall’Autorità per i contratti pubblici i
bandi e gli avvisi tipo a livello nazionale,
europea è intervenuta prevedendo l’utilizzo
per le stazioni appaltanti di bandi e
formulari tipo ai fini della pubblicazione
sulla Gazzetta ufficiale comunitaria.
Il regolamento contiene una serie di
allegati, precisamente 19, aventi ad oggetto
i modelli che le amministrazioni
aggiudicatrici dovranno utilizzare.
Eccoli di seguito riportati:
Allegato I: formulario standard 1: Avviso di
preinformazione;
Allegato II: formulario standard 2: Bando di
gara;
Allegato III: formulario standard 3: Avviso
relativo agli appalti aggiudicati;
Allegato IV: formulario standard 4: Avviso
indicativo periodico — Settori speciali;
Allegato V: formulario standard 5: Bando di
gara — Settori speciali;
Allegato VI: formulario standard 6: Avviso
relativo agli appalti aggiudicati — Settori
speciali;
Allegato VII: formulario standard 7: Sistema
di qualificazione — Settori speciali;
Allegato VIII: formulario standard 8: Avviso
sul profilo del committente;
Allegato IX: formulario standard 9: Bando di
gara semplificato nell'ambito di un sistema
dinamico di acquisizione;
Allegato X: formulario standard 10:
Concessione di lavori pubblici;
Allegato XI: formulario standard 11: Bando
di gara — Appalti aggiudicati da un
concessionario che non è un'amministrazione
aggiudicatrice;
Allegato XII: formulario standard 12: Bando
di concorso di progettazione;
Allegato XIII: formulario standard 13:
Risultati di un concorso di progettazione;
Allegato XIV: formulario standard 15: Avviso
volontario per la trasparenza ex ante;
Allegato XV: formulario standard 16: Avviso
di preinformazione — Difesa e sicurezza;
Allegato XVI: formulario standard 17: Bando
di gara — Difesa e sicurezza;
Allegato XVII: formulario standard 18:
Avviso relativo agli appalti aggiudicati —
Difesa e sicurezza;
Allegato XVIII: formulario standard 19:
Avviso di subappalto — Difesa e sicurezza.
A norma di quanto stabilito dall’articolo 6
del regolamento l’utilizzo dei nuovi
formulari sarà obbligatorio a partire dal
ventesimo giorno successivo alla
pubblicazione in Gazzetta ufficiale europea,
quindi da venerdì 16 agosto.
È stato quindi abrogato il “vecchio”
regolamento n. 1564/2005 che stabiliva i
modelli di formulari per la pubblicazione di
bandi e avvisi a livello comunitario.
Il nuovo regolamento, rispetto al n.
1564/2005, prevede in particolare un maggior
numero di formulari ed una miglior
specificazione.
Si tratta quindi di un ulteriore intervento
su una materia che dovrà, secondo le ultime
indiscrezioni provenienti da Bruxelles,
essere oggetto nei prossimi mesi di una
completa rivisitazione.
Ai sensi dell’art. 6, il regolamento “entra
in vigore il ventesimo giorno successivo
alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale
dell'Unione europea.” (commento tratto
da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
26.08.2011 n. 198 "Procedure e requisiti
per l’autorizzazione e l’iscrizione dei
professionisti negli elenchi del Ministero
dell’interno di cui all’articolo 16 del
decreto legislativo 08.03.2006, n. 139"
(Ministero dell'Interno,
decreto 05.08.2011).
--------------
Per l'autorizzazione e
l'iscrizione negli elenchi del Ministero
dell'interno. Normativa antincendio,
requisiti dei professionisti.
Con il D.M. 05.08.2011 (Ministero
dell'Interno - Gazzetta Ufficiale n. 198 del
26.08.2011) sono state dettate le procedure
e i requisiti per l'autorizzazione e
l'iscrizione dei professionisti negli
elenchi del Ministero dell'Interno di cui
all'art. 16 del D.Lgs. 08.03.2006, n. 139,
in materia di normativa antincendio. Possono
iscriversi negli elenchi del Ministero
dell'interno i professionisti iscritti negli
albi professionali, di seguito denominati
professionisti, degli ingegneri, degli
architetti–pianificatori-paesaggisti e
conservatori, dei chimici, dei dottori
agronomi e dottori forestali, dei geometri e
dei geometri laureati, dei periti
industriali e periti industriali laureati,
degli agrotecnici ed agrotecnici laureati,
dei periti agrari e periti agrari laureati,
in possesso dei requisiti previsti dalla
normativa vigente.
Per l'iscrizione negli elenchi del Ministero
dell'interno, i professionisti devono essere
in possesso, alla data della presentazione
della domanda, dei seguenti requisiti:
a) iscrizione all'albo professionale;
b) attestazione di frequenza con esito
positivo del corso base di specializzazione
di prevenzione incendi.
L'attestazione di cui alla lettera b), non è
richiesta:
a) ai professionisti appartenuti, per almeno
un anno, ai ruoli dei direttivi e dirigenti,
degli ispettori e dei sostituti direttori
antincendi del Corpo nazionale dei vigili
del fuoco ed abbiano cessato di prestare
servizio. Il requisito sarà comprovato
dall'interessato all'Ordine o al Collegio
professionale provinciale di appartenenza
mediante attestazione rilasciata dal
Ministero dell'interno - Dipartimento dei
Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e
della Difesa Civile, di seguito denominato
Dipartimento;
b) ai dottori agronomi e dottori forestali,
agrotecnici laureati, architetti–pianificatori-paesaggisti e conservatori,
chimici, geometri laureati, ingegneri,
periti agrari laureati e periti industriali
laureati che comprovino di aver seguito
favorevolmente, durante il corso degli studi
universitari, uno dei corsi d'insegnamento
aventi per oggetto le materie previste dai
corsi base di specializzazione in
prevenzione incendi.
Per i suddetti professionisti è richiesto
soltanto il superamento dell'esame inteso ad
accertare l'idoneità dei candidati.
Restano comunque valide le iscrizioni dei
professionisti già iscritti negli elenchi
alla data del 27.08.2011 (31.08.2011
- commento tratto da www.ispsoa.it).
---------------
Incendi,
stretta sulla prevenzione. Servirà maggiore
formazione per i tecnici.
Stretta sui requisiti per i professionisti
abilitati a rilasciare i certificati di
prevenzione incendi iscritti negli elenchi
del ministero dell'interno. Che, d'ora in
poi per poterne fare parte o non esserne
cancellati dovranno garantire un minimo di
ore di formazione continua obbligatoria.
Una norma questa contenuta nel decreto
ministeriale sulle «Procedure e requisiti
per l'autorizzazione e l'iscrizione dei
professionisti negli elenchi del ministero
dell'interno» (pubblicato in Gazzetta
Ufficiale n. 198 del 26/08/2011) che
potrebbe mettere in serio pericolo la stessa
iscrizione dato che le categorie di area
tecnica sono tra le più inadempimenti in
materia di formazione continua.
Il testo di legge arriva a definire prassi e
obblighi per i professionisti che intendono
abilitarsi al rilascio del certificato di
prevenzione incendi che riguardano locali,
attività, depositi, impianti e industrie
pericolose. La certificazione è di norma
appannaggio dei Vigili del Fuoco ma prevede
che questi si possano avvalere di
certificazioni e dichiarazioni di conformità
compilate da professionisti abilitati. E
quindi iscritti in appositi elenchi
ministeriali, non prima di aver dimostrato
di possedere tutti i requisiti e la
formazione necessaria.
Ma chi può far parte di questi elenchi?
Ingegneri, architetti, chimici, dottori
agronomi e forestali, geometri, periti
industriali, periti agrari, agrotecnici
iscritti all'albo professionale e in
possesso di attestato di frequenza con esito
positivo del corso base di specializzazione
di prevenzione incendi.
Il corso dovrà comprendere un ammontare non
inferiore alle 120 ore con lezioni sostenute
dagli ordini e dai collegi professionali di
ognuna delle professioni ammesse alla
possibilità di certificazione antincendio,
con la supervisione e attestazione finale
rilasciata dallo stesso ministero. Sono
esclusi dall'obbligo di frequenza ai corsi i
«professionisti appartenuti, per almeno un
anno, ai ruoli dei direttivi e dirigenti,
degli ispettori e dei sostituti direttori
antincendi del Corpo nazionale dei vigili
del fuoco e abbiano cessato di prestare
servizio», e i tecnici laureati che provino
di aver seguito un corso e conseguito una
formazione equivalente durante la laurea.
In ogni caso gli iscritti per mantenere la
propria posizione dovranno seguire corsi di
aggiornamento e seminari
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2011). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Regione
Lombardia, "Linee Guida per l’utilizzo di
Scale Portatili nei cantieri temporanei e
mobili" (decreto
D.G. 17.08.2011 n. 7738).
---------------
Lavori in quota e caduta
dall’alto. Linee guida, check-list e schede
di attività.
Nei lavori edili la caduta dall’alto
costituisce uno degli infortuni più
frequenti con conseguenze gravi e spesso
mortali. Nelle numerose analisi statistiche
disponibili in letteratura, le cadute
dall'alto si attestano sempre tra i primi
posti degli infortuni gravi.
La Regione Lombardia ha pubblicato le “Linee
Guida per l’utilizzo di Scale Portatili nei
cantieri temporanei e mobili” con
Decreto n. 7738 del 17/08/2011.
Scopo della Linea Guida è fornire ai diversi
soggetti operanti nel cantiere uno strumento
operativo di semplice consultazione, al fine
di prevenire i rischi di caduta.
La parte generale tratta i seguenti
argomenti:
● definizione generali;
● riferimenti normativi.
● misure generali di sicurezza nell’utilizzo
delle scale.
● concetti di base in materia di
sorveglianza e sanitaria e idoneità.
Sono presenti, inoltre, le “schede di
attività” che riguardano diversi
utilizzi in cantiere delle scale portatili:
►
opere di scavo di pozzi, cunicoli, trincee,
etc.;
►
posizionamento di manufatti per il getto di
pilastri e travi;
►
superamento di dislivelli per passaggio da
solaio a solaio;
►
movimentazione di monoblocchi di cantiere
quali baracche, casseri e ferri da armatura;
►
lavori di assistenza ai fini della
realizzazione di impianti;
►
esecuzione e manutenzione di impianti;
►
attività di smontaggio e smantellamento di
strutture ed impianti (strip out);
►
apertura e chiusura della copertura
superiore degli automezzi telonati;
►
esecuzione di finiture ed intonaci;
►
posa e disarmo dei casseri di armatura.
La Linea Guida è, infine, corredata da una
sintetica check-list dedicata all'utilizzo
delle scale
(01.09.2011 - commento tratto da www.acca.it). |
QUESITI &
PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Videosorveglianza dei lavoratori: omessa
informativa del datore di lavoro.
Domanda.
L'azienda in cui lavoro è dotata di quattro
telecamere (tre esterne e una interna),
appositamente segnalate e della cui
esistenza tutti i dipendenti sono informati,
più sei rilevatori di movimento, posti
all'interno; il tutto viene normalmente
attivato la sera quando l'azienda chiude,
fino al mattino dopo.
Mi sono accorta per caso che alcuni di
questi rilevatori di movimento presentano al
loro interno una microcamera, della cui
presenza nessun lavoratore è stato
informato. Questo mi sembra molto scorretto
e mi auguro almeno che i rilevatori presenti
nei bagni siano privi di videocamera. Quali
sono le sanzioni previste per l'omessa
informativa del mio datore di lavoro?
Risposta.
Il
provvedimento a carattere generale del
Garante per la privacy dell'08.04.2010 (che
sostituisce integralmente il precedente
provvedimento del 29.04.2004 in tema di
videosorveglianza), ha ribadito l'obbligo
per il datore di lavoro che voglia
effettuare la videosorveglianza
esclusivamente per ragioni organizzative o
produttive, ovvero per la sicurezza del
lavoro, di osservare le regole "procedurali"
previste dall'art. 4 dello Statuto dei
lavoratori (L. n. 300/1970). Detto art. 4
subordina l'installazione degli impianti
audiovisivi al preventivo accordo con le
rappresentanze sindacali aziendali, oppure,
in mancanza di queste, ovvero in difetto di
tale accordo, all'autorizzazione preventiva
del Servizio Ispettivo della Direzione
Provinciale del Lavoro.
Inoltre, è fondamentale affinché i
trattamenti di dati personali derivanti
dalla videosorveglianza siano leciti e
corretti ("trattamenti" che sono
costituiti dalla rilevazione di immagini che
permettono di identificare le persone) che
sia data sempre un'informativa preventiva ai
soggetti interessati. Tale informativa può
essere data in via generale ricorrendo a un
cartello analogo al fac-simile proposto dal
Garante stesso (con gli opportuni
adattamenti che diano conto della sola
rilevazione di immagini, o anche della
eventuale registrazione e/o dell'eventuale
collegamento diretto della videosorveglianza
privata con le forze di polizia), cartello
che deve essere posizionato prima del raggio
d'azione delle telecamere (per consentire
all'interessato la scelta di non accedere
all'area coperta dal raggio d'azione) e non
necessariamente a contatto con gli impianti
e che deve essere sempre chiaramente
visibile, anche nelle ore notturne. Va
segnalato però che il Garante, nel suo
provvedimento dell'08.04.2010, invita anche
ad integrare l'informativa resa tramite i
cartelli con un testo completo (contenente
tutti gli elementi previsti dall'art. 13 del
Codice della privacy) reso facilmente
disponibile agli interessati.
Quanto all'aspetto sanzionatorio, il mancato
rispetto delle anzidette prescrizioni
costituisce una violazione amministrativa
punita con il pagamento di una somma
variabile da 30.000 a 180.000 euro; mentre
per l'omessa o inidonea informativa continua
ad applicarsi la sanzione amministrativa del
pagamento di una somma da 6.000 a 36.000
euro.
Inoltre, se dall'utilizzo illecito di
sistemi di videosorveglianza nei luoghi di
lavoro deriva un controllo a distanza
dell'attività dei lavoratori (che è
assolutamente vietato dalla legge), il fatto
è sanzionato anche penalmente ai sensi
dell'art. 171 del D.Lgs. n. 196/2003 e
dell'art. 38 della L. n. 300/1970 (02.09.2011
- commento tratto da www.ipsoa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Criteri degli uffici comunali per le istanze
di rateizzazione delle sanzioni
amministrative.
Domanda.
La competenza a determinare, con apposito
atto deliberativo, i criteri ai quali gli
uffici comunali devono attenersi per
decidere sulle istanze di rateizzazione
delle sanzioni amministrative è del
Consiglio o della Giunta comunale?
Risposta.
La L. 24.11.1981, n. 689 detta, all'art. 26,
le condizioni per concedere la rateizzazione
nel pagamento delle sanzioni pecuniarie
prevedendo che L'autorità ....
amministrativa che ha applicato la sanzione
pecuniaria può disporre, su richiesta
dell'interessato che si trovi in condizioni
economiche disagiate, che la sanzione
medesima venga pagata in rate mensili da tre
a trenta; ciascuna rata non può essere
inferiore ad euro 15,00.
Ciò premesso non esiste alcun obbligo di
dettare disposizioni più specifiche per
l'applicazione della cit. disposizione.
Qualora invece si ritenga opportuno, al fine
di ridurre la discrezionalità amministrativa
in sede di concessione del beneficio,
adottare un atto che definisca più
puntualmente le casistiche, si ritiene che
detta competenza debba essere dello stesso
soggetto competente all'adozione del
beneficio (Dirigente) mentre sia da
escludere una competenza del Consiglio o
della Giunta (in quanto non si rientra
nell'ambito di profili politici).
Ciò premesso segnaliamo che alcune
Amministrazioni si sono dotate di atti
deliberativi quali quelli descritti (spesso
approvati in Giunta).
Segnaliamo il contenuto dispositivo di uno
di questi (Comune di Polesine) che potrà
essere preso a riferimento (suggeriamo nella
forma della Determina dirigenziale):
< > < > < >
... Determina...
1) Di stabilire i seguenti criteri e
modalità per la rateizzazione delle sanzioni
amministrative pecuniarie di competenza
comunale:
a) la rateizzazione è concessa solo
sull'importo di verbali per violazioni ed
illeciti di natura amministrativa non ancora
divenuti titoli esecutivi e sull'importo di
ordinanze-ingiunzioni relative a violazioni
amministrative entro trenta giorni dalla
notificazione dell'ordinanza medesima; non
e' ammessa la rateizzazione per violazioni
al codice della strada e per illeciti
amministrativi inerenti la violazione di
norme in materia igienico-sanitaria e di
tutela dell'ambiente;
b) la rateizzazione e' ammessa per importi
complessivi superiori a euro 100,00 (cento)
e per rate mensili da tre a dieci; l'importo
di ciascuna rata non potrà essere inferiore
a euro 20,00 (venti); tuttavia l'importo
della rata finale sarà calcolato come saldo
della somma da versare e potrà anche essere
di importo inferiore ad euro 20,00;
c) se la richiesta di rateizzazione viene
presentata a seguito di notifica di
un'ordinanza-ingiunzione, le rate saranno
applicate sull'importo stabilito
nell'ordinanza medesima;
d) l'importo minimo rateizzabile può essere
determinato anche dalla somma di più verbali
per violazioni;
e) le rate mensili non sono gravate di
interessi, poiché il debito riveste natura
sanzionatoria;
f) il debito residuo può essere estinto in
ogni momento mediante un unico pagamento;
g) il termine ultimo di pagamento di ogni
rata mensile viene fissato nell'ultimo
giorno di ogni mese oppure, se festivo, nel
primo giorno feriale immediatamente
successivo;
h) decorso inutilmente, anche per una sola
rata, il termine fissato, l'obbligato è
tenuto al pagamento del residuo ammontare
della sanzione in un'unica soluzione;
i) la rateizzazione è ammessa
esclusivamente in presenza dei seguenti
requisiti di reddito del nucleo familiare di
cui fa parte il richiedente, relativi
all'anno precedente l'istanza:
- reddito inferiore ad euro 28.000,00 lordi
annui in caso di nucleo familiare composto
da un'unica persona;
- reddito inferiore ad euro 40.000,00 lordi
annui in caso di nucleo familiare composto
da due persone;
- reddito inferiore ad euro 45.000,00 lordi
annui in caso di nucleo familiare composto
da tre persone;
- reddito inferiore ad euro 50.000,00 lordi
annui in caso di nucleo familiare composto
da quattro o più persone;
j) il titolare del verbale o
dell'ordinanza-ingiunzione deve dichiarare
nell'istanza, mediante autocertificazione,
di trovarsi nelle condizioni di cui all'art.
26, comma primo, della legge 689/1981 e di
essere in possesso dei requisiti di reddito
indicati al precedente punto i);
k) l'Amministrazione comunale si riserva di
effettuare, anche a campione, tutti gli
accertamenti previsti e consentiti dalla
legge al fine di verificare le effettive
condizioni economiche del richiedente;
l) il Responsabile del servizio ragioneria
è autorizzato a valutare il rispetto dei
criteri stabiliti dalla presente
Deliberazione, ai fini della concessione o
del diniego della rateazione, mediante
apposito provvedimento;
m) non e' concessa la rateizzazione qualora
il richiedente risulti già moroso
relativamente ad un qualsiasi altro credito
vantato nei suoi confronti dal Comune (29.08.2011
- commento tratto da www.ipsoa.it). |
NEWS |
APPALTI:
Stazione unica appaltante ad
adesione volontaria.
LOTTA ALLE MAFIE - L'obiettivo della
centrale è salvaguardare dai possibili
condizionamenti di organizzazioni criminali.
Le amministrazioni pubbliche possono aderire
alla stazione unica appaltante, per
salvaguardare la fase dell'affidamento
dell'appalto da possibili condizionamenti di
organizzazioni criminali.
Nell'ambito del piano straordinario contro
le mafie (legge 136/2010) è stato emanato il
Dpcm 30.06.2011 (pubblicato nella Guri del
29 agosto), che disciplina le competenze e i
profili organizzativi dei particolari
organismi. Le "Sua" sono configurate
come centrali di committenza, riconducibili
al modello generale definito dagli articoli
3 e 33 del codice dei contratti pubblici, ma
con una finalizzazione che combina
l'ottimizzazione delle procedure con la
capacità di contrastare più efficacemente i
tentativi di infiltrazione mafiosa negli
appalti.
Le attività attribuite alla stazione unica
appaltante sono focalizzate sulla gestione
della procedura di gara, collaborando con
l'ente che intende affidare l'appalto
nell'impostazione dei documenti descrittivi
(capitolato speciale, schema di contratto),
definendo la procedura di gara e occupandosi
in via esclusiva della redazione degli atti
regolatori della gara (bando, disciplinare e
lettera di invito), con piena responsabilità
nella definizione dei criteri selettivi (in
caso di utilizzo dell'offerta economicamente
più vantaggiosa).
La gestione della gara in tutte le sue fasi
(compresa la nomina della commissione
giudicatrice, quando necessaria) costituisce
l'attività fondamentale della particolare
centrale di committenza, che deve
svilupparla in tutti i suoi profili
operativi: dall'assolvimento degli obblighi
di pubblicità all'effettuazione dei
controlli sul possesso dei requisiti di
ordine generale e di capacità nei confronti
dei concorrenti e dell'aggiudicatario.
La collaborazione con le amministrazioni
titolari dell'appalto si estende anche alla
fase di stipulazione del contratto. La Sua,
inoltre, ha competenza per la cura dei
contenziosi insorti in relazione alla
procedura di affidamento, fornendo anche gli
elementi tecnico-giuridici per la difesa in
giudizio. Su questo profilo, il riparto
degli oneri connessi alla gestione del
contenzioso deve essere definito nell'ambito
della convenzione che regola i rapporti tra
la stazione appaltante unica e le
amministrazioni pubbliche aderenti. Con tale
accordo devono essere definiti l'ambito di
operatività del particolare organismo, i
criteri dimensionali degli appalti che ne
determinano l'intervento (ad esempio, per
agre sopra la soglia comunitaria), le
interazioni tra il responsabile del
procedimento
delle amministrazioni aderenti e quello
della centrale di committenza, nonché gli
obblighi informativi reciproci (tra cui
anche quelli relativi alle varianti in corso
di esecuzione, che l'ente deve evidenziare
al soggetto affidante).
L'assetto organizzativo e gestionale della
Sua, con caratteristiche di notevole
flessibilità, ben si coniuga con la
prospettiva di una costituzione di più
organismi di questo tipo in ambito
regionale, proprio in virtù dell'ampia
possibilità di scelta delle amministrazioni
pubbliche, che possono aderirvi attribuendo
la competenza allo svolgimento di singole
gare o di particolari tipologie. Un comune
di limitate dimensioni e con una struttura
organizzativa ridotta potrebbe per esempio
aderire alla stazione unica appaltante solo
per le gare di maggiore complessità e
importo.
Il Dpcm fa comunque salve le normative
regionali che disciplinano moduli
organizzativi e strumenti di raccordo tra
gli enti territoriali per l'espletamento
delle funzioni e delle attività riferibili
alla Sua, quando hanno lo scopo di garantire
l'integrazione, l'ottimizzazione e
l'economicità delle stesse funzioni,
attraverso formule convenzionali,
associative o di avvalimento nell'ambito
delle risorse umane, strumentali e
finanziarie disponibili a legislazione
vigente. A garanzia dell'efficacia
dell'attività delle Sua, il Dpcm prevede la
collaborazione informativa e di supporto
delle prefetture - utg, mentre sul piano più
operativo, gli enti possono avvalersi dei
provveditorati interregionali delle opere
pubbliche per le complesse e delicate
attività di verifica dei progetti per lavori
pubblici (articolo Il Sole 24 Ore del
04.09.2011). |
CONSIGLIERI COMUNALI: MANOVRA
BIS/ Comuni, riunioni solo
al tramonto.
Sotto i 15 mila abitanti consigli, giunte e
commissioni di sera. La partecipazione
agli organi di governo garantirà il permesso
solo per la durata della seduta.
Nei consigli comunali degli enti locali con
popolazione inferiore a 15.000 abitanti, le
sedute consiliari, quelle relative a
commissioni, nonché le giunte dovranno
svolgersi obbligatoriamente nelle ore
serali, tranne in casi eccezionali di cui
dovrà essere data adeguata motivazione nella
lettera di convocazione.
Per i consiglieri comunali, che siano
dipendenti pubblici o privati, non sarà più
prevista l'assenza giustificata dal posto di
lavoro per l'intera giornata, bensì solo per
il tempo strettamente necessario per la
partecipazione a ciascuna seduta e il tempo
che occorre a raggiungere il luogo di
svolgimento dell'assemblea consiliare.
Sono queste alcune delle disposizioni
contenute nell'emendamento 16.1000, che il
relatore al disegno di legge di conversione
della manovra-bis di Ferragosto (il dl n.
138/2011), Antonio Azzollini ha depositato
in Commissione bilancio del senato.
In comune lavori serali.
Fermo restando che le sedute del consiglio e
delle commissioni sono pubbliche (salvi i
casi previsti dal regolamento),
l'emendamento posto da Azzollini aggiunge
alcune novità al testo dell'articolo 38,
comma 7 del Tuel (il dlgs n. 267/2000).
Infatti, si prevede che nei comuni con
popolazione inferiore a 15.000 abitanti, le
riunioni di consiglio comunale e delle
commissioni consiliari dovranno tenersi
esclusivamente nelle ore serali.
Appare
chiaro che tale ratio si possa fondare su
una maggiore garanzia per i datori di lavoro
che alle loro dipendenze hanno lavoratori
che esercitano la funzione pubblica (in
pratica, con il consiglio comunale che si
svolge alle 21.00, il
lavoratore/amministratore può benissimo
recarsi al proprio posto di lavoro e poi in
comune a svolgere il suo mandato elettivo).
Ma se la disposizione dovesse essere
convertita in legge, il ministero
dell'interno dovrebbe necessariamente
fornire dei chiarimenti. Prima di tutto,
cosa debba intendersi per «ore serali».
Senza dimenticare che questa volontà del
legislatore potrebbe creare non pochi
problemi alle asfittiche casse degli enti
locali.
Il riferimento è agli eventuali
maggiori costi che ogni amministrazione
comunale dovrà sopportare per il personale
che è istituzionalmente deputato a far
funzionare al meglio le sedute di consiglio
o di commissione (segretari, commessi,
verbalizzanti). E se queste devono tenersi
nelle ore serali, quindi al termine del
normale orario di servizio dei dipendenti
comunali, è probabile che l'ente dovrà
sopportare maggiori costi per straordinario
e maggiori costi indiretti (il riferimento
va ai maggiori costi per energia elettrica).
È vero che le maggiori ore lavorate come
straordinario possono essere convertite, su
richiesta del lavoratore, in riposi
compensativi, senza intaccare dunque il
bilancio comunale, ma è pur vero che così
verrà a mancare forza lavoro negli uffici
comunali.
Permessi giornalieri, addio.
L'emendamento Azzollini, inoltre, intacca anche un'altra
disposizione contenuta nel Tuel.
All'articolo 79, comma 1 del Tuel, si
prevede che i lavoratori dipendenti,
pubblici e privati, componenti dei consigli
comunali, provinciali, metropolitani, delle
comunità montane e delle unioni di comuni,
nonché dei consigli circoscrizionali dei
comuni con popolazione superiore a 500.000
abitanti, hanno diritto ad assentarsi dal
posto di lavoro solo il tempo necessario per
partecipare ai lavori dell'assemblea
consiliare e per il tempo che occorre loro
per raggiungere la sede dove si svolgerà la
seduta.
Viene così a cadere il diritto per questa
tipologia di consiglieri di poter assentarsi
dal lavoro per l'intera giornata. Anche qui,
non è difficile immagine quale possa essere
stata la molla che abbia portato a scrivere
una norma in tal senso. Da un lato c'è la
già citata garanzia per il datore di lavoro
(ovviamente per quei dipendenti che non
abbiano scelto di mettersi in aspettativa
per espletare interamente il mandato
consiliare), di poter disporre del proprio
lavoratore per più tempo, dall'altro, così
operando si eviteranno le «tentazioni»
di procrastinare i lavori consiliari oltre
la mezzanotte, facendo scattare
automaticamente un ulteriore giorno di
assenza del dipendente.
Infatti, la disposizione contenuta
nell'emendamento 16.1000, cassa quanto oggi
previsto dal citato articolo 79 secondo cui
nel caso in cui i consigli si svolgano in
orario serale, i lavoratori/consiglieri
hanno diritto a non riprendere il lavoro
prima delle ore 8 del giorno successivo,
mentre se i lavori dei consigli si
protraggono oltre la mezzanotte, questi
hanno diritto di assentarsi dal servizio per
l'intera giornata successiva
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2011). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: MANOVRA
BIS/ Salvate le feste laiche.
Amministrazioni obbligate a certificare i
debiti.
La pubblica amministrazione sarà obbligata a
certificare i debiti nei confronti di
imprese e professionisti.
A prevederlo è un
emendamento di minoranza alla manovra,
passato ieri sera a sorpresa, in commissione
bilancio al senato, contro il parere del
governo e del relatore Antonio Azzollini (Pdl).
Maggioranza finita sotto, dunque, grazie al
voto che è stato compatto di tutte le
opposizioni, compresa Forza del Sud, la
formazione di Gianfranco Miccichè (che
appoggia l'esecutivo), che avevano
presentato più di una proposta di modifica
per risolvere l'annosa questione dei crediti
vantati verso la p.a. da un'importante fetta
del mondo produttivo.
Il via libera al testo ha provocato
letteralmente il caos nella V commissione di
palazzo Madama, in chiusura di seduta: con
tutta probabilità, considerando la rilevanza
finanziaria dell'emendamento (non ancora
quantificata), l'esecutivo dovrà correre ai
ripari nelle prossime ore per evitare che la
manovra, sulla quale il ministro
dell'economia Giulio Tremonti ha assicurato
la «totale solidità dei saldi di
copertura», si carichi di una ulteriore,
imprevista voce di spesa.
Sono state «salvate», invece, in
extremis, le feste del primo maggio, del
25 aprile e del 2 giugno, ma non quelle
patronali (eccezion fatta per i SS Pietro e
Paolo, che si celebrano a Roma):
l'emendamento del Pd, accolto dal relatore,
che ha ottenuto il semaforo verde,
stabilisce che le festività civili non
saranno più accorpate alla domenica
successiva, come si era ipotizzato nei
giorni scorsi per evitare di perdere
giornate lavorative.
Esaminati e votati nella serata di ieri
tutti gli emendamenti all'articolo 1 e
aggiuntivi (di cui ne sono stati approvati
in tutto una decina), i lavori
nell'organismo parlamentare riprendono
questa mattina alle 9:30, ripartendo
dall'art. 2 della manovra
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2011). |
SEGRETARI COMUNALI: Segretari, ex agenzia paralizzata.
Braccio di ferro sul bilancio. E la
formazione resta al palo. Nonostante
l'abolizione nel 2010 l'organismo è ancora
in vita. Ma in amministrazione provvisoria.
Quando Tremonti nella manovra 2010 la
cancellò con un tratto di penna, il ministro
dell'economia raccolse consensi un po'
dappertutto. Da sempre additata come un
inutile carrozzone mangia-soldi (tra
indennità faraoniche degli organi di
gestione, spese folli e sedi inutili)
l'Agenzia dei segretari comunali e
provinciali, nonostante l'abrogazione, è più
viva che mai.
Sarebbe dovuta passare sotto il controllo
del ministero dell'interno, ma solo a
seguito di un apposito decreto
interministeriale che non è mai stato
emanato.
E così, l'ex Ages, come previsto dalla legge
(dl 78/2010) continua a esercitare
«l'attività già svolta dall'Agenzia presso
la sede e gli uffici a tale fine
utilizzati». Il che significa: continua a
fare quello che ha sempre fatto. Conserva la
titolarità dei contratti stipulati, ne
sottoscrive di nuovi, mantiene autonoma
posizione fiscale, previdenziale e
assistenziale. E soprattutto continua a
incassare i contributi da comuni e province
(sono stati abrogati dal dl 78, ma subito è
intervenuto il milleproroghe 2010 a far
slittare al 31/12/2011 la cancellazione
dell'obolo a carico degli enti). Fa tutto
questo in amministrazione provvisoria, ossia
non potendo spendere più del necessario a
garantire l'attività istituzionale minima. E
meno male, direbbe qualcuno, dopo anni di
vacche grasse.
Il problema è che lo stato di paralisi in
cui si trova l'Agenzia (per la cui gestione,
dopo lo scioglimento del cda nel 2010, il
Viminale ha istituito un'unità di missione a
capo della quale ha posto il prefetto
Umberto Cimmino) sta bloccando le attività
formative della Scuola superiore della
pubblica amministrazione locale. Forse
l'unica ragione perché l'Ages resti
operativa. Alla Sspal, che dipende
dell'Agenzia, compete l'aggiornamento
professionale dei segretari e il
reclutamento degli stessi attraverso
l'organizzazione di Corsi-concorsi che
ovviamente risultano congelati.
I sindacati (Cgil Funzione Pubblica, Cisl
Fps, Uil Fpl e Unione nazionale dei
segretari comunali e provinciali) sono sul
piede di guerra e in una missiva unitaria
indirizzata allo stesso Cimmino e al
ministro dell'interno Roberto Maroni hanno
chiesto una rapida approvazione dei
documenti di bilancio (rendiconto 2010 e
preventivo 2011) indispensabili per far
ripartire le attività a pieno regime.
Ma una querelle tra lo stesso Cimmino e il
neonato Comitato di sorveglianza, nominato
da Maroni nello scorso luglio per
«assicurare un'indefettibile azione di
controllo sulle attività dell'ex Ages» fino
al trasferimento di funzioni al Viminale,
sta bloccando tutto. Cimmino, forte anche
del parere conforme della Corte dei conti
(delibera n. 5/2011 della sezione autonomie),
non vuole proprio saperne di approvare il
bilancio in mancanza di organi di controllo
interno, ossia senza il collegio dei
revisori. E preferisce andare avanti alla
giornata con la gestione provvisoria,
nonostante la «grave crisi di liquidità» che
lo stesso Cimmino riconosce essere alle
porte.
Per il comitato di sorveglianza,
invece, il collegio dei revisori c'è ed è
pienamente operativo. «Non sembra che il
venir meno degli organi dell'Ages», si legge
nella relazione al bilancio di previsione
2011 depositata dal Comitato lo scorso 4
agosto, «abbia fatto decadere il collegio
dei revisori, tanto è vero che lo stesso
collegio ha continuato a svolgere attività
istituzionale e ad essere regolarmente
retribuito».
«La decisione di non approvare
il bilancio di previsione 2011 e la
relazione programmatica nei termini
previsti», prosegue l'organo composto da
Maurizio Delfino, Maurizio Bruschi e Luigi
Barbero, «non è giustificata da alcun
elemento giuridico, posto che, ai sensi del
dl 78/2010, la successione del ministero
dell'interno nelle funzioni dell'ex Ages non
opera immediatamente, ma solo a seguito di
uno specifico decreto».
In pratica, secondo
il Comitato, poiché il passaggio di consegne
tra Agenzia e ministero si avrà solo dopo
l'adozione di questo provvedimento, «sarebbe
stato opportuno procedere con l'approvazione
del bilancio di previsione» per far fronte
alle tante obbligazioni assunte verso
dipendenti, fornitori e banche.
Intanto, la tensione sale. All'interno della
categoria e nelle stanze del ministero
dell'interno. Dove più d'uno pare
intenzionato a chiedere a Maroni la testa di
Cimmino, reo di essere troppo poco
decisionista. Mentre i sindacati, forse
sbagliando bersaglio, se la sono presa col
Comitato di sorveglianza accusandolo di
essere il vero responsabile della mancata
approvazione del bilancio. Quando si dice:
oltre al danno la beffa
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2011). |
APPALTI SERVIZI: MANOVRA
BIS/ In house, un
percorso a ostacoli.
Ai raggi X efficienza, economicità, Patto e
controllo analogo. Il dl 138 riammette gli
affidamenti. Ma i paletti normativi restano.
Se il referendum dello scorso giugno, che ha
abrogato l'art. 23-bis, ha restituito agli
enti locali quella libertà di
autorganizzazione sancita dal Trattato Ue e
dalla Corte di giustizia europea, con la
manovra di Ferragosto il legislatore ha
riaperto alla costituzione di società in
house laddove il valore economico del
servizio oggetto dell'affidamento non superi
900.000,00 annui, intendendosi per tale
valore la somma del valore del contratto di
servizio e la contribuzione tariffaria
pubblica.
L'apparente libertà dell'affidamento o del
mantenimento di servizi (al di sotto di tale
nuova soglia) a favore di società comunali
incontra tuttavia vincoli legislativi
nazionali e comunitari e/o di opportunità
che potrebbero pregiudicare la sopravvivenza
dell'in house.
La cornice entro cui si inquadra la nuova
disciplina è la preventiva, delicata e
imprescindibile valutazione da parte degli
enti locali, entro il 12.08.2012 e in ogni
caso prima del conferimento o del rinnovo
della gestione dei servizi, della
realizzabilità di una gestione
concorrenziale degli stessi, escludendoli da
un processo di liberalizzazione solo se si
dimostra che in base ad una analisi di
mercato, la libera iniziativa economica
privata non sia in grado di assicurare un
servizio rispondente ai bisogni della
collettività.
La relativa delibera ricognitiva dovrà
essere trasmessa all'Antitrust.
Inoltre, l'assoggettamento delle società in
house al Patto di stabilità interno, ai
sensi del c. 14 dell'art. 4 della manovra
estiva, di cui si attendono i relativi
provvedimenti attuativi, potrebbe peggiorare
i saldi del gruppo comunale a seguito della
rilevanza di uscite/spese delle in house a
fronte di entrate/ricavi non rilevati.
Ecco che il processo di esternalizzazione
dei servizi pubblici locali, attivato da
molti comuni mediante la costituzione di
mirate società in house proprio per
rispettare le regole del patto di stabilità
interno, potrebbe trovare nelle regole del
patto consolidato il proprio capolinea, a
prescindere da qualsiasi altra valutazione o
considerazione sostanziale o di merito.
Alla luce di quanto sopra, con riferimento
alle società in house ammesse dalla recente
manovra sarà necessario valutare
attentamente i diversi aspetti, tra cui la
giustificazione del mantenimento rapportata
alle finalità istituzionali, alla comprovata
efficienza ed economicità della gestione
rispetto al mercato, alla incidenza del
futuro patto di stabilità consolidato nonché
al rispetto dei vincoli imposti dalla
giurisprudenza comunitaria relativa al
cosiddetto «controllo analogo». Con
l'avvertenza che l'assenza di un vero
controllo analogo esporrebbe l'ente a
possibili ricorsi alla magistratura
amministrativa da parte di potenziali
concorrenti del mercato
(articolo ItaliaOggi del 02.09.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: MANOVRA
BIS/ Spoil system
travestito da mobilità.
Dirigenti esposti alla discrezionalità del
potere politico. Nel dl 138 un colpo di
spugna alla riforma Brunetta che ha
applicato i dettami della Consulta.
Torna lo spoil system per la dirigenza
pubblica. È l'effetto dell'articolo 1, comma
18, del dl 138/2011, ai sensi del quale «al
fine di assicurare la massima funzionalità e
flessibilità, in relazione a motivate
esigenze organizzative, le pubbliche
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma
2, del decreto legislativo 30.03.2001, n.
165, possono disporre, nei confronti del
personale appartenente alla carriera
prefettizia ovvero avente qualifica
dirigenziale, il passaggio ad altro incarico
prima della data di scadenza dell'incarico
ricoperto prevista dalla normativa o dal
contratto.
In tal caso il dipendente conserva, sino
alla predetta data, il trattamento economico
in godimento a condizione che, ove
necessario, sia prevista la compensazione
finanziaria, anche a carico del fondo per la
retribuzione di posizione e di risultato o
di altri fondi analoghi».
La disposizione, pur senza modificare
espressamente né il dlgs 165/2001, né il
dlgs 150/2009, costituisce un deciso passo
indietro nella disciplina degli incarichi
dirigenziali, perché ha l'obiettivo di
esporli nuovamente alla piena
discrezionalità, se non all'arbitrio
dell'organo di governo. Infatti, la manovra
estiva 2011 bis consente di modificare gli
incarichi nel corso della loro durata,
prevedendo come unica salvaguardia per il
dirigente interessato la conservazione del
trattamento economico in godimento,
ovviamente se superiore a quello previsto
per il nuovo incarico assegnato.
Si tratta di un colpo di spugna agli intenti
della riforma Brunetta, che aveva avuto tra
i principali scopi quello di adeguare la
normativa alle decisioni della Corte
costituzionale, che a partire dalla sentenza
103/2007 avevano qualificato lo spoil system
e in particolare proprio modalità
automatiche o eccessivamente discrezionali
di modifica degli incarichi come
incompatibili con la Costituzione.
L'articolo 1, comma 18, del dl 138/2011, per
altro, è difficilmente coordinabile con la
disciplina sugli incarichi introdotta dalla
riforma Brunetta. Infatti, come visto, esso
prevede una generale modificabilità degli
incarichi assegnati, anche nel corso della
loro durata, cioè prima della scadenza del
termine. Contestualmente, però, l'articolo
19, comma 1-ter stabilisce: «Gli incarichi
dirigenziali possono essere revocati
esclusivamente nei casi e con le modalità di
cui all'articolo 21, comma 1, secondo
periodo. L'amministrazione che, in
dipendenza dei processi di riorganizzazione
ovvero alla scadenza, in assenza di una
valutazione negativa, non intende confermare
l'incarico conferito al dirigente, è tenuta
a darne idonea e motivata comunicazione al
dirigente stesso con un preavviso congruo,
prospettando i posti disponibili per un
nuovo incarico».
L'articolo 21 prevede il mancato
raggiungimento degli obiettivi o la
violazione delle direttive come causa del
mancato rinnovo dell'incarico dirigenziale,
non della modifica dell'incarico in corso.
Come visto, lo stesso articolo 19, comma
1-ter, ammette che processi di
riorganizzazione siano il presupposto per
attribuire a un dirigente un nuovo incarico,
ma a condizione che quello precedente fosse
scaduto: si parla, infatti, di mancata
conferma.
È evidente la contraddizione tra norme,
generata dal dl 138/2011. Sul cui articolo
1, comma 18, possono anche avanzarsi dubbi
di applicabilità e legittimità
costituzionale. Il contrasto con le citate
norme del dlgs 165/2001 potrebbe in
apparenza risolversi a vantaggio della
manovra 2011, applicando il principio della
successione delle leggi nel tempo, che dà
prevalenza alla norma più recente.
Tuttavia,
la lettura costituzionalmente orientata
della norma rivela la sua oggettiva
contrarietà a Costituzione, anche perché
oltre a reintrodurre cascami di spoil system
ritenuto da tempo incostituzionale, viola le
norme procedurali previste dalla riforma
Brunetta, per garantire il contraddittorio e
opportunità di scelta degli incarichi ai
dirigenti interessati a una modifica della
loro attività
(articolo ItaliaOggi del 02.09.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Cosa succede se il
dipendente-consigliere comunale è anche
assessore. Sì al cumulo dei permessi.
Spettano al lavoratore per ogni carica
ricoperta.
Quali permessi spettano a un lavoratore
dipendente, consigliere comunale, che
riveste la carica di assessore?
Mentre i permessi previsti dal Tuel
riflettono il diritto costituzionalmente
garantito, a chi ricopre cariche presso enti
locali, di disporre del tempo necessario
all'espletamento del mandato (art. 51
Cost.), l'art. 79 definisce puntualmente
tipologia e misura dei permessi di cui
ciascun amministratore può usufruire,
graduandoli secondo la carica rivestita
presso l'ente.
In particolare, il comma 1
dell'art. 79 prevede espressamente, per i
lavoratori dipendenti, pubblici e privati,
componenti dei consigli comunali, il diritto
di assentarsi dal servizio per l'intera
giornata in cui sono convocati i rispettivi
consigli. Nel caso i lavoratori dipendenti
facciano parte delle commissioni consiliari
nonché delle commissioni comunali previste
per legge, potranno usufruire dei permessi
di cui al successivo comma 3.
Per quanto
concerne la carica assessorile, il comma 3
dell'art. 79 del decreto legislativo n.
267/2000 prevede il diritto di assentarsi
dal servizio al fine di partecipare alle
riunioni degli organi di cui si fa parte per
la loro effettiva durata, compreso il tempo
necessario per raggiungere il luogo della
riunione e rientrare al posto di lavoro. In
aggiunta a tali permessi è contemplata, per
la carica assessorile, la possibilità di
assentarsi ulteriormente dal servizio per un
massimo di 24 ore lavorative al mese. La
normativa prevede, inoltre, per entrambe le
cariche, la possibilità di usufruire dei
permessi non retribuiti disciplinati dal
comma 5 del citato art. 79.
Pertanto,
l'amministratore in questione ha diritto ai
permessi specificatamente previsti per
l'espletamento di ogni singola carica
ricoperta, a meno che non si verifichi una
coincidenza nell'ambito della stessa
giornata tra le convocazioni dei distinti
organi rappresentativi. Le assenze dal
servizio sono retribuite al lavoratore dal
datore di lavoro, ai sensi dell'art. 80 del
citato decreto legislativo.
Tuttavia, qualora il lavoratore dipenda da
privati o da enti pubblici economici, l'ente
presso il quale il medesimo esercita le
proprie funzioni è tenuto, su richiesta
documentata del datore di lavoro, a
rimborsare quanto da quest'ultimo
corrisposto, per retribuzioni e
assicurazioni, per le ore o giornate di
effettiva assenza del lavoratore. Resta
fermo l'obbligo del lavoratore di
documentare, con apposita certificazione, i
permessi di cui ha usufruito
(articolo ItaliaOggi del 02.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ INDENNITÀ/1
Quale disciplina si applica all'indennità da
corrispondere al presidente e ai componenti
del consiglio di amministrazione di un
consorzio tra comuni, alla luce delle
disposizioni recate dal dl 31/05/2010, n. 78?
L'art. 6 del dl n. 78/2010 è una norma che
ha una natura di carattere generale, mentre
la fattispecie è espressamente disciplinata
dall'art. 5, comma 7, del citato decreto
legge, il quale stabilisce che «agli
amministratori di forme associative di enti
locali aventi per oggetto la gestione dei
servizi e funzioni pubbliche non possono
essere attribuite retribuzioni, gettoni, e
indennità o emolumenti in qualsiasi forma
siano essi percepiti».
Considerato che
l'art. 31 del decreto legislativo n.
267/2000, disciplinante i consorzi degli
enti locali, è compreso nel Capo V del
titolo II del medesimo decreto, dedicato
alle forme associative, il divieto riguarda
in generale anche i componenti degli organi
dei consorzi fra enti locali. Pertanto, gli
amministratori interessati non hanno diritto
al percepimento di alcun compenso per le
predette cariche.
INDENNITÀ/2
Alla luce delle disposizioni previste dal dl
31.05.2010, n. 78 come opera la
riduzione dell'indennità di funzione da
corrispondere agli amministratori comunali?
Il dl n. 78/2010, concernente misure urgenti
in materia di stabilizzazione finanziaria e
di competitività economica, ha introdotto
una serie di disposizioni volte a perseguire
una riduzione del costo degli apparati
politici e amministrativi.
Tra queste l'art. 5, comma 7, prevede che
con decreto del ministro dell'interno, da
adottarsi entro 120 giorni dalla data di
entrata in vigore del decreto legge stesso,
ai sensi dell'articolo 82, comma 8, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, gli
importi delle indennità già determinate ai
sensi del citato art. 82, comma 8, sono
diminuiti, per un periodo non inferiore a
tre anni, di una percentuale variabile al
variare delle dimensioni demografiche
dell'ente. Sono esclusi dall'applicazione di
tale disposizione i comuni con popolazione
inferiore a 1.000 abitanti.
Ai fini del calcolo dell'indennità spettante
agli amministratori locali, devono trovare
applicazione le disposizioni del citato art.
5, comma 7, essendo espressamente
individuati i destinatari di tale norma;
l'art. 6, comma 3, dello stesso decreto, non
è applicabile alle indennità degli
amministratori locali essendo diversi i
relativi destinatari
(articolo ItaliaOggi del 02.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti
a tempo, chance di salvezza.
Il decreto correttivo della riforma
Brunetta, il decreto legislativo 141/2011,
più che risolvere finalmente il problema dei
dirigenti "a contratto" pone il fianco a una
serie di difficoltà in merito alla sua
applicazione (si veda «Il Sole 24 Ore» di
martedì).
Si tratta della norma considerata l'ancora
di salvezza dei contratti dirigenziali "a
tempo" stipulati dopo il 15.11.2009, in
eccesso rispetto alla percentuale massima
consentita dal l'articolo 19, comma 6, del
Dlgs 165/2001. Il decreto legislativo 141
del 2011, all'articolo 6, prevede, infatti,
che tali contratti, fermo restando la
valutazione della congruità degli stessi ad
ogni altra disposizione normativa, possono
essere mantenuti fino alla loro scadenza, se
in essere al 09.03.2011 e se stipulati nel
rispetto delle regole sul contenimento della
spesa di personale e sull'utilizzo dei
contratti di lavoro a tempo determinato.
La norma concede agli enti la possibilità di
«mantenere». Si tratta, quindi, di
una facoltà, per le singole amministrazioni
in base a criteri di tipo organizzativo,
considerando anche che tale situazione è
temporanea. A fronte di tale facoltà non vi
può essere un diritto del dirigente.
Il verbo «mantenere» usato dal
legislatore deve far presupporre un'altra
condizione perché gli stessi contratti
continuino a esplicare la loro efficacia,
vale a dire che i dirigenti a tempo
determinato siano in servizio in tale
qualifica anche alla data di entrata in
vigore del decreto legislativo 141
(06.09.2011).
Questo significa che contratti individuali
oggi non più vigenti non possono essere
«mantenuti.» Non solo. Anche il dirigente a
tempo determinato il cui il contratto, pur
se in eccesso alla percentuale massima
consentita, abbia tutti le caratteristiche
necessarie per essere mantenuto, non può
dormire sonni tranquilli.
La norma fissa, infatti, un termine,
rappresentato dalla data di emanazione dei
decreti di cui all'articolo 19, comma
6-quater del Dlgs 165/2001, e, quindi, si fa
riferimento ai provvedimenti con i quali
verranno determinate le classi di virtuosità
degli enti locali.
In altre parole i contratti a tempo
determinato dei dirigenti stipulati in
eccesso alla percentuale massima consentita
possono essere mantenuti fino alla loro
scadenza e, comunque, non oltre l'emanazione
dei decreti che fissano le classi di
virtuosità
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.09.2011 - link
a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - VARI: MANOVRA
BIS/ Per aprire l'attività arriva
la Sia.
Niente certificazione, basta una
segnalazione d'inizio attività. Il dl
181/2011 introduce un nuovo istituto, che
anticipa la riforma costituzionale.
Per aprire un'attività economica basterà una
Sia. Ovvero una Segnalazione di inizio
attività. Senza bisogno di certificazione.
È
quanto stabilito dall'articolo 3, comma 3,
del decreto 138/2011 (manovra economica),
che fissa il principio della libertà di
iniziativa economica privata, salvo
specifici limiti e divieti. La norma
preannuncia una modifica dell'articolo 41
della Costituzione e nel frattempo si affida
agli strumenti della normativa ordinaria e
dei provvedimenti amministrativi (a
legislazione vigente) per sciogliere i nodi
all'imprenditoria.
La tecnica usata dal governo è quella di
fissare un termine per l'adeguamento degli
ordinamenti regionali e degli enti locali ai
principi della liberalizzazione della
sburocratizzazione, In questo caso si tratta
di un anno. Decorso il termine di un anno
l'autonomia delle regioni e degli enti
locali cederà il passo alla norma statale.
Norma che (salvo imprecisioni
terminologiche) introduce un nuovo istituto
di liberalizzazione e cioè la Segnalazione
di inizio attività (siglabile Sia).
Innanzitutto l'articolo 3 enuncia il
principio per cui sono consentire le
attività economiche per cui non vi è
espresso divieto, in relazioni a superiori
interessi. A tale principio comuni,
province, regioni e stato devono adeguarsi
entro un anno dalla data di entrata in
vigore della legge di conversione del
decreto 138/2011, adeguando i propri
ordinamenti.
Al principio secondo cui l'iniziativa e
l'attività economica privata sono libere.
Alla scadenza del termine sono in ogni caso
soppresse, le disposizioni normative statali
incompatibili con il principio della libertà
di iniziativa economica con conseguente
diretta applicazione, prosegue l'articolo 3,
comma 3, degli istituti della «segnalazione
di inizio di attività» e
dell'autocertificazione con controlli
successivi.
La disposizione parla di «segnalazione di
inizio di attività». L'istituto sembra
richiamare quello di cui all'articolo 19
della legge generale sul procedimento
amministrativo (legge 241/1990). Tuttavia
l'articolo 19 tratta della «segnalazione
certificata di inizio di attività».
La differenza tra i due istituti sta
nell'aggettivo «certificata», presente
nell'articolo 19 della legge 241/1990 e
assente nell'articolo 3, comma 3, del decreto
138/2011.
Per lo meno stando alla lettera di
quest'ultima disposizione, siamo di fronte a
una semplice segnalazione, non accompagnata
da certificazione. Si noti, infatti, che in
base al citato articolo 19, la Scia deve
essere corredata dalle dichiarazioni
sostitutive di certificazioni e dell'atto di
notorietà, dalle attestazioni e
asseverazioni di tecnici abilitati, o dalle
dichiarazioni di conformità da parte
dell'Agenzia delle imprese, relative alla
sussistenza dei requisiti e dei presupposti
di cui al primo periodo; inoltre le
attestazioni e asseverazioni sono corredate
dagli elaborati tecnici necessari per
consentire le verifiche di competenza
dell'amministrazione.
I differenti termini usati dall'articolo 3
del decreto 138/2011 possono preludere a un
istituto ancora più snello della Scia, che
permetta all'interessato di aprire
l'attività senza dover presentare le
certificazioni di cui parla l'articolo 19
(si pensi alle asseverazioni, agli elaborati
tecnici ecc.).
Certo, se il legislatore d'urgenza ha voluto
introdurre un istituto del tutto nuovo,
basato sulla mera segnalazione, è necessario
che si costruisca l'istituto nel dettaglio.
La disposizione in commento si limita a
parlare di segnalazione seguita da controlli
dell'amministrazione competente. Una
formulazione che è troppo generica per
definire il procedimento. Se, invece, si
tratta di un errore nella formulazione della
norma è necessario che venga subito
corretto. Vanno evitate incertezze
interpretative, come quelle che si sono
avute in relazione alla Scia in edilizia,
nate perché vi erano disposizioni che
parlavano di «dichiarazione» di inizio
attività e altre che parlavano di «denuncia»
di inizio attività.
La disciplina dell'istituto di
liberalizzazione deve essere chiaro e
bisogna sapere con certezza se la
segnalazione deve essere certificata o meno.
Ciò anche in considerazione del fatto che in
materia vi è una pluralità di istituti:
Scia, Dia e Superdia. Per la stessa Dia il
legislatore ha alternato la «denuncia» alla
«dichiarazione» di inizio attività.
Pari certezza è richiesta per
l'individuazione nominativa delle leggi
statali destinate ad abrogazione per
incompatibilità con i principi di
liberalizzazione alla scadenza dell'anno.
Un ulteriore difetto di chiarezza è
evidenziato nelle schede di letture
dell'Ufficio studi del senato, seppure sotto
un altro profilo. Nell'articolo 3 in
commento, si legge nelle schede di lettura,
non si precisa nemmeno quando «debba
ricorrere la S(c)ia e quando
l'“autocertificazione”».
Quindi vi sarebbe il procedimento di
autocertificazione quale alternativa alla
Sia (si noti che la lettera «c» è messa tra
parentesi). Si ritiene, sul punto, che
l'autocertificazione sia una modalità di
formulazione della segnalazione e non un
istituto a sé stante. Non vi può essere Sia
o Scia senza autocertificazione. Si ritiene,
quindi, che il decreto non individui due
procedimenti alternativi, ma si limiti a
descrivere le fasi dell'unico procedimento
di Sia
(articolo ItaliaOggi del 30.08.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: MANOVRA BIS/ Trasferimento dei
dipendenti flop.
La manovra non cancella il diritto alle
indennità oggi dovute. La norma che dà la possibilità
alla p.a. di spostare il personale rischia
di essere un boomerang.
Il trasferimento dei dipendenti pubblici su
richiesta del datore di lavoro, misura
prevista dall'articolo 1, comma 29, della
manovra di Ferragosto per ottimizzare le
esigenze organizzative e produttive delle
pubbliche amministrazioni, potrebbe
rivelarsi un flop per i risparmi che si
intendono far conseguire alle casse
erariali. Infatti, la norma non specifica
chiaramente che nei casi in cui al
dipendente cui viene richiesto di
trasferirsi non sono dovute alcune indennità
accessorie, quali l'indennità di trasferta o
quella di missione che, sino ad oggi, gli
spettano.
Sarebbe pertanto auspicabile che
le pubbliche amministrazioni adottino
preventivamente degli strumenti che
permettano loro di verificare l'allocazione
del proprio personale sul territorio, con
riguardo ai piani della performance, così da
poter gestire l'eventuale personale in
sovrannumero in relazione ai fabbisogni
derivanti dall'esecuzione della mission
istituzionale.
È quanto rileva il dossier approntato dai
tecnici del senato sul disegno di legge di
conversione del dl n. 138/2011, nel
sottolineare in particolare le disposizioni
contenute al comma 29 dell'articolo 1.
Norma, quest'ultima, che contiene, per i
dipendenti delle amministrazioni pubbliche
di cui all'articolo 1, comma 2 (restano
pertanto, espressamente esclusi i magistrati
e il personale cosiddetto «non contrattualizzato»), su richiesta del datore
di lavoro, la previsione ad effettuare la
prestazione di lavoro in luogo di lavoro e
sede diversi sulla base di motivate
esigenze, tecniche, organizzative e
produttive con riferimento ai piani della
performance o ai piani di razionalizzazione,
secondo criteri e ambiti regolati dalla
contrattazione collettiva di comparto. Nelle
more, il trasferimento è consentito
nell'ambito del territorio regionale di
riferimento, mentre, esclusivamente per il
personale del ministero dell'interno, il
trasferimento può essere disposto anche al
di fuori del territorio regionale di
riferimento.
Su questa disposizione, la relazione tecnica
di accompagnamento evidenzia che in tal modo
si intende consentire «una più razionale
allocazione del personale pubblico» ma il
documento non espone alcun effetto d'impatto
sui saldi tendenziali di finanza pubblica.
Secondo il testo uscito dagli uffici del
senato, invece, nella pacifica
considerazione che la disposizione è
chiaramente volta alla realizzazione di un
più efficiente utilizzo degli organici delle
amministrazioni rispetto ai relativi
fabbisogni di sede, andrebbe confermato che
a questa non si accompagni anche il
sostenimento di maggiori oneri da parte
delle amministrazioni pubbliche stesse,
ovvero il pagamento al dipendente trasferito
di indennità previste dalla legge, come
quella di prima sistemazione (o eventuale
trattamento di trasferta). Infatti, mettono
nero su bianco i tecnici di Palazzo Madama:
se la mobilità del personale rappresenta uno
strumento per favorire anche i piani di
razionalizzazione appare possibile che ciò
possa riflettersi anche in esigenze di
adeguamento delle sedi, da cui potrebbe
derivare il sostenimento di nuovi oneri.
Il
riferimento dei tecnici del senato va alle
disposizioni contenute all'articolo 21 della
legge n. 836/1973, che prevede a favore del
dipendente trasferito un'indennità di prima
sistemazione, il cui importo è variabile in
relazione alla qualifica posseduta, senza
dimenticare che allo stesso spettano i
rimborsi per il trasporto di mobili e
masserizie nella nuova sede di servizio.
Inoltre, anche l'art. 1 della legge 10.03.1987, n. 100 prevede per il personale
militare, trasferito d'autorità, la
concessione dell'indennità di missione e gli
importi accessori (indennità di prima
sistemazione e rimborsi spese).
I presupposti per poter fruire del predetto
trattamento economico sono, l'adozione di un
provvedimento di trasferimento del pubblico
dipendente, cioè la modificazione della sede
di servizio dove egli espleta le proprie
ordinarie mansioni e la natura autoritaria
di tale provvedimento, disposto cioè motu
proprio dall'Amministrazione (e non su
domanda dell'interessato)
Per ovviare a ciò e per andare nel senso
voluto dal legislatore, appare necessaria
(soprattutto per il Viminale,
amministrazione che può da subito trasferire
il proprio personale in ambito
extra-regionale), acquisire degli elementi
idonei a fornire una prima valutazione delle
potenzialità della norma, tramite
l'evidenziazione della distribuzione del
personale sul territorio nazionale per
ambiti regionali e per amministrazioni di
provenienza.
Informazioni aggiuntive sarebbero utili
sugli eventuali surplus di organici
esistenti rispetto ai relativi fabbisogni,
nonché su qualsiasi elemento che sia in
grado di confermare l'utilità delle misure
di mobilità del personale in termini di
riduzione degli oneri di funzionamento delle
strutture (postazioni di lavoro, spazi nelle
sedi ecc.)
(articolo ItaliaOggi del 30.08.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedi e permessi, si cambia.
Più flessibilità per le mamme, agli invalidi
la prova delle cure. È entrato in vigore il
decreto legislativo 119 che rivoluziona la
materia anche per la scuola.
Entrato in vigore l'11 agosto scorso il
decreto legislativo 18.07.2011 n. 119
recante modifiche in materia di congedi,
aspettative e permessi. Obiettivo:
riordinare le tipologie dei permessi,
ridefinire i presupposti oggettivi e
precisare i requisiti soggettivi, i criteri
e le modalità per la fruizione dei congedi,
dei permessi e delle aspettative, comunque
denominati, nonché di razionalizzare e
semplificare i documenti da presentare ai
fini della loro fruizione.
Nei nove articoli di cui si compone il
decreto diverse sono le modifiche alle norme
in vigore in materia di flessibilità del
congedo di maternità, del congedo parentale
e del congedo per l'assistenza di soggetto
portatore di handicap grave e del congedo
per cure per gli invalidi.
Altre modifiche sono apportate in materia di
aspettativa per dottorato di ricerca, di
assistenza a soggetti portatori di handicap
e in materia di adozioni e affidamenti.
Flessibilità per la maternità.
L'articolo 2 del decreto dispone che
all'articolo 16 del decreto legislativo n.
151/2001, dopo il comma 1 venga aggiunto il
comma 1-bis che recita testualmente: "Nel
caso di interruzione spontanea o terapeutica
della gravidanza successiva al 180° giorno
dall'inizio della gestazione, nonché in caso
di decesso del bambino alla nascita o
durante il congedo di maternità, le
lavoratrici hanno facoltà di riprendere in
qualunque momento l'attività lavorativa, con
un preavviso di dieci giorno al datore di
lavoro, a condizione che il medico
specialista del SSN o con esso convenzionato
e il medico competente ai fini della
prevenzione e tutela della salute nei luoghi
di lavoro attestino che tale opzione non
arrechi pregiudizio alla loro salute".
Portatore di handicap
grave.
L'articolo 3 sostituisce il comma 1
dell'articolo 33 del decreto legislativo n.
151/2001.
Dispone che, per ogni minore con handicap in
situazione di gravità, la lavoratrice madre,
o in alternativa, il lavoratore padre hanno
diritto, entro l'ottavo anno di vita del
bambino, al prolungamento del congedo
parentale.
È fruibile in misura continuativa o
frazionata, per un periodo massimo,
comprensivo dei periodi di astensione
facoltativa post partum, non superiore a tre
anni, a condizione che il bambino non sia
ricoverato a tempo pieno presso istituti
specializzati, salvo che, in tal caso, sia
richiesta dai sanitari la presenza del
genitore.
L'articolo 4 apporta modifiche all'articolo
42 del decreto legislativo n. 151/2001 con
specifico riferimento al congedo previsto
dal comma 2 dell'articolo 4 della legge n.
53/2000 (massimo due anni con diritto a
percepire una indennità corrispondente
all'ultima retribuzione). Viene precisato
che il congedo può essere fruito dal coniuge
convivente con soggetto con handicap in
situazione di gravità. In sua assenza o
indisponibilità il congedo può essere fruito
dal padre o la madre anche adottivi, in loro
assenza da uno dei figli conviventi e, in
assenza di quest'ultimo, da uno dei fratelli
o sorelle conviventi e che non può superare
la durata complessiva di due anni per
ciascuna persona portatrice di handicap e
nell'arco della vita lavorativa.
Detto congedo è accordato a condizione che
la persona da assistere non sia ricoverata a
tempo pieno, salvo che, in tal caso, sia
richiesta dai sanitari la presenza del
soggetto che presta assistenza. Viene,
infine, precisato che tale congedo non
rileva ai fini della maturazione delle
ferie, della tredicesima mensilità e del
trattamento di fine rapporto. Modifiche
all'articolo 33 della legge n. 104/1992 sono
invece apportate dall'articolo 6 del decreto
legislativo in esame.
Al comma 3 del
predetto articolo 33 viene aggiunto il
seguente periodo: «Il dipendente ha diritto
di prestare assistenza nei confronti di più
persone in situazione di handicap grave, a
condizione che si tratti del coniuge o di un
parente o affine entro il primo grado (in
precedenza entro il secondo grado), o entro
il secondo grado( in precedenza entro il
terzo grado) qualora i genitori o il coniuge
della persona con handicap in situazione di
gravità abbiano compiuto i 65 anni di età
oppure siano anch'essi affetti da patologie
invalidanti o siano deceduti o mancanti».
Dopo il terzo comma viene aggiunto un comma
3-bis con il quale si dispone che il
lavoratore che fruisce dei permessi di cui
al comma 3 (tre giorni di permesso mensile
retribuito coperto da contribuzione
figurativa) per assistere persona in
situazione di handicap grave, residente in
comune situato a distanza stradale superiore
a 150 chilometri rispetto a quella di
residenza del lavoratore, deve attestare con
titolo di viaggio, o altra documentazione
idonea, il raggiungimento del luogo di
residenza dell'assistito.
Cure per gli invalidi.
L'articolo 7 riconosce ai lavoratori
mutilati e invalidi civili cui sia stata
riconosciuta una riduzione della capacità
lavorativa superiore al 50 per cento la
possibilità di fruire ogni anno, anche in
materia frazionata, di un congedo per cure
per un periodo non superiore a trenta
giorni, periodo che non rientra in quello di
comporto previsto dal contratto scuola(
diciotto mesi nell'arco degli ultimi tre
anni).
Durante il periodo di congedo il
lavoratore ha diritto a percepire il
trattamento economico secondo il regime
delle assenze per malattia ma dovrà
documentare in maniera idonea, anche con
attestazione cumulativa, l'avvenuta
sottoposizione alle cure.
Adozioni e affidamenti.
L'articolo 8 apporta, infine, modifiche
anche all'articolo 45 del più volte citato
decreto n. 151/2001 disponendo che viene
estesa anche ai genitori adottivi o
affidatari con figli minori entro i primi
tre anni dall'ingresso del minore in
famiglia, la facoltà di essere assegnati ad
una sede di servizio ubicata nella stessa
provincia o regione nella quale uno dei due
genitori lavora, indipendentemente dall'età
del minore
(articolo ItaliaOggi del 30.08.2011). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Parametri
incerti per assumere dirigenti a tempo.
LA PREVISIONE - Il plafond del 18% si
applica ai Comuni collocati, ma solo dal
2012, nella classe di maggiore virtuosità.
Non trovano pace i dirigenti a contratto
degli enti locali. Anche il decreto
correttivo della riforma Brunetta, decreto
legislativo 141/2011, che doveva mettere
definitivamente la parola fine all'annosa
questione, in realtà lascia aperti numerosi
dubbi e perplessità.
La vicenda prende origine dal decreto
legislativo 150/2009, che impone il limite
alla nomina dei dirigenti a tempo
determinato nella pubblica amministrazione
del 10% dei posti in dotazione organica per
quelli di prima fascia e nell'8% per la
seconda fascia. Norma la cui applicazione
agli enti locali non risultava comunque
certa.
Dopo pronunce non univoche da parte
delle sezioni regionali delle Corte dei
Conti, sono intervenute sia la Corte
costituzionale, che vede anche gli enti
locali fra i destinatari, sia le sezioni
riunite della Corte dei Conti, le quali
aggiungono, in via interpretativa, che la
percentuale massima di dirigente a contratto
per gli enti locali è pari all'8% dei posti
di qualifica dirigenziale in dotazione
organica. Da qui il caos degli enti che, nel
frattempo, avevano nominato dirigenti oltre
la quota consentita e, quindi, la necessità
di un intervento legislativo, derimente la
questione.
In primo luogo, il decreto 141/2011,
aggiungendo il comma 6-quater all'articolo
19 del decreto 165/2011, stabilisce che la
percentuale massima di dirigenti a contratto
per gli enti locali, assunti in base
all'articolo 110, comma 1, del decreto
267/2000, è pari al 18% dei posti in
dotazione organica della medesima qualifica,
con arrotondamento del quoziente all'unità
superiore se il primo decimale è pari o
superiore a cinque, e all'unità inferiore,
in caso contrario.
La norma si applica solo gli enti locali
collocati nella classe di maggiore
virtuosità delle quattro previste
dall'articolo 20 del decreto legge 98/2011 e
individuate con decreto del ministro
dell'Economia. E gli enti che si collocano
nelle tre classi di virtuosità inferiori?
Due sono le ipotesi: o non possono assumere
dirigenti a contratto in quanto non
sufficientemente virtuosi, oppure si applica
il comma 6 dell'articolo 19 in commento,
nella interpretazione delle sezioni riunite
della Corte dei Conti e, quindi, con il
limite dell'8 per cento.
In ogni caso, la classificazione degli enti
nelle quattro classi di virtuosità partirà
dal 2012. E nel frattempo? Gli enti locali
possono assumere dirigenti a contratto nel
limite del 18%? La risposta dovrebbe essere
negativa in quanto gli stessi enti non
conoscono la classe di virtuosità di
appartenenza. Di conseguenza tornano le due
ipotesi: o non si possono assumere dirigenti
a termine o il limite è rappresentato dall'8
per cento.
Anche a regime, la questione non sarà
semplice. Immaginiamo che, nel 2012, un
comune sia inserito nella prima classe di
virtuosità e, quindi, proceda ad assumere i
dirigenti a contratto nella percentuale
massima.
Cosa succede se, nell'anno successivo, lo
stesso ente viene collocato nella seconda
classe di virtuosità? Quale destino sarà
riservato ai dirigenti a contratto, nel
momento in cui viene a mancare il
presupposto per applicare la percentuale del
18%? Ovvero il venir meno della prima classe
di virtuosità dell'ente datore di lavoro
rappresenta una clausola risolutiva del
contratto di lavoro per i dirigenti a
termine?
(articolo
Il Sole 24 Ore del 30.08.2011 -
tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Comuni all'attacco sull'Ici: le strategie
per la «difesa».
Nelle piccole liti si può stare in giudizio
senza legali.
Negli ultimi mesi si è registrata una
crescente attenzione dei Comuni
nell'accertamento dell'Ici, l'imposta
comunale sugli immobili. Gli enti locali
possono inviare anche lettere o semplici
comunicazioni, ma nella maggior parte dei
casi il Comune invia veri e propri avvisi di
accertamento, mediante i quali sono
contestate le irregolarità ovvero le
omissioni commesse, determinando una nuova
imposta maggiorata da interessi e sanzioni.
Tra l'altro, l'articolo 12 del Dlgs 546/1992,
al comma 5, prevede che quando il valore
della lite sia inferiore a 2.582,28 euro, il
contribuente possa stare in giudizio
direttamente, senza necessità di assistenza
tecnica da parte di un professionista
abilitato. Per valore della lite si intende
l'importo del tributo, al netto degli
interessi e delle eventuali sanzioni
irrogate e va valutato per ogni singolo atto
ricevuto (si vedano i dettagli nelle schede
in alto).
I requisiti dell'avviso.
Formalmente l'atto deve contenere, oltre
agli estremi del contribuente, la
motivazione, identificata nei presupposti di
fatto e nelle ragioni giuridiche
determinanti la pretesa. Dalla motivazione,
infatti, deve evincersi l'immobile al quale
l'avviso sia riferito, l'eventuale diversa
base imponibile ritenuta corretta dal Comune
rispetto a quanto dichiarato dal
contribuente, l'aliquota, gli interessi
calcolati e le sanzioni applicate, con
l'indicazione dei riferimenti normativi.
Sempre in merito alla motivazione, è
espressamente previsto che se nella stessa è
fatto riferimento a un altro atto non
conosciuto o ricevuto dal contribuente,
questo deve essere allegato. Quasi in ogni
avviso di accertamento Ici è fatto
riferimento o rinvio alla delibera comunale
relativa all'anno di imposta oggetto di
contestazione. Benché non immune da pareri
discordi, si segnala che la Corte di
cassazione, con la sentenza 20535/2010, ha
rilevato, sul punto, che l'amministrazione
non è sollevata dall'onere di allegazione o
di riproduzione del contenuto essenziale del
l'atto a cui si fa espresso riferimento,
anche quando si tratti della delibera
comunale.
Da quest'ultima è possibile riscontrare
l'aliquota applicabile per quell'anno,
l'eventuale casistica per l'esenzione
eccetera. Ulteriore elemento utile per la
valutazione nel merito dell'atto è il
regolamento, dal quale sono riscontrabili,
in linea di massima, aspetti più tecnici
stabiliti dal Comune per la determinazione e
l'accertamento dell'imposta.
Nell'avviso di accertamento, poi, così come
per ogni atto della pubblica amministrazione
vi sono l'indicazione del funzionario
responsabile del procedimento, l'indicazione
dell'ufficio presso il quale è possibile
ottenere informazioni complete in merito,
anche per l'eventuale richiesta di riesame
in autotutela, e le modalità per impugnarlo,
quindi l'organo presso il quale è possibile
ricorrere e i relativi termini, oltre alle
indicazioni per il pagamento.
Il contenzioso «ripetibile».
Un ulteriore elemento di riflessione sulla
possibilità di aprire un contenzioso o meno
contro l'atto ricevuto, è la possibilità che
quanto contestato sia ripetibile per anni
successivi. In altre parole, se il Comune
ritenesse errato un comportamento attuato
dal contribuente e notificasse avviso di
accertamento per un determinato periodo di
imposta, è verosimile ritenere che poi sarà
notificata la medesima contestazione anche
per anni successivi. Il contribuente che
definisce (pagando quanto richiesto) la
prima annualità ricevuta, si troverà in
qualche modo costretto a uniformarsi anche
per le successive annualità.
È chiaro dunque, che pur trattandosi di un
modesto importo per un singolo periodo
d'imposta, se lo stesso comporta risvolti
anche per il futuro, è necessaria una
valutazione più ampia e complessiva delle
decisioni da assumere. (continua ...) (articolo
Il Sole 24 Ore del 29.08.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sugli affidamenti in
house tetto a 900mila euro annui Servizio
idrico integrato spostato tra gli «esclusi».
Manovra di Ferragosto. Dopo il referendum
abrogativo di giugno.
L'attesa per la riforma dei servizi pubblici
locali di rilevanza economica, all'indomani
del referendum abrogativo del 12 e 13
giugno, è rimasta delusa dalla manovra
correttiva di Ferragosto.
Il capitolo dei
servizi pubblici locali interviene sul tema
delle liberalizzazioni riproponendo gran
parte delle disposizioni dell'articolo 23-bis del Dl 112/2008 (e del relativo
regolamento attuativo) abrogate, dal 20
luglio, con il Dpr 113/2011 di recepimento
dei risultati referendari.
Balza all'occhio lo spostamento del servizio
idrico integrato nella lista dei settori
esclusi, in cui erano già presenti la
distribuzione di gas naturale, di energia
elettrica, il trasporto ferroviario
regionale e le farmacie. Dopo l'ampia
portata del referendum, che ha riguardato le
forme di gestione dei servizi pubblici di
rilevanza economica in generale e non solo
l'acqua (messa al centro della campagna
referendaria), ci si attendeva un intervento
modificativo incisivo rispetto alla
precedente regolamentazione.
Limiti e verifiche.
L'articolo 4 del Dl 138/2011 ora richiede
agli enti locali di verificare la
realizzabilità di una gestione
concorrenziale dei servizi pubblici
economici e privatizzare le attività,
compatibilmente con le caratteristiche di
universalità e accessibilità del servizio,
limitando i servizi da concedere in
esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad
una analisi di mercato, la libera iniziativa
economica privata non risulti idonea a
garantire un servizio rispondente ai bisogni
della comunità. Le verifiche devono
approdare in una delibera quadro, che deve
dimostrare l'istruttoria compiuta ed
evidenziare i settori sottratti alla
liberalizzazione, il fallimento del sistema
concorrenziale e, dall'altro lato, i
benefici per lo sviluppo e l'equità della
comunità locale derivanti dal mantenimento
di un regime di esclusiva del servizio.
La delibera, da approvare entro il 12.08.2012 (e poi periodicamente secondo gli
ordinamenti locali e, in ogni caso, prima di
procedere al conferimento e al rinnovo della
gestione dei servizi), va pubblicizzata e
inviata all'Autorità garante della
concorrenza e del mercato ai fini della
relazione al Parlamento.
Rispetto al quadro precedente, gli
affidamenti in house sono ulteriormente
ridotti. Questi ultimi, infatti, sono
ammessi, in deroga ai principi di gara, solo
se il valore economico dell'affidamento non
supera i 900mila euro annui e sono
consentiti a favore di società a capitale
interamente pubblico che rispettino i
requisiti comunitari.
Procedure competitive.
Il conferimento dei servizi nei casi di
diritti di esclusiva deve avvenire mediante
procedure competitive ad evidenza pubblica (
prescritti anche i contenuti del bando o
della lettera invito). Sono ammesse società
miste con socio privato selezionato tramite
gara con doppio requisito (qualità di socio,
con una quota non inferiore al 40% e con
compiti operativi). Le gare devono
rispettare, altresì, il trattato europeo, i
principi generali dei contratti pubblici e
gli standard definiti dalla legge, dalla
autorità di settore o dagli enti affidanti.
Le imprese straniere possono partecipare
alle gare nel rispetto del principio di
reciprocità. È prevista, inoltre, la
partecipazione a queste gare delle società a
capitale interamente pubblico, nel rispetto
dei divieti eventualmente previsti dalla
legge (comma 9).
Tale facoltà, però, è subito contrastata dal
comma 33 (si veda anche l'analisi nella
parte bassa di questa pagina), in cui sono
disciplinati i divieti per le società
affidatarie di servizi per via diretta o
senza gara (in Italia o altrove): di
acquisire la gestione di servizi ulteriori o
in ambiti territoriali diversi; di svolgere
servizi o attività per altri enti pubblici o
privati, né direttamente, né tramite
controllanti o società partecipate, né
partecipando a gare.
Il divieto si applica anche alle controllate
e alle controllanti e si estende alle
patrimoniali e alle miste; mentre sono
escluse le quotate e il socio privato di
società mista. Unica deroga per le società
affidatarie dirette di servizi pubblici è la
possibilità di concorrere, su tutto il
territorio nazionale, alla prima gara
successiva alla cessazione del servizio,
avente a oggetto i servizi da esse forniti (articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2011
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI SERVIZI:
Blocco verso i soggetti diventati gestori
senza gara.
Il divieto imposto alle società affidatarie
di servizi in via diretta o senza gara, di
acquisire nuovi servizi o espandere
territorialmente quelli già gestiti (comma
33, articolo 4 del decreto legge 138/2011)
fa infrangere anche un'altra disposizione
contenuta nella nuova regolamentazione dei
servizi pubblici locali a rilevanza
economica.
Si tratta della norma che detta le
condizioni a cui devono sottostare i
soggetti gestori dei servizi pubblici locali
titolari di diritti di esclusiva, nei casi
in cui intendano svolgere attività in
mercati diversi da quelli in cui sono
titolari di diritti di esclusiva (comma 7).
Tramite il richiamo alla legge 287/1990,
sulle norme per la tutela della concorrenza
e del mercato, sono fissati i due paletti
per lo svolgimento dell'attività per il
mercato: da un lato, l'obbligo di operare
mediante società separate (articolo 8, comma
2-bis della legge 287/1990) e, dall'altro,
l'obbligo di rendere accessibili i beni o
servizi anche informativi, di cui abbiano la
disponibilità esclusiva in dipendenza delle
attività svolte, a condizioni equivalenti,
alle altre imprese direttamente concorrenti
(articolo 8, comma 2-bis della legge
287/1990).
La lettura del comma sembrerebbe consentire
alle società che esercitano servizi pubblici
locali anche in affidamento diretto (non
escluse dal comma) lo svolgimento di
attività per il mercato, a condizione che
non lo facciano direttamente, ma tramite
apposite società separate. Quindi si
aprirebbe per le società in house la
prospettiva di superare il limite della
territorialità.
Ma tutto ciò è ostacolato ed impedito dal
divieto (contenuto nel comma 33) per le
società che beneficiano di affidamenti
diretti, di partecipare alle gare (eccetto
alla prima nel settore in cui esercitavano
il servizio). Il divieto, che opera per
tutta la durata della gestione, si estende,
infatti, alle controllanti e alle altre
società che siano da esse controllate o
partecipate. L'auspicio è che la conversione
del decreto legge chiarisca la
contraddizione (articolo Il Sole 24 Ore del 29.08.2011
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI:
L'estrazione a
sorte non risolve il nodo dei revisori.
Norma di difficile attuazione.
L'incarico di revisore dei conti di un
Comune sarà come il numero vincente della
lotteria: uscirà per estrazione.
La novità
arriva con la manovra di Ferragosto
(articolo 16, comma 11, del Dl 138/2011), che
mette mano ai criteri di nomina dei
revisori. Dal primo rinnovo successivo al 13
agosto scorso, i Comuni debbono scegliere i
membri del collegio per estrazione da un
elenco, nel quale possono chiedere di essere
inseriti i professionisti iscritti a livello
provinciale nel Registro dei revisori
legali, purché siano in possesso –precisa
il decreto legge– di specifica preparazione
professionale in materia di contabilità
pubblica e gestione economica e finanziaria
degli enti territoriali. Sono tagliati
fuori, rispetto alla disciplina attuale, gli
iscritti all'albo unico dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili.
La manovra rivede i criteri di scelta dei
revisori (senza però intervenire
sull'articolo 234 del Dlgs 267/2000), più
volte soggetti a critica per mancanza di
autonomia dagli organi politici e della
necessaria professionalità (il tema è emerso
anche il mese scorso durante l'approvazione
del decreto premi e sanzioni sul federalismo
fiscale). Ma la strada scelta non risolve
certo i problemi.
Anzitutto, distinguere la professionalità
non vuol certo dire affidarsi al criterio
dell'estrazione a sorte. I revisori
dovrebbero essere scelti, invece, da un
soggetto terzo.
In fase di istituzione del registro dei
revisori contabili (confluito
successivamente in quello dei revisori
legali) sono entrati anche coloro che al
tempo avevano svolto un incarico da
revisore, quindi la platea è eterogenea ed
ampia (i revisori sono oltre 148 mila, più
degli iscritti all'albo unico dei
professionisti contabili). Il problema,
perciò, si sposta sui requisiti per
l'accesso all'elenco. A livello
universitario i rari corsi dedicati alla
contabilità pubblica sono tra i meno seguiti
dagli studenti. D'altra parte, se la scelta
si basasse sull'esperienza maturata da
incarichi di revisore già svolti, si
taglierebbero fuori tutti i giovani e si
premierebbero coloro che hanno beneficiato
di nomine di organi politici.
Alla luce dell'importanza crescente
attribuita alla formazione continua, che
nella riforma delle professioni diventa
obbligatoria ed è elemento di valutazione
disciplinare (articolo 3, comma 5, del Dl
138/2011), sarebbe coerente richiedere un
certo numero annuo di crediti formativi
sulle materie di contabilità pubblica,
prevedendo criteri più rigidi per i Comuni
più grandi.
Non è chiaro se l'elenco sarà tenuto da un
unico soggetto (da individuare) o sarà
formato da ogni Comune in occasione della
nomina. In quest'ultimo caso, è necessario
assicurare idonee forme di pubblicità delle
procedure, per consentire a tutti di potersi
candidare.
Non si comprende come mai, poi, in una
manovra fondata sul principio della
liberalizzazione, spunti la restrizione allo
svolgimento dell'incarico da revisore su
base provinciale. Si dovrebbe invece
eliminare ogni limitazione territoriale (o
almeno si dovrebbe optare per l'elenco
regionale).
Andrebbero inoltre riviste, anche se il
legislatore non ne fa cenno, le limitazioni
all'affidamento di incarichi, così come
andrebbe sottratta alla decisione del
consiglio comunale la determinazione del
compenso, il quale dovrebbe essere adeguato
alla crescente mole di controlli (si veda Il
Sole 24 Ore dell'8 novembre scorso). Di pari
passo vanno aggiornate le novità introdotte
per le Regioni (articolo 14, comma 1,
lettera e).
Il rinvio ad un decreto del ministro
dell'Interno per la fissazione delle
modalità di attuazione, da adottare entro 90
giorni dalla data di entrata in vigore della
manovra (cioè entro l'11 novembre), per ora
rimanda l'avvio del nuovo regime. L'auspicio
è che nella conversione del decreto si ponga
rimedio alle lacune di una norma (nella
quale il riferimento, per abbracciare i
Comuni con revisore unico, dovrebbe essere
all'organo di revisione) di difficile
attuazione e che appare scritta in fretta.
Ciò mentre sono rimasti al palo sia la
riforma della Carta delle Autonomie sia il
disegno di legge anticorruzione, con cui era
stata data l'"illusione" della
revisione della disciplina dei controlli
negli enti locali (articolo Il Sole 24 Ore del
29.08.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI:
Cambiano le regole negli
uffici pubblici.
Dall'obbligo di esercitare le funzioni in
forma associata alle ripercussioni della
soppressione delle province sugli organici:
punti oscuri e chiarimenti.
Pubblica amministrazione sotto i riflettori
con la manovra di Ferragosto (Dl 138/2011)
in
vigore dallo scorso 13 agosto: la
soppressione di alcune Province, la nascita
delle Unioni municipali per i Comuni sotto i
mille abitanti e l'accelerazione
sull'obbligo di svolgere le funzioni
fondamentali in forma associata per gli enti
più piccoli sono alcune delle novità
previste dal provvedimento.
Novità che sono
destinate ad avere notevoli ripercussioni
sul funzionamento della macchina
amministrativa, ma anche su diritti, doveri
e prospettive del personale dipendente.
Toccato tra l'altro da ulteriori
disposizioni, come le promozioni dell'ultima
ora che non valgono per il calcolo della
liquidazione, l'allungamento del periodo di
attesa per la riscossione del trattamento di
fine servizio (Tfs) o le modifiche al
contributo di solidarietà.
Ecco in questa
pagina i chiarimenti ai principali
interrogativi, con l'indicazione degli
eventuali punti da chiarire nell'iter di
conversione in legge del decreto. (continua
...) (articolo Il Sole
24 Ore del 29.08.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Quando il lavoro diventa stressante.
I fattori di rischio per i dipendenti vanno
monitorati a 360°. La valutazione del
fenomeno riguarda tutta l'azienda. Le
diverse fasi commentate passo passo.
La valutazione del rischio stress lavoro
correlato coinvolge l'azienda nel suo
complesso. Infatti, non è solo il datore di
lavoro a essere interessato (sebbene lo sia
maggiormente di altri, poiché su di lui
ricade l'obbligo), ma riguarda il
responsabile del servizio di prevenzione e
protezione (Rspp), con il coinvolgimento del
medico competente, previa consultazione del
rappresentante dei lavoratori e dei
lavoratori medesimi, ai quali spetta
rilevare l'eventuale presenza di indicatori
del rischio.
Una volta effettuata, una nuova
valutazione del rischio deve essere
immediatamente rielaborata in occasione di
modifiche del processo produttivo o
dell'organizzazione del lavoro che risultino
significative ai fini della salute e
sicurezza dei lavoratori. Per l'Inail, però,
la nuova valutazione collegata al fattore
stress può ritenersi necessaria trascorsi
due/tre anni dall'ultima effettuata.
Lo stress lavoro correlato.
La definizione di «stress lavoro correlato»
è fornita dall'accordo Ue dell'8 ottobre
2004, ai sensi del quale è la «condizione
che può essere accompagnata da disturbi o
disfunzioni di natura fisica, psicologia o
sociale ed è conseguenza del fatto che
taluni individui non si sentono in grado di
corrispondere alla richieste o aspettativa
riposte in loro».
Tuttavia, per la
commissione consultiva permanente
(indicazioni operative alla valutazione del
rischio da stress, diffuse con nota
protocollo n. 23692/2010 del ministero del
lavoro), non tutte le manifestazioni di
stress sul lavoro sono da considerarsi come
stress lavoro correlato; quest'ultimo è solo
quello causato da vari fattori propri del
contesto e del contenuto del lavoro.
Lo stress nella valutazione
rischi.
La valutazione del rischio stress lavoro è
parte integrante dell'obbligo generale della
«valutazione rischi» che ricade sul datore
di lavoro; pertanto, è da questi che deve
essere effettuata avvalendosi dell'ausilio
del responsabile del servizio di prevenzione
e protezione (Rspp), con il coinvolgimento
del medico competente, laddove presente, e
previa consultazione del rappresentante dei
lavoratori (Rls/Rlst).
È, quindi, necessario
preliminarmente seguire il percorso
metodologico indicato dalla commissione il
quale permette una corretta identificazione
dei fattori di rischio da stress
lavoro-correlato; in questo modo, dunque, da
tale identificazione, discenderanno la
pianificazione e la realizzazione di misure
di eliminazione o quando essa non sia
possibile, riduzione al minimo di tale
fattore di rischio.
La valutazione preliminare.
A facilitare l'applicazione della procedura
della commissione consultiva permanente,
l'Inail ha fornito una guida-manuale, al
fine di fornire alle aziende un percorso
sistematico, tale da permettere al datore di
lavoro e alle figure istituzionali coinvolte
nelle attività di prevenzione (medico
competente, responsabili e rappresentanti
dei lavoratori ecc.) di gestire il rischio
stress come uno dei tanti rischi che possono
essere presenti in azienda, nell'ottica
della semplicità ma senza pregiudizio al
rigore metodologico. Fermo restando che la
valutazione del rischio da stress
lavoro-correlato è parte integrante della
più generale «valutazione dei rischi»,
l'Inail suggerisce un percorso metodologico
in due fasi: 1) valutazione preliminare e 2)
valutazione approfondita.
La valutazione preliminare consiste nella
rilevazione, in tutte le aziende, di
indicatori di rischio da stress
lavoro-correlato oggettivi e verificabili e
ove possibile numericamente apprezzabili,
che siano appartenenti «almeno» a tre
famiglie: 1) eventi sentinella; 2) fattori
contenuto del lavoro; 3) fattori contesto
del lavoro (si veda tabella).
Relativamente
agli strumenti da utilizzare in questa prima
fase, il manuale suggerisce il ricorso alle
liste di controllo, mentre nelle aziende di
maggiori dimensioni ritiene possibile la
soluzione di sentire un campione
rappresentativo dei lavoratori. Se al
termine della valutazione preliminare non
risultano rilevati elementi di rischio da
stress lavoro-correlato e, quindi, la fase
si conclude con un «esito negativo», tale
risultato va riportato nel documento finale
della valutazione dei rischi (quello
generale, il Dvr) con la previsione,
comunque, di un piano di monitoraggio.
Invece, qualora la fase si concluda con un
«esito positivo», qualora cioè emergano
elementi di rischio, è necessario passare
alla fase successiva che è la valutazione
approfondita.
La valutazione
approfondita.
Nei casi in cui dalla valutazione
preliminare emergano elementi di rischi il
datore di lavoro è tenuto a procedere
immediatamente alla pianificazione e
all'adozione degli opportuni interventi
correttivi. Ad esempio, potrà trattarsi di
interventi organizzativi, tecnici,
procedurali, comunicativi, formativi. Se
anche tali interventi correttivi dovessero
risultare inefficaci, il datore di lavoro
dovrà procedere alla successiva fase
cosiddetta di valutazione approfondita, già
prevista (quanto ai tempi) in sede di
pianificazione degli interventi successivi
alla valutazione preliminare.
La valutazione
approfondita, spiegano le istruzioni della
Commissione, deve prevedere la valutazione
della percezione soggettiva dei lavoratori.
È possibile utilizzare differenti strumenti
quali questionari, focus group, interviste
semi-strutturate, tutti incentrati sempre
sulle tre famiglie di indicatori. Tale fase
di indagine deve far riferimento ai gruppi
omogenei di lavoratori rispetto ai quali
sono state rilevate le problematiche. Nelle
aziende di grandi dimensioni può essere
realizzata anche tramite un campione
rappresentativo di lavoratori (si veda
tabella).
La validità della
valutazione.
Il manuale dell'Inail fa notare che le
indicazioni della commissione consultiva non
riportano alcun termine di validità della
valutazione del rischio, rimandando
logicamente alla previsione normativa del Tu
sicurezza che, sul punto, stabilisce che la
valutazione dei rischi deve essere
immediatamente rielaborata in occasione di
modifiche del processo produttivo o
dell'organizzazione del lavoro che risultino
significative ai fini della salute e
sicurezza dei lavoratori oppure in relazione
al grado di evoluzione della tecnica, della
prevenzione o della protezione o a seguito
di infortuni significativi o quando i
risultati della sorveglianza sanitaria ne
evidenzino la necessità. Alla luce di tali
indicazioni secondo l'Inail si può
ragionevolmente ritenere corretta una nuova
valutazione trascorsi due/tre anni
dall'ultima effettuata.
Sanzioni pesanti, fino
all'arresto.
Il regime sanzionatorio è sufficientemente
punitivo: non effettuare la valutazione dei
rischi, oppure adottare il documento sulla
valutazione dei rischi senza gli elementi
essenziali (tra cui quello sullo stress)
comporta a carico del datore di lavoro
l'applicazione della sanzione dell'arresto
da 6 mesi a 1 anno e 6 mesi. A ciò si
aggiunge che la redazione del documento di
valutazione non rispondente alle
prescrizioni di legge è punita con
un'ammenda da 3 mila a 9 mila euro.
Ancora,
la mancata custodia del documento di
valutazione presso l'unità produttiva a cui
si riferisce è punita (stavolta la pena è
anche a carico del dirigente) con la
sanzione amministrativa pecuniaria da 2,5
mila a 10 mila euro. Infine, si ricorda che
l'inadempimento della valutazione dei
rischi, con relativa produzione del
documento finale, a prescindere dalla
dimensione aziendale, preclude all'impresa
la possibilità di instaurare taluni
contratti di lavoro. Per esempio, alle
imprese che non abbiano effettuato la
valutazione dei rischi è vietato stipulare
il contratto di somministrazione di lavoro.
Parimenti è stato per il contratto di lavoro
intermittente (continua ...) (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2011). |
ENTI LOCALI - VARI:
Le parole online costano meno.
Sfruttare le piattaforme web per telefonare
e risparmiare. Grazie a Google, Messagenet e Skype chiamare
via internet è sempre più economico.
Risparmiare sulle telefonate grazie a
internet. Oltre al programma di telefonia
Voip per eccellenza, Skype, che si può
scaricare gratuitamente e utilizzare su pc,
cellulari, iPhone, smartphone e palmari, è
oggi possibile spendere meno anche
collegandosi con l'iPhone via iTunes.
Senza
dimenticare i nuovi servizi offerti da
Google e Messagenet. Le telefonate online
infatti mostrano una marcia in più rispetto
agli operatori tradizionali non solo per i
costi al minuto delle chiamate, decisamente
inferiori, ma anche per la mancanza di un
oneroso costo fisso: il canone.
Google lancia il Voip in
Italia e sfida Skype.
L'ultima novità in fatto di telefonia su
internet riguarda l'azienda del motore di
ricerca più utilizzato che offre ora la
possibilità di effettuare telefonate Voip
verso i contatti della propria casella Gmail,
tramite l'opzione «chiama telefono». In
realtà il servizio esiste già da tempo negli
Usa, ma in Italia è sbarcato solo da poco,
in versione limitata e permette di chiamare
gratis altri utenti Google oppure, a tariffe
molto economiche (circa la metà del prezzo
applicato da un normale operatore di rete
fissa), qualsiasi numero di telefono, senza
scatto alla risposta.
A differenza di Skype
che, sia per le chiamate verso i fissi che
verso i cellulari, addebita un costo
aggiuntivo di 4,5 centesimi di euro e in cui
le chiamate vengono arrotondate al minuto
successivo. Per quanto riguarda il dettaglio
delle tariffe, la piattaforma di Microsoft
gode di un leggero vantaggio rispetto alla
nuova nata di Google sulle chiamate verso i
fissi in Italia.
Il prezzo (al minuto) per
una chiamata, è, infatti, di circa 2,4
centesimi, mentre quello di Skype è di 2,2
centesimi. Situazione ribaltata, invece, per
quanto riguarda le chiamate verso i
cellulari italiani. Con l'azienda che ha
inventato il Voip, il prezzo medio (al
minuto) per una chiamata verso i dispositivi
mobili, si aggira attorno ai 28,8 centesimi
di euro; attraverso Google, invece, fare una
telefonata a un cellulare Vodafone, Wind e
Tim costa mediamente 13,2 centesimi al
minuto (verso il gestore 3 hanno invece un
costo di 16,8 centesimi). Per usufruire del
servizio è, infine, necessario munirsi di
una ricarica del credito telefonico prima di
effettuare le chiamate. L'importo delle
ricariche può variare dai 12, ai 30 fino ai
60 euro.
Il nuovo servizio appena lanciato
in Italia è ancora in fase di
ottimizzazione. Per ora, infatti, è
possibile telefonare solo attraverso un
computer. Negli Usa invece Google offre la
possibilità di chiamare anche attraverso un
cellulare, collegato al web, con un proprio
numero di telefono. Servizi che presto
dovrebbero arrivare anche da noi. Skype
d'altro canto può contare su un grande
numero di utenti (700 milioni nel mondo). È
stata inoltre appena acquisita da Microsoft,
che promette di potenziare il servizio Voip
inserendolo in prodotti come tivù, console
da gioco, cellulari e così via.
Messagenet taglia le
tariffe.
Novità in vista anche dall'operatore
italiano, utilizzato da circa 390 mila
utenti, che permette di disporre di un
numero di telefono gratuito con cui si
possono effettuare chiamate via computer o
cellulare. La compagnia ha anche
recentemente annunciato di aver tagliato il
prezzo delle telefonate verso i cellulari
italiani a 11,88 centesimi di euro al
minuto.
Le telefonate tra utenti Messagenet
sono inoltre gratuite. Le tariffe non hanno
scatto alla risposta, sono senza
arrotondamenti al minuto superiore e
calcolate al secondo di conversazione. La
tariffa verso i numeri fissi italiani è di
2,4 centesimi al minuto, di 1,92 centesimi
verso numeri fissi in Europa e di 1,56
centesimi verso Cina e Usa.
Telefonare via internet con
l'iPhone.
Un'ulteriore new entry nella già ricca
collana di applicazioni sviluppate per l'iPhone
è il servizio Time to Call che porta la
firma di Vonage, uno dei principali
operatori americani di telefonia Voip, e
permette di fare telefonate utilizzando la
Rete con il dispositivo Apple.
Il servizio permette agli utenti di
effettuare chiamate verso più di 190 paesi
nel mondo in modalità pay per call,
risparmiando, per una comunicazione
inferiore ai 15 minuti, fino al 90% rispetto
alle tariffe previste dalle principali
compagnie di telefonia mobile.
L'applicazione, scaricabile gratuitamente
direttamente da iTunes, promette dunque
sensibili risparmi per le chiamate
internazionali verso fissi e cellulari. Time
to Call, che nei prossimi mesi verrà
rilasciata anche nella versione per
terminali Android, ha la peculiarità di non
richiedere alcuna sottoscrizione di
abbonamenti e di non vincolare in nessun
modo l'utente al provider.
Per usufruire del
servizio, dopo aver scaricato
l'applicazione, basta selezionare il paese
che si vuole chiamare, cliccare su acquista
e inserire i dati del proprio account.
Quindi si può effettuare la chiamata,
partendo dalla propria rubrica o digitando
direttamente il numero sul terminale. Il
costo viene addebitato automaticamente sul
conto iTunes senza la necessità di
acquistare crediti o abbonamenti o inserire
i dati della propria carta di credito.
Per
quanto riguarda le tariffe applicate, una
chiamata di 15 minuti verso 100 diverse
nazioni può costare tra 0,99 e 1,99 dollari
(tra 0,79 e 1,59 euro) mentre per telefonare
verso altri 90 paesi a tariffe flat servono
al massimo 9,99 dollari (7 euro). Le
chiamate verso numeri fissi e telefoni
cellulari hanno lo stesso costo.
In occasione del lancio, per un periodo di
tempo limitato, chi scarica l'applicazione
può effettuare una chiamata internazionale
gratis, fino a un massimo di 15 minuti,
verso uno dei 100 paesi elencati sul sito
della compagnia (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2011). |
CONDOMINIO:
Il condominio ha nuove regole.
Dall'uso delle parti comuni ai giardini
privati, si cambia. Una guida per conoscere
limiti e opportunità della vita
condominiale, alla luce degli ultimi
interventi.
Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da
una serie di interventi giurisprudenziali in
materia di parti comuni. Proviamo a vedere
quali sono le principali problematiche sul
tema e come vengono risolte.
Cambiare la destinazione d'uso delle parti
comuni.
Tra le ultime novità in materia di
condominio quella relativa alla possibilità
di trasformare le parti comuni all'interno
di un edificio.
Come, ad esempio, destinare una parte del
giardino condominiale in un parco giochi per
bambini o in un parcheggio. Oppure
trasformare l'ex portineria in un asilo
nido, in una lavanderia o in un deposito per
biciclette. Per poter procedere, però, in
questi casi occorre tener conto di limiti e
regole ben precisi. Infatti, le decisioni
dell'assemblea devono rispettare il decoro
architettonico, il regolamento condominiale
e il diritto di tutti i proprietari a non
essere danneggiati nella possibilità di
utilizzare gli spazi comuni.
La sentenza
12.07.2011 n. 15319 della Cassazione si occupa proprio di uno di questi
casi e stabilisce che è legittima la
trasformazione di una parte del giardino
condominiale in parcheggio purché decisa
dall'assemblea con una delibera adottata a
maggioranza. In generale, quindi, le
delibere sulla destinazione d'uso delle
parti comuni se intendono apportare una
miglioria nel loro utilizzo, possono essere
prese dalla maggioranza semplice, cioè degli
intervenuti all'assemblea che devono
rappresentare almeno 500 millesimi di
proprietà.
Ad alcune condizioni, però. La
prima che non si alteri il decoro
dell'edificio. In secondo luogo, non va
impedito l'uso della parte comune anche a un
solo condomino. Infine, la modifica non deve
essere esplicitamente vietata dal
regolamento condominiale dotato di natura
contrattuale.
Sulle parti comuni il
plafond è limitato.
Un altro aspetto importante è quello messo
in luce dall'Agenzia delle entrate,
direzione Veneto, nel corso del convegno
Anaci svoltosi a Padova il 04.07.2011,
secondo cui se un condomino possiede più
immobili all'interno dello stesso stabile,
il limite massimo di spesa di 48 mila euro
per gli interventi sulle parti comuni non va
moltiplicato per il numero degli
appartamenti. L'amministrazione finanziaria
ha anche ribadito che l'importo massimo
della spesa detraibile non va riferito solo
all'abitazione, ma anche alle sue pertinenze
unitariamente considerate.
Si tratta però di
un principio che causa una disparità di
trattamento tra la ristrutturazione delle
pertinenze di abitazioni e gli interventi
sulle parti comuni condominiali, considerati
come un'agevolazione indipendente dai lavori
di rinnovo della casa. In questo caso vi è
un autonomo limite di spesa di 48 mila euro
e questo beneficio fiscale si aggiunge a
quello spettante per il singolo
appartamento. Nel convegno è stata
confermata questa impostazione.
In una fase
successiva, però, i funzionari dell'Agenzia
hanno sostenuto che, prendendo ad esempio un
unico proprietario di un palazzo di quattro
appartamenti, quest'ultimo può detrarre 48
mila euro per ogni appartamento accatastato
più 48 mila euro per la manutenzione
ordinaria delle parti comuni.
Una risposta
che contrasta con la posizione ufficiale
dell'Agenzia espressa nella risoluzione 25.01.2008, n. 19/E, secondo cui per i
lavori sulle parti comuni dell'edificio è
possibile usufruire di un tetto massimo di
spesa di 48 mila euro, su cui calcolare la
detrazione del 36%, per ogni singola
abitazione.
Rumore nel condominio, non
esiste un criterio predeterminato.
Un'altra principale fonte di discussione tra
i condomini è rappresentata dai rumori
prodotti dai vicini o dai loro animali o da
impianti comuni. In questi casi, però, gli
elementi relativi alle immissioni acustiche
devono essere valutati in modo oggettivo e
caso per caso. Infatti, anche se un
condomino è particolarmente sensibile ai
rumori, non può per questo automaticamente
pretendere che nel proprio palazzo regni un
silenzio assoluto.
Analogo discorso se,
lavorando di notte e dormendo di giorno,
viene disturbato dai rumori causati dalle
faccende domestiche. I riferimenti in questo
caso sono l'articolo 844 del Codice civile
(Immissioni intollerabili) e gli eventuali
regolamenti contrattuali. Infatti è compito
di chi lamenta la violazione di queste norme
provare la scorrettezza della condotta
altrui. Recentemente la Cassazione, con la
sentenza 11.02.2011 n. 3440, ha
specificato infatti che il limite di
tollerabilità non è assoluto, ma dipende
dalla situazione ambientale e dalle
caratteristiche della zona.
Di conseguenza
tale limite è più basso nelle zone dove sono
presenti degli insediamenti abitativi, ma è
anche vero che la normale tollerabilità non
può essere intesa come assenza assoluta di
rumore. Quindi il fatto che un rumore venga
percepito non significa anche che sia
intollerabile.
Gatti liberi di girare,
anche nel condominio.
Un'altra notizia recente in materia viene
dal tribunale di Milano dove il giudice
civile ha riconosciuto ai gatti senza
padrone la possibilità di aggirarsi e
nutrirsi nelle aree urbane, anche
all'interno dei palazzi di proprietà. Un
diritto stabilito dalla legge 281 del 1991,
mai applicata prima. L'episodio che ha
condotto alla storica sentenza riguarda una
coppia di inquilini della periferia milanese
che ha denunciato una vicina chiedendo
esplicitamente la rimozione dal palazzo
delle ciotole con cui abitualmente nutriva i
gatti, l'allontanamento dei felini
dall'abitazione e un risarcimento per danni
morali a tutti i condomini.
Il giudice però ha deciso di legittimare
l'esistenza di colonie feline, in base alla
convinzione che i gatti sono animali
socializzanti e che non possono essere
definiti randagi, come invece accade per i
cani. Un precedente importante, quindi, per
tutti coloro che pensavano di essere
legittimati a cacciare questi animali da
condomini e giardini (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2011). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Dal 13 agosto il Sistri non esiste più. Ecco
cosa succede adesso. Le conseguenze della cancellazione.
Dal 13.08.2011 il Sistri non esiste più.
Né come sistema obbligatorio né come sistema
facoltativo.
Ad eliminarlo è stato
l'articolo 6, comma 2, del decreto legge 13.08.2011 n. 138 recante «ulteriori
disposizioni urgenti per la stabilizzazione
finanziaria e per lo sviluppo», il
provvedimento anticrisi che ha disposto la
secca abrogazione delle principali norme
sulle quali poggiava l'esordiente sistema di
tracciamento telematico dei rifiuti.
Le conseguenze sul sistema.
Dunque, dal prossimo settembre 2011, data a
partire dalla quale avrebbe dovuto divenire
operativo il Sistri, niente obblighi di
comunicazione telematica alla Pubblica
amministrazione dei rifiuti gestiti (tramite
i noti «dispositivi usb» interfacciati a
internet tramite pc), niente tracciamento
satellitare dei mezzi di trasporto dei
rifiuti (attraverso le famose «black box»),
nessun monitoraggio di ingressi e uscite
degli stessi dalle discariche.
Le imprese continueranno a soddisfare gli
obblighi di tracciamento dei rifiuti gestiti
tramite gli ordinari strumenti cartacei,
ossia registri di carico e scarico e
formulari di trasporto. Lo Stato dovrà però
rimborsare agli operatori i «contributi
Sistri» versati a titolo di copertura delle
spese (in alcuni casi costituiti da ben due
annualità), nonché gli oneri economici
sopportati per l'installazione obbligatoria
delle black box sui mezzi di trasporto dei
rifiuti, ma in cambio vedrà restituirsi
migliaia di chiavette usb consegnate a
titolo di comodato d'uso (non gratuito) ed
altrettante scatole nere, unitamente alle
telecamere di sorveglianze dei depositi di
rifiuti installate dal personale Sistri.
I cittadini più critici, unendosi al grido
d'allarme lanciato dal ministro
dell'Ambiente contestualmente
all'eliminazione del Sistri, potranno
parlare di regalo all'ecomafia.
Le norme abrogate.
Tecnicamente il dl 138/2011 (pubblicato
sulla G.U. del 13/08/2011, n. 188 e in vigore
dallo stesso giorno) ha operato la
cancellazione del Sistri attraverso
l'abrogazione delle norme chiave recate in
materia dal dlgs 152/2006 (cd. «Codice
ambientale») e dal collegato dlgs 205/2010
(il decreto di recepimento delle ultime
norme Ue sui rifiuti) nonché tramite
l'ablazione totale dall'Ordinamento
giuridico nazionale dei decreti ministeriali
che avrebbero permesso il funzionamento
operativo del sistema (impedendone così,
oltre all'avvio cogente, anche quello
volontario, basato sull'iniziativa di
ipotetiche virtuose imprese che avrebbero
magari abbracciato in via facoltativa il
sistema).
In particolare, l'art. 6, comma 2,
del dl «anticrisi» ha abrogato con effetti a
partire dal 13/08/2011: il comma 2, lettera
a), dell'articolo 188-bis del dlgs 152/2006
(che recepiva nel Codice ambientale
l'istituzione del Sistri); l'articolo
188-ter del dlgs 152/2006 (che individuava i
soggetti obbligati ad aderire al sistema);
l'articolo 260-bis del dlgs 152/2006
(recante le sanzioni per l'inosservanza
delle regole Sistri); il dm Ambiente
17/12/2009 (primo provvedimento
regolamentare del Sistri); il dm Ambiente
18/2/2011 n. 52 (cd. «Testo unico Sistri»).
L'articolo 6 del dl 138/2011 ricuce infine
la ferita dell'intervento effettuato
ricordando (nel suo comma 3) che «resta
ferma l'applicabilità delle altre norme in
materia di gestione dei rifiuti» e che i
relativi adempimenti «possono essere
effettuati» (leggasi: «Devono»
essendo sparite ipotesi alternative) nel
rispetto degli obblighi relativi alla tenuta
dei registri di carico e scarico nonché del
formulario di identificazione del trasporto
dei beni a fine vita (articolo ItaliaOggi Sette del 29.08.2011
- tratto da www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
VARI:
Multa a perdere.
Nulla se la notifica non è effettiva.
Cassazione: accolto ricorso in caso di
cambio indirizzo.
Nulla la notifica della multa effettuata
presso l'indirizzo dell'automobilista,
indicato nel Pra (Pubblico registro
automobilistico), se il trasgressore si è
trasferito in una nuova abitazione.
Lo ha
sancito la Corte di Cassazione che, con la
sentenza 02.09.2011 n. 18049,
ha accolto il ricorso di un'automobilista
che si era vista notificare sette verbali
nel vecchio indirizzo, ancora indicato nella
carta di circolazione.
Il caso a Napoli. Una signora aveva ricevuto
una serie di cartelle esattoriali per
violazioni del codice della strada. In
particolare sette di queste erano state
notificate presso un indirizzo che risultava
al Pra e sulla carta di circolazione: il
portiere le aveva trattenute. Contro questi
atti la donna ha presentato ricorso al
Tribunale del capoluogo campano.
I giudici
di merito hanno respinto l'opposizione
perché, hanno motivato, «la legge ammette la
notifica all'indirizzo ufficiale risultante
al Pra, sicché l'articolo 201 del codice
della strada non fa che operare una finzione
giuridica diretta a rendere valida una
notifica avvenuta nel luogo risultante dai
registri del Pra anche se il destinatario
risulta sloggiato».
Contro questa decisione la donna ha
presentato ricorso alla Suprema corte. Con
il primo motivo di gravame ha lamentato una
falsa applicazione dell'articolo 201 del
codice della strada che, secondo la difesa,
non legittima una notifica virtuale ma
reale.
I giudici hanno accolto questa tesi
precisando in sentenza che «la disposizione
contenuta nel terzo comma dell'art. 201 del
Codice della Strada –a norma del quale
«comunque, le notificazioni si intendono
validamente eseguite quando siano fatte alla
residenza, domicilio o sede del soggetto,
risultante dalla carta di circolazione»–
non è innovativa rispetto alla disposizione
dell'art. 141 dell'abrogato codice della
strada, dovendosi anch'essa interpretare nel
senso che la validità della notificazione
non è fondata sul semplice tentativo della
stessa presso uno dei luoghi risultanti dai
documenti ivi menzionati, bensì sul
necessario espletamento delle formalità
previste per l'ipotesi d'irreperibilità del
destinatario, sia per quanto riguarda la
notificazione ordinaria, sia per quella
postale».
Da ciò deriva, ha aggiunto il
Collegio di legittimità, che nell'ipotesi di
trasferimento del trasgressore «in un luogo
non annotato sulla carta di circolazione, la
notificazione (sia ordinaria che postale),
per essere valida, richiede necessariamente
l'espletamento delle formalità previste
dall'art. 140 cod. proc. civ. per il caso
d'irreperibilità del destinatario».
In poche parole non è sufficiente lasciare
il verbale al portiere ma vanno espletate
tutte le formalità previste dal codice
civile fra cui in ultima analisi
l'affissione del verbale nella casa
comunale. La Suprema corte ha deciso la
causa nel merito e, non essendo sufficienti
altri accertamenti di fatto, ha annullato la
notifica
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2011). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Geometri, niente cemento armato.
La Cassazione conferma l'orientamento.
Il geometra non ha diritto al compenso per
la progettazione di opere in cemento armato.
Infatti nella sua competenza professionale
rientrano solo le costruzioni che non
richiedono particolari operazioni di
calcolo.
Lo ha ribadito la Corte di
Cassazione che, con la
sentenza
02.09.2011 n. 18038, ha confermato la decisione
presa dalla Corte d'appello di Trieste che
aveva escluso il compenso chiesto da un
geometra a un'azienda per la costruzione di
un centro commerciale (in cemento armato) e
per l'attività di coordinamento di un pool.
L'impresa aveva corrisposto al
professionista solo una parte della
parcella, quella relativa alla direzione dei
lavori. Per questo lui l'aveva citata in
giudizio. Ma i giudici di Trieste avevano
respinto parte delle istanze presentate dal
geometra. Dunque il ricorso in Cassazione,
quello principale presentato dalla cliente e
nel quale si contesta la misura del compenso
liquidato dai giudici. E quello incidentale
presentato dal geometra che insiste sul
diritto al compenso per tutte le attività di
progettazione.
La seconda sezione civile del
Palazzaccio li ha respinti entrambi. In
particolare, confermando la decisione di
merito, il Collegio di legittimità ha
ricordato che «l'art. 16 rd 11.02.1929
n. 274 ammette la competenza dei geometri
per quanto riguarda le costruzioni in
cemento armato solo relativamente a opere
con destinazione agricola, che non
richiedano particolari operazioni di calcolo
e che per la loro destinazione non
comportino pericolo per l'incolumità delle
persone, mentre per le costruzioni civili
che adottino strutture in cemento armato,
sia pure modeste, ogni competenza è
riservata, ai sensi dell'art. 1 rd
16.11.1939 n. 2229, agli ingegneri e
architetti iscritti nell'albo; con le
ulteriori precisazioni che tale disciplina
professionale non è stata modificata dalla
legge 05.11.1971 n. 1086 e 02.02.1974 n. 64,
la quale, sia pure senza un esplicito
richiamo delle normative si limita a
recepire la previgente ripartizione di
competenze e che a rendere legittimo in tale
ambito un progetto redatto da un geometra
non rileva che esso sia controfirmato o
visitato da un ingegnere ovvero che un
ingegnere esegua i calcoli del cemento
armato e diriga le relative opere, perché è
il professionista competente che deve essere
altresì titolare della progettazione e
assumere le conseguenti responsabilità»
(articolo ItaliaOggi del 03.09.2011). |
APPALTI: Il
potere riconoscibile alle p.a. di
sospendere, revocare e/o annullare le
procedure di gara, soprattutto se ancora
nella fase endoprocedimentale
dell’aggiudicazione provvisoria, è sempre
esercitabile.
Infatti, nei contratti d'appalto
l'Amministrazione aggiudicatrice non è
obbligata a stipulare il contratto con
l'impresa aggiudicataria ed essa ben può
rimuovere gli effetti dell'atto di
aggiudicazione provvisoria e finanche di
quello di aggiudicazione definitiva, purché
la conseguente azione amministrativa sia
condotta coi necessari crismi della
legittimità. Inoltre, l'aggiudicazione
provvisoria, anche se individua un
potenziale aggiudicatario definitivo della
gara, è un atto ancora ad effetti instabili,
del tutto interinali, e determina solo la
nascita di una mera aspettativa, con la
conseguenza che è sempre possibile per
l’Amministrazione procedere in autotutela.
In sostanza, è riconosciuto che
l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto
pubblico, essendo atto endoprocedimentale,
determina nell'impresa che l'ha ottenuta,
soltanto una mera aspettativa di fatto alla
conclusione del procedimento e non già una
posizione giuridica qualificata che,
viceversa, può solo derivare
dall'aggiudicazione definitiva; pertanto,
non può ritenersi preclusa alla stazione
appaltante la possibilità di procedere alla
sua revoca o annullamento allorché la gara
stessa non risponda più alle esigenze
dell'Ente e sussista un interesse pubblico,
concreto ed attuale, all'eliminazione degli
atti divenuti inopportuni, idoneo a
giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse dell'aggiudicatario provvisorio
nei confronti dell'Amministrazione; tale
potere, già previsto dalla disciplina di
contabilità generale dello Stato che
consente il diniego di approvazione per
motivi di interesse pubblico (art. 113 R.D.
23.05.1924 n. 827), trova il proprio
fondamento nel principio generale
dell'autotutela della Pubblica
amministrazione, che rappresenta una delle
manifestazioni tipiche del potere
amministrativo, direttamente connesso ai
criteri costituzionali di imparzialità e
buon andamento della funzione pubblica.
-------------
L’aggiudicazione provvisoria può ben può
essere posta nel nulla purché la relativa
decisione sia motivata in misura idonea alla
fattispecie.
In sostanza, se l'aggiudicazione provvisoria
della gara d'appalto è inidonea a generare
nella ditta provvisoriamente vincitrice una
posizione consolidata, sull'Amministrazione
che intende esercitare il potere di
autotutela incombe comunque un onere di
motivazione, sia pure fortemente attenuato,
circa le ragioni di interesse pubblico che
l’hanno determinata, essendo sufficiente che
sia reso palese almeno il ragionamento
seguito per giungere alla determinazione
negativa attraverso l'indicazione degli
elementi concreti ed obiettivi in base ai
quali essa ritiene di non procedere più
all'aggiudicazione definitiva.
Il Collegio ricorda che il potere
riconoscibile alle p.a. di sospendere,
revocare e/o annullare le procedure di gara,
soprattutto se ancora nella fase
endoprocedimentale dell’aggiudicazione
provvisoria, è sempre esercitabile.
Infatti, nei contratti d'appalto
l'Amministrazione aggiudicatrice non è
obbligata a stipulare il contratto con
l'impresa aggiudicataria ed essa ben può
rimuovere gli effetti dell'atto di
aggiudicazione provvisoria e finanche di
quello di aggiudicazione definitiva, purché
la conseguente azione amministrativa sia
condotta coi necessari crismi della
legittimità (TAR Sicilia, Ct, Sez. I,
25.02.2011, n. 463). Inoltre,
l'aggiudicazione provvisoria, anche se
individua un potenziale aggiudicatario
definitivo della gara, è un atto ancora ad
effetti instabili, del tutto interinali, e
determina solo la nascita di una mera
aspettativa, con la conseguenza che è sempre
possibile per l’Amministrazione procedere in
autotutela (TAR Calabria, Cz, Sez. I,
16.09.2010, n. 2561; TAR Veneto, Sez. I,
14.09.2010, n. 4745).
In sostanza, è riconosciuto che
l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto
pubblico, essendo atto endoprocedimentale,
determina nell'impresa che l'ha ottenuta,
soltanto una mera aspettativa di fatto alla
conclusione del procedimento e non già una
posizione giuridica qualificata che,
viceversa, può solo derivare
dall'aggiudicazione definitiva; pertanto,
non può ritenersi preclusa alla stazione
appaltante la possibilità di procedere alla
sua revoca o annullamento allorché la gara
stessa non risponda più alle esigenze
dell'Ente e sussista un interesse pubblico,
concreto ed attuale, all'eliminazione degli
atti divenuti inopportuni, idoneo a
giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse dell'aggiudicatario provvisorio
nei confronti dell'Amministrazione; tale
potere, già previsto dalla disciplina di
contabilità generale dello Stato che
consente il diniego di approvazione per
motivi di interesse pubblico (art. 113 R.D.
23.05.1924 n. 827), trova il proprio
fondamento nel principio generale
dell'autotutela della Pubblica
amministrazione, che rappresenta una delle
manifestazioni tipiche del potere
amministrativo, direttamente connesso ai
criteri costituzionali di imparzialità e
buon andamento della funzione pubblica (TAR
Campania, Na, Sez. VIII, 03.05.2010, n.
2263).
---------------
Ebbene, se è
vero, come riportato in precedenza, che è
sempre consentito alla stazione appaltante
procedere in autotutela durante la fase
dell’aggiudicazione provvisoria -così che
non è configurabile una posizione
consolidata di ogni concorrente (che si
ritiene potenzialmente aggiudicatario in
luogo di quello provvisorio) al fine di
pretendere la conclusione del procedimento
secondo i suoi canoni di (corretta)
aggiudicazione– è comunque principio
giurisprudenziale consolidato quello secondo
il quale l’aggiudicazione provvisoria può
ben può essere posta nel nulla purché la
relativa decisione sia motivata in misura
idonea alla fattispecie (TAR Lazio, Sez. II,
30.04.2010, n. 8975).
In sostanza, se l'aggiudicazione provvisoria
della gara d'appalto è inidonea a generare
nella ditta provvisoriamente vincitrice una
posizione consolidata, sull'Amministrazione
che intende esercitare il potere di
autotutela incombe comunque un onere di
motivazione, sia pure fortemente attenuato,
circa le ragioni di interesse pubblico che
l’hanno determinata, essendo sufficiente che
sia reso palese almeno il ragionamento
seguito per giungere alla determinazione
negativa attraverso l'indicazione degli
elementi concreti ed obiettivi in base ai
quali essa ritiene di non procedere più
all'aggiudicazione definitiva (TAR
Lombardia, Bs, Sez. II, 16.02.2011, n. 302,
Cons. Stato, Sez. V, 29.12.2009 n. 8966 e
Sez. IV, 31.05.2007 n. 2838; TAR Lazio, Sez.
II-ter, 09.11.2009 n. 10991).
Nel caso di specie, il Collegio rileva che,
pur concordando sul principio di ordine
generale che consente alla stazione
appaltante di poter dare luogo,
nell’applicare la potestà di revocare
l’aggiudicazione provvisoria, ad un
provvedimento motivato in forma attenuata,
si riscontra una carenza assoluta di
motivazione da parte della Soprintendenza,
che non ha chiarito in alcun modo, né almeno
accennato, quali siano le condizioni
dell’invito di gara che esigevano una
migliore precisazione e per quale ragione
solo alla data del 21.09.2010, dopo l’invio
alla ricorrente della richiesta
documentazione integrativa da parte
dell’Amministrazione al fine di procedere
all’aggiudicazione definitiva, sia emersa
questa esigenza in relazione a motivi di
interesse pubblico attuale e concreto.
Sotto tale profilo, quindi, appare fondato,
in maniera assorbente rispetto al terzo
motivo (per tuziorismo comunque da
dichiarare infondato in quanto, come
ricordato, l'aggiudicazione provvisoria
della gara d'appalto ha natura di atto
endoprocedimentale, inserendosi nell'ambito
della procedura di scelta del contraente
come momento necessario ma non decisivo,
atteso che la definitiva individuazione del
concorrente cui affidare l'appalto risulta
cristallizzata soltanto con l'aggiudicazione
definitiva e vantando in tal caso
l'aggiudicatario provvisorio solo
un'aspettativa alla conclusione del
procedimento, per cui non occorre la
comunicazione di avvio del procedimento di
annullamento d'ufficio (Cons. Stato, Sez. V,
08.03.2011, n. 1446; TAR Campania, Na, Sez.
I, 02.11.2010, n. 22122), quanto lamentato
dalla ricorrente con i primi due motivi di
ricorso in ordine alla carenza di
motivazione della determinazione impugnata
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 01.09.2011 n. 1372 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: E'
legittimo il giudizio positivo (nel caso di
specie di compatibilità ambientale di
un'opera pubblica), derivante da una
conferenza di servizi, condizionato
all'ottemperanza di molteplici prescrizioni
e condizioni, in quanto una valutazione
condizionata costituisce un giudizio allo
stato degli atti integrato dall'indicazione
preventiva degli elementi capaci di superare
le ragioni del possibile dissenso, in
ossequio al principio di economicità
dell'azione amministrativa e di
collaborazione tra i soggetti del
procedimento.
In ordine al valore delle prescrizioni
derivanti da conferenza di servizi, il
Collegio concorda con la giurisprudenza che
ha evidenziato come sia legittimo il
giudizio positivo (nel caso di specie di
compatibilità ambientale di un'opera
pubblica), derivante da una conferenza di
servizi, condizionato all'ottemperanza di
molteplici prescrizioni e condizioni, in
quanto una valutazione condizionata
costituisce un giudizio allo stato degli
atti integrato dall'indicazione preventiva
degli elementi capaci di superare le ragioni
del possibile dissenso, in ossequio al
principio di economicità dell'azione
amministrativa e di collaborazione tra i
soggetti del procedimento (TAR Em-Rom, Bo,
Sez. I, 30.11.2009, n. 2527; sulla
legittimità delle prescrizioni integrative:
Tar Campania, Sa, Sez. I, 19.12.2006, n.
2234; TAR Lazio, Sez. I, 31.05.2004, n. 5118
e TAR Molise, 28.08.2003, n. 659)
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 01.09.2011 n. 1367 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L’atto
di approvazione del PGT acquista efficacia
solo dopo che è intervenuta la pubblicazione
sul BURL
dell’avviso dell’intervenuta approvazione,
sicché la procedura di approvazione del PGT
stesso
trova compimento (solo) al momento in cui
tale pubblicazione avviene, tanto è vero che
la norma si premura di specificare
espressamente che “nel periodo
intercorrente tra l'adozione e la
pubblicazione dell'avviso di approvazione
degli atti di PGT si applicano le misure di
salvaguardia”.
Tale prescrizione induce a ritenere che
l’espressione “Gli atti di PGT acquistano
efficacia” abbia effetto sostanziale e
non meramente processuale (come
individuazione del giorno da cui decorrono i
termini di impugnazione.
Se così è, occorre pervenire alla
conclusione che la procedura di approvazione
del PGT di ... non si era ancora
conclusa, sicché legittimamente il nuovo
Consiglio ha ritenuto di ripronunciarsi al
riguardo senza necessità di far luogo alla
procedura di variante che presuppone
l’avvenuto perfezionamento del piano
antecedente, in quanto solo in tal caso
sarebbe corretta la prospettazione di parte
ricorrente.
Invero, occorre rilevare che sul tema la
Sezione si era già espressa -con riguardo
alla disciplina dettata dalla L. n. 1150 del
1942- già con la sentenza 02.10.1991 n. 662,
con la quale era stato affermato che la
delibera di adozione del piano regolatore
generale o di una sua variante può essere
revocata dal Comune fin quando il
procedimento non si sia concluso con
l'approvazione regionale (in detta sentenza
è stato posto in luce che la revoca “costituisce
espressione dello jus poenitendi, che è
riconosciuto all’Ente pubblico,
indipendentemente da un’espressa previsione
legislativa al riguardo, perché si tratta
della manifestazione dello stesso potere già
esercitato nell’emanazione dell’atto da
revocare”, soggiungendosi che “il
potere di ritiro si fonda proprio sulla
necessità che l’amministrazione
(discrezionale) attiva sia costantemente
rispondente all’interesse pubblico e possa,
in qualsiasi momento, adeguarsi al mutare di
questo” e precisandosi che il limite al
potere di revoca da parte
dell’Amministrazione comunale deve essere
individuato –in relazione alla natura di
atto complesso proprio della procedura di
formazione del PRG- nel momento
dell’avvenuta approvazione regionale dello
strumento urbanistico).
Più recentemente, la Sezione -con le
sentenze 24.03.2006 n. 348 e 27.11.2006 n.
1525– ha preso in esame la più specifica
questione riguardante la possibilità, per
un’amministrazione comunale neo-eletta, di
revocare la deliberazione di approvazione
definitiva del nuovo strumento urbanistico
adottata dall’amministrazione uscente,
risolvendola in senso positivo. In dette
pronunce è stato posto in luce che una volta
eliminato con la revoca l’ultimo atto
dell’iter procedimentale appena concluso
(l’approvazione) si riporta la procedura
allo stadio immediatamente antecedente
l’approvazione definitiva.
Il Collegio ritiene che tale indirizzo
interpretativo debba trovare conferma anche
in relazione alla nuova disciplina regionale
dettata con la L.R. n. 12 del 2005, con la
quale la Lombardia si è data una nuova
disciplina urbanistica -basata sui principi
ispiratori (cfr. art. 1, 2 c.) di
sussidiarietà, adeguatezza,
differenziazione, sostenibilità,
partecipazione, collaborazione ed efficienza– la quale all’art. 2, c. 1, precisa che “il
governo del territorio si attua mediante una
pluralità di piani, fra loro coordinati e
differenziati, i quali, nel loro insieme,
costituiscono la pianificazione del
territorio stesso”.
In particolare, l’art. 13 della L.R. n.
12/2005 prevede che gli atti costituenti il
PGT siano adottati ed approvati dal
consiglio comunale, sicché è stata
concentrata nell’amministrazione comunale
tutta la procedura di approvazione del PGT
eliminando del tutto l’intervento regionale
e limitando a marginali profili la
partecipazione provinciale.
Ai fini della soluzione della questione
all’esame, risultano decisive le
disposizioni contenute nei commi 9/12
dell’art. 13 cit., che è utile riportare
integralmente:
<<9. La deliberazione del consiglio
comunale di controdeduzione alle
osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali o regionali di cui
ai commi precedenti non è soggetta a nuova
pubblicazione.
10. Gli atti di PGT, definitivamente
approvati, sono depositati presso la
segreteria comunale ed inviati per
conoscenza alla provincia ed alla Giunta
regionale.
11. Gli atti di PGT acquistano efficacia con
la pubblicazione dell'avviso della loro
approvazione definitiva sul Bollettino
Ufficiale della Regione, da effettuarsi a
cura del comune. Ai fini della realizzazione
del SIT di cui all'articolo 3, la
pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della
Regione è subordinata all'invio alla Regione
ed alla provincia degli atti del PGT in
forma digitale (49).
Nel periodo intercorrente tra l'adozione e
la pubblicazione dell'avviso di approvazione
degli atti di PGT si applicano le misure di
salvaguardia in relazione a interventi,
oggetto di domanda di permesso di costruire,
ovvero di denuncia di inizio attività, che
risultino in contrasto con le previsioni
degli atti medesimi.>>.
Dalla lettura coordinata delle suddette
disposizioni, emerge che l’atto di
approvazione acquista efficacia solo dopo
che è intervenuta la pubblicazione sul BURL
dell’avviso dell’intervenuta approvazione,
sicché la procedura di approvazione del PGT
trova compimento (solo) al momento in cui
tale pubblicazione avviene, tanto è vero che
la norma si premura di specificare
espressamente che “nel periodo
intercorrente tra l'adozione e la
pubblicazione dell'avviso di approvazione
degli atti di PGT si applicano le misure di
salvaguardia”.
Tale prescrizione induce a ritenere che
l’espressione “Gli atti di PGT acquistano
efficacia” abbia effetto sostanziale e
non meramente processuale (come
individuazione del giorno da cui decorrono i
termini di impugnazione.
Se così è, occorre pervenire alla
conclusione che la procedura di approvazione
del PGT di Valbrembo non si era ancora
conclusa, sicché legittimamente il nuovo
Consiglio ha ritenuto di ripronunciarsi al
riguardo senza necessità di far luogo alla
procedura di variante che presuppone
l’avvenuto perfezionamento del piano
antecedente, in quanto solo in tal caso
sarebbe corretta la prospettazione di parte
ricorrente
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 30.08.2011 n. 1278 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte effettuate in sede di strumento
urbanistico costituiscono espressione di
ampi poteri discrezionali che, come tali,
sono insindacabili se non per errori di
fatto, irrazionalità, abnormità o altri
profili di eccesso di potere e che, in
ragione di tale discrezionalità,
l'Amministrazione non è tenuta a fornire
apposita motivazione delle scelte operate se
non richiamando le ragioni di carattere
generale che giustificano l'impostazione
dello strumento urbanistico né una
precedente destinazione di un'area comporta
che siano definitive ed immodificabili le
relative posizioni, spettando per legge alle
autorità urbanistiche il potere di mutare le
relative previsioni.
Le scelte amministrative sottese
all'esercizio del potere di pianificazione,
devono "obbedire solo al superiore criterio
di razionalità nella definizione delle linee
dell'assetto territoriale, nell'interesse
pubblico alla sicurezza delle persone e
dell'ambiente, e non anche ai criteri di
proporzionalità distributiva degli oneri e
dei vincoli, con la conseguenza che in
relazione ad essa non può prospettarsi una
disparità di trattamento".
In via generale, va ricordato che le scelte
effettuate in sede di strumento urbanistico
costituiscono espressione di ampi poteri
discrezionali che, come tali, sono
insindacabili se non per errori di fatto,
irrazionalità, abnormità o altri profili di
eccesso di potere e che, in ragione di tale
discrezionalità, l'Amministrazione non è
tenuta a fornire apposita motivazione delle
scelte operate se non richiamando le ragioni
di carattere generale che giustificano
l'impostazione dello strumento urbanistico
né una precedente destinazione di un'area
comporta che siano definitive ed
immodificabili le relative posizioni,
spettando per legge alle autorità
urbanistiche il potere di mutare le relative
previsioni (cfr. ex multis Cons. St.,
Sez. IV, 24.02.2011 n. 1222).
Quanto all’asserita disparità di trattamento
nella zonizzazione, va richiamato
l'orientamento della giurisprudenza secondo
cui le scelte amministrative sottese
all'esercizio del potere di pianificazione,
devono "obbedire solo al superiore criterio
di razionalità nella definizione delle linee
dell'assetto territoriale, nell'interesse
pubblico alla sicurezza delle persone e
dell'ambiente, e non anche ai criteri di
proporzionalità distributiva degli oneri e
dei vincoli, con la conseguenza che in
relazione ad essa non può prospettarsi una
disparità di trattamento" (cfr. Cons. St.,
Sez. IV, 07.08.2008 n. 3358) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 30.08.2011 n. 1277 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L'art.
9, primo comma, della L. 26.10.1995 n. 447 non può essere riduttivamente
intesa come una mera (e, quindi,
pleonastica) riproduzione, nell'ambito della
normativa di settore in tema di tutela
dall'inquinamento acustico, del generale
potere di ordinanza contingibile ed urgente
tradizionalmente riconosciuto dal nostro
ordinamento giuridico al Sindaco (quale
Ufficiale di Governo) in materia di sanità
ed igiene pubblica, ma che invece la stessa
deve essere logicamente e sistematicamente
interpretata nel particolare significato che
assume all'interno di una normativa dettata
-in attuazione del principio di tutela della
salute dei cittadini previsto dall'art. 32
della Costituzione- allo scopo primario di
realizzare un efficace contrasto al fenomeno
dell'inquinamento acustico, tenendo nel
dovuto conto il fatto che la Legge n.
447/1995 (nell'art. 2, primo comma, lettera
"a") ha ridefinito il concetto di
inquinamento acustico, qualificandolo come
"l'introduzione di rumore nell'ambiente
abitativo o nell'ambiente esterno tale da
provocare fastidio o disturbo al riposo ed
alle attività umane", sancendo espressamente
che esso concreta (in ogni caso) "un
pericolo per la salute umana".
Conseguentemente, l'utilizzo del
particolare potere di ordinanza contingibile
ed urgente delineato dall'art. 9 della Legge
26.10.1995 n. 447 deve ritenersi
("normalmente") consentito allorquando gli
appositi accertamenti tecnici effettuati
dalle competenti Agenzie Regionali di
Protezione Ambientale rivelino la presenza
di un fenomeno di inquinamento acustico,
tenuto conto sia che quest'ultimo -ontologicamente (per esplicita previsione
dell'art. 2 della stessa L. n° 447/1995)-
rappresenta una minaccia per la salute
pubblica, sia che la Legge quadro
sull'inquinamento acustico non configura
alcun potere di intervento amministrativo
"ordinario" che consenta di ottenere il
risultato dell'immediato abbattimento delle
emissioni sonore inquinanti.
In siffatto contesto normativo, l'accertata
presenza di un fenomeno di inquinamento
acustico (pur se non coinvolgente l'intera
collettività) appare sufficiente a
concretare l'eccezionale ed urgente
necessità di intervenire a tutela della
salute pubblica con l'efficace strumento
previsto (soltanto) dall'art. 9 primo comma
della citata Legge n. 447/1995.
La tutela della salute pubblica non
presuppone necessariamente che la situazione
di pericolo involga l'intera collettività
ben potendo richiedersi tutela alla P.A.
anche ove sia in discussione la salute di
una singola famiglia (o anche di una sola
persona).
Non può essere certamente reputato
ordinario strumento di intervento (sul piano
amministrativo) la facoltà riconosciuta dal
Codice Civile al privato interessato di
adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per
far cessare le immissioni dannose che
eccedano la normale tollerabilità.
---------------
La stessa ratio della disciplina sulla
partecipazione al procedimento (anche quello
di irrigazione delle sanzioni amministrative
di cui alla l. n. 689/1981), non esclude
affatto che l'avvio del procedimento possa
essere preceduto o supportato da controlli,
accertamenti, ispezioni svolti senza la
partecipazione del diretto interessato, che
sarà edotto di queste attività con una
successiva comunicazione e sarà, pertanto,
messo nella condizione di intervenire nella
procedura e di verificare e, se del caso,
contestare la veridicità o esattezza degli
accertamenti compiuti e la stessa idoneità
degli strumenti tecnici utilizzati.
---------------
Il rumore ambientale è costituito da tutte
le sorgenti di rumore esistenti in un dato
luogo e durante un determinato tempo. Il
rumore ambientale è costituito dall’insieme
del rumore residuo, per tale intendendosi il
rumore rilevato quando si esclude la
specifica sorgente disturbante, e da quello
che prodotto dalla specifica sorgente
disturbante.
A tal riguardo occorre precisare che il
valore limite differenziale è quel valore
dato dalla differenza tra il livello
equivalente di rumore ambientale e il rumore
residuo. Tenendo presente la definizione di
rumore residuo che è il rumore che residua
una volta eliminata la sorgente disturbante
il valore differenziale esprime lo specifico
grado di inquinamento acustico della
specifica fonte disturbante.
In altre parole il valore differenziale
esprime il contributo che una specifica
fonte dà al livello di inquinamento
generale.
In Lombardia, la L.R. 10.08.2001 n. 13 -Norme
in materia di inquinamento acustico-
all’art. 15 (Controlli e poteri sostitutivi)
prevede che “Le attività di vigilanza e
controllo in materia di inquinamento
acustico sono svolte dai comuni e dalle
province nell'ambito delle competenze
individuate dalla legislazione statale e
regionale vigente, avvalendosi del supporto
dell'Agenzia regionale per la protezione
dell'ambiente ai sensi della legge regionale
14.08.1999, n. 16 (Istituzione
dell'Agenzia regionale per la protezione
dell'ambiente - ARPA).” (c. 1).
Il c. 2 del cit. art. 15 specifica che: “Per
le attività di vigilanza e controllo di cui
al comma 1, il comune o la provincia
effettuano precise e dettagliate richieste
all'ARPA privilegiando le segnalazioni, gli
esposti, le lamentele presentate dai
cittadini residenti in ambienti abitativi o
esterni prossimi alla sorgente di
inquinamento acustico per la quale sono
effettuati i controlli. Gli oneri per le
attività di vigilanza e controllo effettuate
ai sensi del presente comma sono a carico
dell'ARPA, così come stabilito dall'art. 26,
comma 5, della L.R. n. 16/1999".
Più in generale, l'art. 9, primo comma, della
L. 26.10.1995 n. 447 –legge quadro
sull'inquinamento acustico- dispone:
“Qualora sia richiesto da eccezionali ed
urgenti necessità di tutela della salute
pubblica o dell'ambiente il sindaco, il
presidente della provincia, il presidente
della giunta regionale, il prefetto, il
Ministro dell'ambiente, secondo quanto
previsto dall'articolo 8 della L. 03.03.1987, n. 59, e il Presidente del Consiglio
dei ministri, nell'ambito delle rispettive
competenze, con provvedimento motivato,
possono ordinare il ricorso temporaneo a
speciali forme di contenimento o di
abbattimento delle emissioni sonore, inclusa
l'inibitoria parziale o totale di
determinate attività. Nel caso di servizi
pubblici essenziali, tale facoltà è
riservata esclusivamente al Presidente del
Consiglio dei ministri”.
Un consistente indirizzo giurisprudenziale
(cfr. TAR Lecce, Sez. I, 11.01.2006, n.
488, TAR Milano, Sez. IV, 27.12.2007 n.
6819, TAR Brescia, Sez. II, 02.11.2009 n.
1814), al quale il Collegio aderisce, ha
evidenziato che:
- la norma non può essere riduttivamente
intesa come una mera (e, quindi,
pleonastica) riproduzione, nell'ambito della
normativa di settore in tema di tutela
dall'inquinamento acustico, del generale
potere di ordinanza contingibile ed urgente
tradizionalmente riconosciuto dal nostro
ordinamento giuridico al Sindaco (quale
Ufficiale di Governo) in materia di sanità
ed igiene pubblica, ma che invece la stessa
deve essere logicamente e sistematicamente
interpretata nel particolare significato che
assume all'interno di una normativa dettata
-in attuazione del principio di tutela della
salute dei cittadini previsto dall'art. 32
della Costituzione- allo scopo primario di
realizzare un efficace contrasto al fenomeno
dell'inquinamento acustico, tenendo nel
dovuto conto il fatto che la Legge n.
447/1995 (nell'art. 2, primo comma, lettera
"a") ha ridefinito il concetto di
inquinamento acustico, qualificandolo come
"l'introduzione di rumore nell'ambiente
abitativo o nell'ambiente esterno tale da
provocare fastidio o disturbo al riposo ed
alle attività umane", sancendo espressamente
che esso concreta (in ogni caso) "un
pericolo per la salute umana";
- conseguentemente, l'utilizzo del
particolare potere di ordinanza contingibile
ed urgente delineato dall'art. 9 della Legge
26.10.1995 n. 447 deve ritenersi
("normalmente") consentito allorquando gli
appositi accertamenti tecnici effettuati
dalle competenti Agenzie Regionali di
Protezione Ambientale rivelino la presenza
di un fenomeno di inquinamento acustico,
tenuto conto sia che quest'ultimo -ontologicamente (per esplicita previsione
dell'art. 2 della stessa L. n° 447/1995)-
rappresenta una minaccia per la salute
pubblica, sia che la Legge quadro
sull'inquinamento acustico non configura
alcun potere di intervento amministrativo
"ordinario" che consenta di ottenere il
risultato dell'immediato abbattimento delle
emissioni sonore inquinanti;
- in siffatto contesto normativo,
l'accertata presenza di un fenomeno di
inquinamento acustico (pur se non
coinvolgente l'intera collettività) appare
sufficiente a concretare l'eccezionale ed
urgente necessità di intervenire a tutela
della salute pubblica con l'efficace
strumento previsto (soltanto) dall'art. 9
primo comma della citata Legge n. 447/1995;
- la tutela della salute pubblica non
presuppone necessariamente che la situazione
di pericolo involga l'intera collettività
ben potendo richiedersi tutela alla P.A.
anche ove sia in discussione la salute di
una singola famiglia (o anche di una sola
persona);
- non può essere certamente reputato
ordinario strumento di intervento (sul piano
amministrativo) la facoltà riconosciuta dal
Codice Civile al privato interessato di
adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per
far cessare le immissioni dannose che
eccedano la normale tollerabilità (cfr.
TAR Lecce, 11.01.2006, n. 488).
Così inquadrata la valenza e latitudine
della disposizione, va respinto il primo
profilo del primo motivo, così come il
secondo motivo, con il quale si sostiene
erroneamente che sarebbero impartite
direttive vincolanti all’imprenditore, dato
che l’ordinanza non fa che imporre il
rispetto di un limite di rumore violato
lasciando al responsabile la concreta
individuazione delle misure da adottarsi.
---------------
Parimenti infondato risulta il secondo
profilo del primo motivo (l’esecuzione del
rilievo fonometrico da parte dell’ARPA in
assenza di contraddittorio), poiché la
tipologia di accertamenti di cui trattasi
presuppone necessariamente il fatto che essi
siano eseguiti almeno una volta senza
preavviso al fine di monitorare le normali
condizioni di funzionamento ed emissione
(che potrebbero essere alterate laddove
l'interessato fosse preventivamente
avvisato) (cfr. TRGA Trento 27.06.2005 n.
174).
Va soggiunto che (cfr. doc. n. 6 sia della
ricorrente sia del Comune) in data
20.03.2099 è stata emessa
dall’Amministrazione comunicazione di avvio
del procedimento amministrativo “per
indagini fonometriche relative al rispetto
dei limiti fissati dalla normativa vigente”
indirizzata alla odierna ricorrente.
Peraltro, la stessa ratio della disciplina
sulla partecipazione al procedimento (anche
quello di irrigazione delle sanzioni
amministrative di cui alla l. n. 689/1981),
non esclude affatto che l'avvio del
procedimento possa essere preceduto o
supportato da controlli, accertamenti,
ispezioni svolti senza la partecipazione del
diretto interessato, che sarà edotto di
queste attività con una successiva
comunicazione e sarà, pertanto, messo nella
condizione di intervenire nella procedura e
di verificare e, se del caso, contestare la
veridicità o esattezza degli accertamenti
compiuti e la stessa idoneità degli
strumenti tecnici utilizzati (cfr. Cons. St.,
Sez. V, 05.03.2003, n. 1224, TAR Puglia,
Bari Sez. I 26.09.2003 n. 3591).
---------------
Il D.P.C.M. 14.11.1997 che reca “valori
limite assoluti di immissione” all’art. 3
stabilisce: “1. I valori limite assoluti di
immissione come definiti all'art. 2, comma
3, lettera a), della legge 26.10.1995,
n. 447, riferiti al rumore immesso
nell'ambiente esterno dall'insieme di tutte
le sorgenti sono quelli indicati nella
tabella C allegata al presente decreto.
2.
Per le infrastrutture stradali, ferroviarie,
marittime, aeroportuali e le altre sorgenti
sonore di cui all'art. 11, comma 1, legge 26.10.1995, n. 447, i limiti di cui alla
tabella C allegata al presente decreto, non
si applicano all'interno delle rispettive
fasce di pertinenza, individuate dai
relativi decreti attuativi. All'esterno di
tali fasce, dette sorgenti concorrono al
raggiungimento dei limiti assoluti di
immissione.
3. All'interno delle fasce di
pertinenza, le singole sorgenti sonore
diverse da quelle indicate al precedente
comma 2, devono rispettare i limiti di cui
alla tabella B allegata al presente decreto.
Le sorgenti sonore diverse da quelle di cui
al precedente comma 2, devono rispettare,
nel loro insieme, i limiti di cui alla
tabella C allegata al presente decreto,
secondo la classificazione che a quella
fascia viene assegnata.”
Il successivo art. 4 -rubricato valori
limite differenziali di immissione-
stabilisce: “1. I valori limite
differenziali di immissione, definiti
all'art. 2, comma 3, lettera b), della legge
26.10.1995, n. 447, sono: 5 dB per il
periodo diurno e 3 dB per il periodo
notturno, all'interno degli ambienti
abitativi. Tali valori non si applicano
nelle aree classificate nella classe VI
della tabella A allegata al presente
decreto.
2. Le disposizioni di cui al comma
precedente non si applicano nei seguenti
casi, in quanto ogni effetto del rumore è da
ritenersi trascurabile: a) se il rumore
misurato a finestre aperte sia inferiore a
50 dB(A) durante il periodo diurno e 40 dB(A)
durante il periodo notturno; b) se il
livello del rumore ambientale misurato a
finestre chiuse sia inferiore a 35 dB(A)
durante il periodo diurno e 25 dB(A) durante
il periodo notturno.
3. Le disposizioni di
cui al presente articolo non si applicano
alla rumorosità prodotta: dalle
infrastrutture stradali, ferroviarie,
aeroportuali e marittime; da attività e
comportamenti non connessi con esigenze
produttive, commerciali e professionali; da
servizi e impianti fissi dell'edificio
adibiti ad uso comune, limitatamente al
disturbo provocato all'interno dello
stesso.”.
Va chiarito che il rumore ambientale è
costituito da tutte le sorgenti di rumore
esistenti in un dato luogo e durante un
determinato tempo. Il rumore ambientale è
costituito dall’insieme del rumore residuo,
per tale intendendosi il rumore rilevato
quando si esclude la specifica sorgente
disturbante, e da quello che prodotto dalla
specifica sorgente disturbante.
A tal riguardo occorre precisare che il
valore limite differenziale è quel valore
dato dalla differenza tra il livello
equivalente di rumore ambientale e il rumore
residuo. Tenendo presente la definizione di
rumore residuo che è il rumore che residua
una volta eliminata la sorgente disturbante
il valore differenziale esprime lo specifico
grado di inquinamento acustico della
specifica fonte disturbante.
In altre parole il valore differenziale
esprime il contributo che una specifica
fonte dà al livello di inquinamento
generale.
I valori limite sono di 5 db per il periodo
diurno e di 3 db per il periodo notturno
(art. 4 D.P.C.M. 14.11.1997).
Tali valori differenziali non si applicano
quando comunque il rumore ambientale è al di
sotto di determinati valori e precisamente
50 db(A) per il periodo diurno e 40 db (A)
per il periodo notturno misurati a finestre
aperte e 35 db(A) per il periodo diurno e 25
db (A) per il periodo notturno misurati a
finestre chiuse.
Si tratta ovviamente di limiti da applicarsi
disgiuntamente nel senso che anche il
superamento di uno solo di essi consente
l’applicazione del valore differenziale. Ciò
è fatto palese dalla circostanza che il
rumore viene definito in tali casi
trascurabile.
Orbene è evidente che, essendo
il rumore sempre lo stesso, per ritenersi
trascurabile non deve superare i parametri
di cui sopra per cui il superamento anche di
uno solo di essi implica l’applicazione dei
valori limite differenziali (cfr. TAR
Liguria, Sez. I, 15.03.2010, n. 1166)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 30.08.2011 n. 1276 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Legittima
risulta l’archiviazione della domanda
edilizia (per la costruzione di 3 edifici
residenziali) non essendo stata corredata
dal progetto relativo agli impianti
elettrici, come richiesto dall’art. 6 della
legge 46/1990.
L’art. 6 della legge n. 46/1990 ritiene
obbligatoria la redazione del progetto ed il
suo deposito contestualmente al progetto
edificatorio; il testo della norma si
riferisce quindi del tutto chiaramente alla
fase istruttoria della licenza edilizia ed
appare evidentemente finalizzato a garantire
un controllo (come peraltro la stessa
concessione) sulla sicurezza “ab origine”
dell’edificio, con particolare riferimento
ad una esigenza di rispetto dei parametri di
legalità che disciplinano le costruzioni
residenziali.
Col primo mezzo il Comune appellante lamenta
in sostanza che il TAR abbia del tutto
trascurato l’art. 6, comma 1, della legge n.
46/1990 affermando quindi illegittimamente
che il progetto “de quo” deve essere
allegato alla domanda successivamente al
rilascio della concessione. Al contrario la
tesi accolta dal TAR è che in base all’art.
4 del D.P.R. 425/1994, la verifica del
progetto degli impianti elettrici si attua
in una fase successiva al rilascio.
La tesi svolta dal primo giudice non può
essere accolta. Essa in effetti accoglie la
tesi della necessità del progetto degli
impianti elettrici solo dopo il rilascio
della concessione edilizia, con ciò facendo
(peraltro immotivatamente) prevalere l’art.
4 D.P.R. 425/1994 rispetto all’art. 6 legge
n. 46/1990.
Ma ciò non può condividersi poiché in realtà
le due norme hanno finalità parzialmente
diverse, si inseriscono in momenti
procedimentali differenti, e pertanto non
possono essere affatto considerate in
contraddizione tra loro.
L’art. 6 della legge n. 46/1990 ritiene
obbligatoria la redazione del progetto ed il
suo deposito contestualmente al progetto
edificatorio; il testo della norma si
riferisce quindi del tutto chiaramente alla
fase istruttoria della licenza edilizia ed
appare evidentemente finalizzato a garantire
un controllo (come peraltro la stessa
concessione) sulla sicurezza “ab origine”
dell’edificio, con particolare riferimento
ad una esigenza di rispetto dei parametri di
legalità che disciplinano le costruzioni
residenziali.
Ciò considerato, l’art. 4 D.P.R. 425/1994 è
invece espressamente riferito alla fase del
rilascio dell’abitabilità (scansione
notoriamente successiva alla realizzazione
dell’edificio) e pur essendo anch’esso
inspirata da evidenti ragioni di
potenziamento della sicurezza, opera
tuttavia nelle fattispecie concrete nei
quali, illegittimamente, la concessione
edilizia sia stata parimenti (ed
illegittimamente) rilasciata in assenza del
progetto inerente l’impianto elettrico,
quindi senza un obbligo della sua
realizzazione, e mira ad impedire di fatto
un uso dell’immobile realizzato, che, in
particolare se residenziale, si
realizzerebbe in forma che indiscutibilmente
pericolosa.
La norma, nell’impedire il rilascio
dell’abitabilità per carenza del progetto in
parola, lungi dal permettere all’istante di
ottenere una concessione edilizia
residenziale in deroga all’art. 6 della
legge n. 46/1990, tende all’opposto a
sollecitare la c.d. “messa a norma”
dell’edificio realizzato senza l’impianto e
concorre insieme all’altra all’opportuno
obiettivo ordinamentale di realizzare un
sviluppo dell’attività edilizia secondo
canoni di sicurezza.
Legittima risulta pertanto l’archiviazione
della domanda edilizia (e ciò del tutto
indipendentemente dalla portata dell’art. 7
del regolamento comunale), non essendo stata
corredata dal progetto relativo agli
impianti elettrici, come richiesto dall’art.
6 della legge suddetta e dal Comune
appellante; tali adempimenti, infine, sono
quindi ben lungi dal costituire un effetto
dilatorio dei tempi di evasione della
domanda concessoria, ravvisabile solo ove le
richieste amministrative risultino
extra-legem o ripetitive o comunque
costituiscano un inutile aggravio del
procedimento amministrativo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.08.2011 n. 4835 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: E'
illegittimo il diniego della richiesta
avanzata da un consigliere comunale di
minoranza circa il rilascio del documento
“prot. 7262 del 09.08.2010 Corte dei Conti:
Trasmissione relazione questionario bilancio
di previsione 2010” e cioè di un
questionario compilato dall’organo di
revisione ed inviato alla Corte dei Conti ai
sensi dell’art. 1, commi 166 e 167, della
legge n. 266/2005, con la funzione di
delineare la situazione
economico-finanziaria dell’Ente.
L’appellante riprende il tema centrale
dell’accessibilità della
relazione-questionario del revisore dei
conti da parte del Consigliere comunale.
La logica ispiratrice della pronuncia del
primo Giudice è al riguardo quanto mai
lineare: il revisore è un organo comunale;
l’atto in discorso è riconducibile al
medesimo nella sua specifica qualità; lo
stesso atto è fonte di informazioni utili
per la richiedente.
Per ragioni di semplicità espositiva
conviene riportare qui di seguito i passaggi
argomentativi su cui la sentenza in epigrafe
si fonda:
“…la più recente e consolidata
giurisprudenza ha chiarito che i consiglieri
comunali godono di un non condizionato
diritto di accesso a tutti gli atti che
possano essere d'utilità all'espletamento
del loro mandato; ciò al fine di permettere
di valutare -con piena cognizione- la
correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'Amministrazione, nonché per esprimere
un voto consapevole sulle questioni di
competenza del Consiglio e per promuovere,
anche nell'ambito del Consiglio stesso, le
iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale.
Il diritto di accesso loro riconosciuto ha
infatti una ratio diversa da quella che
contraddistingue il diritto di accesso ai
documenti amministrativi riconosciuto alla
generalità dei cittadini (ex articolo 10 del
d.lgs. 18.08.2000, n. 267) ovvero a chiunque
sia portatore di un "interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge
07.08.1990, n. 241): è strettamente
funzionale all'esercizio del mandato, alla
verifica e al controllo del comportamento
degli organi istituzionali decisionali
dell'ente locale ai fini della tutela degli
interessi pubblici ed è peculiare
espressione del principio democratico
dell'autonomia locale e della rappresentanza
esponenziale della collettività (cfr. da
ultimo C.d.S., Sez. V, 17.09.2010, n. 6963;
in termini C.d.S., Sez. I, 26.05.2010, n.
1858; Sez. V, 22.02.2007, n. 929 e
02.09.2005, n. 4471).
Si ritiene inoltre che non sia soggetto ad
alcun onere motivazionale giacché
diversamente opinando sarebbe introdotto una
sorta di controllo dell'ente, attraverso i
propri uffici, sull'esercizio del mandato
del consigliere comunale; che il termine
"utili", contenuto nell' articolo 43 del
d.lgs. 18.08.2000, n. 267 garantisca
l'estensione di tale diritto di accesso a
qualsiasi atto ravvisato utile per
l'esercizio del mandato (cfr. C.d.S. n.
6963/2010 cit.) senza che alcuna limitazione
possa derivare dall’eventuale natura
riservata delle informazioni richieste
essendo il consigliere vincolato al segreto
d'ufficio (C.d.S., sez. V, 04.05.2004, n.
2716 e da ultimo Tar Trentino Alto Adige,
Trento, Sez. I, 07.05.2009, n. 143); che,
infine, gli unici limiti all'esercizio del
diritto di accesso dei consiglieri comunali
si rinvengano, per un verso, nel fatto che
esso debba avvenire in modo da comportare il
minor aggravio possibile per gli uffici
comunali e, per altro verso, che non debba
sostanziarsi in richieste assolutamente
generiche ovvero meramente emulative, fermo
restando che la sussistenza di tali
caratteri debba essere attentamente e
approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente
inammissibili limitazione al diritto stesso.
Sulla scorta del delineato indirizzo
giurisprudenziale, dal quale il Collegio non
ritiene di discostarsi, discende che nella
specie sussistono i presupposti per
l’accesso richiesto dalla ricorrente e
rifiutato dall’Ente resistente.
La ricorrente stessa ha specificamente
indicato l’atto di cui intende acquisire
copia; è atto proveniente da un organo
dell’Ente, qual è espressamente qualificato
il Collegio dei revisori dall’art. 234 del
d.lgs. n. 267/2000; e, quand’anche
dall’invio diretto del documento stesso alla
Corte dei conti se ne voglia far discendere
la riservatezza, ciò non rappresenterebbe
comunque un ostacolo all’ostensione, secondo
gli enunciati principi.
Il Sindaco nella nota gravata allude invero
all’indisponibilità materiale del documento
in questione; e la difesa
dell’amministrazione rimarca la circostanza
ponendo l’accento sull’invio diretto alla
Corte dei Conti da parte dei revisori e
sulla responsabilità altrettanto diretta
degli stessi in caso di ritardo, con
l’ulteriore precisazione che, in ogni caso,
il questionario in parola non sarebbe parte
integrante del bilancio.
Entrambi gli addotti profili non sono
tuttavia dirimenti. Sotto il primo profilo
deve rimarcarsi: a) che la trasmissione
diretta non esclude che si tratti di un atto
formato da un “organo comunale”
espressamente previsto –si ribadisce-
dall’art. 234 del d.lgs. n. 267/2000; b) che
l’atto stesso, in uscita, abbia acquisito un
numero di protocollo, per ciò stesso andando
a confluire nell’archivio dell’ente.
Sotto il secondo profilo deve invece
ribadirsi che l’art. 43 del T.U. enti locali
riconosce il diritto di accesso a qualsiasi
“informazione” utile e non può certo
dubitarsi che, trattandosi di un documento
esplicativo di un atto complesso, questo sia
in grado di fornire un’utile chiave di
lettura del bilancio di previsione (come
noto sottoposto all’approvazione del
Consiglio comunale), restando irrilevante
stabilire se ne costituisca o meno parte
integrante.
La visione di tale atto non può pertanto
essere impedita al consigliere
nell’esercizio del suo mandato.”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.08.2011 n. 4829 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Al
fine di fronteggiare l’inquinamento
acustico, il sindaco è titolare:
a) di un potere generale di ordinanza da
esercitare, quale ufficiale del governo,
qualora sorga la necessità di provvedimenti
contingibili e urgenti, anche, tra l’altro,
in materia di «sanità ed igiene», «al fine
di prevenire ed eliminare gravi pericoli che
minacciano l’incolumità dei cittadini»;
b) di poteri di ordinanza con contenuti e
finalità specifiche. Si tratta del potere,
attribuito dal comma 3, dell'art.
54 dlgs 267/2000, di modificare gli orari degli
esercizi commerciali, dei pubblici esercizi
e dei servizi pubblici, nonché, d’intesa con
i responsabili territorialmente competenti
delle amministrazioni interessate, gli orari
di apertura al pubblico degli uffici
pubblici localizzati nel territorio «in casi
di emergenza, connessi con il traffico e/o
con l’inquinamento atmosferico o acustico,
ovvero quando a causa di circostanze
straordinarie si verifichino particolari
necessità dell’utenza».
E soprattutto di quello previsto
dall’articolo 9 della legge quadro
sull’inquinamento acustico 447/1999, secondo
il quale il sindaco, qualora sia richiesto da
<<eccezionali ed urgenti necessità di tutela
della salute pubblica o dell’ambiente>>,
può, con provvedimento motivato, «ordinare
il ricorso temporaneo a speciali forme di
contenimento o di abbattimento delle
emissioni sonore, inclusa l’inibitoria
parziale o totale di determinate attività».
L’articolo 9 della legge 447/1995 non deve
essere interpretato in senso restrittivo
(meramente letterale). Infatti: da un lato,
la legge quadro ha ridefinito (articolo 2,
comma 1, lettera a) il concetto di
inquinamento acustico, qualificandolo come <l’introduzione
di rumore nell’ambiente abitativo o
nell’ambiente esterno tale da provocare
fastidio o disturbo al riposo ed alle
attività umane>, sancendo espressamente che
esso concreta (in ogni caso) <un pericolo
per la salute umana>,
cosicché deve ritenersi che un fenomeno di
inquinamento acustico rappresenti
ontologicamente una minaccia per la salute
pubblica; dall’altro, la legge stessa non
configura alcun potere di intervento
amministrativo “ordinario” che consenta di
ottenere il risultato dell’immediato
abbattimento delle emissioni sonore
inquinanti, e pertanto l’utilizzo del
particolare potere di ordinanza contingibile
ed urgente delineato dall’articolo 9 deve
ritenersi “normalmente” consentito
allorquando gli appositi accertamenti
tecnici effettuati dalle competenti Agenzie
Regionali di Protezione Ambientale rivelino
la presenza di un fenomeno di inquinamento
acustico, anche se non coinvolge
direttamente la salute dell’intera
collettività bensì di un numero limitato di
cittadini (e, al limite, di una sola
persona). Altrimenti, la fattispecie
dell’articolo 9 costituirebbe una
pleonastica riproduzione, nell’ambito della
normativa di settore, del generale potere di
ordinanza contingibile ed urgente
riconosciuto al sindaco quale ufficiale di
governo.
Occorre precisare, riguardo alla natura del
potere esercitato ed alla sussistenza dei
relativi presupposti (peraltro, ribadendo
quanto recentemente affermato da questo
Tribunale con la sentenza 22.10.2010,
n. 492), che, al fine di fronteggiare
l’inquinamento acustico, il sindaco è
titolare:
a) di un potere generale di ordinanza da
esercitare, quale ufficiale del governo,
qualora sorga la necessità di provvedimenti
contingibili e urgenti, anche, tra l’altro,
in materia di «sanità ed igiene», «al fine
di prevenire ed eliminare gravi pericoli che
minacciano l’incolumità dei cittadini»
(articolo 54, comma 2, d.lgs. 267/2000; in precedenza, articolo 38, comma 2,
della legge 142/1990);
b) di poteri di ordinanza con contenuti e
finalità specifiche. Si tratta del potere,
attribuito dal comma 3, del citato articolo
54 (in precedenza, comma 2-bis, del citato
articolo 38), di modificare gli orari degli
esercizi commerciali, dei pubblici esercizi
e dei servizi pubblici, nonché, d’intesa con
i responsabili territorialmente competenti
delle amministrazioni interessate, gli orari
di apertura al pubblico degli uffici
pubblici localizzati nel territorio «in casi
di emergenza, connessi con il traffico e/o
con l’inquinamento atmosferico o acustico,
ovvero quando a causa di circostanze
straordinarie si verifichino particolari
necessità dell’utenza».
E soprattutto, per
quanto qui interessa, di quello previsto
dall’articolo 9 della legge quadro
sull’inquinamento acustico 447/1999, secondo
il quale il sindaco (così come il presidente
della provincia, il presidente della giunta
regionale, il prefetto, il ministro
dell’ambiente e il presidente del consiglio
dei ministri, nell’ambito delle rispettive
competenze), qualora sia richiesto da
<<eccezionali ed urgenti necessità di tutela
della salute pubblica o dell’ambiente>>,
può, con provvedimento motivato, «ordinare
il ricorso temporaneo a speciali forme di
contenimento o di abbattimento delle
emissioni sonore, inclusa l’inibitoria
parziale o totale di determinate attività».
Per le caratteristiche dei presupposti di
fatto e delle misure imposte, il
provvedimento impugnato sembra riconducibile
alla fattispecie dell’articolo 9 della legge
447/1995 (la legge quadro, del resto, viene
indicata anche nella proposta di
provvedimento formulata dall’Ufficio Servizi
Operativi e Ambiente in data 11.10.2010, cui espressamente aderisce il
provvedimento impugnato).
Ciò, in quanto (cfr. sent. cit.), l’articolo
9 della legge 447/1995 non deve essere
interpretato in senso restrittivo (meramente
letterale). Infatti (come rilevato da TAR
Puglia, Lecce, I, 24.01.2006, n. 488):
da un lato, la legge quadro ha ridefinito
(articolo 2, comma 1, lettera a) il concetto
di inquinamento acustico, qualificandolo
come <<l’introduzione di rumore
nell’ambiente abitativo o nell’ambiente
esterno tale da provocare fastidio o
disturbo al riposo ed alle attività umane>>,
sancendo espressamente che esso concreta (in
ogni caso) <<un pericolo per la salute
umana>>, cosicché deve ritenersi che un
fenomeno di inquinamento acustico
rappresenti ontologicamente una minaccia per
la salute pubblica; dall’altro, la legge
stessa non configura alcun potere di
intervento amministrativo “ordinario” che
consenta di ottenere il risultato
dell’immediato abbattimento delle emissioni
sonore inquinanti, e pertanto l’utilizzo del
particolare potere di ordinanza contingibile
ed urgente delineato dall’articolo 9 deve
ritenersi “normalmente” consentito
allorquando gli appositi accertamenti
tecnici effettuati dalle competenti Agenzie
Regionali di Protezione Ambientale rivelino
la presenza di un fenomeno di inquinamento
acustico, anche se non coinvolge
direttamente la salute dell’intera
collettività bensì di un numero limitato di
cittadini (e, al limite, di una sola
persona).
Altrimenti, la fattispecie
dell’articolo 9 costituirebbe una
pleonastica riproduzione, nell’ambito della
normativa di settore, del generale potere di
ordinanza contingibile ed urgente
riconosciuto al sindaco quale ufficiale di
governo (nello stesso senso, vedi anche TAR
Toscana, II, 16.06.2010, n. 1930; TAR
Lombardia, Brescia, 02.11.2009, n.
1814; Milano, IV, 02.04.2008, n. 715; TAR
Piemonte, I, 02.03.2009, n. 199; TAR
Lazio, II, 26.06.2002, n. 5904).
Il riferimento all’articolo 50 del d.lgs.
267/2000 (il cui comma 5, prevede il potere
del sindaco di adottare ordinanze contingibili ed urgenti <<in caso di
emergenze sanitarie o di igiene pubblica a
carattere esclusivamente locale>>) appare
dunque improprio, ma non vizia il
provvedimento.
Passando ad esaminare l’applicabilità
dei valori limite differenziali, va
ricordato che:
- secondo l’articolo 6, comma 2, del
d.P.C.M. 01.03.1991 (il comma 1 prevede,
nelle more della suddivisione del territorio
comunale prevista dalla legge, i limiti di
accettabilità c.d. assoluti, distinguendo
tra limite diurno e limite notturno, e tra
<<Zona A>> e <<Zona B>> di cui al d.m.
1444/1968, <<Zona esclusivamente
industriale>> e, residualmente, <<Tutto il
territorio nazionale>>), <<Per le zone non
esclusivamente industriali indicate in
precedenza, oltre ai limiti massimi in
assoluto per il rumore, sono stabilite anche
le seguenti differenze da non superare tra
il livello equivalente del rumore ambientale
e quello del rumore residuo (criterio
differenziale): 5 dB (A) per il Leq (A)
durante il periodo diurno: 3 DB (A) per il
Leq (A) durante il periodo notturno. La
misura deve essere effettuata nel tempo di
osservazione del fenomeno acustico negli
ambienti abitativi>>;
- secondo l’articolo 15, comma 1, della
legge 447/1995, <<Nelle materie oggetto dei
provvedimenti di competenza statale e dei
regolamenti di esecuzione previsti dalla
presente legge, fino all'adozione dei
provvedimenti e dei regolamenti medesimi si
applicano, per quanto non in contrasto con
la presente legge, le disposizioni contenute
nel decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri 01.03.1991, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 57 dell'08.03.1991,
fatta eccezione per le infrastrutture dei
trasporti, limitatamente al disposto di cui
agli articoli 2, comma 2, e 6, comma 2 >>;
- secondo l’articolo 4, comma 1, del
d.P.C.M. 14.11.1997 <<I valori limite
differenziali di immissione, definiti
all'art. 2, comma 3, lettera b), della legge
26.10.1995, n. 447 (10), sono: 5 dB per
il periodo diurno e 3 dB per il periodo
notturno, all'interno degli ambienti
abitativi. Tali valori non si applicano
nelle aree classificate nella classe VI
della tabella A allegata al presente
decreto>> (sono le <<aree esclusivamente
industriali: rientrano in questa classe le
aree esclusivamente interessate da attività
industriali e prive di insediamenti
abitativi>>).
- infine, secondo l’articolo 8, comma 1, del
medesimo d.P.C.M. 14.11.1997, <<in
attesa che i comuni provvedano agli
adempimenti previsti dall’art. 6, comma 1,
lettera a) della legge 26.10.1995 n.
447, si applicano i limiti di cui all’art.
6, comma 1, del decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri 01.03.1991>>;
Sebbene la giurisprudenza prevalente,
sulla base dell’applicazione del canone
interpretativo dell’“ubi lex voluit, dixit
…” (in quanto, cioè, il più recente
regolamento richiama l’articolo 6, comma 1,
e non anche il comma 2, del precedente),
conforti la prospettazione della ricorrente
in ordine alla non applicabilità dei limiti
di rumore differenziali in mancanza di una
zonizzazione acustica comunale (cfr., da
ultimo, TAR Puglia, Bari, I, 14.05.2010,
n. 1896), il Collegio deve rilevare che i
precedenti di questo Tribunale vanno in una
direzione diversa.
Infatti, con la sentenza 23.04.2001, n.
236, è stato affermato che:
- è vero che le norme transitorie contenute
nell’articolo 15 della legge 447/1995 e
nell’articolo 8 del d.P.C.M. 14.11.1997 –così come testualmente formulate–
potrebbero far sorgere dubbi
sull’applicabilità dei “valori limite
differenziali” durante il periodo
(transitorio) di carenza di “zonizzazione”
nel territorio del Comune intimato;
- è pur vero, però, che sia il d.P.C.M. 01.03.1991, sia il d.P.C.M. 14.11.1997
rendono bene chiara l’idea che per le aree
non esclusivamente industriali non è stata
affatto delineata una soluzione di
continuità in ordine al cumulo dei due
criteri di valutazione (“criterio
differenziale” e “criterio assoluto”);
- infatti, a parte la perfetta
corrispondenza letterale delle due norme in
rassegna (comma 2 dell’articolo 6 del
d.P.C.M. 01.03.1991 e comma 1
dell’articolo 4 del d.P.C.M. 14.11.1997) che già chiaramente fa propendere per
la delimitazione del divieto di cumulo dei
due criteri solo per le aree industriali (e,
quindi, non per le altre), vi è da dire che
sotto il profilo logico e teleologico è del
tutto irragionevole pensare che il “criterio
differenziale” già operante in base al
decreto del 1991 possa essere stato
congelato durante il periodo transitorio (di
carenza di zonizzazione), pur in presenza di
una situazione urbanistica e (soprattutto)
di una esigenza di tutela della salute
pubblica, assolutamente identiche durante il
periodo di riferimento (e cioè dal 1991 al
1998).
Il Collegio ritiene detta impostazione più
convincente e quindi meritevole di essere
confermata.
Può aggiungersi che, altrimenti, la
previsione dell’articolo 8 del d.P.C.M. 14.11.1997 contrasterebbe con quanto
disposto dall’articolo 15 della legge
447/1995, che intende assicurare, nelle more
della definizione dei regolamenti e
provvedimenti attuativi previsti dalla legge
quadro, la permanente vigenza (per quanto
non in contrasto con la legge stessa) della
disciplina di tutela stabilita dal d.P.C.M.
01.03.1991.
In conclusione sul punto, la ragione per la
quale il d.P.C.M. del 1997 non richiama il
comma 2 dell’articolo 6, del d.P.C.M. del
1991, è che, mancando ogni modifica riguardo
ai limiti c.d. differenziali, per detta
parte della disciplina non c’era bisogno di
norme transitorie.
Nel senso qui accolto, si esprime anche la
circolare del Ministero dell’ambiente e
della tutela del territorio in data 06.09.2004
(TAR Umbria,
sentenza 26.08.2011 n. 280 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Al
fine di fronteggiare l’inquinamento
acustico, il sindaco è titolare:
a) di un potere generale di ordinanza da
esercitare, quale ufficiale del governo,
qualora sorga la necessità di provvedimenti
contingibili e urgenti, anche, tra l’altro,
in materia di «sanità ed igiene», «al fine
di prevenire ed eliminare gravi pericoli che
minacciano l’incolumità dei cittadini»
(articolo 54, comma, 2, d.lgs. 267/2000 n.
267);
b) di poteri di ordinanza con contenuti e
finalità specifiche. Si tratta del potere,
attribuito dal comma 3, del citato articolo
54, di modificare gli orari degli
esercizi commerciali, dei pubblici esercizi
e dei servizi pubblici, nonché, d’intesa con
i responsabili territorialmente competenti
delle amministrazioni interessate, gli orari
di apertura al pubblico degli uffici
pubblici localizzati nel territorio «in casi
di emergenza, connessi con il traffico e/o
con l’inquinamento atmosferico o acustico,
ovvero quando a causa di circostanze
straordinarie si verifichino particolari
necessità dell’utenza».
E soprattutto di quello previsto
dall’articolo 9 della legge quadro
sull’inquinamento acustico 447/1995, secondo
il quale il sindaco (così come il presidente
della provincia, il presidente della giunta
regionale, il prefetto, il ministro
dell’ambiente e il presidente del consiglio
dei ministri, nell’ambito delle rispettive
competenze), qualora sia richiesto da
<<eccezionali ed urgenti necessità di tutela
della salute pubblica o dell’ambiente>>,
può, con provvedimento motivato, «ordinare
il ricorso temporaneo a speciali forme di
contenimento o di abbattimento delle
emissioni sonore, inclusa l’inibitoria
parziale o totale di determinate attività».
- L’articolo 9 della legge 447/1995 non deve
essere interpretato in senso restrittivo
(meramente letterale). Infatti: da un lato,
la legge quadro ha ridefinito (articolo 2,
comma 1, lettera a) il concetto di
inquinamento acustico, qualificandolo come <l’introduzione
di rumore nell’ambiente abitativo o
nell’ambiente esterno tale da provocare
fastidio o disturbo al riposo ed alle
attività umane>, sancendo espressamente che
esso concreta (in ogni caso) <un pericolo
per la salute umana>,
cosicché deve ritenersi che un fenomeno di
inquinamento acustico rappresenti
ontologicamente una minaccia per la salute
pubblica; dall’altro, la legge stessa non
configura alcun potere di intervento
amministrativo “ordinario” che consenta di
ottenere il risultato dell’immediato
abbattimento delle emissioni sonore
inquinanti, e pertanto l’utilizzo del
particolare potere di ordinanza contingibile
ed urgente delineato dall’articolo 9 deve
ritenersi “normalmente” consentito
allorquando gli appositi accertamenti
tecnici effettuati dalle competenti Agenzie
Regionali di Protezione Ambientale rivelino
la presenza di un fenomeno di inquinamento
acustico, anche se non coinvolge
direttamente la salute dell’intera
collettività bensì di un numero limitato di
cittadini (e, al limite, di una sola
persona). Altrimenti, la fattispecie
dell’articolo 9 costituirebbe una
pleonastica riproduzione, nell’ambito della
normativa di settore, del generale potere di
ordinanza contingibile ed urgente
riconosciuto al sindaco quale ufficiale di
governo.
- Un fenomeno come quello delle
emissioni/immissioni acustiche provenienti
da un’attività produttiva è suscettibile di
essere significativamente influenzato dalle
modalità con cui detta attività si svolge, e
che quindi deve essere riconosciuto
all’organo pubblico incaricato dei controlli
il c.d. diritto alla sorpresa
nell’espletamento delle attività
istituzionali, per evitare che il preavviso
possa mettere il controllato nella
condizione di “non farsi cogliere sul
fatto”. L'esonero dell'Amministrazione
dall'obbligo di dare comunicazione
all'interessato dell'avvio del procedimento
che lo riguarda, è legato non alla astratta
qualificazione del provvedimento che si
intende adottare, ma alla concreta esistenza
di una situazione di comprovata necessità e
di urgenza qualificata, tale cioè da non
consentire la detta comunicazione senza che
ne risulti compromesso il soddisfacimento
dell'interesse pubblico cui il provvedimento
finale è rivolto.
Il Collegio (peraltro, ribadendo quanto
recentemente affermato da questo Tribunale
con la sentenza 22.10.2010, n. 492)
osserva che, al fine di fronteggiare
l’inquinamento acustico, il sindaco è
titolare:
a) di un potere generale di ordinanza da
esercitare, quale ufficiale del governo,
qualora sorga la necessità di provvedimenti
contingibili e urgenti, anche, tra l’altro,
in materia di «sanità ed igiene», «al fine
di prevenire ed eliminare gravi pericoli che
minacciano l’incolumità dei cittadini»
(articolo 54, comma, 2, d.lgs. 267/2000 n.
267; in precedenza, articolo 38, comma 2,
della legge 142/1990);
b) di poteri di ordinanza con contenuti e
finalità specifiche. Si tratta del potere,
attribuito dal comma 3, del citato articolo
54 (in precedenza, comma 2-bis, del citato
articolo 38), di modificare gli orari degli
esercizi commerciali, dei pubblici esercizi
e dei servizi pubblici, nonché, d’intesa con
i responsabili territorialmente competenti
delle amministrazioni interessate, gli orari
di apertura al pubblico degli uffici
pubblici localizzati nel territorio «in casi
di emergenza, connessi con il traffico e/o
con l’inquinamento atmosferico o acustico,
ovvero quando a causa di circostanze
straordinarie si verifichino particolari
necessità dell’utenza».
E soprattutto, per
quanto qui interessa, di quello previsto
dall’articolo 9 della legge quadro
sull’inquinamento acustico 447/1995, secondo
il quale il sindaco (così come il presidente
della provincia, il presidente della giunta
regionale, il prefetto, il ministro
dell’ambiente e il presidente del consiglio
dei ministri, nell’ambito delle rispettive
competenze), qualora sia richiesto da
<<eccezionali ed urgenti necessità di tutela
della salute pubblica o dell’ambiente>>,
può, con provvedimento motivato, «ordinare
il ricorso temporaneo a speciali forme di
contenimento o di abbattimento delle
emissioni sonore, inclusa l’inibitoria
parziale o totale di determinate attività».
Per le caratteristiche dei presupposti di
fatto e delle misure imposte, il
provvedimento impugnato sembra riconducibile
alla fattispecie dell’articolo 9 della legge
447/1995.
Ciò, in quanto (cfr. sent. cit.), l’articolo
9 della legge 447/1995 non deve essere
interpretato in senso restrittivo (meramente
letterale). Infatti (come rilevato da TAR
Puglia, Lecce, I, 24.01.2006, n. 488):
da un lato, la legge quadro ha ridefinito
(articolo 2, comma 1, lettera a) il concetto
di inquinamento acustico, qualificandolo
come <<l’introduzione di rumore
nell’ambiente abitativo o nell’ambiente
esterno tale da provocare fastidio o
disturbo al riposo ed alle attività umane>>,
sancendo espressamente che esso concreta (in
ogni caso) <<un pericolo per la salute
umana>>, cosicché deve ritenersi che un
fenomeno di inquinamento acustico
rappresenti ontologicamente una minaccia per
la salute pubblica; dall’altro, la legge
stessa non configura alcun potere di
intervento amministrativo “ordinario” che
consenta di ottenere il risultato
dell’immediato abbattimento delle emissioni
sonore inquinanti, e pertanto l’utilizzo del
particolare potere di ordinanza contingibile
ed urgente delineato dall’articolo 9 deve
ritenersi “normalmente” consentito
allorquando gli appositi accertamenti
tecnici effettuati dalle competenti Agenzie
Regionali di Protezione Ambientale rivelino
la presenza di un fenomeno di inquinamento
acustico, anche se non coinvolge
direttamente la salute dell’intera
collettività bensì di un numero limitato di
cittadini (e, al limite, di una sola
persona).
Altrimenti, la fattispecie
dell’articolo 9 costituirebbe una
pleonastica riproduzione, nell’ambito della
normativa di settore, del generale potere di
ordinanza contingibile ed urgente
riconosciuto al sindaco quale ufficiale di
governo (nello stesso senso, vedi anche TAR
Toscana, II, 16.06.2010, n. 1930; TAR
Lombardia, Brescia, 02.11.2009, n.
1814; Milano, IV, 02.04.2008, n. 715; TAR
Piemonte, I, 02.03.2009, n. 199; TAR
Lazio, II, 26.06.2002, n. 5904; da
ultimo, TAR Lombardia, Milano, IV, 31.01.2011, n. 288)).
L’altro profilo di censura dedotto con
il ricorso introduttivo, ed approfondito con
i motivi aggiunti, concerne l’applicabilità,
ai sensi di quanto stabilito dall’art. 4,
comma 2, del D.P.C.M. 14.11.1997, del
valore limite differenziale.
Come esposto, detta disposizione prevede che
i valori limite differenziali stabiliti dal
comma 1, non si applichino qualora il rumore
ambientale debba ritenersi <<trascurabile>>,
in quanto non superiore alle soglie da essa
stabilite (50/40 dB(A) a seconda se si
tratti del periodo diurno/notturno, se
misurato a finestre aperte; 35/25 dB(A), se
a finestre chiuse).
Ora, dalla misurazione dell’A.R.P.A.
risultano, nel periodo notturno, valori di
42,6 dB(A) a finestre aperte e di 29,0 dB(A)
a finestre chiuse, rispetto a valori limite
rispettivamente di 40 e 25 dB(A). Quindi,
superiori alla soglia al di sotto della
quale il rumore si intende <<trascurabile>>
e non si applicano i limiti differenziali.
Il livello di rumore differenziale
proveniente dall’attività industriale è poi
risultato essere di 8 dB(A) a finestre
aperte e di 11 dB(A) a finestre chiuse, vale
a dire sensibilmente superiore ai valori
limite (5 dB(A) per il periodo diurno e 3 dB(A)
per il periodo notturno) stabiliti dai
d.P.C.M.
Con riferimento ai risultati di dette
misurazioni, la ricorrente sostiene
anzitutto che avrebbe dovuto farsi
riferimento ai risultati delle misurazioni
effettuate dal CTU nell’ambito del giudizio
civile pendente, in quanto più affidabili e
probanti.
Il Collegio non comprende per quale motivo
un consulenze tecnico debba essere più
affidabile di un organo tecnico della
pubblica amministrazione, come l’A.R.P.A.,
istituzionalmente preposto ai controlli
ambientali, perciò dotato di adeguate
strumentazioni e professionalità, ed
indipendente, vale a dire non legato da
alcun rapporto organico o funzionale con
l’ente locale che gli ha richiesto
l’accertamento.
La ricorrente sostiene anche che,
data la modestia dello scostamento tra la
soglia di rilevanza (<<trascurabilità>>) del
rumore ed i valori accertati, l’accertamento
non avrebbe giustificato l’adozione del
provvedimento impugnato.
Il Collegio osserva che, come
all’amministrazione non spetta il potere di
distinguere, nell’ambito delle immissioni
acustiche che superano i limiti previsti
dalla normativa di riferimento, il grado di
intensità delle immissioni stesse al fine di
provvedere o meno all’adozione delle misure
necessarie al loro abbattimento entro la
soglia di tollerabilità (cfr. TAR Puglia,
Bari, I, 26.09.2003, n. 3591), così
non è consentito di non trarre le doverose
conseguenze dall’accertato superamento di
una soglia (quella individuata dall’articolo
4, comma 2, del d.P.C.M. 14.11.1997)
strumentale alla verifica del rispetto delle
soglie di tollerabilità.
In generale, sembra evidente che un sistema
basato su limiti oggettivi di inquinamento,
non tolleri –a meno che una disposizione
normativa non lo preveda espressamente,
integrando la misurazione del valore limite
con altre valutazioni, o consentendo la
deroga in presenza di altri elementi- una
valutazione di accettabilità/tollerabilità
del superamento di detti limiti.
La ricorrente lamenta poi che, in
violazione del principio generale espresso
dagli articoli 7 ss. della legge 241/1990,
non siano state assicurate nel procedimento
le garanzie procedimentali, a partire dalla
previa comunicazione delle misurazioni
programmate dall’A.R.P.A., onde consentirle
di presentare osservazioni ed effettuare le
opportune verifiche sulle attività di
misurazione.
Il Collegio sottolinea al riguardo che un
fenomeno come quello delle
emissioni/immissioni acustiche provenienti
da un’attività produttiva è suscettibile di
essere significativamente influenzato dalle
modalità con cui detta attività si svolge, e
che quindi deve essere riconosciuto
all’organo pubblico incaricato dei controlli
il c.d. diritto alla sorpresa
nell’espletamento delle attività
istituzionali, per evitare che il preavviso
possa mettere il controllato nella
condizione di “non farsi cogliere sul fatto”
(cfr. Cons. Stato, V, 05.03.2003, n.
1224).
L'esonero dell'Amministrazione dall'obbligo
di dare comunicazione all'interessato
dell'avvio del procedimento che lo riguarda,
è legato non alla astratta qualificazione
del provvedimento che si intende adottare,
ma alla concreta esistenza di una situazione
di comprovata necessità e di urgenza
qualificata, tale cioè da non consentire la
detta comunicazione senza che ne risulti
compromesso il soddisfacimento
dell'interesse pubblico cui il provvedimento
finale è rivolto (TAR Toscana, II, 16.06.2010, n. 1930).
In questa prospettiva, va
sottolineato che le misurazioni contestate
col ricorso in esame non rappresentano un
fatto nuovo nei rapporti tra Comune e
società ricorrente, bensì rappresentano
l’ennesimo episodio di una lunga vicenda –
connotata dall’adozione di reiterati
provvedimenti volti a ricondurre le
immissioni acustiche nei limiti di legge, e
dall’effettuazione di interventi da parte
della ricorrente, in un arco di tempo di
alcuni anni. Al riguardo, è sufficiente
rinviare a quanto precisato al punto 1
(sottolineando, in particolare, l’esito
finale dell’attuazione del piano di
risanamento presentato alla fine del 2007).
La mancanza di una previa comunicazione di
avvio del procedimento, e di un
contraddittorio nel momento
dell’effettuazione delle misurazioni
effettuate dall’A.R.P.A. appare quindi
giustificata.
Deve dunque ritenersi che controlli,
accertamenti, ispezioni possano essere
svolti senza la partecipazione del diretto
interessato, a condizione che costui sia
successivamente in grado di verificare e, se
del caso, contestare la veridicità o
esattezza degli accertamenti compiuti e la
stessa idoneità degli strumenti tecnici
utilizzati (TAR Umbria,
sentenza 26.08.2011 n. 271 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: P.a.,
niente risarcimento se c'è incertezza sulla
gara. Tar Lombardia: l'impresa non risponde
di dichiarazioni mendaci.
Deve essere respinta la
domanda di risarcimento dei danni proposta
da una p.a. nei confronti dell'impresa
aggiudicataria di un appalto pubblico a
seguito dell'annullamento
dell'aggiudicazione stessa per dichiarazioni
mendaci rese, nel caso in cui sussista una
situazione di obiettiva incertezza circa il
contenuto delle dichiarazioni da rendere in
base alla lex specialis della gara.
Questo è quanto hanno precisato i giudici
del TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, con la
sentenza 24.08.2011 n.
1261.
La controversia verte intorno alla domanda
risarcitoria presentata da un comune nei
confronti di una ditta aggiudicataria di un
appalto del servizio di ristorazione e poi
esclusa ai sensi dell'art. 12, comma 1,
lett. b), dlgs 157/1995 dal momento che,
contrariamente a quanto dichiarato dal
procuratore speciale della società, il
Tribunale di Modena aveva emesso, a suo
carico, sentenza irrevocabile di
applicazione della pena per violazioni in
materia fiscale.
Più precisamente l'ente locale aveva
proposto la domanda facendo leva su una
norma del capitolato speciale d'appalto
della gara secondo la quale «in caso di
non veridicità delle dichiarazioni
rilasciate» l'aggiudicazione verrà
annullata «ed il servizio potrà essere
affidato al concorrente che segue in
graduatoria, fatti salvi i diritti del
comune per il risarcimento di tutti i danni
che potranno derivare all'amministrazione
anche in successivo esperimento della gara
o, comunque, per il maggior costo del
servizio rispetto a quello che sarebbe stato
sostenuto senza la decadenza
dell'aggiudicatario».
Il comune aveva commisurato, pertanto, i
danni subiti ai maggiori esborsi sostenuti
per il servizio affidato alla seconda in
graduatoria. La ditta aveva sostenuto,
invece, la mancanza dell'elemento soggettivo
richiesto dall'art. 12 dlgs n. 157/1995,
poiché la sentenza di patteggiamento in cui
era incorso il procuratore speciale era
antecedente alla sua assunzione nella
società e si riferiva a un'attività che non
rilevava e per questo non era tenuto a farne
menzione in sede di gara.
I giudici amministrativi respingono il
ricorso. Hanno osservato, infatti, come sia
la giurisprudenza comunitaria sia quella
interna individuano quale «esimente»
dell'amministrazione, sotto il profilo della
sua responsabilità per l'attività volta, la
sussistenza di una obiettiva situazione di
incertezza circa le corrette determinazioni
da assumere. Secondo il Collegio elementari
ragioni di «parità delle parti»
impongono, pertanto, di riconoscere identica
e speculare «esimente» in capo al
privato, quando sia l'amministrazione ad
agire per pretendere il risarcimento di un
danno, che ritiene provocato dalla condotta
colposa del medesimo soggetto privato.
Facendo applicazione di questo principio a
«parti rovesciate» nei confronti
dell'impresa esclusa, è stato riconosciuto
che, avendo già una precedente sentenza
precisato che la pena patteggiata, la quale
aveva dato luogo all'esclusione, non fosse
da riferire all'impresa aggiudicataria,
quantomeno il beneficio del dubbio andava
accordato in merito alla mendacità della
dichiarazione di non versare nella
condizione di cui all'art. 12, lett. b), dlgs 157/1995: è ravvisabile, nel caso
specifico, una situazione di obiettiva
incertezza circa il contenuto della
dichiarazione da rendere ai sensi del
capitolato speciale d'appalto, tale da
escludere il necessario requisito della
colpa in ordine a quanto, poi,
effettivamente dichiarato
(articolo ItaliaOggi dell'01.09.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La sottoposizione a sequestro giudiziale di
un bene immobile imprime al bene medesimo un
vincolo di indisponibilità che si risolve
nella temporanea sua immodificabilità e o
incommerciabilità.
Ma il conflitto di interessi nascente dalla
contemporanea emanazione di un‘ordinanza che
ingiunge la demolizione di un’opera abusiva
deve essere risolto dalla competente
autorità giudiziaria penale.
Spetta, in definitiva, a quest’ultima
decidere il mantenimento in vita del
sequestro a fini di tutela di esigenze di
carattere penalistico (ad. es. fini
probatori, o di prevenzione penale o,
ancora, di natura conservativa a garanzia
delle obbligazioni civilistiche nascenti da
reato) ovvero il dissequestro del bene
qualora si ritenga di accordare prevalenza
al ripristino dello stato dei luoghi.
La sottoposizione a sequestro giudiziale di
un bene immobile imprime al bene medesimo un
vincolo di indisponibilità che si risolve
nella temporanea sua immodificabilità e o
incommerciabilità.
Ma il conflitto di interessi nascente dalla
contemporanea emanazione di un‘ordinanza che
ingiunge la demolizione di un’opera abusiva
deve essere risolto dalla competente
autorità giudiziaria penale.
Spetta, in definitiva, a quest’ultima
decidere il mantenimento in vita del
sequestro a fini di tutela di esigenze di
carattere penalistico (ad. es. fini
probatori, o di prevenzione penale o,
ancora, di natura conservativa a garanzia
delle obbligazioni civilistiche nascenti da
reato) ovvero il dissequestro del bene
qualora si ritenga di accordare prevalenza
al ripristino dello stato dei luoghi.
Il destinatario del provvedimento deve
senz’altro rendersi parte diligente al fine
di dare corretta esecuzione all’ordine di
demolizione emanato dalla P.a. competente
senza poter addurre a sua esimente la
sussistenza di un provvedimento di sequestro
al quale egli stesso ha dato causa
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 16.08.2011 n. 1530 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare d'appalto aperte agli
esterni. È legittimo in particolari materie
integrare le commissioni con esperti.
Sempre più difficile
gestire gare di appalto per lavori, servizi
e forniture, anche ricorrendo agli
specialisti delle stazioni uniche appaltanti
varate dal Dpcm 30.06.2011. Norme e
giurisprudenza si sovrappongono, come nel
caso dell'individuazione del costo del
personale all'interno del prezzo per
l'esecuzione di un appalto.
L'offerta da preferire in sede di gara, per
l'articolo 4 del decreto legge 70/2011
(legge 106/2011) va determinata al netto
delle spese relative al costo del personale.
Il seggio di gara, tuttavia, spesso non
possiede le competenze per sindacare tale
costo, ad esempio per valutarne l'anomalia
che prelude al lavoro nero o dequalificato.
Il costo del lavoro, infatti, non si
identifica con il minimo salariale (che è
inderogabile), ma è una voce connessa alla
produttività.
Il tema è stato affrontato da una
commissione di gara nominata da un'Azienda
sanitaria locale, che ha dovuto verificare
se in una gara per servizi di vigilanza un
concorrente avesse formulato un'offerta
bassa in modo anomalo violando i limiti
posti dalle tariffe adottate dal Prefetto
per la vigilanza, oppure trascurando le
tabelle ministeriali sul costo del lavoro.
Nel caso specifico, la Commissione
giudicatrice aveva affidato l'accertamento
sull'eventuale anomalo ribasso, a un tecnico
esterno: non era infatti possibile
ipotizzare, all'epoca in cui la Commissione
esaminatrice era stata designata, questa
tipologia di problemi da risolvere (cioè il
rispetto della contrattazione collettiva e
del costo del lavoro delle guardie giurate
da impiegare nella sorveglianza).
L'inserimento di un consulente esterno
nell'attività della commissione di gara è
stato poi oggetto di contestazione, ma il
TAR Puglia-Bari, Sez. I (sentenza
11.08.2011 n. 1209) ha condiviso
il coinvolgimento di un esperto esterno,
anche durante le operazioni di gara.
Osserva infatti il Tar che la stazione
appaltante può legittimamente rivolgersi a
un esperto al fine di valutare l'anomalia
dell'offerta: ben può, quindi, un consulente
del lavoro essere interpellato dalla
Commissione giudicatrice anche nel corso
dell'esame delle offerte, allo stesso modo
in cui è stato ritenuto legittimo
l'interpello di un cuoco durante una gara
per servizi mensa (Cons. Stato, 7265/2010) o
un esperto in materia di retribuzioni del
comparto cooperative sociali (Cons. Stato,
6765/2008) in un appalto di servizi di
trasporto infermi.
A un consulente si può chiedere ausilio non
solo in sede di gara, ma anche in sede di
successiva contestazione in giudizio, com'è
avvenuto a Roma nella gara manutenzione del
verde, quando un tecnico nominato dal
giudice (Cons. Stato, 3807/2011) ha
precisato il regime degli sgravi
contributivi su cui poteva contare un
concorrente, entrando nel merito non solo
dell'offerta di gara, ma anche
dell'organizzazione imprenditoriale e della
produttività della mano d'opera.
Con la Stazione unica appaltante sarà più
agevole avere commissioni qualificate,
evitando non solo il ricorso a consulenti
esterni, ma anche errori più banali quali la
composizione di commissioni giudicatrici in
numero pari (e non dispari).
Si prevedono poi ulteriori difficoltà nella
corretta gestione delle gare, per la
prossima entrata in vigore del Codice
antimafia (approvato definitivamente il
03.08.2011 ed in attesa di pubblicazione in
Gazzetta Ufficiale), mentre già si segnala
la prima applicazione della sanzione per
lite temeraria, con raddoppio del contributo
fiscale a carico del ricorrente che abbia
agito in modo avventato: il TAR Puglia-Bari,
Sez. I (sentenza
30.08.2011 n. 1264) ha condannato
al pagamento di 8.000 euro un imprenditore
che contestava l'esclusione da una gara per
servizio di soccorso stradale: la somma è
andata a beneficio dell'Erario, in quanto né
il Comune né l'aggiudicatario si erano
costituti in giudizio (articolo
Il Sole 24 Ore del 04.09.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Strategie processuali della PA.
Un “segreto” da preservare.
Orientamento confermato:
a fronte di un contenzioso ancora pendente,
è precluso l’accesso rispetto agli atti
defensionali dell’Amministrazione coinvolta
nel giudizio.
E' precluso, trattandosi di atti che
afferiscono all'esercizio del diritto di
difesa in relazione a un contenzioso ancora
pendente, l'accesso alla documentazione
riguardante la decisione
dell'Amministrazione di rinunciare
all'impugnazione della quasi totalità dei
capi di una sentenza sfavorevole, impugnata
solo parzialmente con ricorso in sede di
legittimità.
Così ha concluso, sul solco di un
orientamento consolidato, il Consiglio di
Stato, Sez. IV, con la
sentenza 10.08.2011 n.
4769, sul rilievo che, in tali casi,
nonostante la formazione del giudicato sui
capi della sentenza non impugnati, il
giudizio continua comunque ad essere
pendente, sia pure limitatamente alla parte
della sentenza oggetto di impugnazione.
I fatti di causa.
Un contribuente formulava nei confronti di
un ufficio dell'Agenzia delle Entrate
istanza di accesso, tra l'altro, ai
documenti relativi al provvedimento interno
con il quale l'ufficio stesso si era
determinato a prestare acquiescenza alla
sfavorevole sentenza della Commissione
tributaria regionale, che aveva respinto le
sue pretese nei confronti del contribuente,
e a coltivare il ricorso in Cassazione
avverso tale pronuncia soltanto sul capo
riguardante la spettanza degli interessi.
A fronte del diniego all'accesso opposto
dall'ufficio con formale provvedimento,
l'interessato ricorreva al Tar della
Lombardia, sede di Milano, che respingeva il
gravame.
Il collegio meneghino, per quanto
d'interesse in questa sede, rilevava che la
determinazione dell'Amministrazione di
rinunciare all'impugnazione della quasi
totalità dei capi della sfavorevole sentenza
della Commissione tributaria rientra tra gli
atti afferenti alla "strategia difensiva"
di un contenzioso tributario ancora pendente
e, pertanto, rispetto a essa è precluso il
diritto di accesso.
Avverso tale decisione la parte privata
ricorreva al Consiglio di Stato, eccependo
erroneità della sentenza impugnata che, a
suo dire, non avrebbe tenuto conto del fatto
che il provvedimento interno con cui era
stata decisa la rinuncia a coltivare in
contenzioso gran parte delle pretese
dell'Agenzia, comportando il passaggio in
giudicato della sentenza della Commissione
tributaria regionale, non avrebbe potuto
consentire di parlare di "pendenza" del
procedimento tributario, almeno in relazione
ai punti sui quali si era in tal modo
formato il giudicato.
Quanto all'affermata esigenza di tutela
della "strategia processuale",
l'istante eccepiva che in realtà
quest'ultima era stata già compiutamente
definita dall'ufficio con la proposizione
del ricorso per Cassazione.
L'Agenzia delle Entrate si costituiva in
giudizio, chiedendo il rigetto dell'appello
per infondatezza.
La decisione del Consiglio
di Stato.
Il descritto motivo di ricorso è stato
disatteso dal Consiglio di Stato, che ha
condiviso le conclusioni dei giudici di
primo grado i quali, come detto, avevano
escluso l'accesso alla documentazione
riguardante la rinuncia all'impugnazione
della quasi totalità dei capi della
sfavorevole sentenza della Commissione
tributaria, in quanto rientrante "tra gli
atti afferenti alla strategia difensiva di
un contenzioso tributario ancora pendente".
Al riguardo, i giudici di Palazzo Spada
ricordano che gli atti defensionali sono
atti per i quali la costante giurisprudenza
del Consiglio di Stato, "afferendo gli
stessi all'esercizio del diritto di difesa
dell'amministrazione, nega la sussistenza
del diritto di accesso (Cons. Stato, sez. IV,
13.10.2003 n. 6200; sez. V, 26.09.2000 n.
5105; sez. IV, 08.02.2001 n. 513; sez. V,
15.04.2004 n. 2163)".
Né, precisa ulteriormente la decisione in
commento, può assumere rilievo la
circostanza, dedotta dalla parte privata
appellante, della formazione del giudicato
sui capi della sentenza non impugnati, "posto
che il giudizio è tuttora pendente, sia pure
limitatamente alla parte della sentenza
oggetto di impugnazione, e la decisione di
prestare acquiescenza a parte della
pronuncia ben può essere parte di una più
complessiva strategia processuale".
Osservazioni.
La decisione n. 4769 del 2011 conferma
-richiamandone puntualmente gli estremi in
motivazione- un consolidato orientamento del
supremo collegio di giustizia
amministrativa, da tempo fermo nel ritenere
esclusa la possibilità di riconoscere il
diritto di accesso, di cui alla legge
241/1990, rispetto ad atti connessi
all'esercizio del diritto di difesa della
Pubblica Amministrazione.
Una puntuale ricostruzione della
problematica è rinvenibile nelle decisioni
(entrambe già citate) n. 5105 del 2000 e n.
6200 del 2003, laddove il Consiglio di Stato
ha avuto modo di chiarire che nell'ambito
dei segreti che comportano la sottrazione
all'accesso dei relativi documenti rientrano
gli atti redatti dai legali e dai
professionisti in esecuzione di specifici
rapporti di consulenza con
l'Amministrazione, trattandosi nella specie
di un segreto che gode di una tutela
qualificata, anche a livello penale.
Su un piano più sistematico, le citate
sentenze richiamano quale principio generale
l'articolo 2 del decreto del presidente del
Consiglio dei ministri n. 200 del 1996
(Regolamento recante norme per la disciplina
di categorie di documenti dell'Avvocatura
dello Stato sottratti al diritto di accesso)
che, secondo i giudici amministrativi,
mirando a definire con chiarezza il rapporto
tra accesso e segreto professionale, fissa "una
regola che appare sostanzialmente
ricognitiva dei principi applicabili in
questa materia, anche al di fuori
dell'ambito della difesa erariale".
In particolare, secondo il Consiglio di
Stato, in virtù della richiamata
disposizione, sono sottratti all'accesso gli
scritti defensionali che, dopo l'avvio di un
procedimento contenzioso oppure dopo
l'inizio di tipiche attività precontenziose,
valgono a definire la strategia difensiva
della Pubblica Amministrazione.
Ciò in quanto, in questi casi, il parere del
legale è destinato a fornire all'ente
pubblico tutti gli elementi
tecnico-giuridici utili per tutelare i
propri interessi e, pertanto, risulta
caratterizzato da una nota di riservatezza,
che mira a tutelare non solo l'opera
intellettuale del legale, ma anche la stessa
posizione dell'Amministrazione che,
nell'esercizio del proprio diritto di difesa
"deve poter fruire di una tutela non
inferiore a quella di qualsiasi altro
soggetto dell'ordinamento" (così,
testualmente, sia la sentenza n. 5105/2000
che la n. 6200/2003).
In definitiva, quindi, la sentenza n.
4769/2011 ribadisce una regola
interpretativa che può dirsi consolidata e
che giustifica, a fronte di un contenzioso
ancora pendente, la preclusione all'accesso
rispetto agli atti defensionali
dell'Amministrazione coinvolta nel giudizio
(commento tratto da www.nuovofiscooggi.it -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La declaratoria di illegittimità
del provvedimento impugnato non costituisce
condizione di ammissibilità della domanda
risarcitoria.
Ai sensi dell’art. 2947, c. 1, c.c.: “Il
diritto al risarcimento del danno derivante
da fatto illecito si prescrive in cinque
anni dal giorno in cui il fatto si è
verificato”.
La previa declaratoria dell’illegittimità
del provvedimento impugnato, secondo il più
recente insegnamento del Consiglio di Stato
(v. sentenza dell’Adunanza Plenaria
23.03.2011, n. 3) non costituisce condizione
di ammissibilità della domanda risarcitoria,
ma solo un elemento alla cui stregua va
valutata la fondatezza o meno della domanda
stessa (sul tema, v. anche C.G.A.
16.09.1998, n. 762 e 30.03.2011, n. 291)
(massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 09.08.2011 n. 1567 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
L'elemento fiduciario nei
rapporti con la stazione appaltante.
L’esclusione di una impresa da una procedura
ad evidenza pubblica per grave negligenza o
malafede è illegittima qualora la p.a. abbia
provveduto a confermare la fiducia nei
confronti dell’impresa rinnovando o
prorogando l’affidamento di diversi
contratti.
Tale principio è stato ribadito dal
Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
03.08.011 n. 4629, nell’ambito di una gara
d’appalto per l’affidamento di servizi
cimiteriali.
Nel caso di specie la ricorrente era stata
esclusa per grave negligenza nell’esecuzione
di un precedente rapporto con
l’amministrazione pubblica (violazione
dell’art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs.
1634/2006) e per irregolarità contributive
(violazione dell’art. 38, comma 1, lett. e),
del d.lgs. 163/2006).
In primo grado il Tar aveva confermato la
legittimità del provvedimento della stazione
appaltante.
In sede di Consiglio di Stato è stata,
invece, messa in luce la reale posizione
dell’impresa ricorrente, che per ragioni non
dipendenti dal proprio operato era stata
costretta a ritardare l’esecuzione di un
servizio pubblico affidatole.
Successivamente, tuttavia, la stessa
amministrazione aveva proceduto a rinnovare
all’impresa l’affidamento di diversi
servizi, dimostrando così l’affidabilità
della stessa.
I giudici di Palazzo Spada hanno infatti
sostenuto che: “La proroga e l’affidamento
di contratti all’impresa appellante da parte
del Comune nel periodo giugno–dicembre
2010 (relativi alla manutenzione di verde
pubblico e di rotatoria nonché di servizio
spargisale), senza alcun riferimento a
pregresse inadempienze, sono chiari indizi
dello sviamento e della contradditorietà di
cui è affetto l’atto di esclusione dalla
gara per cui è causa per grave negligenza o
malafede nello svolgimento di prestazioni
affidate all’impresa.
Invero, la necessità di garantire l’elemento
fiduciario nei rapporti contrattuali della
pubblica amministrazione fin dal momento
genetico, nell’interesse pubblico a non
stipulare nuovi contratti con l’impresa
resasi responsabile di grave negligenza,
trova un evidente limite nel caso in cui la
stessa amministrazione operi una valutazione
favorevole sul piano tecnico–morale
dell’impresa rinnovandole fiducia attraverso
la proroga o l’affidamento di diversi
contratti (Cons. St. Sez. VI, 28.07.2010, n.
5029).”
L’atto di esclusione è pertanto illegittimo
se non dimostra in maniera adeguata
l’inaffidabilità dell’impresa.
I giudici di appello si sono inoltre
soffermati su un ulteriore motivo di
esclusione, prontamente impugnato
dall’impresa ricorrente: la violazione
dell’art. 38, comma 1, lett. e), del d.lgs.
163/2006.
Il provvedimento di esclusione si basava
infatti anche su un presunta irregolarità
contributiva, non sussistente nel caso di
specie poiché fondata su un “contenzioso
amministrativo in corso” per il pagamento di
oneri contributivi.
Da un’attenta lettura dell’art. 38, comma 1,
lett. e), si rileva pertanto che l’esclusione
può essere disposta soltanto nel caso in cui
le imprese “…si siano rese responsabili di
violazioni gravi e definitivamente
accertate...”.
L’interpretazione della legge, in questo
caso l’art. 38, non è opera semplice e di
intuitiva applicazione ma deve
necessariamente essere oggetto di un’attenta
analisi ed un adeguato approfondimento così
da evitare applicazioni fuorvianti del
volere del legislatore (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Rimozione su strada.
La richiamata disposizione di cui all’art.
14 del D.L.vo 30.4.1992, n. 285 (Codice
della Strada), sebbene imponga in capo
all’Ente proprietario o gestore una serie di
obblighi di vigilanza, controllo e
conservazione, non può rappresentare il
fondamento normativo per ordinare la
rimozione dei rifiuti abbandonati da terzi,
senza che sussista l’accertamento di una
responsabilità quanto meno colposa del
proprietario, in quanto non rientra
nell’obbligo di pulizia delle strade per la
“sicurezza e la fluidità della
circolazione” la rimozione e lo
smaltimento dei rifiuti, trattandosi di
attività non riconducibile alla normale
gestione della rete stradale ed all’uso
proprio della stessa.
Infatti, un ordine di “rimozione di ogni
genere di rifiuti depositati e/o abbandonati
da terzi e la pulizia e sistemazione
dell’area”, finalizzato alla
salvaguardia dell’ambiente, dell’igiene e
della sanità, nonché della pubblica e
privata incolumità esula indubbiamente
dall’obbligo di pulizia delle strade
strumentale unicamente alla “sicurezza e
la fluidità della circolazione” e deve
necessariamente ricondursi alla categoria
degli obblighi di interventi, di bonifica e
di messa in sicurezza di aree che trova il
proprio esclusivo fondamento e la naturale
disciplina nel D.L.vo 03.04.2006, n. 152
(c.d. Testo Unico sull’Ambiente) (massima
tratta da www.lexambiente.it TAR
Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 29.07.2011 n. 4182 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Correttezza
contributiva e fiscale: irrilevante
l'adempimento tardivo dell'obbligazione
tributaria.
La correttezza contributiva e fiscale è
richiesta all’impresa partecipante alla
selezione per l’aggiudicazione dell’appalto
come requisito indispensabile per la
partecipazione alla gara, con la conseguenza
che, ai fini della valida partecipazione
alla selezione, l’impresa deve essere in
regola con tali obblighi fin dalla
presentazione della domanda, restando
irrilevante un eventuale adempimento tardivo
dell’obbligazione tributaria.
Quanto alla questione relativa all’esiguità
della pretesa fiscale, osserva il CGA,
l’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 -nella
versione predecente alle modifiche
introdotte dal Decreto Sviluppo- non
richiedeva il requisito della gravità in
relazione alla irregolarità di cui alla
lettera g) in materia di pagamento di
imposte e tasse. Sotto la vigenza di quella
norma era, quindi, da ritenere rilevante
ogni violazione, anche di importo esiguo (massima
tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it
- C.G.A.R.S.,
sentenza 28.07.2011 n. 530 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull'applicabilità del principio
della pubblicità delle operazioni di gara
alle operazioni di apertura delle offerte
tecniche nelle gare con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
La "verifica della integrità dei plichi"
non esaurisce la sua funzione nella
constatazione che gli stessi non hanno
subito manomissioni o alterazioni, ma è
destinata a garantire che il materiale
documentario trovi correttamente ingresso
nella procedura di gara, giacché la
pubblicità delle sedute risponde
all'esigenza di tutela non solo della parità
di trattamento dei concorrenti, ai quali
deve essere permesso di effettuare gli
opportuni riscontri sulla regolarità formale
degli atti prodotti e di avere così la
garanzia che non siano successivamente
intervenute indebite alterazioni, ma anche
dell'interesse pubblico alla trasparenza ed
all'imparzialità dell'azione amministrativa,
le cui conseguenze negative sono
difficilmente apprezzabili ex post
una volta rotti i sigilli ed aperti i
plichi, in mancanza di un riscontro
immediato.
La suddetta regola costituisce corretta
interpretazione dei principi comunitari e di
diritto interno in materia di trasparenza e
di pubblicità nelle gare per i pubblici
appalti e, come tale, merita di essere
confermata e ribadita con specifico
riferimento all'apertura della busta
dell'offerta tecnica. Tale operazione,
infatti, come per la documentazione
amministrativa e per l'offerta economica,
costituisce passaggio essenziale e
determinante dell'esito della procedura
concorsuale, e quindi richiede di essere
presidiata dalle medesime garanzie, a tutela
degli interessi privati e pubblici coinvolti
dal procedimento.
La verifica dei documenti contenuti nella
busta dell'offerta tecnica deve consistere
in un semplice controllo preliminare degli
atti inviati, che non può eccedere la
funzione, che ad essa riconosce la
giurisprudenza, di ufficializzare la
acquisizione della documentazione di cui si
compone l'offerta tecnica. L'operazione non
deve andare al di là del mero riscontro
degli atti prodotti dall'impresa
concorrente, restando esclusa ogni facoltà
degli interessati presenti di prenderne
visione del contenuto.
La garanzia di trasparenza richiesta in
questa fase si considera assicurata quando
la commissione, aperta la busta del singolo
concorrente, abbia proceduto ad un esame
della documentazione leggendo il solo titolo
degli atti rinvenuti, e dandone atto nel
verbale della seduta (Consiglio di Stato,
Adunanza Plenaria,
sentenza 28.07.2011 n. 13 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni ambientali. Bosco e macchia
mediterranea.
Per bosco e macchia mediterranea, meritevole
di tutela ai fini paesaggistici, si intende
anche quella caratterizzata dalla assenza di
alberi di alto fusto (tratto da link a
www.lexambiente.it - Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 20.07.2011 n. 28928). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso d’ufficio - Dirigente
dell'ufficio tecnico - Rilascio concessione
edilizia in sanatoria per opera non conforme
agli strumenti urbanistici generali vigenti
- Configurabilità - Artt. 81, 323, 378 c.p..
Configura un ingiusto vantaggio patrimoniale
anche il mero incremento del valore
commerciale dell'immobile, per cui ben può
essere chiamato a rispondere di abuso di
ufficio il responsabile del settore
urbanistico del Comune che abbia rilasciato
una concessione edilizia in sanatoria per
un'opera non conforme agli strumenti
urbanistici generali vigenti in quel Comune
(Cass. Sez. 6, del 06/06/2008, n. 35856
Morelli) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 14.07.2011 n. 27703 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Struttura definita di carattere
precario e provvisorio - Permesso di
costruire in precario condizionato a future
esigenze urbanistiche - Illegittimità -
Responsabile ufficio tecnico - Abuso
d’ufficio - Configurabilità - Artt. 81, 323,
378 c.p..
E’ illegittima la concessione in sanatoria
(oggi permesso di costruire) rilasciata, con
la quale si consente di mantenere una
struttura definita "di carattere precario
e provvisorio" e, quindi, rimovibile a
cura e spese del proprietario in caso di
future esigenze urbanistiche.
E' stato infatti chiarito che la c.d. "concessione
edilizia in precario" -sia pure non "in
sanatoria" come quella di cui al
presente processo- è non solo extra legem,
in quanto non è espressamente prevista da
alcuna fonte normativa, ma anche contra
legem, in quanto è destinata a
consentire una situazione di abuso edilizio
(Cass. Sez. 3, n. 111 del 13/01/2000, La
Ganga Ciciritto) (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 14.07.2011 n. 27703 -
link a www.ambientediritto.it). |
LAVORI PUBBLICI: La
strada cede? Paga il comune.
Se il trattore resta drammaticamente
coinvolto nel cedimento strutturale di una
strada comunale spetta all'amministrazione
ristorare economicamente gli eredi della
vittima.
Lo ha evidenziato la Corte di cassazione,
sez. III civ., con la sentenza 13.07.2011
n. 15384.
Un operatore che stava percorrendo una
strada siciliana con il trattore è rimasto
vittima di un grave incidente derivante dal
ribaltamento del mezzo per cedimento della
strada. A seguito della richiesta di
risarcimento dei danni il tribunale ha
rigettato la domanda ma la Corte d'appello
ha ribaltato l'esito della vertenza
condannando il comune al pagamento. La
Cassazione ha confermato questa
determinazione nonostante l'assoluzione in
sede penale dei tecnici comunali.
L'incidente, specifica il collegio, è stato
determinato dalla banchina cedevole ovvero
dall'impossibilità per il conducente di
accorgersi del rischio. Del resto è
pacifico, prosegue la sentenza, che lo
sfortunato conducente «circolava su
strada rettilinea e pianeggiante, non
procedeva a lavorazioni su terreni scoscesi
o con notevole pendenza, per cui non aveva
nessun obbligo di azionare il dispositivo di
sicurezza»
(articolo ItaliaOggi del
01.09.2011 - tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità prevista
dall’art. 63 del T.U. ee.ll. per la pendenza
di una lite civile od amministrativa con il
Comune. Decadenza del Sindaco e nomina del
Commissario prefettizio nel caso in cui la
sentenza non sia ancora passata in
giudicato.
E’ illegittimo il decreto con il quale il
Prefetto ha dichiarato la decadenza del
Sindaco dalla carica ricoperta, che sia
motivato con riferimento all’accertamento,
con sentenza di primo grado confermata in
appello, della causa di incompatibilità di
cui all’art. 63, c. 1, n. 6, del D.P.R. n.
267 del 2000 (TUEL), per avere egli un
debito liquido ed esigibile nei confronti
del Comune, nel caso in cui la sentenza non
sia ancora passata in giudicato (nella
specie avverso la sentenza di appello
l’interessato aveva proposto ricorso innanzi
alla Corte di Cassazione, ancora pendente
alla data di adozione del decreto
prefettizio) (1).
---------------
(1) Cfr. Cassazione civile , sez. II,
26.03.2009, n. 7369.
Ha osservato la sentenza in rassegna che, al
di fuori delle statuizioni di condanna
consequenziali, le sentenze di accertamento
(e quelle costitutive) non hanno, ai sensi
dell'art. 282 c.p.c., efficacia anticipata
rispetto al momento del passaggio in
giudicato; e ciò sul rilievo che la norma
citata, nel prevedere la provvisoria
esecuzione delle sentenze di primo grado,
intende necessariamente riferirsi soltanto a
quelle sentenze (di condanna) suscettibili
del procedimento di esecuzione disciplinato
dal terzo libro del codice di procedura
civile (commento tratto da
www.regione.piemonte.it - TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 07.07.2011 n. 963 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Liquami zootecnici.
Relativamente alla questione della
disponibilità dei terreni interessati
dall’attività di spandimento dei liquami
zootecnici, allorché sorga un contrasto tra
privati in ordine all’uso di date aree,
l’Amministrazione deputata al rilascio del
titolo abilitativo per lo svolgimento di
specifiche attività in quell’ambito
territoriale deve necessariamente tenere
conto dello stato di materiale detenzione
del bene e non già della formale
disponibilità giuridica dello stesso,
giacché è dal suo effettivo impiego che
deriva il presupposto perché sia
riconosciuta, in quella fase storica,
all’uno anziché all’altro soggetto la
capacità di operarvi (tratto da
www.lexambiente.it - TAR Emilia
Romagna-Parma, Sez. I,
sentenza 28.06.2011 n. 217 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sussistenza della necessità di
produrre i titoli da parte del candidato,
anche se si tratta di titoli relativi alla
stessa P.A. che ha indetto il concorso.
Nell’ambito del procedimento di un concorso
pubblico, i titoli che il candidato intende
sottoporre alla valutazione della
commissione giudicatrice, onde ottenerne
l’attribuzione del relativo punteggio,
rientrano nella sua piena disponibilità, di
modo che non possono essere attribuiti al
candidato punteggi per titoli non allegati
(anche se afferenti ad attività svolte
presso la medesima amministrazione che ha
indetto il concorso), né titoli il cui
possesso è indicato, ma non documentato, nel
caso in cui una prescrizione del bando
preveda un onere di allegazione documentale
a carico del candidato (Nella specie una
specifica prescrizione del bando prevedeva
che i titoli che si intendevano far valutare
ai fini dell’assegnazione del relativo
punteggio dovevano risultare dalla
documentazione presentata con la domanda di
partecipazione, entro il termine perentorio
previsto; l’appellante tuttavia non aveva
prodotto la documentazione attestante il
titolo di comando per un periodo superiore a
cinque anni, con conseguente mancata
assegnazione del relativo punteggio)
(commento tratto da www.regione.piemonte.it
- Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.06.2011 n. 3659 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
SERVIZIO DISTRIBUZIONE GAS
NATURALE.
L'articolo 3, comma 3,
del decreto del Ministero dello sviluppo
economico del 19.01.2011 stabilisce che “a
decorrere dall'entrata in vigore del
presente provvedimento le gare per
l'affidamento del servizio di distribuzione
gas, previsto dall'articolo 14, comma 1, del
decreto legislativo n. 164/2000, per le
quali non è stato pubblicato il bando o non
è decorso il termine per la presentazione
delle offerte di gara sono aggiudicate
unicamente relativamente agli ambiti
determinati nell'allegato 1, facente parte
integrante del presente provvedimento”. Ora,
il secondo ed ulteriore parametro previsto
dalla disposizione, ossia la scadenza del
termine per la presentazione delle offerte,
è indicato in via alternativa (con la
formula “o”) e sembra rinviare ai metodi di
scelta del contraente non accompagnati dalla
preventiva redazione di un bando di gara.
E' quanto statuito dal TAR Lombardia-Brescia,
Sez. II, con l'ordinanza
28.04.2011 n. 413, ove vengono
fornite le prime ed importanti precisazioni
in relazione al decreto attuativo degli
A.TE.M..
Dunque, dopo anni di incertezza normativa,
il 31.03.2011 è stato pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 74 del 31.03.2011 il
decreto del Ministero dello Sviluppo
Economico 19.01.2011, che disciplina gli
Ambiti Territoriali Minimi. Precisamente, la
disciplina può essere così riassunta:
a) Gli Ambiti Territoriali Minimi per lo
svolgimento delle gare e l'affidamento del
servizio di distribuzione del gas sono
determinati in numero di 177.
b) Con successivo decreto del Ministro dello
sviluppo economico, di concerto con il
Ministro per i rapporti con le Regioni e la
Coesione territoriale, da comunicare alla
Conferenza Unificata, saranno indicati i
Comuni appartenenti a ciascun ambito
territoriale. Viene precisato che, al fine
di semplificare le operazione di
aggregazione degli enti locali, è introdotto
un limite di 50 sul numero massimo di Comuni
presenti in un ambito, purché riguardino
almeno 50.000 clienti.
c) Gli Enti locali di ciascun ambito
territoriale minimo dovranno affidare il
servizio di distribuzione gas tramite gara
unica, cioè al gestore risultato vincitore
nell'ambito territoriale minimo a cui
appartengono.
d) La gara unica può essere estesa a due o
più ambiti confinanti previo accordo degli
enti locali degli ambiti interessati.
e) Nel periodo di prima applicazione del
nuovo sistema, il gestore risultato
vincitore della gara d'ambito subentra
progressivamente nell'affidamento del
servizio dei vari impianti di distribuzione
gas dell'ambito territoriale minimo alla
scadenza delle singole concessioni presenti
nell'ambito, a meno di una loro anticipata
risoluzione concordata fra il gestore
uscente e l'Ente locale.
f) Con delibera dell'Autorità per l'energia
elettrica e il gas, sono stabilite misure
volte a incentivare l'anticipata risoluzione
delle predette concessioni, nonché misure
volte a incentivare l'aggregazione degli
ambiti territoriali minimi, che presentano
un numero di clienti inferiore a 100.000.
g) Ai sensi dell'articolo 46-bis, comma 2,
del decreto legge 01.10.2007, n. 159,
convertito, con modificazioni, dalla legge
29.11.2007, n. 222, a decorrere dall'entrata
in vigore del decreto (01.04.2011), le gare
per l'affidamento del servizio di
distribuzione gas, per le quali non e' stato
pubblicato il bando o non e' decorso il
termine per la presentazione delle offerte
di gara, sono aggiudicate unicamente
relativamente agli ambiti ora determinati.
h) Il gestore uscente, ai sensi
dell'articolo 14, comma 7, del decreto
legislativo 23.05.2000, n. 164, resta
comunque obbligato a proseguire la gestione
del servizio fino alla data di decorrenza
del nuovo affidamento.
Quindi, dovrà essere emanato il decreto,
contenente la distribuzione dei Comuni nei
rispettivi ambiti ed il regolamento dei
criteri di gara. Viceversa, è stato
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 102
del 04.05.2011, il decreto del 21.04.2011 “Tutela
Occupazione”, cioè contenente
disposizioni dirette a governare gli effetti
sociali connessi ai nuovi affidamenti.
Non c'è dubbio che il punto maggiormente
controverso del novello decreto è quello
contenuto nell'articolo 3, comma 3°, del
decreto, cioè il punto “g”, che può essere
così sintetizzato:
- dall'01.04.2011, sono aggiudicate, solo
relativamente agli ambiti, le gare già
indette, “per le quali non e' stato
pubblicato il bando o non e' decorso il
termine per la presentazione delle offerte
di gara”. Ora, cosa si deve intendere per
gare, per le quali non è intervenuta la
pubblicazione del bando “o” per le quali non
è decorso il termine di presentazione delle
offerte? Quale valore occorre dare alla
congiunzione “o”?
Per intendere correttamente la disposizione
normativa in esame, occorre concentrarsi
sulla seconda domanda, cioè sul valore della
congiunzione. Allora, deve essere precisato
che la congiunzione “o” può esprimere due
valori:
1) un valore di disgiunzione, cioè di
esclusione di due concetti o cose;
2) un valore di esplicazione, cioè di
precisazione e correzione di un precedente
concetto o cosa.
In senso di esclusione, la congiunzione si
suole premettere anche al primo concetto,
ponendo così in corrispondenza reciproca più
concetti e facendone spiccare l'alternativa.
In senso di esplicazione, la congiunzione
non si suole porre davanti al primo
concetto, ma solo ai seguenti, e talora si
rafforza cangiandosi in ovvero, ossia, etc..
Ora, secondo una prima interpretazione
(accolta, da notizie informali, in via non
ufficiale dal Ministero delle Attività
Produttive), il valore da attribuire è
quello esplicativo:
- ai fini del fattuale blocco delle gare,
non basta la pubblicazione del bando, ma
occorre che sia decorso il termine di
presentazione delle offerte. Viceversa,
secondo altra interpretazione, occorre
attribuire un valore disgiuntivo: o l'uno o
l'altro. In altri termini, in mancanza della
pubblicazione del bando, la procedura di
gara può proseguire se non è scaduto il
termine di presentazione delle offerte.
Orbene, il Tar Brescia, nell'ordinanza in
esame, aderisce al secondo orientamento e
statuisce quanto segue:
a) l'entrata in vigore del decreto
ministeriale non sembra incidere sulle
determinazioni del Comune;
b) il bando risulta ritualmente pubblicato
in data anteriore all'operatività della
novella normativa, ed è, pertanto, idoneo a
produrre i suoi effetti secondo il principio
“tempus regit actum”;
c) che l'ulteriore parametro – ossia la
scadenza del termine per la presentazione
delle offerte – è indicato in via
alternativa (con la formula “o”) e sembra
rinviare ai metodi di scelta del contraente
non accompagnati dalla preventiva redazione
di un bando di gara. In altri termini,
secondo il Tar Brescia, l'espressione
disgiuntiva utilizzata nel decreto sembra
alludere a due diverse tipologie di gara:
- procedura aperta o ristretta, in relazione
alla pubblicazione del bando;
- procedura negoziata senza previa
pubblicazione di bando di gara, in relazione
al termine per la presentazione delle
offerte.
Le statuizioni del Tar Brescia sono, in
linea generale, condivisibili, in quanto il
valore della congiunzione “o” sembra essere
disgiuntivo e non esplicativo. Tuttavia,
l'adesione a tale indirizzo, che si
ribadisce appare il più convincente, sembra
alludere ad una possibilità di scelta di
tipologia di gara, cioè al fatto che il
Comune, ai fini dell'affidamento del
servizio di distribuzione gas naturale,
possa scegliere liberamente fra procedura
aperta e ristretta, da un lato, e procedura
negoziata senza previo bando dall'altro.
Invero, tale possibilità è stata smentita
dalla più recente giurisprudenza, che ha
statuito la legittimità delle sole procedure
aperte e ristrette: “l'affidamento della
concessione del servizio di distribuzione
del gas naturale non può essere effettuato
attraverso una procedura negoziata, senza
previa pubblicazione di bando di gara, in
quanto il comma 4° dell'articolo 30 del
Codice dei contratti (D.Lgs. n. 163/2006),
in tema di concessione di servizi, fa
espressamente salve discipline specifiche,
che prevedono forme più ampie di tutela
della concorrenza quali, appunto, quelle di
cui al D.Lgs. n. 164/2000.
Il Collegio riconosce che l'articolo 14 del
citato D.Lgs. n. 164/2000 si riferisce
genericamente a “gare”, senza specificarne
la tipologia (aperta, ristretta o
negoziata), ma osserva che lo stesso
articolo, al comma 5°, introduce principi di
concorrenza e di ampia partecipazione, che
lasciano intendere il disfavore del
Legislatore verso affidamenti diretti o a
mezzo di procedure non ad evidenza pubblica”
(Tar Marche, sez. I, 06.12.2010, n. 3412).
A ben vedere, la soluzione interpretativa
del Tar Marche può essere accolta, in quanto
si palesa conforme all'articolo 54 del
Codice dei contratti pubblici (D.Lgs n.
163/2006), secondo il quale procedura aperta
e procedura ristretta costituiscono e
rappresentano gli ordinari modelli di scelta
del contraente, mentre le negoziate possono
essere utilizzate solo alle “condizioni
specifiche espressamente previste”
(tratto
dalla newsletter di
www.centrostudimarangoni.it
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Per "mobbing" (da lavoro) si intende “una
successione di fatti e comportamenti posti
in essere dal datore di lavoro con intento
emulativo ed al solo scopo di recare danno
al lavoratore, rendendone penosa la
prestazione, condotti con frequenza
ripetitiva ed in un determinato arco
temporale sufficientemente apprezzabile e
valutabile”; in altri termini, "l'insieme
delle condotte datoriali protratte nel tempo
e con le caratteristiche della persecuzione
finalizzata all'emarginazione del dipendente
con comportamenti datoriali, materiali o
provvedimentali, indipendentemente
dall'inadempimento di specifici obblighi
contrattuali o dalla violazione di
specifiche norme attinenti alla tutela del
lavoratore subordinato.
Sicché, la sussistenza della lesione, del
bene protetto e delle sue conseguenze deve
essere verificata -procedendosi alla
valutazione complessiva degli episodi
dedotti in giudizio come lesivi-
considerando l'idoneità offensiva della
condotta, che può essere dimostrata, per la
sistematicità e durata dell'azione nel
tempo, dalle sue caratteristiche oggettive
di persecuzione e discriminazione,
risultanti specificamente da una
connotazione emulativa e pretestuosa".
In sostanza, la condotta mobbizzante si
risolve in sistematici e reiterati
comportamenti ostili, che finiscono per
assumere forme di prevaricazione o di
persecuzione psicologica, da cui può
conseguire la mortificazione morale e
l'emarginazione del dipendente, con effetto
lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e
del complesso della sua personalità.
L’accertamento della sussistenza del danno
da mobbing, quindi, comporta una valutazione
complessiva dei danni lamentati
dall’interessato, i quali devono essere
considerati in modo unitario, tenuto conto,
da un lato dell’idoneità offensiva della
condotta datoriale, come desumibile dalle
sue caratteristiche oggettive di
persecuzione e discriminazione e,
dall’altro, dalla connotazione univocamente
emulativa e pretestuosa della richiamata
condotta; pertanto la ricorrenza di una
condotta mobizzante deve essere esclusa:
- quando sia assente la sistematicità degli
episodi, ovvero i comportamenti su cui viene
basata la pretesa risarcitoria siano
riferibili alla normale condotta del datore
di lavoro, funzionale all'assetto
dell'apparato amministrativo, o
imprenditoriale, nel caso del lavoro
privato; o, infine, vi sia una ragionevole
ed alternativa spiegazione al comportamento
datoriale;
- tutte le volte che la valutazione
complessiva dell’insieme delle circostanze
addotte ed accertate nella loro materialità,
pur se idonea a palesare singulatim elementi
ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro,
non consenta di individuare, secondo un
giudizio di verosimiglianza, il carattere
unitariamente persecutorio e discriminatorio
nei confronti del singolo dal complesso
delle condotte poste in essere sul luogo di
lavoro.
Dunque, gli elementi strutturali della
condotta mobbizzante, sono dati:
1) dalla molteplicità dei comportamenti a
carattere persecutorio, illeciti o anche
leciti se considerati singolarmente, che
siano stati posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro
il dipendente con intento vessatorio;
2) dall'evento lesivo della salute o della
personalità del dipendente;
3) dal nesso eziologico tra la condotta del
datore di lavoro o del superiore gerarchico
e il pregiudizio all'integrità psico-fisica
del lavoratore.
Per "mobbing" (da lavoro), secondo la
giurisprudenza si intende “una
successione di fatti e comportamenti posti
in essere dal datore di lavoro con intento
emulativo ed al solo scopo di recare danno
al lavoratore, rendendone penosa la
prestazione, condotti con frequenza
ripetitiva ed in un determinato arco
temporale sufficientemente apprezzabile e
valutabile” (Trib. civ. Milano
15.05.2006) ovvero per usare le parole della
Suprema Corte, "l'insieme delle condotte
datoriali protratte nel tempo e con le
caratteristiche della persecuzione
finalizzata all'emarginazione del dipendente
con comportamenti datoriali, materiali o
provvedimentali, indipendentemente
dall'inadempimento di specifici obblighi
contrattuali o dalla violazione di
specifiche norme attinenti alla tutela del
lavoratore subordinato. Sicché, la
sussistenza della lesione, del bene protetto
e delle sue conseguenze deve essere
verificata -procedendosi alla valutazione
complessiva degli episodi dedotti in
giudizio come lesivi- considerando
l'idoneità offensiva della condotta, che può
essere dimostrata, per la sistematicità e
durata dell'azione nel tempo, dalle sue
caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione, risultanti specificamente
da una connotazione emulativa e pretestuosa"
(Cass. civ, lav., 06.03.2006, n. 4774;
09.09.2008, n. 22858; 17.02.2009, n. 3785).
In sostanza, la condotta mobbizzante si
risolve in sistematici e reiterati
comportamenti ostili, che finiscono per
assumere forme di prevaricazione o di
persecuzione psicologica, da cui può
conseguire la mortificazione morale e
l'emarginazione del dipendente, con effetto
lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e
del complesso della sua personalità.
L’accertamento della sussistenza del danno
da mobbing, quindi, comporta una valutazione
complessiva dei danni lamentati
dall’interessato, i quali devono essere
considerati in modo unitario, tenuto conto,
da un lato dell’idoneità offensiva della
condotta datoriale, come desumibile dalle
sue caratteristiche oggettive di
persecuzione e discriminazione e,
dall’altro, dalla connotazione univocamente
emulativa e pretestuosa della richiamata
condotta; pertanto la ricorrenza di una
condotta mobizzante deve essere esclusa:
- quando sia assente la sistematicità degli
episodi, ovvero i comportamenti su cui viene
basata la pretesa risarcitoria siano
riferibili alla normale condotta del datore
di lavoro, funzionale all'assetto
dell'apparato amministrativo, o
imprenditoriale, nel caso del lavoro
privato; o, infine, vi sia una ragionevole
ed alternativa spiegazione al comportamento
datoriale (cfr. Cons. Stato, VI, 06.05.2008,
n. 2015);
- tutte le volte che la valutazione
complessiva dell’insieme delle circostanze
addotte ed accertate nella loro materialità,
pur se idonea a palesare singulatim
elementi ed episodi di conflitto sul luogo
di lavoro, non consenta di individuare,
secondo un giudizio di verosimiglianza, il
carattere unitariamente persecutorio e
discriminatorio nei confronti del singolo
dal complesso delle condotte poste in essere
sul luogo di lavoro (cfr. Cons. St. nr. 4738
del 2008).
È stato da ultimo messo in risalto che il
tratto strutturante del "mobbing"
-tale da sottrarlo all’area dei
comportamenti che sarebbero confinati
nell'ordinaria dinamica, ancorché
conflittuale, dei rapporti di lavoro- è
proprio la sussistenza di una condotta
volutamente prevaricatoria da parte del
datore di lavoro volta a emarginare o
estromettere il lavoratore dalla struttura
organizzativa.
Pertanto, in ordine all'onere della prova da
offrirsi da parte del soggetto destinatario
di una condotta mobbizzante, quest'ultima
deve essere adeguatamente rappresentata con
una prospettazione dettagliata dei singoli
comportamenti e/o atti che rivelino
l'asserito intento persecutorio diretto a
emarginare il dipendente, non rilevando mere
posizioni divergenti e/o conflittuali,
fisiologiche allo svolgimento di un rapporto
lavorativo (cfr. TAR Lombardia, Milano, I,
11.08.2009, n 4581; TAR Lazio, Roma, III,
14.12.2006, n. 14604).
In altri termini, il mobbing -proprio perché
non può prescindere da un supporto
probatorio oggettivo- non può essere
imputato in via esclusiva ma anche
prevalente al vissuto interiore del
soggetto, ovvero all'amplificazione da parte
di quest'ultimo delle normali difficoltà che
connotano la vita lavorativa di ciascuno
(cfr. TAR Lazio, Roma, I, 07.04.2008, n.
2877).
D'altra parte, come è stato
condivisibilmente affermato (cfr. Tar PG nr.
469 del 2010), nell'esaminare i casi di
preteso "mobbing" il Giudice deve
evitare di assumere acriticamente l'angolo
visuale prospettato dal lavoratore che
asserisce di esserne vittima. Da un lato,
infatti, è possibile che i comportamenti del
datore di lavoro, pur se oggettivamente
sgraditi, non siano tali da provocare
significative sofferenze e disagi, se non in
personalità dotate di una sensibilità
esasperata o addirittura patologica (per
tacere dell'ipotesi, non scartabile a
priori, che la rappresentazione delle
sofferenze sia inveritiera e meramente
strumentale allo scopo di supportare una
domanda di risarcimento).
Da un altro lato, è possibile che gli atti
del datore di lavoro (di nuovo, pur
sgraditi) siano di per sé ragionevoli e
giustificati e in particolare che abbiano
una certa giustificazione o quanto meno
spiegazione siccome indotti da comportamenti
reprensibili dello stesso interessato,
ovvero da sue carenze sul piano lavorativo,
difficoltà caratteriali, etc.. Non si deve
cioè sottovalutare l'ipotesi che l'insorgere
di un clima di cattivi rapporti umani
derivi, almeno in parte, anche da
responsabilità dell'interessato. Tale
ipotesi può anzi essere empiricamente
convalidata dalla considerazione che
diversamente non si spiegherebbe perché solo
un determinato individuo percepisca come
ostile una situazione che invece i suoi
colleghi trovano normale.
Tale cautela di giudizio si impone
particolarmente quando, come nel caso in
esame, l'ambiente di lavoro è un Corpo di
Polizia, caratterizzato, per definizione, da
una severa disciplina e dove non tutti i
rapporti possono essere amichevoli, non
tutte le aspirazioni possono essere
esaudite, non tutti i compiti possono essere
piacevoli e non tutte le carenze possono
essere tollerate. In questa situazione, un
approccio condizionato dalla
rappresentazione soggettiva (se non
strumentale) fornita dall'interessato può
essere quanto mai fuorviante.
Dunque, gli elementi strutturali della
condotta mobbizzante, sono dati:
1) dalla molteplicità dei comportamenti a
carattere persecutorio, illeciti o anche
leciti se considerati singolarmente, che
siano stati posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro
il dipendente con intento vessatorio;
2) dall'evento lesivo della salute o della
personalità del dipendente;
3) dal nesso eziologico tra la condotta del
datore di lavoro o del superiore gerarchico
e il pregiudizio all'integrità psico-fisica
del lavoratore.
Ai fini risarcitori è quindi necessaria:
- la prova dell'elemento soggettivo, cioè
dell'intento persecutorio (Cassazione Sez.
L, Sentenza n. 3785 del 17/02/2009);
- la prova del danno all’integrità subito;
- che sia dimostrato il nesso causale tra il
comportamento del datore di lavoro e lo
stato di prostrazione (cfr, ex plurimis,
Cass.civ. III, 16148/2010).
Per quanto riguarda quest’ultimo elemento
v’è poi da poi da ricordare che la Corte
regolatrice, con l’Ord. n. 22101/2006, ha
ritenuto questo Tribunale quale Giudice
competente a conoscere della controversia
introdotta col ricorso in epigrafe; e tanto
ha statuito in quanto, avvalendosi (ai fini
del riparto di giurisdizione) del criterio
del c.d. petitum sostanziale, ha dato
risalto alla circostanza che il ricorrente,
nel caso di specie, “non sono parla di
mobbing-bossing ma pone a fondamento della
domanda atti dispositivi dei suoi superiori
relativi alle mansioni, e cioè atti
tipicamente relativi al rapporto di lavoro”.
E’ dunque non revocabile in dubbio che
l'azione risarcitoria in trattazione
rinvenga il proprio presupposto
nell'espletamento dell'attività lavorativa
da parte del ricorrente e nella ritenuta
violazione, da parte del datore di lavoro,
dell'obbligo su di esso incombente ai sensi
dell'art. 2087 cod. civ.; al che accede, in
modo pacifico, il carattere contrattuale
della proposta azione risarcitoria.
Rebus sic stantibus, una volta
ricondotta la controversia risarcitoria in
questione nell'alveo della responsabilità
contrattuale ex art. 1218 cod. civ., la
distribuzione dell'onere probatorio fra il
prestatore (asseritamente) danneggiato ed il
datore di lavoro deve essere operata in base
al consolidato orientamento
giurisprudenziale secondo cui grava sul
lavoratore l'onere di provare la condotta
illecita e il nesso causale tra questa e il
danno patito, mentre incombe sul datore di
lavoro -in base al principio di inversione
dell'onus probandi di cui al
richiamato art. 1218 cod. civ.- il solo
onere di provare l'assenza di una colpa a se
riferibile (in tal senso, ex plurimis:
Cass. Civ., Sez. Lavoro, sent. 25.05.2006,
n. 12445; id., Sezione Lav., sent.
08.05.2007, n. 10441).
Ne consegue che laddove, quindi, il
lavoratore ometta di fornire la prova anche
solo, ad es., in ordine alla sussistenza
dell'elemento materiale della fattispecie
oggettiva (i.e., della complessiva condotta
mobbizzante asseritamente realizzata in
proprio danno sul luogo di lavoro),
difetterà in radice uno degli elementi
costitutivi della fattispecie foriera di
danno (e del conseguente obbligo
risarcitorio), con l'evidente conseguenza
che il risarcimento non sarà dovuto,
irrilevante essendo, in tal caso, ogni
ulteriore indagine in ordine alla
sussistenza o meno del nesso eziologico fra
la condotta e l'evento dannoso (cfr., in tal
senso, Cons. St. nr. 2045 del 2010 e nr.
4738 del 2008) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter,
sentenza 08.02.2011 n. 1230 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing.
Rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza – Rifiuto di
svolgere funzioni di Rspp – Demansionamento
– Licenziamento individuale – Illegittimità
della condotta datoriale – Sussiste.
“Nel sistema delineato dal decreto
legislativo 19.09.1994, n. 626 la funzione
di responsabile del servizio di prevenzione
e protezione dai rischi, designato dal
datore di lavoro (art. 2, lett. e), e quella
di rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza (art. 2, lett. f) non sono
cumulabili nella stessa persona. (...)
Concentrare nella stessa persona le funzioni
di due figure cui il legislatore ha
attribuito funzioni diverse, ancorché
finalizzate al comune obiettivo della
sicurezza del lavoro, significa eliminare
ogni controllo da parte dei lavoratori,
atteso che il controllato ed il controllante
coinciderebbero. (…) Chiaramente diversa è
la volontà della legge, che richiede
entrambe le figure per una azione di
prevenzione costantemente perseguita da
parte datoriale e controllata dai lavoratori”
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 15.09.2006 n. 19965 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing
– Bossing - Nozione - Disegno vessatorio
atto a destabilizzare l’equilibrio
psicofisico del lavoratore – Proposta di
Declassamento professionale per
ristrutturazione aziendale – Indisponibilità
dei lavoratori – Loro confinamento in
apposito reparto - Condizione di assoluta
inerzia in ambiente degradato – Pericolo di
definitivo allontamento dal contesto
produttivo in mancanza di accettazione della
novazione contrattuale peggiorativa -
Sussiste.
“Può esservi condotta molesta e
vessatoria o, comunque mobbing anche in
presenza di atti di per sé legittimi e che,
simmetricamente,non ogni demansionamento
così come non ogni altro atto illegittimo dà
luogo, a cascata, a mobbing. Affinché ciò
avvenga, è necessario che quell’atto emerga
come l’espressione, o meglio come uno dei
tasselli, di un composito disegno
vessatorio.
In definitiva, per la sussistenza del
fenomeno occorre che diverse condotte,
alcune o tutte di per sé legittime,si
ricompongano in un unicum, essendo
complessivamente e cumalativamente idonee a
destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del
lavoratore. Ciò non toglie, ovviamente, che
tali condotte, esaminate separatamente e
distintamente, possano essere illegittime e
anche integrare fattispecie di reato".
“…tutti i lavoratori avevano …preso
coscienza del fatto che la loro destinazione
non era affatto temporanea e che la stessa
poteva essere rimossa solo con la
accettazione della novazione che veniva
prospettata…”. Tale destinazione “rappresentava
una minaccia per l’allontanamento dal mondo
reale del lavoro che comportava e per le sue
caratteristiche di anticamera del
licenziamento, …posto che erano rientrati
nel ciclo produttivo soltanto coloro che
avevano accettato la novazione. Nei fatti si
era trattato di una collocazione sine die,
in quanto i dipendenti avrebbero lasciato la
palazzina solo se accettavano le condizioni
del datore di lavoro”
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 21.09.2006 n. 31413 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing
– Prova degli elementi costitutivi della
fattispecie – Non raggiunta – Diritto al
risarcimento del danno da mobbing – Non
sussiste – Violazione dell’art. 2087 c.c. –
Sussiste.
La giurisprudenza è oramai assestata sul
punto: l’elemento essenziale per poter
configurare un comportamento di mobbing è
che la vessazione psicologica sia attuata in
modo sistematico, ripetuto per un
apprezzabile periodo temporale; solo
comportamenti siffatti sono in grado di
rendere significativi, da un punto di vista
giuridico, atti del datore di lavoro o dei
suoi collaboratori che, diversamente, non
avrebbero alcuna rilevanza rimanendo
nell’ambito dei normali rapporti
interpersonali sul luogo di lavoro… è onere
del lavoratore che lamenti di aver subito un
danno alla salute provare l’esistenza di
tale danno e il nesso causale tra la
condotta datoriale e il danno subito…
La ricorrente non ha raggiunto la prova
degli elementi costitutivi della
fattispecie, in quanto i fatti ostili non
sono stati né frequenti né duraturi… Vi sono
stati comunque comportamenti violativi
dell’art. 2087 c.c. lesivi della persona del
prestatore di lavoro, che hanno comportato
l’insorgere di un danno biologico
(TRIBUNALE di Bergamo, Sez. Lavoro,
sentenza 08.08.2006 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing
nel pubblico impiego.
Mobbing –
Demansionamento – Risarcimento del danno
biologico ed alla professionalità –
Sussiste.
Il danno, di carattere non patrimoniale,
alla professionalità “attiene … alla
lesione (sia a titolo di responsabilità
contrattuale che extracontrattuale) di un
interesse costituzionalmente protetto
dall’articolo 2 della Costituzione ed ha ad
oggetto il diritto fondamentale del
lavoratore alla esplicazione della sua
personalità nel luogo di lavoro, secondo le
mansioni e qualifica spettategli per legge o
per contratto.
I provvedimenti del datore che
illegittimamente ledono tale diritto hanno
quale conseguenza la lesione dell’immagine
professionale, della dignità personale e
della vita di relazione del lavoratore, sia
in tema di autostima ed eterostima
nell’ambiente di lavoro o in quello socio
familiare sia in termini di perdita di
chances per lavori di pari livello (Cass.,
sez. lav., n. 10157 del 2004). La
valutazione di siffatto pregiudizio, che,
come già evidenziato, è privo delle
caratteristiche della patrimonialità, non
può che essere effettuata in via equitativa”.
Quanto al danno biologico, “vi è da
rilevare al riguardo che il c.t.u. ha
ritenuto di diminuire la quantificazione del
danno…in considerazione della personalità
del ricorrente e di situazioni, preesistenti
o concomitanti, attinenti alla sua sfera
personale, alle quali ha riconosciuto valore
di concausa naturale nella determinazione
del danno.
Ritiene il giudice di non poter aderire a
tale impostazione, poiché, in base ai
principi di cui agli articoli 40 e 41 del
codice penale, applicabili in tema di
responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale, «qualora le condizioni
ambientali o i fattori naturali che
caratterizzano la realtà fisica su cui
incide il comportamento imputabile dell’uomo
non possano dar luogo, senza l’apporto
umano, all’evento danno, l’autore del
comportamento imputabile è responsabile per
intero di tutte le conseguenze da esso
scaturenti secondo normalità» (Cass., sez.
lav., n. 553 del 2003).
Non è possibile, pertanto, una volta
accertata l’effettiva operatività del nesso
causale fra comportamento imputabile del
danneggiante e pregiudizio arrecato,
effettuare alcuna graduazione in termini
percentuali, con riferimento alla concausa
della condotta colposa, dovendo ritenersi il
danneggiante responsabile per l’intero dei
danni cagionati”
(TRIBUNALE di Castrovillari,
sentenza 20.04.2006 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Parametri
per individuare situazioni di mobbing.
Mobbing – Nozione –
Parametri di riconoscibilità del Mobbing –
Intento persecutorio.
“Il mobbing è una situazione lavorativa
di conflittualità sistematica, persistente,
ed in costante progresso in cui una o più
persone vengono fatte oggetto di azioni ad
alto contenuto persecutorio da parte di uno
o più aggressori in posizione superiore,
inferiore o di parità, con lo scopo di
causare alla vittima danni di vario tipo e
gravità. Il mobbizzato si trova
nell’impossibilità di reagire adeguatamente
a tali attacchi e a lungo andare accusa
disturbi psicosomatici, relazionali e
dell’umore che possono portare anche a
invalidità psicofisica permanente.
I sette parametri [la cui presenza
contestuale consente di riconoscere il
mobbing] in questione sono: l’ambiente
lavorativo, la frequenza …, la durata…, il
tipo di azioni ostili…, e precisamente
attacchi ai contatti umani, cambiamenti
delle mansioni e attacchi alla reputazione),
dislivello fra gli antagonisti, andamento
secondo fasi successive … Quanto all’intento
persecutorio che caratterizza il mobbing -da
intendersi in un’accezione psicologica, come
disegno vessatorio perseguito dal mobber, e
non penalistica come vero e proprio dolo
specifico- il CTU ne ha ritenuto sussistenti
i tratti fondamentali, rappresentati dalla
contemporanea presenza di una carica emotiva
e soggettiva … , di una precisa motivazione
del mobber … e di un obiettivo conflittuale,
cioè un terreno di scontro privilegiato”.
Mobbing – Illegittimità
– Violazione artt. 2087 cod. civ. e 2043
cod. civ. – Legittimità dei singoli atti che
lo compongono – Irrilevanza.
“Il comportamento mobbizzante … è
certamente illegittimo a prescindere dalla
possibile legittimità dei singoli atti che
la compongono, in se considerati. Esso
infatti rappresenta una violazione
dell’obbligo di cui all’articolo 2087 del
codice civile, nonché del principio generale
del minimum laedere di cui all’articolo 2043
del codice civile e in quanto idoneo a
provocare un danno, e fonte di
responsabilità sia contrattuale che
extracontrattuale”
(TRIBUNALE di Sondrio,
sentenza 09.03.2006 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing:responsabilità
del datore di lavoro.
Mobbing – Datore di
lavoro – Responsabilità contrattuale –
Presunzione legale di colpa – Sussiste.
“…ha natura contrattuale … la
responsabilità del datore di lavoro per
inadempimento dell’obbligo di sicurezza
(articolo 2087 del codice civile) …Dalla
prospettata natura contrattuale della
responsabilità, la stessa giurisprudenza
ricava…significative implicazioni sul piano
della distribuzione degli oneri probatori
relativi … infatti, la presunzione legale di
colpa -stabilita (dall’articolo 2118 del
codice civile)- a carico del datore di
lavoro inadempiente all’obbligo di sicurezza
…- deroga, parzialmente, il principio
generale (articolo 2697 del codice civile),
che impone -a “chi vuol far valere un
diritto in giudizio”- l’onere di provare “i
fatti che ne costituiscono il fondamento”.
Non ne risulta, tuttavia, una ipotesi di
responsabilità oggettiva, né la dispensa, da
qualsiasi onere probatorio, del lavoratore
danneggiato. Questi, infatti, resta gravato
… dell’onere di provare il “fatto”
costituente inadempimento dell’obbligo di
sicurezza nonché il nesso di causalità
materiale tra l’inadempimento stesso ed il
danno da lui subito, mentre esula dall’onere
probatorio a carico del lavoratore … la
prova della colpa del datore di lavoro
danneggiante …è lo stesso datore di lavoro,
infatti, ad essere gravato … dell’onere di
provare la non imputabilità
dell’inadempimento”.
Art. 2087 cod. civ. –
Misure di sicurezza innominate – Omissione –
Prova liberatoria a carico del datore di
lavoro – Contenuto.
“Affatto diverso risulta, tuttavia,
(anche) il contenuto dei rispettivi oneri
probatori a seconda che le misure di
sicurezza -asseritamente omesse- siano
espressamente e specificamente definite
dalla legge (o da altra fonte parimenti
vincolante), in relazione ad una valutazione
preventiva di rischi specifici…, oppure
debbano essere ricavate dalla stessa
disposizione (articolo 2087 del codice
civile, cit.) che impone l’obbligo di
sicurezza. Nel primo caso -di misure di
sicurezza (o prevenzione), per cosi dire,
nominate- il lavoratore ha l’onere di
provare soltanto la fattispecie costitutiva
prevista dalla fonte impositiva della misura
stessa -cioè il rischio specifico, che
s’intende prevenire o contenere- nonché,
ovviamente, il nesso di causalità materiale
tra l’inosservanza della misura ed il danno
subito.
La prova liberatoria a carico del datore di
lavoro, poi, parimenti si esaurisce nella
negazione degli stessi fatti provati dal
lavoratore…Nel secondo caso - di misure di
sicurezza (o prevenzione), per cosi dire,
innominate - fermo restando l’onere
probatorio a carico del lavoratore, la prova
liberatoria, a carico del datore di lavoro,
risulta invece variamente definita in
relazione alla quantificazione della
diligenza (ritenuta) esigibile –nella
predisposizione di quelle misure di
sicurezza- e perciò registra, anche in
giurisprudenza, significative
oscillazioni…tra l’imposizione al datore di
lavoro dell’onere di provare l’adozione di
ogni misura idonea ad evitare l’infortunio
dedotto in giudizio (vedi, per tutte,
Cassazione n. 9401 del 1995) oppure soltanto
l’adozione di comportamenti specifici, non
imposti dalla legge (o da altra fonte di
diritto parimenti vincolante), ma suggeriti
da conoscenze sperimentali e tecniche,
standard di sicurezza adottati normalmente o
da altre fonti analoghe (vedi, per tutte,
Corte costituzionale n. 312 del 1996,
Cassazione, sent. n. 16250 del 2003 e n.
3740 del 1995)”.
Misure di sicurezza –
Omessa vigilanza – Responsabilità del datore
di lavoro – Sussiste – Prova liberatoria –
Contenuto.
“Il datore di lavoro, poi, é responsabile
dei danni subiti dal proprio dipendente, non
solo quando ometta di adottare idonee misure
protettive, ma anche quando ometta di
controllare e vigilare che di tali misure
sia fatto effettivamente uso (anche) da
parte dello stesso dipendente, con la
conseguenza che -secondo la giurisprudenza
di questa Corte (vedine, per tutte, le
sentenze n. 16250 del 2003, n. 2357 del
2003, n. 15133 del 2002, cit., n. 9304 del
2002, n. 9016 del 2002, n. 5024 del 2002, n.
326 del 2002, n. 7052 del 2001, n. 13690 del
2000, n. 6000 del 1998, n. 4227 del 1992)-
si può configurare un esonero totale di
responsabilità, per il datore di lavoro
appunto, solo quando il comportamento del
dipendente presenti i caratteri
dell’abnormità e dell’assoluta
imprevedibilità (sullo specifico punto,
vedi, per tutte, Cassazione n. 13690 del
2000 e n. 326 del 2002, cit.) … Né lo stesso
datore di lavoro…assolve l’onere della prova
liberatoria” quando, come nel caso di
specie, “lungi dall’allegare (e, tantomeno,
dal dimostrare) l’adozione di una qualsiasi
misura idonea a prevenire il dedotto evento
dannoso, si limita alla deduzione di una
propria iniziativa (quale il deferimento, al
collegio dei probiviri, del responsabile dei
«fatti mobbizzanti»), volta alla repressione
-non già alla prevenzione- degli stessi …”
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 08.03.2006 n. 12445 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing
– Violazione obbligo di sicurezza – art.
2087 cod. civ. – Sussiste – Modalità.
“È riconducibile al fenomeno del mobbing
la condotta sistematica e protratta nel
tempo, che concreta, per le sue
caratteristiche vessatorie, una lesione
dell’integrità fisica e la personalità
morale del prestatore di lavoro, garantite
dall’articolo 2087 del codice civile; tale
illecito, che rappresenta una violazione
dell’obbligo di sicurezza posta da questa
norma generale a carico del datore di
lavoro, si può realizzare con comportamenti
materiali o provvedimenti del datore di
lavoro indipendentemente dall’inadempimento
di specifici obblighi contrattuali previsti
dalla disciplina del rapporto di lavoro
subordinato.
La sussistenza della lesione del bene
protetto e delle sue conseguenze dannose
deve essere verificata considerando
l’idoneità offensiva della condotta del
datore di lavoro, che può essere dimostrata,
per la sistematicità e durata dell’azione
nel tempo, dalle sue caratteristiche
oggettive di persecuzione e discriminazione,
risultanti specialmente da una connotazione
emulativa e pretestuosa, anche in assenza di
una violazione di specifiche norme di tutela
del lavoratore subordinato”
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 06.03.2006 n. 4774 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Mobbing e molestie sessuali:
differenza.
Mobbing – Realizzazione
attraverso atti che configurano molestie
sessuali sul luogo di lavoro – Distinzione –
Rilevanza dell’elemento psicologico
dell’autore – Intento di emarginazione –
Contesto mobizzante – Sussiste.
“Capita sovente che le condotte di
mobbing possano realizzarsi anche attraverso
vere e proprie molestie sessuali ed allora
appare problematico distinguere le due
figure. …due sono le differenze
fondamentali. La molestia sessuale può
essere costituita anche da un solo atto, il
mobbing deve essere sistematico. Il
molestatore ha, nei confronti della vittima,
un chiaro intento libidinoso, il mobber può
tendere a dare fastidio, punire, denigrare,
espellere. In sostanza la molestia sessuale
è una manovra di avvicinamento, il mobbing è
una strategia di allontanamento. … La
possibile linea di demarcazione tra le due
condotte prese in considerazione, cioè
molestia sessuale e mobbing, può essere
rappresentata dall’elemento psicologico
dell’autore. …se l’autore delle molestie
avrà avuto solo intenti di natura sessuale,
senza ricercare ulteriori scopi dalla
propria condotta, allora la fattispecie sarà
riconducibile alle molestie sessuali.
Si realizzano, per altro, nella realtà molte
altre situazioni nelle quali il contenuto
sessuale costituisce più lo sfondo, lo
strumento per la molestia piuttosto che il
fine: pensiamo ad ambienti di lavoro
maschili nei quali alla collega donna viene
fatto subire un linguaggio volgare e pieno
di doppi sensi: in caso come questo
l’intento degli autori è molto più
l’emarginazione che non la provocazione
sessuale e, conseguentemente, la casistica
potrà ricondursi a singoli episodi in un
contesto mobbizzante”
(TRIBUNALE di Forlì,
sentenza 02.03.2006 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Demansionamento
e sua risarcibilità.
Mutamento delle mansioni
in senso riduttivo – Dequalificazione
professionale non automatica –
Demansionamento – Sussistenza – Presunzioni.
“…non ogni modificazione delle mansioni
in senso riduttivo comporta un'automatica
dequalificazione professionale, la quale
trova la sua essenza nell'abbassamento del
globale livello delle prestazioni del
lavoratore con una sottoutilizzazione delle
sue capacita ed una consequenziale
apprezzabile menomazione non transeunte
della sua professionalità, nonché con
perdita di immagine e di chances
professionali; l'esistenza di tali
pregiudizi può essere provata anche
attraverso presunzioni valorizzando le
circostanze del caso concreto quali:
a) la distanza tra le mansioni espletate in
precedenza e quelle di nuova assegnazione
ritenute inferiori (Cass. 16.08.2004, n.
15955; Cass. 13.05.2004, n. 9129);
b) la durata del demansionamento (Cass. n.
15955 del 2004, cit.; Cass. n. 16797 del
2003, cit.; Cass. n. 9129 del 2004, cit.);
c) la posizione gerarchica perduta dal
lavoratore (Cass. n. 15955 del 2004, cit.;
Cass. n. 16797 del 2003, cit.);
d) la sua anzianità di servizio (Cass. n.
15955 del 2004; Cass. n. 16797 del 2003,
cit.);
e) l'elemento psicologico della condotta del
datore di lavoro (Cass. n. 16797 del 2003,
cit.)”.
Mutamento delle mansioni
in senso riduttivo – Demansionamento –
Sussiste – Tipologie di danni causati al
lavoratore – Risarcibilità.
“…il demansionamento (inteso come mancata
adibizione del lavoratore a mansioni non
corrispondenti al suo inquadramento
contrattuale ed alla professionalità da lui
maturata) può costituire la fonte di danni
suscettibili di risarcimento, i quali
possono consistere:
1) nel danno esistenziale quale:
A) lesione del diritto alla libera
esplicazione della personalità nel luogo di
lavoro (danno non patrimoniale alla
professionalità in senso soggettivo) -cfr.
specialmente, di recente, Cass. 26.05.2004,
n. 10157;
B) lesione alla capacità professionale del
lavoratore derivante o dall'impoverimento
della capacità acquisita o dalla mancata
acquisizione di una maggiore capacità (danno
non patrimoniale alla professionalità in
senso oggettivo) -cfr. specialmente, di
recente, Cass. 07.09.2005, n. 17812; Cass.
27.06.2005, n. 13719;
C) pregiudizio all'immagine ed alla dignità
personali - cfr. specialmente, di recente,
Cass. 17812/2005 cit.; Cass. 10.06.2004, n.
11045; Cass. 10157/2004 cit.;
D) nel pregiudizio alle chances
professionali - cfr. specialmente, di
recente, Cass. 17812/2005 cit.; Cass.
13719/2005 cit.; Cass. 10157/2004 cit.;
2) nel danno biologico quale lesione
all'integrità psichica e fisica suscettibile
di accertamento medico-legale -cfr.
specialmente, di recente, Cass. 17812/2005;
Cass. 11045/2004;
3) nel danno morale soggettivo quale
transeunte turbamento dello stato d'animo
della vittima; (secondo gli insegnamenti di
Corte Cost. 233/2003 cit; Cass. 8827/2003;
Cass. 8828, essendo indubbio il rilievo
costituzionale, quanto meno in relazione al
precetto ex art. 2 Cost., dell'Interesse del
prestatore violato dal demansionamento -cfr.
sul punto Cass. 10157/2004 cit.;);
4) nel pregiudizio economico per la perdita
di ulteriori possibilità di guadagno (danno
patrimoniale da lucro cessante -cfr.
specialmente, di recente, Cass. 11045/2004
cit.- mentre quello da danno emergente e
escluso in radice dal principio,
espressamente richiamato dall'art. 2103, del
principio dell'irriducibilità della
retribuzione - secondo quanto precisato da
Cass. 08.11.2003, n. 16792)”
(TRIBUNALE di Trento,
sentenza 07.02.2006 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Danno
alla professionalità da mobbing.
Mobbing – Nozione –
Trattamenti vessatori continuati –
Demansionamento – Sussiste.
“Ciò che distingue il mobbing dal
conflitto puro e semplice nei rapporti
interpersonali è appunto il continuo
ripetersi in un arco di tempo di una certa
durata del trattamento vessatorio inflitto
alla vittima …” nel caso di specie,
oltre “agli episodi direttamente
riconducibili al demansionamento in senso
stretto, si possono ricordare quelli delle
continue sollecitazioni al ricorrente di
trovare altro lavoro, anche presso i clienti
cui era inviato per colloqui, come pure la
vicenda del paventato mancato pagamento
della retribuzione per più mesi, poi non
verificatosi, l'eliminazione della sua
postazione di lavoro con sottrazione del
personal Computer assegnato, le convocazioni
improvvise presso la capogruppo, cui vanno
aggiunti l'episodio dell'attesa
interminabile per un colloquio con l'A.,
deciso da quest'ultimo, e della
contestazione disciplinare dell'01.07.2002
per insubordinazione…” .
Mobbing – Danno alla
professionalità e biologico – Dipendente
informatico, lasciato in condizioni di
inattività e sollecitato alle dimissioni –
Sussiste – Risarcimento – Quantificazione in
via equitativa – Parametro – Retribuzione
base lorda del ricorrente.
“… la giurisprudenza, in generale,
definisce come danno alla professionalità
quello che colpisce le conoscenze
professionali acquisite da un soggetto nella
sua esperienza lavorativa, a seguito, come
nei caso in esame, di un periodo di
sostanziale totale inattività lavorativa
ovvero di attività lavorativa in
professionalità più basse da quelle
acquisite in precedenza”.
Per quanto concerne la prova del danno di
dequalificazione, da seguire è “l’orientamento
che utilizza criteri di esperienza comune,
quali la quantità e qualità dell'esperienza
lavorativa pregressa, il tipo di
professionalità colpito, la durata del
demansionamento e l'esito finale della
dequalificazione”, procedendo alla sua
quantificazione in via equitativa ex
articolo 1226 del codice civile, utilizzando
come parametro la retribuzione base lorda
del ricorrente
(TRIBUNALE di Milano,
sentenza 04.01.2006 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Mobbing – Bossing – Nozione –
Strategia aziendale volta a ridurre il
personale o eliminare i dipendenti non
graditi – Confinamento in specifico reparto
– Totale inattività e degrado ambientale –
Pericolo di definitiva estromissione dal
contesto produttivo aziendale -
Configurabilità.
“Consona al caso di specie sarebbe quella
specifica variante del fenomeno Mobbing
conosciuta con Bossing…che ha la forma di
una vera e propria strategia aziendale volta
a ridurre il personale o eliminare
dipendenti “non graditi”: in tal caso sono i
quadri o i dirigenti ad agire.
A differenza del Mobbing, che non ha sempre
un’origine razionale, qui lo scopo è
perseguito con lucidità : indurre alle
dimissioni il dipendente eludendo così
eventuali problemi di origine sindacale e le
leggi sul licenziamento e ciò con i mezzi
più fantasiosi spesso sottili e disinvolti,
purché capaci di procurare intorno
all’interessato un’atmosfera di tensione
insostenibile mirando alla sua distruzione
psicologica, ad esempio affidandogli
mansioni dequalificanti” (Corte d'Appello-Lecce,
sentenza 10.08.2005 - link
a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Ricostruzione del concetto di
mobbing e risarcimento.
Condotta molesta – decreto
legislativo n. 216/2003 – Nozione.
“Ai sensi e per gli effetti del decreto
legislativo n. 216/2003 (di attuazione della
direttiva comunitaria 200/78/CE per la
parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro), per
la prima volta il legislatore fornisce la
definizione di condotta molesta,
riconducendola a quel comportamento
indesiderato, avente lo scopo o l’effetto di
violare la dignità di una persona e ricreare
un clima di intimidazione, ostilità,
degrado, umiliazione ed offesa per la
vittima”.
Mobbing – Nozione –
Pluralità di condotte vessatorie –
Necessità.
“Le condotte che costituiscono il dato
materiale nel quale si realizza il mobbing
possono essere le più varie ma è
fondamentale che siano plurime in quanto un
solo comportamento, ad esempio il più
diffuso quale il demansionamento, non
provocherà mobbing anche perché tale figura
complessa non risulterà necessaria per
essere utilizzata dal soggetto che ha subito
dei danni essendo sufficiente il riferimento
al demansionamento, già adeguatamente
studiato dalla giurisprudenza del lavoro”
Mobbing – Nozione –
Finalità persecutoria delle azioni
contestate – Necessità.
“Ferma restando la necessità di una
definizione normativa, anche soltanto per
chiarire definitivamente la materia, …il
concetto di mobbing non si esaurisce in una
comodità lessicale ma contiene un valore
aggiunto perché consente di arrivare a
qualificare come tale e a sanzionare anche
quel complesso di situazioni che, valutate
singolarmente, potevano anche non contenere
elementi di illiceità, ma che, considerate
unitariamente ed in un contesto appunto
‘mobilizzante’, assumono un particolare
valore molesto ed una finalità persecutoria
che non sarebbe stato possibile apprezzare
senza il quadro d’insieme che il mobbing
consente di valutare”.
Mobbing – Concorrenza tra
responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale – Sussiste – Conseguenze e
danni risarcibili.
“In caso di mobbing è ben possibile la
concorrenza tra responsabilità contrattuale
ed extracontrattuale, posto che, da un lato,
qualsiasi azione ingiusta potenzialmente è
in grado di generare una responsabilità
extracontrattuale, a condizione che ci sia
dolo o colpa in chi la commette, ed un
conseguente danno; dall’altro, non è escluso
a priori che l’azione ingiusta non sia
realizzata in un contesto contrattuale, cioè
nell’ambito di un rapporto tra parti legate
da vincolo contrattuale: in tal caso
l’azione ingiusta realizzata da un
contraente determinerà anche una
responsabilità contrattuale.
Nel primo caso, la regola (art. 2043 cod.
civ. e seguenti) non rispettata potrà
determinare potenziali danni sia
patrimoniali che non patrimoniali, alla luce
del disposto dell’art. 2059 cod. civ.
recentemente rivitalizzato dalle sentenze
della Corte di cassazione e della Coste
costituzionale del 2003 sul tema; nel
secondo caso (art. 1218 cod. civ., alla luce
dell’art. 1321 cod. civ. e seguenti)
esclusivamente danni patrimoniali.
Peraltro la coesistenza tra il profilo di
responsabilità extracontrattuale e
contrattuale costituirà un vantaggio per il
danneggiato, in quanto il mancato rispetto
della regola contrattuale (ad esempio l’art.
2087 cod. civ. per il lavoro) potrà
costituire il profilo di colpa richiesto per
la realizzazione della fattispecie ex art.
2043 cod. civ. e, conseguentemente,
esonerare dalla ricerca dell’elemento
psicologico. Sarà, dunque, sempre utile
rilevare, ove sussistente, la presenza del
doppio profilo di responsabilità.
…Nelle situazioni di lesione dei diritti
fondamentali del lavoratore si viene
immancabilmente a provocare un danno allo
stesso. Ci potrà essere un danno alla salute
… ed allora interverrà anche la categoria
del danno biologico; potrà esserci un danno
patrimoniale, con il conseguente
risarcimento; nelle ipotesi riconducibili a
reato potrà intervenire anche la categoria
del danno morale soggettivo ex art. 185 cod.
pen.; tutte queste categorie sono, per
altro, soltanto eventuali ma sempre ed
immancabilmente la lesione dei diritti
fondamentali del lavoratore produrranno un
danno di altra categoria che definire
esistenziale appare assolutamente opportuno
…
In ipotesi di mobbing, il lavoratore potrà
richiedere oltre al danno biologico, anche
il danno esistenziale, consistente nelle
ferite inferte alla sfera di autostima ed
eterostima in ambito lavorativo ed alla sua
immagine professionale, che ne è uscita
ridimensionata senza sua colpa, a seguito
della condotta vessatoria subita”
(TRIBUNALE di Forlì,
sentenza 28.01.2005 n. 28 - link
a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Datore di lavoro – Poteri -
Declassamento professionale dei lavoratori
per ristrutturazione aziendale –
Indisponibilità – Confinamento in specifico
reparto – Condizione di totale inattività e
ambiente degradato – Reato di violenza
privata – Sussiste – Danni subiti dai
lavoratori - Risarcibilità.
La destinazione allo specifico reparto “non
altro era che un tassello della strategia
aziendale, utile al fine di attuare il
programma di ristrutturazione aziendale,
portato avanti in maniera spicciola ed
informale e che consentiva di collocare
fisicamente, in quello spazio, quei
dipendenti che non avessero accettato subito
la nuova situazione di esubero, venutasi a
creare, ed il conseguente declassamento loro
proposto.
Per cui la funzione intimidatrice che essa
aveva, non era tanto e solo ricollegabile
all'idea di un luogo dove non si lavorava,
dove concetti quali mansioni e
professionalità certo non potevano
albergare, ma era anche simbolica, in quanto
rappresentava l'allontanamento traumatico
dal mondo del lavoro, il precipitare di una
situazione lavorativa sino ad allora
normale, la possibile anticamera del
licenziamento, la fine di ogni possibilità
di continuare a fare ciò per il quale si era
stati assunti” (TRIBUNALE di Taranto,
Sez. II,
sentenza 07.03.2002 n. 742
- link a http://olympus.uniurb.it). |
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